Viaggio nella Lotta Contadina- Seconda Parte

Alcuni mesi prima della strage di Melissa si verificarono altri gravi episodi di violenza, anche nel Nord Italia, con vittime innocenti.

MOLINELLA
17 MAGGIO 1949

(Molinella – La Torre Pendente del’ 400)
Molinella (prov. di Bologna) è un centro famoso nella storia del movimento operaio. Un territorio teatro delle lotte delle mondine. Qui vennero create le prime associazioni sindacali soprattutto per merito di Giuseppe Massarenti (1867 – 1950). Un sindacalista, socialista, antifascista che venne perseguitato dai fascisti e dai grandi proprietari terrieri. Fu mandato al confino nell’isola di Ustica e poi rinchiuso in un ospedale psichiatrico da dove uscì solo dopo la guerra.

(Giuseppe Massarenti è il personaggio al centro della foto)
Nel 1949 fu organizzato a Molinella uno sciopero dei braccianti contro la Confagricoltura che non voleva trattare sul miglioramento della paga e delle condizioni di lavoro. Ci fu una durissima protesta perché i lavoratori si scontrarono con altri operai giunti dai paesi vicini e la cui presenza rischiava di rendere vana la lotta. Il paese fu militarizzato, Scelba era Ministro dell’Interno, e vi furono molti scontri con le forze dell’ordine che erano alla ricerca dei capi della protesta.
Il 17 maggio 1949 dopo ripetuti scontri, alcuni carabinieri spararono su un gruppo di lavoratori e uccisero la mondina Maria Margotti di 34 anni, un’operaia, vedova e madre di due bambine. Furono ferite anche una trentina di persone. Il carabiniere che fece fuoco, Francesco Galeati, fu condannato a sei mesi….
(Maria Margotti)

(I funerali di Maria Margotti)

Canto “Le Mondine di Molinella” dal “Canzoniere delle Lame) :

Lo sciopero non si fermò
Il 12 GIUGNO 1949
SAN GIOVANNI IN PERSICETO, a circa 40 km da Molinella. Un lavoratore che stava picchettando contro i lavoratori che non aderivano allo sciopero, Loredano Bizzarri di 22 anni, fu ucciso da un colpo sparato a bruciapelo da Guido Cenacchi, ovvero una guardia alle dipendenze degli proprietari terrieri.
L’assassino non fu incriminato

(Loredano Bizzarri)


“Siamo gente di Molinella
siamo tutti d'un sentimento
morir di fame, morir di stento
noi vogliamo la libertà.
La libertà non viene
perché non c'è l'unione
crumiri col padrone
son tutti d'ammazzar.
Crumiri schifosi
la vostra lega
l'è una lega da ninèn.
E io ho mangià 'na biscia
e l'ho mangiata iir
meglio mangiarne un'altra
ch'andar con i crumir.
Crumiri schifosi
la vostra lega
l'è una lega da ninèn”.

Sulla pagina di it.wikipedia dedicata al paese di Molinella si legge: “Ma grande impressione in tutta Italia provocarono i gravi e cruenti episodi noti come fatti di Molinella del 17 maggio 1949. In tale data i comunisti, contestando il risultato delle elezioni per la locale camera del lavoro la presero d'assalto all'atto stesso dell'insediamento della maggioranza socialdemocratica che aveva vinto. I tafferugli, oltre a un gran numero di feriti, portarono alla morte di una donna. Tali fatti contribuirono a rendere insanabile la frattura fra la corrente socialdemocratica e riformista e quella comunista in seno alla CGIL unitaria, portando alla nascita della UIL.”

Come scrive un attento e preparato lettore si tratta di un giudizio errato.  “È vero che tra il’ 48 e il’ 49 ci fu una rottura tra comunisti e socialdemocratici in seno alla CGIl unitaria ma è errato attribuire la morte di Maria Magotti ai “tafferugli” tra fazioni del sindacato. La mondina fu uccisa da una raffica di mitra sparata deliberatamente da un carabiniere.
La notizia di “Wikipedia” dipende dal resoconto della tumultuosa seduta parlamentare del 20 maggio 1949”.
(http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487055.pdf )  (21 maggio 1949)


Il quella seduta il Sottosegretario di Stato per l’Interno, Achille Marazza diede la versione dei fatti riportata dal sito wikipedia ed  aspramente contestata dal deputato del PCI Aldo Cucchi.
(Carletto Cafiero)



Ma il sig. Scelba non si fermò… il  Ministro dell’Interno da buon Democristiano condurrà ancora la sua politica fatta di atroci repressioni:
29 Novembre 1949
TORREMAGGIORE (Foggia)

(Torremaggiore – Castello Ducale – XII  - XV secolo)

(Castel Fioretino o Fiorentino di Puglia, a 10 km da Torremaggiore –
Qui morì  l’Imperatore Federico II di Svevia nel 1250 – resti della Domus Federiciana)

(Domus Federiciana)

( Domus Federiciana)

(Torremaggiore – Corteo Storico in memoria
Dell’Imperatore Federico II di Svevia)

Torremaggiore, in prov. di Foggia, da mesi era al centro di manifestazioni per i contratti agrari e la riforma agraria. In questo clima c’erano stati dei frequenti scontri tra dimostranti e forze di polizia. Il Giornale “L’Unità” del 23 ottobre 1949 commentava: “i lavoratori sono stanchi di soprusi e di sopraffazioni, di prepotenze e di provocazioni e sono decisi a lottare contro coloro che amano scherzare con la fame degli uomini, con la miseria del popolo, per l’esistenza, il diritto al lavoro e alla vita”.
Si stabilì lo sciopero generale del 28 novembre proclamato dai lavoratori agricoli e dagli operai edili della CGIL. Gli agrari, ovvero i possidenti terrieri, si rifiutarono di migliorare la portata dell'imponibile di manodopera in agricoltura (che il prefetto era tenuto a rinnovare all'inizio di ogni annata) e di accogliere la richiesta della Federbraccianti di aumentare del 6 per cento le retribuzioni. Al contrario, pretendevano di ridurre la portata dell'imponibile e anche i salari. Il prefetto rinviò di altri due mesi l'emanazione del nuovo decreto, venendo largamente incontro alle pretese dei ricchi proprietari terrieri con cui era naturalmente colluso. Le prime avvisaglie della tragedia si ebbero a San Severo durante lo sciopero del 28 con cariche sui lavoratori (tra i feriti il deputato comunista Filippo Pelosi) e arresti tra i sindacalisti (tra i fermati il segretario della Camera del Lavoro Carmine Cannelonga). Furono queste aggressioni, davanti alla Camera del Lavoro, a far proclamare lo sciopero provinciale per il giorno successivo.
La mattina del 29 novembre, a Torremaggiore, i braccianti si riunirono presso la locale Camera del lavoro per dare inizio alla protesta. La sede era troppo piccola e il segretario sindacale Giuseppe Lamedica decise di leggere il telegramma, inviato dalla Camera Provinciale del Lavoro, nello spazio antistante l’edificio. Il telegramma riportava i motivi dello sciopero. Giunsero i carabinieri della locale stazione con numerosi agenti della “Celere” di San Severo. Il maresciallo dei Carabinieri Cariello diede l’ordine perentorio di sgomberare l’area. Il Lamedica rispose che “quello non era un comizio ma una semplice lettura di un telegramma”.
L’ordine del maresciallo fu ripetuto più volte malgrado le ripetute assicurazioni del segretario sindacale Lamedica. L’atmosfera si fece tesa e all’improvviso, senza alcuna logica motivazione, gli agenti presero a vibrare colpi con i manganelli e con il calcio dei fucili. I braccianti protestarono e si arrivò ad un compromesso di scioglimento della riunione… Purtroppo, senza un motivo, gli agenti della Celere e i Carabinieri di San Severo, al comando del capitano Mollo, cominciarono a sparare in aria e … sulla folla.  Nella grande confusione e nelle colluttazioni avvenne la tragedia a cui nessuno si sarebbe mai sognato di assistere. Il brigadiere della locale stazione dei Carabinieri, Claro Riso, maltrattò la cognata del bracciante Antonio Lavacca. Il Lavacca, non sopportando una simile vile e ingiustificata aggressione, si avvicinò al carabiniere rimproverandolo aspramente.  Il brigadiere Riso.. imperterrito  gli esplose un colpo di pistola in pieno viso.. un comportamento agghiacciante… il contadino Antonio Lavacca morì all’istante .. È facile intuire o immaginare la scena.. un fuggi..fuggi generale tra grida e colpi di pistola e di fucile.. Il segretario sindacale Giuseppe Lamedica si ritrovò isolato nel mezzo della piazza e vide cadere a poca distanza Salvatore Gravina di 30 anni, colpito con violenza da colpi in testa con il calcio di un mitra. Si ritrovò improvvisamente per uno strano gioco del destino, a quattro – cinque metri di distanza da lui, il brigadiere Riso ancora con il mitra spianato (aveva appena ucciso Lavacca). Ancora una volta senza motivo.. il Riso fece fuoco su Giuseppe Lamedica che cadde al suolo e incominciò a lamentarsi dal dolore per le ferite. Fece qualche timido sforzo per cercare di alzarsi ma perse i sensi e rimase sul selciato in una pozza di sangue. Una donna, anch’essa una bracciante agricola, Teresa De Santis, tentò con amore di portargli aiuto.
“Il povero Lamedica sudava, non avevo il fazzoletto, gli asciugai la fronte con la manica del cappotto”….ma di fronte agli agenti e ai carabinieri, presi da una follia omicida, anche la De Santis fuggì e lasciò Giuseppe Lamedica, ancora in vita, in mezzo alla piazza. Non fu soccorso nemmeno dagli agenti … forse si sarebbe salvato,, ,, “ma doveva essere eliminato”… secondo gli ordini… infatti sembra che le forze dell’Ordine ne abbiano impedito il suo trasporto in ospedale.
“Antonio Lavacca, bracciante agricolo, padre di quattro figli”
“Giuseppe Lamedica, ex bracciante, stradino del Comune e militante nel Partito Comunista”

(un ritratto di Giuseppe LaMedica – da: CGIL – Foggia)

(I funerali di Lamedica e Lavacca)

Al successivo processo verranno tutti assolti per insufficienza di prove. Le reazioni di sdegno all'accaduto portarono, il 2 dicembre, alla proclamazione dello sciopero generale in tutto il paese. Il prefetto in fretta e furia modificò il decreto sull'imponibile e l'associazione agraria concordò nuovi salari. Furono proibiti per motivi di ordine pubblico funerali pubblici, ma il 2 dicembre vi fu un lungo e silenzioso corteo che accompagnò alla sepoltura Lavacca e Lamedica. A capeggiarlo, Giuseppe Di Vittorio, che intervenendo alla Camera, attaccò il ministro dell'interno Scelba.  Un anno dopo, il 4 dicembre 1950, nella Camera del Lavoro di Torremaggiore fu scoperta una lapide che recitava: “Antonio La Vacca e Giuseppe Lamedica, portatori dei diritti nuovi, dal popolo sovranamente liberamente scolpiti nelle tavole fondamentali della Repubblica –il diritto al lavoro il diritto alla vita- per umana violenza prostrati alle zolle che agognavano non sudore diedero, ma sangue”. La lapide venne subito rimossa perchè il testo non fu approvato dai “politici” di allora. 

(La Lapide – Scuola “S.G.Bosco”)

(la seconda lapide che fu collocata il 29 novembre 2010… perché la volontà politicadi allora non aveva permesso che venisse collocata con questo testo !!!!!!!!!!!! )

(Il monumento in memoria di Lavacca e la Medica)


31 Ottobre  1949
Isola Capo Rizzuto (Catanzaro)

La polizia apre il fuoco sui partecipanti ad una manifestazione di braccianti. La vittima: Matteo Aceto, l’organizzatore del movimento contadino.




