L’ENCICLOPEDIA DELLE DONNE (Seconda Parte) ALCUNE DONNE IMPORTANTI DELL’ANTICHITA’….Aspasia...La Pizia, Cinisca… Atlete Vittoriose nelle Olimpiadi …le Allieve della Scuola Pitagorica di Kroton…..Ipazia…
Ipazia d'Alessandria d'Egitto
Kroton
(Crotone) – Pitagora insegna alle sue allieve
Indice
11. La
Condizione Sociale della Donna nell’Antica Grecia
a. Le
Etere – Aspasia (Moglie di Pericle) – "“La vita delle
donne è sempre ricca di pene e sofferenze, ma non credo di
mentire dicendo che nessuna ha mai patito come me
nell’arco della sua esistenza “ - Leopardi citò Aspasia nei "Canti D'Amore" per Fanny Ronchivecchi Targioni Tozzetti.
nell’arco della sua esistenza “ - Leopardi citò Aspasia nei "Canti D'Amore" per Fanny Ronchivecchi Targioni Tozzetti.
22. Le
Donne a Sparta
a. Cinisca
, la prima donna a vincere le Olimpiadi – Le altre atlete vittoriose nelle Olimpiadi
33. Le
Donne nella Filosofia - Pitagora
a. La
Sacerdotessa (Oracolo) di Delfi – Diodoro Siculo fu il primo autore classico a
citare il Santuario di Delfi – Le Esalazioni di gas nell’Adyton – I Riti;
b. Pitagora
a Kroton – La città colpita dalla sconfitta nella Battaglia della Sagra – Locri Epizefiri – Locri (La fine della Statua di Persefone in Trono.... si trova a Berlino - Paolo Orsi fu accusato da un prof. di Catania del furto) - I Pinakes di Locri - Kroton (L’Influenza di
Pitagora nella città) – Il Tempio di Hera Lacinia – Il Pittore Zeusi – Il Diadema
d’Oro
c. Democede,
amico di Pitagora, un grande medico dell’antichità;
d. La
Politica di Pitagora – La guerra contro Sibari – Sibari - La rivolta contro i Pitagorici
– La casa di Milone fu incendiata – La morte dei Pitagorici e la fuga di
Pitagora a Metaponto - Metaponto - La Morte di Pitagora a Metaponto;
e. La
Scuola Pitagorica di Kroton - Le sue
allieve: Teano di Krton, Myia di Krton, Arignote di Kroton, Aesara di Lucania,
Ptolemais di Cirene – Phintys – Perictione (madre di Platone ?) – Tmycha,
uccisa da Dionisio di Siracusa – Melissa di Kroton – "La Scuola di Atene" , dipinto di Raffaello - L’astensione dei Pitagorici
dal mangiare fave;
4. Ipazia…
martire del pensiero uccisa dai cristiani parabolani (“polizia” del Vescovo
Cirillo, Santo e Dottore della Chiesa) - Il ricordo di Ipazia negli storici e nei letterati - E' ritratta nel dipinto di Raffaello "La Scuola di Atene" ? - Sinesio.. Le sue lettere ad Ipazia - Il Pensiero Filosofico di Ipazia - Le "Signore del Cielo " - Torino: Centro Internazionale Ipazia Unesco (IpUC) Donne e Scienza - Film "Agorà" sulla vita di Ipazia.
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1.
La Condizione
Sociale Della Donna Nell’Antica Grecia
La
condizione sociale della donna nell’antica Grecia fu diversa in base ai luoghi
e ai tempi. Alcuni elementi però si possono considerare costanti nell’aspetto
sociale:
-
La
sottomissione giuridica della donna all’uomo con sostanziale esclusione del
diritto di cittadinanza;
-
La
preclusione da determinate attività che erano ritenute di monopolio dell’uomo o
del mondo maschile;
-
Alcune
attività erano riconosciute come pertinenti alle sole donne. Attività che erano
interdette all’uomo perché disonorevoli.
Una
società profondamente “maschilista” dove appare evidente una completa
sottomissione e posizione inferiore della donna rispetto all’uomo.
Donna al lavabo
tondo
Kylix attico a
figure rosse attribuito al pittore Eufronio
VI secolo a.C. . –
Museo Metropolitan New York
"su, torna alle tue
stanze e pensa alle opere tue,
telaio e fuso; e alle ancelle
comanda
di badare al lavoro; all'arco
penseran gli uomini
tutti, e io sopra tutti, mio
qui in casa è il comando [...] "
(Odissea, VI, vv. 25-30)
La
società greca era fondata sui valori della guerra e sull’onore dove
difficilmente una donna avrebbe in quel tempo potuto dare un contributo se non
quello di essere una moglie devota, rispettabile, fedele e madre di figli sani.
Figli che sarebbero diventati futuri uomini adatti alla guerra e alla politica.
Alla donna in definitiva non era concesso alcun ruolo nella società se non quello
di occuparsi della sua famiglia, della sua casa e del suo focolare.
Forse
sono parole dure ma in realtà la donna era oggetto di scambio fra due
cittadini, il padre e il marito, che si realizzava con il matrimonio.
La
formula matrimoniale in uso ad Atene
era..”generare figli legittimi e di
gestire l’oikos (casa e patrimonio)”.
“Casa
e Patrimonio” di cui il marito deteneva la titolarità e assicurava il rapporto
con l’esterno.
I
greci veneravano una coppia di dei: Hestia ed Hermes… una coppia che dettava le
leggi ai due ambiti delle prerogative maschili e femminili e che alcuni critici
hanno indicato come espressione del “focolare” e dell’”angelo”.
Hestia
(da identificare con la romana Vesta) era infatti il focolare circolare,
fissato al suolo, il centro attorno alla quale la casa (famiglia) si radicava
nella terra. Era il simbolo della fissità, dell’immutabilità e della
permanenza. Da questo centro fisso lo spazio umano si orientava e s’organizzava.
Hermes
(da identificare con il romano Mercurio) abitava nelle case dei mortali.. Zeuss
nell’Iliade disse a Hermes..”più di tutti
gli dei, tu ami far da compagno a un mortale”. Abitava nella casa come un
angelo, messaggero ed era sempre pronto a ripartire…”non c’è niente in lui di fisso, di stabile, di permanente, di
circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano il
movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra
gli elementi estranei. Nella casa protegge la soglia, respinge i ladri perché è
lui stesso il Ladro… per il quale non esistono serrature, né recinto, né
confine”. Presente alle porte delle città, ai confini degli stati, agli incroci
delle vie, sulle tombe, che sono le porte del mondo infernale. Egli è presente
ovunque gli uomini, fuori della loro casa privata, entrano in contatto per lo
scambio -- nelle discussioni e nel commercio --, o per la competizione, come
nello stadio. Banditore, dio errante, padrone delle strade, sulla terra e verso
la terra; introduce una dopo l'altra le stagioni, fa passare dalla veglia al
sonno, dal sonno alla veglia, dalla vita alla morte. Hermes è quindi
inafferrabile, ubiquitario”.
La Dea Hestia
Hestia
era legata ai rituali simbolizzati dal fuoco. Quando una coppia si sposava la
madre della sposa accendeva una torcia sul proprio focolare domestico di casa e
la portava nell’abitazione degli sposi affinchè quest’ultimi accendessero nella
propria casa il loro primo focolare… un atto che consacrava la nuova dimora.
Alla
nascita del primo figlio, un secondo rituale anch’esso dedicato ad Hestia. Al
compimento del quinto giorno di vita, il nascituro veniva fatto girare intorno
al focolare come simbolo della sua ammissione alla famiglia.
Una
manifestazione rituale che ritroviamo nell’edificio principale della città dove
ardeva sempre un fuoco sacro. In ogni nuova comunità che veniva fondata, veniva
sempre portato il fuoco sacro della città d’origine.
Anche
nel cambiamento d’abitazione degli sposi, Hestia li seguiva sempre come fuoco
sacro. Un modo di collegare la vecchia residenza con la nuova, una
manifestazione che era simbolo di continuità, di coscienza condivisa e
d’identità comune.
Hestia
“simboleggia” le donne che si occupano delle operazioni domestiche cioè
un’attività significativa e non
semplicemente legata ad un astratto concetto di svolgimento di “faccende
domestiche”. La cura del focolare domestico era un mezzo attraverso il quale la
donna, insieme alla casa, era in ordine
con il proprio mondo interiore. Infatti nello svolgere le mansioni quotidiane
la donna percepiva un senso di armonia interiore.
Mentre
il focolare di Hestia, che provvedeva a portare calore e santificare la dimora,
era all’interno della casa, la pietra a forma di colonna che simboleggiava
Hermes, era posta sulla soglia di casa a portare fortuna e a tenere lontano il
male. Hermes dava protezione sulla soglia della porta ed era guida e compagno
nel mondo, dove la comunicazione, la capacità d’orientarsi, l’intelligenza e
anche la buona fortuna, erano tutti elementi importanti e collegati tra di loro.
Statua di Hermes –
I secolo d.C.
Quindi
alla donna spettava tenere a bada il focolare, la dispensa, l’amministrazione
della casa, l’educazione dei figli; mentre all’uomo la piazza, l’assemblea, la
politica, la guerra.
Le
uniche occasioni in cui le donne avevano la possibilità di lasciare la casa e
di avere dei momenti liberi con l’esterno erano legati alle feste religiose
specialmente quelle poste sotto l’effige di divinità femminili come Demetra,
Artemide, Era, ecc.
Eppure
la donna nella società ateniese, malgrado la sua religiosità ed umiltà, doveva
avere un certo malcontento se Euripide fece esprimere a Medea, nella sua
omonima tragedia (431 a.C. – Teatro di Dionisio –Atene), una solenne protesta
sulla reclusione della donna: «l’uomo, quando si è stufato di vivere con quelli di casa, se ne va fuori e
pone fine alla nausea che ha in cuore, recandosi da un amico o da un coetaneo.
Noi invece siamo obbligate a guardare a un’unica persona. Dicono che noi
trascorriamo la vita senza rischi in casa, mentre loro combattono con la
lancia, ma si sbagliano: vorrei essere schierata in battaglia tre volte,
piuttosto che partorire una sola volta!»
Medea di Euripide
– Teatro Greco di Siracusa
Probabilmente
la condizione su descritta valeva soltanto per le donne delle classi medio alte
dato che alle popolane, appartenente ai ceti umili, era concesso per ragioni
economiche di poter lavorare e di circolare liberamente per le polis.
In
particolare tra il V ed il IV secolo a.C. avevano la possibilità di stipulare
contratti lavorativi per un valore che doveva mantenersi rigorosamente
inferiore a quello di un “medimnos d’orzo” (una misura di grano, circa 35
litri). Erano per lo più lavori che svolgevano nei mercati cittadini come
venditrici.
La
donna ateniese non ebbe quindi una propria personalità giuridica. Fu
considerata sempre come una minorenne cioè doveva sottostare all’autorità di un
tutore (kurios): prima il padre, poi il marito e se era vedova sotto la tutela
del figlio che doveva però essere maggiorenne altrimenti il parente maschio più
prossimo.
Era
impedito anche di condurre procedimenti giudiziari. In casi estremi era sempre
il suo tutore (marito, padre, ecc.) ad occuparsene.
I
diritti sulle proprietà, (doti, doni e proprietà) erano solo apparenti dato che
erano sempre i suoi tutori che ne avevano il pieno diritto di disponibilità e
di controllo anche se con qualche limitazione.
In
caso di presenza di una dote costituita da una somma notevole di denaro, non
diventava di proprietà del marito. Infatti se la donna fosse morta senza figli
o in caso di “divorzio consensuale”, la somma doveva essere restituita alla
famiglia della donna. In presenza di una
somma importante, la famiglia della
donna veniva protetta da un ipoteca, cioè un bene immobile del marito veniva
ipotecato come contropartita. Un impegno che si materializzava, nel caso di
fondo agricolo, con la messa in opera di una pietra di confine o di
segnalazione. Un mancato rimborso della dote faceva acquisire il fondo rustico
ipotecato alla famiglia della donna.
Il
matrimonio avveniva in genere tra i 15 ed i 18 anni e s’esprimeva in un vero e
proprio atto privato, di contratto tra due famiglie.
Appare
significativa la circostanza per il cui in greco non esiste la parola
“matrimonio”. S’indica il termine “engue” cioè “garanzia”… una specie di
fideiussione… cioè un atto con cui il padrone di casa dà la figlia in
concessione ad un altro uomo. La polis non registrava in alcun atto questo
evento per cui non le veniva conferito quello che potremo definire lo “stato
civile”. Si trattava quindi di una semplice convivenza.
Le
schiave, come gli uomini nella medesima condizione, non erano eleggibili per la
cittadinanza di Atene, anche se per la verità potevano diventare cittadini se
liberati.
Il
divorzio o meglio la scissione del contratto non veniva richiesto dalla donna
ma dal suo tutore cioè il marito. Ci sono però degli esempi che dimostrano come
spesso veniva richiesto dalle donne. La moglie di Alcibiade, Ipparete, presentò
istanza di divorzio comparendo di persona davanti all’arconte. Plutarco infatti
dichiarò che la richiesta di divorzio da parte delle donne era una procedura
abbastanza comune così come quella di richiedere il divorzio anche da parte di
un parente della donna come ad esempio il fratello.
Le
donne anche se potevano chiedere il divorzio come gli uomini, però
difficilmente potevano esercitarlo. Medea, nella tragedia di Euripde affermò “ una donna non può divorziare perché, a
differenza degli uomini, viene mal giudicata”.
Alla
donna era richiesta sempre la massima fedeltà e il suo ruolo quasi
istituzionale era quello di dare figli legittimi utili ad ereditare le
proprietà dei genitori. Il marito che avrebbe sorpreso la moglie in adulterio
aveva il diritto di uccidere il seduttore immediatamente, sul posto davanti ai
fatti. La donna adultera poteva essere ripudiata e secondo alcuni autori il
marito aveva il dovere di eseguire la
ripudiazione sotto la pena di perdere i propri diritti civili.
Per
contro il marito non era invece soggetto a questa restrizione. Poteva
liberamente utilizzare i servizi di un’etera o introdurre addirittura in casa
una concubina, spesso una schiava, che in alcuni casi poteva anche essere la
figlia di un cittadino che si era ridotto in povertà.
Demostene affermava che l’uomo ateniese poteva avere
tre donne: la moglie “gyné” per la procreazione dei figli legittimi; la
concubina “pallaké” per la cura del corpo e per avere rapporti sessuali
stabili; e infine la compagna “étéra” , cioè una donna colta che conosceva la
musica, il canto, la danza e che accompagnava l’uomo nei luoghi di società
(banchetti) dove non era consentito recarsi né con le moglie né con le
concubine. Se la possibilità di partecipare alla vita politica era per i greci
il più importante dei diritti, le donne, che ne erano escluse, non erano
considerate capaci a tale ruolo.
Le
donne di buona condizione sociale accudivano all’ambiente domestico. Passavano
la maggior parte del loro tempo all’interno di una area della casa detta
“gineceo”, “stanze delle donne”, assieme alle sue ancelle. Uscivano dall’ambiente familiare solo per
recarsi alle cerimonie religiose.
Completamente
diversa era la condizione delle popolane e delle donne di campagna che di fatto
erano molto più libere e contribuivano lavorando al precario reddito familiare.
Si recavano in città per vendere i loro prodotti, frutta, verdura erbe
aromatiche (Aristofane fa dire alla madre di Euripide di essere una venditrice
di cerfoglio), tessuti, ecc.
Gli
autori della commedia, così come gli oratori, attestarono la vendita al
dettaglio di oli profumati, pettini piccoli gioielli e anche nastri da parte
delle donne che spesso maneggiavano grandi somme di denaro dovute ai loro
commerci.
Le
etère godevano di una certa libertà. Erano donne dotate di una grande sapienza
mondana e di una considerevole cultura (Aspasia, compagna di Pericle) ma che
vivevano lo status di straniere e quindi una condizione sociale non certo
onorevole.
Le
etère erano le accompagnatrici ufficiali di ricchi imprenditori e di uomini
politici. Una delle più famose fu appunto Aspasia di Mileto. Compagna e seconda
moglie di Pericle che per lei aveva abbandonato la prima moglie legittima.
Bella
ed intelligente ospitò nella propria dimora i grandi pensatori ed intellettuali
del tempo da Sofocle a Fidia, Socrate.. Alcibiade, ecc. Riuscì a raggiungere,
con la sua intelligenza, una condizione sociale simile a quella degli
uomini. Suscitò però molte invidie tanto
che alcuni commediografi del tempo, la dipinsero come una semplice, volgare, ed
intrigante gestrice di un “bordello”.
a)
Aspasia
Aspasia di Mileto
(Turchia) (470 a.C. circa – 400 a.C. circa)
Erma marmorea,
scoperta nel 1777, con l’iscrizione di Aspasia sulla base.
Copia romana di un
originale del V secolo a.C.
Musei Vaticani
Le erme erano
delle piccole colonne, altezza tra 1 e 1,5 m, che erano sormontate da una testa
scolpita a tutto tondo
Pericle
si sposò la prima volta con una sua parente che già era stata sposata con
Ipponico, dal quale aveva avuto un figlio (Callia). Non si sa il nome della
donna e dal loro matrimonio nacquero due figli (Paralo e Santippo). Il
matrimonio non fu felice e ben presto divorziarono consensualmente e lo stesso
Pericle le trovò un nuovo marito.
Pericle
si legò con un’etera, Aspasia di Mileto, con il quale prese a convivere “more
uxorio” e dal quale il re ebbe un figlio illegittimo che fu chiamato “Pericle”.
La
relazione suscitò molte polemiche e anche reazioni politiche molto forti tra
cui quella del figlio Santippo che non si fece scrupoli nel calunniare il
padre.
Si
narra che Pericle scoppiò addirittura in lacrime per proteggere la sua amata Aspasia
quando fu accusato di corrompere la società ateniese.
Aspasia e Pericle
(?)
Josè Santiago
Garnelo
(Enguera,
Valencia, 25 luglio 1866 – Montilla, Cordoba, 28 ottobre 1944)
Malgrado
fosse un etère prese attivamente parte alla vita pubblica di Atene.
La
sua casa diventò un centro culturale, luogo d’incontro di famosi pensatori, e
si narra che lo stesso Socrate fu
influenzato nel suo pensiero dagli insegnamenti della donna.
Molti
scrittori antichi la citarono: da Plutarco
a Platone, da Aristofane a Senofonte, ecc.
In
realtà della sua vita non si sa molto. Qualche studioso ipotizzò che fosse la
custode di una casa di prostituzione. La definizione della studiosa Madeleine
Henry fu emblematica sull’importanza storica di Aspasia: “fare domande sulla vita di Aspasia è come fare domande su mezza umanità”. Grazie alla vita di Aspasia si riuscì ad
apprendere la vera condizione sociale delle donne nell’antica Grecia.
Il
padre si chiamava Assioco, apparteneva ad una famiglia benestante e ricevette
un eccellente istruzione. Un iscrizione
tombale, con i nomi di Assioco ed Aspasio, permise a qualche storico di
avanzare delle ipotesi sulla sua famiglia.
Alcibiade
II di Scambonide, nonno del famoso Alcibiade, fu esiliato da Atene nel 460 a.C.
Si
ritirò a Mileto dove avrebbe sposato la figlia di un certo Assioco.
Nel
450 a.C. sarebbe tornato ad Atene accompagnato dalla moglie e dalla cognata
minore, Aspasia.
Dal
matrimonio sarebbero nati Assioco, zio del famoso Alcibiade, e Aspasio.
Pericle
avrebbe incontrato Aspasia grazie ai suoi stretti legami con la famiglia di
Alcibiade.
Una
volta giunta ad Atene riuscì ad entrare nel circolo culturale di Pericle dove
ebbe contatti con Fidia e il filosofo Anassagora.
Secondo
alcuni storici Aspasia diventò un’etera, un intrattenitrice di alta classe che oltre
alla bellezza fisica aveva anche una grande cultura. Si distingueva e si mise in
risalto per la sua istruzione, ottenendo una sua indipendenza pagando le tasse e riuscendo a diventare una
figura vivace della società ateniese. D’altra parte, essendo etera, era libera
dai legami che costringevano le donne ateniesi
sposate nelle loro case e quindi poteva in un certo senso partecipare alla vita
pubblica della città.
Dopo
aver conosciuto Pericle, grazie anche ai contatti culturali, cominciò a
convivere con lui e Plutarco citò che Pericle “ presa con sé Aspasia, l’amò con una leggerezza straordinaria…. E la
baciava appassionatamente ogni volta che usciva di casa per occuparsi degli
affari pubblici”.
Il
loro stato coniugale rimase molto discusso..si sposarono ?
La
legge sulla cittadinanza, approvata dallo stesso Pericle, avrebbe impedito il
matrimonio e anche se si fosse verificato, sarebbe stato non valido. Molti
storici assimilarono la relazione tra i due
ad un matrimonio morganatico.
Nei
circoli sociali Aspasia era ammirata come un’abile conversatrice e consigliera,
forse più della sua bellezza. Plutarco, che fu uno dei suoi delatori ammise che
“gli amici di Socrate portavano le loro
mogli a sentire le conversazioni di Aspasia”.
Pericle
mostrava un grande amore per la propria compagna di vita, anche in pubblico
baciandola pubblicamente. Un comportamento inconcepibile per gli ateniesi per i
quali la donna non era una persona da amare ma solamente genitrice di figli.
Pericle
ed Aspasia furono oggetto di continui attacchi verbali. Le accuse rivolte alla
donna la coprivano d’infamia ma il vero obiettivo era quello di indebolire il
potere politico di Pericle in un periodo in cui Atene era impegnata nella
guerra di Samo.
Una
guerra del 440 a.C. in cui Samo si scontrava con Mileto, la città natale di
Aspasia, per la supremazia su Priene un’antica città ai piedi del Monte Micale.
I
Milesi furono sconfitti e si recarono ad Atene per presentare la loro causa
contro i Sami. Gli ateniesi ordinarono ai due contendenti di fermare il
conflitto e sottoporsi quindi all’arbitrio e alle decisioni di Atene. I Sami
rifiutarono e Pericle fu costretto ad emanare un decreto inviando una
spedizione a Samo. La spedizione dovette affrontare una guerra difficile e subì gravi perdite prima di riuscire a
sconfiggere Samo.
Plutarco,
ancora una volta, accusò Aspasia, di essere l’ispiratrice della guerra contro
Samo e che Pericle, per compiacerla, decise di attaccare la città rivale di
Mileto.
Nel
431 a.C. altra guerra..ben più grave che vede fronteggiarsi Atene e Sparta con
le rispettive coalizioni…”La guerra del
Peloponneso” ma prima dell’evento bellico, Atene fu sconvolta da una serie
di attacchi personali e legali contro Pericle, il filosofo Anassagora, lo
scultore Fidia e non poteva mancare Aspasia.
Pericle ed Aspasia
mentre ammirano la statua di Atena nello studio di Fidia
Dipinto di Hector
Leroux (1682 – 1740)
Aspasia
fu accusata di corrompere le donne di Atene al fine di soddisfare le
perversioni di Pericle.
Secondo
Plutarco la donna fu querelata dal poeta comico Ermippo e messa sotto processo
con l’accusa di “empietà e lenocinio”. (Empietà….
Mancanza di venerazione per ciò che è ritenuto sacro… scelleratezza…
malvagità / Lenocinio… sfruttamento
della prostituzione… L'attività di chi favorisce, soprattutto se a scopo di
lucro o interesse, amori considerati illeciti ...).
L’accusa
di aver praticato il lenocinio per obiettivi economici non aveva un suo
fondamento e l’unica accusa poteva essere quella di aver favorito l’attività
per ottenere informazioni personali sugli amanti che frequentavano le sue
cortigiane… sempre ammettendo che Aspasia avesse avuto delle case per
incontri con le sue cortigiane. Aspasia non si poteva difendere in
giudizio non solo perché era una donna ma per giunta straniera ed etera. Il processo
prese una piega che sicuramente era stata studiata nei minimi particolari da
certi esponenti politici… chiamare Pericle in giudizio per difendere la sua
amata… e anche per difendersi dalle accuse sulle sue abitudini sessuali.
Pericle
si presentò in giudizio senza paura… difese Aspasia con la sua grande capacità
oratoria e riuscì ad assolverla. I giudici furono convinti non solo dal suo
discorso ma anche dalle sue lacrime versate anche a causa dello stress.
Era
consuetudine nei processi impietosire i giudici piangendo… era un ricorso a
quella che gli antichi definivano come “mozione degli affetti” riuscendo in
questo modo a suscitare pietà nei giudici.
Anche
in questi avvenimenti le citazioni sono contrastanti. Ermippo non avrebbe
querelato Aspasia ma si sarebbe limitato ad esprimere gli avvenimenti in una
sua commedia mentre Plutarco ammise di non conoscere bene i fatti. Comunque il
processo contro Aspasia avrebbe messo in discussione il potere politico di
Pericle e per distogliere l’opinione pubblica, sempre secondo lo storico,
avrebbe dato inizio alla “Guerra del Peloponneso.
