LA TORRE DI MANFRIA E IL VILLAGGIO PREISTORICO

CASTELLI  E  TORRI  DELLA PROVINCIA DI  CALTANISSETTA
TORRE  DI  MANFRIA - COMUNE DI  GELA (CL)



User:Luca83




Manfria è una località balneare posta sul Golfo di Gela, provincia di Caltanissetta, da cui dista circa 12 km.
Una zona dalla grande valenza storica, archeologica e naturalistica.
Nella località è presenta una Torre costiera, posta su una collina sovrastante il Golfo, che fu costruita su indicazione dell’architetto militare Camillo Camilliani.
Dalle notizie in mio possesso è ancora di proprietà privata e fino ad un paio d’anni fa si trovava in discrete condizioni strutturali tranne per la terrazza e per alcuni cornicioni.
È una delle torri costiere più grandi e più importanti dell’isola. Francesco Maria Emanuele Gaetani, Marchese di Villabianca, nei suoi “Diari Palermitani”, la cita con il termine di “Torre di Sferracavallo”  e spesso anche come “Torre d’Ossuma” dal nome di un vicerè.
Molti storici collocano la sua costruzione nel1549 e cioè durante il viceregno di Giovanni De Vega. Una struttura progettata dal Camilliani che aveva avuto incarico dalla “Deputazione del Regno”, di fortificare le coste della Sicilia. Sulla data non si è certi perché è probabile che almeno il basamento fosse già presente da prima. Infatti in un precedente censimento delle torri costiere era stata citata da Tiburzio Spannocchi..”presenta un basamento tronco conico simile alla Torre Mulinazzo di Cinisi”. Torre Mulinazzo che fu costruita nel 1552  sempre sotto il viceré Giovanni De Vega.
Nel 1578 è citata in Contrada Sferracavallo e “non completata” e si consigliava che..”et sarà bisogno fornirla alzandola circa dui canne di più”.
Nel 1578 la costruzione venne ripresa e completata proprio sul disegno del Camilliani che nei suoi studi progettuali, proprio per la sua importanza militare, l’aveva citata due volte. Disegnò un acquarello che raffigurava la torre a pianta circolare con basamento a scarpata e parapetto con merli.

Disegni di Camillo Camilliani (seconda metà del XVI secolo)
Da sinistra a destra: Il progetto di completamento delle Torri di Falconara e di Manfria;
edificazione della Torre “alla foce del fiume Dirillo”


Una “torre assai adatta alla difesa perché in comunicazione con il Castello di Butera a nord, con il Castello di Gela ad est ed a ovest con la Torre di Falconara (poi castello)”.
Intorno al 1620 (primo quarto del XVII secolo) fu ricostruita o comunque subì delle modifiche strutturali per assumere l’aspetto attuale. Secondo il Villabianca una ricostruzione voluta dal viceré Pedro Giron, duca di Ossuna.


Negli archivi della “Deputazione del Regno”, si cita che a partire dal XVIII secolo (anni 1717, 1757 e 1797) la guarnigione che presidiava la torre era costituita da quattro soldati ed un sovrintendente ( “torrari”) che era scelto tra i cavalieri della città di Terranova (Gela).
Nel 1804 sempre dagli archivi della “Deputazione del Regno”, si cita come sovrintendente “Don Mariano Carpinteri e Gravina, di Terranova”. Don Mariano fece costruire una scala esterna d’accesso, costituita da due rampe, che è ancora oggi visibile. Nel 1867 è citata nelle opere militari da dismettere.
I “Torrari” erano retribuiti dal Comune di Terranova (l’antica Gela) e provvedevano a segnalare le scorrerie dei pirati dal mare e ad effettuare una prima difesa militare con l’uso di archibugi, una bombarda e liquidi bollenti che venivano versati sugli assalitori dalle balconate o dalla caditoia posta sopra l’unico ingresso della torre.
Dalla Torre segnalavano il pericolo con l’uso di specchi e produzione di fumi durante il dì e con fuochi (fani) durante la notte. I segnali venivano percepiti dalle torri vicine: Falconara ad ovest, il Castello di Butera a Nord e dalla Chiesa di Santa Maria di Platea, ad est, il cui campanile aveva anche funzioni di torre secondaria di avvistamento e segnalazione.


Castello di Falconara


Castello di Butera


Gela – La Chiesa Madre, fine Ottocento
La Chiesa Madre fu costruita nel 1766  sul sito dove sorgeva la trecentesca Chiesa di Santa Maria de Platea.
Il termine “Santa Maria de Platea” è legato alla conservatoria dei documenti. Nella Chiesa si conservavano i documenti di proprietà dei beni e delle persone, tra cui schiavi e servi. Luogo che era chiamato “platea”.
La nuova chiesa fu completata nella prima metà dell’Ottocento ed è dedicata alla Vergine Assunta Madre di Gesù..Nella Cattedrale si trova anche un pregiato dipinto su tavola, con fondo in oro, raffigurante Maria SS. dell’Alemanna (o della Manna), patrona di Gela, che viene festeggiata l’8 settembre.
Foto dal sito: http://www.gelabeniculturali.it/CHIESE-CHIESA%20MADRE.htm

L’Icona della Madonna dell’Alemanna (o della Manna).
Una tradizione cita che fu portata da alcuni viandanti ebrei che furono ospitati nel territorio gelese. Come ringraziamento donarono ai Terranovesi un’ icona che era legata al miracolo del cibo ricevuto dal cielo, da Dio, agli israeleti durante l’attraversamento del deserto. Per questo motivo la chiamarono Madonna della Manna.
Un'altra tradizione la lega all’ordine religioso dei Teutonici di Santa Maria de Alemanna (Ordo domus Sanctae Mariae Teutonicorum) che fu fondato a S, Giovanni d’Acri (Israele) nel 1190 da cittadini della Lubecca e Brema. Nel 1198 l’ordine religioso fu trasformato in ordine cavalleresco. Secondo l’abate Rocco Pirri l’ordine Teutonico fondò a Terranova un tempio ed una casa, dipendente della Magione di Palermo, per alloggiare i pellegrini che si
Recavano a Gerusalemme. Un analoga fondazione avvenne anche nella città di Messina e il tempio
dedicato a Maria SS. dell’Alemanna.