Dicembre 1949..
Montescaglioso (Matera)

(Montescaglioso - Matera) 

(Montescaglioso – Abbazia di San Michele Arcangelo)

(Montescaglioso Abbazia di S. M. Arcangelo dei Benedettini)

(Montescaglioso – Porta Sant’Angelo)

Giuseppe Novello (Bracciante agricolo) venne ucciso in una dimostrazione. A lui il poeta Rocco Scotellaro dedicò una poesia:

Tutte queste foglie ch’erano verdi: si fa sentire il vento delle foglie che si perdono
fondando i solchi a nuovo nella terra macinata.
Ogni solco ha un nome, vi è una foglia perenne
che rimonta sui rami di notte a primavera
a fare il giorno nuovo.
È caduto Novello sulla strada all’alba,
a quel punto si domina la campagna,
a quell’ora si è padroni del tempo che viene,
il mondo è vicino da Chicago a qui
sulla montagna scagliosa che pare una prua,
una vecchia prua emersa
che ha lungamente sfaldato le onde.
Cammina il paese tra le nubi, cammina
Sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,
dall’alba quando rimonta sui rami
la foglia perenne in primavera.

Montescaglioso è  un importante centro storico-culturale per i suoi importanti monumenti. È nota come la “città dei Monasteri” per la presenza di quattro grandi complessi monastici. Importanti il castello normanno, le porte e le torri.
Nel 1945 iniziarono a Montescaglioso le manifestazioni per la lotta ai latifondi con un corteo di quasi 2000 persone (braccianti, contadini, disoccupati legati al mondo agricolo) che andò ad occupare i terreni o il fondo del grande proprietario terriero, il Barone La Cava. Terreni che si trovavano nelle contrade Tre Confini e Dogana. I rivoltosi, con grande coraggio, sequestrarono il commissario prefettizio Manzo che era alla guida del paese di Montescaglioso. Lo misero in groppa ad un asino e lo portarono con loro. Un sequestro ai fini di ostaggio per difendersi da eventuali attacchi della Celere ?  No… i dimostranti chiesero al prefetto di fare mediazione con le forze dell’ordine che si trovavano sul luogo e probabilmente anche con il proprietario del fondo. Obiettivo ? Ottenere quelle terre senza problemi.
Il risultato finale della manifestazione fu un fallimento… ci furono 21 arresti.
La cittadinanza di Montescaglioso non si arrese e nel 1949 la rivolta assunse degli aspetti decisamente più forti. Dalle occupazioni simboliche si passò alle vere e proprie occupazioni dei terreni con la relativa presa in possesso ed effettuazione di operazioni colturali. I Celerini di Mario Scelba…. sempre lui,,,,, fecero una forte repressione… anche se certa stampa  di governo evidenziò  atti di violenza da parte dei rivoltosi…..ma era solo cronaca di parte…a cui anche oggi siamo abituati …
I fatti……. Le occupazioni iniziarono il 7 dicembre 1949 e non vi fu alcun contrasto o problema con la polizia. Ma la calma era apparente.. alle spalle di tutto ciò c’era il Ministro Scelba con le sue decisioni..strano personaggio politico…… un meridionale.. siciliano… nato a Caltagirone il 5/09/1901… contro le sue origini… un uomo che avrebbe dovuto capire i problemi del suo meridione e venire incontro alle richieste della sua gente pur nel rispetto dei suoi compiti istituzionali e non uccidendo persone che rivendicavano sacrosanti diritti…
Le forze dell’ordine aspettavano l’ordine del ministro Scelba per attaccare e probabilmente i massimi vertici della Celere decisero con lo stesso ministro di passare all’azione quasi in silenzio.. senza clamore. Le forze dell’ordine agirono con furbizia interrompendo la fornitura di energia elettrica nel paese che piombò nel buio. Le vie del paese furono invase da decine di celerini dei battaglioni Matera e Bari. Senza alcun rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione Repubblicana, i celerini di Scelba entrarono nelle case dei contadini… l’ambiente era spettrale… il buio… le grida…. Il pianto di tanti bambini impauriti e anche le urla della gente che protestava o che veniva portata via dai celerini. La gente decise di assediare la caserma dei carabinieri dove erano stati arrestati dei contadini. Una protesta… giusta…. come conseguenza di un atto il cui era assente il senso della Stato e della legge. Era il senso dello Stato e della legge di Scelba… un uomo simile a tanti altri oggi presenti nella nostra politica come il “bambino viziato” che con il tono della voce cerca di attirare a se l’elettorato come un tempo erano soliti fare grandi personaggi della destra… il “piagnucolone”  che tanta concorrenza fa alla “piagnucolona” …. Ecc..
Ma torniamo ai fatti e lasciamo i nostri politici alle proprie miserie umane che nel loro teatro mettono in scena quotidianamente commedie che farebbero concorrenza alle rappresentazioni comico teatrali…. I contadini erano fermi lungo il Corso della Repubblica quando giunse una motocicletta con a bordo due carabinieri che dovevano andare in caserma. I loro nomi ?  Rosario Panebianco e Vittorio Conto. I due carabinieri videro la folla… e decisero di invertire la marcia per allontanarsi dal luogo… la moto scivolò sul selciato umido e fu a quel punto che i celerini o i carabinieri, l’identificazione giusta non ha senso, spararono sulla folla ferendo Michele Oliva e Giuseppe Novello che morì, a causa delle ferite riportate, tre giorni dopo. Le ultime parole che il Novello sentì dal suo carnefice fu “Muori carogna”.
Anche in questo caso un processo farsa… a cui siamo abituati in Italia in occasioni di eventi simili. La linea del Governo De Gasperi trovava appoggio sui grandi latifondisti e su certa stampa governativa mai obiettiva,  faceva ricadere sempre la colpa  degli eventi sui dimostranti…. Poveri contadini… masse disagiate del sud… del meridione….dimenticato da Scelba..che era un meridionale….

Montescaglioso. I contadini occupanti 

(Montescaglioso – I Funerali

(Montescaglioso ?)

Modena 9 gennaio 1950 ….
Eccidio delle Fonderie Riunite
La strage forse esula dal movimento  di protesta legato alla richiesta, da parte dei contadini, della Riforma Agraria. Viene inserito nella ricerca per evidenziare lo stato di diffuso disagio economico e sociale dei lavoratori.

9 gennaio a Modena il sindacato della CGIL proclamò uno sciopero per protestare  contro il licenziamento di oltre 500 operai  metalmeccanici delle Fonderie Riunite.

Modena – Acciaierie Riunite

Modena diverse volte era apparsa nella cronaca per vicende decisamente tristi. Tra gli anni 1947 e 1949 nella città furono arrestati 485 partigiani per vicende legate alla lotta di liberazione e circa 3500 braccianti agricoli furono denunciati per occupazione delle terre. La polizia intervenne in ben 181 conflitti di lavoro.
Dal 1948 nel mondo industriale era in atto una controrivoluzione per azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche, il potere dei sindacati e dei partiti di sinistra. Gli industriali volevano abbassare il costo del lavoro e aumentare le produttività per orientare la produzione verso l’esportazione. Usarono strumenti terribili: la serrata e i licenziamenti collettivi e selettivi per ridurre il potere contrattuale dei sindacati e delle commissioni interne; l’aumento del ventaglio retributivo, salario sempre più legato alla produzione (cottimo e premio di produzione differenziato), intervento della polizia per sciogliere i picchetti e le manifestazioni.
Le maestranze delle Fonderie Riunite, nel 1943 parteciparono agli scioperi contro la “guerra e per il pane” con 480 operai metà delle quali erano donne. Dopo la liberazione i padroni “tornarono proprietari” come disse qualche scrittore e questa fu una scelta democristiana. Il padrone delle Riunite era il fascista Adolfo Orsi, amico di Italo Balbo. Orsi non solo era padrone delle Riunite ma anche della ”Maserati Alfieri”, delle “candele Accumulatori Maserati” e delle Acciaierie. Come tanti altri fascisti, dopo la vittoria della DC nell’aprile del 48, ritornò a dirigere l’impresa. Orsi iniziò con tre giorni di serrata chiamando la polizia per sgomberare i picchetti. Era la prima volta che a Modena la polizia interveniva nei conflitti di lavoro. Sarà la prima di una lunga serie di interventi che si faranno sempre più frequenti e aggressivi.
Il 9 gennaio 1949 si svolse, sempre a Modena, una manifestazione sindacale in Piazza Roma. Nella manifestazione il segretario generale della CGIL Ferdinando o Fernando Santi condannò pubblicamente la condotta decisamente antisindacale della fonderia “Vandevit” e della carrozzeria “Padana” che avevano operato dei licenziamenti e delle chiusure. In Piazza Roma c’è la Chiesa… è domenica.. al termine del comizio la gente rientrava a casa mescolandosi con chi usciva dalla chiesa…. Improvvisamente si scatenò in modo del tutto inspiegabile una vera e propria aggressione della polizia con manganellate e perfino colpi di pistola. Qualcosa era stato deciso dall’alto e cioè colpire il movimento operaio e sindacale per porre fine alla forte avanzata e ridurre la capacità contrattuale.
Alla fine del’ 49 altra serrata decretata dal padrone Orsi… questa volta con il licenziamento di ben 560 lavoratori. I sui obiettivi erano quelli di assumere nuovi lavoratori non appartenenti al sindacato o partiti politici; nuove idee di gestione: revisionare in peggio il premio di produzione; abolire il consiglio di gestione; far pagare la mensa ai lavoratori; togliere le bacheche sindacali e politiche; eliminare la stanza di allattamento che le operaie si erano conquistate per potere andare in fabbrica con i figli. Dopo un mese di serrata giunse la risposta degli operai…..sciopero generale il 9 gennaio 1950 in tutta la provincia.
Il prefetto e il questore, sicuramente d’accordo con Scelba, non diedero il permesso alla Camera del Lavoro per la manifestazione sindacale in qualsiasi piazza. Non c’è da meravigliarsi per la decisione dato che i prefetti e i questori erano tutti “trasferiti in blocco” dal regime fascista a quello democratico/democristiano. Si narra che il questore di allora rispose ad una delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali che avevano chiesto una piazza per la manifestazione: “ vi stermineremo tutti”.

Il buon Scelba diede subito le direttive come un “vero uomo politico”.  Il giorno 8 arrivarono a Modena ingenti forze di polizia… si parla di circa 1500 uomini con autoblindo T17 Staghound , jeep, camion e armamento pesante.


I poliziotti appartenevano ai distaccamenti III Mobile di Piacenza, VI Mobile di Bologna e Ferrara e XX Mobile di Cesena.
 Le forze di polizia occuparono la fabbrica e si disposero anche sul tetto con le armi… pronti a fare fuoco… solo un folle poteva predisporre una simile azione…. E Scelba lo era. Da quel maledetto tetto la polizia sparò uccidendo gente disarmata.
Verso le 10 del mattino, del 9 gennaio, una decina di operai giunse ai cancelli delle “Fonderie Riunite” che erano circondate da carabinieri armati. All’improvviso un carabiniere sparò un colpo di pistola in pieno petto al trentenne Angelo Appiani che morì sul colpo. Subito dopo, dal tetto della fabbrica i carabinieri aprirono il fuoco con le mitragliatrici verso via Ciro Minotti contro un altro gruppo di lavoratori che si trovavano al di là del passaggio a livello sbarrato in attesa dell’arrivo di un treno. Furono uccisi Arturo Chiappelli e Arturo Malagoli e ferirono molte altre persone anche in modo grave. Dopo circa 30 minuti, in Via Santa Caterina un operaio, Roberto Rovatti, che portava al collo una sciarpa rossa, venne circondato da una squadra di carabinieri. Fu buttato dentro ad un fossato e linciato con i calci dei fucili….fino all’ultimo respiro.
Scene di altri tempi… naziste… in via Ciro Minotti giunse un blindato T17 che senza alcun motivo iniziò a sparare sulla folla uccidendo Ennio Garagnani… attenzione parliamo di un blindato che spara su folla disarmata…… i sindacalisti della CGIl appresa la notizia della strage avvisarono, con gli altoparlanti montati sulle auto, i manifestanti di spostarsi verso Piazza Roma. Ma la strage continuò. A mezzogiorno un carabiniere uccise con il fucile Renzo Bersani che stava attraversando a piedi l’incrocio posto alla fine di Via Menotti ad oltre 100 metri dalla fabbrica.
Ho perso il conto…scusatemi….
Il bilancio fu di 6 morti, 200 feriti e 34 arrestati con l’accusa di “resistenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa e attentato alle libere istituzioni”.