Supplica di Pericle
Aristofane,
nella sua opera “Gli Acamesi”…”finora il male non è stato grave e noi
siamo state le uniche vittime. Ma adesso alcuni giovani ubriachi vanno a Megara
e portano via la cortigiana Simeta. E i megaresi a loro volta, scappano con due
prostitute dalla casa di Aspasia; così per tre puttane, la Grecia scoppia in
fiamme. Poi Pericle, incendiato dall’ira della sua altezza Olimpica, lancia i
fulmini, scatena i tuoni, sconvolge la Grecia ed emana un editto che suona come
una canzone: ”Che i megaresi siano banditi sia dalla nostra terra che dal
nostro mercato, sia dal mare che dal continente!”(versi 523 – 533)
Aristofane
incolpò Aspasia di aver causato la Guerra del Peloponneso. “Il decreto di Megara di Pericle, che escludeva la città dal commercio
con Atene e i suoi alleati, fu una rappresaglia nei confronti dei Megaresi per
aver rapito tre prostitute dalla casa di Aspasia. La colpa della guerra con
Sparta era della donna così come, anni prima, quella della guerra con Samo”.
Aspasia
venne rappresentata dagli scrittori come Era, Elena, Onfale e Pericle, da parte
di Platone e altri scrittori, come libertino e schiavo della lussuria e della
etera moglie. Il mio di Aspasia si diffuse in tutta l’Asia Minore fino all’età
imperiale e venne usato per rappresentare “l’allarmante
avvento della donna in politica che preannunciava una minacciosa ginecocrazia”.
Ulteriori
attacchi alla coppia vennero dal figlio di Pericle, Santippo. Un figlio avuto
dalla prima moglie e che non nascose le sue ambizioni politiche. Santippo ridicolizzò
di continuo suo padre per le sue discussioni domestiche e con i sofisti.
Nel 429 a.C, una
terribile epidemia di peste colpì Atene
Pericle
perse la sorella e i due figli avuti dalla prima moglie e cadde in un profondo
sconforto che nemmeno Aspasia riuscì a colmare. Poco prima della morte del
sovrano, gli ateniesi cambiarono la legge di cittadinanza che risaliva al 451
a.C. La nuova legge permetteva al figlio
di Pericle ed Aspasia, Pericle, di diventare cittadino e di legittimare la donna. Un cambiamento
della norma per evitare l’estinzione del nome e della stirpe per mancanza di
eredi. Una decisione sorprendente considerando che fu Pericle stesso a proporre
la legge che restringeva la cittadinanza solo a coloro che avevano entrambi i
genitori ateniesi.
Pericle
fu colpito dall’epidemia e morì nell’autunno del 429 a.C.
Aspasia
dopo la morte del compagno non si perse d’animo. Plutarco, riferendosi alle citazioni di Eschine Socratico, affermò
che dopo la morte di Pericle la donna visse con Lisicle e dalla relazione
nacque un figlio. Lisicle era inizialmente un mercante di pecore di umili
origini e grazie alla relazione con Aspasia diventò stratego ateniese e capo
del partito democratico … uno dei personaggi più importanti della città. L’uomo fu ucciso in battaglia nel 428 a.C.
durante una spedizione di riscossione delle sovvenzioni imposte alle città
alleate.
Con
la morte dell’uomo le notizie su Aspasia
svenirono nel nulla. Non si sa se fosse ancora viva quando il figlio
Pericle Il Giovane fu eletto generale e giustiziato successivamente nella
battaglia della Argimusa. (Stratego nel 406 a.C.. partecipò alla battaglia
delle Argimuse riportando una vittoria. Venne però accusato insieme ad altri
strateghi da Teramene di non aver
soccorso i naufraghi. Fu quindi giustiziato con questa accusa.)
La
morte di Aspasia è incerta anche se la critica storica la colloca verso il
400/401 a.C. perchè avvenne prima dell’esecuzione di Socrate (399 a.C.).
Aspasia conversa
con i filosofi
Michel Corneille
il Giovane , 1672
Salone dei Nobili –
Reggia di Versailles
Aspasia conversa
con Socrate
Nicolas Andrè
Monsiau (1754 – 1837)
Quadro datato 1800
circa – Parigi Musè Pouchkkine
Molti
filosofi le dedicarono pagine dei loro scritti da Platone a Senofonte, Plutarco
ecc.
“Delle
donne bisogna parlar poco o nulla”, diceva Pericle eppure la sua compagna
di vita, anche se concubina, non corrispondeva al modello tradizionale di
femminilità classica e passiva, devota al marito ed alla famiglia.
Socrate,
il padre dell’etica e della filosofia morale, fu colpito dalla comunicazione
della donna ma anche dalle sue notevoli capacità di consigliera ed intellettuale.
Aspasia contribuì alla nascita nel
filosofo di una riflessione positiva sulla donna. Il filosofo ne riconosceva le capacità e
ascoltava anche i suoi consigli ritenendo che molti di essi erano frutto di una saggezza superiore alla
sua. La visione della donna nella società ateniese era legata al concetto di
Aristotele secondo la quale c’era una netta differenza tra uomo e donna e
insisteva sulla “credenza di una
superiorità maschile sulle donne” anche nella riproduzione. Riconosceva
infatti nel rapporto sessuale una “passività”
della figura femminile in quanto “è
quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel
genitore”.
In
questo contesto, naturalmente difficile, s’innesta la figura di Aspasia che
certamente non poteva non portare scalpore nella società ateniese.
Si
dice che Socrate abbia addirittura imparato da lei il metodo socratico nel
quale Aspasia primeggiava con “rara maestria
la tecnica del discorso”. Si narra che il celebre filosofo sia stato
influenzato dagli insegnamenti della donna… eppure nei libri di filosofia
scolastica non si cita Aspasia….
Nel
“Simposio” Aristippo gli chiese come mai stava insieme a
“la più bisbetica delle creature”
Socrate rispose con il sorriso sul volto che “per diventare buoni cavallerizzi bisognava esercitarsi con i cavalli
più indomabili e non con i più docili, perché se essi pervengono a domare tali
cavalli, potranno governare facilmente
gli altri”.
Socrate
grazie ad Aspasia rifiutò la visione misogina della donna riconoscendole un suo
giusto valore soprattutto come pensatrice.
Il
filosofo era distante in parte dalla prospettiva dell’epoca, che vedeva la
donna come un essere inferiore e vide in lei una piena realizzazione
intellettuale e personale al di là dei confini della maternità e della vita
domestica. Ancor più anacronistica è l’intuizione secondo cui il
fattore scatenante dell’ “inferiorità” delle
donne non era la natura ma, piuttosto, l’“educazione”
impartita dalla propria famiglia di origine e dal marito; concezione
probabilmente sostenuta con indiscussa abilità da Aspasia.
È
evidente che la figura controversa ed anticonformista di Aspasia assieme a quella del
filosofo Socrate siano state le rare
espressioni nel mondo maschile e femminile della lotta alla misoginia
nell’epoca classica.
Socrate
la esaltò anche per le sue conoscenze, per la sua comunicazione e anche come la “più informata sulla gestione domestica e
sulla collaborazione economica tra marito e moglie”.
Platone
fu colpito dall’intelligenza e dall’arguzia della donna a tal punto che gli
dedicò il
personaggio
di Diotina nel Simposio.
Plutarco
fu sempre critico mei confronti della donna e nel suo Pericle (XXIV-2) citò:
“Ora, dal momento che si pensa che [Pericle]
abbia agito in tal modo contro i Sami per compiacere Aspasia, questo potrebbe
essere un luogo adatto per riflettere su quale grande arte o potere abbia avuto
questa donna, per essere stata in grado di gestire a piacimento gli uomini più
importanti dello Stato e di fornire ai filosofi l'occasione di parlarne in
termini esaltati e in maniera approfondita.»
Eschine
Socraico compose dei dialoghi socratici intitolati “Aspasia”. Appare una donna
descritta in maniera positiva come una “maestra
e ispiratrice di eccellenza.. e legando queste virtù al suo stato di etera”.
(le fonti per l’Aspasia di Eschine sono Ateneo, Plutarco e Cicerone).
Dal
Dialogo…” Socrate consiglia a Callia (figlio
di Pericle avuto dalla prima moglie) di
mandare ad istruire suo figlio da Aspasia. Callia indietreggia all’idea di
un’insegnate femminile. Socrate fa notare che Aspasia aveva influenzato
positivamente Pericle, e dopo la sua morte anche Lisicle”.
In
una sezione del Dialogo, trascritta in latino da Cicerone, Aspasia appare come
una “Socrate” e pone delle domande ad una donna, moglie di un cero Senofonte
(probabilmente non lo storico), e in seguito allo stesso marito. Sono domande
che dimostravano com’è possibile “acquisire
virtù attraverso la conoscenza di se stessi”.
Le
domande …”se siano meglio le cose più
belle che appartengono ad altri rispetto a quelle che si posseggono” e ..”se
sia o no ammissibile che si ricerchino anche i mariti (compagni) degli altri,
nel caso in cui si ritenga migliori dei propri”.. Aspasia concluse..”che tutti hanno come obiettivo la ricerca
del miglior marito (compagno), ma questo non si può ottenere se non si cerca
nel frattempo di attuare anche un miglioramento personale”.
Eschine
Socraico, era in realtà Eschine di Sfetto, un allievo di Socrate e le domande
nel particolare che Aspasia fece alla moglie di Senofonte furono:
Aspasia: “se la
moglie del vicino avesse più oro del tuo, preferiresti avere il tuo o il suo oro?”
La donna: “il
suo”.
Aspasia: “ e se
avesse abiti e gioielli più ricchi?”
La donna: “i
suoi”.
Aspasia: “ E se
avesse un marito migliore del tuo ?”
La donna: non rispose .. ci fu un imbarazzante
silenzio.
Aspasia si rivolse
a Senofonte rivolgendogli le stesse domande e all’ultima domanda se avesse
preferito la moglie del vicino, Senofonte non rispose… se non con il silenzio
Aspasia concluse
”Ciascuno di voi vorrebbe il marito o la moglie migliori. Ma nessuno di voi due
ha raggiunto la perfezione; dunque ciascuno di voi rimpiangerà per sempre
questo ideale”.
Un
discorso straordinario considerando che fu pronunciato da una donna del tempo
che viveva le forti disuguaglianza sociali tra uomo e donna.
L’idea
di matrimonio del tempo era completamente diversa da quella di Aspasia. Per lei
il matrimonio era l’incontro di due persone, entrambe imperfette, che in un
rapporto paritario dovevano accettare l’uno i difetti dell’altro. Un idea
inconcepibile per gli ateniesi dove il marito poteva tradire la moglie senza incorrere
nel biasimo sociale mentre per la donna,
in caso di adulterio, poteva essere processata in pubblica piazza se il marito
decideva di non esercitare il diritto di ucciderla.
L’amore
di Pericle ci mostrano anche il lato sentimentale dello statista. Lo rendono più umano là dove la sua grandezza
politica e storica lo rendono quasi una divinità e questo è anche merito di
Aspasia e della sua influenza positiva sul marito in virtù del loro grande
amore.
All’Aspasia
di Eschine si contrappone, quindi in modo negativo, la descrizione di Antistene che prende la
donna come un esempio negativo della vita dedita al piacere. In realtà lo
scrittore criticò anche Pericle, la sua intera famiglia e anche i suoi figli.
Per
Antistene Pericle scelse una vita di piaceri a discapito della virtù e Aspasia
fu quindi vista come la personificazione di una vita di indulgenza sessuale
cioè di una vita affettiva-sessuale sbagliata..
La
notorietà di Aspasia fu certamente legata alla figura di Pericle cioè il
personaggio politico più influente del V secolo a.C.
Per
Plutarco Aspasia era una figura politicamente ed intellettualmente
significativa e manifestò nei confronti della donna una certa ammirazione
perché “gestiva a piacimento gli uomini
più importanti dello Stato… forniva ai filosofi l’occasione di parlarne in
termini esaltati e in maniera approfondita”.
Plutarco
riferì anche come la donna diventò tanto famosa tanto anche Ciro Il Giovane (che si scontrò in
guerra contro il re Artaserse per il trono di Persia), dette il nome di Aspasia
ad una delle sue concubine che si chiamava Milto. Quando Ciro fu ucciso in
battaglia, la donna fu catturata dal re e con lui acquisì una grande notorietà
e influenza.
Un
altro filosofo, Luciano indicò la donna come “ modello di saggezza…. L’ammirata dell’ammirevole Olimpio….” e lodò “la sua conoscenza e intuizione politica, la
sua astuzia e profondità”….” «Ora devo descrivere la "Sapienza"; e
qui avrò occasione di usare vari modelli, la maggior parte dei quali antichi;
uno proviene, come la signora stessa, dalla Ionia. Gli artisti saranno Eschine
e Socrate il suo maestro, i pittori più realistici, perché il loro cuore stava
nelle loro opere. Non potevamo scegliere un modello di saggezza migliore di
quello di Aspasia di Mileto, l'ammirata dell'ammirevole "Olimpio"; la
sua conoscenza e intuizione politica, la sua astuzia e profondità, saranno
tutte trasferite sulle nostre tele nella loro misura perfetta. Tuttavia,
Aspasia è conservata a noi solo in miniatura: le nostre proporzioni devono
invece essere quelle di un colosso.» (Luciano, Immagini, XVII)
Dotata
di una grande retorica come s’evidenzia
in un testo siriano secondo il quale Aspasia scrisse un discorso da leggere nel
processo per difendersi dalle pesanti accuse. Discorso che fu letto da un suo
incaricato ed anche in un’enciclopedia bizantina del X secolo, la donna apparve
come “ abile per quanto riguarda le
parole… una sofista e una maestra di retorica”.
Aspasia
fu l’unica donna nella Grecia Classica ad essersi distinta nella vita pubblica
riuscendo ad influenzare anche Pericle nella composizione dei suoi discorsi.
Secondo alcuni studiosi sembra che ai suoi tempi abbia addirittura aperto
un’accademia per giovani donne aristocratiche e che abbia inventato il metodo
socratico. Una tesi su cui molti storici non concordano.
Kagan
raffigurò Aspasia come «una giovane donna
bella, indipendente, brillantemente arguta, in grado di tenere conversazioni
con le migliori menti della Grecia e di discutere e illuminare ogni tipo di
questione con suo marito”.
“La vita delle
donne è sempre ricca di pene e sofferenze,
ma non credo di
mentire dicendo che nessuna ha mai patito come me
nell’arco della
sua esistenza “
La
figura di Aspasia rimase sempre viva anche in epoca moderna a cui si sono
ispirati poeti e romanzieri (romantici del XIX secolo e storici del XX secolo)
che videro nella sua storia d’amore un’inesauribile fonte d’ispirazione.
Giacomo
Leopardi pubblicò una serie di componimenti poetici dal titolo “Ciclo di Aspasia” con temi principali
sull’amore, sulla morte, sulla caduta e la vanità di ogni illusione.
Un
ispirazione legata al traumatico amore non corrisposto del poeta per la
nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti che identificò con Aspasia.
Fanny Ronchivecchi
Targioni Tozzetti
(Firenze, 9 maggio
1801 – Firenze, 29 marzo 1889)
Moglie del medico
e botanico Antonio Targioni Tozzetti. Fu animatrice di un
salotto letterario
(Via Ghibellina – Firenze). Famosa per la sua bellezza e la sua cultura
che attirarono su
di lei continui pettegolezzi soprattutto per una presunta relazione
con l’esule
napoletano Antonio Ranieri. Sulla donna si accentrò l’amore non
corrisposto di
Giacomo Leopardi che conobbe la donna a Firenze il 10 maggio 1830.
La Targioni aveva
un hobby particolare, abbastanza raro: collezionava autografi.
Leopardi si
premurò di procurargliene alcuni tra cui quelli Alfieri, di Pindemonte, di
Monti, ecc.
Era innamorato e
cercava di guadagnarsi la benevolenza della donna ma fu tutto vano..
L’amore non fu mai
corrisposto anche se in realtà la donna s’accorse dei forti sentimenti
che il leopardi
nutriva nei suoi confronti.
Quando Giacomo
Leopardi morì nel 1837 la Targioni commentò con il Ranieri la morte del poeta:
«La disgrazia della morte del povero nostro Leopardi
mi ha annientata; sì pel bene che gli volevo, sì per la perdita fatta; sì
pell'interesse che io prendo, a tutto ciò che vi riguarda. Io partecipo
grandemente al vostro dolore, io sento il vuoto che proverete nelle vostre
abitudini, e quel male che cagiona la perdita d'un amico che si amava, e
stimava, male che le parole non valgono ad esprimere, male che il tempo non
basta a dissipare.(...) Se non vi conoscessi così propenso al farmi arrabbiare,
e canzonare direi che siete stato cattivo nel tentare di darmi un dispiacere
colla risposta sull'Aspasia. Voi più d'ogni altro sapete se mai diedi la menoma
lusinga a quel pover'uomo del Leo..., e se il mio carattere è tale da prendersi
gioco d'un infelice, e d'un brav'uomo come lui. Quando me ne parlava, in certi
tempi, io m'inquietavo, e non volevo, manco credere vere certe cose, come non
le credo ancora, ed il bene che io gli volevo glie lo voglio ancora tal quale,
abbenché ei più non esista. Siate dunque buono per me, vi prego, non mi dite
più delle simili sciocchezze, e risparmiate una pena al mio cuore, nel
togliermi l'idea che senza volerlo potei dar trista idea di me stessa a persona
così disgraziata.”
Nel Xx secolo
alcuni studiosi, tra cui Marcus de Rubris, avanzarono l’ipotesi che
l’ispiratrice
del “Ciclo di
Aspasia”, non fosse Fanny ma la contessa Carlotta Lenzoni.
L’ipotesi fu
basata su alcuni elementi:
-
La
Fanny proseguì, in modo amichevole, il dialogo con il Leopardi con una ricca
serie di lettere;
-
Nelle
poesie ci sarebbero alcuni indizi che rimanderebbero ad una dimora “ di nem latro fastigio”
rispetto a quella dei
Targioni
Carlotta Lenzoni
dè Medici
Nella Biblioteca
Nazionale di Napoli furono rinvenute dalla brava ricercatrice
Elisabetta
Benucci, le missive della Lenzoni indirizzate ad Antonio Ranieri, l’intimo
amico
di Leopardi.
Lettere che furono scritte in un periodo che va dal 1833 al ’37, cioè agli
anni del suo
ritiro napoletano. La prima lettera mostra l’ansia della Lenzoni per
l’imminente
viaggio dei due amici per Napoli e il timore il non poter salutare
per l’l’ultima
volta il poeta.
“Salutate Leopardi, e diteli che non lo perdonerò, se
parte, senza che lo riveda”.
In una lettera
successiva, la Lenzoni di mostrava contente delle notizie che giungevano
da amici comuni
per la salute del leopardi che era migliorata. Ringraziava Ranieri
dell’affetto
incondizionato che riserva all’amico:
“Sono anche contenta che il soggiorno a Napoli vadia ad esservi
più piacevole,
vorrei che fosse lo stesso per Leopardi. […] Mi sembra quasi un
destino che i
grandi ingegni debbino essere nocivi a se stessi per causa di
stravaganza a rapporto alla salute?
Io vi lodo sempre di più per la costante amicizia che li
dimostrate, fateli i miei saluti,
e dateli le mie nuove le quali per riguardo alla salute ad onta
del pessimo tempo
che abbiamo sono ottime”».
In un’altra
lettera del 30 ottobre 1834, la Lenzoni racconta al Ranieri di
aver fatto “un giro delle Marche”, passando per
Recanati e di essersi invaghita
pure del “natio borgo selvaggio”…
«Dite a Leopardi, che non ho veduto un Paese più gradevole,
e ne ho avute tali
informazioni che veramente ha ragione di non poter
amare la sua Patria?».
La Lenzoni era
probabilmente innamorata del Leopardi
ma il poeta rimase
indifferente a quell’amore forse perché
il suo animo era
troppo afflitto dalla precedente delusione d’amore e forse anche
per le sue
precarie condizioni di salute.
Il “Ciclo di
Aspasia” è costituito da cinque poesie in cui traspare il percorso amoroso del
poeta,
le forti emozioni
suscitate e anche la delusione per l’indifferenza della donna amata in
silenzio.
1-
“Il
Pensiero Dominante” , il potere dell’amore che subisce il poeta;
2-
Amore
e Morte; ..l’Amore non è l’unico signore ad aiutare gli uomini sulla terra, ma
ha
una sorella, la
“Morte”, la quale è una bellissima donna che libera da ogni male;
3 – “Consalvo”…
esprime il grande desiderio del poeta verso la bellissima Fanny e cioè il
desiderio di
ricevere da lei un bacio….. ma non ha il coraggio di chiederglielo. Si nasconde
allora sotto le
spoglie di Consalvo e gli chiede un bacio essendo in punto di morte.
Il poeta immagina
di essere baciato dalla donna più di mille volte... attimi
che gli renderanno
meno atroce il momento del trapasso;
4. “A Se Stesso”…
il poeta prende coscienza
dell’impossibilità di quell’amore irrealizzabile.
Diventa per lui
necessario accettare la triste e dura realtà di ritornare ad essere, e
sentirsi,
di nuovo solo in
quest’universo, ma dice anche che la vita è l’universo intero, non
sono altro che “un
infinita vanità del tutto”;
5. “Aspasia”..esprime il congedo definitivo da Fanny,
ancora viva e bella, ma ormai lontana
da lui e dal suo
cuore. Esprime il cambiamento di un uomo che prima era pieno di illusioni
e di speranze
nell’amore e nei suoi benefici, e che ora diventa indifferente, immobile e
cinico
a cui non resta
altro che un sorriso ironico e beffardo con il quale andare vanti
nell’esistenza.
Un uomo raccolto
solo nell’intelletto affinchè non s’abbandoni allo sterile sconforto e
possa
ritrovare la forza di procedere nella nuova esistenza a Napoli.
Parafrasi
della poesia “ASPASIA”.
Il
tuo volto torna talvolta nel mio pensiero, Aspasia.
Ora lo rivedo, velocemente, in altri volti della città,
ora esso mi è destato dall’armonia di un giorno sereno,
o dalle tacite stelle, e la mia anima è pronta a turbarsi di nuovo.
Quanta adorata è stata questa visione
e un giorno è stata la mia delizia e il mio tormento.
Un profumo che sento emanare dalla fiorita campagna,
o che provenga dalle vie della città,
mi fa ricordare il giorno nel quale io ti vidi,
tutta raccolta nei tuoi appartamenti, odorosi di
fiori appena colti, vestita con una veste di
colore bruno, con il fianco adagiato sopra un divano,
tutta circondata di misteriosa voluttà, e tu,
dotta allettatrice, intanto che baciavi i tuoi figli e
li stringevi con le lue leggiadrissime mani al
tuo seno coperto e desiderato, alzando il tuo bianco collo,
ti muovevi con un fare seduttivo e malizioso.
Allora un nuovo cielo, una nuova terra, un raggio
divino, apparvero al mio pensiero, tanto che io,
ferito dalla tua freccia d’amore, mi innamorai di te.
Dentro di me portai questo amore infelice, ululando,
da quel giorno ad oggi che fanno due anni.
Ora lo rivedo, velocemente, in altri volti della città,
ora esso mi è destato dall’armonia di un giorno sereno,
o dalle tacite stelle, e la mia anima è pronta a turbarsi di nuovo.
Quanta adorata è stata questa visione
e un giorno è stata la mia delizia e il mio tormento.
Un profumo che sento emanare dalla fiorita campagna,
o che provenga dalle vie della città,
mi fa ricordare il giorno nel quale io ti vidi,
tutta raccolta nei tuoi appartamenti, odorosi di
fiori appena colti, vestita con una veste di
colore bruno, con il fianco adagiato sopra un divano,
tutta circondata di misteriosa voluttà, e tu,
dotta allettatrice, intanto che baciavi i tuoi figli e
li stringevi con le lue leggiadrissime mani al
tuo seno coperto e desiderato, alzando il tuo bianco collo,
ti muovevi con un fare seduttivo e malizioso.
Allora un nuovo cielo, una nuova terra, un raggio
divino, apparvero al mio pensiero, tanto che io,
ferito dalla tua freccia d’amore, mi innamorai di te.
Dentro di me portai questo amore infelice, ululando,
da quel giorno ad oggi che fanno due anni.
Tu,
Aspasia, non puoi immaginare mai quello
che tu stessa hai fatto nascere nel mio pensiero.
Tu non sai quale smisurato amore, quali affanni intensi,
quali indescrivibili sentimenti amorosi,
quali deliri hai fatto scaturire in me e
allo stesso modo un direttore d’orchestra non sa
quali sono gli effetti che egli provoca in chi lo ascolta.
Ora, però, l’idea (ideale), che io amai tanto, di Aspasia è morta.
L’idea è morta per sempre, e di tanto in tanto, mi
suole ritornare e scomparire la sua sbiadita immagine.
Tu, invece, Aspasia reale, vivi e sei sempre tento bella
che superi tutte le altre.
La passione che era nata per te è morta:
perché io amai non te ma l’idea della bellezza
che ha ancora vita nel mio cuore, mentre
il mio cuore è diventato un sepolcro per te.
Io adorai, per molto tempo, la tua ideale bellezza
e mi piacque tanto seguirla che io,
ben consapevole di te, delle tue arti e
delle tue insidie, contemplando nei tuoi occhi reali
i begli occhi della donna ideale, ti ho seguito cupidamente,
finché l’idea di bellezza visse in me;
accettai di obbedire al tuo dominio,
aspro e lungo, non perché ingannato da te,
ma per il dolce piacere che provavo
nel vedere la dolce somiglianza tra lei (l’ideale) e te.
che tu stessa hai fatto nascere nel mio pensiero.
