LA VIA FRANCIGENA DELLA VAL DI NOTO

LA CATTEDRALE DI NOTO -  L'EREMO DI S. CORRADO FUORI LE MURA -  
LA VALLE DI SANTA CHIARA (VALLE DEGLI DEI ) CENNI (VIDEO)
SANTUARIO DI SANTA MARIA LA SCALA DEL PARADISO -
SANTUARIO DI SANTA DI LUCIA DI MENDOLA (VIDEO)







Indice
1.      Noto – Cattedrale di San Nicolò  - L’urna di San Corrado Confalonieri
2.      Eremo di San Corrado Fuori Le Mura
3.      Monastero di Santa Maria La Scala del Paradiso
4.      Santuario di Santa  Lucia di Mendola



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1.      Noto – La Cattedrale di San Nicolò – L’Urna di San Corrado Confalonieri


La costruzione della Cattedrale, di San Nicolò Vescovo di Mira, risale al 1694, dopo il terremoto del 1693, e fu aperta al culto nel 1703. Tuttavia nel corso dei secoli ha subito vari interventi  sia all’esterno che all’interno.

Nel 1848 crollò la cupola che venne ricostruita su progetto dell’ing. Cassone.  Il 13 marzo 1996 ci fu un altro rovinoso crollo che rase al suolo la navata destra e la navata centrale.




L’interno della Cattedrale prima del  Crollo






Per la ricostruzione fu effettuato un percorso a ritroso verso la riappropriazione di tecniche e materiali che nel Settecento erano la base del sapere di ogni architetto e di ogni “capomastro” e che nel tempo si sono perdute.

Le parole dell’Arch. Tringali e dell’Ing. De Benedictis, che hanno sviluppato il progetto di ricostruzione, sono emblematiche in merito..”la ricostruzione della Cattedrale di Noto ha segnato la riapertura di un cantiere del Settecento alle soglie del terzo millennio, nel quale materiali millenari, come la pietra calcarea e la calce, si sono coniugati con altri più moderni  ed innovativi, quali le fibre di carbonio, e dove le antiche tecniche sono state supportate dalle tecnologie più avanzate, come quella utilizzata per sostituire nella navata sinistra, i pilastri non crollati. La ricostruzione della Cattedrale costituisce un esempio unico di costruzione di un monumento, interamente in muratura, in zona sismica”.
Del gruppo di progettazione faceva parte anche il prof. Antonino Giuffrè che scomparve in modo prematuro e che lasciò all’arch. Tringali e all’ing. De Benedictis  importanti insegnamenti per la realizzazione della ricostruzione.


Conclusi i lavori di ricostruzione, l’edificio fu riaperto al culto il 18 giugno 2007. L’interno è a tre navate, a croce latina, e custodisce numerose ed importanti opere d’arte. L’Urna argentea contenente le spoglie mortali di San Corrado Confalonieri si trova nella prima cappella di fondo della navata destra ed è visibile solo durante i festeggiamenti.













L’urna sembra che sia opera dell’argentiere Claudio lo Poggio nel 1554 quando il beato Corrado Confalonieri fu dichiarato santo. L’artista impiegò quasi due anni per eseguire la preziosa opera che era più semplice dell’attuale. Nel 1781 fu infatti restaurata e arricchita c on un lavoro che durò due anni dal 1781 al 1783. Il restauro fu eseguito da argentieri di Noto e di Catania.



Alle spalle dell’altare maggiore, in marmi policromi, c’è un bellissimo trittico, risalente alla metà del XIX secolo, raffigurante S. Nicolò (al centro), San Corrado (a sinistra) e S. Guglielmo.


Cappella di San Corrado


Copia ottocentesca (1809) dello “Spasimo di Sicilia” eseguita

dal pittore siracusano Raffaello (o Raffaele) Politi (Siracusa , 1783 – Agrigento, 1870).

Un opera che ricalca la composizione della tavola di Raffaello Sanzio che il Politi
osservò in Spagna al fine di realizzare la tela di Noto.


Dalla Cattedrale di San Nicolò percorrendo la SS 187 si raggiunge l’Eremo di San Corrado.

2 . Eremo di San Corrado – La Vita di San Corrado Confalonieri - La moglie - L'incendio -
     I miracoli - Protettore dei malati d'ernia - La morte e le sue reliquie - L'Eremo -  
     I festeggiamento in suo onore



Nella Frazione di San Corrado di Fuori prendendo la Via Don Orione si ha la possibilità di abbreviare il tragitto, di circa 1500 m e di 20 minuti,  per raggiungere l’Eremo di San Corrado.
(Nella pianta allegata la scorciatoia è indicata con punti rossi. I luoghi potrebbero non rispecchiare la planimetria a causa di vari interventi che si sono verificati nel tempo).







Corrado  Confalonieri nasce nel 1290, secondo la maggior parte della critica storica,  a Piacenza nel “Castrum Calendaschi” non molto lontano dalle rive del fiume Po. La sua è una nobile famiglia e viene quindi avviato agli usi ed ai costumi della cavalleria.

Castello di Calendasco


Vignetta del Cinquecento
Il castello di Calendasco (Piacenza), Catsrum Calendaschi, fu costruito per
volontà del vescovo, Sigifredo ?,  Conte di Piacenza intorno all’anno 1000.
Il territorio di Calendasco era un suo feudo e la prima citazione del castello risale al 1187.
Si tratta di un documento  di papa Urbano II in cui venivano confermati i
diritti di proprietà dei monaci di San salvatore di Quartizzola sul centro di Calendasco.
Il castello con l’hospitale dei pellegrini costituiva il “burgi Calendaschi”.
San Corrado sarebbe, secondo alcuni fonti, nato nel castello.
La famiglia Confalonieri era feudataria “bonis ed juribus” della zona di Calendasco.
Alla fine del XIII secolo il castello era di proprietà delle famiglie Palastrelli e Scotti.

A Calendasco, in Via Mazzini 13, si trova l’antico hospitalia dei pellegrini della Via Francigena.
 La struttura ospitò nel XIV secolo il Santo Corrado Confalonieri.
L’esistenza giuridica dell’hospitalia di Calendasco, lungo l’asse viario della
Via Francigena, è attestato da un importante documento secondo il quale..
“ nel 1280 i Penitenti Lombardi si riunirono in  Capitolo Generale e Piacenza per
una verifica delle fedeltà al progetto di vita penitenziale e formularono alcune
norme riguardanti l’osservanza del Memoriale proposti dalla “regola antica”
di San Francesco  e dal cardinale Ugolino nel 1221 (Gregorio IX).
Contro i trasgressori vennero comminate sanzioni espiatorie o pecuniarie”.
Fu un capitolo con ampia partecipazione, perché i Penitenti francescano erano
premurosi nel garantire la funzionalità e l’autonomia dell’Ordine.
Il questo Capitolo i Penitenti stabilirono anche di tassarsi per coprire le spese per
l’approvazione ufficiale della “regola antica”.
Affidarono ad uno di loro, frate Elia di Ferrara, il compito di raccogliere le offerte.

I Confalonieri erano una nobile famiglia e possedevano numerosi feudi. In particolare sulla riva destra del Vezzano, poco distante da Celleri di Carpaneto Piacentino, sorge un castello dei Confalonieri che è indicato oggi come Torre dei Confalonieri mentre in passato era indicato con l’appellativo di “Castello Vecchio di Celleri”. Secondo alcuni storici in santo sarebbe nato in questo castello.

Castello di Celleri
Nel 1520 Gian Luigi Confalonieri, dopo la beatificazione di San Corrado,
dispose la costruzione nella torre di un oratorio dedicato al Santo

La sua vita da giovane era ricca di divertimenti e di svaghi… la caccia era la sua grande passione.
Il periodo era contrassegnato dallo sviluppo dell’Ordine Francescano e dal gran numero di laici che vi aderirono.
A Piacenza i Confalonieri erano stimati come appartenenti ai guelfi, di salda fede papale.
Poco distante dal castello di Calendasco, era presente il piccolo eremo-hospitio per i pellegrini e poveri gestito dai frati Penitenti riconosciuti dall’Ordine Terziario di S. Francesco.
All’età di venticinque anni, (1315) durante una ricca battuta di caccia con servi, cavalli, cani, furetti, falconi e astori, non riuscendo a stanare la selvaggina, decise di dare fuoco a dei cespugli. Il fuoco, alimentato dal vento, si propagò paurosamente  con notevoli danni ambientali.  Cercò con i servi di spegnere il fuoco ma fu tutto vano e tristemente tornò nella sua casa padronale. Naturalmente in quei momenti ordinò ai suoi servitori di non rilevare l’origine del danno.
In un atto di locazione del 1589 si legge di una vasta zona comprensiva di boschi, tra San Nicolò a Trebbia (frazione di Rottofreno) e Calendasco, che ancora oggi è chiamata “La Bruciata”.

Dal sito :

Il prof. Umberto Battini nella sua ricerca mise in risalto gli antichi “Statuti Piacentini” datati tra il 1322 -1327 di Galeazzo I Visconti, di Milano e Signore di Piacenza, che morì nel 1328. La compilazione degli Statuti sarebbe avvenuta, secondo gli storici, in un periodo compreso tra il 29 dicembre 1322, data in cui ritornò al potere, e il 1327 anno in cui fu deposto. (Nel periodo preso in esame Corrado Confalonieri, essendo nato nel 1290, aveva un’età di 32 – 37 anni).
Gli Statuti furono quindi compilati nel 1323 cui si aggiunsero delle norme che furono confermate nel 1336 da Azzone Visconti.
Le norme che trattano gli incendi riferiscono che..” Munita di sanzione penale penale era soltanto la norma relativa all’incendio doloso, e la pena variava a seconda dell’entità del danno arrecato... tuttavia il condannato poteva sottrarsi alla pena corporale pagando al Comune la somma di 200 lire entro quindici giorni dalla condanna, e risarcendo completamente il danno”.
Per la cessione dei beni in caso di dover pagare per un danno causato, quale appunto l’incendio, oltre alla forma della espropriazione dei beni da parte del potere civile, poteva essere attuata “la volontaria cessione di tutti i beni da parte del debitore”.
È inutile dire che diversi luoghi sono stati indicati come siti dell’incendio appiccato dal Corrado ma in particolare un luogo sembra essere il più accreditato.
Non lontano da Calendasco, a circa 4 km in direzione di San Nicolò a Trebbia, c’è ancora oggi una località chiamata “La Bruciata” … una denominazione di antica memoria.


 In una pergamena dell’11 gennaio 1589 riporta l’investitura di un fondo terriero di 200 pertiche fatta dai monaci di Quartazzola (località a pochi chilometri da Piacenza e vicina al fiume Trebbia) ad Cesare Viustino che è erede del “fu Alfonso”.
L’atto riporta che lettere sono poste nel territorio di Calendasco, in direzione di San Nicolò e nel luogo detto “alla Brugiata”…un’area agricola di ben 200 pertiche…. cioè circa 50 “campi di calcio”.  Un terreno costituito da campi coltivabili, vigneti, zone a bosco… Naturalmente indicare nel’ 500 , ad oltre due secoli circa dall’incendio causato dal Confalonieri, è significativo perché l’incendio sarà stato così devastante da condizionare anche la toponomastica della zona e la memoria della gente.
Una carta sempre dei frati Bernardini di Quartazzola del 23 giugno 1654 testimonia del fitto di terre ad un certo signor Viustino (discendente dell’altro prima citato) poste alla “Bre” in territorio di Calendasco che sono al ridosso confinale con i paesi di San Nicolò e Santimento..

La notizia dell’incendio e dei danni conseguenti, giunse in città a Piacenza dove era signore Galeazzo Visconti, acerrimo ghibellino. Le guardie del Visconti si recarono sul luogo e trovarono un contadino che, accusato del rogo, fu imprigionato. (Il contadino, altre fonti parlano invece di un vagabondo, stava bruciando delle stoppie nel suo terreno e venne quindi arrestato. Non riuscì a dimostrare la sua estraneità all’incendio della foresta). Le leggi di allora erano spietate per i piromani.. c’era la condanna a morte e se non ricordo male anche la scomunica papale. I danni causati dall’incendio furono gravissimi: distrutta o danneggiata la piccola foresta, colpiti i campi di frumento, alcune fattorie.
Corrado venne a conoscenza dell’accusa rivolta al contadino che peraltro fu costretto a confessare un misfatto mai compiuto. Il Confalonieri, mentre il contadino transitava scortato dalle guardie davanti alla sua abitazione,  fermò il piccolo corteo dichiarandosi responsabile dell’incendio. Le guardie risposero che non era possibile sospendere l’esecuzione senza un provvedimento. Corrado liberò con la forza il prigioniero e lo nascose in casa.  


A questo punto era necessario presentarsi davanti al Visconti per dichiarare le sue colpe. Una decisione travagliata, sofferta e che fu presa in accordo con la moglie Eufrosina (Eufrasia), (secondo altre fonti Giovannina).
Corrado si presentò quindi a Galeazzo Visconti. La situazione era difficile. Corrado non poteva essere giustiziato perché era un nobile e a complicare la realtà c’era il forte contrasto tra la famiglia Confalonieri ( guelfa) e il Visconti (ghibellino) per motivi politici.. La sentenza fu dura… “condannato al risarcimento dei danni”.
La famiglia Confalonieri liquidò Corrado assegnandoli le proprietà che gli spettavano per pagare il debito all’inquisizione civile. Il vasto feudo di Calendasco restò alla famiglia Confalonieri, come figura nel XV e XVI secolo, fino alla confisca farnesiana del 1586.


Stemma dei Confalonieri

Vistarini di Lodi 

Corrado per pagare il debito fu costretto a vendere anche i beni della moglie e si ridussero in povertà.
Corrado disconosciuto dalla propria famiglia finì anche con l’essere oltraggiato e deriso dai nobili a cui fino poco tempo prima era legato nei suoi momenti di vita.
La solitudine, i rimorsi di coscienza, lo portarono ad un travaglio interiore che aveva alla base anche la sua educazione ai valori cristiani forse mai seguiti.
Nella sua famiglia c’era stata una figura religiosa, la beata Adelasia Confalonieri (1193 - 1266).
Nel suo travaglio interiore decise di seguire l’esempio dei poveri frati della Penitenza di San Francesco e a ricercare un luogo per adempiere alla sua nuova missione di vita.
In accordo con la moglie Eufrosina,  nobildonna della famiglia dei Vistarini di Lodi, decise di vendere quel poco che gli era rimasto dei suoi immensi beni e di donare il ricavato ai poveri.


Secondo la regola Francescana, Bolla Supra Montene del 1289 di papa Gregorio IX, relativa ai laici uomini e donne convertiti alla Penitenza del Terzo Ordine, decisero di entrare in convento: Eufrosina nelle Clarisse di Piacenza  e Corrado nel piccolo eremo-Hospitio dei Penitenti di Calendasco.


Nel piccolo hospitalia viveva insieme ad altri frati sotto la guida di Frate Aristide. Frate Aristide che circa dieci anni prima era stato chiamato a Montefalco per costruire il nuovo convento delle Clarisse, voluto da Santa Chiara di Montefalco.
(Si legge nella Istoria di Montefalco che la Beata Chiara, “saputo che erano venuti in Italia
alcuni Religiosi del Terzo Ordine di S, Francesco, di recente approvato dal
Pontefice Nicolò IV, nella città di Tolosa di Francia, mostrò il vivo desiderio di
conoscerli e di conferire con loro. Bastò questo pio desiderio della Beata,
perché un’individuo della cospicua famiglia Bennati, si maneggiasse per farli
venire in Montefalco, e riuscitogli donò loro il sito per fabbricarvi un Convento, che fu
quello, dove è oggi la Chiesa di S. Rocco nella Villa di Camiano, e perché ivi eravi
una grande quantità di quercie e di altri alberi silvestri, i detti religiosi furono
chiamati i Frati della Selvetta, e dal loro sorgere sul mattino a dare le lodi al Signore
chiamavano ancora Frati della Selva Matutina….restarono i suddetti religiosi nel Monastero di
San Rocco fino all’anno 1526 dal quale partiti edificarono un altro Convento su i confini del
Territorio di Giano con la medesima denominazione di Convento della Selvetta, in memoria
del primo da loro abitato presso Montefalco”.


Eufrasia, moglie di Corrado Confalonieri, in quale convento delle Clarisse si ritirò?
Sul nome della moglie non tutti gli storici concordano. Sono documentate due lettere risalenti al 1610 - 1611, relative ad una corrispondenza fra i giurati di Noto e di Piacenza, in cui la moglie di Corrado è chiamata Giovannina.
Nel 1610 i giurati di Noto spedirono una lettera in triplice copia (una ai giurati di Piacenza, una al duca Farnese ed un'altra al vescovo Rangoni) in cui  “veniva fatto sapere che alcuni storici locali informati s’erano fatti opinione che il Castrum Calendaschi fosse appunto di proprietà del Nostro santo e alienato come indennizzo”.
Nella lettera di risposta del 1611 ai Giurati di Noto si affermava “l’alienazione dei beni del Santo” e si comunicava che la probabile moglie “del Santo Corrado si chiamava Giovannina e risultava essere rintracciata in antichi registri del convento di Santa Chiara ancora vivente a tutto il 1356”.
Probabilmente una volta entrata il convento prese il nome di Giovannina.
Il convento delle Clarisse a Piacenza risalirebbe al 1230 e sorse in una zona “extramuraria” dove oggi si trova il convento di Santa Chiara, all’inizio dell’attuale strada Farnese. Una strada fatta costruire negli anni Trenta del Cinquecento dal cardinale Gambara, legato dell’Emilia Occidentale, che curò il riassetto urbanistico della città dopo la costruzione delle nuove mura volute da Clemente VII.






Storia e leggenda si uniscono nel racconto e arricchiscono le pagine di sentimenti che non possono non toccare il cuore. L’addio tra Corrado e la moglie Eufrasia  fu certamente ricco d’amore e di nostalgia, e  la donna, forse inconsapevolmente, chiese al marito quando si sarebbero rivisti. Corrado si era ormai staccato dagli aspetti terreni e con lo sguardo rivolto alla ricerca di un segno superiore rispose: “ Quando l’acqua si può tirare con il cesto (paniere)”.