Il giorno dopo il quotidiano socialista L’Avanti riportò: “ Affoga nel sangue il governo del 18 aprile” denunciando “ il più brutale massacro che sia avvenuto dopo la liberazione, massacro paragonabile soltanto agli indiscriminati eccidi compiuti dai nazisti, (che) ha gettato nel lutto la popolazione modenese». Lo stesso giorno il quotidiano comunista L'Unità titolò a otto colonne “Tutta l'italia si leva contro il nuovo eccidio!”. Infatti in moltissime città italiane (tra cui Torino, Firenze, Palermo, Venezia, Livorno, Milano, Bari, Alessandria, Genova e Verona) vennero organizzati proteste e scioperi generali per l'intera giornata. A Roma accorsero circa 100.000 manifestanti in piazza SS. Apostoli per il comizio della Cgil, mentre la Cisl scelse di non associarsi alle manifestazioni.




L'11 gennaio si svolsero a Modena i solenni funerali delle sei vittime dell'eccidio, alla presenza di oltre 300.000 persone.


Palmiro Togliatti e Nilde Iotti decisero di adottare Marisa Malagoli, sorella minore di una delle vittime (Arturo Malagoli).


Nel sito.. https://sites.google.com/site/sentileranechecantano/schede/morire-per-il-lavoro/l-eccidio-di-modena-nei-ricordi-di-marisa-malagoli  c’è  un documento tratto dal racconto “Liberazione” di Romina Velchi del 9 gennaio 2000 con un intervista a Marisa Malagoli, sorella di Arturo Malagoli, ucciso nell'eccidio di Modena. Il 9 gennaio 1950 Marisa Malagoli aveva appena sei anni e viveva allora con la famiglia (i genitori e dodici figli)  a Nonantola, un  piccolo paesino famoso per una bellissima abbazia romanica. I genitori erano dei mezzadri e ricorda i due fratelli Arturo di 21 anni,  e Giuseppe che erano i più politicizzati.  Nel racconto ricorda momenti bellissimi di vita... vita di gente umile lavoratrice e vicina alla realtà del tempo.  “Arturo viveva a Modena ed era in possesso di una radio, non avevamo l'elettricità e per la famiglia era il collegamento con il mondo circostante”. Quel terribile giorno “ ricordo  che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata. Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c'era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c'era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all'obitorio dell'ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti".
Dopo il 9 gennaio che cosa è cambiato sul piano personale?
“Successe che Togliatti, venuto a Modena in seguito all'eccidio, decise con Nilde Iotti di aiutare una delle famiglie coinvolte. La scelta cadde su di noi. Il tramite fu l'onorevole Gina Borellini, una partigiana medaglia d'oro alla Resistenza, che in guerra aveva perso un arto. Anche dietro spinta dei miei fratelli e delle mie sorelle, fu stabilito, con una specie di accordo reciproco, che io andassi a Roma a studiare. Quello dello studio era un mito dei miei fratelli che non avevano potuto andare oltre la quinta elementare: erano consapevoli che andare a scuola era il mezzo per cambiare la propria condizione. L'idea che io potessi studiare fu anche di incentivo per mia madre che era restia a lasciarmi andare. In realtà, l'allontanamento è poi stato relativo, sono sempre stati mantenuti molti contatti, sia perché io tornavo regolarmente a Modena, sia perché qualcuno della mia famiglia veniva a Roma. Da allora ho vissuto sempre con Palmiro Togliatti e Nilde Jotti. Prima che io compissi i diciotto anni, Togliatti, riuscì, con un'azione legale, a darmi il suo cognome. Infatti io mi chiamo Malagoli Togliatti. La scelta era caduta su di me perché io ero la più piccola e avevo appena cominciato la scuola, ero in prima elementare. Fui certamente privilegiata. In ogni caso, i rapporti tra le due famiglie sono rimasti sempre molto stretti Anzi, paradossalmente, per Nilde, specie dopo la morte di Togliatti, i Malagoli sono stati quasi l'unica famiglia di riferimento”.

Esiste ancora la casa dl Nonantola?
“Sì, esiste ancora. Ci siamo andati poco prima che Nilde si ammalasse, il 25 aprile del '98, per il matrimonio di un mio nipote. Mi sono recata con i miei figli a vederla, siamo anche entrati: è ancora abitata, è stata ristrutturata e abbellita. I miei genitori l'avevano lasciata pochi anni dopo l'uccisione di Arturo, trasferendosi in un appartamento alla periferia di Modena, quando i miei fratelli avevano trovato lavoro in città”.
E' stato utile il suo sacrificio di suo fratello?
“Credo che l'odio e l'esecrazione per la polizia di Scelba siano nati proprio dopo la tragedia di Modena. Ed è dopo Modena che si pongono le basi della sconfitta politica della Democrazia cristiana nel '53. La Dc pagò, in termini elettorali, gli episodi di quegli anni: Melissa, Montescaglioso, Modena, ma anche i tanti e ripetuti casi di repressione, di intimidazione, di discriminazione politica”.

I Fatti di Modena

21 MARZO 1950
LENTELLA (Chieti)

Lentella _ Chieti

(Tratturo Centurelle – Montesecco)

(Tratturo: Centorelle – Montesecco 
Si tratta di una derivazione del tratto Aquila – Foggia e che risale al VI secolo
quando era percorso dai  Vestini e Marrucini)

Un piccolo centro di 699 abitanti fondato dai romani nel VII secolo d.C. che prese il nome dalla figlia del governatore. Il paese ebbe un incremento nel periodo normanno con la costruzione del castello Manno di cui esistono i ruderi. Lentella fa parte dell’antico Tratturo  “Centurelle – Montesecco” , derivazione del tratto “Aquila – Foggia” che risulta frequentato già nel VI secolo dai  Vestini e dai Marrucini.

Il paese fu teatro, nel marzo del 1950, di uno degli episodi più drammatici delle lotte contadine per la terra e il lavoro, che interessarono il comprensorio del Vastese. Lotte organizzate e dirette dai giovani partiti di sinistra, dalle rinate Camere del Lavoro e dalla Federterra provinciale.
Le lotte iniziarono nella primavera del 1950, dopo la messa a punto, nell’autunno del 1949, del “Piano del Lavoro” da parte della CGIL diretta da Giuseppe Di Vittorio. “Un Piano di Lavoro” finalizzato a conseguire dei precisi obiettivi:
1.      lo svincolo forestale,
2.      l’appoderamento
3.      la messa a coltura di terreni ex boschivi;
4.      l’apertura di cantieri scuola
5.      la realizzazione di opere pubbliche per la ricostruzione dei paesi;
6.      l’applicazione dei Decreti Gullo e del Lodo De Gasperi, che modificavano i patti mezzadrili, garantendo ai coloni una più equa ripartizione dei raccolti,
7.      l’applicazione del Decreto sulla massima occupazione dei lavoratori agricoli, che obbligava le aziende ad assumere mano d’opera per lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria dei fondi.
I contadini scelsero la nuova forma di lotta proposta dalla Federterra  cioè lo “sciopero a rovescio”. Uno sciopero sperimentato con successo nel 1946 in Puglia, nel 1947 in altre province del Sud e del Centro-Nord, nel febbraio del 1950 nel Fucino, contro i Torlonia.
Il 12 marzo, contemporaneamente, gli scioperi iniziarono a Vasto e Casalbordino (per la sistemazione delle strade di alcune contrade), a San Salvo e Torino di Sangro (per l’occupazione e l’appoderamento del bosco Motticce e dei terreni incolti ex boschivi in contrada Saletti); il 13 a Cupello (per lavori sulle terre della duchessa Pacelli).
Il Comune di Lentella, che contava allora poco più di mille anime, era uno dei più poveri del comprensorio. In un articolo inviato al Giornale del Mezzogiorno qualche mese prima dell’eccidio, intitolato “Bestie da soma”, il sindaco democristiano, che poi sarà aspramente contestato dai concittadini, aveva descritto il suo paese in questi termini: “Lentella non ha acqua: le fu matrigna la natura. […] Lentella non ha pane. L’agricoltura non è affatto progredita, dato l’alto costo dei concimi”. E aveva aggiunto che non vi erano farmacie, né fognature, né latrine; non erano stati pagati i danni di guerra; le case erano anguste (in media vivevano tre persone a vano); mancavano locali adeguati per le scuole e sei cittadini su dieci non sapevano né leggere né scrivere”.
I contadini, guidati da Cosmo Moro, Nicola Di Iorio e Pierino Sciascia, dirigenti locali della Camera del Lavoro, della Federterra e del PCI, si organizzarono per rivendicare i loro diritti. Chiedevano ai quattro grandi proprietari della zona – Carile, Catalano, Cosmo e Giovannelli – l’applicazione del Lodo De Gasperi per una diversa ripartizione delle olive (il 53 per cento del prodotto ai coloni, a fronte della precedente misera quota di un quinto) e del Decreto sulla massima occupazione. Chiedevano altresì al sindaco e al prefetto il sollecito disbrigo delle pratiche per i lavori, progettati da tempo, al cimitero e in una strada campestre che collegava il paese al fondovalle del Trigno, dove i lentellesi avevano terreni in affitto, e per la costruzione dell’acquedotto Lentella – Fresagrandinaria (il Ministero dei Lavori Pubblici aveva già stanziato 50 milioni).
Viste le resistenze e le inadempienze delle controparti, nonostante le notizie sugli arresti che arrivavano dagli altri comuni, decisero di iniziare la lotta. Il 15 marzo 1950 una folta squadra andò a lavorare nella strada campestre.  Un lavoro duro con pochissimi mezzi a disposizione… tanta fatica e non retribuiti. Il lavoro mancava e la miseria era conosciuta, purtroppo, da tante famiglie. Quella strada, comunque, era fondamentale per lo sviluppo del paese.. avrebbe assicurato tanta occupazione  doveva essere realizzata con l’aiuto di tutti. ..donne.. uomini.
Al ritorno in paese i carabinieri fermarono quattro contadini e il segretario della Camera del Lavoro di Vasto, Rinaldo Zanterino, e li portarono a forza in caserma, vincendo la resistenza dei paesani con il lancio di gas lacrimogeni (alcune donne si sdraiarono davanti alla camionetta per impedirne la partenza). Il provvedimento poliziesco eccitò ancor più i contadini alla lotta. Ripeterono lo sciopero fino al 20 marzo, con crescente partecipazione di popolo, senza incidenti, ma in un clima sempre più teso. Ogni sera andavano in corteo con le proprie famiglie a riporre gli attrezzi nella sede della Camera del Lavoro, ubicata al piano terra del municipio, in Piazza Garibaldi, gridando “Vogliamo pane e lavoro!”, “Abbasso il sindaco della miseria!” e altri slogans, e reclamando invano il pagamento delle prestazioni.
Lo sciopero del 21 marzo si concluse tragicamente. Con animo esasperato, i contadini tornarono a manifestare e a reclamare davanti al municipio, il cui ingresso era presidiato dal vicebrigadiere Michele Moscariello e da cinque carabinieri, armati di moschetto.  Quando il corteo giunse a pochi passi dall’ingresso del municipio, partirono i colpi d’arma da fuoco. A sparare fu l’appuntato De Vita uccidendo sul colpo Nicola Mattia, di anni 41, e Cosmo Mangiocco, di anni 26, e ferendo dieci persone. Numerosi i feriti.. alcuni proiettili colpirono delle persone che si trovavano sull’autobus Celenza – Chieti, che era fermo in piazza. Le vittime vennero portate nelle loro misere case…. Venne instaurato il coprifuoco per diversi giorni. La sezione del PCI venne più volte perquisita e gli iscritti denunciati.
Molti manifestanti, quelli che avevano in seno al partito qualche importanza, fuggirono e si rifugiarono nelle campagne di Vasto e San Salvo per parecchi giorni.
Il giorno dopo gli abitanti si strinsero attorno alle bare dei due sventurati (ai funerali parteciparono anche i parlamentari abruzzesi Bruno Corbi, Giulio Spallone e Silvio Paolucci) e i lavoratori della CGIL incrociarono le braccia in tutta Italia, in segno di solidarietà.