Tu non sai quale smisurato amore, quali affanni intensi,
quali indescrivibili sentimenti amorosi,
quali deliri hai fatto scaturire in me e
allo stesso modo un direttore d’orchestra non sa
quali sono gli effetti che egli provoca in chi lo ascolta.
Ora, però, l’idea (ideale), che io amai tanto, di Aspasia è morta.
L’idea è morta per sempre, e di tanto in tanto, mi
suole ritornare e scomparire la sua sbiadita immagine.
Tu, invece, Aspasia reale, vivi e sei sempre tento bella
che superi tutte le altre.
La passione che era nata per te è morta:
perché io amai non te ma l’idea della bellezza
che ha ancora vita nel mio cuore, mentre
il mio cuore è diventato un sepolcro per te.
Io adorai, per molto tempo, la tua ideale bellezza
e mi piacque tanto seguirla che io,
ben consapevole di te, delle tue arti e
delle tue insidie, contemplando nei tuoi occhi reali
i begli occhi della donna ideale, ti ho seguito cupidamente,
finché l’idea di bellezza visse in me;
accettai di obbedire al tuo dominio,
aspro e lungo, non perché ingannato da te,
ma per il dolce piacere che provavo
nel vedere la dolce somiglianza tra lei (l’ideale) e te.
Ora
tu, Aspasia reale, ti puoi vantare perché
puoi dire che sei stata la sola del tuo sesso:
alla quale io abbassai il mio fiero capo e
alla quale io offrii il mio cuore indomito.
Puoi dire che sei stata la prima donna, e spero
che sarai anche l’ultima, che vedesti il mio sguardo
supplichevole, che vedesti me tremante,
timido (brucio di rabbia e di rossore nel dirlo) e
puoi dire che vedesti me fuori di me,
che spiavo e scrutavo sommessamente
ogni tuo desiderio, ogni tua parola e ogni tuo atto;
puoi dire che mi vedesti impallidire ai tuoi
superbi fastidi, vedesti me brillare nel volto
ad ogni tuo atteggiamento benevolo;
puoi dire che vedesti me mutare forma e colore
ad ogni tuo sguardo.
La suggestione del tuo amore, e della mia passione, è finita,
così come è finito anche il dominio che mi legava a te,
e di questo me ne rallegro.
E dopo il lungo servirti, e dopo il mio lungo vaneggiare,
riacquisto, contento, il senno e la libertà, seppure
essi siano pieni di tedio.
Orbene se la vita, priva d’amore e di illusioni,
è triste, vuota come una notte buia e senza stelle
in pieno inverno, tale sono io, perché sono rimasto solo.
Ma il conforto e la vendetta che io mi prendo
sul mio destino mortale consiste nel fatto che
sono divenuto indifferente ed immobile, e
mentre sto seduto qui a guardare il mare,
la terra e il cielo e sorrido sardonicamente e
sornionamente con i miei ghigni.
puoi dire che sei stata la sola del tuo sesso:
alla quale io abbassai il mio fiero capo e
alla quale io offrii il mio cuore indomito.
Puoi dire che sei stata la prima donna, e spero
che sarai anche l’ultima, che vedesti il mio sguardo
supplichevole, che vedesti me tremante,
timido (brucio di rabbia e di rossore nel dirlo) e
puoi dire che vedesti me fuori di me,
che spiavo e scrutavo sommessamente
ogni tuo desiderio, ogni tua parola e ogni tuo atto;
puoi dire che mi vedesti impallidire ai tuoi
superbi fastidi, vedesti me brillare nel volto
ad ogni tuo atteggiamento benevolo;
puoi dire che vedesti me mutare forma e colore
ad ogni tuo sguardo.
La suggestione del tuo amore, e della mia passione, è finita,
così come è finito anche il dominio che mi legava a te,
e di questo me ne rallegro.
E dopo il lungo servirti, e dopo il mio lungo vaneggiare,
riacquisto, contento, il senno e la libertà, seppure
essi siano pieni di tedio.
Orbene se la vita, priva d’amore e di illusioni,
è triste, vuota come una notte buia e senza stelle
in pieno inverno, tale sono io, perché sono rimasto solo.
Ma il conforto e la vendetta che io mi prendo
sul mio destino mortale consiste nel fatto che
sono divenuto indifferente ed immobile, e
mentre sto seduto qui a guardare il mare,
la terra e il cielo e sorrido sardonicamente e
sornionamente con i miei ghigni.
Finisce così una
storia d’amore, solo immaginario. Una storia per la quale Giacomo Leopardi
seppe trovare
parole, immagini poetiche così belle da scrivere il “Ciclo su Aspasia”.
Ci troviamo
davanti ad uno sconforto interiore così intenso che il Leopardi visse in
silenzio dentro
la sua anima e che
riuscì a rappresentare nelle poesie facendoci rivivere il suo forte dramma
interiore.
Aspasia citata nella letteratura
ma anche nelle arti, pittura scultura, e anche nell’ebanisteria con armadi
decorati con le figure di Socrate ed Aspasia (1710). Molte statue si trovano
anche nei giardini (castello di Schonbrunn – Vienna) e anche in epoca moderna il ricordo della
donna è forte.
Nel 1973 la scultrice greca Mara
Karetoso scolpì un busto di Aspasia che fu collocato nella zona pedonale
dell’Università di Atene e nel 1979, l’Installazione d’arte “The Dinner Party”,
creata dalla femminista Judy Chicago.
“Dinner Party” è
una storia simbolica delle donne nella Civiltà Occidentale.
Si compone di 39
posti a tavola disposti su una tavola triangolare ed ogni posto rappresenta una
figura storica
femminile. Alla sua realizzazione hanno partecipato volontari, artigiani,
uomini e donne
per “mettere
fine al ciclo continuo di omissioni che hanno escluso le donne dagli archivi
della Storia…”
Uno dei posti a
tavola è dedicato ad Aspasia.
L’opera fu donata
dalla Fondazione Elizabeth A. Sackler al Brooklyn Museum di New York dove è
esposta.
Non si hanno riferimenti in merito alle moglie dei
“metici” ossia degli stranieri residenti ad Atene. Le donne straniere dovevano
pagare sei dracme all’anno rispetto alle dodici che pagavano gli uomini. Molte
di loro erano al seguito del marito che si trovava ad Atene per motivi di
lavoro o per seguire gli insegnamenti di qualche importante suola o
maestro. La loro vita doveva essere
simile a quella delle moglie e delle
figlie degli ateniesi.
C’erano poi le donne che si trovavano in città per
cercare fortuna o comunque un domani migliore rispetto ai loro luoghi
d’origine. Non sempre riuscivano ad ambientarsi e spesso finivano nel giro
della prostituzione rinchiuse nelle case di piacere del Pireo o all’interno
della stessa citta dove svolgevano la professione in determinati quartieri o
demi come quello denominato del “Ceramico”. Solo le donne più istruite potevano
riuscire ad “elevarsi” alla condizione un po’ più privilegiata di “etèra”.
------------------------------------
2.
Le Donne a
Sparta
Sparta rovine
Mystras
Mystras
Un
discorso a parte meritano le donne di Sparta che, sempre secondo le fonti,
trascorrevano gran parte del loro tempo all’aria aperta impegnate in esercizi
ginnici che ne assimilavano l’educazione a quella dei maschi spartiati. Una
condizione che avrà un suo ridimensionamento sul piano scientifico da
Aristotele che affermerà la “naturale
inferiorità della donna” e dalle utopie comiche di Aristofane che più volte
immaginò la realizzazione di “una
paradossale ginecrocazia con le donne al potere nelle assemblee delle polis,
impegnate in fondamentali decisioni sulla politica estera e sull’economia
statale”.
Sparta,
a differenza dalle altre città greche, pose le donne allo stesso livello degli
uomini. Entrambi i sessi erano soggetti alle direttive dello stato e questo fin
dal primo giorno della loro esistenza. L’obiettivo di questa unicità era avere
dei soldati vigorosi e disciplinati.
Sparta
aveva un sistema di istruzione obbligatoria per tutti organizzata dalla
Stato. Una differenza sostanziale con le
altre città della Grecia dove l’istruzione non era obbligatoria ma a
discrezione dei genitori. Un istruzione che aveva come obiettivo la formazione
di giovani valorosi da collocare nell’esercito mentre per le ragazze insegnare a diventare madri agili e vigorose,
sane, forti, nella speranza di generare altri figli altrettanto capaci ed
abili.
I
due sessi iniziavano una pratica
educativa che si concludeva dopo i 18 anni, età in cui cominciavano a sposarsi.
L’addestramento femminile era costituito da due livelli: uno ginnico e l’altro
artistico. Ginnico costituito da allenamento fisico per rassodare il corpo e
successivamente il livello artistico, mousikè, in cui venivano a contatto con
la danza, poesia, canto e musica. Oltre allo studio di queste discipline era
importante entrare in contatto e praticare attività sportive quali
l’equitazione e la lotta. Le giovani donne potevano quindi partecipare insieme
ai coetanei maschi alla Gimnopedie o “festa dei giovani nudi”.
Per
quanto riguarda l’attività ginnica, Senofonte riporta come Licurgo istituì un
allenamento fisico per entrambi i sessi costituito dalle discipline della corsa
e del combattimento corpo a corpo. Un’attività sportiva che è confermata da
Euripide e da Plutarco che aggiunge anche l’attività del lancio del disco e del
giavellotto.
Le
donne svolgevano i loro allenamenti a corpo nudo anche se in ambienti separati
da quello dei ragazzi. In definitiva le donne non si preparavano con la loro
attività sportiva al combattimento ma al raggiungimento di un benessere fisico
e alla conoscenza del proprio corpo.
La
forza delle donne spartane era molto conosciuta nell’antichità tanto che
Clearco di Soli (III secolo) riferì come le donne convincevano gli uomini
adulti a sposarle costringendoli a furia di calci e pugni e sfidandoli a
battersi con loro. Anche nell’equitazione le donne eccellevano tanto che sono
state rivenute numerose statuette, di donne in groppa a cavalli, nel santuario
di Artemide Orthia.
Le
giovani donne partecipavano a tutte le feste religiose come coro delle vergini
di cui Alcmane fu l’autore principale. Le canzoni venivano imparate a memoria
ed era consigliato alle stesse fanciulle d’imparare e memorizzare i grandi
eventi e storie mitologiche e di acquisire un forte senso di competizione.
Varie canzoni alludono a concorsi di bellezza o spettacoli musicali.
Le
donne spartane, come già accennato, raramente si sposavano prima dei 18-22 anni
e a differenza delle altre cittadine greche avevano un modo di abbigliamento
decisamente più moderno. Portavano degli abiti corti e tenevano scoperte le
gambe per essere libere di muoversi e questo senza chiedere permessi al marito.
Le donne ateniesi e la maggior parte delle donne greche portavano invece abiti
lunghi che nascondevano interamente il loro corpo.
A
Sparta vi era due tipi di contratto matrimoniale che sono in contrapposizione
l’uno all’altro.
Quello tradizionale, che era comune in tutte
le città greche per garantire la prosperità della linea di famiglia, la
legittima discendenza.
Il
secondo tipo si presentava come uno status egualitario e aveva l’obiettivo
primario di procreare ragazzi forti, figli maschi e robusti e si verificava ad
una età più avanzata rispetto alle altre città greche. Il marito poteva avere
circa 30 anni e la moglie mai meno di 18 anni. Si dava inoltre luogo ad una
curiosa forma cerimoniale. L’intermediario dopo aver rasato la ragazza gli
consegnava delle vesti semplici di taglio maschile dopo di che la lasciava sola
in un buio pagliaio. Il promesso sposo doveva lasciare la sissizia (il pasto
militaresco) per andare ad incontrare sua moglie, sempre al buio. Dopo aver
avuto una relazione la lasciava nuovamente sola per tornare di nuovo in
caserma, nella quale era stato assegnato, per raggiungere i compagni. Il
matrimonio doveva restare segreto sino a quando non nasceva il primo figlio.
Plutarco affermò che in tal modo i mariti “ignoravano
la sazietà e il declino del sentimento che coinvolge una vita passata in
comune”.
Le
donne spartane hanno sempre esercitato un forte controllo sul loro matrimonio.
I mariti più anziani erano spesso incoraggi a prestare le loro mogli, ancora
giovani e forti, ai soldati più valorosi e forti per procreare dei figli
altrettanto forti. Plutarco menziona pure come le donne spartane avessero spesso
un amante segreto per fare in modo che il bambino nato potesse ereditare due lotti
di terreno al posto di uno.
Le
donne spartane godevano di un potere, di una considerazione o rispetto che era
completamento sconosciuto nel mondo classico. Anche se formalmente venivano in
un certo senso escluse dalla vita militare e politica, continuavano a mantenere
una massima considerazione dalla società perché madri di soldati valorosi.
Quando
gli uomini partivano in guerra, le donne prendevano il loro posto ed assumevano
con grande prontezza e responsabilità il buon andamento della casa, della
famiglia, delle proprietà, dell’educazione dei figli più piccoli e sugli
schiavi che lavorano per loro.
Dopo
il IV secolo a.C., le dinne spartane possedevano circa 35 – 40% di tutte le
terre dello Stato.. terre di esclusiva ed inalienabile proprietà. Alcune tra le
persone più ricche di Sparta erano proprie delle donne. Controllavano direttamente le loro personali proprietà così
come prendevano anche l’amministrazione fiduciaria delle proprietà dei parenti
maschili che si trovano assenti perchà impegnati in guerra.
“Il Coraggio delle
Donne di Sparta”
Jean Jacques
Francois Le Barbier (Rouen, 29 novembre 1738 – Parigi, 7 maggio 1826)
Olio su tela del
XVIII secolo.
“Una Donna
Spartana consegna lo scudo al figlio..
“Torna con lo scudo (cioè vincitore) o sullo
scudo (morto)”
Jean Jacques
Francois Le Barnier
Olio su tela del
1826
“Giovani spartani
che si esercitano”
Edgar Degas ( 1834
– 1917)
Olio su tela –
(109,5 x 155) cm – 1860
National Gallery –
Londra
Nel quadro le
giovane spartane incitano alla lotta i ragazzi
Plutarco raccontò
che l’antico legislatore spartano Licurgo esortò le ragazze ad
impegnarsi nella
disciplina sportiva della lotta.
Donna Spartana
nella corsa
Statuetta di
bronzo del 500 a.C.
Museo di Londra
Figura Femminile danzante (V secolo a.C) proveniente
all’area archeologica di Sparta
2.a – CINISCA – La
prima donna a vincere le Olimpiadi
Cinisca (Sparta, 440 a.C.
- Sparta (?) dopo il 392 a.C.) era una
nobile spartana figlia del re Archidamo II e di Eupolia, e sorella di Agide II e di
Agesilao II, anch’essi futuri sovrani.
Il
suo nome significa “cucciola”, “cagnolina”… Un soprannome che aveva avuto il
nonno, anche lui chiamato “cinisco”, e probabilmente legato a qualche
avvenimento di caccia oppure a un particolare tipo di segugio.
Fu
la prima donna della storia a vincere una gara alle Olimpiadi cioè la corsa dei
carri con quattro cavalli nel 396 a.C.
Alle
donne era vietata la partecipazione alle gare olimpiche, riservate solo agli
uomini, ma la corsa dei carri presentava un eccezione perché l’organizzatore e
il finanziatore della squadra partecipante poteva essere di sesso femminile.
L’auriga però doveva essere un professionista maschile ingaggiato per la guida
dei carri.
Pausania
ci lasciò importanti testimonianze sulla donna che definì ambiziosa. Una donna
ricca ed esperta di equitazione. Allevava personalmente i suoi cavalli ed era quindi molto esperta e ricca per
potersi permettere di organizzare una squadra
per partecipare ai giochi Olimpici del 396 e del 392 a.C.
Cinisca
partecipò infatti anche alle gare delle successive Olimpiadi del 392 a.C.
riportando una strepitosa vittoria.
Cinisca in una
vaso del IV secolo a.C.
Alle
donne greche non era consentito prendere parte alle gare olimpiche, che si
tenevano ogni quattro anni ad Olimpia. Gare che erano riservate agli atleti
maschi di tutte le poleis. Non erano consentito nemmeno partecipare come spettatrici tranne nel caso di bambine o
ragazze che dovevano essere accompagnate dal padre.
Facevano
eccezione le gare ippiche perché il finanziatore della squadra poteva essere
una donna mentre l’auriga doveva essere necessariamente maschile. Nella corsa
dei carri il vero vincitore era il finanziatore della squadra e l’allenatore
dei cavalli e ed era quindi considerato
l’effettivo partecipante alla competizione.
La
situazione a Sparta era decisamente diversa perché le donne potevano
partecipare ad attività pubbliche e sportive.
Il
fratello Agesilao esortò sempre la sorella a partecipare alle Olimpiadi per
dimostrare che le vittorie ai giochi non erano una dimostrazione di bravura ma
di ricchezza che consentiva di effettuare gli investimenti necessari per il
raggiungimento della vittoria… un giudizio sbagliato perché si possono avere le
ricchezze ma è necessario per la vittoria impegno, perseveranza, capacità
nell’addestramento dei cavalli, ecc…
Ma
le Olimpiadi erano precluse a Sparta perché era stata bandita dalla
competizione nel 420 a.C. per essere riammessa solo nel 396 a.C.
Cinisca s’iscrisse come organizzatrice della squadra
e come allenatrice dei cavalli alla competizione del 396 a.C. e del 392 a.C.
che vinse in entrambe le occasioni con la gara di corsa dei carri con quattro
cavalli… una delle gare più prestigiose dei Giochi.
La donna, visto il divieto d’ingresso alle
competizioni, potè assistere alla vittoria
della sua squadra
?
All’epoca
aveva circa cinquant’anni e non si sa se ancora fosse nubile o sposata. In ogni
caso avrebbe potuto avere un permesso speciale per assistere alle competizioni
dato che il divieto d’ingresso alle gare era rivolto, almeno in teoria, solo
per le donne sposate.
Plutarco
sostenne che fu il fratello Agesilao a
convincerla a partecipare ai giochi e non un eventuale marito.
La
vittoria di Cinisca fece allora scalpore perché la gara era considerata una
delle più importanti dei Giochi Olimpici.
Alla vincitrice furono dedicate due statue, realizzate dallo scultore
Apelleas mentre a Sparta le fu eretto un tempio in suo onore.
Le
statue dello scultore Apelleas furono collocate nel tempio di Zeus di Olimpia.
Una statua rappresentava la stessa Cinisca mentre un’altra raffigurava il
carro, i cavalli e l’auriga.
Pausania
citò le due statue e anche l’iscrizione, realizzata ad Olimpia, che indicava
Cinisca come l’unica donna, fino a quel tempo, ad aver vinto la corsa dei carri
alle olimpiadi.
Un’iscrizione
che è ancora conservata malgrado qualche lacuna nel testo:
I
re] di Sparta sono [mio]
padre e i [miei] fratelli; con un [carro di cavalli dai piedi veloci]
Cinisca, vittoriosa ha eretto questa statua.
Io dichiaro di essere l'unica donna in tutta la Grecia
ad aver vinto questa corona.
[...]
Apelleas figlio di Callicle l'ha fatta
padre e i [miei] fratelli; con un [carro di cavalli dai piedi veloci]
Cinisca, vittoriosa ha eretto questa statua.
Io dichiaro di essere l'unica donna in tutta la Grecia
ad aver vinto questa corona.
[...]
Apelleas figlio di Callicle l'ha fatta
------------------------
Σπάρτας
μὲν [βασιλῆες ἐμοὶ]
πατέρες καὶ ἀδελφοί, ἅ[ρματι δ’ ὠκυπόδων ἵππων]
νικῶσα Κυνίσκα εἰκόνα τάνδ’ ἔστασε· μόν[αν]
δ’ ἐμέ φαμι γυναικῶν Ἑλλάδος ἐκ πάσας τό[ν]-
δε λαβε̑ν στέφανον.
[...]
Ἀπελλέας Καλλικλέος ἐπόησε.
πατέρες καὶ ἀδελφοί, ἅ[ρματι δ’ ὠκυπόδων ἵππων]
νικῶσα Κυνίσκα εἰκόνα τάνδ’ ἔστασε· μόν[αν]
δ’ ἐμέ φαμι γυναικῶν Ἑλλάδος ἐκ πάσας τό[ν]-
δε λαβε̑ν στέφανον.
[...]
Ἀπελλέας Καλλικλέος ἐπόησε.
(Epigrafe IvO 159, Elide, Olimpia,
ca. 390-380 a.C
Pusania
citò anche la costruzione di un tempio, heroon, dedicato a Cinisca. Si trattava
di un santuario dove le si tributava un culto eroico, simile a quello verso i
re spartani. La donna fu quindi eroizzata e fu la prima donna ad essere oggetto
di eroizzazione . (in Grecia era comune che gli atleti più famosi fossero
venerati dopo la loro morte come eroi… ma erano maschi..).
Cinisca – Sophie
de Renneville
Il
suo esempio fu seguito da altre donne che parteciparono alle corse dei carri e
qualcuna riuscì anche ad eguagliare le sue vittorie.
Eurileonide, anche lei di
Sparta, vinse la gara col carro a due cavalli nel 368 a.C., sempre alle
Olimpiadi. Non si hanno notizie né su di lei che sulla sua famiglia. Si sa
soltanto che era una ricca spartana ed appassionata di cavalli.
Pausania
citò che a Sparta per la vittoria di Eurileonide fu eretta una statua commemorativa in bronzo, una delle
poche della Grecia classica , che ai suoi tempi erano intatte. Pausania visse
ben cinque secoli dopo la vittoria della nobile spartana.
Altre
donne vinsero delle gare con il carro sempre ai giochi Olimpici:
-
La
regina Berenice I nel 284 a.C.
-
Arsinoe II, figlia di
Berenice I, nel 272 a.C. Arsinoe vinse tutte e tre le gare equestri a cui
partecipò. Arsinoe, morta nel 268 a.C., fu la moglie legittima di Tolomeo I
(militare, sovrano e scrittore macedone che nel 305 si proclamò re d’Egitto)
-
Bilistiche, amante di
Tolomeo II, re d’Egitto, vinse le corse a due cavalli e a quattro cavalli nelle
Olimpiadi del 264 a.C. Secondo Pausania la donna era macedone mentre per altri
storici era argiva cioè dell’Argolide (Argo). Plutarco affermò che fu
acquistata al mercato degli schiavi. Il suo nome appare in un papiro egiziano
come sacerdotessa di 35 anni, figlia di Philo e vicina al faraone Tolomeo II.
Il papiro dichiara il suo giuramento. Molti ellenisti furono indignati per
l’onore concesso a una donna che
consideravano un ex prostituta. Affermarono quindi che il nome riportato nel papiro
apparteneva qa un omonimo che aveva vinto la corsa dei carri come guidatore. La
donna morì a Canapo, prima del 246 a.C. e Tolomeo II fece seppellire il suo
corpo nel tempio di Serapide nel promontorio di Racotis. Il faraone deificò la
donna sotto il nome di Afrotide Bilistiche.
Alessandria d’Egitto – Tempio di Serapide
--------------------------------
1.
Le Donne Nella
Filosofia
In realtà le fonti storiche ci tramandano anche la visione anche di una donna profondamente
diversa da quella ateniese o spartana.. una donna applicata nel campo delle scienze e della
filosofia alle più alte espressioni.
Sono donne che applicarono nella vita, e che manifestarono nei loro scritti la ricerca di giustizia e
di armonia nelle “nostre case e anime”. .. “Donne forti legate alla loro filosofia..” ed
appartenevano alla Scuola Pitagorica di Kroton (Crotone in Calabria – Italia).
La Pizia aveva una posizione sociale di gran prestigio e questo era un aspetto
Diadema di Hera
Lacina
In realtà le fonti storiche ci tramandano anche la visione anche di una donna profondamente
diversa da quella ateniese o spartana.. una donna applicata nel campo delle scienze e della
filosofia alle più alte espressioni.
Sono donne che applicarono nella vita, e che manifestarono nei loro scritti la ricerca di giustizia e
di armonia nelle “nostre case e anime”. .. “Donne forti legate alla loro filosofia..” ed
appartenevano alla Scuola Pitagorica di Kroton (Crotone in Calabria – Italia).
Secondo
le fonti di Senofane, Eraclito ed Erodoto, Pitagora nacque tra il 580 – 570 a.C.
nell’isola di Samo in Grecia.
Erma di Pitagora
Da un originale
greco della metà del V secolo a.C.
Roma – Musei
Capitolini
Samos (Grecia)
Samos (Grecia)
A
Samo fu scolaro di Ferecide ed Anassimandro di cui subì l’influenza nella
formazione del suo
pensiero. Il padre Mnesarco, era forse un cittadino
facoltoso e trovandosi a Delfi interpellò la
Pizia (sacerdotessa del dio Apollo
che dava i responsi nel Santuario di Delfi) per avere delle
notizie sul suo
futuro. La sacerdotessa gli predisse la nascita di un figlio che sarebbe stato “utile
al genere umano e saggio”.
Delfi – Tempio di
Apollo
Perché proprio a
Delfi il tempio dell’oracolo?
Il mito narra che
Zeus, nel suo tentativo di localizzare il centro della terra, mise in volo due
aquile dalle due
estremità opposte del mondo. I due rapaci partirono nello stesso momento e
volarono
con la stessa
velocità per giungere sopra Delfi, ai piedi del Monte Parnaso.