Dopo un iniziale periodo di sconforto, Corrado riuscì a piccoli passi a trovare nella fede la forza per reagire mostrando la sua forte adesione al Vangelo di Cristo.
L’hospitio in cui si trovava era anche un hospitalia per i pellegrini della Via Francigena che arrivano nel luogo per poi proseguire per Roma o per la Francia.
Con loro era umile, servizievole, e riusciva ad unire la preghiera con l’attività manuale rivolta all’accoglienza dei pellegrini che erano bisognosi di cure per i lunghi tragitti.
La voce si sparse nel territorio e Corrado diventò subito una guida spirituale importante per la comunità. I fedeli si avvicinano a lui per avere coraggio e consigli.
Nei piccoli momenti di riposo leggeva i libri dei Padri della Chiesa e decise un giorno di compiere un pellegrinaggio alla vota dei luoghi sacri di Roma.
Questo viaggio fu importante nella vita spirituale di Corrado. La sua vita eremitica acquistò i connotati dell’”xenitalia” cioè il definitivo abbandono della sua patria natia e di tutto ciò che rappresentava.
Vestito umilmente, un abito di panno grigio secondo l’uso dei penitenti, con sandali e un bastone, partì come pellegrino per Roma.
Prima di giungere a Roma si ferma ad Assisi per pregare il corpo del Santo del quale aveva condiviso l’abito di terziario. Prosegue per Roma e giunge a Brindisi dove s’imbarca per la Terra Santa per giungere a Gerusalemme.
Nel suo viaggio di ritorno si fermò a Malta, meta di sosta obbligata per tutte le navi che da Gerusalemme tornavano in Italia. Fonti storiche narrano di come Corrado fece un primo tentativo di vita eremitica a Malta ma fu cacciato dalla gente locale ed è costretto quasi a fuggire.


Giunse in Sicilia nel 1339/43 (?), era partito da Calendasco nel 1325. La sua prima città siciliana fu Palermo, che non viene citata da molti critici storici, dove però si fermò poco tempo. La sua anima, ancora inquieta,  aveva bisogno di solitudine e la città non era certamente adatta allo scopo.
Per il suo disegno di vita eremitica, apprende da altri frati, che il luogo adatto era la Val di Noto. 
Si recò quindi a Palazzolo Acreide dove però fu accolto duramente dalla popolazione fino al punto da rischiare la vita.
Corrado lasciò il luogo inseguito dai cani che gli abitanti del luogo gli lanciarono contro.. lui che in passato inseguiva la selvaggina   ed ora gli avvenimenti subiti gli crearono un motivo di grande dispiacere.
Giunse nella città di Noto nel 1343 dove, la gente tranquilla e da sempre attenta alla fede, lo accolse  con tranquillità e dignità.
I momenti di vita di Corrado Confalonieri furono riportati in un manoscritto del XIV secolo che fu redatto subito dopo la sua morte  per essere deposto nell’urna che raccolse le sue spoglie mortali. Un manoscritto che fu riletto durante il processo di canonizzazione. Ma da chi fu scritto ? Sull’autore del manoscritto non si hanno certezze. Potrebbe essere stato frate Michele Lombardo Vetrano, compagno di Corrado Confalonieri, o Padre Eugenio Guiti, confessore di Corrado o ancora, forse entrambi.
(In merito a Guiti, non si hanno notizie di un frate con questo nome. Probabilmente si tratta di un errata lettura dell’abbreviazione “pviti”/Previti cioè “prete). Del manoscritto si persero le tracce finchè, dopo laboriose ricerche, fu ritrovato nel secolo scorso, da Corrado Avolio. Fu rinvenuto fra manoscritti di epoca posteriore in un grosso volume conservato nell’archivio della Cattedrale di Noto.
Nel manoscritto in merito al suo arrivo a Noto  fu riportato: “ Et da poy frati currau vindi a la terra di nothu, undi chi havia multi boni homini e devoti pirsuni: Et li gitadini di la terra di nothu appiru grandi consolacioni di quistu homu ki paria di bona et honesta vita” (“Quindi fra Corrado venne alla Terra di Noto, dove viveva gente buona e devota: i cittadini di Noto ricevettero gran conforto da quest’uomo che sembrava conducesse morigerata e onesta vita”.

Un amico del luogo, un certo Joanni di Miniu (Giovanni di Mineo – Mineo è un centro vicino Caltagirone, in Provincia di Catania) gli indicò un luogo, detto “Le celle”  ( “ a lu locu di li chelli”) vicino alla chiesa di Santa Maria del Crocifisso a Noto Antica.


Noto Antica prima del terremoto del 1693 (sulla sinistra in alto la Chiesa del SS. Crocifisso e le “celle”).


Abitava in una cavità, fuori le mura della città, lavorava il terreno che gli era stato affidato e lo trasformò in un rigoglioso frutteto.
Alle “Celle” Corrado conobbe Guglielmo Buccheri, un ex nobile e scudiero di Federico III d’Aragona, che aveva scelto, anche lui dopo un forte percorso interiore, di condurre una vita eremitica. Lo ospitò ed i due eremiti strinsero una forte amicizia.


Guglielmo Buccheri

Nacque a Noto nel 1309 dalla  nobile famiglia Buccheri. Giovanissimo entrò a fare parte
della corte del re di Sicilia, Federico III d’Aragona di cui diventò uno degli scudieri.
Nel 1337, all’età di 28 anni, durante una battuta di caccia nei boschi dell’Etna, vide un cinghiale
assalire il sovrano. Guglielmo si gettò sull’animale riuscendo a salvare Federico III ma si ferì
gravemente ad un fianco. Fu portato subito a Catania dove i medici riuscirono a constatare
la gravità della ferita e  nello stesso tempo dichiararono che non c’era nulla da fare.
Il povero Guglielmo era in agonia quando gli appare Sant’Agata che gli rivolse la frase:
Sorgi Guglielmo, Fratello mio, abbandona la corte e va nella solitudine, dove Dio parlerà al tuo cuore”.
L’indomani Guglielmo, fra lo stupore dei medici, si alzò perfettamente guarito.
Si recò dal suo sovrano, che lo accolse con gioia, e gli rilevò la visione di Sant’Agata e del suo
desiderio di intraprendere la vita eremitica. Il re cercò di persuadere il suo scudiero cercando di
trattenerlo ma fu tutto vano. Il sovrano gli regalò un cavallo e una borsa di denaro. Partì da Catania per raggiungere Noto e nei pressi del fiume Simeto, nella località “primosole (dove oggi c’è un ponte che attraversa il Simeto)
incontrò un mendicante con cui scambiò i suoi abiti donandogli il cavallo e la borsa di denaro.
Giunse a Noto Antica dove andò ad abitare  nell’eremo detto “le Celle”  vicino alla chiesa di
Santa Maria del Crocifisso. Qui si dedicò alla preghiera e al servizio dei poveri fra lo stupore dei cittadini.
Cittadini che lo avevano visto bello e orgoglioso vicino al re e adesso nelle umili vesti di eremita francescano.
Qui nel 1340 Frate Guglielmo accolse  frate Corrado Confalonieri.


La gente del luogo cominciò a rendergli visita per consigli e preghiere ma in Corrado era sempre più vivo il desiderio di una solitudine estrema. Dopo due anni decise di andare via.
I due frati tra il 1342 e il 1343 andarono via dall’eremo “Le Celle”.  Sembra che tra i motivi per cui i due frati andarono via da Noto Antica ci fosse quello legato alle continue visite di un nipote di Fra Buccheri, un certo Pietro Buccheri, che “non sopportava che lo zio avesse abbandonato la corte reale e si fosse dato alla vita di misero eremita”. Sembra che Fra Buccheri sia andato a Scicli, per vivere in una misera e piccola casa adiacente alla Chiesetta di Santa Maria della Pietà, esistente al di fuori dell’abitato.
Fra Corrado, sempre su consiglio del suo amico “ Joanni di Miniu”, decise di andare “a lu desertu, luntanu di la terra tri miglia, ad un locu ki havia nomu li pizzi undi esti una cava, ki chi curri unu fiumi”(“al deserto, lontano tre miglia dalla terra (di Noto), in un luogo chiamato li Pizzi (o Pizzuni), in cui si trova una cava attorno alla quale scorre un fiume).
Sembra comunque che i due frati abbiano abitato insieme, per un piccolo periodo di tempo, entrami nella località Pizzuni e successivamente fra Buccheri si postò a Scicli.


Nel territorio erano presenti delle grotte che erano state usate o usate ancora da alcuni penitenti. Qui iniziò un nuovo capitolo della sua vita. Preghiera e duro lavoro perché trasformò quel luogo quasi inospitale in un giardino piantandovi aranci, alberi di noci, peri e svariate varietà di vitigni.
Riusciva ad irrigare il tutto con l’acqua del vicino fiume.






La tradizione popolare ha arricchito l’immagine di San Corrado anche di sentimenti umani legati all’isolamento. “In un periodo in cui era ancora giovane”, fu vinto dal desiderio di rivedere per pochi attimi la moglie con cui aveva condiviso la scelta di una vita eremitica. Partì, come per un  pellegrinaggio, per raggiungere il monastero di Santa Chiara a Piacenza. Giunto al monastero si fermò nei pressi e attese per giorni. Finalmente un giorno vide la moglie Eufrasia… la raggiunse e con la voce rotta dall’emozione, la pregò di riempirgli la fiasca con dell’acqua fresca del pozzo.. siamo in estate e faceva tanto caldo.
Eufrasia fu imbarazzata davanti a quella richiesta perché non poteva esaudire il desiderio dello sconosciuto.. l’unica secchia che possedeva le era stata sottratta…”Prendi la cesta che hai dappresso e calala nel pozzo” le disse il “mendicante. Eufrasia rispose all’invito e sollevò la cesta dal pozzo colma d’acqua. Il frate si dissetò  e la donna gli riempì la fiasca. Il “mendicante” s’allontano in silenzio, forse piangendo e scomparve nel nulla. Dopo un breve attimo ritornarono alla mente le parole  dell’antica profezia del marito quando si salutarono per prendere diverse vie di vita anche se restarono legati nella Fede in Cristo.
Anche qui la gente si accorse subito della sua presenza. Viveva di poco pane e la gente cominciò a recargli delle pietanze a base di legumi.
Un giorno mentre tornava da Noto, dove era stato a consolare un devoto, passando per le botteghe dei sarti fu invitato in casa di uno di questi artigiani. Aveva un figlio di sette anni affetto da una forma gravissima d’ernia inguinale che gli aveva deformato i testicoli rendendoli grossi come pani.
Il sarto chiese aiuto a frate Corrado, chiedendogli qualche buona medicina per il suo bambino. Corrado s’avvicinò al bambino e lo benedì. Dopo pochi istanti, fra Corrado aveva già lasciato quella casa, il bambino chiamò suo padre dicendogli di essere guarito.
San Corrado diventò il protettore dei malati di ernia e le cronache citano la sua grotta visitata di continuo da malati di ernia e questo sia in vita che dopo la morte (anche con pellegrini provenienti da fuori dell’isola, soprattutto dalla Calabria).

La voce dell’avvenuta guarigione si sparse subito e frate Corrado fu costretto quando si recava a Noto a nascondere quasi il suo volto abbassandosi il cappuccio e sbrigava velocemente le sue necessità per tornare nella grotta.



Viveva in solitudine lavorando umilmente e un giorno il notaio di Noto, Bartoluccio Longo, che era  devoto al frate, gli mandò con un garzone due fiaschi di vino. Il garzone, malizioso, ne nascose uno nel bosco e l’altro lo consegnò a Corrado che, con il grande stupore del giovane, gli chiese dov’era quello mancante. Il giovane garzone ammise la colpa e, come gli aveva predetto lo stesso frate, trovò sul fiasco nascosto una serpe velenosa. L’allontanò con un bastone e portò il fiasco a Corrado che lo ammonì a non ripetere mai più un gesto simile.
Il garzone raccontò l’avvenimento al suo padrone che lo rimproverò per la cattiva azione.
Un devoto andò a visitarlo. Nel ritornare in città, tra i boschi, fu sorpreso da un forte temporale. L’uomo spaventato si riparò in una grotta e si addormentò. Corrado che stava pregando nella sua grotta vide in spirito l’uomo addormentato che sarebbe morto colpito da un fulmine. Subito lasciò la preghiera e si recò nella grotta dove trovò l’uomo ancora addormentato. Lo portò nella sua grotta e gli rivolse dei sermoni.
L’uomo riferì l’avvenimento in paese e questo naturalmente fece aumentare la stima della comunità nei confronti del frate.
Un giorno un garzone gli stava portando dei legumi. Forse inconsapevolmente o per un volere del diavolo, il garzone sbagliò strada e finì in un anfratto roccioso ove rimase pericolosamente al limite di un crepaccio.
Fra Corrado stava pregando e vide lo spirito di quel giovane in pericolo che gridava aiuto. Lasciò la grotta, si recò sul luogo e scendendo con una corda riuscì a salvare il giovane. Il giovane una volta tornato a casa raccontò l’avvenimento al padre.
Le tentazioni, la lussuria furono sempre tenute lontane dalla sua vita grazie alla sua Fede.
Un giorno il diavolo fece venire a Corrado il desiderio di mangiare carne di maiale.
Da un suo devoto si fece portare in dono della “longa” di maiale. L’appese con un uncino in mezzo alla grotta e riuscì a resistere per ben 10 giorni a non toccarla, fino a quando la carne si riempì di vermi.. la prese e la gettò..  Chiese ad un suo devoto una forma di formaggio e una volta giunto a casa, chiamò il figlio Corrado e gli diede la forma di formaggio da consegnare al frate. La moglie del devoto chiese al marito cosa se ne facesse il frate di una forma così grande di formaggio, lui che era solo.
Il devoto non rispose e mandò il figlio da Corrado. Una volta giunto nella grotta consegnò il dono e il frate lo benedisse con la mano. Divise il formaggio in due e metà la consegnò al giovane affinchè la riportasse alla madre dicendogli “ questa metà è di tua madre e questa è di Gesù Cristo”. Il giovane raccontò poi l’accaduto al padre che restò meravigliato.
Fu ancora tentato nella gola di mangiare una cassata, si fece portare farina di orzo e delle fave. 
Corrado impastò con acqua la farina e le fave e le mise al sole ad arrostire. Quando l’impasto sembrava cotto,  lo spezzò … emanava un cattivo odore.. in beato ne fu disgustato e gettò il tutto…Satana fu sconfitto nella tentazione.
Venuta la stagione dei primi fichi, Corrado ebbe il pensiero di mangiarne qualcuno. Si recò presso l’albero e ne prese uno… lo ruppe per metà e guardando la pianta vide che ne era piena e dopo averlo odorato si spogliò nudo….si rotolò dentro a un grosso cespuglio di ortiche e di rovi, rigirandosi dentro fino a colare sangue.
Anche stavolta il diavolo fu battuto da questo asceta che mostrava ormai al mondo la forza del suo abbandono totale alla Provvidenza ed alla sola preghiera a Dio.


L’eremo “Le Celle” di Noto Antica era stato  un dono di re Federico III d’Aragona a Guglielmo Buccheri, suo ex scudiero ed ora frate francescano. C’erano delle cavità che furono ampliate e altre adattate per  renderle abitabili. Qui come abbiamo visto frate Buccheri e frate Confalonieri vissero un paio d’anni. Un giorno fra Guglielmo portò suo nipote da frate Corrado per essere guarito. Corrado lo guarì e gli predisse anche la sua vita futura… una vita piena di pericoli… una volta il giovane fu assalito da un branco di lupi e successivamente in un confronto bellico fu catturato ed impiccato dai nemici.

La notorietà di fra Corrado si era ormai diffusa e il vescovo di Siracusa volle andare a Noto per incontrare il frate. Arrivò nella grotta e vide che era completamente spoglia, solo nuda roccia, senza letto, né pane tranne una grossa zucca.
Corrado accettò la benedizione del vescovo che si fermò nel giardino a mangiare con i suoi servitori e il seguito. Corrado invece si ritirò nella sua cella per poi ritornare subito con quattro pagnotte calde.
Davanti ad una scena simile il vescovo s’inginocchiò e disse “E’ più che non si dice”… Corrado con umiltà rispose che quei doni erano una grazia di Dio.
È inutile dire che il vescovo tornò a Siracusa meravigliato di quello che aveva visto.
Il frate riceveva molte visite e soprattutto molti inviti. Un giorno un devoto l’invitò a casa a mangiare del pesce. Corrado rispose che sarebbe stata per una prossima volta perché il pesce era stato mangiato dai gatti. L’uomo tornato a casa seppe dalla moglie che i gatti avevano mangiato tutto il pesce.. l’uomo ripensò alle parole del frate e raccontò il tutto alla moglie.

Molta gente lo prendeva in giro… certi giovani lo invitarono a mangiare pesce un venerdì santo… il tranello era ben studiato… anziché pesce gli avrebbero fatto mangiare della carne… consumato il banchetto i giovani cominciarono a prendere in giro il frate accusandolo di aver mangiato della carne di Venerdì Santo. Corrado era ancora seduto nella mensa e invitò i giovani a guardare i rimasugli del cibo.. squame, spine, code di pesci…  “voi avete mangiato della carne, io del pesce”…a quella vista i giovani si pentirono del loro gesto e chiesero scusa.. furono rimproverati e Corrado tornò nella sua grotta.

Quando stava ai Pizzoni alcuni giovani, guidati dal diavolo, decisero di bastonare il frate.. Fra insulti molti forti, lo bastonarono con tanta violenza da lasciarlo a terra tramortito mentre il frate pregava Dio di avere per loro Misericordia.
I giovani si allontanarono per poi fermarsi a vedere il comportamento del frate. Corrado, con fatica, si rialzò tutto malandato e chiamò i giovani a sé.. questi credendo in una reazione tornarono baldanzosi sul povero frate per colpirlo nuovamente… il frate mostrò loro delle pagnotte calde e li divise fra tutti… i giovani accettarono il dono e lo mangiarono,  dopo di che se ne andarono pensando che nessuno li avesse visti nel loro grave crimine.
Quando la notizia giunse a Noto i responsabili furono subito arrestati e condotti in prigione.
Ci fu il processo e venne chiamato a testimoniare anche fra Corrado… furono portati al suo cospetto e gli chiesero di riconoscerli. Corrado rispose “non mi paiono quelli”“perché quando mi batterono, erano armati ed irati, ed ora erano attaccati e tremavano di paura”. Corrado comunque non li accusò e la giustizia in ogni caso li condannò e sembra che morirono in carcere.
Molti furono i danni, le furberie  e le tentazioni nei confronti del santo. Corrado perdonò sempre  e non fece mai mancare il suo venire incontro ai bisognosi della popolazione di Noto. Popolazione che fu salvata nei momenti critici come la terribile carestia che fu descritta dall’autore del manoscritto del XIV secolo.
Vi fu un tempo in cui la carestia colpì duramente quella terra di Noto e della Sicilia, così tanti uomini e donne e bambini, soprattutto tanti bambini, andavano da lui a chiedere pane ed egli riceveva pane celeste ed a ciascuno di quei piccini dava una pagnotta calda e li sfamava e tantissime genti vennero e trovarono sempre pane caldo: egli a tutti faceva la carità di Gesù Cristo con amore.
Fra Michele Lombardo, che visse alcuni tempi con Corrado, e che ne scrisse anche la vita, raccontò di come il santo uomo vivesse in astinenza dai cibi e dalle bevande e nella quaresima non mangiasse pane ma solo legumi e non bevesse vino.
Fra Corrado andava scalzo, con la tonaca aderente al suo magro fisico e faceva vita ordinata alle cose di Dio così come conveniva a colui che aspirava all’unione mistica con Dio Padre.