“I carabinieri spararono per legittima difesa contro dimostranti che li minacciavano di morte con gli attrezzi da lavoro”, sostenne Bubbio, sottosegretario al Ministero dell’Interno, nell’agitato dibattito parlamentare che si svolse il 28 marzo, facendo propria la versione del comandante della legione dei carabinieri di Chieti.  Bubbio, essendo sottosegretario dell’Interno e quindi vicino a Scelba, fu veramente duro e mostrò un cinismo allarmante: “nonostante il rammarico per i tristi avvenimenti, lo sciopero era immotivato perché tutti gli aderenti erano proprietari terrieri”…!!!
Un discorso da vero e fedele seguace di Scelba….. furono considerati proprietari terrieri chi  aveva un pezzo di terra che in molti casi misurava meno di ¼ di ettaro (meno di 2500 mq ) e spesso ancora meno.

Il deputato democristiano Ercole Rocchetti gli diede manforte, parlando di una montatura di ordine politico in un paese pacifico che contava solo sei disoccupati.
“L’atto degli agenti fu premeditato e ingiustificato, perché i dimostranti si limitarono a minacce verbali”, replicarono gli interroganti parlamentari abruzzesi, che avevano condotto un’indagine a tappeto sull’eccidio e inoltrato denuncia contro i militi dell’Arma al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vasto (del seguito giudiziario di tale denuncia si sono perse le tracce).
L’autorità giudiziaria diede loro ragione in merito al comportamento dei 90 imputati (erano contadini e dirigenti sindacali e politici: l’elenco di questi ultimi comprendeva, oltre ai citati, Tonino Rapposelli, Vincenzo Terpolilli, Giuseppe Zimarino, Dino Colarossi).  La Sezione Istruttoria presso la Corte d’appello di Aquila, ne rinviò a giudizio innanzi al pretore di Vasto solo 32, per partecipazione a manifestazione sediziosa e non per resistenza a pubblico ufficiale (di questo reato non erano emerse prove).
I deputati Bruno Corbi e Silvio Paolucci (PCI) visitarono il piccolo centro durante i funerali delle vittime. Nel loro intervento misero in risalto le condizioni di miseria che colpiva tutte le famiglie contadine del sud “Italia”: «Paese di miseria, paese senza strade, senza fognature, senza abitazioni, senza un segno di vita civile.[...] Io dirò soltanto come vivevano i due uccisi. Noi abbiamo visto. Ci siamo recati nelle case di questa povera gente. Cosimo Mangiocco era un giovane di 26 anni. Era già sposato, ma non poteva convivere con la compagna della sua vita, perché non riuscivano, in due, a procurarsi un letto. Cosimo Mangiocco, quando lo hanno riportato cadavere nella sua casa, non ha potuto esservi ospitato, perché la sua bara occupava troppo posto. È stato trasportato nella casa della sua giovane sposa: e Lia lo ha ospitato per la prima volta, cadavere, nel suo letto di vergine. E questo era il figlio di un proprietario! Il vostro Popolo, il giornale del Governo, così lo ha definito. L’altro, Nicola Mattia, padre di quattro figli di tenera età: quando lo hanno riportato a casa, non ha potuto entrare in quella stretta, unica stanza, in cui convivono 6 o 7 persone. Sapete perché? Perché si accede a questo buco attraverso una scala a pioli; e non è possibile trasportarvi un cadavere. Il suo povero corpo, crivellato di colpi, fu quindi ospitato nella casa di gente caritatevole vicina. E questi era il “proprietario mezzadro” di cui parlava il sottosegretario Bubbio! Non avevate il diritto di offendere, anche dopo morti, queste vittime del vostro odio e della vostra paura. Voi avete bisogno di morti».

Nella stampa dell’epoca l’eccidio ebbe una vasta risonanza Il “Giornale del Mezzogiorno” titolò “Bestie da Soma” l’articolo in prima pagina vicino al dipinto del pittore abruzzese Teofilo Patini,
Nei numeri successivi coniò il termine 'Lentellinismo' per identificare tutte quelle situazioni di sfruttamento e oppressione che tormentavano soprattutto le regioni del Sud Italia.


Durissima la chiusura del primo articolo: «[...] Ciascuno è in torto di fronte verso i morti che non dovevano morire e nessuno potrebbe scagliare la pietra del senzapeccato. Perché di fronte a Lentella, a molte, a troppe Lentelle che ancora esistono nel Mezzogiorno c'è da picchiarsi tutti il superbo petto e domandarsi se abbiamo più il diritto di vivere di fronte a chi ha soltanto il dovere di morire».


Più della parziale vittoria giudiziaria contò, per i lentellesi e per tutti i contadini del Vastese, il raggiungimento di buona parte degli obiettivi prefissati. Tali obiettivi rappresentavano conquiste di civiltà, pagate, ancora una volta, con il sangue.
Nel video Venturina Terpolilli, testimone presente al momento dei tragici fatti (estratto dal documentario "La storia di Lentella diventa donna")


22 MARZO 1950
PARMA
Attila Alberti e Luciano Filippelli furono uccisi dalla polizia al termine di una manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro. Una manifestazione nata in un clima di tensione. Nella mattinata c’era stata una sassaiola in Via Mazzini e un tafferuglio davanti al caffè Bizzi, tra Via Cavour e la Piazza. Nel pomeriggio la situazione si fece più tesa. Il corteo di almeno  30 mila persona,,, la polizia parlò di sette mila… venne fermato dalla polizia in Piazza da alcuni funzionari della stessa Polizia e dalla Celere. Nacque una discussione che si fece subito molto animata.. si chiesero le relative autorizzazioni per la manifestazione e ben presto dalle semplici parole senza senso si passò ai modi bruschi con uno scontro tra la polizia scelbiana e i dimostranti. Le versioni della polizia e dei dimostranti furono allora molto discordanti. Una cosa è certa… durante lo scontro un uomo, Attila Alberti di 32 anni, abitante in Via Corso Corsi, cadde al suolo all’angolo della Strada Repubblica con il Borgo Sant’Ambrogio e poco dopo  morì. Ci furono altri tre feriti fra i dimostranti e anche tre poliziotti.
La tensione in città era alta. Nel pomeriggio il presidente dell’Unione Industriali,. Alberto Zaniari, fu aggredito e solo grazie all’intervento del prefetto e di alcuni delegati sindacali non subì conseguenze. I funerali della vittima si svolsero con calma mentre alla Camera un interpellanza chiese al ministro Scelba di relazionare sull’accaduto anche per sapere chi sparò i colpi mortali. Parma ha sempre mostrato un senso alto di comunità e di convivenza civile. Ma l’evento produrrà un'altra vittima, Luciano Filippelli. La sua morte fu assurda. Durante gli scontri venne arrestato e condotto in carcere. Morirà in carcere ma non per ferite…. ma a causa di un diabete che non gli fu permesso di curare.




23 MARZO 1950
SAN SEVERO

Negli anni ’50 era vicesindaco  della sua città e da amministratore sarà coerente, attivo, come già da sindacalista e da dirigente politico. Tommaso Fiore nel suo viaggio in Capitanata così lo descrive: “ogni mattino alle sette il vicesindaco e contadino Cannnelonga lo si può trovare nel suo ufficio, su al Comune, allegro, infaticabile. Ognuno entra senza farsi annunziare, uno dopo l’altro; subito egli balza in piedi, ascolta, risponde, saluta sempre con un sorriso….”.
Carmine Cannelonga con gli anni era diventato un punto di riferimento della CGIL e del Partito Comunista in tutta la Puglia. Pur con i suoi timore di autodidatta scriveva senza paura a dirigenti politici, a storici e giornalisti. Così scrisse all’on. Nilde Jotti: “ Tu non puoi immaginare quanta soddisfazione ho provato leggendo nell’Unità di questa mattina questa tua frase; “Non mi sento per nulla offesa, i cafoni sono la povera gente del Mezzogiorno e mi trovo bene in loro compagnia”.
Cannelonga quel 23 marzo era a San Severo e ancora una volta le forze dell’Ordine si resero responsabili di eccidi dolorosi contro i lavoratori che si battevano per il pane, per la terra, per il lavoro.
Raffaele Jacovino, sindaco della città nel 1972 scrisse un libro di grande valore culturale, “23 Marzo 1950 – San Severo si ribella”, stampato nel 1977.
Quel giorno ci fu lo sciopero nazionale per solidarietà dopo l’ennesimo eccidio (di Parma) e venne prolungato a San Severo di una giornata.
I lavoratori all’alba costituirono dei posti di blocco stradale… una pratica sindacale non necessariamente violenta e spesso tollerata anche dalle forze dell’ordine. Questa volta non fu così.
La polizia, che aveva chiesto rinforzi, aggredì i picchetti di braccianti, operai, spazzini e arrestò 20 lavoratori. I posti di blocco vennero ricostituiti.. la tensione salì e la città era in preda ad una “eccitazione collettiva”. Gli scioperanti fecero chiudere i negozi…. In giro c’era tanta rabbia e le forze dell’ordine non riuscirono a percepire il mutamento della manifestazione e fecero salire ancora di più la tensione con comportamenti sbagliati.
Tre agenti, dopo aver fatto la spesa in una macelleria, ne impedirono la chiusura. All’uscita i tre militari furono aggrediti e disarmati. Uno di loro riuscì a liberarsi dalla stretta della folla, entrò nella macelleria e riuscì ad impossessarsi di un grosso coltello. Cominciò a dare dei terribili fendenti a chi si avvicinava e riuscì a ferire alcuni lavoratori.
La folla permise alla polizia, subito accorsa, di prendere i tre agenti. La folla per nulla intimidita successivamente reagì e costrinse le forze dell’ordine ad arretrare sino al commissariato.
Ormai il senso dello sciopero era superato… era presente una forte rabbia e anche la consapevolezza, da parte degli scioperanti, della propria forza… la forza di un popolo di umiliati e diseredati.
Il Cannelonga intuì il momento drammatico della situazione e con alcuni lavoratori si recò alla caserma dei carabinieri per mediare, governare una situazione che era sfuggita ad ogni controllo.
I carabinieri non apprezzarono il suo gesto e … lo arrestarono.. Un gesto che rese la situazione ancora più drammatica. La notizia dell’arresto trasformò la città in una bolgia con uso di armi da fuoco, con i poliziotti asserragliati e con infiltrazioni pericolose tra i lavoratori dimostranti. Gli scioperanti innalzarono delle barricate e come riportano le cronache assaltarono le armerie e la sede del MSI.
Nel primo pomeriggio arrivarono da Foggia i rinforzi di polizia, l’esercito, l’artiglieria… i carri armati…. Presero d’assalto la sezione del PCI e la Camera del Lavoro. L’ordine fu ristabilito:
-          un morto, Michele di Nunzio di 33 anni, con arma da fuoco in dotazione alla polizia;
-          40 feriti tra civili e militari;
-          Una enormità di proiettili sparati dalle forze dell’ordine;
-          187 lavoratori denunciati; numerosi arresti; 110 rinviati a giudizio.
La stampa “filogovernativa”: “Sanguinosa rivolta a San Severo”; “Insurrezione armata a San Severo”…”Piano Preordinato”.