Qui Zeus lanciò un
masso dal cielo e nel punto in cui cadde fu fondato il tempio ad Apollo Delfico,
il tempio forse
più importante di tutto il mondo greco.
“L’Omphalos”, ovvero la “pietra” lanciata dal cielo,
indicava come il santuario fosse il centro del mondo,
il suo “ombelico”.
Una pietra
dall’alto significato religioso da cui Pizia (l’oracolo) elargiva le sue
profezie
misteriose.
La pietra, tutta
intagliata come fosse racchiusa in una rete di lana, fu ritrovata a nord-est
del tempio ed è
forse una copia ellenistica o romana
della pietra originale.
Era posta
nell’Adyton del Tempio di Apollo ed era vista solo dai sacerdoti e dalle
sacerdotesse che
avevano accesso alla camera sacra.
Alcuni storici
affermano come la pietra fosse collocata in “cima alle tre danzatrici
della colonna di Acanto”.
L’Omphalos, opera
ellenistica o romana del II secolo d.C. – Museo Archeologico di Delfi
Delfi fu un centro
abitato gin età micenea, XI – X secolo a.C., e mostrò le tracce di un culto
legato
alla dea Terra
(Gea) e al serpente Pitone, a partire dall’VIII secolo a.C.
successivamente il
culto di Gea fu sostituito dal culto del dio Apollo, detto Pizio,
perché vincitore
su Pitone. Il culto si caratterizza per la richiesta di profezie alla
sacerdotessa di
Apollo, la Pizia, che emetteva i responsi al centro del santuario seduta su un
tripode, dopo
essere entrata in
trance respirando il vapore che fuoriusciva da una fessura della terra…
3.a - L’Oracolo di Delfi (Pizia) era una Sacerdotessa
La Pizia (o Pitia,
in greco Pythìa) era quindi una donna che veniva scelta nella città di Delfi,
senza
limiti d’età. Un
rito che si sviluppò per un arco di tempo di circa 2000 anni (dal 1400 a.C. al
392 d.C.).
Nel 392 d.C. la
pratica venne proibita dall’imperatore romano Teodosio I che, dopo aver
proclamato il
Cristianesimo religione di Stato (nel 380), aveva soppresso i culti pagani
attraverso i decreti
teodosiani
Kylix attica a
figura rosse del 440 – 430 a.C. Opera di pittore di Kodros
Museo di Berlino
La dea Themis,
seconda detentrice dell’oracolo di Delfi, secondo Eschilo, seduta sul
bacile del tripode
espone le profezie a Egeo, mitico re di Atene.
Tantissimi
storici citarono l’oracolo di Delfi.
Plutarco affermò
che nel periodo di maggiore popolarità del Santuario di Delfi, c’erano almeno
tre donne che
svolgevano contemporaneamente il ruolo di Pizia.
Tra gli storici
antichi ..Diodoro Siculo…. Fu il primo autore classico a citare la
nascita
del Santuario di
Delfi… nel I secolo a.C.
Diodoro Siculo riferì che “un pastore, un cero Kouretas, si accorse un giorno che una delle sue
capre era caduta in una cavità rocciosa e belava in un
modo strano. Il pastore entrò nella grotta e si
sentì pervadere dalla presenza divina e da quel
momento iniziò ad avere visioni del passato e del futuro.
Eccitato dalla scoperta, il pastore avvertì gli
abitanti del villaggio e molti di loro si recarono più volte nella grotta fino
a quando uno di loro morì. Da quel momento l’accesso alla grotta fu permesso
solo alle
ragazze più giovani e successivamente, con la
fondazione del santuario, regolato rigidamente da
un gruppo di sacerdoti. Il un primo tempo il ruolo di
Pizia era riservato solo alle vergini,
ma dopo che Echecrate di Tessaglia rapì e violentò la
veggente di cui si era invaghito, fu decretato
per legge che nessuna vergine avrebbe più vaticinato e
il ruolo venne riservato alle
donne d’età matura che avrebbero continuato ad indossare
le vesti da vergine in
ricordo delle originarie sacerdotesse”,
Seduta sul
tripode, la Pizia subisce l’effetto del pneuma che si diffonde dal basso
Jhon Collier
(1891- olio su tela – (160 x 80 )cm – Art Gallery of South Australia
Fu più volte
avanzata l’ipotesi che la Pitia esprimesse le sue profezie in preda ad uno
stato di
alterazione
mentale (allucinazione o trance) causato dall’aspirazione di vapori che
fuoriuscivano
da una fessura del
suolo o masticando delle erbe particolari, con proprietà allucinogene, come
l’alloro.
Profezie che
venivano quindi espresse in modo forse confuso al sacerdote che interpretandoli
li riferiva al supplice.
Fu proposta anche
un’altra ipotesi secondo la quale vari elementi tra cui l’atmosfera suggestiva
del luogo, la complessa liturgia sacra con i vari riti, le aspettative e
l’entusiasmo degli stessi supplici, contribuivano a fare raggiungere
alla Pizia un
particolare stato di esaltazione mistica.
Le fonti classiche
però forniscono la visione di una donna che esprime in modo intellegibile e
direttamente
al sarcedote le
sue profezie. L’ipotesi della presenza di gas allucinogeni fu messa in evidenza
dallo
storico Plutarco,
che aveva svolto la funzione di sacerdote nel tempio, il quale affermò che la
“Pizia per ottenere le visioni, si rinchiudeva in un
antro dove dolci vapori fuoriuscivano dalle rocce”.
Furono condotte
anche delle ricerche geologiche per verificare la presenza di esalazioni
gassose ma senza risultati significativi.
Il tempio di
Apollo ha una struttura che si differenzia da quella dei tipici templi greci.
Presenta infatti un
adyton, cioè una camera sotterranea che era
accessibile alla Pizia o sacerdotessa.
Una camera che
probabilmente era
stata creata su una preesistente cavità naturale. Le prime campagne di scavi non
misero in evidenza
la presenza di fessurazioni ma le successive indagini contestarono le prime
indagini.
Infatti nel 2000, Luigi
Piccardi, (Consiglio Nazionale delle Ricerche), avanzò l’ipotesi che la
famosa voragine o
fessurazione oracolare non fosse altro che il risultato di una rottura del
terreno
in seguito ad un
terremoto lungo la fascia sismica di Delfi. I Vapori che ispiravano la Pizia
erano
quindi dei gas che
fuoriuscivano da questa fessurazione cioè acido solfidrico e anidride carbonica.
Gas che sono in
grado di creare effetti psicoattivi nell’uomo.
Nel 2001 un equipe
di ricercatori (geologi, archeologi e tossicologi) della Wesleyan University di
Middletown (Connecticut),
rilevò una concentrazione di 15,3 ppm di metano e 0,3 ppm di etilene nella
sorgente di Kerna
adiacente al Santuario.
Secondo i
ricercatori, l’abbondante presenza di etilene, gas odoroso che potrebbe ben
adattarsi alla
descrizione di
Plutarco, era dovuta alla particolare conformazione geologica del luogo.
Lo strato roccioso
su cui sorge il tempio sarebbe interessato dalla presenza di due importanti
sistemi di faglie
(Kerna e Delfi) e costituito da calcari bituminosi con un alto tasso di
idrocarburi.
La zona è
particolarmente attiva perché si trova in un’area di margine convergente e la
roccia
sarebbe fessurata.
Fratture che la rendono permeabile
all’acqua e ai gas
racchiusi negli strati bituminosi.
Gli studi
tossicologici sull’inalazione d’etilene dimostrano che questo idrocarburo,
mortale ad alti
dosaggi, potrebbe provocare, se assunto a piccoli dosi, euforia,
sensazione di
leggerezza e allucinazioni.
Uno studio che
fu che fu successivamente contestato e
smentito da altri studi
scientifici che
misero in risalto la mancanza di aspetti o evidenze geologiche e geochimiche
nelle tesi dei
ricercatori dell’Università di Middletown.
Nella rivista
americana “Geology”, ottobre 2006, fu pubblicata la ricerca, condotta a più
riprese in due anni,
di un gruppo di geologi italiani e greci nel
Santuario di Delfi per scoprire l’eventuale presenza di esalazioni.
Grazie all’uso di
sofisticati strumenti, il gas cromotografo e alcuni sensori laser di altissima
precisione,
l’equipe dell’Istituto Nazionale di Geofisica e
Vulcanologia (Ingv) e alcuni geologi
dell’Università di
Patrasso hanno individuarono emissioni di metano nell’adyton dove la Pizia
eseguiva le sue
profezie. Oggi queste emissioni sono piuttosto labili
ma un tempo dovevano essere cospicue.
“Queste fuoriuscite naturali di gas metano non
facevano che ridurre la quantità d’ossigeno nell’ambiente
in cui si raccoglieva la Pizia, scatenando potenti
effetti neuro-tossici” (prof. Giuseppe Etiope).
Sarebbe questa la
miscela, metano e mancanza d’ossigeno, all’origine degli stati di irrazionale
e incontrollata
frenesia in cui cadevano le sacerdotesse.
“Che la fuoriuscita di metano fosse in antico molto
più forte di quella attuale è dimostrato
dalle formazioni di travertino in corrispondenza della
sorgente del Tempio, dovute
all’anidride carbonica prodotta da ossidazione in superficie
dello stesso metano”.
La scoperta
arricchisce di particolari affascinanti l’antica tecnica di divinazione.
In rito era
definito nei dettagli: dopo un bagno nella fonte Castalia e il sacrificio di
una capra,
la Pizia, vestita
da fanciulla, qualunque fosse la sua età faceva bruciare nel tempio
farina d’orzo e
foglie d’alloro, alcune addirittura vengono masticate dalla sacerdotessa (dafnofagia).
Si recava quindi
verso l’onfalo e il tripode, cadendo infine in trance.
Da scartare quindi
la precedente ricerca dell’Università Americana che attribuiva
all’etilene lo
stato allucinogeno della Pizia.
“E’ impossibile che si produca in natura una
quantità di etilene tale da provocare
effetti allucinogeni, sarebbe come trovare un diamante
grande quanto una casa”.
“Pure la teoria ellenistica, secondo la quale dalla
terra salissero vapori vulcanici,
non trova riscontri scientifici. L’odore dolciastro a
cui allude Plutarco,
che dedica vari scritti all’oracolo apollineo, troverebbe una spiegazione
nella natura bituminosa delle rocce di questa parte
della Grecia, che favorisce
la formazione di piccole quantità di idrocarburi
aromatici, in primis il benzene”.
Tripode – Museo di
Delfi
La fonte Castalia
si trova presso il santuario di Delfi. Nella fonte si purificavano, la Pizia, i
Sacerdoti, il
personale del tempo ed anche coloro (theopropi) che desiderano consultare
l’oracolo dovevano fare
un bagno.
La Pizia e i
sacerdoti lavano con le acque delle fonte i capelli, come avveniva nel Tempio
di Apollo, su
cui versavano
delle gocce d’acqua per inumidirli.
Il nome della
fonte ha origine da tante leggende tra cui quella di una ragazza di Delfi,
Castalia, che
s’immerse nella
fonte per sfuggire ai voleri di Apollo.
L’acqua della
fonte era considerata un tempo come ispiratrice dei poeti.
Il realtà le fonti
sono due. Una ellenistica-romana, risalente al I secolo a.C., con nicchie
scavate nella roccia
per ricevere doni
votivi, descritta da Pausania, e che si trova
a circa 150 m, più
in alto, rispetto all’altra fonte arcaica.
La fonte arcaica
risale all’inizio del VI secolo a.C. e fu citata da alcuni autori tra cui
Pindaro e Erodoto.
Un’altra fonte, la
Cassotide, sgorgava poco a monte del tempio, passava sotto l’edificio e forniva
alla Pizia il potere profetico dato che
penetrava nell’Adyton.
La Pizia aveva una posizione sociale di gran prestigio e questo era un aspetto
insolito in una
cultura maschilista come quella greca. Gli obblighi che venivano richiesti alla
Pizia erano
la purezza rituale
e la continenza.
I supplici che si
recavano a Delfi per consultare la Pizia erano selezionati dai sacerdoti
che valutavano
l’effettiva necessità della loro richiesta. Come abbiamo visto prima della
consultazione il
supplice doveva
sacrificare una capra. Il corpo del povero animale veniva poi lavato nell’acqua
della sorgente del
tempio e dai sui organi, in particolare dal fegato, i sacerdoti nel loro ruolo
di auspici, avrebbero
sentenziato il
buon esito o meno dell’incontro con la sacerdotessa.
Il supplice faceva
anche una generosa offerta di denaro al santuario.
Un’offerta che
condizionava anche la priorità di ammissione alla presenza della Pizia.
Finalmente dopo
questi rituali il supplice veniva condotto nell’adyton, cioè la
Camera inaccessibile del tempio. Una cella
sotterranea dove avrebbe consultato la Pitia e ottenuto la profezia.
Nell’adyton era presente l’onfalo (la pietra che
rappresentava l’ombelico del mondo), le due aquile di
Zeuss, un Apollo
dorato, il sarcofago di Dionisio e il tripode della Pizia. Sull’architrave dell’adyton
era infissi
gli scudi presi a
Platea ai Persiani a ovest mentre ad est quelli presi ai Galli.
All’interno era
posta anche una fonte d’acqua, la Kassotis, dove bevevano sia la Pitia che i
sacerdoti e i supplici.
La consultazione
della Pizia aveva anch’essa un suo rituale.
Al rituale
assistono due sacerdoti a vita, esponenti delle famiglie aristocratiche di
Delfi, e cinque ministri
del culto detti
“hosioi”, designati a vita tra le famiglie discendenti dal mitico Deucalione
cioè il Noè pagano.
I due sacerdoti
assistiti dagli hosioi ricevevano i postulanti e assistevano la Pizia nel corso
della seduta.
I supplici
venivano immessi in un locale attiguo all’adyton , detto l’oikos, e
pronunciavano a voce alta la domanda.
Domanda che veniva
ridotta dai sacerdoti ad una alternativa.
La Pizia, non vista dal supplice, si limitava ad emettere
dei suoni inarticolati o dei convulsi
movimenti del
corpo che venivano interpretati dai suoi assistenti e trasmessi ai supplici con
trascrizioni su
tavolette di cera.
Ancora una volta Plutarco ci viene in aiuto perché affermò, essendo stato
testimone
delle
consultazioni, “ che la cadenza delle
consultazioni, in origine annuale (il settimo giorno di Byzios, mese sacro ad
Apollo, tra febbraio e marzo) si fa inizialmente col tempo mensile (il sette
d’ogni mese), per divenire in ultimo, pressocchè quotidiana, nei nove mesi in
cui Apollo è presente”.
La fondazione
delle prestigiose colonie di Siracusa e Crotone fu seguita da un
responso oracolare della Pizia.
Archia di Corinto
e Miscello di Ripe, ecisti (fondatori) s’incontrarono a Delfi per
consultare la
sacerdotessa sui loro propositi di fondazione.
La sacerdotessa
pose ai due ecisti una domanda ben precisa:
“cos’è più importante per voi, le ricchezze o la
salute ?”.
“Secondo
una tradizione, Archia si recò a Delfi nello stesso tempo in cui lo fece
Miscello. Insieme consultarono l'oracolo: il dio, prima di rispondere, volle
sapere da ciascuno se avessero preferito la ricchezza o la salute; e, poiché
Archia scelse la ricchezza e Miscello la salute, designò al primo l'area di
Siracusa, e l'area di Crotone al secondo. Ora, i Crotoniati costruirono
effettivamente una città dalle meravigliose condizioni salubri, come abbiamo
detto in precedenza; e i Siracusani d'altro canto si elevarono in breve tempo
sin all'apogeo della ricchezza e dell'opulenza, testimone di ciò fu l'antico
proverbio: alla gente troppo ricca e benestante non basterebbe nemmeno la
decima di Siracusa».
“«ἅμα δὲ Μύσκελλόν τέ φασιν εἰς Δελφοὺς ἐλθεῖν καὶ τὸν Ἀρχίαν:
χρηστηριαζομένων δ᾽ ἐρέσθαι τὸν θεόν, πότερον αἱροῦνται πλοῦτον ἢ ὑγίειαν: τὸν
μὲν οὖν Ἀρχίαν ἑλέσθαι τὸν πλοῦτον, Μύσκελλον δὲ τὴν ὑγίειαν: τῷ μὲν δὴ
Συρακούσσας δοῦναι κτίζειν τῷ δὲ Κρότωνα. καὶ δὴ συμβῆναι Κροτωνιάτας μὲν οὕτως
ὑγιεινὴν οἰκῆσαι πόλιν ὥσπερ εἰρήκαμεν, Συρακούσσας δὲ ἐπὶ τοσοῦτον ἐκπεσεῖν
πλοῦτον ὥστε καὶ αὐτοὺς ἐν παροιμίᾳ διαδοθῆναι, λεγόντων πρὸς τοὺς ἄγαν
πολυτελεῖς ὡς οὐκ ἂν ἑξικνοῖτο αὐτοῖς ἡ Συρακουσσίων δεκάτη.»
Nel
67 d.C. l’imperatore Nerone, appena
trentenne e già colpevole dell’assassinio
della
madre Agrippina, avvenuta nel 59 d.C., si recò a Delfi per consultare la Pizia.
“La tua presenza qui oltraggia il dio
che cerchi.
Torna indietro matricida ! Il numero
/3 segna l’ora della tua rovina !” disse la Pizia.
Nerone,
molto adirato ordinò che la Pizia venisse bruciata viva.
Dalle
parole della sacerdotessa Nerone capì che avrebbe avuto un lungo regno
e
sarebbe morto a 73 anni…. Niente di più sbagliato…. Perché la realtà fu
completamente
diversa
da quella che immaginò l’imperatore.
Il
suo regno ebbe fine dopo una rivolta di Galba (Servio Sulpicio Galba Cesare
Augusto, futuro imperatore)
che all’epoca aveva 73 anni
L’ultima
Pizia o oracolo fu nel 393 d.C., per ordine dell’imperatore Teodosio I il
tempio
Fu
chiuso e mai riparto. La Pizia esclamò…”tutto
è finito”.
Profetizzò
che l’imperatore sarebbe morto entro 5 anni (morì nel 395) e che 15 anni dopo
la sua morte,
Alarico
e i Visigoti avrebbero conquistato Roma (avvenne nel 410)
Il tunnel che
conduce all’adyton sotto il tempio, dove la Pizia faceva gli oracoli.
Sull’architrave
del portale del santuario erano riportate delle massime di sapienza tra cui il
famoso motto “CONOSCI TE STESSO”.
Nell’interno del
recinto si trovavano delle statue di cui
due furono scolpite da Patrocle di Crotone.
(le statue
rappresentavano Epiciride ed Eteonico. In precedenza lo scultore di Crotone aveva realizzato, in
onore di Apollo, una statua in legno di bosso e con il capo dorato, dedicata ad
Olimpia e commissionata dai
locresi zefiri
(Locri).
Secondo
altre fonti Pitagora non nacque in Grecia ma a Samo, in Calabria, dove i suoi
genitori si
erano trasferiti come mercanti facoltosi e successivamente si
spostarono con il figlio a Crotone.
Samo (Reggio Calabria)
3.b – Pitagora a
Kroton – La città sconvolta dalla sconfitta nella “battaglia della Sagra”
Da
Samos (Grecia) Pitagora si trasferì nella Magna Grecia a Crotone nell’anno 530
a.C. dove
fondò la Scuola Pitagorica. La venuta nella Magna Grecia di Pitagora
era legata alla situazione
politica in Grecia dove non approvava la forte tirannide di Policrate.
Tirannide
che aveva trovato in patria dopo i suoi lunghi viaggi al ritorno dall’Egitto e
da
Babilonia e che alcuni storici definirono leggendari.
Pitagora
cercò d’incitare i suoi concittadini a ribellarsi alla tirannide e nello stesso
tempo espose
le sue idee ma “ per la poca
disposizione dei suoi concittadini ad apprendere”, pensò di
abbandonare la
sua terra.
Come
luogo adatto per la sua predicazione scelse l’Italia Meridionale. Una regione,
come la
vicina Sicilia, che nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. si era
popolata di numerose colonie
greche che mostravano un rigoglioso sviluppo
economico e sociale. In particolare nell’Italia
Meridionale Crotone e Sibari
avevano raggiunto “alti fastigi di
potenza e ricchezza”.
Crotone probabilmente
esisteva già prima della venuta dei Greci come antichissima fondazione
pelasgica
e la leggenda collega la nascita della città ai Troiani.
Troiani che sbarcarono alla foce del fiume
Neto. Le navi furono bruciate dalle donne dei
naviganti perché stanche di
peregrinare in mare per cui i Troiani furono costretti a fondare la
città. Un’altra leggenda lega
invece la stessa fondazione a Ercole che nella spedizione dei bovi di
Gerone,
arrivò nei pressi di Capo Lacinio. Qui fu ospitato da Croton e dalla moglie
Lauretta. In
una rissa con Lacinio, padre di Lauretta, che aveva sottratto ad
Ercole alcuni buoi, uccise Croton
che credeva accorso in aiuto del
suocero. Accortosi del grave errore,
Ercole gli fece solenni
funerali e predisse che nel luogo sarebbe sorta una
grande città..
Pitagora
giunse a Kroton dopo la famosa “Battaglia
della Sagra o sul Fiume Sagra” che si
svolse tra il 560 e il 530 a.C. Fiume
Sagra che ancora non è stato ben identificato perché
potrebbe trattarsi del
fiume Torbido ( Marina di Gioiosa Jonica), dell’Allaro (tra Gerace e
Squillace)
o dell’Amusa nei pressi di Roccella
Ionica.
Il periodo in
esame è contraddistinto da un fiorente sviluppo economico, culturale e
demografico delle
polis. Uno sviluppo che nascondeva in sé il desidero di ogni città di ampliarsi
e
quindi
inevitabilmente di entrare in conflitto con la città vicina.
Kroton (Crotone)
mirava ai territori a sud spingendosi fino a kaulon (Calulonia) che diventò
l’ultimo presidio
del suo vasto territorio.
Locri possedeva il
territorio a sud di Kaulon con le sub-colonie di Hipponion e Medma.
Due città, Kroton
e Locri Epizefiri, si fronteggiavano e per un certo periodo ci fu una stasi che
era solo
apparente. Locri Epizefiri si era espansa verso il Tirreno e ogni suo ulteriore
azione di
ampliamento dei
confini era precluso a nord dal territorio di Kroton e a sud da Reghion.
Lo stesso
argomento coinvolgeva la forte Kroton che si trovava la strada espansionistica
sbarrata a
Nord da Sibarys
mentre a sud dai territori di Locri
Epizefiti.
Due città
contraddistinte da una florida situazione economica ma differenti dal punto di
vista
demografico. Locri
non superava i 40.000 abitanti e, con l’aiuto delle sub-colonie, poteva
schierare un
esercito di 10.000 -15.000 uomini. Kroton era una vera e propria metropoli ed
era
in grado di
schierare un esercito di ben 120.000 uomini.. cifra forse esagerata ma che
probabilmente
voleva mettere in
risalto la grande disponibilità di risorse umane della città. Sibari dal punto
di vista
demografico
presentava una situazione simile a quella di Crotone.
LOCRI EPIZEFIRI
Locri Epizefiri fu
definita il “cuore della Magna Grecia”.
Il Teatro greco
che risale al IV secolo a.C. anche se rimaneggiato in epoca romana.
Fu costruito in
una avvallamento naturale e poteva accogliere 4.500 spettatori.
Fra i templi
importantissimo è quello dedicato a Persefone
Fu definito da
Diodoro Siculo come il più famoso dell’Italia meridionale.
Nel suo interno
furono trovati depositi votivi con ricchi reperti di specchi, quadretti in
terracotta e frammenti di vasi.
Un sito dal
grandissimo valore storico dove si respira la storia di grandissime culturale.
La terra è quella
originaria della storia dell’uomo.. il Museo per i suoi reperti è uno dei più
importanti d’Italia.
Una perla della
bella Calabria cosi vicina, non solo geograficamente, alla mia Sicilia.
Locri – La Statua di Persefone in Trono
Dal 1915 si trova in Germania all’Altes Museum di
Berlino
Una grande
meraviglia dell’antichità, statua in marmo risalente al V – IV secolo a.C. e
rappresenta
Persefone, la Dea
in trono di Locri. Sembra che il governo tedesco nel 1915 pagò per averla un
milione di marchi
circa 150 milioni di euro di oggi.. La statua si trovava nell’antica Locri
e vi fu rinvenuta
nel 1905 da Giuseppe Giovinazzo, un contadino del luogo che fu …
obbligato al
silenzio. Solo dopo sessant’anni riferì la verità
Nel 1911 la statua
venne ritrovata a Taranto, che ne
rivendita la paternità, e poi attraverso vari passaggi
giunse nel 1915 in
Germania.
Come detto ancora
oggi la città di Taranto ne rivendica la paternità ma studi recenti dimostrano
come
la statua sia
della cittadina di Locri..
le vicende subite
dalla statua sembrano fare parte di un romanzo e ci devono fare capire
il triste destino
che ha subito il patrimonio archeologico
di questo profondo sud d’Italia….
Una preziosa
ricerca eseguita dall’Ing. Giuseppe Macrì che ha scoperto clamorosi
elementi sulle
vicissitudini della statua nella sua “fuga” dalla natia Locri.