Corrado fu fra i cittadini per pregare… aiutare e a “moltiplicare pani per sfamare i suoi devoti più poveri e, soprattutto, i bambini”…
Così riporta il manoscritto…”un tempu essendu multa fami, ki li agenti murianu di fami, et li homini, et li donni, et li pichulilli: et multi pichulilli andavano a lu beatu corradu, et dichenu ò patri dunani un pocu di pani, et li beatu corradu dichia si figlu, si a deu plachi, et dichia stati icza. Et lu beatu corradu si mictia in oracioni, subitu li vinia pani celestiali, chaskidunu di quilli pichulilli li dava una guastella, et multi homini grandi, cussì fu sintutu, ki multi chi indivenenu pichuli, et grandi, et altri pirsuni, et illu a tanti fachia la caritati di jesu xpu cum amuri”.
(“ Ci fu gran carestia, tanto che la gente moriva di fame: uomini, donne, bambini. Molti bambini si recavano dal Beato Corrado e gli dicevano: Padre, dacci un po’ di pane. Il Beato Corrado diceva: sì figlio, se a Dio piace. E diceva anche: rimani qua. Il Beato Corrado incominciava a pregare e subito scendeva il pane celeste. A ogni bambino dava così una pagnotta ed anche a molti adulti. Si sparse la voce e grandi, piccoli e persone di ogni condizione vi si recavano. Egli faceva a tanti la carità di Gesù Cristo con amore”.



Si recò a Siracusa per confessarsi dal vescovo… nel suo procedere era circondato da una moltitudine d’uccelli che gli stavano addosso…
Era amato dalle genti tanto che quando si recava a Noto per confessarsi dal prete della chiesa di S. Pietro il Nuovo, era costretto ad andarci di notte perché la gente non disturbasse la sua azione.


Una volta, avendo tagliato una grande pietra della roccia nella sua cella, non riusciva a rigirarla per cui andò a chiamare alcuni buoni giovani che lietamente vennero a dargli aiuto. Quando furono alla nuda grotta rocciosa e videro il macigno dissero che non sarebbero certo riusciti a smuoverlo essendo veramente troppo grande e pesante. Corrado benedisse con la mano il masso facendo il segno della croce e tutti assieme levarono ed alzarono come leggerissima la roccia e la portarono fuori della grotta.
Rimasero i giovani meravigliati del prodigio ma Corrado, entrato nella cella, subito ne uscì con tanti pani caldi quanti erano i buoni giovani. 
Meravigliati i giovani mangiarono e con grande devozione verso il santo uomo se ne andarono al loro lavoro.
L’esempio di povertà e umiltà di Corrado attirò alla grotta un giovane che volle farsi suo servitore e frate; istruito su tutti i lavori corporali e spirituali il garzone divenne ricco in virtù. Ma il demonio fece entrare nella mente del giovane il desiderio di una donna e quindi deciso a prendersi moglie volle abbandonare il vecchio eremita.

 Corrado lo mise in guardia prevedendogli alcune sciagure: predisse che avrebbe trovato in uno stivale una serpe, patendone grande paura, poi avrebbe rischiato la morte in una lite e per ultimo, andando per strada con una lancia in mano, sarebbe caduto sulla stessa ferendosi gravemente. Il giovane se ne andò vinto dal demonio, si spogliò dell’abito di frate e prese moglie, e tutte le cose predette gli accaddero e la sua fine fu miserevole.
Passarono gli anni e Corrado si avvide che ormai era venuto il tempo in cui avrebbe reso lo spirito a Dio.

Confidò questo ad un suo devoto che molto amaramente pianse alla triste notizia. Corrado predisse che alla sua morte il popolo di Avola e di Noto si sarebbero contesi il suo corpo per la sepoltura: solo lui, il suo amico devoto, avrebbe potuto prendere il corpo per il rito funebre.
Senti, come non mai, il desiderio di confessarsi e padre Guiti, come era solito fare, andò a trovarlo. I due parlarono a lungo e poi alla fine il padre diede a fra Corrado l’assoluzione.
Andò nella sua cella, si mise a pregare in ginocchio, come era solito fare, alzò gli occhi in alto e disse “Onnipotente Dio, ti raccomando l’anima mia e di ogni creatura; liberami, Signore, dalle mani del Demonio, chè io non vada a vedere i nemici, i quali si tormentano nell’inferno; o Signore, stendi la tua mano e dammi aiuto”.
Ci fu una grande luce sul suo capo .. e spirò… Sembra che il padre Guiti fosse presente al momento della morte di Corrado.. che spirò mentre pregava… senza alcun gemito tanto che lo stesso padre Guiti non si rese conto del trapasso perché il frate rimase in ginocchio…. Era il 19 febbraio 1351..


Nel manoscritto si legge:
Ora quandu illu fu trapassatu, li campani di nothu et di aula tucti accuminsaru assunari fortimenti, ki pir tali modu sunavanu li campani, ki li cordi andavanu supra li mioli et non li putenu piglari, et li popoli andavanu arrimurri di quistu miraculu, quisti homini di nothu dissiru, homu santu esti trapassatu et tutti andavanu a li chelli, lu bonu homi frati, lu quali havia nomu frati guglelmu, et dissurili, nni cridemu ki tu fussi trapassatu: non su eo, altru esti; quandu auderu quisti paroli illi sindi andaru a li pizzi e cursiruchi multi agenti armati cu balestri: et cum lanzi, et quandu junsiru à la gructa truvaru lu beati corrado in ginuchiuni; et quando sunaru li campani di aula li agenti di aula happiru nova di quillu beatu corradu k’era trapassatu. E parterusi a viniri pir piglarulu ananti di quilli di nothu”.
(“Or quando egli morì, le campane di Noto e di Avola incominciarono a suonare a distesa, tanto che le funi dei batacchi si libravano sopra le cicogne, senza che nessuno potesse afferrarle. Fra la popolazione si diffuse gran turbamento per questo miracolo e si sparse subito voce che un uomo santo era salito in cielo; si pensò a fra Guglielmo, che era uomo pio. Tutti corsero alla sua dimora e, vedendolo in vita, gli dissero: pensavano che fosti tu ad esalare l’ultimo respiro. Non io, ma altri: rispose il frate. Quando i presenti udirono queste parole, corsero al luogo chiamato Li Pizzi. Molti accorsero armati di balestra o di lancia, e quando giunsero alla grotta trovarono il beato Corrado in ginocchio. Anche gli abitanti di Avola appresero, al suono delle campane, la notizia del trapasso e subito si misero in cammino per arrivare prima dei devoti di Noto e impossessarsi delle spoglie del beato Corrado”).

Intanto i cittadini di Noto avevano fatto una cassa di legno ma “quando stavano per pigliare il beato corpo per metterlo nella cassa, questo fremeva e tremava mormorando, e nessuno lo poteva toccare.
Allora fra Michele, l’amico del beato, l’unico cui era concesso di toccare il corpo, si avvicinò, prese il corpo e lo mise nella cassa. Ma il corpo nella cassa fu tanto lungo che non vi entrava. Allora fecero un’altra cassa più lunga ma anche in questa non entrava: il corpo si allungava miracolosamente”.


“I Netini temevano che gli Avolesi venissero a prendersi con la forza il corpo del beato ed infatti arrivarono in grande turba, armati di balestre e lance e dardi, pavesi, spade e coltelli. Allora quelli di Noto vedendo arrivare in tal modo quelli di Avola, presero il beato corpo di Corrado e lo portarono fuori della grotta e si incamminarono lungo la ripa della valle.
Quelli di Avola si misero al passo ad aspettare armati di tutto punto che giungessero con il corpo i Netini per levarglielo.
Accortesi degli armati che li attendevano gli uomini di Noto misero il corpo dell’eremita in mezzo a loro per difenderlo e si prepararono a battaglia.
Iniziò una dura battaglia con l’uso di dardi e frecce, le due turbe si scontrarono per un pezzo ma fu un miracolo di Dio che nessuno ebbe male e ognuno si ritrovò con in mano la propria arma come se mai l’avesse usata”.
I cittadini di Noto ed Avola capirono come il santo non voleva spargimento di sangue e decisero di ricorrere ad un vecchio stratagemma.
Si concordò..”senza obiezione alcuna, che si scegliessero quattro degli uomini più forti e valorosi sia dell’una che dell’altra parte; anzi, i netini si rimisero nella propria scelta agli avolesi, i quali non poterono non essere contenti in quanto vedevano così volgere le sorti in loro favore (sarebbero stati i primi a svolgere l’azione). Si provarono per primi gli avolesi a spostare la cassa contenente il corpo del Santo: ma per quanti sforzi facessero l’arca non si mosse d’un solo pollice. Quindi, fu la volta dei netini, e la cassa si fece miracolosamente leggiera che neanche se ne avvidero”.
Nel Cinquecento il sacerdote Gerolamo Pugliese solennizzò con una sua ottava in lingua siciliana, l’avvenimento:
“Li quattru Notigiani valurusi
spinsiru quella cassa allegramenti,
undi li membra santissimi inclusi,
erano di Corradu piu e clementi;
e caminaru poi vitturiusi,
pr’andari a Notu gluriusamente,
Te Deum laudamus cantavanu in via,
devoti Salmi e Laudi a Maria “

(“ I quattro valorosi netini,
spinsero festosamente la cassa,
che conteneva le sacre spoglie
di Corrado pio e clemente;
e procedettero con animo vittorioso
per giungere a Noto avvolti nella gloria,
Te Deum laudamus cantavano per la via,
devoti salmi e Laudi a Maria ).

Tornarono in città felici, con “il corpo in mezzo a loro”, tra inni di lode a Dio.
Portarono la salma a Noto Antica, entrarono dalla porta della città  e s’avviarono verso la chiesa di Santa Maria del Crocifisso. La vara si fece improvvisamente pesante e i portatori non riuscirono più a muoversi.
I Neatini dissero. “Andiamo alla Chiesa Madre” (posta nella Piazza maggiore). La vara diventò leggera e procedettero verso la Chiesa. Una volta entrati nell’edificio si verificarono tanti miracoli. Riacquistarono la salute tanti “storpi, zoppi, orbi e muti e diverse infermità”.
Il suo corpo fu quindi deposto nella Chiesa e dopo il terremoto del 1693 fu portato nella Cattedrale di Noto.
Un grande frate e nella sua vita traspare anche una forte devozione verso la vergine Maria come dimostra la preghiera che Corrado recitò ad un suo amico devoto che gli aveva chiesto di insegnarli a pregare.
Il suo saluto era..”La Pace sia con te” oppure “Cristo ti dia la pace”.

In epoche successive il racconto della vita di San Corrado s’arricchì di nuove tradizioni.
Una tradizione, originaria di Avola, narra che il corpo del santo mentre veniva trasportato a Noto fu avvicinato da una donna che chiese di poter baciare la salma per riconoscenza ad alcune grazie ricevute nel passato.
I neatini acconsentirono e la donna nel baciarlo gli strappò l’esofago che consegnò ai sacerdoti di Avola che lo esposero in un reliquario.
A questa leggenda s’interessò nel XIX secolo Gaetano Gubernale che riuscì a ritrovare nella curia arcivescovile di Avola due documenti datati 7 ottobre e 9 ottobre 1621. In questi documenti risultava che la reliquia era stata donata  dal domenicano Giovan Battista da Noto alla cittadinanza di Avola, con atto pubblico rogato dal notaio Giacomo Masò di Siracusa in data 1 ottobre 1621.
I documenti, a firma del vicario generale Franchiscus Franchino Tacciano, autorizzavano l’esposizione e la venerazione dopo aver “esaminata la domanda et havendo riconosciuto la detta reliquia habbiano provvisto come segue: Dicimo, commettiamo et ordinamo… vogliate permettere che detta santa reliquia di detto beato Corrado si possa exponere sop.ti in detta chiesa per essere venerata da tutti fedeli et condursi per la terra che noi ci ni diamo lauta licenza stare continuamente nel loco dove è collocata detta reliquia la lampa accesa et cossì exequirete con effetto per quanto la gratia di mosignor illustrissimo ni è cara”
Il 18 dicembre 1654 in una visita pastorale, don Giovanni Antonio Capobianco, vescovo di Siracusa, ne decretò l’autenticità.
Probabilmente i neatini furono allora contrari al dono della reliquia alla cittadinanza di Avola e per questo motivo nacque la leggenda della donna di Avola che strappò con un bacio l’esofago di San Corrado.

Ma dal corpo di san Corrado fu prelevata anche un’altra reliquia come si rileva da..
Un Atto Ufficiale di consegna di una reliquia ex ossibus del Santo Corrado all’arciprete di Calendasco Don Giovanni Caprara il 10 maggio 1927, estratta appositamente a Noto dal corpo del Santo per essere donata a Calendasco.
Un atto che è a forma del Vescovo di Noto mons. Giuseppe Vizzini, episcopato durato dal 1913 al 1939 e settimo Vescovo della Diocesi di Noto, che ha vissuto in evangelica povertà ed emulò in questo San Corrado del quale incrementò il culto.
Nel 1922 donò al Santuario di S. Corrado “di Fuori” un migliore e definitivo assetto al culto e al servizio pastorale, autorizzando i lavori di restauro, di decorazione e la sistemazione del pavimento.
Il 9 Aprile 1924 eleva quel santuario a Parrocchia e la sua venerazione al Patrono lo spinse a comporre una Laude per San Corrado.
Nell’Archivio della Curia di Noto al Protocollo Part IV “Res Perpetur2 (1924 – 1940) pag. 104, si trova un documento che, tradotto dal latino, afferma:
N. 5 Calendasco Arciprete Caprara G. – Reliquia di San Corrado – Il Vicario di Noto –
A tutti e singoli che leggeranno la presente lettera facciamo fede e attestiamo che Noi, avendo fatto per la maggior gloria di Dio Onnipotente la ricognizione del corpo di San Corrado, delle ossa ne abbiamo tratto una autentica particella delle ossa e la abbiamo posta in una teca ovale d’argento. In fede di ciò ci sottoscriviamo, Noto 10 marzo 1927”.
Don Giovanni Caprara proveniva da Chiaravalle della Colomba, vicino a Fiorenzuola d’Adda, “quando ancora non erano tornati i monaci cistercensi, entrò nella parrocchia arcipretale di Calendasco il 21 novembre 1897 e qui morì il 24 marzo 1938 all’età di 76 anni.  commissionò la statua del Santo che oggi si conserva nella soffitta della Casa Canonica di Calendasco, fatta di gesso pieno, molto pesante e per questo nel tempo il suo trasporto per le vie del borgo fu interrotto.
A Calendasco durante la processione viene portato in processione dal Romitorio alla chiesa l’importante seconda reliquia, cioè il pollice della mano sinistra del santo; parte del braccio donato alla Cattedrale di Piacenza nei primi decenni del 1600.
La sua storia è deducibile dalla lettera a firma dell’arciprete Don Federico Peratici che scrisse nel febbraio del 1961 al Parroco della cattedrale di Noto ove chiaramente dice:
“Pre.vo Monsignore, la devozione al Santo Confalonieri qui è antichissima, come documentato dalla recente vita del Santo di Padre Parisi del Terzo Ordine Francescano, ma purtroppo non si aveva in parrocchia una reliquia tale da svilupparla maggiormente. Ci siamo allora rivolti alla Cappella della Cattedrale di Piacenza il quale possiede da tempo, dono del popolo di Noto, il braccio sinistro del Santo Piacentino. Il Venerabile Capitolo della nostra Cattedrale accolse la supplica del nostro popolo e ci concesse il pollice della mano sinistra, reliquia veramente preziosa che noi ponemmo in uno splendido reliquario del’ 500, che la Provvidenza per intercessione  del nostro caro Santo, ci ha concesso di ritrovare. Così abbiamo potuto avere la consolazione di avere una reliquia degna di somma venerazione e che- lo confido fortemente – aumenterà la devozione del nostro popolo verso il glorioso San Corrado e renderà sempre più potente la protezione sua verso questa parrocchia a Lui tanto devota. Il settimanale diocesano “Il Nuovo Giornale”, a pag. 15, descrive, anche se un po’ troppo succintamente, il solenne trasporto della Santa Reliquia dalla Città al nostro Paese. A questo punto si deve aggiungere che la popolazione era stata preparata all’avvenimento con un triduo di predicazione, che al mattino è stata grande l’affluenza dei fedeli, uomini e giovani compresi, ai Santi Sacramenti. La venerazione verso il Santo Corrado anche qui fa noi non solo non è venuta meno, ma accenna sempre più ad aumentare ed a portare maggiori frutti di bene tra la nostra popolazione. La prego, Rev.mo Monsignore, di rendere noto tutto questo al Rev.mo Pastore di Noto, tanto devoto a San Corrado assieme all’espressione della nostra venerazione e stima. Voglia accogliere pure i nostri ossequi migliori assieme al desiderio (non pura ipotesi.. ma progetto anche se ancora un po’ vaghi) di poter venire a Noto a venerare i gloriosi resti del Santo Piacentino ad ossequiare il degno Pastore di questa Città assieme al Parroco della Cattedrale”. (dal sito:
A Calendasco si conservano dunque due reliquie di San Corrado: la particella d’osso che fu donata dalla Cattedrale di Noto nel 1927 e il pollice della mano sinistra da parte dei canonici della Cattedrale di Piacenza. Cattedrale di Piacenza che aveva ricevuto nel lontano 1600 il braccio sinistro del santo. In quell’occasione giunse a Noto da Piacenza il sacerdote Gian Luigi Confalonieri che però morì colpito da una violenta febbre.