La Magione di Palermo cioè la Basilica della SS. Trinità del Cancelliere
Nel 1197 fu concessa all’Ordine Teutonico

http://www.ilgeniodipalermo.com/itinerari/il-circuito-del-sacro/chiesa-della-magione.html


L’antico Santuario del XIII secolo dedicato a Maria SS. dell’Alemanna fu demolito intorno
al 1860 per essere ricostruito nel 1865. Durante la pestilenza dovuta al colera il Santuario fu adibito a lazzaretto.
Nel luglio 1943, durante lo sbarco alleato, fu colpito dai bombardamenti e saccheggiato dalle truppe!!!!!!!!!. Fu abbandonato e chiuso al culto nel 1969 e demolito nel 1973 per le sue precarie condizioni strutturali. Fu ricostruito e riaperto al culto il 15 settembre 1985. L’icona della Madonna, chiamata dal popolino “Saccaredda, cioè “acquaiola” perché dispensatrice di pioggia, era conservata in questo Santuario ed oggi si trova nella Chiesa Madre.
Foto dal sito: https://gela.italiani.it/festa-maria-ss-alemanna-patrona-gela/

Santuario della Madonna dell’Alemanna
La botola dove fu rinvenuta la Sacra Icona



Locandina con i festeggiamenti del 1898 in onore della Madonna “della Manna”
Foto dal sito: http://www.gelabeniculturali.it/CHIESE-CHIESA%20MADRE.htm

Gela, Chiesa Madre – Cripta della navata sud
Durante i lavori di rifacimento della pavimentazione della Cattedrale vennero alla luce diverse cripte. Si trattava di sepolture di nobili risalenti al ‘700.  Gli scavi hanno anche restituito diversi reperti di epoca greca e
anche il basamento appartenente ad un tempio greco.
http://www.gelabeniculturali.it/CHIESE-CHIESA%20MADRE.htm


“L’avviso d’aiuto”, emesso dalla Torre di Manfria, arrivava fino a Cammarana, a est di S. Croce di Camerina, e con gradualità alle altre torri. Nel giro di un’ora circa le segnalazioni arrivavano nei porti delle principali città dove erano ormeggiate le navi da guerra pronte a salpare in caso di azione militare.




Le segnalazioni erano inoltre dovevano raggiungere anche le città interne, le campagne, i casali, ecc.
Questo avveniva grazie alla presenza di torri secondarie come quella dell’Insegna e del Convento dei Padri Cappuccini.


La Torre Insegna di cui non c’è traccia.

Gela – La Chiesa e il Convento dei Padri Cappuccini,  con i frati e i seminaristi, negli anni ’50.
I Padri Cappuccini vennero a Gela nel 1574 prendendo possesso dell’antico convento abbandonato dei Frati Minori conventuali che risaliva al 1262. La chiesa, con pregevoli opere d’arte, risale allo stesso periodo. Il convento dopo la soppressione degli ordini religiosi ( R.D.3036 del 7 luglio 1866)  e durante la pestilenza di colera del 1867 fu prima trasformato in lazzaretto e poi nel 1870 in ospedale e ricovero per trovatelli. L’antico convento venne demolito negli anni ’50 per essere ricostruito con l’annesso Seminario Serafico.

http://www.gelabeniculturali.it/CARTOLINE%20RICOLORATE.htm




STRUTTURA  ARCHITETTONICA



Piante, sezione e prospetto della Torre Manfria
(https://www.icastelli.it/uploaded/castelli/1314953368.jpg)


(Torre di Manfria
Fronte Nord-Est con la scala del 1805 – Caditoia con finestrella e due mensole –
Finestra sulla sopraelevazione della terrazza)

Il primo piano è quasi interamente occupato da una cisterna e fungeva anche da deposito di legna, munizioni, spingarde, schioppi, polvere da sparo e palle da cannone.
Le pareti del piano terra sono a scarpata e prive di aperture.
Il fronte nord-est presenta una scala in muratura a due rampe che fu realizzata nel 1804 dal sovrintendente della torre Don Mariano Carpinteri e Gravina, di Terranova. Scala in muratura che sostituiva delle corde o una scala in legno amovibile.
La seconda rampa, appoggiata direttamente alla parete della torre, è sorretta da due archi. Permette, attraverso una porta con arco a tutto sesto, posta a livello del cordone bombato marcopiano, l’accesso diretto all’unico ambiente che costituisce il primo piano.
La porta è protetta da una caditoia con finestrelle di cui restavano due mensole.
La sopraelevazione sulla terrazza presenta una finestra rettangolare.
Sullo spigolo est della terrazza sono visibile tre mensole litiche di una originaria piattaforma aggettante.
Il prospetto sud-est presenta al primo piano una finestra rettangolare al centro della parete (posta a circa 1 metro dal cordone marcopiano). In questo lato l’intonaco originario era ben conservato soprattutto al piano terra. La mia visita alla torre risale al 1995…
 Il successivo fronte sud-ovest presenta anch’esso una finestra rettangolare, posta al centro della parete del primo piano, che è incorniciata da conci, mentre all’altezza delle terrazza erano visibili i tre mensoloni litici della piattaforma sullo spigolo ovest. Su questo lato il prospetto della terrazza era scomparso.
Il fronte nord-ovest è privo di aperture.



Il primo piano presenta un unico vano quadrato (5, 73 metri x lato) coperto da una volta a botte impostata sui muri sud-est e nord-ovest (lo spessore dei muri è di 1,90 metri).
Il vano porta, di metri 0,90 all’ingresso, si allarga verso l’interno fino a raggiungere la larghezza di 1,80 metri. Vano che presenta l’alloggiamento per la robusta stanga di chiusura.
Al centro della stanza si apre la botola circolare di collegamento alla cisterna. Al centro della parete nord-ovest c’è un ampio camino ad arco ribassato alto 1,90 metri e largo 1,65, mentre una finestra (larghezza del vano finestra: esterna 0,90 metri ed interna di 1,55 metri) si apre rispettivamente al centro dei lati sud-est e sud-ovest.
La scala di collegamento alla terrazza, posta in corrispondenza dell’angolo est, è ricavata nello spessore murario. Presenta una larghezza di 0,76 metri ed è costituita da 24 gradini. Una finestrella le dava luce e permetteva l’utilizzo della caditoia.
La terrazza è costituita da una rialzamento impostato sul parapetto. Lo spessore murario è di 0,50 metri ed ha chiuso o obliterato l’accesso alle due piattaforme angolari.
La sopraelevazione al tempo del sopralluogo regio di Mazzarella e Zanca, era ancora dotata di copertura a due falde anche se parzialmente semidistrutta. Quasi integro il pavimento della terrazza realizzato in belle mensole calcaree.