Nell’estate del
1905 un agricoltore, Giuseppe Giovinazzo, riportò alla luce in una vigna, in
contrada
Perciante, comune di Portigliola, la preziosa statua. Il padrone del terreno
era
Don Vincenzo
Scannapieco e fece giurare al contadino di non rilevare il prezioso
rinvenimento.
Naturalmente don
Scannapieco capì subito l’immenso valore di quella statua.
Il contadino
Giovinazzo mantenne la promessa per ben sessantuno anni. Nel 1966, il prezioso
lavoro del
Prof. Guido
Incorpora, che era sulle tracce della statua, permise di fare luce sulla
vicenda.
Il contadino
decise di rilevare le vicende e il nipote, prete, lo sciolse dal giuramento di
silenzio.
“ dal 1905 la statua rimase nascosta per sei anni in
un frantoio in località Quote,
in attesa del momento propizio per venderla al miglior
offerente. Nel 1911 si fece avanti un
compratore tedesco e fu venduta per un milione di
marchi. La statua della dea fu dunque
portata a Gioiosa Marea e da qui venne imbarcata su
una nave con destinazione Taranto.
Per un anno rimase nascosta nella cantina del
cavaliere Cacace, nel 1912 fu trasferita
ad Eboli, da qui a Salerno e poi a Marsiglia. La
statua fu denunciata alla dogana
come “statua da giardino” e finì nelle mani di un antiquario
bavarese, il dott. Hirsch che la espose a Parigi nel
1914. Era allora in corso la
prima guerra mondiale e la statua venne confiscata
perché appartenente a una persona
di nazionalità tedesca. Mediò per Hirsch un antiquario
palermitano, Tommaso Virzì, suo caro
amico, che dichiarò di essere il legittimo
proprietario.
Il Virzì aveva una forte carica istituzionale, era
Console in una Repubblica del Sud America, e dato che i
rapporti tra Francia ed Italia dovevano restare
ottimi, riuscì ad affermare di essere il legittimo
proprietario della statua e a dissequestrare l’opera. (Quanta
corruzione anche a livello diplomatico.
Ricordo un signore che aveva il figlio ambasciatore in
Sud America e lui faceva di professione
l’usuraio,
mandando alla rovina tanta e tanta gente…..)
Dalla Francia la Persefone
passò in Svizzera e fu in seguito venduta al governo
tedesco per un milione di franchi
(il più cospicuo sottoscrittore fu l’imperatore kaiser
Guglielmo II).
da allora si conserva presso il Museo Reale di
Berlino. Sembra che nei Musei di
Berlino ci siano dei testi a corredo della statua in
cui viene riconosciuta come
“Dea di Taranto”.
Nel 1966 ci furono
le rivelazioni del contadino Giovanni Giovinazzo che fecero scalpore a livello
nazionale.
Giovinazzo, l’uomo
che riportò alla luce dalle viscere della terra la bellissima Persefone, decise
di rilevare i fatti.
Giovanni Giovinazzo
La RAI nel suo
telegiornale del 25 giugno 1966, l’indimenticabile cronista Paolo Cavallina
commentava il servizio:
“Giovanni Giovinazzo da Locri è un uomo di parola. Anche troppo.
Giurò di non rivelare un segreto ed ha mantenuto il suo giuramento per oltre
sessantuno anni. Se non fosse stato per don Giuseppe, suo nipote e parroco di
Moschetta che lo ha sciolto da quel giuramento, dalla sua bocca non sarebbe mai
uscito il nome di Persefone con gran danno dell’archeologia”- (Il Sig. Giovinazzo
nel 1966 aveva circa ottant’anni)
Il servizio riportò una sintesi della storia del trafugamento e un breve
discorso del Giovinazzo che portò il cronista sul luogo del ritrovamento della
statua.. (anno 1905) ” Vincenzo
Scannapieco (è il Giovinazzo a parlare) era un buon uomo; quando morì lasciò
tutti i suoi beni al Comune, segno che si era pentito di aver venduto Persefone.
Si, Persefone era qui sotto. - dove il vecchietto picchia col bastone - E
questo fu l’argano che servì a tirarla su e ci volle tanta pazienza e tanta
fatica! E queste furono le catene che servirono a issarla sul carro”.
Poi riprese il commento del cronista..
“E’ un discorso convincente. Ora gli archeologi, potranno stabilire la verità e
ridare a Persefone, Dea del Bene e del Male, la sua vera patria che fu
probabilmente Locri e non Taranto. Il vecchietto che è stato muto per
sessantuno anni domanda: - Che differenza fa?”
Presso la Procura
di Locri c’è il fascicolo che avvalora la confessione resa dal contadino Giovinazzo
nel 1966.
Una testimonianza che fu ufficializzata da un atto giudiziario. Un’inchiesta
compiuta nel 1966 dal
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, Domenico
Palermo, che raccolse
tutte le testimonianze delle persone coinvolte nella vicenda.
La magistratura
aprì quindi un inchiesta per verificare la possibilità
dell’esistenza di
soggetti che, in concorso con Vincenzo Scannapieco che all’epoca delle
indagini era
morto, si resero responsabili del reato di trafugamento illecito di beni
monumentali
ed archeologici
all’estero. Gli eventuali complici non furono trovati e l’inchiesta fu
archiviata.
Nel decreto di
archiviazione fu premesso che la chiara ed inequivocabile testimonianza di
Giovinazzo portava
alla conclusione che la statua di Persefone, che oggi si trova a Berlino,
proviene da Locri.
Fino alla sentenza
della magistratura si erano svolte delle indagini di polizia tra cui quelle di
un capitano della
Guardia di Finanza, Giuseppe Tricoli, che nel 33- 34 fece delle indagini per
conto
della
Sovrintendenza di Taranto. Indagini non convincenti condotte dal Tricoli… siamo
in epoca fascista
dove magari la
verità di polizia poteva avere la prevalenza ma in democrazia a prevalere è
la verità
giudiziaria… almeno quella onesta.
Nelle deposizioni
raccolte dal Tricoli non si fece alcun cenno del momento del ritrovamento ma
dichiarazioni di
persone che avevano visto la statua nel momento in cui veniva caricata sul
carro e
anche di un
individuo che aveva guidato il carretto con la statua da Taranto ad Eboli.
C’era poi una
lettera scritta da due operai di Taranto nel 1912 e ritrovata nel 1933 in cui
si legge che
“una statua è stata escavata e trafugata per essere
venduta all’estero” e proprio da questa
lettera sarebbe
poi partita l’inchiesta del capitano Tricoli.
La lettera si
rilevò un falso…. Rilevava competenze di scrittura medio-alto ricche di errori
Grammaticali che
erano stati inseriti di proposito. Le firme in calce furono apportate da una
stessa mano perché
la calligrafia era identica e caratterizzata da svolazzi che non era
minimamente
ipotizzabile potessero appartenere a sue semialfabeti. C’erano vocaboli come
“nottetempo” che è
impossibile che un semianalfabeta potesse conoscere. Il capitano
Tricoli conduceva
le indagini con il metodo tipici dell’epoca fascista cioè con interrogazioni
intimidatorie.
C’era la
testimonianza di un uomo che aveva partecipato al trasferimento della statua
fornendo
uno dei due
cavalli che alla domanda, probabilmente posta in modo minaccioso,
“è questa la statua ?”… l’uomo rispose…”io non l’ho vista ma da come me l’anno
descritta
è questa….” .!!!!!!!
Il Tricoli indicò
anche il luogo in cui si doveva scavare per trovare qualche frammento.
Il soprintendente
di Taranto chiese ed ottenne i fondi, anno 33-34, per attuare il sondaggio ma
non fu trovato nulla.
Nel 1957 si fece
avanti un archeologo tedesco, Langlotz, che indicò un punto, a circa 20 metri
distanza da quello
indicato da
Tricoli. Un punto che era stato riferito da una persona attendibile. Il nuovo
sondaggio ed
anche questa volta
negativo. Il Langlotz sostenne che la statua fosse stata escavata non nel 1912
ma nel 1911 ..”il tutto riferitemi da persona degna di
rispetto”.. Langlotz dichiarò il falso
perché nel 1911 il
terreno in cui sarebbe stata trovata la statua era stato oggetto di lavoro di
sterro…
In merito alla
statua fu trovato un libello di storia locale, pubblicato nel 1920 e il cui
autore
era il notaio
Giuseppe Portaro, che riporta: “C’è la
cattedrale di Gerace verso cui concorsero quattro
templi pagani per la sua edificazione e ci sarebbe
stata anche la statua delle Persefone se colui che
ci viveva sopra non l’avesse trafugata, statua che
oggi si trova a Berlino”.
Ma chi è che
viveva sopra ? Il Portaro non lo rileva
ma era il notaio di Scannapieco, il proprietario del
terreno in cui fu
trovata la statua. Il notaio era un massone… Guglielmo II era un massone e
anche Tommaso Virzi…”la persona che viene citata come degna di rispetto nei
verbali del Tricoli, era un massone , aprì una loggia massonica
a Modena nel 1923…
C’era un accordo tra di loro ?
si potrebbero fare
delle ricerche a Locri sul punto in cui
fu rinvenuto la statua.. anche attraverso immagini satellitari..
Il perimetro
dell’area archeologica di Locri è superiore a quella di Pompei ed è stata
scoperta solo il 10%...
I reperti
rinvenuti hanno riempito il Museo di Reggio, di Locri e importanti
testimonianze si trovano
anche nei musei di
Napoli e Taranto (Pinakes).
Anche Paolo Orsi
fu coinvolto nella storia del trafugamento della statua da parte del prof. Casagrandi
di Catania !!!
Il
grande archeologo Paolo Orsi era probabilmente a conoscenza degli avvenimenti
ed in una sua lettera muoveva delle precise e forti accuse ai fratelli Scannapieco,
proprietari del terreno ove fu rinvenuta la statua…”negozianti di derrate e chincaglie, ed a tempo opportuno anche di
antichità” e ricordava anche il
magnifico tesoro composto da una serie di lance, di anelli, monete, scudi,
anfore e tantissimi altri reperti che essi custodivano nelle loro proprietà “parte in campagna e parte a Gerace”. Lo
stesso Orsi chiedeva e sperava nell’istituzione immediata di leggi “provvide e severe per la tutela dei
monumenti non meno che contro gli scavi abusivi”.
Il catanese
Vincenzo Casagrandi, archeologo che aveva contribuito a fare conoscere la
verità sul trafugamento
della preziosa
statua, avanzò addirittura dei sospetti sull’archeologo Paolo Orsi.
Secondo il
Casagrandi l’archeologo nel periodo di rinvenimento della statua era
responsabile degli scavi archeologici nella zona di Locri
Epizefiri.
Un accusa forte
perchà il Casagrandi affermava che “l’Orsi
non poteva non sapere nulla
della statua e, quindi doveva per forza essere stato
in qualche modo complice di coloro
i quali avevano effettuato il trafugamento”.
Accuse false,
pretestuose, prive di fondamento e mosse probabilmente da invidie e
dal voler
screditare l’Orsi per farlo rimuovere dai suoi incarichi e favorire la scelta
di altre figure
per ricoprire quelli che erano i suoi incarichi.
Il Casagrandi non
era a conoscenza che la statua non fu rinvenuta nel 1911 ma nel 1905.
Nel 1905 l’Orsi
non era responsabile degli scavi nella zona di Locri Epizefiri che assumerà
a partire dal 1908.
Dal 1984 al 2004
ci furono ben sei interrogazioni parlamentari , da parte di deputati calabresi,
in merito alla
Persefone…
-
1985; interrogazione parlamentare di Natino Aloi.
Il sottosegretario
Galasso rispose all’interrogazione affermando:
“D’altra parte nel 1966 assumemmo informazioni
attraverso il Ministero della Pubblica Istruzione che ci assicurarono
l’inattendibilità di Giovinazzo”.
“L’inchiesta da parte della magistratura di Locri
venne aperta il 27 giugno del ‘66 e chiusa nel
settembre del 1968. Questo significa che ci fu
qualcuno all’interno del Ministero della Pubblica Istruzione
che si arrogò il diritto di scavalcare i giudici e
fornire un’interpretazione utilizzando notizie false.
Chi fu a commettere questa gravissima azione? Potremmo
azzardare un’ipotesi: i beni culturali nel ’66
dipendevano dal Ministero della Pubblica Istruzione. A
Reggio il soprintendente dell’epoca era Foti,
lo stesso che oppose i maggiori ostacoli alla
magistratura.
Quindi ci fu un vero e proprio depistaggio. I motivi
non si sanno” (Ing. Macrì)
-
1997;
Interrogazione parlamentare da parte del deputato calabrese, Natino Aloi
La risposta all’interrogazione
questa volta da parte dell’on. Walter Veltroni, allora
Ministro per i
Beni Culturali. Probabilmente, come affermò il Macrì, la risposta fu scritta da
qualche
funzionario perché presenta degli errori: Paolo Orsi fu definito “architetto” e
non archeologo
di fama
mondiale; il ritrovamento fu effettuato
da un contadino negli “anni ’50, quando successe nel 1966 e per finire “non risulta che la magistratura locrese
abbia mai aperto un’inchiesta”…errato… l’inchiesta s’era svolta. Lo stesso
Macrì nella sua indagine storica, si rivolse ad un amico della procura di Locri
e riferì che nel ’97 fu fatta una ricerca del fascicolo a seguito dell’indagine
interna eseguita da Veltroni.
Il fascicolo era
presente.. perché fu dichiarato che non c’era stata alcuna inchiesta ?
E per finire l’amara conclusione della risposta di
Veltroni all’interrogazione:
“Non è possibile intraprendere un’azione per ottenere
la restituzione dell’opera per non
compromettere la fattiva collaborazione in atto con le
autorità tedesche per la restituzione
all’Italia di opere in merito alle quali le nostre
richieste hanno ben maggiore fondamento”.
Cosa significa
?... La statua della Persefone non è considerata importante .. ci sono altre
opere
Di maggiore pregio
che devono essere restituite..!!!!!!!!!!!
Parlare di
restituzione della Persefone è difficile perché non esisto margini a causa del
tempo trascorso e
della susseguente prescrizione. Lo stesso Macrì affermo che si potrebbe
intentare
un discorso
politico con la Germania. L’acquisto fu fatto illegalmente e potrebbe
verificarsi,
ipotesi remota,
che un atto di onestà intellettuale faccia ritornare la statua a Locri.
L’Aloi raccontò un
episodio, quando era sottosegretario alla Pubblica Istruzione, in cui
venne in contatto
con il console tedesco. I due parlarono della Persefone e il console
disse: “Voi non c’è l’avete mai chiesta, perché se
ce l’aveste chiesta io non penso
che avremmo fatto le barricate per non restituirvela”.
Da allora il
silenzio sembra che abbia avvolto la Persefone… non se ne
parla…. Un bene
arch3eologico di gran valore, non inferiore ai Bronzi di Riace,
sconosciuto anche
agli italiani ed espressione culturale di questo martoriato Sud
abbandonato….
Il sito di Locri
ha anche restituito un gran numero di Pinakes, cioè quadretti votivi in
terracotta, legno
dipinto, marmo o bronzo. Furono prodotti nella Magna Grecia, tra il 490 e il
450 a.C., principalmente nelle poleis di Rhegion e Locri Epizefirii e oggi si
trovano nei saloni
del Museo di
Reggio Calabria e di Locri.
Una vastissima
collezione di ex-voto e costituiscono un complesso unico al mondo
per quantità,
varietà e qualità. I reperti rinvenuti
hanno permesso di identificare
ben 170 scene
ritratte in tavolette di terracotta che probabilmente furono realizzate in
serie
grazie a delle
matrici e arricchite da una vivace policromia.
Le scene a
bassorilievo riportano il mito di Persefone, e i suoi rituali. Ma cosa c’entrano
i pinakes con l’enciclopedia delle donne ?
I pinakes erano donati dalle fanciulle di Locri alle dea Persefone nel
momento del loro
matrimonio. Alcune scene alludono ai preparativi delle nozze, come l’acconciatura,
la preparazione
del letto nuziale e anche la riproduzione di un bambino in una cesta che allude
alla
maternità. Un rituale
per ingraziarsi i favori o la protezione della
dea in un unione
feconda e che riporta ai riti di iniziazione che accompagnavano le donne
locresi.
Un rito vissuto
non come un avvenimento privato ma come un momento di vita importante per tutta
la comunità locrese. I pinakes venivano appesi, grazie ai fori, agli edifici di
culto e probabilmente
anche sugli alberi
che delimitavano il recinto sacro. Quando il santuario subì una
ristrutturazione,
furono spezzati. La
rottura dei pinakes era quindi legata ad un rito per evitare un loro sacrilego
reimpiego e i
pezzi venivano collocati nella stipe votiva.
Paolo Orsi che nel
1911 eseguì gli scavi archeologici a Locri, trovando i pinakes affermò:
“Bastano i celebri pinakes, fonte
inesauribile di indagini per gli studiosi della religione
e dei culti, per fare la gioia degli artisti e la
gloria di un museo”.
Donna Locrese
prepara il corredo
Locri – Pinakes
Consegna dei doni
(da notare il gallo e la palla, simboli rituali dedicati a Persefone)
-----------------------------------------------
Kroton decise di
espandersi proprio ai danni della vicina Locri in virtù della sua schiacciante
superiorità
per poi proseguire
verso Reggio. I Crotonesi non valutarono però quell’elemento che spesso nei
conflitti bellici
si manifesta in
maniera inaspettata: l’istinto di sopravvivenza. I Locresi pianificarono la
resistenza senza lasciarsi
prendere dal
panico.. e adottarono un attenta e valida strategia militare.
I locresi nel
preparare la battaglia, chiesero aiuto a Sparta che per risposta affermò che
avrebbe inviato i Dioscuri (Castore e Polluce).
Chiesero aiuto a
Reggio e il tiranno Anassila inviò 1000 uomini mentre altri aiuti giunsero
dalle sub colonie
di Medma ed Hipponion.
Decisero infatti
di non chiudersi in città ad attendere il nemico e ritennero che non sarebbero
stati
in grado di
fronteggiare una forza nemica così ingente che prima o poi avrebbero fatto
breccia nelle mura.
Si adottò la
strategia di uno scontro in campo aperto e i comandanti locresi dimostrarono
tutta la loro
perizia militare.
Si doveva scegliere il luogo dove fronteggiare il nemico.
Scelsero con
perizia il luogo… il punto in cui il fiume Sagra, stretto fra il mare da un
alto e le montagne dall’altro,
non permetteva di
schierare un gran numero di forze.
In quel punto si
schierò l’esercito locrese in attesa del nemico. Giunse l’esercito di Crotone
e, come previsto,
non potè schierare
tutte le sue forze ed esprimere quindi la sua superiorità numerica.
I locresi
lanciarono l’attacco, animati da una rabbia di chi non aveva nulla da perdere,
ed in breve
riuscirono a fare
breccia nella parte centrale dello schieramento nemico. Fu ferito il comandante
in capo,
Leonimo e lo
sconforto conquistò l’esercito dei crotonesi che erano sicuri di vincere e che
quindi
si trovarono in
una situazione di grave disagio psichico a tal punto che non seppero
nemmeno reagire.
Furono messi in fuga con la cavalleria locrese alle loro spalle.
Una vittoria che
fu immortalata da racconti e anche da leggende come quella dei Dioscuri.
La leggenda cita
che durante la battaglia, tra la moltitudine di contendenti, c’erano due
giovani, armati
diversamente dagli
altri, che non davano tregua ai soldati crotoniati e che una volta concluso lo
scontro,
sparirono nel
nulla. Questi giovani vennero identificati con i Dioscuri, Castore e Polluce,
gemelli e figli di
Zeus e Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta e fratelli di Elena e
Clitennestra.
I locresi furono
anche aiutati da Aiace Oileo.
La sconfitta di
Crotone modificò la mappa territoriale della Magna Grecia.
Locri inglobò
sotto la sua influenza Kaulon; Skylletion sulla costa Jonica e forse Terina e
Temesa
sulla costa
Tirrenica.
Gli storici ancora
oggi sono affascinati da questa epica battaglia e continuano nei loro studi per
svelare
antichi
aspetti. Dopo la battaglia a Locri si
sviluppò il culto dei Dioscuri come ringraziamento
per la
schiacciante vittoria (statue che sono esposte nel Museo Archeologico di Reggio
Calabria) e un’altro aspetto è legato alla presenza di un’aquila che durante lo
scontro volava in cielo, come per vigilare sui contendenti.
Le statue
risalgono alla fine del V secolo a.C. o al principio del IV secolo a.C.
Sono in marmo e
provengono dall’isola di Paro. Vennero rinvenute da Paolo Orsi durante la
campagna
di scavi del
1890-91 e costituivano probabilmente la decorazione posta all’interno del
timpano del tempio di contrada
Marasà di Locri
Epizephirii ed oggi esposte nel Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio
Calabria.
Ai due Dioscuri
(Castore e Polluce) fu affiancata un’altra scultura che fu rinvenuta durante
gli scavi
Antecedenti alla
scoperta dei Dioscuri. La statua dovrebbe rappresentare o una nereide (divinità
marina
che si collega ai
due tritoni che sorreggono i cavalli dei Dioscuri) o a una Vittoria (per
ricordare
la vittoria dei
Locresi nella Battaglia della Sagra).
Le acque del fiume
si colorano di rosso a causa delle vittime. I dati sulla battaglia derivano
da un’iscrizione
votiva su uno scudo rinvenuto a Delfi recante la scritta..”i cittadini di Hipponion e Medma
e Locri dedicarono dal bottino dei Crotonesi
Fiume Allaro
Briglia della Fiumara dell'Allaro nei pressi dell'Eremo di Sant'Ilarione
La Vallata dei
Fiume Torbido
L’arrivo di
Pitagora a Kroton
Pitagora
si stabilì a Kroton
e incominciò a diffondere le sue idee filosofiche. Porfirio,
Giamblico ed altri
storici affermarono che l’influenza del filosofo non si fermò a Kroton ma si
diffuse rapidamente “come un contagio” a tutte le popolazioni dell’Italia
Meridionale e di parte
della Sicilia.
“Ovunque
cessarono le discordie intestine ed esterne, si riformarono i costumi, le
costituzioni”.
I governi delle città erano in prevalenza
aristocratici, un “aristocrazia
temperata” per cui
Pitagora, secondo il Lenormant, dovette fare ben poco
per trasformarli secondo le sue leggi
filosofiche. In realtà le popolazioni di
origine Achea, Sibari e Crotone,
dovevano sottostare a
costituzioni democratiche e a governi in cui
l’istituzione principale era il consiglio dei mille. Un
assemblea con una larga
rappresentanza proporzionale in città che avevano un numero limitato di
abitanti e solo fino ad un certo punto si potevano considerare aristocratici
anche se non a tutti era
consentito raggiungere quella carica.
Gli storici insistono sull’aspetto in cui
Pitagora rivendicò a libertà le città che erano soggette a
“servaggio”. Fu per merito dei governi da lui fondati,
governi quasi aristocratici e come dice
Diogene Laerte di “ottimati”, che cercarono
di conciliare il principio aristocratico con quello
democratico. Le città
dell’Italia Meridionale fiorirono così rapidamente da far designare questa
regione come “Grande Grecia”.
La tradizione cita anche come le sue
visite fossero richieste anche in Sicilia come
Agrigento,
Imera, Taormina. La sua fama si diffuse a tal punto che era
raggiunto da messapi, lucani,
peucezii, romani, etruschi.
Gli scrittori furono colpiti dal fascino
misterioso esercitato dall’attività di Pitagora e dei suoi
seguaci. Attirò l’attenzione
di tutti… fu un vero conduttore di anime… egli non insegnò ma guarì
e come disse
Eliano..ӏ un mago, un incantatore come
dice Timone il sillografo”.
“Le
sue leggi erano accolte come se venissero dal cielo… egli apparve come un buon
demone o
come Apollo Iperboreo, o Pizio, o Peone, come uno di quei demoni che
abitano la luna, oppure
come uno degli olimpici che assunta forma umana fosse
sceso in terra a scopo di riformare la
vita”.
Pitagorici
celebrano il sorgere del sole
Capo Colonna - Kroton - Crotone
Dell’antica e
grande Crotone, Kroton, rimangono delle
vestigia sotto il castello, costruito nel XVI secolo, e in
altri punti della
città. Di gran valore storico e archeologico è l’area di
“Capo Colonna”
dove gli scavi, iniziati nel 1887 e proseguiti da Orsi nel 1905, hanno
riportato alla luce
importanti
testimonianze tra cui il tempio di Hera Lacinia.
Un tempio costruito
nel VI secolo a.C. e che era famoso per le sue ricchezze e culto.
Era composto da
numerose colonne doriche e sembra che al suo interno era posto un ritratto
della regina Elena
di Troia che era stato dipinto dal pittore Zeuxi (Zeusi).
Si narra che il
pittore Zeusi, indignato per l’incapacità della gente di apprezzare in Grecia
la
sua vena artistica
(l’opera dei Centauri), ritirò
l’opera, giudicandola sprecata per un pubblico
che non sapeva
apprezzare l’arte, e cominciò a regalare gli altri suoi dipinti.
Incaricato di
effigiare per il tempio di Hera Lacinia a Crotone un’Elena che incarnasse
l’ideale della
bellezza femminile, pretese dai crotonesi che gli venissero mostrate le
fanciulle
più belle della
città, per prendere spunto da quanto di più perfetto ciascuna possedesse.