Il reliquario di Calendasco

Nel 1516 i Neatini sostituirono il loro Patrono, San Nicolò di Bari, con il beato Corrado. Su di loro si scagliò l’ira del pontefice con l’interdetto pontificio. Tutto fu vano perché la cittadinanza di Noto continuò a venerare San Corrado come loro patrono. Leone X istituì quindi una commissione  che fu presieduta dal vicario generale di Siracusa, Giacomo Human, per risolvere la delicata questione.
Il vicario aveva l’ordine di esaminare i documenti per procedere alla canonizzazione di Corrado.
Giunse a Noto, esaminò i documenti e vagliò i miracoli. Alla fine ordinò l’apertura dell’urna in cui era deposto il corpo di Corrado.
nell’aprirla si spigionò un tal profumo d’incenso che tutti i presenti ne rimasero profondamente colpiti, mentre il corpo del santo non aveva minimamente subito la decomposizione”.
Sull’apertura dell’urna la fantasia popolare creò una leggenda secondo la quale  al posto della salma fu trovato solo del cotone… il porporato rimase incredulo.. i prelati si guardarono intorno perplessi cercando di scrutare nel volto altrui i segni di colpevolezza… tra loro c’era un  incredulo cio’ un non credente…
L’urna fu rinchiusa e dopo pochi istanti fu riaperta… erano presenti le spoglie di San Corrado… tra lo stupore generale…
Nel 1544 Corrado fu elevato da Paolo IV agli onori dell’altare.
A Noto due grandi feste: la prima il 19 febbraio, anniversario della sua morte, e l’altra l’ultima domenica d’agosto che ha un carattere prettamente agricolo.
Giuseppe Pitrè (Spettacoli e feste popolari Siciliane) affermò che la festa di San Corrado, come quella di San Agrippina ..”è quasi estranea alla Sicilia: ma tutti i siciliani sanno che in Avola e Noto si celebra con molta solennità”.

IL SANTUARIO

La valle dove sorge il santuario è detta anche “Dei Miracoli”. L’ingresso della chiesa è preceduto da un lungo e ricco viale alberato. La facciata dell’edificio, costruito nel settecento,  è in stile barocco e l’interno è riccamente decorato.
Il santuario, che custodisce la grotta del Santo e l’adiacente eremo, furono edificati nel 1751, IV centenario della morte di Fra Corrado,  per iniziativa dell’eremita fra Girolamo Terzo. 
All’interno si trova la grotta di San Corrado dove è posta una statua marmorea, che lo raffigura, opera dello scultore G. Pirrone. Questa grotta era il luogo di penitenza e di preghiera del santo. Sul pavimento, protette da una vetrata, si trovano le impronte delle sue ginocchia.. un continuo atto di preghiera tanto da consumarne la pietra.




I segni delle ginocchia di San Corrado


Nelle pareti della grotta c’erano degli affreschi sbiaditi dal tempo e illeggibili. Un lavoro di restauro e recupero degli affreschi grazie all’artista Marcello Lo Giudice che ha finanziato il restauro eseguito dal dott. Luciano Bombeccari (autore in passato del restauro dell’arca argentea di San Corrado). Nelle pareti erano presenti piccoli frammenti di colore e sono stati necessari degli interventi meticolosi sui tempi e modi di operare. Prima è stato necessario un intervento manuale e meccanico, successivamente chimico e infine, per ricostruire l’affresco, ci sono volute quasi 250 mila linee nuove per ripristinare il tessuto cromatico. L’immagine recuperata evidenzia la Madonna con il Bambino in braccio e ai lati due figure  forse da identificare con San Giovanni Battista o San Aquilino e San Corrado. La datazione dell’affresco è probabilmente del XVI secolo e legata alla presenza di monaci che abitarono le grotte e dove si era ormai consolidato il culto per San Corrado. Nelle altre pareti della grotta sembra che siano presenti altri affreschi tra cui un San Francesco e un Cristo risorto anche se non facilmente leggibili.



Tra le opere una tela della Madonna con il Bambino, opera di un pittore del 1759, Sebastiano Conca; un Crocifisso ligneo del XVIII secolo.
È presente anche un’urna con il  corpo di S. Leonzio martire. All’interno dell’Eremo (parte inferiore) si trova anche un museo che raccoglie i numerosi ex-voto dei fedeli e dei pellegrini.

Il Santuario nei secoli..







Giardino degli eremiti

Alcune grotte dell’eremo


LA FESTA DI SAN CORRADO


La festa e la processione del santo patrono San Corrado si svolge in due periodi distinti.
Il 19 febbraio l’urna che contiene il corpo del santo (sette sarcofaghi), preceduta dalle Confraternite e dai “Cilii” viene portata a spalla dai portatori. I “Cilii” sono grandi ceri votivi decorati e sostenuti da fusti di legno. Rappresentano la storia della vita del Santo. I fedeli seguono spesso il corteo scalzi. Ogni dieci anni l’urna di San Corrado, sempre in processione, viene portata all’Eremo distante circa 5 km dalla città.


L’Urna nella grotta di San Corrado nell’Eremo



Nell’ultima domenica di agosto l’urna percorre le vie del piano alto della città passando davanti alle Chiesa del Crocifisso e del Sacro Cuore.
Durante i festeggiamenti l’urna viene esposta  nella cappella laterale all’altare maggiore per  essere visibile a tutti i fedeli.



Le origini dei “Cilii” non sono note. Sembra che siano stati voluti dal canonico di Noto, Pietro Ansaldo, nel 1620 per abbellire la processione del santo  nel giorno che rappresentava la sua morte.
All’inizio i “cilii” erano due, di grandi dimensioni e ogni anno dovevano, per regola, aumentare di due fino al raggiungimento di dodici unità. Probabilmente non erano gli stessi “cilii” di oggi, dato che avevano anche la funzione di illuminare il percorso processionale dell’urna. 
Il termine “cilii” venne infatti menzionato per la prima volta dal Pitrè in “Feste Patronali della Sicilia” risalente al 1900.
L’idea del canonico Ansaldo di fermare il numero dei cilii a dodici fu ben presto superata. Le famiglie nobili, in particolare, lo ritenevano un motivo d’orgoglio la partecipazione alla processione portando un cilio del proprio casato. Un cilio che veniva portato da qualche esponente della nobile famiglia o da qualche servitore.
Oggi i cilii sono per lo più proprietà degli stessi portatori tranne qualche caso eccezionale, come quello del Principe Nicolaci di Villadorata, il cui cero è portato in processione dall’associazione “portatori di cilii”.
Portatori che hanno una divisa costituita da un giubino di colore verde (lo stesso colore del drappo che adorna l’urna di San Corrado al di sotto dei grifoni) e da pantaloni e scarpe di colore nero.
Nella processione dell’ultima domenica di agosto il giubino dei portatori è invece di colore bordeaux. Un colore uguale ai colori della bandiera della città di Noto e da pantaloni e scarpe sempre di colore nero.





Note:
“Lettera inviata dai Giurati di Piacenza ai Giurati di Noto
In merito a notizie riguardanti Corrado Confalonieri –
Lettera datata 1611 di riposta alle richiese dei Giurati di Noto
(Lettera scritta nell’italiano dell’epoca)

Informazione circa l’Illustre Famiglia Confaloniera, et della moglie di S. Corrado Confalloniere, cittadino piacentino, mandata alli Illustrissimi Signori Giurati della Città di Noto.
La Famiglia Confalloniera Nobilissima et illustre in Piacenza, fu una delle Casate per quanto ci avisano l’antichità nostre, che al tempo di Carlo Magno, per zelo e il favore della Chiesa, si ribellarono contro Desiderio re dei Longobardi e perciò da esso imperatore vennero maggiormente nobilitati et esaltati a diversi honori quelli di cotal Famiglia.
Hanno essi, per privilegio antichissimo che pure hoggi ritengono la preminenza et honore d’accompagnare il nuovo Vescovo quando entra Pontificalmente la prima volta a pigliare il possesso del Vescovado, conciò sia che all’hora uno di questi Signori cioè il più vecchio della stirpe Confalloniera, con la mano destra tenendo le redini della Chinea, sopra cui siede il Vescovo coperta d’una Valdrappa bianca conduce e serve quello, sino alla porta del Duomo, dove appena il Vescovo ha levato i piedi dalla stafffa ch’egli monta a cavallo e quasi in premio dell’ossequio e della honoranza antichissima chè stata concessa alla Famiglia, se ne cavalca gran pezzo per la città con molta festa e gioia, poi fa d’essa Chinea, o destriero, un libero e graziosissimo dono al medesimo Vescovo e questo istesso privilegio hanno etiam Deo in simile occasione e cerimonia nella città di Pavia, di Milano, di Lodi ed altrove quelli della stessa Casata de Confalonieri si come li avogari in Trevigi ed altri Nobili in altre città.
Ritroviamo noi appresso, che in Piacenza in un Monastero di monache, intitolato a S. Siro ma sotto la Regola di S. Benedetto, visse già e fiorì di molta santità, una Adelasia Confalloniera, la quale fu monaca quivi circa 50 anni et Abbadessa intorno a 33 ed essendo passata al Signore l’anno 1266 al 30 di marzo, apparve a più persone, miracolata e beata.
Hora di questa diciamo che agevolmente potrebbe esser stata zia paterna di detto Corrado, il quale in età almeno di 30 anni, hebbe a partire da Piacenza il 1310, e chi sa che, ricordevole per aventura della santità della Beata zia, non prendesse egli esempio da lei di abbandonar il mondo e dedicar se stesso e la moglie al Divino Servizio?
Il Monastero di S. Chiara, dove vuol l’autor del poema che si richiudesse la moglie del Santo, detta per nome Eufrosina, et si facesse in monaca, et suora di quell’Ordine per molta diligenza usata da persone autorevoli, altro non si è trovato che la notitia d’una suor Gioanina Confalloniera, che specialmente viveva nel 1340 et anco nel 1356.
Detta qual suora si dice che, rispetto al tempo, non ci sarebbe difficoltà che non potesse essere la moglie di Santo Corrado. Imperochè si narra nella historia del santo, scritta da Girolamo Pugliesi, che era ancor viva la moglie in Piacenza, quando morì il benedetto Corrado in Sicilia, l’anno 1351, e che perciò, all’hora, da cotesta città di Noto, s’inviò la nuova a Piacenza, ad essa moglie, del glorioso fine e transito del marito, e che da lei, e da altri, si seppe poi il cognome dell’Illustre Famiglia del Santo, stato da lui per humiltà nascosto, ed occultata sempre ma in contrario si ha il cognome di Giovanina che mai non leggiamo posto in veruna dell’historie della Vita del santo, e pure se ella havesse cangiato il nome di Eufrosina nel dedicarsi alla Relligione il Beato Corrado non havrebbe ciò taciuto si come non tacque, tant’altre cose di quello et in ogni caso vi è insieme in caso contrario il cognome della Famiglia Confalloniera, che essendo progenitore della progenie del marito (sic) senza manco pensar che Suor Gioanina un’altra fosse e non Eufrosina predicta.

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Dall’Eremo di San Corrado si procede verso nord per raggiungere il Monastero di S. Maria Della Scala del Paradiso.
Si può procedere lungo la SS 287 e per la SP 64 nell’ultimo breve tratto.
Oppure  una volta superato sulla destra l’ex Mulino ad acqua detto “Sotto il Ponte Castagna” o “Santa Chiara” prendere sulla sinistra una carrozzabile che conduce al Santuario (evidenziata in rosso/giallo)



Percorso Alternativo



VALLE SANTA CHIARA - CAVA TORTORONE (VALLE DEGLI DEI) - CENNI
VIDEO 
VALLE SANTA CHIARA
VALLE DEGLI DEI
LA LAGUNA BLU
Ponte Castagno
È un grandioso ponte monumentale di pietra che fu costruito nel 1700 per
attraversare la Cava di Santa Chiara dove scorre il torrente che ha origine dalla sorgente di


San Giovanni Lo Vecchio.



Il torrente Santa Chiara è quindi un affluente del fiume Asinaro e nasce in contrada
Montagna di Avola (Sorgenti San Giovanni Lo Vecchio e Serra Porcari).
Le acque del torrente nel corso del tempo hanno inciso un profondo canyon creando delle
cascate, degli scivoli, alcuni tratti di forre ricchi di vegetazione ripariale e i Laghetti Cultrera.
La parte finale del Torrente Santa Chiara, prima di confluire nel fiume Asinaro, crea la Cava Tortorone
dando origine alla “Valle degli Dei”.
Nella Cava Tortorone sono presenti due bellissimi laghetti: il Laghetto del Dragone e la Laguna Blu.
Per visitare le cave è opportuno rivolgersi alle guide delle associazioni ambientalistiche per
 apprezzare i luoghi in condizioni di sicurezza e avere tutte le notizie storiche e naturalistiche dei luoghi.
(Associazioni Culturali: Acquanuvena – Avola (Sr)







Video 

Cava San Giovanni Lo Vecchio e la Valle Santa Chiara
(Video disponibile con sottotitoli - Impostazioni)

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Cava Tortorone - La Laguna Blu



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Cava Tortorone -  "La  Valle  degli  Dei"





3. SANTUARIO DI SANTA MARIA DELLA SCALA DEL PARADISO
     L'Immagine della Madonna su pietra - Frate Venerabile Terzo -  I Miracoli -
      Il Santuario e il Convento -  Nel Santuario il quadro della Madonna di Czestochowa - 
      La relazione del Principe Biscari sull'esistenza di antiche testimonianze sotto la cucina del 
      Convento





Il prospetto della chiesa in stile barocco. Il tutto abbellito da un balcone sul quale si notano tre
statue in pietra che raffigurano: la Madonna della Scala e i profeti Elia ed Eliseo.

Il Santuario di Santa Maria della Scala del Paradiso è legato al miracoloso rinvenimento dell’immagine della Madonna impressa sulla pietra.
La tradizione anche in questo caso riporta in maniera puntuale aspetti che si tramandano da secoli. Giuseppe, un giovanetto, abitante a Noto nel quartiere di Santa Croce, custodiva il suo gregge in una valle denominata il “Passo del Bove” a qualche chilometro da Noto. Ogni sera riuniva il gregge per condurlo all’ovile per poi ritornare in paese. Tutte le sere durante il tragitto di ritorno, si fermava in un angolo della valle per pregare la Madonna. Le preghiere non sono mai le stesse, così come i nostri momenti di vita anche se espressi da gesti abitudinari.. Una sera pregava con maggiore intensità a tal punto da sperare di vedere l’immagine della Madonna. Fu un attimo…le foglie della vegetazione circostante cominciarono leggermente a tremare, nell’aria si diffuse un profumo  e apparve al giovane la Madonna. Il giovane rimase incredulo. In contemplazione vide la Madonna sorridente e con il Bambino che portava sul braccio sinistro,, per poi sparire. Quella visione si ripetè per diverse sere e  Giuseppe provava una gioia indescrivibile.  Una sera fu assalito dall’idea che quelle visite avrebbero potuto cessare. Prese coraggio e chiese alla Madonna di poter ritrarre le sue divine sembianze in modo che “potrà conservare sempre presso di sé e contemplare a suo agio”.
La Madonna gli rispose: “Va pure a Noto e, trovato un valente pittore, fammi ritrarre”.
Il giovane riuscì a trovare un pittore e insieme si recarono nella valle. Il pittore aveva con sé tutto l’occorrente per dipingere: pennelli, tela e colori.
 Giunti sul luogo il giovane pregò la Madonna che appare in tutto il suo splendore. Si rivolse quindi al pittore dicendogli: “Ecco la Signora di cui vi prego di farmi il ritratto”.
Il pittore non vedeva nulla… e credendo ad una presa in giro.. si allontanò prendendo la strada per Noto dopo aver rimproverato il povero pastorello.
Il pastorello rimase dispiaciuto, il suo desidero di conservare un immagine della Madonna sembrava svanito nel nulla e pregava la Madonna di appagare, ancora una volta, il suo desiderio. Si sentì uno sfruscio di cespugli, volse lo sguardo, e vide un povero pellegrino che stava attraversando il sentiero della valle. Aveva con sé gli strumenti dell’arte pittorica. Riprese fiducia e chiese al pellegrino se vedeva quella “bellissima Signora che poggia i suoi piedi al di sopra della roccia di un groviglio di rovi sulla balza della nuda roccia”. Il pellegrino gli rispose.. “Sì che La vedo, e mi pare di una bellezza unica più che rara”.
“Potreste allora ritrarmene le sembianze ?” gli rivolse in preda ad una gioia irrefrenabile.
Il pellegrino rispose…”Sì volentieri… se mi dai la tela necessaria, poiché è l’unica cosa che mi manca”.
Il pastorello non si perse d’animo, perché dopo un piccolo e giustificato momento di smarrimento, temendo di non perdere l’occasione così propizia e attesa, puntò con il dito una roccia che era posta nelle vicinanze. Una roccia dal taglio perfettamente verticale ..”non potreste dipingerla su quella roccia ?”..Il pellegrino rispose..”se ne sei contento, lo faccio subito”.
In pochissimo tempo riuscì a ritrarre in modo mirabile la stupenda apparizione mentre la Madonna scomparve dallo sguardo di entrambi.
Il giovane riuscì subito a dare sfogo alla sua gioia. Voleva ringraziare il pellegrino per la sua opera… ma era scomparso.. si rese conto che quel pellegrino era un angelo.
Si fermò a contemplare l’immagine della Madonna impressa sulla roccia e si recò quindi a Noto per chiamare i cittadini per invitarli a vedere e venerare quella preziosa immagine.
Ben presto la valle diventò meta di pellegrinaggi per santificare la presenza della Madonna.
Queste furono le testimonianze giurate del 1756 rese dai quattro superstiti del terremoto presso la Curia Vicariale di Noto.