LE SEGNALAZIONI : I FANI SULLA TORRE
L’uso di fuochi e dei fumi emessi da una sommità naturale o artificiali (le torri), era una tecnica per comunicare a distanza molto diffusa nell’antichità. Cicerone la cita nel quinto libro delle “Verrine” come “un sistema precedente del tempo”.
Nel Mediterraneo il perfezionamento della tecnica e dei modi dei segnali è da attribuire ai greci.
È probabile che siano riusciti ad organizzare prima un sistema di alfabetizzazione dei segni capace di formare singole sillabe e successivamente vere e proprie frasi di senso compiuto.
La mitologia e la letteratura greca, da Eschilo ad Omero, sono ricche di riferimenti su questo tipo di trasmissione di messaggi.
Clitennestra, nell’Agamennone di Eschilo,  risponde al coro che le chiedeva come fosse riuscita ad avere così presto le notizie sulla caduta di Troia. Risponde dicendo avere avuto la notizia da Vulcano che grazie allo splendore dei suoi fuochi aveva propagato il messaggio sino ad Argo:
Coro : “ma quale messaggio potrebbe arrivare così presto di là ?”
Clitennestra: “Efesto, splendendo dall’Ida bagliore di fiamma/e fiammate fin qui suscitando fiammata/e il fuoco è il corriere……”


Siracusa – Teatro Greco – “Agammenone” di Eschilo

Omero nell’Iliade “trasforma” più volte  Achille in una sorta di “emittente” luminosa.  Questo avviene, ad esempio, quando Achille adopera il suo elmo per chiamare a soccorso i popoli vicini:
“… compariva la fiamma che aggirandosi intorno alla testa di Achille/ spargeva da
lontano il suo splendore…”
e poi ancora quando paragona il suo scudo:
“….(scudo) grande e pesante/ da cui lontano arriva il chiarore, come di luna/
come quando splende in mano ai naviganti il chiarore/
d’un fuoco accesso, ch’arde in alto sui monti/
in una stalla solinga, e i turbini loro malgrado/
li portan sul mare pescoso, lontano dagli amici/
così saliva all’etere il lampo dello scudo di Achille/
bellissimo, adorno, infine alzando l’elmo/
potente se lo calò sulla testa; come stella splendeva/
l’elmo coda equina, la chioma d’oro ondeggiava”
(Omero, Iliade, canto XIX, vv. 373-382).

Dante nella Divina Commedia, nel canto VIII dell’Inferno, descrivendo il proprio arrivo con Virgilio sulle rive dello Stige (uno dei fiumi degli inferi dove Teti immerse il neonato Achille per  dargli l’invulnerabilità. Non immerse il tallone, che non essendo toccato dall’acqua, rimase vulnerabile). Dante osservò i fuochi che dalle torri di vedetta segnalavano l’arrivo di due stranieri alla città di Dite:
“lo dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al pié de l’alta torre,
li nostri n’andar suso a lima per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. E io mi volsi
al mar di tutto ‘l senno; dissi”Questo che dice ?
e che risponde quell’altro foco?  E chi son quei che ‘l fenno?”
(La Divina Commedia, Inferno, VIII, 1-9)
I “diavoli” accendono “due fiammette” per comunicare che gli estranei in arrivo sono due. Nel periodo  era presente un codice ben preciso di comunicazione per fornire le maggiori informazioni possibili. Nei presidi costieri il numero dei fuochi equivaleva al numero delle navi in avvicinamento. Era necessario evitare equivoci ed errori, come citavano le istruzioni impartite, ad esempio, ai “torrari” genovesi nel 1449…
«vigilino con attenzione e scrutino fuochi e fumi che fossero fatti da occidente, e se vedranno un fumo esser fatto di giorno anche loro di giorno facciano un gran fumo così che la torre del Capo di Faro possa vederlo. E se vedranno tre falò fatti di notte anch’essi facciano tre fuochi insieme e contemporaneamente, ma divisi in modo che da lontano appaiano distinti, per evitare che a causa della vicinanza possano magari indurre in errore».

Interessante un disegno di Lucca, risalente al 1692, che illustra un ingegnoso sistema di traguardi per riconoscere al buio la provenienza dei segnali.
La prestigiosa Repubblica di Lucca già agli inizi del XVI secolo aveva modificato radicalmente il sistema difensivo
della città. Furono realizzate imponenti mura di cinta ( sempre più condizionate dall’evoluzione delle marmi da fuoco)
e anche una nuova organizzazione delle milizie. Nel 1532 fu riorganizzata la Milizia del Contado,
nel 1541 venne istituita la Milizia della Montagna e nel 1570 venne riformata la Milizia Urbana.
Per il territorio molto accidentato si rese necessaria anche una radicale revisione del vecchio sistema di comunicazione ottica che era basato sulla solita rete di torri visibili tra loro e strategicamente ubicate sul territorio dello
Stato Lucchese. Il sistema poneva al centro la Torre del Bargiglio che, grazie alla sua posizione sul monte che sovrasta
il Borgo a Mozzano, comunicava con la Torre del Palazzo di Lucca e con gran parte delle torri “delle sei miglia” e per questo motivo veniva
chiamata “L’Occhio di Lucca”.

Torre del Bargiglio
foto di:Riccardo Iacomini


Torre del Bargiglio


le segnalazioni venivano fatte di giorno con il fumo e la notte con i fuochi dalla torre di Bargiglio.
La Torre del Palazzo degli Anziani a Lucca, rasa al suolo nel 1807, aveva tre fanali alla sua sommità e sotto la terrazza c’era la “stanza delle vedette”. Qui 4 “torrari” si alternavano giorno e notte per vigilare sui segnali delle torri
del territorio. Per rendere più facile e più attento il lavoro dei “torrari”, nelle quattro pareti della “stanza delle vedette” furono fissati dei tubi di ottone, detti “mire o traguardi”, che erano puntati sulle torri del distretto delle “sei miglia”.