Francois
Andrè Vincent – 1789
Il
pittore Zeusi, scelta di modelle tra le belle donne di Crotone
Un’arte
ispirata al vero, alla natura dove si ha una grande attenzione per la
simmetria, le proporzioni,
una
ricerca nell’espressione dei sentimenti e dei caratteri.
Di
quest’arte espressiva greca è presente un bellissimo quadretto risalente alla
fine dell’età
Ellenistica,
trovato ad Ercolano, dipinto su marmo da Alessandro di Atene.
Una
raffigurazione che s’ispira e quindi segue la scuola del pittore Zeusi che
esaltava la
tridimensionalità
e lo spazio espressi mediante il chiaroscuro.
Nel
quadretto di Ercolano figurano cinque leggiadre fanciulle che giocano con gli
astragali.
Figure dipinte su marmo in toni lievi in una tecnica monocroma su fondo bianco
che Plinio
citò
come appartenente all’espressione di Zeusi.
L’opera
è firmata nell’angolo in alto a sinistra “ALEXANDROS
ATHENAIOS EGRAPhEN” è esposta
nel
Museo di Napoli.
I nomi
scritti in greco accanto alle diverse figure permettono di identificare con
sicurezza la scena:
Febe
cerca di pacificare Latona e Niobe, mentre a terra due delle niobidi, Hilearia
e Agle,
continuano
a giocare con gli astragali, inconsapevoli della loro imminente morte.
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Ritornando al
Tempio di Hera Lacinia, uno dei sacerdoti del tempio fu Milone
condottiero dei
crotonesi contro Sibari. Il tempio era oggetto di visite continue e anche
Annibale vi
si recò prima di
tornare in Africa dopo le sconfitte subite dai Romani.
Fino all’inizio
del XVII secolo il bellissimo tempio era ancora in discrete condizioni
strutturali ma il terremoto del
1638 lo colpì
mortalmente. Successivamente sembra che l’opera dell’uomo abbia completato la
sua distruzione
perché il materiale lapideo fu utilizzato come materiale di costruzione
da parte della
popolazione.
Gli scavi oltre a
riportare alla luce l’intera area archeologica hanno rilevato l’esistenza di
ben
tre edifici
adiacenti al tempio. I reperti sono di autentica bellezza tra cui un bellissimo
diadema in lamina
d’oro che riproduce un serto di mirto con una treccia
sulla quale
s’inseriscono i ramoscelli, le foglie e le bacche.
Nella mitologia
greca Hera è la più importante tra le dee. Moglie di Zeus e madre di dei ed
eroi.
Protettrice della
donna e di tutti gli aspetti della vita femminile:
dal matrimonio
alla procreazione, al parto, alla nutrizione della prole.
Il luogo in cui
sorge il tempio in età moderna venne chiamato Capo Nao (da naòs, tempio).
Oggi è detto Capo
Colonna da ciò che rimane dell’antico edificio sacro cioè una colonna isolata
che si specchia
sul mare intensamente azzurro….
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Pitagora
una volta giunto a Kroton intorno al 530
a.C. fu ospitato probabilmente dall’amico
Democède (anche lui di Kroton).
Democède era un importante medico che, con Alcmeone,
grazie alla sperimentazione trasformò la
medicina, che fino allora era basata esclusivamente sulla
magia e sulla
superstizione, in una scienza. Pitagora aveva conosciuto il medico a Samos e
aveva
ricevuto da lui lusinghiere notizie sulla città di Kroton.
3.c – L’amico Democede di Kroton – Un grande medico
Democede di Kroton
nacque nel VI secolo a.C.
Figlio di
Callifonte di kroton che aveva aperto uno studio medico
dando vigore alla
medicina come scienza e alla nascita della scuola medica crotoniate.
Dal padre Democede
apprese l’arte medica che aveva nelle sue basi la medicina
Ippocrita e la
cultura del corpo con la pratica atletica. I ripetuti successi che gli atleti
di Kroton
conseguirono nel
VI secolo a.C. si potrebbero spiegare con l’esistenza nella città di una vera e
propria “scuola
dello sport” basata su metodi di allenamento razionali e con una accurata dieta
alimentare
studiata su principi medico-scientifici. Dopo aver ultimato gli studi lasciò la
sua citta di krotom
per trasferirsi in
Grecia ad Egina dove esercitò la sua professione, facendosi apprezzare,
malgrado
la mancanza di
mezzi ed attrezzature. Fu assunto dal comune come medico municipale con il
compenso di un
talento all’anno. Successivamente si trasferì ad Atene, dove si fermò un anno,
sempre come medico
municipale con il contratto annuo di 100
mnas/mine.
Da Atene a Samo
dove, per le sue prestazioni mediche, venne pagato dal tiranno Policrate con
uno stipendio
annuo di due Talenti d’oro. Nella città di Samo conobbe Pitagora e fra i due
s’instaurò subito
una forte amicizia legata anche alle loro basi scientifiche.
Dopo l’uccisione
di Policrate, Democede fu convocato alla corte del re persiano Dario I il
Grande
per farsi curare
da un incidente all’astragalo durante una battuta di caccia.
La scuola medica
di Crotone era riconosciuta come superiore a quella di Cnido, Coo e
di Cirene e la
fama di Democede era ormai diffusa.
Riuscì a guarire
il re e lo pregò di non condannare a morte i medici egiziani che avevano
fallito nella
cura. Fu nominato medico ufficiale di Dari, suo conviviale e consigliere.
I medici egizi non
conoscendo l’anatomia con le loro cure, basate su movimenti violenti,
avevano procurato
al paziente danni ancora maggiori. In merito ci viene in aiuto il racconto di
Erodoto che spiegò
come “Democede sistemò il piede del re
con movimenti
giusti e morbidi anche se dolorosi, facendo rientrare
l’astragalo nella sua giusta posizione,
quindi decise di adottare una terapia a base di
cataplasmi cercando di normalizzare la
situazione”. Il medico avrebbe fatto quindi ricorso a
quanto imparato nella
scuola medica di
Kroton che basava la medicina sui trattati ippocratici in
merito alle
fratture e alle articolazioni.
Successivamente
prestò le sue cure alla regina Atossa, figlia di Ciro il Grande e sorellastra
di
Cambise II di
Persia, che era sofferente per una ciste al seno. Platone e Diogene Laerzio
affermarono
che Democede “fece ricorso a tutte le sue conoscenze
personali acquisite presso la
famosa scuola di Crotone per salvare la regina”.
Per Atossa…
Erodoto affermò che “Democete fece
ricorso all’uso di cataplasmi secondo
la cura
indicata nelle “Affezioni” contro i phymata di origine benigna che
suppurano
diventando piaghe”. Democede era depositario di immensi
saperi scientifici che
gli erano stati
trasmessi anche dal padre Callifonte che a sua volta li aveva fatti suoi
nel periodo del
culto dedicato al dio Asclepio (dio della medicina) nella città di Cnido.
Per i suoi grandi
meriti ottenne una ricca casa a Susa.. favori e ricchezze dal re persiano.
Democede era un
umile e le ricchezze non interessavano… aveva nell’animo un grande desiderio:
ritornare nella
sua Crotone e alla scuola medico-filosofica.
C’era però un
grandissimo ostacolo…. Tutto gli era permesso tranne di ritornare in patria.
Fu la regina
Atossa, riconoscente per le cure prestate dal medico, che l’aiutò nella fuga.
Atossa propose al
re, Dario I, di attaccare la Grecia e di mandare in avanscoperta Democede.
Il re acconsentì e
fece partire da Sidone in Fenicia il medico con 15 valorosi persiani .
Il loro compito
era quello di prendere visione di luoghi,
trascrivere degli appunti e
non permettere la
figa dello stesso medico. Si recarono prima in Grecia e poi
nell’Italia
Meridionale a Taranto. Qui il re della città, Aristofilide, per simpatia verso
Democede, mise in
prigione i persiani accusandoli di spionaggio.
Democede fu
finalmente libero e ritornò nella sua Kroton dove sposò la figlia
di Milone il
plurivincitore di Crotone nei giochi Olimpici. Aristofilide ridiede la libertà
ai
Persiani che, una
volta liberi, si misero sulle tracce di Democede. Riuscirono a rintracciarlo a
Crotone e lo
aggredirono. I Crotonesi intervennero nella disputa e misero i fuga i
Persiani che
ritornarono in Asia.
Con il matrimonio
Democede entrò nella casta aristocratica dei pitagorici che gli permise di
inquadrare la sua
attività professionale, d’insegnare ai giovani la medicina e di assumere
anche un certo
impegno politico.
La fama di Milone
convinse il re Dario I a desistere dalla cattura del medico.
Lo storico Erodoto
di Alicarnasso scrisse:
"Democede è medico di professione, il più
abile nella sua arte a quei tempi" (Le Storie, Libro III).
"I medici di Crotone sono i primi del mondo, secondi quelli di Cirene” (Le Storie, Libro III, cap. 131).
"I medici di Crotone sono i primi del mondo, secondi quelli di Cirene” (Le Storie, Libro III, cap. 131).
Pitagora
creò a Crotone una scuola che gettò le basi per la nascita di una forte Magna
Grecia e lo
sviluppo del razionalismo e del metodo scientifico.
Con
i suoi discepoli riuscì a conquistare il potere politico della città e in pochi
anni, grazie alla
rapida diffusione delle sue idee, si affermarono in molte
polis della Magna Grecia dei governi
pitagorici. Governi che costituirono una
sorta di confederazione fra città con a capo la stessa
Kroton come dimostra la
coniazione di monete tra il 480 e il 460 a.C..
3.d – La Politica
di Pitagora
Kroton
era sconvolta per la sconfitta subita da Locri e Pitagora, sfruttando la sua
fama, intraprese
una profonda opera di riforme politiche e religiose. Risvegliò
nella città il sentimento di
venerazione nei confronti degli dei, quello della
virtù e soprattutto del patriottismo.
Agì
in particolare nei confronti dei giovani cercando di allontanare da loro le
abitudini di
dissipazione e di piacere e di insegnare il rispetto dei propri
genitori.
Giamblico
affermò in merito che ““Esortava i giovani a educarsi, invitandoli a considerare
quanto fosse
assurdo reputare il pensiero la cosa più importante e valersene per esprimere
un
giudizio su tutto il resto, ma al tempo stesso non aver speso né tempo né
fatica per esercitarlo”.
Riuscì ad attirare le simpatie dell’assemblea degli
anziani, parlò alle donne e restituì loro una
dignità da tempo negata. Cambiò
l’aspetto della città con la costruzione di un tempio alle Muse
per mantenere
la pace e la stabilità politica. Fermò le controversie intestine che erano
presenti
nella città da tempo e che si erano rinvigorite dopo la sconfitta
nella Battaglia della Sagra.
In poco tempo per il quarantenne Pitagora fu facile
raggiungere una vera e propria “dittatura
morale” sulla città che riuscì a
mantenere per circa quindici anni.
Il governo di Pitagora fu “quasi aristocratico” cioè
che “il governo della comunità è
esercitato da
quelli che per studi, per saggezza, per esercizio, per
disciplina, per ideali di vita, sono i più
degni di giudicare”. Riuscì a
portare ordine e giustizia diffondendo il motto che “l’anarchia è il
peggiore di tutti i mali”.
L’equilibrio delle forze rappresentava il principio
valido per la vita di una comunità come per la
natura, il cosmo, per gli
accordi musicali, per lo stato dell’anima.
Il medico Alcmeone usava infatti il termine
“monarchia” per indicare la patologia dell’anima
cioè la prevalenza di una
parte dell’organismo sull’altra che rompe l’equilibrio psicofisico.
Armonia tra
le varie parti che sarà alla base della filosofia politica di Platone.
L’educazione politica di Pitagora influenzò nella
formazione di due importanti legislatori come
Zaleuco di Locri Epizefiri e
Caronda di Catania.
Nel 510 ci fu un grave
scontro tra la città di Kroton e Sibari
Sibari – Teatro
Kroton
mosse contro Sibari che di ideali pitagorici aveva ben poco. Nel 512 a.C. tre
nobili di
Crotone vennero uccisi e i loro corpi furono dati in pasto ai lupi
che erano presenti in gran
numero nelle paludi attorno a Sibari. Uno di loro si
era innamorato di una vestale “bellissima
e
dagli occhi azzuri” che aveva cercato di rapire. Quando la città era
sottoposta alla tirannide di
Telys, molti aristocratici fuggirono a Kroton.
Alla richiesta di Telys di avere i fuggitivi, i
Crotoniati opposero un netto
rifiuto. Avvenimenti che legati ad una forte concorrenza
commerciale, alla
diversità politica e anche religiosa, spinsero le due città a fronteggiarsi in
guerra.
I
realtà i motivi che spinsero Pitagora ad acconsentire all’asilo dei fuggiaschi
da Sibari non sono
del tutto chiari. Sicuramente diede loro l’asilo politico
rispondendo alla sua dottrina che
l’obbligava a tutelare i supplici ma secondo
Giamblico lo stesso Pitagora avrebbe notato tra gli
ambasciatori sibariti,
inviati dal tiranno Telys, uno degli
assassini di alcuni suoi discepoli per
questo motivo avrebbe deciso di
affrontare la guerra.
Nel
510 a.C. iniziò una battaglia nei pressi del fiume Hylia (l’odierno Nicà tra
Crucoli e Carlati).
I
crotoniati inseguirono e annientarono le forze di Sibari in una battaglia
finale al guado del
fiume Trionto (nei pressi di Mirto Crosia).
Secondo
la tradizione si fronteggiarono 100.000 crotoniati, guidati dall’atleta
olimpionico
Milone, e i Sibariti che come forze erano ben tre volte superiori.
La vittoria fu di Kroton
malgrado la forte diversità di forze militari. Alcuni
storici ipotizzano che gli stessi sibariti,
appartenenti ad una frazione
oligarchica contraria alla tirannide di Telys, abbia favorito l’esercito
di
kroton nella vittoria.
La
spiegazione fu anche legata ad una
leggenda che riporta come Sibari usò nella battaglia un
esercito di mercenari e
cavalli che erano stati ammaestrati per eseguire passi di danza negli
spettacoli al suono dei flauti.
I
crotoniati, nella battaglia iniziarono a suonare i flauti con la stessa
melodia con la quale i cavalli
erano stati ammaestrati per danzare… il
risultato fu che le avanguardie delle truppe sibarite
furono subito
disarcionate. Si narra che dopo 70 giorni di saccheggi fu deviato il corso del fiume
Crati per cui
Sibari sparì per sempre.
Fiume Crati
Laghi di Sibari
Conquistata
Sibari nacquero a Kroton discussioni per la divisione dei terreni occupati. Da
una
parte c’erano i Pitagorici che in base al oloro stile di vita comunitario,
erano intenzionati a
lasciare indivise le terre; dall’altra alcuni esponenti
politici chiedevano con insistenza di dividere
in lotti, da consegnare ai
cittadini, i terreni conquistati.
I
pitagorici fecero valere le loro tesi ma le polemiche ed i contrasti politici
non si placarono all’interno della città. Tra la fine del VI secolo e il
principio del V secolo a.C. anche per una grave crisi economica che colpì la
città, l’esarca Cilone o Kilon, escluso dalla comunità pitagorica, riuscì a
farsi approvare la legge sulla spartizione delle terre sibarite e si fece
quindi promotore di una sommossa contro i pitagorici. Cilone era appoggiato dal
demagogo Ninon e a nulla valsero le rassicurazioni dell’amico medico di
Pitagora, Democede, e degli altri pitagorici quali Alcimaco, Dinarco e Metone.
Giamblico
riportò i fatti…” “Presero la testa della sedizione proprio coloro che avevano i più stretti
rapporti di parentela e di familiarità con i Pitagorici. E la ragione era che
costoro, esattamente come la gente comune, erano irritati dal comportamento dei
Pitagorici in pressoché ogni suo aspetto, nella misura in cui questo differiva
da quello degli altri (…). Essi arrivavano ad ammettere la superiorità di uno
straniero quale Pitagora era, ma si sdegnavano del fatto che dei concittadini,
nativi del luogo, come loro, fossero manifestamente fatti oggetto di
preferenza”.
Gli
insorti accusarono Pitagora di incitare i giovani alla tirannia.
Giovani
animati dal dogma “ipse dixit” cioè “l’ha detto egli stesso” cioè una frase che non può
essere messa in
discussione e deve quindi essere accettata.
Cilone
fu il promotore e l’organizzatore di un assalto alla casa di Milone, suocero di
Democede,
in cui erano riuniti i Pitagorici. Alcuni storici riferirono che
Pitagora morì nell’incendio della
casa mentre Democede riuscì a trovare rifugio
a Platea con alcuni giovani.
In
realtà Pitagora riuscì a fuggire
trovando ospitalità a Metaponto dove successivamente morì.
I
Pitagorici furono costretti a ritirarsi dalla vita pubblica mentre sul capo di
Democede, il grande
medico, venne messa una taglia di 3 talenti e venne
assassinato da Democrate nel 495 a.C. circa
I Pitagorici, offesi dall’indifferenza mostrata dai
cittadini nei confronti degli assassini avvenuti e
perduti, ormai, i loro più eminenti
personaggi politici, non si occuparono più degli affari
pubblici, contribuendo,
così, con la loro scomparsa alla decadenza politica di Crotone e,
probabilmente, dell’intera Magna Grecia. Pitagora, che si era intanto rifugiato
a Metaponto, morì
agli inizi del V sec. a.C..
Pitagora
prima di morire affidò i suoi scritti, le sue opere alla figlia Damo e la "la
incaricò di non
divulgarli a nessuno che fosse al di fuori della sua casa. E
lei, sebbene avrebbe potuto vendere i
suoi discorsi per molto denaro, non li
abbandonò, poichè giudicò la povertà e l'obbedienza ai
comandi di suo padre più
preziosi dell'oro".
Opere che alla morte di Damo passarono alla
figlia Bitale e al fratello di Damo, Telauges, che
sposò la stessa Bitale.
Giamblico riuscì a scoprire i testi che Pitagora
affidò alla figlia: "Pitagora
compose il suo
trattato sugli Dei e ricevette l'assistenza di Orfeo, perciò
quei trattati teologici sono sottotitolati,
come i sapienti e fidati Pitagorici
affermano, da Telauges; presi dai commentari lasciati da
Pitagora stesso a sua
figlia, Damo, sorella di Telauges...".
Metaponto – tempio
dorico del VI secolo a.C. dedicato ad Hera e detto anche “Tavole Palatine”.
La tradizione
narra che Pitagora fu sepolto nel tempio ma non ci sono testimonianze storiche
e la sua tomba non fu mai trovata. Si tramanda che anche Cicerone nel 50 a.C.
cercò la tomba di Pitagora ma senza esito.
Negli scavi furono
trovati numerosi resti dell’antica decorazione, ceramiche e utensili d’uso
quotidiano,
finemente lavorati
da artigiani locali, che sono esposti nel locale museo.
Pitagora, come
narra Porfirio, morì a Metaponto…
« Si dice che Pitagora
abbia trovato la morte nella comunità di Metaponto, dopo essersi rifugiato nel
piccolo tempio dedicato alle Muse, dove rimase quaranta giorni privo del
necessario per vivere. Altri autori affermano che i suoi amici, nell’incendio
della casa dove si trovavano riuniti, gettatisi nelle fiamme aprirono una via
di uscita al maestro, formando con i loro corpi una sorta di ponte sul fuoco.
Scampato dall’incendio Pitagora, raccontano ancora,
si diede la morte, per il
dolore di essere stato privato dei suoi amici”.
Il termine “Tavole Palatine” deriverebbe dalla preesistenza sul sito di un
antico palazzo regio o da
“Mensole Palatine” o “Colonne Palatine” in memoria dei Paladini di Francia
che
lottarono contro i Saraceni. Secondo altri studiosi il termine sarebbe
legato alla “scuola Pitagorica”.
Il culto di Hera era molto vivo nel santuario e bisogna ricordare che il
culto in Grecia
era molto radicato nelle città di Argo, Micene e nell’isola di Samo.
Templi dedicati ad Era sorgevano anche ad Olimpia, Tirinto, Perachora e
nell’isola sacra di Delo.
Nella cultura greca classica, gli altari venivano costruiti a cielo aperto.
Era potrebbe essere la
prima divinità a cui fu dedicato un tempio dotato di un tetto chiuso.
Metaponto (Frazione del Comune di Bernalda – prov. di Matera) è un’altra perla
di
del martoriato e dimenticato Sud. Ha tanto da raccontare ed è rimasta muta
per secoli, uno
scrigno rimasto chiuso troppo tempo e riservato solo a pochi eletti. Da alcuni
anni, grazie alle
attività di associazioni e cooperative, lo scrigno s’è aperto per la
cittadinanza e soprattutto per
le scuole. Alle scuole del territorio per costruire un’identità
territoriale ed ai visitatori per
costruire attorno ad essa un attrattore turistico culturale che il posto
merita.
Metaponto è pieno di scorci che parlano, basta saperli ascoltare, ognuno ha
una sua storia
da raccontare.. dalle aree archeologiche al Museo, dalle aree
naturalistiche della
Riserva di Metaponto con le due foci, alle fattorie della Chora e al centro
storico di Bernalda.
3.e – La
Scuola Pitagorica di Kroton
Il Ricrodo di Ipazia negli storici e letterali
IL PENSIERO FILOSOFICO
IL CERCHIO
LE SIGNORE DEL CIELO
Una
scuola di pensiero, presidio di un forte ed intenso fermento politico e
culturale, dove la
filosofia è anche donna nella Magna Grecia e che in Calabria
ebbe radici molto importanti.
Ventotto
allieve tra cui Teano, traslitterato in Theanò da Kroton, donna sapiente e
virtuosa,
simbolo della famiglia e secondo alcune fonti anche moglie del
filosofo e secondo altre fonti
invece figlia.
La presenza femminile così forte denota la modernità e la lungimiranza del
pensiero filosofico di
Pitagora che ritroviamo nel suo insegnamento
rappresentato dai suoi “Versi Aurei”.
Le scuole fino ad allora negavano alla donna il diritto all’iniziazione e
Pitagora fu il primo ad
aprire loro la strada per la celebrazione dei misteri e
per la pratica della vita iniziatica.
La figura femminile di Teano fu una della più attive ma troviamo anche
Myia, Melissa,
Perictione e Phyntis. Tutte donne che ebbero un ruolo importante
nella scuola pitagorica sia a
Kroton che nell’intera Magna Grecia.
Diogene Laerzio scrisse che secondo Aristosseno,
Pitagora ebbe la maggior parte delle sue
dottrine etiche dagli insegnamenti di
una sacerdotessa di Delfi “Themistoclea” (citata da Suda
come “Theoclea” e da
Porfirio come “Aristoclea”). Prima di morire, Pitagora affidò i suoi scritti
alla figlia Damo.
L’opera della scuola pitagorica fondata a Crotone
segnò anche la storia antica reggina tra il VI
ed il V secolo a.C.. Al tempo di
Anassila essa si poneva come rivoluzionaria, anche per la
rilevanza della
figura femminile. Accanto alla figura poliedrica di Pitagora, senza la quale
oggi la
matematica, la musica, la storia antica non sarebbero quelle che sono e
che solo lontano dalla
patria Grecia ed in terra di Magna Grecia riuscì ad esprimersi,
vi erano anche la figura di Teano e
delle altre donne della scuola.
Abbiamo anche i nomi di alcune allieve della scuola
filosofica di Kroton.. ben diciassette
(riportate da Giamblico nella sua opera “Vita di Pitagora” e da Filocoro di Atene che riempì un
intero
volume riportando i nomi delle discepole dell’illustre filosofo:
-
Timycha, moglie di
Myllias di Crotone;
-
Philtis figlia di
Teofrio di Crotone;
-
Byndacis, sorella
di Ocellus e Occillus, Lucani.
-
Chilonis, figlia
di Chilone lo Spartano.
-
Cratesiclea la
Spartana, sposa di Cleanore lo Spartano.
-
Theano, la
sposa di Brontino da Metaponto.
-
Myia, la sposa di
Milone di Crotone.
-
Lasthenia
dell'Arcadia.
-
Abrotelia, figlia
di Abrotele di Taranto.
-
Echecratia di Fliunte.
-
Tyrsenis da
Sibari.
-
Pisirrhonde da
Taranto.
-
Nisleadysa da
Sparta.
-
Bryo l'Argiva.
-
Babelyma l'Argiva.
-
Cleachma, la
sorella di Autocharidas lo Spartano."
TEANO DI KROTON (Kroton, VI secolo a.C.- …..)
Diogene
Laerzio citò Theano come una delle figura più importanti della scuole
pitagorica di
Kroton e nella critica storica c’è un acceso dibattito se Theano
sia stata veramente la moglie di
Pitagora o solo un allieva. La fonte citò la
donna come moglie di Brotino di Metaponto ma
Giamblico menzionò due donne con
lo stesso nome e lo stesso Diogene affermò che Theano era
la sposa di Piatgora
e figlia di Brotino di Crotone, un aristocratico seguace dell’Orfismo. (Anche
Suda concorda con questa ipotesi mentre Porfirio afferma invece che era nata a
Creta di
Pythanax).