I Musulmani sbarcarono a Marsala nell’827 e i cittadini di Noto nell’834, a 17 anni dall’apparizione della Madonna, cercarono di mettere al sicuro la sacra immagine che fu ricoperta da uno spesso strato di pietre. I musulmani dominarono la Sicilia fino al febbraio 1090 quando Ruggero il Normanno riuscì a liberare Noto. Dopo due secoli e mezzo la sacra immagine era non solo coperta da cumuli di pietre ma anche da una vegetazione spontanea che nascose ogni testimonianza.  Una testimonianza che perse anche la memoria storica fra la gente che in quei secoli erano preoccupata, distratta , terrorizzata dagli eventi storici.
Siamo nel 1498,,, erano passati oltre 4 secoli dalla liberazione di Noto dai Musulmani e oltre 6 secoli dall’apparizione della Madonna. Un cittadino di Noto, Matteo Tindiraino, di professione vetturale, cioè faceva viaggi con la carrozza da Noto a Siracusa e viceversa, il 2 giugno fece giuramento presso il Senato della città sui fatti che lo avevano coinvolto.
In un pomeriggio d’invero si trovava in viaggio da Siracusa, nella città aveva trasportato della merce, verso Noto con tre cavalli attaccati a tre carri che erano carichi di tavole. Nei pressi della valle detta “il Passo di Bove”, fu colpito da una improvvisa tempesta. ..”la furia dei venti, lo scrosciare ruinoso di una pioggia torrenziale, il balenio sinistro e ininterrotto dei lampi e il fragore dei tuoni, tutto concorse a fare smarrire ogni orientamento ai cavalli che improvvisamente precipitarono in fondo al burrone così legati come si trovavano l’uno all’altro, insieme ai tre carri”.
Lo sfortunato vetturale si vide perduto e invocò l’aiuto della “Consolatrice degli afflitti”.. la Madonna. Restò immobile davanti a quella sciagura quando dal profondo della valle spuntò e si propagò una forte luce che rischiarò tutto il fondovalle. Discese la valle, sicuro di trovare i suoi cavalli morti, e giunto sul luogo rimase esterrefatto… i suoi cavalli erano vivi, nessun graffio o contusione così come i carri erano intatti con tutto il loro carico.
Ringraziò con la preghiera l’aiuto divino ricevuto e attraverso un sentiero meno ripido riuscì  con i carri a riprendere la via per Noto. Giunto nella città raccontò l’accaduto ai suoi concittadini.
Il racconto non è solo una leggenda ma ha una sua importanza storica perché indica la data del ritrovamento della sacra immagine…”la quale grutta cum dista Immagine fu inventa iam sunt pauci dies hoc anno praesenti 1498”.
Dopo pochi giorni dall’episodio che coinvolse il Tindiraino, un soldato per ragioni di servizio si stava recando da Noto a Siracusa. Giunto nei pressi di Passo del Bove vide risplendere sopra una roccia una forte luce.  In sé credette di avere un allucinazione e continuò nella sua strada senza fermarsi. Nel ritorno, sempre nello stesso punto, fu colpito nuovamente dalla visione di quella forte luce. S’avvicinò al luogo per vedere cosa c’era sotto quei rovi e cominciò a levare delle erbe selvatiche ma non trovò nulla se non pietre e terra in “grande quantità”.
Tornato a Noto informò dell’accaduto i cittadini di Noto che collegarono l’avvenimento a quello che aveva visto protagonista, pochi giorni prima, il loro concittadino vetturale.
Incuriositi i cittadini di Noto si recarono sul luogo e videro anch’essi quella luce luminosa, a forma di stella, che splendeva intensamente. Cominciarono a scavare con frenesia e quando riuscirono a liberare completamente il masso roccioso, apparve a loro l’immagine della Madonna.
Naturalmente davanti a una simile visione i cittadini s’inginocchiarono e cominciarono a pregare.
Dopo ben 664 anni la Sacra Immagine era di nuovo pregata nel luogo da Lei prescelto.
I neatini costruirono una piccola cappella in modo da salvaguardare quel prezioso dipinto che miracolosamente, sotto un cumulo di pietre e di terra “sempre umida e limacciosa”, si era mantenuto intatto.


Il carmelitano Padre Tommaso di S. Luigi riportò in un manoscritto del 1855-56 alcuni avvenimenti prodigiosi legati alla Sacra Immagine.
Un certo Gaspare di Senia non contento dei lumi che ardevano dinanzi alla Vergine, ne volle accendere ancora un altro versando la terza parte dell’olio che recava in un vaso alla villa del Signor Giovanni Antonio Vassallo promettendo al suo padrone di compensare con olio proprio, quello sottratto per la lampada. Ma giunto alla villa e scoperchiato il vaso, lo trovò con suo stupore pieno, più ancora che non era prima di sottrarne quella quantità versata per la lampada”.
(Deposizione effettuata dallo stesso Di Senia in forma legale agli atti senatoriali dell’antica città di Noto, il 30 Aprile 1498).

La piccola chiesetta diventò il Santuario della foresta dove veniva celebrata ogni sabato la Santa Messa grazie alla fede di una donna di nome Leonarda.


Leonarda raccoglieva presso i fedeli e i pellegrini le elemosine necessarie per l’acquisto di olio per le lampade. Il residuo delle elemosine veniva impiegato per la celebrazione delle Messe settimanali. La donna recava sul posto anche i paramenti sacri e quando occorreva per officiare la Messa del sabato.
Una volta mentre si recava al piccolo santuario percorrendo la piccola strada impervia della foresta, gli cadde il calice senza accorgersene. Si accorse della perdita appena giunta in chiesa e cadde in un profondo pianto. Invocò l’aiuto della Madonna che gli apparve indicando il luogo dello smarrimento. Ritornò precipitosamente indietro e ritrovò il calice proprio nel punto cha la Madonna in visione gli aveva indicato.
(Salvatrice Scarrozza, testimone oculare di questo avvenimento e superstite del terremoto, ne fece la deposizione alla Curia Vicariale di Noto il 20 dicembre 1756).
Il piccolo Santuario diventò meta di pellegrinaggi. Moltissimi pellegrini chiedevano la “salute del proprio corpo”.
“Nicolò Mancarella di Comiso venne liberato da un male incurabile che la scienza non solo non aveva potuto guarire, ma nemmeno definire. Michele Di Martino di Scicli guarisce da un micidiale flusso di sangue. L’uno e l’altro deposero con tutte le circostanze i loro casi agli atti senatoriali di Noto antica rispettivamente il 30 aprile e il 2 maggio del medesimo anno 1498”.
“Lucia Coppa che si era accompagnata al pellegrinaggio dalla venerabile Confraternita della SS.ma Annunziata di Spaccaforno (Ispica), durante la S. Messa celebrata nel santuario riacquistava istantaneamente la parola di cui era priva. Anche questo prodigio fu testimoniato presso l’Archivio Senatoriale di Noto antica, il 15 giugno 1498, da Pietro Lo Monaco, capitano della detta città di Spaccaforno e membro della Confraternita, dalla stessa Lucia e da altre due sue parenti”.

Il piccolo Santuario fu meta di pellegrinaggi continui, di grazie elargite dalla  Madonna per oltre due secoli poi l’11 gennaio 1693 il terribile terremoto che proprio nella valle di Noto ebbe il suo epicentro.
Anche la piccola cappella fu non fu risparmiata. Andarono in rovina il tetto e le pareti laterali e rimase in piedi solo l’altare e la facciata con la porta d’ingresso.
Il prezioso affresco rimase quindi nuovamente allo scoperto e quindi sottoposto alle intemperie. Un abbandono che si prolungò nel tempo. I cittadini di Noto, terrorizzati ed in preda alla disperazione, erano disorientati. Dovevano ricostruire le loro abitazioni e dimenticarono la venerata immagine per almeno diciannove anni cioè dall’1 gennaio 1693 al 1712.
In questo periodo si verificheranno altri miracoli che furono riportati nelle antiche Memorie Giurate.
Il 15 aprile 1708. Il Corpo Senatoriale di Noto composto dai Signori:
-          Orlando Maria Sortino, Barone di Busulmone;
-          Giovanni Di Lorenzo;
-          Carlo Landolina;
-          Giuseppe Di Lorenzo, Barone di S. Lorenzo

Con atto di donazione cedeva ai sacerdoti:
-          Don Giuseppe Serrentino;
-          Don Francesco Minaci;
-          Don Settimo Sortino;
-          Don Francesco Presti
 E ai laici:
-          Ignazio Minaci;
-          Giuseppe Bianca;
-          Corrado Mingo
“l’estensione di terreno a valle dove si trova la cappellina, distrutta dal terremoto e l’altura superiore (dove oggi si trova il Santuario e il Convento)”.
La Municipalità concedeva il terreno “all’oggetto di riedificarvi la nuova Chiesa di Maria SS.ma Scala del Paradiso per essere l’antica distrutta dal terremoto del 1693, con eremitorio, per ivi potersi ritirare le medesime persone”.
(Nel 1719 i quattro sacerdoti e i tre laici, su menzionati, abitavano l’eremo e la stessa chiesa era ormai completata).

Nel 1712 il venerabile Girolamo Terzo, con gli altri eremiti, decise di tentare il taglio della roccia su cui era dipinta l’immagine della Madonna per collocarla nella Chiesa.
In passato, come indicano le fonti, erano stati effettuati diversi tentativi ma senza esiti positivi perché la roccia era troppo compatta. Una compattezza che addirittura riusciva a spuntare o rovinare gli strumenti di lavoro. Il ven. Girolamo volle tentare e si verificò l’ennesimo miracolo. La roccia si dimostrò tenerissima,, fu segata la porzione di roccia con estrema facilità a tal punto che la “ fetta di roccia si piegò in avanti, senza che gli eremiti avessero potuto impedirlo e precipitò a valle”.
Gli eremiti furono presi dallo sconforto… nelle loro menti c’era la visione della preziosa lastra pittorica completamente distrutta. La lastra non subì danni ..”nemmeno la minima screpolatura sulla superficie dipinta”. ( L’avvenimento è riferito nei processi Ordinario ed Apostolico che prepararono il decreto di Pio VI del 1796 con cui Girolamo Terzo venne dichiarato Venerabile).

L’immagine venne collocata nella nuova chiesa e subito si manifestarono altri miracoli.


“ I genitori di un fanciullo settenne, privo dalla nascita di ogni movimento perché aveva irrigidite tutte le articolazioni del corpo, vennero da Palazzolo Acreide ad implorare l’aiuto della SS.ma Vergine. Le loro speranze non furono deluse, giacchè mentre pregavano fervorosamente ai piedi dell’Immagine in compagnia del Venerabile, il fanciullo improvvisamente sorge in piedi gridando: “sono forte, sono sano !”.
A Palazzolo il fanciullo veniva chiamato da tutti come il “molle di Maria SS.ma”.
Un povero operaio di Giarratana, “un crivellatore, spera di ottenere anche lui la guarigione da un male al sistema nervoso che da molti anni lo torturava rendendolo incapace al lavoro, anzi nella impossibilità perfino di muoversi. Invocò l’aiuto di Maria, Scala del Paradiso, e si trovò istantaneamente guarito, e non sapendo contenere la sua gioia riconoscente, corse subito ai piedi della prodigiosa immagine per ringraziare di presenza la Celeste Regina e non si stancò finchè visse di parlare a tutti della grazia segnalata che gli era stata largita”.

Il monastero è legato alla figura del Ven. Girolamo Terzo, nato a Noto il 17 maggio 1683 da Tommaso e Gaetana Terzo. Subito dopo la nascita fu battezzato a causa delle sue condizioni di salute precarie. La sua vita fu costellata da aspetti sorprendenti..” il giorno di venerdì non voleva il 

latte materno e la salute tuttavia non ne risentiva alcun danno… a due anni vendendo che la mamma si recava in chiesa ad ascoltare la messa, voleva assolutamente esservi portato e non cessava di piangere se non quando veniva accontentato… fu ammesso alla mensa eucaristica, per la sua eccezionale maturità spirituale, all’età di sette anni, la qual cosa a quei tempi non veniva concessa a nessuno. A otto anni accoglieva qualche povero affamato in casa e scongiurava la mamma a soccorrerlo perché vedeva in lui lo stesso Signore sofferente. Pregava nella vicina Chiesa del Carmine e nella sua semplicità infantile dichiarava spesso che la Madonna gli aveva sorriso e che con lei dialogava. In uno di questi colloqui, la mattina dell’11 gennaio 1693, aveva appena dieci anni, si alzò spaventato dall’altare del Carmine e uscì dalla chiesa gridando..” Fuggiamo, fuggiamo presto, che Noto subissa. Ci sarà oggi uno spaventoso terremoto, me lo ha detto la Madonna”.
Molti cittadini risero davanti alle imprecazioni di quel fanciullo mentre i genitori ed altre persone credettero alle parole del giovane e si misero in salvo nelle campagne circostanti.
Quel pomeriggio ci fu il terremoto .. la devastazione… la morte… solo nella provincia di Siracusa ci furono 40.000 morti.
La città risorse non lontano dalle sue rovine, nel “Piano di Meti” e Tommaso Terzo vi si trasferì con tutta la sua famiglia. Abitava vicino alla nuova chiesa di San Michele esercitando la professione di calzolaio a cui cercò di avviare anche il figlio Girolamo.
Momenti difficili per famiglia. La madre lavorava al telaio per sostenere la famiglia colpita, come tutti i nuclei familiari, dalle problematiche legate al post terremoto.
Nel  1698 morì il padre e Girolamo, aveva 15 anni, capì di dover sostenere la famiglia e incominciò a lavorare alle dipendenze “nella calzoleria di Giuseppe Bevilacqua”. Un lavoro duro e con scarsi guadagni. Girolamo trovava nella preghiera la forza di reagire ed aiutare i suoi familiari. Uno zio paterno, morto senza eredi, lasciò a Girolamo un negozio di calzoleria permettendogli si risollevare le condizioni economiche della famiglia.
Girolamo aveva in se un sogno: rispondere alla chiamata di Dio che lo voleva nella solitudine dell’eremo “attraverso l’esempio sempre vivo del santo protettore della città, l’anacoreta piacentino Corrado Confalonieri ed attraverso le virtù che vedeva brillare nella bella anima dell’eremita frate Alfio da Melilli, superiore dell’eremo di S. Corrado fuori le mura, che poi vi morì in fama di santità”.
Girolamo invocava spesso San Corrado: “O S. Corrado, voglio farmi santo come voi!”
Il suo sogno si realizzò il 30 settembre 1707 vestendo l’abito eremitico direttamente dalle mani del superiore frate Alfio da Melilli.
Si distinse subito per le sue virtù, la preghiera, per la stretta osservanza delle regole come pure per le penitenze. Aspetti che spinsero il Vescovo di Siracusa, Mons. Asdrubale Termini, nei casi più imbarazzanti legati al governo della diocesi, a richiederlo di consiglio e come accompagnatore nelle visite pastorali.
Lo stesso vescovo lo nominò prima superiore dell’eremo di Santa Maria della Scala, poi Visitatore e Superiore dei cinque eremi che esistevano nei dintorni di Noto. Il nuovo vescovo, il domenicano Mons. Tommaso Marini, lo nominò Superiore e Visitatore provinciale di tutti gli eremi della Diocesi.

Fra Girolamo Terzo

Nei primi mesi di permanenza nell’eremo, Girolamo andò ad abitare in una grotta posta vicino all’immagine della Madonna. L’immagine era ancora impressa nella roccia e il frate si rivolgeva in preghiera alla Madonna. Durante una di queste preghiere la Madonna gli affidò un importante missione promettendogli il suo aiuto… gli preannunciava che “doveva molto faticare e soffrire ma alla fine la sua volontà sovranamente materna dovrà trionfare. Gli ordina intanto di procedere al taglio del dipinto e al suo trasporto nella parete dell’altare maggiore della chiesa dell’eremo”
Cosa che Girolamo, come abbiamo visto, fece subito senza incontrare alcuna difficoltà.
Dopo alcuni mesi, siamo nel 1707, mentre gli eremiti pregavano ci fu una forte scossa di terremoto che rese la Chiesa impraticabile per le sue profonde spaccature. Frate Girolamo fu colpito dall’evento e si rivolse in preghiera alla Madonna per chiedere aiuto. La Madonna lo rassicurò e lo invitò a recarsi a Giarratana, presso delle persone facoltose e pie, dove avrebbe trovato i mezzi per rifare la chiesa e anche ampliandola. Girolamo si recò a Giarratana dove trovò il dottor Salvatore Lo Burgio che s’impegnò nella ricostruzione della chiesa.
“Il progetto di un architetto palermitano non prevedeva l’enorme spesa che sarebbe occorsa per porre solide e profonde le fondamenta”. Frate Girolamo fu quindi costretto a chiedere il permesso di questare per adempiere al volere di Maria SS.ma.”
La Madonna aveva rilevato al frate di ampliare il convento in modo da poter diventare in Sicilia l’esempio della riforma del Carmelo. Trovò delle nobili famiglie che diedero larghe offerte di denaro anche non appartenenti al territorio di Noto. Si recò in diverse province della Sicilia ed anche a Malta ed in Calabria.
Il convento doveva poter accogliere anche il Noviziato secondo le richieste del Padre Pietro Infantino, procuratore dei Carmelitani.
Nel 1710 moriva a Palermo il principe Francesco Statella che era anche marchese di Spaccaforno (Ispica).

I suoi due figli, Antonio ed Andrea, entrarono subito in lite per la divisione dei beni. Antonio, il primogenito, doveva quindi ereditare il Principato mentre Andrea il marchesato. Fra Girolamo, che per la sua santità era anche conosciuto come un abile paciere, venne incaricato di risolvere la forte ed intricata lite fra i due fratelli.
Riuscì a riportare la pace tra i  litiganti e diventò consigliere della potente famiglia. Avvenne qualcosa di straordinario tra Andrea e frate Girolamo. Durante un colloquio le parole del frate riuscirono a colpire Andrea a tal punto che il nobile decise di abbandonare la vanità di questo mondo per dedicarsi interamente al servizio di Dio nello stato sacerdotale.