Un sistema di comunicazione ottica, un importante tassello nell’imponente fortificazione dello Stato della Nobile Lucca.



Lucca – Borgo Mozzano – Il Ponte del Diavolo
https://www.toscanaovunquebella.it/it/borgo-a-mozzano/il-capomastro-e-il-viandante


Interessante un documento che riporta i codici di segnalazione risalente al 1260…

«Se verrà avvistata gente nemica, qualunque sia il numero (...) si faccia un solo falò. Se invece verrà un piccolo drappello, duecento uomini poco più (…) si facciano due falò contemporaneamente, e li si alzi e abbassi due volte. Ma se contro di noi verrà moltissima gente o un esercito numeroso, si facciano tre falò contemporaneamente, e li si alzi e li si abbassi per tre volte».
Il Bono cita che le comunicazioni in Sicilia si avvalevano dei “mazzoni” (fasci di legna) posti sull’ “astracu” (terrazza) di ogni singola torre:
“avvistata un’imbarcazione o una squadriglia corsara, gli uomini della torre davano l’allarme. Di giorno si faceva una fumata bianca, provocata dalla bruciatura di fieno e arbusti cosparsi di bitume e un po’ inumiditi. A questo scopo su ogni torre erano predisposte grandi pignatte o cesti metallici al cui interno poggiava una graticola. In questi contenitori, che venivano fatti scorrere lungo dei pennoni perché raggiungessero un altezza maggiore, quando era buio si accendeva un
fuoco, che poteva essere visto dalle torri contigue.
Servendosi del numero, in genere da uno a tre e della durata di accensione dei fuochi, si poteva trasmettere qualche informazione sulle navi corsare”.
Di giorno l’elemento essenziale per il messaggio era il fumo. Era indispensabile porre un sistema idoneo per produrre molto fumo per un certo periodo. Costruire una camera di combustione era una necessità. Camera di combustione che poteva essere costituita anche da un grande recipiente. La buca o recipiente limita al combustibile la quantità di ossigeno occorrente per una buona alimentazione della fiamma e costituisce, pertanto, un adattissima fonte per la produzione di alte colonne di fumo, ottime per segnalazioni a grande distanza.

Era questo un sistema adottato dai Cartaginesi nell’età punica. Scavano profonde buche sulle montagne per produrre fumo con una visibilità a 360°.

Nella seconda metà del secolo XVI fu sperimentata una particolare codificazione curata dalla “Deputazione del Regno di Sicilia”.
Un messaggio militare che venne trasmesso per mezzo di un dispaccio con l’ordine di comunicarlo a tutti i “torrari”:

“…et  vedendo una infin a quattro vele facciate incontinente sendo di giorno un fumo;
et di quattro in otto vele due fumi et essendo da otto in dodici et più vele tre fumi;
et essendo di notte o di giorno nevoloso et oscuro facciate i midisimi segni con fuoco
inalzando et abbassando lume acceso tante fiate quanti segni v’occorrerà fare;
et acciochè abbiate pronta comodità di fare i sudetti segni terrete fatta provvigione
di frasca et anco vi potrete servire secondo il bisogno delli capi di canapo
che vi fanno assegnare”.
C’era poi i “fani di sicurtà o di sicuranza” che erano quei fuochi che restavano sempre accesi o restavano luminosi per lunghi periodi, a significare che in quell’area non esisteva alcun pericolo.
Questi fani potevano anche essere accesi sui campanili o sui luoghi elevati e facilmente avvistabili.


Un antica foto della Torre munita ancora della sua copertura.

La Proprietà fino al maggio 2016 era ancora privata (fratelli Sig.ri Jacono)
Il Comune di Gela fece una proposta ai proprietari della torre e di alcuni terreni limitrofi  per una permuta tra volumi identici e aree compatibili. Non so se la proposta fu accettata dai proprietari.



La proposta non fu accettata … Il “Quotidiano di Gela” il 21 giugno 2018 riportò la notizia “Pali e Cemento armato a ridosso della Torre di Manfria”.
Si trattava di una recinzione e naturalmente la polizia Municipale fece subito un sopralluogo e inoltrò una missiva alla Soprintendenza ai Beni Culturali perché il sito non solo è di alto valore  turistico ma è anche sottoposto a vincoli come pure l’area balneare.
Come riporta il Quotidiano, la messa in opera dei pali sembra sia stato ordinata dai legittimi proprietari di un podere limitrofo alla torre di Manfria. (con esattezza sono stati collocati delle travi con base in cemento armato).
Sul posto si sarebbero recati, oltre agli agenti della municipale, anche alcuni esponenti del consiglio comunale.
“Ho avvisato il proprietario Fabrizio Iacona – assicura il professore Nuccio Mulè – Era all’oscuro. Domattina andrà a vedere cosa sta realmente accadendo. Naturalmente sarò presente anche io”.
https://www.quotidianodigela.it/pali-e-cemento-armato-a-ridosso-della-torre-di-manfria-indaga-la-polizia-municipale/

Il territorio è tutelato dalla Comunità Europea come:

ZPS – Zona di Protezione Speciale
(Zone di Protezione poste lungo le rotte di migrazione dell’avifauna. L’obiettivo dell’istituzione di queste zone è il mantenimento di idonei habitat per la conservazione e gestione delle popolazioni di uccelli migratori- (Direttiva 79/409/CEE- Rete Natura 2000)

Codice : ITA050012
Denominazione: Torre di Manfria; Biviere e Piana di Gela
Superficie : 25057 ha

 Il territorio è tutelato dalla Comunità Europea come:
----------------------------------
SIC – Sito di Interesse Comunitario o Sito di Importanza Comunitaria – Direttiva 92/43/CEE
(Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatica, nota anche come Direttiva Habitat. Direttiva recepita in Italia dal 1997.

Codice: ITA 050011
Denominazione : Torre di Manfria
Superficie: 720 ha
Problematiche ambientali: numerosi interventi (villaggi turistici, lidi, gasdotti, cave, aree industriali ecc.) senza Valutazione di Incidenza o con Valutazioni di Incidenza difformi dall’art. 6 comma 3 della Direttiva Habitat. Grave nocumento dei numerosi habitat e specie prioritarie. Imminenti nuovi progetti a forte impatto negativo ( impianto fotovoltaico di enormi dimensioni ?).