Istruttoria Giudiziaria
Fu montato un teorema indimostrabile: “non si sarebbe tratto di rivolta spontanea, ma di insurrezione armata contro lo Stato, preparata e diretta dai Comunisti, punibile sino all’ergastolo e alla pena di morte”.
La carcerazione preventiva degli arrestati fu lunga e dolorosa. Il processo si svolse circa due anni dopo gli avvenimenti.
Lelio Basso, dirigente e teorico famoso del socialismo italiano, avvocato di grande valore, assunse con Fausto Gullo, Mario Assennato, dirigenti comunisti, le difese dei lavoratori rinchiusi nel carcere di Lucera.
L’arringa di Lelio Bossi al processo: “ Ci fu quel giorno uno sciopero turbato da arbitrari interventi della polizia che hanno determinato il successivo esplodere di alcuni incidenti violenti ma isolati e spontanei”.
Il Pubblico Ministero, basò la sua accusa sulla pretesa illiceità dello sciopero politico (quello messo in atto a San Severo il 23 marzo contro gli eccidi della polizia compiuti in diverse città). Basso rispose al Pubblico Ministero che la “Costituzione Italiana non fa alcuna distinzione tra sciopero economico e sciopero politico” e “quanto difficile e sovente arbitraria sarebbe una siffatta distinzione”.
“La Costituzione dice “diritto di sciopero” in tutta la pienezza delle sue manifestazioni concrete” aggiunse l’autorevole esponente della difesa che così concluse la sua arringa rivolto alla Corte:
Questa sentenza voi pronuncerete in nome del popolo, e il popolo in nome del quale parlate, il popolo di cui dovete essere gli interpreti ,non è soltanto il popolo grasso vuol conservare i suoi privilegi, ma è il vasto popolo che comprende tutti i cittadini, soprattutto la grande massa dell’umile gente che lavora, che soffre e che lotta per diventare non più oggetto ma soggetto di storia, e per fare finalmente del nostro paese, secondo il principio affermato dalla Carta fondamentale, una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Sia la vostra sentenza degna di questo popolo

Intanto per i lavoratori incarcerati tra cui il Cannelonga e la moglie, ci fu tanta ed ampia solidarietà.
Giuseppe Di Vittorio, consapevole delle sofferenze subite dai braccianti, pur ammettendo le presenza di errori commessi, fece pervenire al Cannelonga un telegramma nella prigione di Lucera datato 20 dicembre 1951, esprimendo la solidarietà di cinque milioni di lavoratori organizzati e dichiarandosi fiducioso sulla loro liberazione.
Si moltiplicarono gli aiuti in favore dei carcerati e il Comitato di Solidarietà Democratica agiva su scala nazionale. Le donne dell’UDI, storica organizzazione femminile di sinistra e di Ancona, presero con loro decine di bambini figli dei lavoratori incarcerati e li sistemarono per due anni presso famiglie in diverse città delle Marche. Tra questi bambini c’erano i figli di Carmine Cannalonga e della moglie Elvira Suriani.
Il movimento collettivo di accoglienza dei figli degli incarcerati di San Severo, è solo un piccolo tassello di un più vasto movimento nazionale che già dal’ 46 operava in Italia. Un movimento organizzato dai partiti di sinistra e, come detto, da organizzazioni femminili come l’UDI. Le famiglie emiliane, marchigiane e toscane, della rete dei comitati di Solidarietà Democratica accolsero come figli adottivi i più poveri bambini del Sud. Si costituirono i “treni della felicità” che portarono circa 70.000 bambini a vivere l’adozione familiare dal 1946 al 1952.

.Negli avvenimenti del 23 marzo le donne ebbero un ruolo fondamentale per coraggio, determinazione ed equilibrio. Tra loro anche Soccorsa Sementino esponente di primo piano del movimento femminile e moglie del senatore Luigi Allegato; Clorinda Litterio che fece parte del movimento clandestino negli anni trenta e fece da staffetta di collegamento con gli antifascisti di Apricena e Torremaggiore. Tutte furono ripagate con il carcere. Le donne sono presenti negli scioperi del 1907 e del 1920. Una di loro, Grazia Baldassare, fu arrestata e processata nel 1913 e poi di nuovo nel 1918 perché inneggiava alla rivoluzione Bolscevica. Nel 1932, in pieno regime fascista, 500 donne manifestarono nei confronti del podestà chiedendo l’apertura delle “fosse” di deposito del grano per distribuirlo al popolo affamato.
Per i fatti del 23 marzo 1950 fra i denunciati c’erano 43 donne.
Il 5 aprile 1952 la Corte d’Assise di Lucera emise la sentenza di assoluzione per gran parte degli imputati tra cui il Cannelonga, sua moglie, i dirigenti del partito, del sindacato e dei lavoratori.
Gli uomini e le donne che si erano ribellati alle provocazioni e alla violenza delle forze dell’odine, additati dalla stampa forcaiola come i responsabili dei tumulti e del sangue versato, meritarono la fiducia di una gran parte della popolazione di San Severo nelle successive lotte e nelle elezioni amministrative e politiche”.
Il Cannaloga fu amministratore di San Severo dal 1952 al 1962 per poi tornare a dirigere il sindacato. Con grande responsabilità si fece carico di quella giornata e pur manifestando delle perplessità in quella fatidica notte tra il 22 e il 23 marzo sul prolungamento dello sciopero, decise di stare con il popolo. A ricordare la fame, le vergogne, le ingiustizie sociali di quei tempi rimase l’appassionato “Canzoniere” di Matteo Salvatore, rilanciato dal musicista napoletano Daniele Sepe che si limita a riprendere un solo testo “Padrone Mio” del grande artista.

San Severo, come tutte le città del meridione viveva in un profondo malessere. Il bracciante agricola, quando riusciva a lavorare, aveva una paga giornaliera di circa 740 lire. Un salario insufficiente a nutrire la famiglia. Un chilogrammo di pane costava allora 100 lire e un chilo di carne 900. Il 55% dei terreni di San Severo erano in mano a pochi proprietari e i contadini con i braccianti costituivano ben il 63% della popolazione attiva della città.
Il venditrè di màrzo
succèssë ‘na rruwínë pë ddu bbèllë Sanzëvírë.
Nnànd’â Càmmëra del lavórë
vulèvënë ccídë a li lavoratórë.
‘U cummëssàrjë e Ffratèllë
hànnë pèrzë ‘i cërëvèlle a ndërrugà li fëmënèllë.
Avèvën’a dícë ccúmë dëcévë jìssë
pë rrëstà li comunìstë.
Alleghèt’è jjút’a Rrómë,
purtètë ‘i connutètë dë li pòvërë carcërètë,
ha ppëgghjètë la parólë:
– Caccètë fórë li lavoratórë.
Ha ppëgghjètë la parólë:
– L’avítë mìssë jìndë pë ppèn’e llavórë

Video : I Figli della Rivolta di Giovanni Rinaldi.

Dal giornale “Epoca”: San Severo, 23 marzo 1950. Alcune donne arrestate vengono tradotte al carcere di Lucera

3 MAGGIO 1950
CELANO (Aquila)

Celano era il più importante centro della Marsica, abitato dalla popolazione italica dei Marsi, e considerato dai Romani un punto strategico perchè dominante sull’intera Piana del Fucino. I Romani vi fecero passare la Via Valeria ovvero il prolungamento verso l’Adriatico dell’antica via Tiburtina. La città venne distrutta dall’Imperatore Federico II di Svevia e ricostruita dallo stesso imperatore.. un territorio importante che assunse il titolo di “Caput Marsorum”. Parte del Territorio è incluso nel Parco Regionale Maturale del Sirente-Velino. Da visitare le meravigliose Gole di Aielli-Celano, raro esempio di canyon del Centro – Italia.

(Celano – particolare delle gole di Aielli)
Nella zona del Fucino, altopiano della Marsica, nell’Abruzzo e in prov. di l’Aquila,  si costituì il Comitato per la Rinascita della Marsica che portava avanti le rivendicazioni di braccianti e affittuari senza terra e di altri stati sociali.  L’altopiano era caratterizzato dalla presenza di un vasto lago che fu prosciugato nell’800 da Alessandro Torlonia che ne diventò principe. Un ricco latifondista, banchiere, industriale… il suo latifondo aveva un estensione di 16000 ettari e comprendeva ben 10 centri agricoli o paesi con una popolazione complessiva di circa 100.000 abitanti. Dati allarmanti… il vasto comprensorio aveva 14.000 affittuari con in media meno di un ettaro ognuno.. c’erano poi mezzadri, salariati, braccianti.. uomini e donne che…facile da intuire… lavoravano in completa miseria. Gli affittuari avevano contratti pesantissimi che si basavano sul pagamento di un canone annuo elevatissimo e che era anche legato ad una produzione presunta. Altro dato allarmante era costituita dalla viabilità all’interno del latifondo… il passaggio era consentito solo su determinate vie su permesso o consenso del principe Torlonia. Il malcontento erano diffuso anche perché i terreni erano soggetti spesso ad allagamenti; l’ordine pubblico carente e quindi i terreni erano soggetti a frequenti razzie; le minacce di sfratto pressoché continue;  gli indebitamenti per fare fronte agli alti canoni d’affitto…assenza totale del rispetto dei naturali diritti umani.


Il latifondo del Fucino era abbandonato dalla famiglia Torlonia e le condizioni sociali ed economiche della gente che vi lavorava furono denunciate nel romanzo “Fontamara” dello scrittore Ignazio Silone. Le risorse agricole e finanziarie venivano sfruttate per alimentare lo zuccherificio di Avezzano e la banca di proprietà del principe Alessandro Torlonia.


Tra il 12 dicembre 1949 e il 1 gennaio 1950 si organizzò una manifestazione di protesta e si costituì una forte alleanza tra braccianti senza terra e piccoli affittuari….. fu la base di una grande alleanza popolare.
Il 4 febbraio le amministrazioni respinsero le richieste del Comitato per l’immediato inizio dei lavori necessari per la sistemazione delle strade, per la liberazione o pulizia dei canali di scolo e dei ponti… tutti interventi che il principe Torlonia da anni e anni ignorava. I contadini chiesero le quote per l’impiego della manodopera necessaria per l’esecuzione dei lavori, in base alla legge sull’imponibile, gli assegni familiari ed assistenza medica e farmaceutica. La risposta dell’amministrazione fu negativa e il Comitato decise di passare all’azione adottando lo “sciopero al rovescio”.
Con grande responsabilità i contadini scesero dai centri abitati ed iniziarono a lavorare alle opere di manutenzione delle strade e dei canali. Affittuari, uomini, donne, bambini cominciarono a lavorare nelle opere mentre chi non era nei campi di lavoro girava nei centri raccogliendo somme di denaro necessarie per i lavori. I lavori procedevano e i comizi, le assemblee, i cortei erano nella quotidianità. Fu a questo punto che il governo De Gasperi e il “mitico” Scelba decisero di inviare i reparti della Celere che si misero subito all’opera bloccando strade, ferrovie, chiudendo, addirittura, anche le scuole. Molti poliziotti che erano andati nei campi furono buttati nei canali come riportano alcune cronache del tempo (non so se veritiere).
Il principe Torlonia firmò una “tregua” davanti al prefetto ma il giorno dopo…. non riconobbe l’accordo. Il 22 febbraio fu organizzato uno sciopero e il giorno successivo venne applicato nella Piana del Fucino il Decreto Legge n. 429/47 sull’imponibile di manodopera. Dopo alcuni giorni di mobilitazione, il principe Torlonia dovette pagare, per i lavori eseguiti con ”lo sciopero al rovescio”,  14 milioni di lire sui 28 richiesti dai lavoratori.  Acconsentì anche ad altre concessioni: gli affittuari furono esonerati dal pagamento dei contributi unificati per i terreni o poderi con una superficie inferiore ai 3 ettari e furono occupati per 50 giornate circa 2 mila lavoratori.
Il Torlonia ma anche i latifondisti si sentirono umiliati da quello che avevano raggiunto le masse contadine e la domenica del 30 aprile 1950 si riunì nel palazzo comunale di Celano, sempre in provincia di l’Aquila, la Commissione di Collocamento che doveva stabilire il turno di lavoro dei braccianti. Non fu raggiunto un accordo tra i politici e i sindacati e alle 18 la seduta fu sciolta. Verso le 20 molti contadini si trovavano in Piazza 4 Novembre in attesa, vana, che uscissero gli elenchi dei primi braccianti chiamati per l’impiego.