Andrea non solo fu sacerdote ma in seguito entrò nell’ordine dei Carmelitani collaborando con frate Girolamo per attuare la riforma carmelitana in Sicilia. Morì in concetto di santità. Andrea Statella, colto nelle scienze umane e sacre, si era presentato al Vescovo di Siracusa, dopo un accurata preparazione spirituale suggerita anche da frate Girolamo. Fu nominato sacerdote nel maggio del 1711 e iniziò la sua missione con zelo e nella gloria di Dio.
Impiegò le sue ricchezze per facilitare la Riforma della provincia Carmelitana di S. Alberto, in accordo con i superiori dell’Ordine. Rinunziò quindi alle sue ricchezze, professando la vita religiosa tra i Carmelitani, assunse il nome di Padre Salvatore della SS.ma Trinità, il 12 maggio 1726 a circa
15 anni dalla sua ordinazione sacerdotale.
La Chiesa di Santa Maria La Scala fu rifatta dalle fondamenta e l’eremo trasformato in convento per ospitare almeno una dozzina di religiosi.
Il procuratore della Riforma, Padre Infantino, visitò i locali, e li trovò inadatti o insufficienti per un convento che doveva comprendere anche la parte dedicata al Noviziato. Chiese quindi ulteriori modifiche cioè degli ampliamenti con l’aggiunta di una nuova grandissima ala di fabbricato e di più estese proprietà terriere nei dintorni oltre a rendite maggiori.
Frate Girolamo aveva supplicato la Madonna di non fargli mancare gli aiuti materiali per il completamento dell’opera e nello stesso tempo l’aveva pregata di proteggere da ogni disgrazia tutti gli operai che lavoravano nella realizzazione dell’immensa costruzione.
Emblematico fu il caso del muratore Vito Rubino come riportano le testimonianze giurate dei processi Ordinario ed Apostolico relativi al Venerabile fra Girolamo.
“Il Rubino salendo una lunga scala a pioli con il carico di una grossa pietra sulle spalle, per un falso movimento del piede, precipitò dall’altezza di oltre undici metri sopra un mucchio di pietrame sul quale avrebbe dovuto orribilmente sfracellarsi. La scena destò improvviso terrore e raccapriccio in tutti gli altri intenti al lavoro che accorsero subito per raccogliere il suo povero corpo che credevano ridotto un informe mucchio di carne sanguinante ed inerte. Ma quale non fu la loro gioia quando si accorsero che l’operaio si era rizzato da sé in piedi come se fosse caduto sopra un immenso mucchio di piume, completamente incolume”…”Ad un altro operaio a cui si era spezzata una gamba, fra Girolamo, prontamente accorso, gliela restituisce perfettamente sana ungendola soltanto con l’olio delle lampade che ardevano dinanzi alla Immagine di Maria SS.ma”.
Le offerte di denaro si moltiplicavano e anche in natura.

Il Santuario era meta di continui pellegrinaggi, di gente di ogni estrazione sociale e condizionata da stati d’animo differenti. A tutti fra Girolamo rivolgeva sempre la stessa frase..”quanto vedete in questo Convento e in questa Chiesa, tutto è un miracolo di Maria SS.ma…. E’ terra santa questa, santificata dai piedi verginali della gran Madre di Dio. questo luogo è la rete misteriosa nella quale Dio ha pescato tante anime, anzi è la tonnara di Dio!”.
La morte di Padre Statella (Andrea) fu per frate Girolamo un colpo duro perché perse un amico, un collaboratore prezioso. Padre Statella si era messo in viaggio per raggiungere Ferrara ove era in programma il Capitolo Generale dei Carmelitani e avrebbe  trattato e sostenuto la Riforma. Giunto a Rimini era stato colpito da un grave malessere che in pochi giorni lo privò della vita. La sua salma su sepolta nella Chiesa della Madonna del Carmine di Ispica. La notizia giunse a frate Girolamo e gli procurò un grande dolore che fu subito superato dalla sua grande fiducia verso i disegni della Provvidenza.
Il papa Benedetto XIV, alla presenza del Padre Pietro Infantino, con udienza del settembre 1740 accolse il Ven Girolamo Terzo, con il Breve del 31 gennaio 1741 che assegnava quello che prima era Eremo, all’Ordine Carmelitano della Riforma. Il 6 ottobre dello stesso anno frate Girolamo si aggregò all’Ordine Carmelitano e assunse il nome di Fra Girolamo di Gesù Maria e Giuseppe e della Divina Provvidenza continuando l’opera che la SS.ma Vergine gli aveva affidato. Nella sua missione riuscì a scuotere tante coscienze.
L’11 aprile 1758, nel tardo pomeriggio, mentre i frati in coro cantavano le litanie, alle parole: “Sancta Maria, decor Carmeli, Scala Paradisi”, Fra Girolamo morente, che da due giorni non parlava e non apriva gli occhi, li aprì nell’espressione di una gioia serena per poi richiuderli subito per sempre. Fra pochi mesi avrebbe compiuto 75 anni. Fu sepolto nello stesso santuario e dopo un anno dalla sua morte, fata la esumazione, il suo corpo fu trovato intatto. La sua fama di santità si diffuse, anche grazie alle molteplice grazie attribuite alla sua intercessione, e ciò favori l’inizio del processo di beatificazione. La chiesa ha riconosciuto la eroicità delle sue virtù concedendogli il titolo di Venerabile.

(Un aspetto importante da rilevare è che il movimento di riforma dei Carmelitani “Ordine dei fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”,  dopo la separazione dagli Scalzi, partì nel 1604 dal Convento di Rennes per poi diffondersi nella provincia  d’Aquitania, Tolosa, Provenza e in Belgio. Il movimento di più “stretta osservanza” si propagò in Italia da Catania nel 1619 subito dopo Rennes, ponendo l’accento sullo spirito missionario. Nel 1631 convolse il Convento del Carmine Maggiore a Napoli; nel 1633 a Torino la riforma di Piemonte e nel 1724 partì da Siracusa la riforma di Santa Maria La Scala del Paradiso che fu eretta in provincia).

I Carmelitani abitarono il convento per oltre un secolo. Il pontefice Gregorio XVI nel 1844 con la Bolla del 15 maggio elevò la Diocesi di Noto nel cui territorio ricadeva il Santuario.

Il Santuario in una foto del 1938 coperto dalla neve

Le due leggi del Regno d’Italia, il R.D. 3036 del 7 luglio 1866 di “Soppressione degli Ordini e delle Congregazioni Religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866 n. 2987) e la Legge 3848 del 15 agosto 1867 in merito alla confisca dei beni degli Enti religiosi” colpì naturalmente anche i Carmelitani della Riforma. I frati dovettero lasciare il Convento per trasferirsi altrove. Solo un frate, Padre Giuseppe Caprera, per il suo grande attaccamento all’Ordine, alla Madonna e al Convento, sopportò la prigionia e l’esilio negli anni 1885- 1888.
Padre Caprera insieme al fratello Corrado vendette la sua vasta proprietà di famiglia per riavere dal demanio il Convento che, come tutti gli altri conventi, era stato confiscato.
Quando morì, il 6 giugno 1891, lasciò in testamento il Convento della Madonna della Scala al vescovo della Diocesi di Noto, Mons. Giovanni Blandini.
I pellegrinaggi ripresero nel Santuario e in particolare l’8 settembre c’era un pellegrinaggio che era guidato dal Vescovo.
Il vescovo, sempre Mons. Blandini, cercò di far tornare nel Santuario i PP. Carmelitani ma  invano. Offrì il Convento e il Santuario alla Congregazione religiosa dei PP. Salvatoriani che si erano costituiti di recente e di origine tedesca.

 Padre Francesco Maria Jordan – Fondatore dei Salvatoriani

Nel programma della Congregazione c’era una particolare attenzione al culto Mariano. I PP. Salvatoriani accettarono la proposta e 20 religiosi, nel 1894 aprirono uno Studentato che fu uno dei più importanti d’Italia. L’obiettivo dello Studentato era la formazione dei giovani della Congregazione. Grazie ad una raccolta di fondi, che fu effettuata anche in Germania, abbellirono l’interno della Chiesa e del Convento.
Diventarono nel territorio un importante punto di riferimento anche per la loro cultura. Molti giovani di Noto, appartenenti a distinte famiglie, furono aiutati nei loro studi dai frati.
Sopraggiunse la prima guerra del 1915-18 e tutto fu abbandonato.
Nel 1917 il nuovo vescovo, Mons. Giuseppe Vizzini, fece trascorrere ai suoi Seminaristi le vacanze nel Santuario come ospiti dei due frati Salvatoriani che erano rimasti nel Convento, Padre Leopoldo e Fra Floriano. In quei momenti si concepì l’idea di trasformare il convento abbandonato in residenza estiva del Seminario Diocesano. Il progetto fu realizzato dopo dieci anni.
Nel 1927 il Vescovo ricomprò a nome del Seminario, il vecchio Convento che era in rovina e nel 1928 iniziarono i lavori di ristrutturazione per adattarlo alla nuova destinazione d’uso.
In quel periodo moriva a Noto l’unico superstite degli ex-Carmelitani che erano vissuto nel Convento, il sac. Corrado Jacono Raeli.
Nel suo testamento citò la Madonna della Scala che con grande nostalgia chiamava “Sua Mamma” e nominò erede delle sue terre intorno al Convento, il vescovo con la condizione che la Chiesa del convento diventasse Parrocchia. Nello stesso anno, 1928  la Chiesa fu elevata a parrocchia.
Furono compiuti altri interventi di restauro per la definitiva sistemazione a residenza estiva del Seminario. Il 20 luglio 1931 il cardinale Eugenio Pacelli (Pio XII) decretò l’incoronazione della preziosa Immagine.
Da quella data il Santuario è da sempre meta di pellegrinaggi  e il convento ospita importanti convegni diocesani. Ogni anni il Clero della Diocesi si riunisce e nel mese di Maggio i fedeli di Noto e di altre province in pellegrinaggio si recano a pregare presso  la Madonna delle Scale.
Il 3 agosto ricorre il giorno della festa.
Nonostante la seconda guerra mondiale le decorazioni del Santuario furono ultimate. La nuova ala del SS. Crocifisso fu completata e l’8 settembre 1943 Mons. Angelo Calabretta, Vescovo di Noto, consacrò il tempio. Nel 1948 ci fu la prima “Peregrinatio Mariae” e nel 1954 la seconda “Peregrinatio Mariae” cioè celebrazioni legate all’Anno Mariano.

Ma chi fu l’artista che dipinse l’immagine della Madonna ?
L’artista dipinse sulla ruvida roccia, tutt’altro che liscia e adatta a ricevere le impressioni dei colori, la Madonna in piedi, in uno sfondo di rocce e di scoscesi dirupi. Il suo abbigliamento è di color rosso porporino con il mantello dal colore azzurro vivo che viene raccolto in due lembi. Con il braccio sinistro sostiene in Bambino dai riccioli d’oro. Un volto tenero, da Bambino, e porta con la mano sinistra il globo sormontato dalla Croce e con la destra fa un atto di benedizione. Il capo della Vergine è ornato da una corona reale mentre intorno alla testa del piccolo Gesù c’è un aureola di raggi. In alto cinque visi di angeli in atteggiamento di contemplazione. A destra in basso, appoggiata alla roccia la simbolica scala di cui si contano sei gradini mentre gli altri sono nascosti dalle vesti della Madonna.
La pittura è racchiusa da una cornice di stile barocco.
La raffigurazione  sarebbe da collocare intorno al IX secolo quando la Sicilia era sotto la dominazione dell’imperatore bizantino Michele Balbo. Una datazione tra l’altro legata alla rappresentazione dell’abito della Madonna. Quando alla tecnica potrebbe essere quella dell’encausto perché forse è l’unica a poter resistere a quelle condizioni ambientali a cui l’immagine fu sottoposta.


L’encausto è una tecnica pittorica applicata su un muro, marmo, legno, terracotta, avorio e anche su tela.
Sia Plinio che Vitruvio descrivono i metodi di esecuzione dell'encausto.
I pigmenti venivano mescolati con colla di bue, cera punica (ovvero cera vergine fatta bollire in acqua di mare) e calce spenta, per sgrassare la colla: si ottiene una tempera densa, da diluire eventualmente con acqua. Una volta asciutta la tempera, la si spalmava con cera punica sciolta con un po' d'olio. Si scaldava quindi il supporto con un braciere  per far penetrare la cera fino al supporto. Infine, si passava alla lucidatura con un panno tiepido.
Una tecnica che era conosciuta anche a Pompei e in Grecia come riferisce Plinio il Vecchio.
Sembra che il suo inventore sia stato Aristide di Tebe.
In epoca rinascimentale sembra che anche lo stesso Leonardo da Vinci cercò di realizzare la sua opera “La Battaglia di Anghiari” con la tecnica dell’encausto. Sorsero però dei problemi tecnici e il dipinto fu in gran parte rovinato.




CONVENTO

Quando visitai il convento nel 1974 c’erano ancora le piccole celle dei frati e fra queste quella del frate fondatore Gerolamo Terzo. Una cella che fu lasciata intatta dal giorno della sua morte e che presentava biancheria, vestiario, le rozze assi con relativi cavalletti di legno che sostenevano il suo pagliericcio.
 Il frate era solito affliggersi con vari utensili in segno di colpa e sul suo corpo quando morì furono trovate numerose ferite da taglio. La sua piccola cella presentava le pareti macchiate di sangue.
Le celle dei monaci presentavano vecchi mobili d’epoca per lo più in arte povera.
Il convento, dotato quindi di numerose celle per i monaci, fu abitato prima dai Carmelitani e successivamente dai padri Salvatoriani di diversa  provenienza europea (francesi, polacchi, tedeschi).
I frati polacchi lasciarono nella chiesa del Convento un importante testimonianza della loro presenza: un quadro della Madonna Nera di Czestochowa..
Il quadro originario si trova nella città polacca di Czetochowa e vi fu fatto portare per ordine di Ladislao, duce di Opale. I polacchi attribuirono ad una miracolo della Madonna nera la liberazione della città dall’assedio degli Svedesi nel 1655 ed oggi è molto venerata in tutta la Polonia.
A quanto sembra questo quadro, che era presente nel Santuario di Santa Maria della Scala, dovrebbe essere uno dei pochi esemplari in Italia.


CHIESA
L’interno è piccolo e ad unica navata.
Sotto la mensa c’è l’urna con il corpo del martire San Franzo che fu trovato nelle catacombe di San Callisto a Roma al tempo del frate Ven. Girolamo Terzo.
Fu donato al frate da papa Benedetto XIV. Fu collocato nella ricca urna di legno dorato per volere della duchessa Doria e a spese della nobile fu mandato a Noto al frate.
 In merito a notizie storiche su San Franzo è necessario rifarsi alle fonti espresse da papa Clemente. Sarebbe uno dei tanti martiri cristiani che furono trucidati nei giardini vaticani da Nerone dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64.  Lo storico Tacito, nei suoi Annalli  riportò che  i martiri “furono alcuni ricoperti di pelle di belve e furono lasciati sbranare dai cani, altri furono crocifissi, ad altri fu appiccato il fuoco al termine del giorno in modo che servissero di illuminazione notturna”.
Sono considerati protomartiri della santa Chiesa di Roma e in gran parte discepoli degli Apostoli.
Il suo corpo fu martirizzato all’età di sedici anni, tagliato a metà, all’altezza del bacino e in seguito prelevato per essere deposto nelle catacombe di San Callisto
In epoca recente il sarcofago di vetro fu rotto da una donna che vi prelevò la testa. Questo avvenimento  rovinò la perfetta tecnica di imbalsamazione eseguita dagli antichi e quindi  l’aspetto del santo.

Sul frontale della porta della chiesa due lapidi: “ Entrando nel mio Tempio raccogliete il vostro spirito in rispettosa devozione” e “La casa di Dio e la Porta del Cielo”.
Sulla chiave dell’arco interno, sovrastante la porta, c’è lo stemma del Vescovo Mons. Angelo Calabretta e l’invocazione “Regina della Chiesa Netina, prega per noi”.
Entrando in Chiesa  si notano le stazioni della Via Crucis, scolpite in legno, ed opera dello scultore Di Bella nel periodo in cui furono effettuati i lavori di decorazione del tempio.
Il battistero è decorato da un bellissimo arco costituito da frammenti provenienti dall’arco gotico dell’antico convento dei PP. Cappuccini della Madonna della Pietà, detta poi delle Grazie. Si tratta della prima chiesa dei frati Cappuccini nell’antica città di Noto. Era una chiesa fuori le mura che venne poi abbandonata per  costruirne una nuova, con relativo convento, entro le mura della città.
Dopo il Battistero, sempre sul lato destro della chiesa, c’è una porta che conduce al Seminario. Dal lato opposto, dove una volta era collocato il sepolcro del Ven. Girolamo Terzo, è posta una grande lapide, in lingua latina, che riassume le vicende storiche del Santuario.



Ci sono quindi due cappelle laterali. Quella di destra, sempre rispetto a chi entra in chiesa per la porta centrale, è dedicata al Sacro Cuore di Gesù con quadro di un artista moderno di Acireale. Subito dopo c’è una piccola navata laterale con il fondo l’altare del Crocifisso che sull’arco sovrastante reca la scritta ”Egli mi ha amato”.


Sulla parete di sinistra, quindi di fronte all’altare del Sacro Cuore, c’è un altare dedicato alla Madonna del Carmine con una tela che risale all’epoca dei Carmelitani.
La parete che chiude questo altare contiene il sepolcro del Ven. Girolamo Terzo.
In questo sepolcro venne deposto il corpo di Frate Girolamo quando fu riesumato l’uno settembre 1941 dal vescovo Angelo Calabretta. Una lapide, che fu incisa quando morì frate Girolamo riporta:
“Gloria a Dio Ottimo Massimo – A Fr. Girolamo di Gesù, Maria, Giuseppe, netino, che si rese dovunque illustre per ogni genere di virtù, dopo parecchi anni trascorsi tra gli eremiti, professò fra i Carmelitani della più stretta osservanza della provincia siracusana, la vita religiosa che cambiò poi con quella immortale l’11 Aprile 1738 all’età quasi di 75 anni, i Religiosi suoi confratelli del convento che Egli innalzò dalle fondamenta, ed arricchì con le elemosine dei fedeli, qui seppellendone il corpo in segno di onore, questa lapide dedicarono”.
Passato il sepolcro del Venerabile si entra in sacrestia.
Qui si può ammirare uno stupendo armadio intarsiato in stile pompeiano che ripete la stessa arte dei 24 stalli del coro.




Coro Ligneo del XVIII secolo

Gli stalli furono eseguiti nel 1748 da in frate artista maltese che impiegò nove mesi per la loro realizzazione. Si chiamava frate Carmelo Camilleri e fu portato a Noto da frate Girolamo quando si recò a Malta per le elemosine.
Il pregiato armadio doveva essere già presente in sacrestia al momento della realizzazione degli stalli dato che il vescovo di Siracusa, Mons. Matteo Trigona, rimproverava al Frate Girolamo nel 1740 come “quel mobile fosse troppo lussuoso per l’arredamento di una chiesetta di un eremo”.
Il coro sovrasta la porta centrale della chiesa ed ha un organo che fu acquistato, restaurato e donato al Santuario dal vescovo Mons. Vizzini. In sacrestia si trovano altri due mobili che custodiscono alcune preziose reliquie di Frate Girolamo e alcuni suoi oggetti.  Tra gli oggetti gli strumenti delle Sue penitenze che stavano nella sua piccola cella quando morì.