Codice: ITA050001
Denominazione: Biviere e Macconi di Gela
Superficie: 3663 ha


REGIONE SICILIA
DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO DELLA LOCALITA’  MANFRIA
Decreto 21 gennaio 1987
GURS – PART. I N.9 – 28/02/1987






COMUNE DI GELA
Piano Regolatore del Comune di Gela
GURS Part. I , N. 51 – 24/11/2017






LA  LEGGENDA
" LA  TORRE E  MANFRINO,  IL GIGANTE  BUONO”


La torre è legata ad una leggenda secondo la quale il gigante Manfrino, buono e fortunato, era a guardia di un tesoro che era stato nascosto nel luogo. Una leggenda legata al ritrovamento di monete greche e romane in un sperone roccioso della zona. Sperone che oggi non è più visibile e che era interpretato, nella  fantasia popolare, come la sua orma lasciata proprio sulla roccia.
Il gigante aveva un bella sorella che per riservatezza non usciva mai dalla sua terra. La gente del luogo non sapeva nemmeno quale fosse il suo nome, era solo chiamata da tutti “la bella Castellana della Torre”.

Raccontando la leggenda mi è venuto in mente una figura del passato anche se collegata ad un film…
Il gigante buono, Michael Clarke Duncan, interprete del “Miglio Verde” e scomparso nel 2012.
Nel film vittima dell’invidia e della crudeltà umana.

Il feudo della Torre di Manfria arrivava vicino al castello di Falconara con cui confinava.  Il castello di Falconara era circondato da un bellissimo giardino con grandi alberi fruttiferi, palme, orti rigogliosi, ruscelli d’acqua limpidissima e una grande distesa di fiori. Fiori che il Gigante, dall’animo gentile, avrebbe voluto raccogliere per la gioia della sorella a cui piacevano.
La leggenda dice che il ricco Signore di Falconara aveva eredito tutto ciò da un Cavaliere di Malta di cui non si conosce il nome. Manfrino era sempre in giro per il suo feudo con il suo cavallo e un giorno vide in lontananza una bellissima figura femminile. Aveva una folta chioma bionda, vestiva con eleganza e mostrava una grande grazia, dolcezza nel muoversi. Una donna unica ricca di aspetti esteriori che non aveva visto in altre donne del luogo.  La donna camminava nei suoi campi in modo strano come se si fosse perduta. Manfrino spronò il cavallo per andarle incontro e quando stava per raggiungerla la bella figura femminile… svanì nel nulla.
“La Castellana di Manfria”, vedendo il fratello tanto afflitto dal ricordo di quella bella figura femminile, svanita nel nulla,  che ripetutamente cercava nel suo feudo, decise di organizzare una festa con la speranza di vedere tra gli invitati la ragazza  che il fratello adorava..
Alla festa parteciparono principi e nobili da tutti i luoghi della Sicilia… e proprio dopo pochi attimi dall’inizio della festa apparve, quasi furtivamente, la donna che il Manfrino aveva visto nel feudo.
Una figura così bella, cara e forse tanto distante dalle altre donne che ambivano alle ricchezze del gigante.
La torre con il suo feudo era conosciuta ed ambita da molti nobili. Nobili che nella loro avidità non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di entrarne in possesso. Manfrino però per la sua forza, per la sua altezza, metteva paura e nessuno si azzardava di molestarlo per non subire gravi conseguenze.
Ma quella sera tutta la nobiltà, tanti uomini e anche armati, intuì che era forse il momento migliore per agire contro Manfrino.
Alcuni nobili, dopo un conciliabolo, decisero di agire.. sprangarono la porta d’accesso alla Torre e uccisero tutti gli invitati e  per ultima, mostrando una feroce crudeltà, uccisero la “Castellana di Manfria”.
Il Gigante buono  non aveva tenuto conto dell’avidità, dell’invidia  e della superbia umana. Nel suo sogno d’inseguire un amore sfuggente finì con l’essere ucciso crudelmente da chi invece bramava, la fanciulla tanto amata e cercata aiutò con il suo comportamento i carnefici, tutto ciò che il Gigante buono possedeva.. “Uccisero il Manfrino, il Gigante buono  ma non poterono uccidere il suo ricordo e quelle grida d’aiuto che ancora oggi nelle notti serene, nella quiete silente del sito, ad orecchie attente non possono sfuggire”.



Fonte nord-ovest













Le foto evidenziano, purtroppo, uno stato di degrado. Non so se la situazione sia cambiata. Al momento della mia visita, nel 2012, la strada era costellata di rifiuti e la stessa torre, davanti allo scenario del Mediterraneo, l’antico “Mare Nostrum”, era in completo abbandono e questo malgrado la presenza di un cancelletto probabilmente più volte aperto. I muri pieni di graffiti, immondizia e tanto altro che testimoniano un incuria perenne.