Dal matrimonio con Pitagora nacquero tre figlie (Myia, Damo e
Arignote) tutte filosofe e due
figli (Telauges e Mnesarchus). Theano dopo la
morte del marito guidò la scuola filosofica con i
figli anche se, secondo
Giamblico, si risposò con Aristeo che diventò la guida della scuola dopo
Pitagora.
Altre fonti parlano solo di tre figli: due maschi
(Arimnesto e Telauge) e di una figlia femmina,
Damo.
Filosofa, cosmologa, matematica, astronoma, studiosa di fisiologia ed
eccellente guaritrice. Era
dotata di una forte personalità e di viva
intelligenza. Scrisse un corpus di nove lettere di cui tre
sono oggi ritenute
autentiche mentre le altre sono forse pseudoepigrafiche ossia attribuite a lei
ma stese da altri tra cui Perictione (Sulla
saggezza e Sulla Virtù della Donna) e da Phyntis
(Sull’armonia della donna).
In una di quelle autentiche ella esplicita cosa sia il
numero, ossia mezzo e non fine per
comprendere il cosmo: “Ho sentito dire che un gran numero di Greci credeva che Pitagora
avesse detto che tutto nasceva dal numero. Ma questa affermazione ci lascia dubbiosi,
in che
modo è possibile che cose che non sono generino. Egli ha detto non che
tutto nasceva dal
Numero, ma tutto era stato formato conformemente al Numero,
poiché nel Numero risiede
l’ordine essenziale, attraverso la comunicazione di
questo ordine anche quelle cose che non
possono essere numerate sono collocate
come prime, seconde, così via” (tratto da “Theano nella
scuola italica” a
cura della sr. R. G. M. dell’Or. di Crotone). Dei suoi scritti sopravvivono
frammenti di alcune opere: “Sulla pietà”, “Sulla Virtù”, “Su Pitagora”.
Scrisse anche alcune massime a carattere morale che
erano rivolte alle donne di Crotone e che si
collegavano alle sentenze
pitagoriche.
Theano è l’emblema della donna sapiente, fedele e
ligia ai suoi doveri, attorno a cui si consolida
la famiglia.
Le sue lettere nelle quali spicca l’ideale pitagorico
della ricerca, della giusta misura tra eccessi e
difetti, contengono delle
osservazione importanti e consigli rivolti ad alcune amiche
sull’educazione dei
figli, sui rapporti all’interno della coppia e sul comportamento da tenere nei
confronti dei servi.
Allegoria alla Geometria
Laurente de La Hyre - 1649
Nella
lettera ad Eubula scrisse sull’educazione dei bambini, rimproverandola di
essere stata tropo
indulgente con i figli procurandogli un grave danno. Theano
le consigliò di non lasciare che i
figli stiano avvolti nei piaceri della vita
e di abituarli ai dolori ed alle difficoltà.
Nella
lettera a Nicostrata risaltano aspetti che dimostrano una grande sensibilità..
la donna era
gelosa perché lo sposo aveva un’amante. Theano le disse di non
cercare di punire il marito ma di
assecondarlo anche in questo, pensando che
egli si recava dall’amante solo per soddisfare i suoi
piaceri fisici, mentre
lei era la donna della sua vita cui lo sposo avrebbe fatto ritorno se si fosse
dimostrata paziente.
In
conclusione un saggio consiglio…"se egli soffre nella sua reputazione, gli altri faranno
soffrire anche
te; se agisce contro il suo interesse, il tuo, essendo unito al suo, non potrà
uscirne
illeso: da tutto questo dovresti imparare questa lezione, che punendo
lui punisci anche te stessa."
Nella
lettera a Callisto, la consiglia di essere più gentile nel trattare i servitori
perché sono esseri
umani. Maltrattarli vuol dire renderli nemici e sleali nei
confronti dei padroni, mentre Callisto li
dovrebbe disciplinare: "agisci
in modo tale che tu imiti quegli strumenti che si deteriorano
quando non sono
usati e che si spezzano quando sono usati troppo spesso."
Una bellissima figura di donna vivace ed aperta dell’epoca.
Nella lettera a Rhodope il
“filosofo”, Theano gli chiede se è scoraggiato.
“Anch’io lo sono” rispose
Theano, “Sei dispiaciuto perchè non ti ho
ancora inviato il libro di
Platone, quello intitolato "Idee di
Parmenide"? Ma io stessa sono addolorata in modo enorme,
perchè nessuno mi
è ancora venuto a trovare per discutere di Kleon. Non ti manderò il libro
finchè qualcuno non verrà a chiarire le questioni riguardanti quest'uomo. Così
tanto amo
l'anima dell'uomo- perchè è l'anima di un filosofo, di uno zelante
nel fare del bene, di uno che
teme gli Dei sotterranei? E non penso che la
storia sia diversa da come è stata narrata. Perchè
sono comunque per metà
mortale e non posso guardare direttamente la stella che rende il giorno
manifesto."
Raffaello Sanzio nel 1509-1511, nella Stanza della Segnatura, una delle
quattro
“Stanze vaticane”, poste all’interno dei Palazzi Apostoli, dipinse un
affresco (7,70 x 5,00)m che
raffigura la “Scuola di Atene”.
Nel particolare, Pitagora legge un grosso libro e Teano (la moglie) o
Telauge (il loro figlio) gli regge
una tavoletta. Nella tavoletta si leggono dei simboli, che furono
riprodotti anche dallo Zarlino, che
rappresentano delle concordanze musicali.
Alle loro spalle forse Empedocle di Akragas che quasi furtivamente prende
appunti.
(?)
Empedocle –Severino Boezio – Anassimandro – Aristosseno – Senocrate
“La Scuola di Atene” – Raffaello Sanzio
Numerose
le fonti che citano Theano:
Plutarco
nei “Coniugalia Praecepta” la elogia nella lettera indirizzata ad una giovane
sposa,
Euridice, in cui la esorta a non abbellirsi con perle e seta, ma ad
adornarsi con gli ornamenti di
Theano
e delle altre donne dell’antichità, rinomate per la loro sapienza e
conoscenza”.
Diogene
Laerzio gli dedica un piccolo frammento:
"raccontano
una storia su di lei, che una volta le domandarono quanto a lungo una donna
deve
stare lontana dal marito per essere pura, e che lei disse che nel momento
in cui (la donna) ha
appena lasciato lo sposo, ella è pura; ma non è mai pura
se lascia qualcun'altro. Ed ella
raccomandava ad una donna che si stava recando
dallo sposo, di mettere da parte la sua
modestia insieme ai suoi abiti, e che
quando l'avesse lasciato, la indossasse nuovamente insieme
ai vestiti; e quando
le chiese: quali abiti? ella rispose: quelli che fanno sì che tu sia chiamata
donna."
Giamblico…"è legittimo per una donna sacrificare
nel giorno stesso in cui si è alzata
dall'abbraccio del suo sposo." Perchè
poi, come afferma lei stessa, l'unico dovere di una donna
sposata è
"compiacere il proprio sposo."
Plutarco
con un frammento bellissimo, quasi poetico.. ne esaltò la virtù femminile e non
solo:
"Theano, avvolgendosi nel suo
manto, lasciò scoperto un braccio. Qualcuno esclamò "un
braccio amabile". "Non per il pubblico" disse lei "non solo un
braccio di una donna virtuosa, ma
anche il suo parlare, non devono essere per
il pubblico, e dev'essere modesta e curarsi di non
dire nulla che possa essere
ascoltato dagli estranei, poichè così espone se stessa; poichè nei suoi
discorsi possono essere intesi i suoi sentimenti, il carattere e la
disposizione." E anche,
sull'importanza della Sophrosyne: "è meglio
fare affidamento su di un cavallo senza morso che
su di una donna non
riflessiva."
(La
“sophrosyne” nei poemi omerici indica
la prudenza come capacità di autocontrollo
e di
riflessione).
Molte opere di Theano furono ripresi dagli antichi scrittori come Clemente
d’Alessandria che la
citò nella sua poesia e anche da parte di Suda. Poetici i
suoi concetti filosofici a carattere
morale..” "se l'anima non fosse immortale, la vita sarebbe davvero una festa
per i malvagi che
muoiono dopo aver vissuto una vita corrotta.".
Myia di
Kroton (Kroton, seconda metà del VI secolo a.C. – Kroton…..)
La
figlia di Pitagora, Myia ( il suo nome significa “mosca”), era famosa per il
suo sapere, per la
sua eleganza e per la sua bellezza. La sua casa era così
splendida che la via in cui si trovava era
chiamata “il Museo”.
Era
a capo del coro delle fanciulle da vergine e guida delle donne sposate. Si sposò con Milone
di Crotone, un atleta che riportò
ben cinque trofei a Olimpia ed altre vittorie in successivi giochi
Panellenici.
Fu una donna molto ammirata per il suo comportamento religioso.
Esiste
una lettera che scrisse ad una certa Phyllis, con una serie di consigli pratici
e il particolare
sulla scelta della nutrice. Una scelta basata sul giusto
concetto che un neonato desidera, in natura,
ciò che è appropriato ai suoi
bisogni e l’elemento fondamentale di cui ha costantemente bisogno
è la
moderazione in tutte le cose. Da queste affermazioni nascono quindi i consigli
sulla natura
della nutrice e sui bisogni del bambino, che “trarrà i massimi vantaggi da questa moderazione
applicata”.
Myia a Phyllis: “salve. Poichè sei
appena diventata madre, ti offro questo consiglio. Scegli una
nutrice che sia
ben disposta e pulita, che sia modesta e che non dorma nè beva troppo. Una tale
donna sarà la migliore nel giudicare come allevare il tuo bambino in una
maniera appropriata
alla sua posizione di uomo libero- a patto, ovviamente, che
abbia abbastanza latte per nutrire un
bambino, e che non sia facilmente
sopraffatta dalle richieste del marito di dividere il suo letto.
Una nutrice ha
un grande ruolo in ciò che viene per primo ed è una 'prefazione' all'intera
vita
del bambino, l'essere nutrito per crescere bene. Che gli offra il seno e
il nutrimento, non in ogni
momento, ma secondo dovuta considerazione. Così
guiderà il bambino alla salute. Non deve
riposarsi quando desidera dormire, ma
quando il bambino desidera riposare; non sarà un
piccolo conforto per il
neonato. Che non sia irascibile o loquace o indiscriminata nel mangiare,
ma
ordinata e temperata e, se è possibile, non straniera ma Greca. E' meglio
mettere a dormire il
bambino quando è stato appropriatamente nutrito con il
latte, perchè allora il dormire è dolce
per lui, e tale nutrimento è facile da
digerire. Se gli dai altri cibi, che siano il più leggeri
possibile. Evita il
vino, a causa del suo forte effetto, oppure aggiungilo qualche volta mescolato
con il latte. Non lavare continuamente il bambino. Lavarlo non troppo spesso, a
media
temperatura, è la cosa migliore. Inoltre, l'aria deve avere una giusta
misura di caldo e freddo, e
la casa non dev'essere nè piena di correnti d'aria
nè troppo chiusa. L'acqua non dev'essere nè
calda nè fredda, e le lenzuola non
devono essere ruvide ma piacevoli per la pelle. In tutte le cose,
la natura
desidera ciò che appropriato, non ciò che è stravagante. Queste sono le cose
che mi
sembrava utile scriverti al momento: le mie speranze sull'allevamento
secondo la norma. Con
l'aiuto del Dio, ti daremo utili e appropriati consigli
sull'allevamento del bambino, ancora in
seguito."
Milone di Crotone
– Museo del Louvre
La
donna pitagorica applica nella propria vita quelle che la filosofa definisce
leggi cosmiche e
come citò Aesara di Lucania, “si crea giustizia e armonia nelle nostre anime e nelle nostre case”.
Myia
sposò Milone un eroe che potremo definire leggendario. Già da bambino mostrava
una
forza eccezionale e la leggenda tramanda che si allenava sollevando un
vitello sulle spalle. A
kroton si diffuse la voce che fosse figlio di Eracle.
Nel
540 a.C., a soli tredici anni, vinse i giochi Olimpici nella sessantesima
olimpiade come
lottatore nella categoria fanciulli. Tra il 553 e il 512 a.C.
riportò ben sei vittorie olimpiche
consecutive. Quando Pitagora fondò a Kroton
la scuola fu tra i primi ad essere ammesso. Milone
raggiunse una grandissima
gloria e ricchezza. I pitagorici esercitavano la comunione dei beni
materiali e
si può benissimo supporre che date le grandi risorse finanziarie di Milone,
contribuì
non poco all’affermazione della scuola pitagorica.
Un
giovane pitagorico, Fulivao, scrisse un
libro sulle memorie che il grande maestro gli narrò
prima di morire. Sembra che
di questo libro ci siano dei frammenti che furono riportati da alcuni
scrittori
perché il libro andò distrutto nell’incendio della biblioteca d’Alessandria
d’Egitto ai
tempi di Giulio Cesare nel 48 a.C. (ci furono poi successivi
incendi).
Una
storia forse un po’ romanzata ma in ogni caso fa rivivere attimi di quella che
doveva essere
la vita nella scuola di Pitagora nella Kroton del 530 a.C.
Una
giornata speciale per Myia… la figlia di Pitagora e Teano sta per essere
ammessa alla scuola
pitagorica come matematica. Eratocle, in prima fila,
guardava fisso la bella fanciulla..
“a quindici anni
il suo corpo era già quello di una donna. Un’incantevole giovane donna.
Somigliava a sua madre ma la sua bellezza era prorompente. I lunghi e folti
capelli le
scendevano fino ai larghi fianchi…… le ciocche più ribelli arrivano
talvolta a sfiorarle in seno..
Indossava
il peplo turchese, quello che esaltava al meglio il chiarore della pelle e le
sue
sembianze… due spille d’argento a doppia spirale fermavano l’abito sulle
spalle e una cintura
color zafferano, visibile solo sul lato aperto, lo fissava
alla vita producendo eleganti drappeggi.
Ad adornare le orecchie della ragazza
due piccoli dischi d’oro cesellati con motivi floreali … e
da ognuno dei due
dischi pendeva un delicato cono, anch’esso d’oro, con superfice modellata a
spirale…”
A
presiedere alla cerimonia Ippaso. Pitagora aveva preferito farsi sostituire
dato che tra i nuovi
“divenendi” c’era anche sua figlia.
“Scordatela” si sentì nell’aula…Eratocle si volse e vide
dietro di sé l’imponente figura di
Milone.
“Non vedi come
guarda Ippaso ?” disse Milone;
“Di chi stai
parlando” replicò Eratocle;
“Come di chi sto
parlando ?..Di Myia.. Non è lei cha hai continuato a fissare per tutto il tempo
?” replicò Milone;
“Ti sbagli… e poi
è ovvio che Myia guardi Ippaso… Visto che lui sta per nominarla matematica”
rispose Eratocle con voce alta.
“Si vede che con
le donne hai poca esperienza Eratocle” disse Milone.
Lo scontro verbale
tra i due si era fatto acesso e Ipaso nel frattempo aveva smesso di parlare
perché disturbato dalle voci dei due..
“Eratocle e
Milone… avete qualcosa d’importante da discutere ? Qualcosa d’interessante da
condividere con noi ?” disse Ippaso allargando le braccia come ad indicare il
vasto pubblico..
“Nulla
d’importante” replicò Milone piuttosto accigliato come a voler troncare il
discorso sul
nascere…
“Bene, allora possiamo
continuare” disse Ippaso mentre Milone bisbigliò per un attimo
qualcosa d’incomprensibile …
Un’altra allieva della scuola pitagorica fu Arignote (Crotone, V sec.a.C. –
Crotone, V sec.a.C.)
che da alcuni storici fu indicata come
figlia di Theano e di Pitagora e da altri solo allieva e che
proveniva da Samo.
Scrisse diversi testi tra cui “Il Discorso sacro” che era dedicato ai Misteri
di
Demetra, i “Riti di Dionysos” e altre opere filosofiche che purtroppo non ci
sono pervenute.
Un bellissimo frammento dal suo discorso sacro
c’è pervenuto.. "...l'eterna essenza
del numero è
la causa più provvidenziale dell'intero cielo, della terra e della
regione in mezzo a queste due.
Allo stesso modo è la radice della continua
esistenza di Dei e Daimones, come anche degli
uomini divini..."
Arignote
Aesara
di Lucania ( Lucania ; Crotone) (IV /
III secolo a.C,) di cui conosciamo solo un frammento della sua opera “Libro sulla Natura Umana”… "La natura umana sembra provvedere a uno
standard di legge e giustizia sia per la casa che per la città. Seguendo le
tracce dentro se stesso, chiunque cerchi farà una scoperta: la legge è in lui e
la giustizia, che è l'ordinato arrangiamento dell'anima. Essendo triplice, è
organizzata secondo tre funzioni: ciò che effettua i giudizi e ragiona è la
mente (ho noos), ciò che ha forza e abilità è lo spirito (thymosis) e ciò che
sente amore e dolcezza è il desiderio. Queste sono tutte disposte l'una in
relazione all'altra, in modo che la parte migliore comandi, l'inferiore sia
governata, e quella fra le due abbia un ruolo mediano; sia governa sia è
governata. Il Dio ha così posto tali cose in accordo con il principio sia nella
forma sia nel completare il luogo in cui risiedono gli esseri umani, poichè
desiderava che l'uomo solamente fosse recipiente di legge e giustizia, e nessun
altro degli animali mortali. Una composita unità data dall'associazione non
potrebbe nascere da una singola cosa, nè da numerose che siano tutte uguali.
(Poichè è necessario, dal momento che le cose da fare sono diverse, che le
parti dell'anima siano anch'esse diverse, come nel caso del corpo, degli organi
del tocco, della vista, dell'udito, del gusto e dell'olfatto che differiscono,
perchè esse non hanno la stessa affinità con ogni cosa). Nè potrebbe una tale
unità venire da molte cose differenti a caso, ma piuttosto da parti formate in
accordo con la completezza e l'organizzazione e stando bene insieme nell'intero
composito. Non solo l'anima è composta da molte parti dissimili fra loro,
queste essendo state create in conformità al tutto e complete, ma in aggiunta
queste non sono disposte a casaccio e in ordine sparso, ma in accordo con
l'attenzione razionale. Poichè se avessero un'uguale parte di potere e onore,
sebbene fra loro diseguali- alcune inferiori, alcune migliori, altre nel mezzo-
l'associazione delle parti nell'anima non avrebbe funzionato bene. Oppure,
anche se non avessero avuto una parte uguale, ma la peggiore piuttosto che la
migliore avesse avuto la parte più grande, ci sarebbe stata grande follia e
disordine nell'anima. E anche se la migliore avesse avuto la parte maggiore e
la peggiore la minore, ma ciascuna di esse non nella proporzione adeguata, non
ci sarebbero state unanimità e amicizia e giustizia nell'anima, poichè quando
ciascuna è sistemata in accordo con la giusta proporzione, questo tipo di
disposizione io chiamo giustizia. Quindi, una certa unanimità e accordo nel
sentire accompagnano una tale disposizione. Tale potrebbe essere giustamente
chiamato buon ordine che, grazie al governo della parte migliore e all'essere
governato della parte inferiore, aggiunge la forza della virtù a se stesso.
Amicizia, amore e gentilezza, affini e gentili, sorgeranno da queste parti.
Perchè la mente che ispeziona tutto da vicino persuade, il desiderio ama, e lo
spirito è colmato di forza; un tempo ribolliva d'odio, poi diventa amico del
desiderio. La mente, avendo mescolato il piacevole con il doloroso, mescolando
anche il teso e il robusto con il leggero e il rilassato delle porzioni
dell'anima, ogni parte è distribuita in accordo con il compito affine e
appropriato verso ogni cosa: la mente da vicino ispeziona e indaga le cose, lo
spirito aggiunge impetuosità e forza a ciò che è indagato, e il desiderio,
essendo simile all'affetto, si adatta alla mente, preservando il piacere come
suo proprio e lasciando ciò che è da pensare alla parte pensante dell'anima.
Grazie a ciò, la vita migliore per l'uomo mi sembra essere quando il piacevole
viene mescolato con la serietà, e il piacere con la virtù. La mente è capace di
fare queste cose, divenendo amorevole attraverso l'educazione sistematica e la
virtù."
Aesara sosteneva quindi che studiando la nostra stessa natura
umana, in particolare quindi
l’anima umana,, si potevano comprendere le basi
filosofiche della legge naturale e della moralità.
Infatti affermò..”Che la
natura umana mi sembra di fornire uno standard di legge e di giustizia
sia per
la casa che per la città”.
Divide l’anima in tre parti: la mente, che segue il giudizio e il
pensiero; lo spirito che contiene
coraggio e forza; il desiderio che fornisce
amore ed amicizia.
Essendo triplice, è organizzato
secondo le triple funzioni: ciò che influenza il giudizio e il
pensiero è [la
mente], quali effetti forza e abilità è [l'alto spirito], e quali effetti
l'amore e il bene
è il desiderio.
Si
tratta di aspetti divini e sono quindi principi razionali, matematici e
funzionali che agiscono
nell’anima. La
teoria della legge naturale di Aesaria si riferisce a tre applicazioni della
moralità:
quella dell’individuo, della famiglia e delle istituzioni sociali.
Un’altra filosofa della scuola pitagorica, vissuta intorno al III
secolo a.C. fu Ptolemais di
Cirene (Libia)
(citata da Porfirio) che scrisse un testo sui “principi Pitagorici della musica”. Un
testo basato sul diverso
approccio alla musica. Per i pitagorici basato sulla teoria e sulla
percezione da parte degli Empiristi.
Un testo molto complicato dove l’autrice nota come i Pitagorici si
affidano ai sensi come “guide
della ragione” .. una ragione che ha la priorità
se non si verifica un accordo con i sensi, mentre
gli empiristi (i Musicisti)
si affidano solo ai sensi. Però anche gli stessi Musicisti riconoscono che
l’evidenza dei sensi e la ragione sono fortemente legati.
Grazie ai racconti di Stobeo si conoscono anche i nomi di altre
tre donne della scuola pitagorica:
Phintys, Melissa e Perictione.
Phintys.
Secondo Stobeo era figlia di Callicrate cioè Callicratidas ovvero
un famoso generale
spartano che morì nella battaglia di Arginusae. Secondo Gamblico era invece nativa di Crotone
e figli di un certo
Teofrio. Scrisse “Sulla Moderazione delle donne” e lo stesso Stobeo le attribuì
anche l’idea che un rapporto sessuale fra sposi e con l’intento di generare un
figlio non causi
impurità, mentre la causa una relazione fuori dal
matrimonio. Il frammento della sua opera
è
quasi simile a quello lasciato da
Perictione sullo stesso tema.
La virtù è propria di una donna
“ciò che la rende una donna
eccellente è la moderazione perché
attraverso di essa che può amare e stimare
lo sposo”. Affermò che alcuni compiti spettano solo
agli uomini (comandare
gli eserciti, convocare le assemblee, ecc.) e altri solo alle donne
(governare
la casa, badare ai figli, ecc.). La filosofia rientra tra quelle attività
proprie ad entrambi
i sessi. Sia gli uomini che le donne devono coltivare il
coraggio, la giustizia e la moderazione,
senza trascurare le virtù del corpo:
salute, forza, bellezza e delicatezza.
Phintys diede una grande importanza al controllo di sé e delle
passioni, e diede anche istruzioni
su come raggiungere tale autocontrollo:
preservare il letto attraverso la pietà religiosa, conservare
la propria casa
con la decenza nell’abbigliarsi e simili questioni, essere riservati durante le
discussioni, cercare di non partecipare a feste orgiastiche ed essere moderati
nel sacrificare agli
dei. La moderazione delle donne si deve estendere anche
all’abbigliamento. Devono vestire di
bianco evitando abiti trasparenti o troppo
colorati così come il trucco e l’eccesso di ornamenti.
Così facendo non
susciteranno la gelosia di altre donne né offenderanno quelle più povere e ciò
aiuterà a portare concordia nella città.
Alcuni
frammenti letterali delle sue opere:
“In generale, una donna deve essere buona e ordinata - e questo non
può diventare una virtù
senza ... Di una donna la più grande virtù è la
castità. Grazie a questa qualità è in grado di
rispettare e apprezzare il
proprio marito.
Ora alcuni pensano che non sia appropriato per una donna essere
un filosofo, proprio come
una donna non dovrebbe essere un ufficiale di
cavalleria o un
politico ... Sono d'accordo che gli
uomini dovrebbero essere i generali, gli
ufficiali e i politici della città, e le donne dovrebbero
essere tenute in casa
e stare, ricevere e prendersi cura dei loro mariti. Ma credo che coraggio,
giustizia
e intelligenza siano qualità che uomini e donne hanno in comune ... Il coraggio
e
l'intelligenza sono qualità maschili più appropriate dovute alla forza dei
corpi degli uomini e al
potere dei loro menti. La castità femminile è più
appropriata per le donne.
Pertanto,
una donna deve conoscere la castità e realizzare ciò che deve fare
quantitativamente e
qualitativamente per ottenere questa virtù femminile. Penso che ci siano
cinque requisiti: (1)
l'inviolabilità del suo letto matrimoniale, (2) la
pulizia del suo corpo, (3) il modo in cui decide di
lasciare la casa, (4) il
suo rifiuto di partecipare in segreto in culti o rituali (5), la loro
disponibilità e moderazione nel fare sacrifici agli dei.