Il vicesindaco Angelo Tropea chiese al maresciallo dei Carabinieri di intervenire per allontanare la gente dalla piazza. Il maresciallo giunse con quattro appuntati e senza alcun preavviso e senza alcun motivo, aprirono il fuoco. Nello stesso momento, dal lato opposto della piazza mentre i contadini si buttavano istintivamente a terra per ripararsi dai colpi d’arma da fuoco, vennero esplosi  altri colpi d’arma da fuoco dai fascisti  e dalle guardie dei Torlonia (che sarebbero stati individuati da alcuni contadini).
Restarono a terra, privi di vita due braccianti: Agostino Paris di 45 anni e Antonio Berardicurdi di 35 anni…. e 12 persone ferite. le due vittime lasciarono la moglie e i figli in tenera età.
Gli accusati furono prosciolti in istruttoria e i colpevoli dell’eccidio restarono ignoti.
Il 3 maggio si celebrarono i funerali dei due braccianti. Fu proclamato lo sciopero in tutto il paese. 
Dopo un anno….. nell’agosto del’ 51 il Consiglio dei Ministri approvò il Decreto di esproprio del Fucino….

(La folla radunata in piazza per i funerali delle vittime)

Al di là della cronaca… dell’evento…. Concludo l’artico sull’eccidio di Celano con delle frasi prese dal link che per la loro veridicità meritano di essere incluse senza alcuna modifica o commento nel testo: “L'eccidio di Celano è uno dei tanti eccidi commessi dal capitale, che, usando i suoi servi, governi, forze “dell'ordine”, fascisti, ha sempre represso nel sangue contadini e lavoratori che richiedevano miglioramenti delle loro condizioni economiche e dei loro diritti. L'arretramento che, come movimento operaio, stiamo subendo, riporterà senz'altro in auge, come già in parte sta avvenendo, metodi e comportamenti che non sono stati certo gettati nel dimenticatoio dal capitale. La stretta disciplinare in corso sui posti di lavoro non potrà continuare a lungo senza una risposta operaia; ebbene, appena questa, e giustamente, si manifesterà, aspettiamoci provocazioni, attacchi e repressione dispiegata!..”.

4 Maggio 1950
Il governo De Gasperi il 4 maggio 1950  approvava la “Legge Sila”, (230/1950).  La legge, detta “Sila” riguardava la “colonizzazione” dell’altopiano della Sila.
La Riforma prevedeva l'esproprio di migliaia di ettari di terreno da distribuire gratuitamente ai braccianti agricoli privi di fondi e di mezzi finanziari. Divenne realtà l'antico sogno dei contadini silani,  tanto atteso .. ma i risultati non furono quelli sperati.

L’area sottoposta alla legge Sila riguardava solo un terzo della Calabria, cioè la parte orientale divisa in quattro settori:
1.      Primo settore, cioè la Sila montagnosa e ricca di boschi. Era sfruttata come terreno estivo per pascolo di ovini. Pochi latifondisti possedevano la maggior parte delle terra che affittavano annualmente in piccole strisce di terreno;
2.      La zona collinare, che circondava la Sila, costituita da terreni poveri definiti come “i peggiori della Calabria”. Anche in questo settore dominava il latifondo:
3.      Il marchesato di Crotone, ovvero la zona dove si trova il centro di Melissa. Anche in questo settore il latifondo era molto diffuso;
4.      La zona della pianura costiera dello Jonio che era la più fertile. In questo settore il latifondo era poco presente ed esistevano un gran numero di piccoli proprietari terrieri.
La Riforma fu affidata all’OVS (Opera Valorizzazione Sila) che si era costituita nel 1947. Aveva il compito di espropriare nel comprensorio silano i terreni di proprietà privata suscettibili di trasformazioni agrarie. Terreni appartenenti a persone o società che, computate anche le eventuali proprietà esterne allo stesso comprensorio silano, fossero proprietarie di più di 300 ettari al 15 novembre 1949.
Dei 573.000 ettari dell’area, che era interessata dalla riforma o dalla legge Sila, solo 85.917 vennero espropriati (75.000 ettari espropriati e 11.000 acquistati). Furono formati 11.557 poderi e 6.705 quote che vennero assegnati ad altrettanti capifamiglia. Le dimensioni dei poderi andavano dai 10 ettari in montagna ai 5 ettari in pianura. Dimensioni che si dimostrarono insufficienti per permettere un decoroso livello di vita ad un nucleo familiare. L’Ente di Riforma indirizzò la propria politica di irrigazione sulle fertili pianure delle coste (zona 4) dove era stato minore l’espropriazione di terre, solo il 10%. I lavori irrigui mancarono nella zona 3 ovvero nel Marchesato e questo influì in modo negativo sullo sviluppo agricolo. La zona ha generalmente una piovosità annuale molto bassa.
Nei primi sette anni funzionò un sistema creditizio molto generoso che mise a disposizione denaro e strumenti per il lavoro agricolo. Crediti spesso non restituiti dato che il servizio creditizio era considerato una specie di assistenza gratuita. Con il passare degli anni il sistema creditizio subì un irrigidimento e questo influì negativamente sulla conduzione delle proprietà.
Rimasero, comunque, tutti soddisfatti. Il Governo riuscì a sedare le rivolte frazionando la proprietà terriera e accontentando un gran numero di famiglie. I comunisti videro con compiacimento, l'eliminazione del latifondo e la gratitudine dei braccianti anche essi contenti per quel poco di terra acquisita a titolo gratuito. 

Il 21 ottobre 1950 il Parlamento approvava la Legge 841, definita allora Legge Stralcio e impropriamente chiamata in seguito “Riforma agraria”.  Interessava solo una parte del territorio nazionale e cioè in prevalenza regioni del sud e poi aree del Delta Padano, della Maremma e del Fucino. La legge veniva dopo l’approvazione della Legge Sila del 4 maggio dello stesso anno, rivolta per lo più alla Calabria, una regione che giusto un anno prima – il 29 ottobre – aveva conosciuto l’eccidio di Fragalà, nei pressi di Melissa. La Regione Sicilia, inoltre, interveniva a fine anno con una sua propria legge regionale. Comunque, per gestire il tutto si istituirono gli Enti di Riforma e altri organismi. Purtroppo la gestione di questo processo si unì con l’esercizio del potere e il rafforzamento dei nuovi equilibri politici. Gli ettari di terra espropriati comunque furono circa 700 mila, i proprietari indennizzati – che quindi non andarono in rovina – quasi tremila, gli ettari di terra realmente assegnati nel decennio successivo oltre 400 mila.
La legge venne chiamata “Stralcio” perché, secondo il legislatore, doveva essere la base di una norma più generale ed ampia sulla Riforma Agraria. Norma che non venne mai promulgata. Il governo entro sei mesi dall’approvazione della legge, doveva emanare norme per la istituzione di enti e sezioni speciali di diritto pubblico, in seno ai già costituiti enti di colonizzazione o di trasformazione fondiaria con la precisa funzione di provvedere alla preparazione dei programmi di trasformazione fondiaria ed agraria nei territori delimitati dalla legge.
In definitiva la legge affidava a vari Enti o sezioni di riforma fondiaria il compito dell’esproprio e la successiva distribuzione ai contadini dei terreni di proprietà privata. A differenza della “Legge Sila”, il limite d’estensione dei terreni da espropriare non veniva stabilito dalla legge “Stralcio” in base alla sola estensione ma anche in riferimento al Reddito Domenicale. La percentuale d’esproprio era tanto più alta quanto più elevato era il Reddito Domenicale complessivo dei terreni appartenenti al proprietario soggetto a espropriazione. (Quando si parla di terreni è bene distinguere fra Reddito Agrario e Reddito Domenicale. Il Reddito Agrario indica quella parte di redito fondiario che proviene dall’esercizio dell’attività agricola mentre con il Reddito Domenicale s’intende il reddito relativo esclusivamente alla proprietà).
Poiché il criterio del reddito imponibile puro poteva danneggiare i proprietari che, migliorando i terreni, avevano procurato un aumento del reddito imponibile, il criterio del reddito globale era temperato da quello medio per ettaro. In questo modo la percentuale di scorporo, cioè di terreno da espropriare, era tanto più bassa quanto più elevato era il reddito medio per ettaro. In tal modo a parità di reddito imponibile globale, subiva il minore esproprio il proprietario dei terreni che aveva il reddito medio più elevato.
La Legge Stralcio prevedeva l’esenzione dell’esproprio alle aziende modello, entro il limite di 500 ettari; estensione che fu estesa anche alle aziende zootecniche più progredite. Concedeva al proprietario che subiva l’esproprio dei terreni il diritto di sottrarre, levare, all’esproprio una parte dei terreni che dovevano essere espropriati. In questo caso doveva garantire l’effettuazione nei terreni di miglioramenti agrari. La stessa legge prevedeva che “per un periodo di sei anni dall’accertamento della quota di esproprio i proprietari soggetti alle sue disposizioni non possano acquistare terreni che, con quelli residui, superino i settecentocinquanta (750) ettari”.
Con d.p.r. del 7 febbraio 1951, n. 67 dal titolo "Norme per l'applicazione della legge 21 ottobre 1950, n. 841, a territori della Puglia, della Lucania e del Molise..." si sancì l'istituzione di una Sezione speciale per la Riforma fondiaria di Puglia, Lucania e Molise con sede in Bari presso l'Ente per lo sviluppo dell'irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania, istituito a sua volta con d.l. 18 marzo 1947, n. 281.
Il compito di attuare l'anticipazione della riforma fondiaria prevista dalla legge stralcio fu affidato all'Ente per la colonizzazione della Maremma Tosco-Laziale e del Territorio del Fucino, da cui poi si staccò l'Ente per la valorizzazione del Fucino, alla sezione speciale per la riforma fondiaria dell'Ente per lo sviluppo della irrigazione e trasformazione in Puglia e Lucania, all'Ente per la colonizzazione del Delta Padano, a una Sezione speciale presso l'Ente autonomo del Flumendosa, all'Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna, per le zone rispettivamente di loro competenza. Nel territorio del volturno-Garigliano e del Sele operò una sezione speciale per la riforma fondiaria dell'Opera Nazionale per i Combattenti. Per l'applicazione della legge stralcio in alcuni comuni della provincia di Reggio Calabria fu istituita apposita sezione speciale dell'Opera per la valorizzazione della Sila. In Sicilia operò e opera l'Ente per la riforma agraria in Sicilia.