MANFRIA
LA  ZONA  ARCHEOLOGICA

La zona di Manfria è costituita, dal punto di vista planialtimetrico, da un gruppo di colline di varia altezza e di varia natura geologica che delimitano verso occidente la Piana di Gela.
Colline che raggiungono l’altezza di circa 120 m s.l.m. e che si trovano tra la linea ferrata ed il mare intervallati dal passaggio della SS 115.
Dal punto di vista geologico la zona non è uniforme. Il gruppo di colline a Nord sono costituite da calcarei sabbiosi del Pleistocene mentre il gruppo di colline, compreso tra la Strada Statale e il mare, è costituito da strati di gesso (era del Miocene) alternati a strati argillosi e calcarei di tipo marmoso.
La loro posizione di privilegio sul mare e sulla Piana di Gela, ha consentito l’insediamento dell’uomo dall’età preistorica al Medioevo. Dai primi villaggi della prima età del Bronzo si passa alla successiva era media del Bronzo.
Dall’era media del Bronzo si giunge ai resti di fattorie e di impianti Greci che furono nella zona molto frequenti nel periodo che va verso la metà del IV secolo a.C. cioè dopo la ricostruzione Timolentea di Gela.
La zona fu abitata anche nel periodo romano ed esattamente nell’età Repubblicana e soprattutto, con una certa espansione, nell’età Imperiale. Sono numerosi resti rinvenuti nella località “Piano della Marina” limitrofa a Manfria. I rinvenimenti attestano pure una frequentazione di Manfria in età Paleocristiana e Bizantina. Non ci sono in zona resti della dominazione Araba. È questa una caratteristica strana dato che la località si trova non solo in vicinanza della fertile Piana di Gela ma anche in prossimità del mare.
La zona fu distrutta da Federico II di Svevia dopo aver fondato nel 1233, nel luogo dell’antica Gela, la città medievale di Terranova. La zona con il progredire del nuovo Feudo di Terranova fu abbandonata. Dal punto di vista archeologico la zona più interessante è quella posta a sud della Strada Statale 115 e costituita da tre colline in parte gessose e calcaree.
Verso Nord la collina di Zinglinò con la sua caratteristica cresta rocciosa; verso Est e verso Ovest da colline la cui altezza scende verso Est con un pendio in cui s’incontrano delle fattorie che sono indicate come “Case Manfria” (non so se ancora esistenti).



Le pareti delle tre colline sono costellate da tombe a forno della prima età del Bronzo e sono abbastanza numerose.. ben 125.
I loro corredi funerari erano costituiti da vasi fittili, coltelli di selce e ossidiana, asce di pietra, fuseruoli, chiodini, due primitive perle di bronzo, etc.


 Qui si trova il villaggio preistorico di “Manfria” la cui posizione geografica fu attentamente studiata dai suoi abitanti.
Esposto ad Est e a Nord, aveva la vista sul mare e sulla piana, e coperto alle spalle dal vento dominante di ponente da un arco chiuso di bassi costoni rocciosi che potevano essere facilmente adoperati come necropoli.
La zona era molto alberata dato che negli scavi furono trovati un gran numero di ossa di daini e cinghiali.
La stessa ubicazione del villaggio, vicino al mare e disposto sul pendio di piccole colline, è da attribuire ad una pacifica popolazione di Sicani della prima età del Bronzo.
Successivamente queste popolazioni abbandonarono le pianure costiere per rifugiarsi sulle montagne più impervie. Montagne che dal punto di vista topografico erano più disagevoli per un vivere civile ma utile per la difesa militare da eventuali nemici. Le stesse montagne del Diseuri, a Nord della Piana, offrirono un rifugio sicuro.
Nel villaggio di Manfria accanto all’insediamento abitativo si nota anche l’antica zona degli scarichi. Tra le due zone, il villaggio e la zona degli scarichi, esisteva, non so se ancora oggi è visibile, un sentiero che le separava.
Una caratteristica dei villaggi Sicani era la loro reciproca vicinanza in modo da formare una piccola catena di tribù sparpagliate ma sempre vicino alla costa o in prossimità di sorgenti.
Famiglie che conducevano una vita semplice, pacifica, molto diversa da quella delle comunità della tarda età del Bronzo (Pantalica, Diseuri, Cassibile) ed il cui sorgere segna l’abbandono quasi totale delle ridenti ma indifese zone costiere.
L’abbandono dei villaggi è messo in relazione con l’arrivo in Sicilia dei Siculi, dei Morgeti e degli Ausoni di Lipari, tutte popolazioni Italiche.
Il villaggio presenta 9 capanne e doveva essere abitato da circa 50 persone, probabilmente uno o due clan familiare.


Le capanne sono costruite soltanto dove il terreno presenta un sottostante strato d’argilla cristallino, nel quale scavare i profondi buchi destinati ai pali di sostegno delle capanne.
Le fasce di terreno prive di questo strato argilloso, sono invece destinate allo scavo di profondi fossi.
Le case erano costituite da pali che sorreggevano il tetto e le pareti. Un tipo di costruzione comune ad altri villaggi dell’isola ( in età Neolitica a Stentinello e a Megara Iblea; nell’età del Bronzo a Cannitello, a Lipari e Morgantina; nell’età del Ferro nel Colle di Metapiccola; anche sul Colle Palatino a Roma erano presenti simili capanne).
Le pareti verticali erano costituite da canne, rami ed argilla mentre il tetto, conico o a schiena d’asino, era costituito da paglia. Capanne che erano circondate da muretti di protezione di pietre a secco.
La pianta era generalmente di forma ovale più o meno allungata. La pianta ovale e rettangolare delle abitazioni  sono presenti nei villaggi dell’età del Bronzo anche se la pianta ovale è maggiormente diffusa.


Modellino capanna - ,Museo Sant’Angelo Muxaro


Una caratteristica di queste capanne, presenti nel villaggio di Manfria, è l’esistenza nel vano di una o più nicchie semicircolari che potevano avere la funzione di semplici ampliamenti della capanna o tentativi di una prima divisione degli ambienti o di ripostigli.
Il diametro dei buchi dimostra come queste nicchie fossero sorrette da pali più piccoli ed esternamente le stesse nicchie dovevano avere l’aspetto di piccole absidi con tetto semiconico appoggiato al fianco della capanna.
Un altro aspetto è il rinvenimento di resti dei pavimenti delle capanne che è costituito da un sottile e liscio strato d’intonaco biancastro con sottofondo d’argilla, gettato su un riempimento misto di argilla e detrito arenario (calcite e sabbia).
La cronologia è varia com’è dimostrabile dall’analisi dei vari pavimenti. Alcuni utilizzavano il fondo gessoso mentre altre ebbero sin dall’inizio il pavimento intonacato.
In una prima fase le capanne erano forse infossate mentre nella fase finale sono poste a livello del piano di campagna. Si tratta di modifiche sempre avvenute nella prima età del Bronzo.
Perché il villaggio fu abbandonato ?
Due capanne presentano degli strati di terra nera e grigia come se fossero state distrutte da un incendio.
Nei buchi furono rinvenuti dei vasi fittili e non si sa per quale motivo abbandonati nel sito. Potrebbe trattarsi di un abbandono volontario da parte degli abitanti della capanna che diedero fuoco alla loro capanna come per un rito propiziatorio per un nuovo trasferimento.