Nella sacrestia si trovano anche custoditi preziosi ed antichi paramenti sacri.
Il santuario presenta la torre campanaria da cui si accede attraverso la tribuna del coro.
Un’antica campana che emana un suono delicatissimo anche al piccolo contatto delle dita.
Dalla sacrestia si passa al presbiterio che è stato recentemente restaurato ( il pavimento di marmo rosso di Verona, una balaustra  e l’altare maggiore di marmi policromi).
L’arco che sovrasta la balaustra porta la scritta “Giacobbe vide una scala” è un simbolico riferimento alla Madonna.
Anche le pareti del Presbiterio portano dei brani di due Santi e Dottori della Chiesa.
Nella parete di destra, di chi guarda l’altare, le frasi di S. Alberto Magno, maestro di S. Tommaso d’Aquino..”Giacobbe vide nel sonno una scala, cioè Maria. Infatti per Lei il Figlio di Dio discese a noi e per Lei noi saliamo a Lui. (Una scala) che poggiava sulla terra… benchè sia assisa sul trono (alla destra del Figlio Suo, Regina dell’Universo), è infatti vicina ai peccatori per procurarne la salvezza”.
Nel lato opposto, sulla parete di sinistra, le frasi dell’Abate di Chiaravalle, San Bernardo nel secondo discorso dell’Avvento: “Procuriamo anche noi, o dilettissimi, di salire per mezzo di Maria a Gesù che per mezzo di Lei discese verso di noi, di conseguire per Suo mezzo la grazia di Colui che per mezzo di Lei si degnò abbassarsi fino alla nostra miseria. con la Tua mediazione fa che possiamo essere accolti dal Tuo Figlio che per Tuo mezzo ci fu dato”.
Alla base delle colonnine che costituiscono il fregio laterale della Sacra Immagine della Madonna, sono riportate delle date  importanti.
Nel lato destro di chi guarda, è riportato lo stemma della città di Noto e con croce, sormontato da una corona e con sotto la frase: “Nell’anno del Signore 1942-1943 in cui i fedeli di tutta la Diocesi si consacrarono con speciale fervore al Cuore Immacolato della SS. Vergine”.
Nel lato sinistro è presente lo Stemma Pontificio e sotto le parole che indicano i lavori eseguiti “ nell’anno del Signore 1942-1943 in cui imperversando la più sanguinosa delle guerre, i fedeli di tutto il mondo celebrarono il 25mo dell’Episcopato del Sommo Pontefice Pio XII”.
Il quadro della Madonna è sormontato da un ovale in cui sono riportate le parole rivolte da Gesà morente dalla Croce all’apostolo S. Giovanni..”Ecco la tua Mamma”.


Il 3 agosto ricorre la festa della “Madonna della Scala”, Patrona della Diocesi di Noto. Nei festeggiamenti si commemora anche il miracoloso ritrovamento dell’effige della Madonna.

Un tempio o una necropoli sotto il Convento ?
Nella mia visita al santuario il frate allora mi parlò di antiche testimonianze del passato. L’edificio, se non ricordo male (era tra il 1975/80) era allora in fase di ristrutturazione, c’erano delle impalcature anche se i lavori sembravano fermi da tempo. Probabilmente allora le cucine del convento subirono degli interventi e certamente non sarà sfuggita quell’apertura, murata, di cui parla il Biscari (1719/1786). Non so se la Sovrintendenza di Siracusa abbia trovato qualcosa e se si sia accorta di quell’apertura.
La piccola relazione che segue, fa parte di una “Miscellanea” di cui purtroppo non ho come riferimento il numero e l’anno…
L’illustre archeologo Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari, nel suo “Viaggio per tutte le antichità di Sicilia”, scrisse. “a distanza di due miglia del presente Noto, nel Romitorio di S. Maria esistono gli avanzi d’un Tempio, i quali, se il viaggiatore vorrà osservare, bisogna che gli ricerchi nella cucina di quei frati.  Non saprei però determinare, se questo monumento possa all’antico Noto spettare, o ad altra sconosciuta popolazione, giacchè la distanza di dieci miglia da questo è bastante a metterlo in dubbio”.  La pubblicazione del Biscari risale al… e il romitorio fu per anni abbandonato e destinato ad uso colonico per circa quarant’anni. pure la cucina, che fu indicata dal Biscari, fu trovata in buono stato e restaurata perché il romitorio fu successivamente riabitato dai frati. Gli avanzi che citava il Biscari erano costituiti da un apertura, formata da due massi, e murata, la quale metteva in comunicazione l’orto con la cucina ove ora vi si accede per un piccolo uscio. Non potendo constatare se, quando il romitorio o da qualche altro che gli comunicò la scoperta, ove ora è l’orto era un fabbricato al quale si entrava dall’apertura murata, non possiamo dare alcun giudizio sull’esattezza della sua attribuzione.
Vi erano degli avanzi che testimoniano come in quella località dovette sorgere un monumento del quale non potremo stabilire ad occhio e croce l’età e l’identità, se non quando verrà messo allo scoperto.
Probabilmente agli archeologi sfuggì le notizie e ricerche che furono effettuate dal Biscari sul luogo.

In merito alle origini del Santuario, l’edificazione della Chiesa che sorge attigua al romitorio fabbricato nel 1691, è incerta e attribuita, come afferma Vito Amico nel suo “Lexicon Topographicum Siculum”, ad alcuni naviganti inglesi che soffrirono naufragio sulle coste vicine. Una leggenda che potrebbe essere verosimile, ammettendo che abbiano trovato in quel luogo una vetusta e piccola chiesa e l’abbian restaurata. Ma appare addirittura strana considerando il luogo, ove sorge il santuario, che è equidistante dal lido e da Noto vecchio e per parecchi chilometri, e perciò niente adatto a fabbricarsi una chiesa, che sarebbe rimasta solitaria in aperta campagna. La leggenda suffraga la congettura che la piccola chiesa è di un’età vetusta e le anticaglie che si trovano hanno stretta relazione con essa. E ci conferma in ciò l’aver constatato ch’essa per l’apertura, ora murata, era in comunicazione col monumento i cui ruderi, ora interrati, formano una galleria fiancheggiata da grossi macigni, come v’è stato assicurato dall’eremita, che custodisce il santuario, e che la osservò, quando mise l’orto a cultura. Il presunto tempio sarebbe una necropoli ? non si sa..”

Lungo la strada che da Noto Antica porta al Santuario ci sono delle bellissime edicole votive che raffigurano la “Via Crucis”.
I dipinti, alcuni di autori famosi, risalgono al 1700(?) e raffigurano la vita e le tappe del martirio di Cristo. Immagini ancora nella pienezza dei loro colori.

Una Edicola Votiva nei pressi del Santuario

Una parte del pavimento del Santuario

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Dal Santuario di Santa Maria La Scala del Paradiso la prossima tappa della Via Francigena della Val Di Noto,  è il Santuario di Santa Lucia di Mendola.


4. SANTUARIO SANTA LUCIA DI MENDOLA
     Santa Lucia, vedova romana - La Basilica Paleocristiana -  L'Antico Romitorio e la Chiesa          attuale -  La Fraternità di S. Maria degli Angeli -  La Basilica Ipogeica -  Le indagini di P.
      Orsi -  L'Abbazia Normanna -  La Relazione di Houel - L'abbandono e il degrado
      Un bellissimo video (con sottotitoli - agire su impostazioni)




È una chiesa rupestre che, pur essendo poco distante da Palazzolo Acreide, ricade in territorio di Noto.
È incerta la data sui primi stanziamenti di comunità cristiane sull’altipiano di Acremonte, forse non più tardi della prima metà del IV secolo.
La fiorente e ricca cittadina fondata dai Corinzi nel 664 a.C., posta secondo Tucidide sulla collina detta “Acremonte”, che separa le valli dell’Anapo e del Tellaro, e chiamata Akrai.
Akrai seguì le stesse sorti di Siracusa dopo l’occupazione romana.
Ai tempi di Augusto la distruzione della città era quasi completa e il materiale epigrafico dei primi secoli dell’era volgare ci rilevano l’esistenza di primi nuclei cristiani che abbandonarono la dorsale di Serra Palazzo, dove esistevano le rovine della città, per trasferirsi sul declivio della sottostante collina. Qui diedero origine alla formazione di un villaggio conosciuto con il nome di “Rehalberaris” in epoca araba e di “Munde o Mèndola” nell’alto medioevo (466 – 1000 circa).


Qui secondo una tradizione agiografica tra la fine del III  e i primi del IV secolo sarebbe giunta la vedova romana Lucia con il nobile Geminiano ed altri cristiani, miracolosamente scampati alla persecuzione di Diocleziano. Qui svolsero una feconda missione di cristianità che alla fine si concluse con il martirio.

Santa Lucia, Vedova di Roma, e San Geminiano
Roma – Chiesa di Santa Lucia alla Tinta

Sul loro sepolcro, diventato subito importante centro di culto, fu elevato da una donna facoltosa di nome Massima un tempio le cui sorti andarono per un certo tempo con quelle legate all’oscuro borgo medievale circostante.
Borgo che a quanto sembra fu distrutto durante la dominazione araba per poi risorgere con un importante cenobio sotto la dominazione Normanna.
Cenobio che fu iniziato dal Conte  Ruggero e venne portato a compimento dal nipote Tancredi, Conte di Siracusa. Fu consacrato nel 1103 dal Vescovo Guglielmo già monaco dell’abbazia benedettina di S. Eufemia con il quale si era riaperto, dopo un grande intervallo di circa due secoli, il glorioso ciclo dei vescovo siracusani. Nello stesso anno il Tancredi, con un diploma, concesse il feudo di S. Lucia di Mendola al Monastero di Bagnara. I privilegi contenuti nel diploma furono confermati qualche decennio dopo da Ruggero II, re di Sicilia e di Calabria, a Guglielmo priore di S. Lucia e di Bagnara. Il cenobio fu quindi affidato ai monaci benedettini  con in dote il feudo omonimo di S. Lucia, altri beni e i residui aggruppamenti del borgo rurale.
Nel 1193 papa Celestino III riunì di due monasteri a quello calabro di S. Maria di Gloria, posto nella diocesi di Mileto, di cui erano suffraganee le seguenti chiese siciliane: S. Matteo di Messina, S. Maria di Licata, S. Maria di Castronovo, S. Pietro di Sclafani, S. Giorgio di Lentini. L’abate dei monasteri riuniti, in virtù della stessa concessione, ottenne il privilegio di indossare gli abiti pontificali e di restare esente da ogni giurisdizione ordinaria.
Nella storia del priorato di S. Lucia vengono ricordati: Filippo Beath (1395), Rinaldo Lectione (1396), Michele Mari (1398), Francesco da Napoli (1402), Ludovico Spinas (1421), Giacomo Tudisco di Catania (1443), Giacomo Costanzo di Noto (1446), Tommaso Bonifacio (1446).
Sembra che in questa epoca la chiesa di S. Lucia fosse diventata di nomina regia, come si può rilevare da una lettera di Re Alfonso del 1452. Con  diploma del 1477, di papa Sisto IV, il Monastero di Bagnara con le chiese annesse (compresa quindi anche quella di S. Lucia di Mendola) fu assegnata ai canonici di San Giovanni in Laterano da cui perciò dipese l’elezione del priore.
Nel 1579 i canonici lateranensi concessero a Giacomo Ruffo, signore di Bagnara, tutti i beni spettanti a quella abbazia con relativi diritti sulle chiese o monasteri suffraganee,  solo riserbandosi il diritto di elezione dei priori. Il successore Carlo Ruffo concesse il feudo di S. Lucia a Giuseppe De Martino con l’obbligo di corrispondere alla chiesa una determinata rendita per il mantenimento del culto. In seguito il feudo passò a Ponzio Valguarnera che comprò il titolo di marchese di S. Lucia.

Il primo abate commendatario eletto dal Capitolo Lateranense fu Paolo Callari di Palazzolo che restaurò la Chiesa di Santa Lucia che era “in rovina da più parti”. Nella struttura del cenobio, con vari interventi di abbellimento, intervenne nel 1663 anche Vincenzo Campisi da Recalbuto che fu uno degli ultimi abati eletti dal Capitolo Lateranense. Alla sua morte, Simone Fimia, che fu poi Vicario Generale dell’arcivescovo di Palermo, nel 1640 ottenne dal re il conferimento del monastero essendo di divino patronato.
Nel Registro delle Ordinazioni e dei Regolamenti del Regno di Sicilia

 si legge che nella Sessione del 21 giugno 1674

-          B. Militare: L’Ill. Principe di Pietraperzia; L’Ill. Conte di Racalmuto;
-          B. Ecclesiastico: L’Ill. Principe La Torre;
-          B. Demaniale: L’Ill. Don Francesco Cappero
È stato oggi appuntato, che si passino l’infrascritte esecutorie, cioè:
“Esecutoria di regie Lettere date in Madrid a 18 Settembre, 1673, esecutoriate in questo Regno a 6 Giugno 1674, per le quali S.M. presenta D. Domenico Ferraris per l’Abbazia di S. Lucia di Noto in questo regno di Sicilia, che vaca per la morte di D. Simone Fimia”.

Domenico Ferraris di Milano fu letto con nomina regia e alla sua morte un Francesco Ferraris che ricoprì importanti incarichi nella Curia Romana. Fu nominato successivamente Vescovo di Siracusa da Carlo III  e non ottenne il beneficio della Consacrazione per l’abbazia di Santa Lucia.
Il terremoto del 1693 causò la completa rovina dell’antico cenobio. Sui ruderi, in seguito ad una concessione rilasciata a padre Corrado Sieri, sorse nella prima metà del secolo XVIII l’eremitaggio che è ancora oggi esistente e il Santuario attuale.


Sembra che la nuova costruzione normanna sia sorta a breve distanza dall’antica chiesa bizantina, le cui rovine erano ancora visibili al tempo del Fazello che evidenziò “le linee iconografiche della basilichetta greca”.
La chiesa normanna doveva essere un edificio importante se ospitò i resti mortali di Roberto, figlio di Tancredi, e godette quindi per diversi secoli di un periodo di grande floridezza sia spirituale che economica.
Un luogo sacro importante come il non lontano cenobio cistercense di Santa Maria dell’Arco di Noto Antica. Due monasteri legati dalla presenza dei monaci benedettini e dalla loro missione.
Il cenobio di Santa Lucia aveva d’altra parte anche il privilegio di battere moneta e l’abate aveva il diritto di sedere a parlamento e giurisdizionalmente dipendeva in via diretta dal pontefice.
Il suo declino iniziò nella seconda metà del XVII secolo e certamente fu una conseguenza del terribile terremoto del 1693 che probabilmente diede un colpo mortale alla struttura con la sua distruzione.
Sulle sue rovine quindi sorse un modesto eremo che si ricollegava alla tradizione religiosa del luogo nel nome e nella suggestione dell’ambiente ricco quasi di misticismo.
Spesso qualche agricoltore lavorando i terreni circostanti trovò qualche frammento nascosto che non sfuggì all’avidità degli uomini. Le rovine dell’antico cenobio diventarono infatti un’agevole cava di pietra che fu usata per le nuove costruzioni.
Paolo Orsi nelle sue indagini rilevò che il sito di Santa Lucia di Mendola conservava “fino a non molti anni addietro” (Paolo orsi era allora senatore e Soprintendente alle Antichità) “tracce di piccole costruzioni e di sepolcri. Tutto sparì con le bonifiche agrarie dei terreni ma si trovarono sempre in grandissima quantità monete e piccoli oggetti che in scarsa misura erano romano-tardi e in gran prevalenza bizantini e normanni con qualche più rara rappresentanza dei secoli successivi”.
Per fortuna non tutto fu perduto perché l’attenzione della Direzione del Museo di Siracusa permisero di recuperare un gruppo di preziose sculture decorative che oggi sono esposte nel Museo d’Arte Medievale di Palazzo Bellomo. Si tratta di circa quindici pezzi che erano destinanti al coronamento della cattedrale o Chiesa normanna. Alcuni stranamente sono incompiuti e mostrano i segni di un lavoro non completato. Pezzi le cui immagini si trovano alla fine della ricerca sul Santuario di Santa Lucia di Mendola.

La storia della chiesetta è legata ad una Lucia da non confondere con la Patrona di Siracusa. Si tratta di una nobildonna vedova romana che si convertì al Cristianesimo. Nella sua opera di evangelizzazione riuscì a convertire altri romani tra cui il nobile Geminiano.
Il figlio di Lucia, Euprepio, pretese l’intera eredità che la donna rifiutò di concedergli. Il figlio contrariato accusò la madre pubblicamente di cristianesimo. Lucia e Geminiano vennero arrestati da Diocleziano e subirono vari supplizi. Riuscirono a fuggire e si rifugiarono prima a Taormina, poi ad Alesa (Castel di Tusa – Messina). Ad Halesa Lucia compì un miracolo e successivamente giunsero al villaggio di Mendola. Qui si fermarono perché Dio, mentre Lucia e Geminiano erano in preghiera, si rivolse a loro dicendo: “questa è la vostra sede, fissatela qui per sempre”.
 A Mendola Lucia diffonde la parola di Cristo, guarisce molti malati, scaccia i demoni e ridà la vista ai ciechi. Il magistrato del luogo. Aprofasio, si recò a Mendola nel 298 d.C. e riuscì a catturare 75 cristiani che furono giustiziati. Le persecuzioni continuarono e Lucia e Geminiano per sfuggire alle persecuzioni si rifugiarono nelle grotte.
Grotte che erano state scavate dai Siculi  nel IX – X secolo a.C.(?) e probabilmente dedicate alla venerazione della dea Hibla.

Soffrendo la sete da tre giorni, il Signore fece sgorgare dalla roccia una fonte miracolosa che "scorre a guisa di fiume. Rimane quel pozzo sino ai nostri giorni. Quelle acque  sanano gli ammalati che bevendone  invocano  Dio e  Lucia." ( Bonfiglio Piccione, “ L’ Eremo di S. Lucia”, 1904). “ Se  qualcuno beve l’acqua donata dal Signore in grazia delle preghiere di S. Lucia, qualunque sia la malattia che l’opprime, viene risanato”. ( Mario Re " La Passio dei SS. Lucia e Geminiano").
Il loro nascondiglio venne scoperto dal console Megasio. Lucia pregò il Signore invocando una morte serena avendo subito già a Roma varie torture. Gesù accolse la sua supplica e morì dentro la grotta, era il 16 settembre 299. Geminiano uscì dalle “caverne” per darle un onorata sepoltura ma fu ucciso dalla scure di Megasio e morì quindi martirizzato.