 La Sezione (comunemente definita Ente Riforma) ebbe come compito quello di esercitare sui territori interessati le funzioni di espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini; aveva gestione autonoma e patrimonio distinto da quello dell'Ente. Il Presidente dell'Ente era, tuttavia, anche a capo della Sezione speciale ed a lui erano attribuiti tutti i poteri di rappresentanza e di amministrazione della Sezione speciale. Altri organi della Sezione speciale erano: il Consiglio per la Sezione speciale, di durata triennale - costituito da 12 membri dei quali 7 scelti fra persone specialmente esperte dei problemi inerenti alla trasformazione fondiaria ed alla colonizzazione o rappresentanti delle categorie agricole e 5 in rappresentanza dei Ministeri delle finanze, del tesoro, dell'agricoltura e delle foreste, dei lavori pubblici e del lavoro e della previdenza sociale - e il Collegio sindacale, di durata triennale, che provvedeva al controllo della gestione amministrativa e finanziaria. La Sezione speciale aveva un proprio Direttore nominato con decreto del Ministro per l'agricoltura e le foreste su designazione del presidente dell'Ente sentito il Consiglio per la Sezione speciale.
La Sezione speciale per la Riforma fondiaria di Puglia, Lucania e Molise avrà vita sino al 1965 quando, con l'emanazione della Legge n. 901/1965, si tramuterà in Ente di sviluppo agricolo.

LA Riforma si attuava in tre fasi:
1.      Fase: si aveva l’accertamento delle proprietà soggette ad espropriazione con riferimento alla situazione esistente al 15 novembre 1949; la formazione e la relativa pubblicazione dei piani d’esproprio e l’esproprio esecutivo. Per evitare eventuali possibilità di contestazioni e rendere quindi la pratica d’esproprio più rapida, l’indennità d’espropriazione veniva determinata in misura automatica (pari al valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta progressiva sul patrimonio istituita con decreto legislativo del 29 marzo 1947, n. 143 e normalmente inferiore al valore venale). L’indennità d’esproprio al proprietario dei terreni era corrisposta in titoli del debito pubblico redimibili in 25 anni.
2.      Fase: “in questa fase della riforma i terreni espropriati dovevano essere trasformati e resi adatti all’insediamento della piccola proprietà contadina e assegnati a lavoratori manuali della terra o a istituzioni che avevano come compito specifico la formazione professionale degli orfani o figli di contadini per il loro avviamento alla proprietà direttamente coltivata mediante la costituzione di aziende modello o fattorie scuola, mediante contratti di compravendita con pagamento rateale e riservato dominio per un trentennio a favore degli enti o sezioni di riforma fondiaria. Poiché il contratto di assegnazione è diretto alla creazione di piccoli proprietari imprenditori, non è ammessa la vendita o concessione in godimento dei fondi assegnati, dei quali è anche escluso il riscatto anticipato. Sempre per lo stesso motivo non si ha successione ereditaria secondo norme del codice civile nel contratto di assegnazione, e può solo verificarsi il subentrare dei discendenti o del coniuge superstite dell’assegnatario muniti dei requisiti previsti dalla legge per l’assegnazione. Le assegnazioni devono essere compiute entro un triennio dall’esproprio: salvo rare eccezioni, tutti i terreni espropriati sono ormai assegnati”.

La prima e la seconda fase della Riforma sono le basi per la creare la possibilità di successo della delicata attività che si svolge nella terza fase:

3.      Fase : attività con cui si persegue il fine della formazione di piccole imprese agricole efficienti assistite da una solida organizzazione di cooperative e consorzî. In questa fase gli enti di riforma hanno principalmente compiti di assistenza tecnica ed economica-finanziaria agli assegnatari. In particolare essi devono promuovere, incoraggiare ed organizzare corsi speciali gratuiti di istruzione professionale e attività o centri di meccanica agraria, e promuovere la costituzione di cooperative o dar vita a consorzî obbligatori ai quali detti servizî vengono affidati. Mentre gli enti hanno il compito dell'assistenza tecnica ed economica agli assegnatari, questi ultimi devono curare la buona gestione delle loro terre. La legge dispone che nel contratto di assegnazione sia previsto un periodo triennale di prova "sotto condizione risolutiva espressa", e che gli assegnatari debbano far parte per un ventennio delle cooperative o consorzî costituiti dagli enti, e che l'inadempimento a tale obbligo comporti la decadenza dell'assegnazione. I contratti-tipo di assegnazione poi prevedono altre cause di risoluzione del rapporto di assegnazione a carico degli assegnatari negligenti.

Nel 1950 fu istituita la “Cassa Per il Mezzogiorno, un Ente Pubblico, con un capitale iniziale di 1000 miliardi di lire. L’obiettivo della “Cassa per il Mezzogiorno”  fu quello di programmare, finanziare ed eseguire opere straordinarie, funzionali alla formazione di un tessuto infrastrutturale che favorisse l’insediamento dell’industria e lo sviluppo dell’agricoltura e della commercializzazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale. Inizialmente per la Cassa per il Mezzogiorno (la cui esatta denominazione era “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale”) venne prevista un durata di dieci anni, ma una serie di proroghe ne prolungarono la vita fino al 1984.
Durante il periodo della sua attività la Cassa concesse contributi a fondo perduto e finanziamenti a tassi agevolati per il miglioramento e l’attuazione di iniziative pubbliche e private nei settori industriale, agricolo, artigianale, turistico. Alle aziende pubbliche e a partecipazione statale veniva contemporaneamente fatto obbligo di localizzare almeno il 60% dei nuovi investimenti nel Mezzogiorno. Altra funzione della Cassa era quella di individuare delle aree che, opportunamente attrezzate, potessero diventare i centri propulsori dello sviluppo industriale del Mezzogiorno.
I sostenitori del nuovo organismo ritenevano che un intervento pubblico fosse necessario per spezzare il cerchio dell’arretratezza nel Mezzogiorno.
Sulla sponda opposta, il Partito Comunista, fedele all’interpretazione gramsciana  della questione meridionale, sosteneva che il problema del Mezzogiorno fosse anzitutto un problema di struttura politica e che un programma di opere pubbliche non avrebbero mai potuto modificare la situazione. Si sarebbe dovuto invece fare leva sulla riforma agraria, per riscattare le classi contadine dalla loro antica emarginazione politica e portarle alla posizione di protagoniste dello sviluppo del sud.
Ma ben presto i contadini si trovarono, nei loro piccoli ed impervi poderi di montagna, a competere con gli agricoltori del Nord Italia e del Nord Europa. Le zappe contro dei trattori grandi come carri armati che operavano in sterminate pianure ed erano in grado in un giorno di arare estensioni di terreno inimmaginabili per i contadini silani. La povertà delle colture silane, in genere patate e grano, fece il resto.
 A distanza di decenni possiamo affermare, senza timori di smentita, che nessuno dei poderi assegnati in Sila fu in grado di produrre un reddito adeguato al sostentamento di una famiglia. Escludendo i pochissimi casi in cui si è riusciti ad accorpare più quote.
 Non solo, ma, per ironia della sorte, la frammentazione e la polverizzazione della proprietà terriera fu il più grande ostacolo alla nascita di moderne aziende agricole che, puntando su colture ad alta resa alternative a quelle tradizionali, avrebbero potuto affrontare il mercato con successo. Comunque questo elemento negativo venne poi attenuato e in alcuni casi eliminato da forme di cooperazione. Le cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, daranno all’agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbe una migliore resa delle colture che da estensive diventarono intensive e quindi un migliore sfruttamento delle superfici utilizzate. Il lavoro agricolo che era stato fino ad allora poco remunerativo anche se molto pesante, cominciò a dare i suoi frutti, gratificando coloro i quali vi si dedicavano.
Dopo il 1960 i fondi destinati all’agricoltura scesero al di sotto del 50% del totale e venne fatto più largo spazio alle spese per l’industrializzazione.
Appare per certi aspetti sorprendente, o paradossale, come questo periodo storico di assegnazione delle terre – se si aggiungono a quelle della riforma anche le terre acquisite per altre vie o in modo spontaneo dai contadini, per effetto di altri interventi e per l’evoluzione dei sistemi economici e sociali, si stima che gli ettari totali che passano ai contadini tra il ‘48 e il ’68 siano circa due milioni, un trasferimento mai registrato prima –  sia ricordato come quello della grande fuga dalle campagne, e delle grandi migrazioni verso le grandi città e in particolare verso le fabbriche del nord Italia e centro Europa o le miniere del Belgio.
Ancora negli anni Settanta c’erano “i treni del sole” che dalla Germania o dalla Svizzera tornavano nei loro paesi di partenza nel Meridione in occasione delle elezioni. Tristi, e anche più solitarie, erano invece spesso le partenze.


LE TERRE DELL’ARNEO (Salento)
28 DICEMBRE 1950



L’occupazione dell’Arneo fu un momento di protesta che i contadini del Salento ingaggiarono affinchè il comprensorio fosse incluso nella Riforma Agraria. Ci furono due momenti d’occupazione. Il primo tra il 1944 e il 1949 e il secondo tra il 1950 e il 1951. La seconda fase dell’occupazione fu più cruenta e decisiva.
L’Agro di Arneo era una vasta estensione di terreno occupata in massima parte dalla macchia mediterranea. Una terra piuttosto povera, pietrosa e con rari alberi d’olivo e soprattutto da frutta. La sua estensione era di circa 42.000 ettari…
La terra d’Arneo è la parte della penisola salentina compresa, lungo la costa ionica fra San Pietro in Bevagna e Torre dell’Inserraglio, mentre nell’entroterra si estende fino a Manduria, Veglie e Nardò. Prende il nome da un antico casale, attestato in epoca normanna  e poi abbandonato, localizzabile nell’entroterra a nord-ovest di Torre Lapillo
da Nardò a Taranto non c’è nulla… c’è l’Arneo un espressione vagamente favolosa come nelle antiche carte geografiche quei vuoti improvvisi che s’aprono nel cuore di quelle terre raggiunte dalla civiltà” ( Vittorio Bodini). 



Il più imponente movimento di lotta per la terra si sviluppò proprio qui, tra la fine di dicembre del 1949 e gli inizi di gennaio del 1950, quando migliaia e migliaia di contadini poveri e braccianti occuparono una parte dei vasti latifondi che appartenevano a poche grandi famiglie, fra cui Tamborrino, Bozzi Colonna, barone Personè, principessa Ruffo. Tale movimento di occupazione, in provincia di Lecce si sviluppò in realtà in due fasi: tra il 1944 e il 1949, in seguito al Decreto Gullo quando i contadini mirarono ad ottenere la concessione delle terre incolte; successivamente tra il 1949 e il 1951 con l’obiettivo di ottenere la riforma agraria generale.

L’Agro era di proprietà di alcuni grossi latifondisti e del barone Achille Tamburrino di Maglie. In Puglia la metà del territorio era in mano ai latifondisti che avevano bloccato la formazione della piccola proprietà fondiaria in base alla legge Gullo e Segni. Le condizioni di vita dei contadini erano disastrose.
Le manifestazioni, dunque, iniziarono nel ’44, poi nel ’47 quando contadini e tabacchine si unirono, fino ad arrivare al 1949 quando, sotto la spinta dei movimenti calabresi e siciliani per l’occupazione dei latifondi, nel Salento ci fu una forte ripresa dell’occupazione delle terre. Nei primi giorni di quello stesso anno, migliaia di contadini con i propri attrezzi da lavoro, giunsero da vari paesi nelle terre d’Arneo; contemporaneamente vennero occupate anche le zone di Otranto, Maglie, Ugento, Squinzano, Trepuzzi e Surbo. Poi l’occupazione si estese a macchia d’olio. Non vi furono, fortunatamente, incidenti gravi, ma la repressione fu comunque molto dura e complessivamente i braccianti e i contadini ottennero ben poco. L’assegnazione di poco più di 1000 ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni.