Il villaggio è composto da nove capanne divise in due gruppi: uno meridionale ed uno settentrionale. Intorno una serie di focolari e forni disposti in modo che il villaggio fosse sopravento. A fianco vi sono le zone degli scarti.
La zona si può quindi suddividere in:
-          Area dell’abitato;
-          Area dei forni;
-          Area dei rifiuti.
-          L’area della necropoli più discosta.
Di grande interesse è la suddivisione delle capanne in due gruppi separati da un grande spazio al quale ambedue hanno accesso.
Una capanna di dimensioni maggiori delle altre è presente in ogni gruppo.
La capanna n. 3, di abitazione perché vi sono stati trovati oggetti riguardanti la vita dimestica (filatura, cottura dei cibi, ecc.) per il settore settentrionale e la capanna n. 9 per quello meridionale.
Nel primo caso in base all’elevate percentuale di coppe su piede, vaso comunemente legato al consumo dei cibi e dei vasi per bere, doveva trattarsi di un ambiente dove si svolgevano delle riunioni che prevedevano l’assunzione di cibi e bevande. Il suo “proprietario” doveva rivestire un ruolo di una certa importanza in seno alla comunità.
Il gruppo di capanne meridionali ha un proprio spazio interno (“cortile”) destinato alla fruizione dei suoi abitanti mentre lo spazio maggiore, “piazza”, era fruito da tutti gli abitanti.
Al limite occidentale, sempre del settore meridionale, è presente un’altra grande capanna, la n. 9, che sembra posta in un modo strategico perché dà sia sul cortile interno che sulla “piazza”. Questa capanna è la sola che è in stretto rapporto con un focolare mentre le altre sono un po’ più discoste. Cosa comprensibile considerando la struttura lignea delle capanne facilmente incendiabile.
Orlandini nel suo libretto di scavi scrisse: “il nuovo villaggio di Manfria apparteneva dunque a una delle tante tribù sicane fiorite nel tardo Neolitico e nella prima detà del Bronzo attorno alla Piana di Gela e scomparse all’arrivo dei Siculi verso il 1250 a.C., allorchè al posto dei villaggi sparsi sorse sulla montagna del Diseuri, poderosa acropoli naturale, un nuovo e grande centro preistorico che dominerà da lontano la deserta piana di Gela fin quasi all’arrivo dei coloni greci”.




Capanna n. 9

Una grande capanna dalla pianta ellittica e circondata da un muretto a secco di pietrame ancora  visibile una decina d’anni fa. Lunga 10,30 m e larga 3,25 m. presenta ben 17 buchi, poco profondi (25 cm) di cui cinque destinati a sorreggere il tetto e disposti lungo l’asse della capanna.
È l’unica capanna a contatto con un vasto forno (I) che è tangente al lato ovest della capanna. Sul fondo gessoso sono stati trovati i resti di un battuto in argilla cotta. Per la sua grandezza era probabilmente destinata ad un esponente importante del villaggio. Forse il capo o una persona che aveva importanti funzioni sociali.
Nella capanna furono rinvenuti numerosi reperti tra cui un pregiato fornello fittile:



Capanna n. 3


La Capanna n. 3 è la più ampia ed anche la più strana per la presenza su tre lati di nicchie dalla pianta semicircolare.
La disposizione dei buchi per i pali, uno centrale e sette laterali, riconducono alla pianta ellittica della capanna. Comprese le nicchie misura (9, 50 x 6,60) m. Non vi sono state trovate tracce di pavimenti. I buchi in totale erano 15, di cui otto per la capanna, due per la nicchia nord e 5 per quella est.
Il fondo gessoso si trovava a 1,25 m di profondità e il buco per il palo centrale era profondo 1,00 m e largo 0,70 m.
Le tre nicchie semicircolari ci danno l’ida di un primitivo tentativo di suddividere la capanna in ambienti o può anche darsi che si tratti di successivi ampliamenti.
Si tratta di una capanna con tre absidi che non ha riscontri in Sicilia. La presenza di nicchie laterali si ritrova nelle planimetrie delle tombe ispirate probabilmente alle abitazioni.
Le tre nicchie non sono uguali fra loro. La nicchia Nord è la più regolare in quanto il suo piano coincide con quello della capanna. Ha due buchi per pali per cui si deve considerare come un vero e proprio ambiente collaterale.
La nicchia Est era invece molto profonda, simile ad una piccola grotta, e presentava sul fondo 5 buchi dal taglio molto obliquo. Probabilmente vi erano inseriti dei pali fortemente inclinati verso l’interno della capanna.
La terza nicchia, sul lato Ovest, era di forma molto regolare e non presentava buchi per pali. Era costituita da una sola cavità naturale ricavata nello strato gessoso ed era quindi un vero e proprio ripostiglio. Il pavimento della nicchie Est ed Ovest era a circa -1,75 m dal piano di campagna. Erano state scavate nello strato gessoso, in modo da trovarsi al di sotto del livello superiore dei buchi per il pali della capanna (50 cm).
Nel corpo principale della capanna furono rinvenute un gran numero di ossa, in quantità maggiore rispetto alle altre capanne. Il maggiore quantitativo di ossa fu rinvenuto nella nicchia ovest insieme ad una discreta quantità di cenere.
Furono rinvenute nello strato superficiale della capanna numerose ceramiche tra cui alcuni attingitoi.


-          Un attingitoio di forma leggermente biconcava con decorazione quasi svanita a linee verticali sul corpo e a zig-zag lungo l’orlo;
-          Un altro attingitoio di forma globosa e con la stessa decorazione del precedente;
-          Attingitoio di colore rosso vivo, decorato a linee verticali sul corpo e orizzontali lungo l’orlo;
-          Attingitoio dal colore rosso brillante con decorazione a linee verticali sul corpo e rettangoli e quadrati sull’orlo.