 Geminiano è  giustiziato mentre seppellisce Lucia.
Menologia di Basilio II (Biblioteca Vaticana – Roma)

Lucia e Geminiano sarebbero quindi due santi locali in virtù del loro “dies natalis” il giorno della nascita in Cristo, che fa sì che la patria di un santo non sia il luogo della sua nascita o dove visse ma quello dove subì il martirio.
La leggenda narra quindi che per combattere la sete sgorgò per un miracolo dalla roccia una sorgente ancora esistente. Una sorgente che probabilmente era già presente ai tempi dei Siculi ed è probabile che la stessa sia collegata al misterioso culto delle Ninfe. Un acqua che  negli anni successivi fu considerata miracolosa. Lucia è un nome legato alla parola “luce” e in quella grotta arrivarono tanti pellegrini per curare gli occhi da malattie e cecità grazie all’uso di quell’acqua. Si vocifera che ancora oggi si siano verificate delle piccole guarigioni grazie all’uso dell’acqua della grotta.



In merito a Lucia , Geminiano e gli altri cristiani (74) in verità non si sa molto. Alcune fonti citano che siano stati martirizzati a Roma e nella Chiesa di Santa Lucia della Tinta, dedicata proprio alla nobile vedova romana, siano conservate le sue reliquie.

Roma – Chiesa di Santa Lucia della Tinta
“Tinta” perché la chiesa sorgeva nel quartiere dei Tintori
La più antica citazione della chiesa si trova in un epigrafe datata 1122.




Nella chiesa romana si trova un piccolo reliquario dove, secondo le fonti, ‘ è presente un piccolo frammento osseo di Santa Lucia. L’altare dedicato ai sue santi fu consacrato da mons. Eustachio Entreri nel febbraio del 1737 che per tale cerimonia, sempre secondo le notizie in mio possesso, adoperò come reliquie i resti dei due martiri Severino e Giocondina.
Nella chiesa sono esposte, in due nicchie ai lati dell’altare maggiore, molte reliquie.
Nella loro Passio  si cita che siano invece sepolti a S. Lucia di Mendola e nel Martirologio Romano..” 16 settembre - A Roma i santi Martiri Lucia, nobile matrona, e Geminiano, i quali dall'Imperatore Diocleziano, afflitti con gravissime pene e per lungo tempo tormentati, dopo l'onorata vittoria del martirio, furono fatti uccidere colla spada”.

Le agiografie di questi personaggi sono contenute in alcuni codici manoscritti medievali (“Vaticano Greco 866, XI sec. fogli 56v60”) dal quale hanno preso notizie Surio, Gaetani, Pirri.
Il nome della città Mendola deriva, secondo gli storici, da Mende cioè una città abitata intorno al 300 quando si svolsero gli avvenimenti legati a Lucia e ai cristiani.
Il Gaetani nel suo “Animadversiones” affermò che gli avvenimenti luciani si sarebbero svolti “in oppido Mendis”.

Ottavio Gaetani…”Lat. Antrum S. Lucia…Grotta in un Monticello nel territorio della città di Noto; è sotterranea, e perciò molt’oscura; quindi è, che per calarvi, bisogna valersi di candele accese: vi scorre dentro una vena di acque, non meno limpide, che salutifere, come sperimentano gl’Infermi, che l’usano, con raccomandarsi a’ SS. Lucia Vedova, e Geminiano Martiri, li quali fuggendo la persecutione di Megasio Consolare, essendo arrivati in questo Monticello, per nascondersi, si spaccò un vasto sasso per mezzo, e formò l’antro, di cui savelliamo, dove si fermarono nascosti per tre giorni, e tormentati dalla sete, vi nacque miracolosamente il mentovato fonte, del quale il P. Gaetano nel tomo I. delle Vite de’ santi di Sicilia, a car. 80. Delle Animadv. Scrive così, “In divinam illam Speluncam σnos introgressi, fludio in SS. Luciam, σ Geminianum, eoque ex fonte pietatis affectu potavimus, quem Martyrum preces fodere: in praesentum usque diem spelunce, fontique veneratio, σaquae divina vis: pleriquehaustu fontis, aut looti, variis morbis curantur”. Quivi da Massima piissima donna fu in honore de’ santi sudetti edificata una Chiesa, della quale sin’a’ nostri tempi si vedevano le rovina: hoggi vi è un Eremitorio, detto di Santa Lucia”.


Il sito sembra che sia stato teatro di culti preistorici, forse legati all’acqua, e abitato successivamente dai greci e dai romani. Romani che vi costruirono una villa anche se in realtà i reperti dell’epoca sono alquanto rari. Nel periodo tardo antico il sito si sviluppò con l’inizio del culto legato a Santa Lucia in periodo bizantino, con il successivo abbandono in epoca araba, e una ripresa con la dominazione normanna.


Si tratta quindi  di tre chiese sovrapposte:
una chiesetta moderna;
una basilica paleocristiana
un tempio siculo dedicato alla dea Iblea e che fu utilizzato da santa Lucia e Geminiano

LA BASILICA PALEOCRISTINA
Il sito archeologico si trova dietro la piccola chiesa del villaggio. Un sito che ha avuto vari riconoscimenti dai vari regnanti dato che ogni dominazione ha voluto lasciare in questo luogo un segnale della sua presenza.
Una zona di ricca d’acqua e quindi frequentato in periodo paleocristiano come dimostrano l’esistenza di canalizzazioni e di cisterne. Alcune di queste cisterne si trovano sotto la grotta di santa Lucia che fu utilizzata come sepolcreto. Si ha la sensazione di trovarsi in un luogo di grande spiritualità e partecipazione. La chiesa è scavata in un costone roccioso ed è al centro di diversi ambienti anch’essi scavati nella roccia. Il centro posto dietro la chiesa ha una pianta basilicale, un tempo ricoperta in legno come si deduce dall’esistenza dei fori per l’inserimento di travi. Ad ovest si apre il presbiterio e quindi un abside semicircolare che è orientato a nord-ovest. A sinistra dell’abside si apre una piccola navata divisa da tre archi dall’invaso centrale e su fondo di essa si nota un sistema per poter convogliare l’acqua che scorreva da una sorgente situata nelle immediate vicinanze. È probabile che questo fosse il battistero. A destra dell’abside si apre un vano di forma irregolare con grandi nicchie destinate a contenere arredi sacri e quindi due ambienti collegati con sulle pareti tracce di pittura.


L’abside



L’ANTICO  ROMITORIO

Nel 1712  P. Corrado Sieri, fra Lorenzo e fra Corrado da Noto, che seguivano la regola di S. Corrado Confalonieri, vollero edificare un Eremo a custodia della chiesa “per tenere quel santuario in venerazione”. Tali frati, essendo di vita esemplare, attirarono i sacerdoti di Palazzolo che volentieri vi si recavano per conversare e meditare insieme a loro. Per tutto il mese di maggio la gente di Palazzolo visitava la chiesa, venerava i santi martiri e gustava con devozione l’acqua miracolosa del pozzo.  Ben visibile e ancora in piedi la struttura portante con le caratteristiche  “cellette”, luoghi in cui abitavano i frati.




La Chiesa dell’ 800 ha una pianta basilicale, con una sola navata, un abside e un ‘altare. Negli ultimi anni sono stati effettuati degli interventi per la manutenzione del sito e per la sua sicurezza.
La chiesa fu iniziata nel 1712 e conclusi nel 1738. Un tempo sullo stipite della porta dell’edificio era riportata la data di ultimazione dei lavori. nel 1904 Fra Serafino Basile da Palazzolo restaurò la chiesa e il romitorio. Nel 1933 la chiesa fu eretta a parrocchia rurale.
Nel 1968 la chiesa fu sottoposta a dei rimaneggiamenti che purtroppo le diedero un aspetto moderno che contrastava con l’antico ambiente storico e semplice originario. Le pareti, ad e4sempio, erano coperti da una gran serie di ex voto lasciati dai pellegrini e che costituivano un importante aspetto di culto dell’edificio. Presentava tre alteri. Quello centrale in cui si venera ancora oggi il SS. Crocifisso e due laterali in cui erano poste le cappelle di S. Corrado e di S. Lucia.
Nel mese di settembre Santa Lucia viene portata in processione per le strade principali della contrada. Una manifestazione religiosa che richiama persone non solo dalla vicina Palazzolo Acreide ma anche da Noto.



Il 7 ottobre 2018 Mons. Angelo Giurdanella, vicario generale della Diocesi Noto, nominò Fratel Bernardo parroco titolare.  La parrocchia fu assegnata ai sacerdoti della Fraternità Santa Maria degli Angeli.
I pellegrini affluiscono da tutte le parti della Sicilia: molti vengono da Siracusa e provincia, altri da Ragusa e provincia (soprattutto da Modica, Ispica e Pozzallo, ecc).  
Molti giovani sono impegnati nella realizzazione delle varie attività, lavorano instancabilmente coadiuvati da tanti adulti che gratuitamente donano il loro tempo ed il loro servizio per l’edificazione e l’incremento turistico di un  territorio di una bellezza inimmaginabile.
Tutte le persone che desiderano proporsi e sviluppare un'esperienza umana e di fede.
La nostra missione, essendo l'unico ambiente al mondo che conserva il culto a S. Lucia Vedova Romana è quella di promuoverne la conoscenza della vita e delle opere, incrementando il culto e divulgandolo in tutto il mondo. La nostra missione è anche quella di offrire la possibilità di fare un'esperienza diretta nel territorio della fede e nei luoghi dove Lucia è vissuta ed è morta.
I valori fondamentali sono:
Fiducia
Collaborazione
Disponibilità al servizio
Nella nostra missione abbiamo:
Persone che collaborano nelle proprie comunità e in tutto il mondo
Disponibilità ad accettare il prossimo per un cammino di fede
Una community in cui è piacevole e gratificante partecipare
Un progetto che agisce autonomamente
Un progetto dedicato alla disseminazione dell'operato di Santa Lucia di Mendola

La festa di Santa Maria di Mendola ricorre la prima domenica di settembre con la processione nella contrada.


LA BASILICA IPOGEICA

Ma un’altra parte più nascosta, si trova in questo luogo magico, una piccola insenatura è l’inizio di una scala che condurrà a quella che molto probabilmente era la parte originaria della chiesa. Le scale condurranno a circa 20 mt sottoterra e si arriverà ad un ipogeo circolare con una fonte d’acqua ancora intatta. Probabilmente questa era la chiesa dove i pellegrini scendevano per riti di purificazione o per visitare quei luoghi che furono dei due Santi. La grotta è menzionata per la prima volta nel 1103 con cui Tancredi, conte di Siracusa, concede al monastero di S. Maria di Bagnara, la chiesa di Santa Lucia “de Montaneis”, quindi la si ritrova in un diploma di Ruggero che conferma la donazione e, ancora, in una bolla papale di Celestino III del 1192, fino alle decime ecclesiastiche per gli anni 1308-1310. Si tratta quindi di un luogo sacro riconosciuto nei tempi.
Attualmente lo stato degli affreschi è pessimo e si possono intravedere solo alcuni stralci di materia pittorica e qualche lettera. Dai pochi dati in possesso si possono vedere figure di santi.
La grotta di Santa Lucia della Mendola, in quanto dipendente dell’abbazia di Bagnara, appare d’importanza fondamentale per la ricristianizzazione e latinizzazione dell’altopiano sopra Siracusa. Essa potrebbe in realtà essere considerata solo un’appendice della ben più grande chiesa normanna del 1103.

L’ingresso per giungere alla grotta

Si scende nella basilica attraverso una scala ricavata nella roccia e le cui pareti presentano degli arcosoli, a distanza quasi regolare, che erano destinati a sepolture.




La cripta è raggiungibile anche da un altro cunicolo con gradini che si diparte da un secondo organismo sacro ipogeico.
A circa 25 metri di profondità si trova una bellissima basilica , con pianta a “T”, ed orientamento a est. Un vano rettangolare con soffitto piano perfettamente levigato, suddiviso in due sezioni da un tempio sagomato nella roccia con tre aperture ad arco.

Nel complesso la forma è piuttosto irregolare in dipendenza dell’origine naturale, ma il lavoro dell’uomo non è stato modesto, soprattutto nella parte destinata al santuario, ove le geometrie sono più regolari e le superfici di taglio più curate. Questa sezione ha forma rettangolare ed al centro della parete sud-est sono ricavate un’abside tonda di modesta profondità. Nella testata di destra si apre una porticina che conduce ad una modesta cameretta forse con funzioni di “diaconicon”.

Sulla destra c’è la sorgente d’acqua (il pozzo sacro) e sul fondo, a forma di abside, un altare, dedicato al culto della dea madre, simbolo della fertilità della terra, la dea Iblea (?).
Le arcate dell’iconostasi presentano profilo a tutto sesto, sono sostenute da pilastri di sezione rettangolare e quella centrale è leggermente più larga delle altre. Nel soffitto si scorgono alcuni anelloni di pietra che servivano a sospendere lucernette o altri corpi illuminanti.








LA GROTTICELLA  AFFRESCATA
Nel Santuario di S. Lucia di Mende esiste un piccolo locale ipogeico del tutto separato dalle altre due basiliche con pareti ricoperte di affreschi sacri.
Pure se in esso non si ha nulla di specificamente relazionabile allo svolgimento della liturgia, ciò fa supporre che possa essersi trattato di un terzo ambiente cultuale, verosimilmente di una cappella. 


ABBAZIA  NORMANNA  DEL 1103

L’Abbazia normanna è stata citata nella mia ricerca in merito alle notizie storiche del luogo.
In sintesi, per chi non ha letto la parte precedente, riassumo in breve la storia di questa importante basilica.
Sorta per volere del gran Conte Ruggero, consacrata dal vescovo normanno di Siracusa, Guglielmo, è la più antica basilica benedettina e la più illustre fra tutte le chiese dell’ordine benedettino in Sicilia. Dal 1090 al 1700 S. Lucia e i suoi connessi beni feudali, lungo il corso di ben otto secoli, andò soggetta a svariati trapassi di possesso, feudatari, dinastie, signorie, baronie e marchesi vari quali i Ruggieri, Tancredi, Ruffo, Valguarnera etc… 
I Signori e i Baroni ecclesiastici del Feudo e del Castello di S. Lucia sedevano tra i 61 prelati del parlamento generale del Regno di Sicilia (1103-1693); godevano del diritto di giurisdizione propria e del diritto quasi regale e quasi di sovrani di un “regnum in regno” di “batter moneta”, di coniare monete. Infatti sono state ivi raccolte innumerevoli monete, in grandissima prevalenza romane imperiali da Costantino in giù, bizantine, arabe e normanne. Il terremoto del 1693 rase al suolo quasi tutto, lasciando solo ciò che è ancora visibile.




Frammenti di Decorazione dell’Abbazia Normanna





JEAN  HOUEL .. NEL SUO ….

“ Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari, Où l’on traite des Antiquités qui s’y trouvent encore; des principaux Phénomènes que la Nature y offre; du Costume des Habitans, & de quelques Usages, Paris 1785, volume III - Tavola CXCIX”

Roccia tagliata a Torre cava con Camere e Gallerie che la circondano Fig. 1. Pianta di questi ambienti Fig. 2. e d’un bagno scavato nella medesima roccia Fig. 3. [S. Lucia di Mendola presso Palazzolo Acreide], disegno e incisione all’acquatinta di J. Houel, cm 25x24,7

A tre miglia da Palazzolo Acreide Houel ha modo di osservare delle interessanti rovine e una cavità semicircolare intagliata nella roccia facenti parte del complesso eremitico di Santa Lucia di Mendola. Il culto del santuario risale, secondo le fonti archivistiche, al 1103, così pure il battistero rupestre che, fatto costruire dal Conte Ruggero, utilizzava un serbatoio d’acqua, probabilmente appartenente ad un ninfeo romano. L’artista ed architetto francese fornisce la sezione della cavità rocciosa e dei limitrofi ambienti, ma anche di una scala gradinata che porta ad una camera ipogeica. Di questa fornisce anche la pianta.
L’insieme si mostra al viaggiatore come un luogo di «grande magnificenza» ed egli vi trova, soprattutto nell’area che doveva corrispondere al giardino del convento, «resti di bellissimi mosaici» e «bei pezzi di marmo serpentino e porfirio».



… ED  OGGI  …..L’ABBANDONO DEL SITO ARCHEOLOGICO E IL DEGRADO

Il 6 marzo 2012. Il direttore del Parco Archeologico di Eloro, Dott. Lorenzo Guzzardi, al cui interno ricade il  sito di Santa Lucia di Mendola, denunciò lo stato dei luoghi dell’importante complesso archeologico. “In sito non è accessibile perché essendo scavato nella roccia va messo in sicurezza e per farlo servono un progetto, che attualmente non c’è, e dei fondi”.
L’importante denuncia fu presa allora dal parlamentare regionale siciliano del Pdl, Vincenzo Vinciullo, che chiese interventi urgenti con un interrogazione all’Ars, per la salvaguardia del complesso e per consentire la successiva fruibilità turistica del sito.
Il dott. Guzzardi spiegò che “il sito è per una parte, per quanto riguarda la basilica ipogea, di competenza della regione Sicilia, mentre per quella che riguarda l’attuale chiesa  e l’antico romitorio, che ha subito diversi crolli, di proprietà della Curia di Noto. Per quanto riguarda l’antica Abbazia Normanna è tutta da scavare e non si sa ancora dove ricade se nel territorio del Parco o in quello della Curia…..Serve in ogni caso per la basilica ipogea, attualmente chiusa (siamo nel 2012) perché non si può rischiare di aprire ai flussi turistici un sito scavato nella roccia quasi duemila anni fa. Il sito comprende infatti una rete di catacombe ed è sempre stato legato al culto di Santa Lucia, diversa dalla Martire Siracusana”.


 


C’è da mettere in risalto che un associazione si prodiga da tempo per riportare il culto della Santa com’era un tempo e nello stesso tempo sta cercando di valorizzare le testimonianze archeologiche che si trovano dentro un chiesa e non di facile accesso. Un luogo da scoprire e da custodire per la valorizzazione del territorio ma anche per impedire che  un  passo di storia di Sicilia non venga cancellato per sempre.

VIDEO – SANTA LUCIA DI MENDOLA
(con sottotitoli)


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LA VIA FRANCIGENA DELLA VAL DI NOTO



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