Il 28 dicembre 1950 circa 2.000 – 3.000 contadini con i vertici delle Leghe Contadini, della CGIL, si mossero in direzione dell’Arneo dai paesi di Nardò, Copertino, Veglie. Raggiunto il podere i contadini cominciarono a dividersi i terreno e a lavorarli effettuando i primi spietramenti. I giorni passarono…l’occupazione da simbolica era diventata effettiva con l’obiettivo di avere dei fini produttivi. La notizia, forse in ritardo, giunse al “mitico” Scleba, ancora Ministro dell’Interno malgrado le sue malefatte, che diede subito ordine alle forze di Pubblica Sicurezza , la Celere, guidate dal commissario Stefano Magrone. “di reagire fermamente alle dimostrazioni”.
La Celere intervenne e tra il capodanno 1951 e il 3 gennaio, la polizia con lanci di lacrimogeni e azioni di blocco stradale, riuscì a cacciare i contadini dai poderi. Scelba addirittura spedì sul luogo anche un aeroplano per meglio controllare le azioni dei contadini !!!!!!!!
Il 7 gennaio furono arrestati centinaia di contadini che vennero poi processati.



La legge stralcio non menzionava il Salento … essa prevedeva interventi di esproprio nelle aree del Fucino, della Maremma, del Delta del Po, in Emilia, nel Veneto, in Molise, in Campania e in Sardegna e, per quanto riguarda la Puglia, nelle provincie di Bari e di Foggia, ma non in quella di Lecce. Le espropriazioni dovevano riguardare 800.000 ettari, dei quali 650.000 nel Mezzogiorno, ma nella realtà fu espropriato poco più di 1/10. In Salento il senatore Tamborrino era proprietario di ben 28.000 ettari di terre, proprio nella zona dell’Arneo, e usava le sue terre solo per la caccia. Eccettuate alcune masserie che provvedevano all’allevamento di animali, il resto di quella immensa distesa di terra era totalmente incolta. Secondo alcune fonti il senatore Tamborrino fece pressioni a Roma affinché dalla riforma agraria fosse estromessa la Provincia di Lecce, onde evitare la redistribuzione delle sue terre. Ma Tamborrino e tutti i grandi latifondisti salentini, messi alle strette, alla fine cedettero alle pressioni del P.C. e della lega dei contadini e promisero in totale 4500 ettari di terra. Se ne distribuirono solo 890, poi tutto si bloccò.

L’Agro dell’Arneo fu inserito nel gennaio del 1951 nel piano di Riforma Agraria della Legge Stralcio. Alla notizia dell’inserimento dell’Arneo nella Riforma, le biciclette e le coperte dei contadini furono distrutte dalle forze dell’ordine per rappresaglia.
Subdolamente i carabinieri sequestrarono e incendiarono le biciclette. Poi gettarono via il cibo che i vari “comitati di solidarietà” avevano regalato agli occupanti. Questa fu la risposta dello Stato alla sua gente, a quei poveri braccianti che si vedevano negato un diritto.
«Carissimi genitori, (…) A me mi presero un giorno dopo di Pietrino insieme a Uccio Camiscia nella nostra zona.  Stavano i signori di P.S. per prendermi, prima mi sequestrarono le biciclette e poi si presero i primi venticinque litri di vino, il pane e la pasta. (…)Vedete se per caso la P.S. ha lasciati quell’orzo seminatelo perché ora si può seminare. Papà carissimo fallo portare a quelli che hanno arato la terra».

Il processo voluto dai vertici della Forza Pubblica, con a testa il commissario Magione, vide alla fine coinvolti 60 contadini e capilega. Un collegio di avvocati da tutta Italia difese gratuitamente gli imputati. Il processo si celebrò tra i mesi di marzo e maggio del 1951 e alla fine l’accusa fu smontata e i contadini condannati furono solo dieci e subirono delle pene simboliche.
(dal sito: Briganti.info/la-terra-e-di-chi-la-coltiva/         di Daniela Alemanino)

(dalla Pagina: “Ci muovemmo con le bandiere al vento portate su biciclette” di Maurizio Disoteo)

La cronaca dettagliata dell’occupazione dell’Arneo:
«La mattina del 28 dicembre 1950 io, come tutti gli altri, fui puntuale all’appuntamento e trovai già sul posto oltre milleduecento contadini inquadrati (…) Noi delle varie squadre dei paesi, ci disponemmo nei vari punti della zona occupata (…) La sera rimanemmo tutti a vivaccare sul posto, accendendo dei fuochi. Quando la polizia tentò lo stesso giorno del 29 di sloggiarci, usando anche i lacrimogeni, noi non ci spostammo minimamente dal posto, e ci mostrammo decisi a reagire con gli attrezzi del lavoro. La sera del 31 (…) molti dei nostri rientrarono ai rispettivi paesi senza fare più ritorno nella zona. Per risposta fu deciso che l’indomani mattina (…) tentassimo di intimorire i carabinieri con un accerchiamento. De Vitis (il dirigente sindacale) ad alta voce, ingiunse ai carabinieri di abbandonare il posto consegnando le armi e le nostre biciclette, sequestrate il giorno prima, altrimenti sarebbero successi fatti gravi. Ad una ventina di metri dal caseggiato, eravamo intenzionati a superare d’un balzo la distanza rimasta tra noi e il presidio, quando udimmo lo sparo di un mitra (…)arretrammo notevolmente, e ci demmo alla fuga»
Questo il racconto del bracciante agricolo Pietro Cuna, di 24 anni. una dichiarazione rilasciata ai  carabinieri di Nardò (lecce) sui momenti relativi all’occupazione dell’Arneo.

È questo uno stralcio di lettera di Angelo Pati, poco più che ventenne, catturato in casa sua in una retata della polizia.
Il 3 gennaio del 1951 si conclusero i numerosissimi arresti dei braccianti e, formalmente, si chiuse la vicenda dell’Arneo. Il processo che seguì le occupazioni coinvolse circa sessanta persone tra contadini e sindacalisti, terminando con alcune pene simboliche, dando di fatto ragione agli occupanti e permettendo l’apertura di un dibattito sulla legittimità dei latifondi.
«Le terre che prendemmo erano boschi, macchie… non si poteva mettere piede, ma nui passàmme, era l’esigenza della terra che ci muoveva, era la terra che bisognava di contadini… oggi invece tutto sta tornando come prima…la macchia sta tornando … Non è un buon discorso, bello articolato il mio, però così stìano le cose all’epoca e mo nulla è cambiato, le terre, dopo tante lotte, sono tornate di nuovo macchie… Ecco la conclusione di queste lotte dopo cinquant’anni. I giovani ci dicono “e voi ci ati fattù?”…voi non avete mai fatto niente” era bùenu! ecco cosa abbiamo fatto…» (Angelo Tramacere, bracciante dell’Arneo).
“In che modo vivevate per arrivare ad occupare la  terra?”  “che ti devo dire?… la schiavitù! Era uno schifo… una cosa che la gente comune oggi non può credere… si vestiva male senza le scarpe… c’era la schiavitù… basta!” (Giuseppe Armando Meleleo, bracciante dell’Arneo)
[Gli stralci di dialoghi sono tratti da “Questa terra è la mia terra, Storie dal Veneto dal Salento e dall’America Latina“, di Camillo Robertini]

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Ritornando indietro nei tempi  ci sono altre stragi che ancora fanno male e che mettono in risalto come la Questione Meridionale, con i suoi problemi sociali ed economici sia stata  mai risolta e sembra una mina vagante pronta ad esplodere.  Anni fa nella riunione di una  cooperativa, di cui ero socio, per fare fronte alla crisi economica si propose di ridurci lo stipendio del 50%.  Presi la parola e pur condividendo la proposta, chiesi con semplicità di trattare il problema  economico con amore….sentimento … Un presidente della Caritas e vicepresidente della cooperativa mi accusò di essere il “solito idealista”. Strano commento da parte di chi ha un ruolo in una istituzione a carattere umanitario…… Risposi…” stiamo parlando di un aspetto economico….  riducendo lo stipendio del 50% mettiamo a rischio la serenità presente e futura del lavoratore ( i lavoratoti della cooperativa erano persone svantaggiate  che rientravano nei circuiti della droga, alcol, penali…).. non si coinvolge la sua sfera emotiva e quindi la sua serenità ?”.
http://www.linternazionale.it/spip.php?article119
Il 28 novembre 1946 a Calabricata,  sempre in Calabria , Giuditta levato, nata ad Albi (oggi Sellia Marina) il 18 agosto 1915 fu una delle prime donne martiri a cadere sul campo delle rivendicazioni.
Giuditta Levato si trovava con altri contadini su uno di quei terreni confiscati dalla Legge Gullo ed ebbe un diverbio con un latifondista del luogo, Pietro Mazza. Il motivo del litigio fu la presenza di una mandria di buoi, di proprietà del Mazza, che pascolavano nei terreni dei contadini impedendone i lavori. Non si sa come, la magistratura non riuscì mai a fare chiarezza, dal fucile di uno dei campieri del Mazza partì un colpo che raggiunge Giuditta all’addome. Venne trasportata prima a casa e poi in ospedale. Le cure furono vane. La povera Giuditta morì quasi subito. Aveva 31 anni ed era al settimo mese di gravidanza.. aspettava un figlio e sarebbe stato il terzo. L’Assemblea Legislativa della Regione Calabria dedicò a Giuditta Levato la sala conferenze di Palazzo Campanella a Reggio Calabria e la sala conferenze del Museo Storico Militare di Catanzaro.

(Giuditta Levato)

Ferrandina, in Basilicata, e in prov. di Matera.
Già nel 1921 il centro era stato teatro di violenze squadriste: il sindaco e consigliere provinciale socialista, Nicola Montefinese, venne ucciso.
Nel settembre del 1943 Ferrandina insorse contro i gerarchi fascisti. Lo spirito di ribellione si prolungò al 2 agosto del 1945, quando i contadini diedero vita ad una sommossa per chiedere l'allontanamento dei latifondisti fascisti e l'assegnazione delle terre incolte. Nel corso dei tumulti venne assassinato Vincenzo Caputi, ritenuto il mandante dell'uccisione di Montefinese. Per timore che la protesta dilagasse, il paese restò isolato, con le linee elettriche e telefoniche tagliate. L'ordine fu ristabilito con l'invio, da parte del governo provvisorio di unità antifascista, di 100 carabinieri da Napoli, 250 alpini della divisione Garibaldi e l'arrivo a Ferrandina, il 4 agosto, del ministro Scelba.
Ferrandina nel corso del tempo ha sempre dimostrato una sua vitalità.
Nel novembre 2003 la comunità ferrandinese, organizzò presidi e blocchi stradali, per protestare contro la decisione del governo Berlusconi di costruire il deposito unico di scorie nucleari a Scanzano Jonico.
Il 16 luglio 1895 la ferrandinese Maria Barbella, rinchiusa nel carcere di Sing-Sing, fu la prima donna condannata alla sedia elettrica negli Stati Uniti d'America. La condanna, però, non fu eseguita in quanto dopo un'ulteriore indagine Maria Barbella fu dichiarata innocente e rilasciata. Per questo motivo Ferrandina dal novembre 2005 è inserita tra le "Città per la vita - Città contro la pena di morte", campagna di sensibilizzazione promossa dalla Comunità di Sant'Egidio.


(Ferrandina - Matera)


(Convento di San Francesco)

(Castello di Uggiano)

 (Ferrandina - Castello di Uggiano)






Celano - Molinella - Modena - Parma


(Melissa _ Calabricata)

Fine - Seconda Parte... mi sposterò in Sicilia  scrivendo pagine importanti e soprattutto drammatiche.......





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