I FocolariI focolari si trovano tutti all’esterno delle capanne e sono disposti a semicerchio verso il lato meridionale del villaggio. L’impiego di materiale infiammabile come legno, paglia e canne per la costruzione delle capanne, può spiegare la disposizione all’esterno del villaggio sia dei focolari che dei forni.
I focolari sfruttavano le cavità dello strato gessoso. La novità è data dalla presenza dei forni che dovevano servire sia per la cottura degli animali uccisi durante la caccia sia per la cottura dei vasi di ceramica.
Questi forni erano profondamente scavati nell’argilla e avevano dimensioni varie (da 3 m a 10 m) e una forma caratteristica. Erano formati da due cavita del fondo più o meno ellittica e separate da un cordone d’argilla che non fu tolto al momento dello scavo. In alcuni casi attorno a questi forni c’era una buca circolare che serviva forse come scarico di cenere (presente nei forni E-M) e che erano pieni di cenere al momento del loro rinvenimento. Anche i forni al momento del rinvenimento furono trovati pieni di cenere.
Il forno H era il più vasto e complesso. Era formato da due profonde cavità maggiori e da due cavità minori che avevano probabilmente la stessa funzione delle fosse circolari degli altri forni.
Diverso è il forno L a pianta circolare con fondo intonacato e muretti di protezione in argilla. Questo forno era inserito in una vasta cavità ellittica e aveva accanto un altro piccolo forno del tipo a doppia cavità. È probabile che servisse per la cottura dei vasi. Il forno circolare era largo 2,90 m all’esterno e 2,00 m all’interno; quello più piccolo era largo 2,00 m ed era situato ad un livello più basso di quello principale di circa 40 cm.










Il villaggio di Manfria risale all’antica età del Bronzo  che è contraddistinta dal sorgere di comunità  organizzate dal punto di vista sociale ed  economico. La principale “facies” di questo periodo è la civiltà di Castelluccio (Noto) che è presente in quasi tutta la Sicilia ad eccezione delle Isole (Eolie, Pelagie, Ustica e Pantelleria), dell’estrema punta della Sicilia Occidentale ed a una regione che è costituita dalla provincia di Messina, lungo la costa tirrenica, sino a giungere a Palermo.  In quest’ultima area  è presente una civiltà che fu indicata con il termine di “Rodì- Tindari-Vallelunga””RTV”. Civiltà  che è legata ai rinvenimenti di importanti reperti da parte di vari importanti archeologi:
-          Tomba di Vallelunga, trovata da Paolo Orsi;
-          Necropoli di Longani, scavi eseguiti da Bernabò Brea
-          Tindari.
Una civiltà che era sconosciuta e Bernabò Brea affermò che il materiale della “facies” si trovava in realtà in quasi tutta l’isola.
La civiltà di “Castelluccio”, secondo gli archeologi si sviluppò nell’ambito della “facies” di “Rodi- Tindari- Valleunga”, come un miglioramento tecnico della produzione ceramica. Una ceramica decorata in bruno su fondo rosso, o non decorato e comunque che non presenta incisioni. I motivi sono essenzialmente geometri e sembrano ripetitivi ma in realtà presentano ricchissime varianti sul tema. Si diffondono gli oggetti in metallo, in rame o bronzo come pinzette, chiodini, pugnaletti a lama triangolare, ecc.
Il Villaggio di Manfria è da attribuire, come rileva lo stesso Orsi, all’età del Bronzo ed esattamente alla civiltà di Castelluccio circa cioè “1800 – 1400 a.C.”.

MANFRIA - VILLAGGIO - ANTICA PLANIMETRIA CATASTALE





In merito ai Sicani che probabilmente abitarono il villaggio di Manfria la critica storica ancora si confronta sulla loro origine.  Filisto di Siracusa e Tucidide affermarono che erano di origine iberica mentre per Timeo di Tauromenio (Taormina-Me) erano di orgine autoctoma. Lo stesso Tucidide citò i Sicani che “un tempo erano presenti in tutta l’isola e che furono cacciati dalla loro terra a causa dei Liguri”. I Sicani secondo queste fonti erano presenti lunga la “paralia” cioè quel territorio che divideva l’Iberia dalla Gallia e dall’Italia. Vennero probabilmente cacciati dai Liguri che giunsero in quel luogo.
Anche Pausania il Periegeta affermò che in Sicilia vi giunsero tre popoli: “Sicani e Siculi e Frigi; i primi due giunsero dall’Italia mentre il terzo dalla Troade”.
I rinvenimenti archeologici hanno confermato quanto tramandato dalla tradizione letteraria secondo la quale i Sicani giunsero in Sicilia prima dei Siculi ( secondo Tucidice  giunsero in Sicilia intorno al 1050 a.C.) e successivamente ci furono dei contrasti e delle lotte tra le due etnie (come confermano le distruzioni dei villaggi di Mokarta e Sabucina).
I Sicani giunsero in Sicilia verso la metà del XIII secolo a.C. e si stanziarono nei settori centrale e sudoccidentale dell’isola.

PROBLEMATICHE DEL TERRITORIO DI MANFRIA
Gli aspetti culturali del territorio di Manfria non si limitano solo all’area del villaggio, distribuita su una superficie di circa 3000 mq, e alla Torre. In un area collinare prospiciente “Piano Marina”, di proprietà della famiglia Insinga, ci sono i resti di un insediamento protostorico con  una necropoli paleocristiana con tombe rettangolari, scavate nella roccia calcarea, e in origine chiuse da lastre di pietra. Nelle contrade Monumenti, Stallone e Mangiova, sono venuti alla luce insediamenti riferibili ai periodi romano imperiale, tardo- romano e bizantino.
Un patrimonio culturale nel più completo abbandono e spesso oggetto di “visita e studio” da parte dei tombaroli. Sono aree private per cui è necessarie prima di entrare nei terreni chiedere il permesso…..



Regione Siciliana
Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
 Dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art.138 del D.lg. n.42/05 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), del tratto costiero compreso
tra le zone di “Falconara” (Butera) e “Manfria” (Gela).

Posizione Archivio: 9/A/CL
Comune : Gela
Bene : Contrada “Manfria”
Decreto: 3479 del 13/10/77
Foglio e P.lle: 1782 del 24/07/86

Avviso:






Commenti

Post popolari in questo blog

MONTE PELLEGRINO (R.N.O.) - Palermo - "Il Promontorio più bello al mondo.." -

PIETRAPERZIA (Caltanissetta) – Il castello della Principessa Dorotea Barresi “Grandes de Espana de primera grandeza” - La triste storia di uno dei castelli più belli della Sicilia..

MONTE PELLEGRINO (RNO)(PA) – LA GROTTA DELLE INCISIONI