Di
tutte queste cose, la più importante è la qualità della castità di essere pura
nei confronti del
tuo letto matrimoniale e di non avere rapporti sessuali con
uomini di altre case. Se la legge si
rompe in questo modo gli errori che gli dei
della sua famiglia e della sua famiglia offrono alla
sua casa e non ai propri
figli, ma con i bastardi. Errori che i veri
dei, gli dei a cui hanno giurato
di unirsi ai propri antenati e alle loro
famiglie nella distribuzione della vita e della generazione
di bambini secondo
la legge. Lei sbaglia la sua stessa patria,
perché non rispetta gli standard
stabiliti da lei ... Dovrebbe anche
considerare quanto segue: che non ci sono mezzi per
espiare Questo peccato, non puoi avvicinarti ai santuari o agli
altari degli dei come una donna
pura, amata da Dio. La più grande gloria che
una donna nata libera possa avere, soprattutto il
suo onore, è la testimonianza
che i suoi stessi figli daranno a la sua castità a suo marito, il segno
distintivo dell'immagine che hanno del padre di cui hanno prodotto i semi ...
Per quanto
riguarda gli ornamenti a cui si riferisce il tuo corpo, si applicano gli stessi
argomenti. Deve essere vestita di bianco, naturale, liscia. I tuoi vestiti non dovrebbero essere
trasparenti o decorati. Lei non dovrebbe mettere il materiale di seta, ma abiti bianchi e
moderati. In questo modo eviterai il sovrasfruttamento del vestito, del
lusso o della corsa, e non
darai fastidio alle altre donne causando invidia. Non dovrebbe mai portare oro o
smeraldi; Questi sono costosi e arroganti nei confronti delle altre
donne del villaggio. Non
dovrebbe
presentare domanda per l'importazione colori artificiali al tuo viso con il tuo colore
naturale,
solo lavando con acqua, che può modestamente abbellirlo ... Importanza delle
donne
che lasciano la casa per sacrificare alla divinità principale della
comunità per loro conto e per i
loro mariti e le loro famiglie. Non uscire di casa di notte o di notte, ma a mezzogiorno, per
partecipare a un festival religioso o fare shopping, accompagnato da una
singola schiava o
decoro accompagnato da due funzionari al massimo. Fanno
sacrifici per modesti anche gli dei,
secondo i loro mezzi. Stanno lontano dalle sette segrete e dalle orge Cybeline
nelle loro case. La
legge pubblica
impedisce alle donne di partecipare a questi riti, specialmente dal momento che
queste forme di culto incoraggiano l'ubriachezza e l'estasi. L'amante della casa e il capo
famiglia devono essere
casti e vergini sotto tutti gli aspetti.
Perictione (Perittione
o Periktione) (Atene, V secolo a.C. – V sec. a.C.) fu forse la madre di
Platone, figlia di Glaucone e sorella di Carmide. Era discendente del legislatore ateniese
Solone.
La donna si sposò con Aristone ed ebbe tre figli - Glaucone, Adimando e
Platone - ed una figlia,
Potone. Rimase
vedova e si risposò con Pyrilampes, uno statista ateniese e zio della donna. Dal
loro matrimonio nacque
Anthipos che èfu menzionato nel “Parmenide” di Platone. Una donna di
cui tutti
parlavano con grande rispetto. Strobei ci viene in aiuto riportando due
frammenti di
alcune sue opere: “La sapienza” e “L’Armonia delle donne”.
Nella “Sapienza” srisse: L'umanità è venuta in essere ed esiste per contemplare la teoria della
natura del tutto. Possedere ciò è la funzione della sapienza, e il contemplare
il fine
dell'esistenza."
Mentre la matematica e le altre scienze studiano
certe realtà, la sapienza studia tutte le modalità
del reale. Come la vista
riguarda ciò che è visibile e come l’udito tutto ciò che è ascoltabile, così
la
sapienza riguarda tutto ciò che è reale.
La sapienza, al contrario di altre scienze, non
studia le proprietà attribuite a certi tipi di entità ma
le proprietà
attribuibili a tutta la realtà: la sapienza studia quel principio che ordina e
dà armonia
all'esistenza intera. "Così
chiunque sia capace di analizzare ogni genere di cosa attraverso un
unico ed
identico principio, e che da questo principio sappia sintetizzare e analizzare,
questa
persona sembra proprio che sia la più sapiente e la più veritiera, e in
più, sembra che abbia
scoperto una sommità bellissima da cui si può levare il
proprio sguardo verso il Dio e verso ogni
cosa separata da lui e disposta in
ranghi e serie."
Due frammenti invece vengono dall'opera
'sull'Armonia delle donne': in uno esorta le donne, con
un linguaggio davvero
ricercato, ad essere pie, religiose e obbedienti ai genitori. Bisogna sempre
parlarne in modo rispettoso e non abbandonarli mai a causa della malattia o
delle ricchezze, nella
fama come nella sfortuna- se una donna mancherà a questi
doveri verso i genitori, per tale
empietà sarà punita in questa e nella
prossima vita. Infatti dice
Perictione: "Colui che disprezza i
suoi genitori sarà, sia fra
i vivi che fra i morti, condannato per i suoi crimini dagli Dei, sarà
odiato
dagli uomini e, sotto la terra, sarà, insieme con gli empi, eternamente punito
in quello
stesso luogo dalla Giustizia e dagli Dei sotterranei, il cui compito
è di prendersi cura di cose di
questo genere. Poichè i genitori sono una cosa
divina, e bella, e la cura costante di loro risulta
in una tale gioia che
nemmeno la vista del sole, nè di tutte le stelle che danzano nei cieli
luminosi, è capace di produrre, e nemmeno qualsiasi spettacolo che potrebbe essere più
grande
di questo."
L'altro tratteggia la perfetta donna
aristocratica: deve essere ricca di moderazione e prudenza, e la
sua anima deve
aspirare alla virtù, così che ella possa diventare giusta, coraggiosa, prudente
e
ornata da quelle qualità che sono appropriate alla sua natura. Tale virtù
complessiva è raggiunta
quando una donna si impegna in una condotta nobile
verso se stessa, lo sposo, i figli, la casa, e
anche verso la Città e la
Patria. Una tale condotta implica il superamento delle passioni e dei
desideri,
l'affetto per sposo e figli e l'evitare "il letto degli stranieri".
Una donna di tal genere è
moderata nel nutrirsi e nella cura del proprio corpo:
deve evitare vesti immodeste o troppo
lussuose, oro e troppe pietre preziose,
costosi profumi e ornamenti per capelli, e anche trucchi
per il volto- coloro
che non fanno così, inclinano verso la licenziosità. E' la bellezza della
temperanza che compiace uomini e donne virtuosi.
Dall' 'Armonia': "E' necessario che una donna possegga a sufficienza
armonia piena di prudenza
e temperanza. Poichè si richiede che la sua anima sia
con veemenza incline all'acquisizione
della virtù, così che ella sia giusta,
coraggiosa e prudente, e possa essere adornata dalla
frugalità, e odi la
vanagloria. Poichè, grazie al possesso di queste virtù, agirà in modo degno
quando sarà sposata, verso se stessa, lo sposo, i figli e la sua famiglia.
Spesso accadrà anche
che una simile donna agisca in modo bellissimo nei
confronti delle città, se accade che governi
su tali città o nazioni, come
vediamo a volte nel caso dei regni. Perciò, se domina desiderio e
rabbia, una
divina armonia sarà creata. "
In definitiva, la donna veramente virtuosa onora
gli Dei, rispetta i genitori e obbedisce a leggi e
costumi stabiliti dagli
Antenati. La relazione con lo sposo è definita in questi consigli: "in
compagnia del suo sposo, ella vivrà in conformità alle opinioni di una vita in
comune con lui; si
adatterà ai parenti e agli amici che stimano il suo sposo e
considererà come dolci e amare le
stesse cose che tali giudica suo
marito."
Perictione
(Madre di Platone ? )
Platone,
Teorico del Teatro nella Polis..
Tmycha
di Sparta…con il marito Myllias di Crotone, si stavano recando a Metaponto
con altri
pitagorici (“("era abituale per loro cambiare luogo di
residenza in differenti stagioni dell'anno,
ed essi sceglievano quei luoghi
(Taranto e Metaponto) per questa migrazione") quando furono
attaccati da un piccolo esercito di
Siracusani, inviati dal tiranno Dionisio.
Fuggirono ma
arrivarono in un rigoglioso campo di fave e "non volendo violare la regola che
proibiva loro di
toccare le fave, rimasero fermi e, per necessità, attaccarono
i loro inseguitori..alla lunga tutti i
Pitagorici furono uccisi dai guerrieri,
nè nessuno di loro sopportò di essere catturato, ma
preferirono la morte a
questo, secondo le regole della loro scuola."
I soldati siracusani furono inviati con l’ordine
di catturarli vivi e rimasero sconfortati.
Ritornarono indietro e durante il
tragitto incontrarono Myllias e Timycha che erano rimasti
indietro a causa del
lento procedere della donna per il suo avanzato stato di gravidanza (sesto
mese). Furono catturati e portati alla presenza di Dionisio che disse loro: "Otterrete da me onori
che trascendono
quelli di chiunque in dignità, se acconsentirete a governare con me", ma
tutte le
sue proposte vennero rifiutate dai due, allora Dionisio chiese
solamente di poter sapere una
cosa: perchè i Pitagorici avevano preferito
morire piuttosto che camminare in un campo di fave?
La risposta della donna fu tremenda: "I miei compagni hanno perso la vita
piuttosto che
camminare sulle fave, ma io camminerei su di loro, piuttosto che
dirti la causa di questo."
Dionisio ordinò che Timycha fosse torturata poichè egli pensava che, essendo una donna,
incinta
e privata del marito, ella gli avrebbe con facilità rivelato tutto
quanto desiderava sapere, per la
paura dei tormenti. La donna eroica invece,
mordendosi con forza la lingua, la tagliò e la sputò
ai piedi del
tiranno."
E' notevole il fatto che Giamblico la citi per
prima fra "le più significanti donne
Pitagoriche".
Melissa di Kroton
Grazie
ai frammenti preservati da Stobeo c’è giunto anche il nome di una certa Melissa
che
faceva parte della scuola pitagorica. Melissa era di Samo ed è
probabilmente l’autrice di una
lettera preservata da Stobeo. La lettera, in
realtà si tratta di un tratto filosofico a forma di lettera,
ed è indirizzata a
Cleareta. Le dà consiglia molto simili a quelli dati da Pitagora alle donne di
Crotone. La consiglia di vestirsi sempre con modestia e di cercare di rendere
felice lo sposo e
nessun altro. È un bellissimo: “ Ella deve confidare nella bellezza e nella ricchezza della sua
anima
piuttosto che nella sua apparenza e delle sue sostanze materiali, poiché
invidia e malattia
rimuovono queste anime, ma le prime perdurano fino alla
morte”.
Su
Melissa un romanzo.. “Melissa… la donna che cambiò la storia” scritto da Valter
Binaghi,
insegnante di storia e filosofia.
Un testo che racconta la vita avventurosa di una figura del
mondo femminile greco dimenticata.
Il
romanzo riprende le antiche fonti su questa figura femminile giunta fino a noi
come membro
del movimento democratico dei pitagorici. Vive nella natia Crotone
ma la sorte le è crudele.
Perde tutto
quando viene venduta come schiava ai Sanniti. La donna non si arrende e
dimostrando le sue virtù, la sua saggezza, riesce, anche da schiava, a farsi
una posizione
diventando un membro
autorevole della nuova comunità. È una lotta difficile.. dura… continua…
perché
legata ad un mondo che vede nella sua quotidianità una figura femminile sempre
inferiore
a cui non si riconosce alcun diritto alla cultura, alla politica,
alla partecipazione sociale.
La
sua Storia….
Crotone, 509 a.C. (Pitagora muore nel 496 a.C.),
Melissa fa parte della scuola di Pitagora e si
salva dall’eccidio dei
pitagorici grazie a Liseo che, pur facendo parte dei congiurati, da tanto
tempo
è perdutamente innamorato di lei. La ragazza davanti alle pretese di Liseo, che
gli rileva il
suo amore e la chiede in sposa, rifiuta sdegnata e solo con la
violenza Liseo riesce a farla sua.
Dopo aver subito l’orribile violenza, viene
venduta come schiava a Cluvio, vecchio capo dei
Sanniti. Cluvio con la saggezza
tipica delle persone anziane, frutto di molteplice esperienze di
vita, si accorge
subito delle grandi virtù della giovane donna e decide di affidarle
l’educazione
dei figli e delle donne di casa. Melissa riesce ad assolvere il
suo compito con umiltà e saggezza a
tal punto da conquistarsi subito la fiducia
delle sue allieve. La Melissa entra subito in gran
considerazione nella
comunità a tal punto da diventarne elemento fondamentale. Con la sola
conoscenza dei numeri e della musica riuscirà a guarire Aris, il figlio del re
Cluvio, colpito da
una forte intossicazione. In segno di riconoscenza e di
rispetto ottiene la libertà e sposa Aris, da
cui avrà due figli.
Il futuro avrà in serbo per lei
molte avventure ma la metterà di fronte anche a tanti ostacoli.
Melissa saprà
affrontarli imponendosi sempre con la sua forte personalità in un mondo
governato
dagli uomini, e mostrando alla sua epoca, ma anche alla nostra
come si possa vivere e
progredire nella pacifica ricerca della sapienza.
4.e - L’ASTENSIONE DALLE FAVE
Pitagora
sostiene il vegetarianismo (Pieter Paul Rubens, 1618-1620)
Una
versione sulla morte di Pitagora fu collegata all’idiosincrasia del
filosofo e della sua scuola
per le fave.
Fave che i pitagorici si guardavano bene dal mangiare evitando anche il
semplice
contatto.
Forse
si tratta di una leggenda ma Pitagora si fece raggiungere ed uccidere dagli
scherani di
Cilone di Crotone piuttosto che mettersi in salvo in un verde e
rigoglioso campo di fave.
Ma
perché quest’atteggiamento dei filosofi nei confronti delle fave ?
Esistono
due versioni. Una che fa riferimento agli studi di Gerald Hart secondo il quale
il
favismo era una malattia molto diffusa nella zona del crotonese ed era
quindi presente un divieto
motivato da un aspetto profilattico-sanitario.
Pitagora viveva quindi in una zona dove il favismo
era molto diffuso e quindi
era presente una proibizione igienica. Nell’esperienza quotidiana le
fave erano
un alimento importante il cui abuso causava flatulenze e insonnia e se qualcuno
s’ammalava i due fatti non venivano collegati e per questo motivo i medici
greci non riuscivano
ad identificare la malattia.
L’astensione
dal mangiare fave fu per Pitagora un precetto morale perché i greci del
IV secolo a.C avevano un modo diverso dal nostro di considerare le malattie che riferivano
alla
religione. Le fave erano quindi connesse al mondo dei morti, della
decomposizione e
dell’impurità, dalle quali il filosofo si doveva tenere
lontano.
Per
una strana coincidenza Pitagora fu per certi versi il precursore del
vegetarismo.
Cicerone
affermò che: «Pitagora
ed Empedocle avvertono che tutti
gli esseri viventi hanno
eguali diritti, e proclamano che pene inespiabili
sovrastano a coloro che rechino offesa a un
vivente.”
Fu considerato l’iniziatore del vegetarismo grazie ad alcuni
versi delle “Metamorfosi” di Ovidio
che lo descrivono come il primo degli
antichi a scagliarsi contro l’abitudine di cibarsi di animali.
Un atteggiamento
reputato dal filosofo causa di un inutile strage dato che la terra offre piante
e
frutti sufficienti a nutrirsi senza spargimenti di sangue.
Ovidio legò il vegetarismo di Pitagora alla credenza nella
metempsicosi, secondo cui negli
animali v’è un anima non diversa da quella
degli esseri umani.
Diogene Laerzio sostiene inoltre che Pitagora fosse solito mangiare
pane e miele al mattino e
verdure crude la sera; in più implorava i pescatori
affinché ributtassero in mare quello che
avevano appena pescato
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La Biblioteca d'Alessandria d'Egitto
Incisione
raffigurante il Faro di Alessandria d'Egitto. Estratta dall'opera "Entwurf
einer historischen Architektur" di Johann Bernhard Fischer von Erlach,
1721.
Resti del faro nel tratto di mare prospiciente la città
4.f - IPAZIA D'ALESSANDRIA D'EGITTO
Alessandria d’Egitto, marzo 415 d.C. Ipàzia,
matematica, astronoma e filosofa, esponente della
filosofia neo-platonica,
venne uccisa da una folla di cristiani in tumulto composta da monaci
“parabolani”…..
“Martire della Libertà
di Pensiero”
Ipàzia nacque ad Alessandria d’Egitto nel 350/370 d.C.
cioè prima che la città diventasse parte
del nuovo Impero Romano d’Oriente.
del nuovo Impero Romano d’Oriente.
Il padre era Teone, “geometra, il filosofo d’Alessandria” che si dedicò in particolare alla
matematica
ed all’astronomia (osservò l’ecclisse solare del 15 giugno 364 e quella lunare
del 26
novembre). Visse per tutto il regno di Teodosio I (378-395) ed Ipazia fu
prima allieva e poi
collaboratrice del padre. Lo stesso Teone nel III libro del
suo commento al “Sistema Matematico
di
Tolomeo” riportò che l’edizione era stata “controllata dalla filosofa Ipazia mia figlia”.
Non si sa quale tipo di controllo abbia eseguito sul
libro scritto dal padre; se fu solo una
semplice revisione o integrazioni al testo o di aver editato l’intero testo di
Tolomeo.
La donna non solo fu istruita dal padre nella
matematica ma, come sostiene Filostorgio
(Cappadocia, 368 d.C.- Istanbul, 439
d.C.; seguace dell’Arianesimo e compilatore di una Storia
Ecclesiastica), “ella divenne migliore del maestro, particolarmente
nell'astronomia e che, infine,
sia stata ella stessa maestra di molti nelle
scienze matematiche».
Filostorgio
oltre ad essere uno storico della chiesa era anche un esperto studioso di
astronomia ed
astrologia. Anche Damascio (Damasco, 458 d.C.- Alessandria
d’Egitto, 550 d.C.; filosofo
bizantino ed uno degli ultimi esponenti della
filosofia neoplatonica) riportò come Ipazia «fu
di
natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene dalle
scienze matematiche
alle quali lui l'aveva introdotta, ma non senza altezza
d'animo si dedicò anche alle altre scienze
filosofiche»
Ipazia
aveva quindi tutti i titoli per succedere al padre nell’insegnamento di queste
importanti e
prestigiose discipline. La
tradizione del Museo fondato quasi 700 anni prima da Tolomeo I
Soter, anche se
non esisteva più perché era andato distrutto durante la guerra condotta da
Aureliano, era continuata nell’insegnamento delle scienze mediche e della matematica
nella
comunità di Alessandria con l’intatto prestigio originario. Un prestigio
che fu confermato da
Ammiano Marcellino (Antiochia di Siria, 330 d.C. – 400 d.C.;
storico romano che scrisse le sue
opere in latino e gran parte delle sue opere
si sono conservate).
Ipazia
già dal 393 d.C. era a capo della scuola alessandrina come cita Sinesio, giunto
ad
Alessandria da Cirene per seguire i suoi corsi.
Le
fonti antiche le attribuiscono un commento a un’opera di Diofanto di
Alessandria
“l’Arithmetica” e alle “Coniche “ di Apollonio di Perga. Non si è
certi se abbia scritto un opera
di astronomia “Canone Astronomico”.
La
mancanza dei suoi scritti non permette di stabilire il contributo effettivo che
diede al
progresso del sapere matematico e astronomico della scuola
d’Alessandria.
In
ogni caso fino agli ultimi anni della sua esistenza, la scuola alessandrina era
caratterizzata da
una vivace libertà di pensiero che era una base fondamentale
per lo sviluppo della cultura e del
campo scientifico nella geometria
quantitativa piana e solida, nella trigonometria, nell’algebra,
nel calcolo infinitesimale e nell’astronomia.
nel calcolo infinitesimale e nell’astronomia.
Sinesio,
allievo di Ipazia, nel 399 scriveva che Ipparo, Tolomeo e i successivi
astronomi
“lavoravano su mere ipotesi
perché le più importanti questioni ancora non erano state risolte e
la geometria era ancora ai primi vagiti… ora si è ottenuto di perfezionare
l’elaborazione”.
Lo
stesso Sinesio fornì gli elementi che avviavano alla nuova elaborazione grazie
a nuovi
interessi pratici forniti dall’astrolabio, di cui si prende la
paternità nella sua costruzione anche se
riconosce che fu “concepito sulla base di quanto m’insegnò la mia veneratissima
maestra…
Ipparco l’aveva intuito e fu il primo ad occuparsene, ma noi, se è
lecito dirlo, lo abbiamo
perfezionato….lo stesso grande Tolomeo e la divina
serie dei suoi successori si erano contentati
di uno strumento che servisse
semplicemente da orologio notturno”.
I
matematici e gli astronomi del periodo d’Ipazia non consideravano ultimata
l’opera di Tolomeo
in merito alla conoscenza astronomica. Gli astronomi alessandrini reputavano importante
in merito alla conoscenza astronomica. Gli astronomi alessandrini reputavano importante
proseguire le ricerche per giungere alla reale comprensione della
natura e della disposizione
dell’universo.
Sinesio
chiese ad Ipazia di costruirgli un idroscopio a cui aveva allegato anche una
dettagliata
descrizione.. «un tubo
cilindrico avente la forma e la misura di un flauto. In linea perpendicolare
reca degli intagli, a mezzo dei quali misuriamo il peso dei liquidi. Da una
delle estremità è
otturato da un cono fissato strettamente al tubo, in modo che
unica sia la base di entrambi. È
questo il cosiddetto barillio. Quando
s'immerge il tubo nell'acqua, esso rimane eretto e si ha in
tal modo la possibilità
di contare gli intagli, i quali danno l'indicazione del peso».
La Filosofia di
Ipazia
Ricostruire
il pensiero di Ipazia in assenza di opere autografe non è facile e in questo
senso sono
utili gli scritti lasciati dal suo allievo Sinesio.
Christian
Lacombrade, professore di Lettere alla facoltà di Tolosa, analizzando gli
scritti di
Sinesio rilevò che il pensiero di Ipazia seguì quello di Porfirio
sottolineando come la filosofa
avrebbe illustrato il pensiero neoplatonico
senza elevarsi “a una concezione generale
del mondo,
non ha creato, come in qualsiasi autentico filosofo, nessun
sistema”.
Infatti
rileggendo gli scritti di Sinesio si notò come il discepolo abbia avuto la
possibilità di
ascoltare ad Alessandria d’Egitto non una semplice esposizione
dogmatica del pensiero di alcuni
filosofi..”Sinesio
sembra aver sperimentato alla scuola d'Ipazia un'autentica conversione alla
filosofia. Nei
suoi Inni egli si
rivela poeta metafisico di intuito religioso di notevole profondità.
Inoltre
egli, come dimostrano le sue lettere a Ipazia e ad altri, fece parte per tutta
la vita di un
circolo di iniziati alessandrini, con i quali condivise i misteri
della filosofia». Ipazia gli avrebbe
insegnato a considerare la filosofia
«uno stile di vita, una costante, religiosa e disciplinata
ricerca della
verità».
A
questo riguardo fu indicativo il paragone che l’alunno di Ipazia, scrivendo una
lettera al
fratello Evozio, fece tra la scuola filosofica d’Alessandria
d’Egitto e quella di Atene…”l’Atene
di oggi non ha nulla di eccelso a parte i nomi delle località… al giorno d’oggi
l’Egitto tiene
desta la mente avendo ricevuti i semi di sapienza di Ipazia.
Atene, al contrario, che fu un tempo
la sede dei sapienti, viene ora onorata
solo dagli apicultori”.
Sinesio
condivise la filosofia di Plotino e il merito fu sicuramente degli insegnamenti
di Ipazia..
un insegnamento che si distaccava sia dal neoplatonismo “orientale”
in virtù di un “cero
razionalismo” sia dal neoplatonismo che era anticristiano
della scuola ateniese, assumendo un
posizione di neutralità nei confronti del
cristianesimo.
L’allievo
espose anche nei suoi scritti (l’opuscolo”Dione” dal nome del sofista Dione di
Prusa)
l’importante rapporto, sempre vivo nella storia della letteratura, tra
filosofia e letteratura.
Un
opuscolo che Sinesio inviò ad Ipazia nel 405 chiedendole un giudizio prima
dell’eventuale
pubblicazione..” se tu
ritieni che lo scritto debba essere pubblicato,
lo destinerò tanto ai retori
quanto ai filosofi: agli uni recherà
diletto, agli altri profitto, sempre che non venga respinto da te
che hai la
facoltà del giudizio”.
Sinesio
La filosofia non è una comunicazione mistica fondata su pratiche magiche
ma è un mezzo con il
quale l’uomo comunica sia con i suoi simili che col dio
attraverso la sua coscienza. È il frutto di
una comunicazione razionale che è
tipica dell’uomo che non è “un puro spirito, ma uno spirito
calato nell’anima
di un essere vivente”. Molti filosofi si applicarono con impegno “a educare gli
uomini, fossero re o semplici cittadini, singoli o gruppi”. Un esempio per
tutti fu Socrate che
mise a disposizione di tutti la sua sapienza per
raggiungere la conoscenza e il bene.
Ipazia a capo della Scuola di
Alessandria d’Egitto
In merito alla posizione raggiunta
da Ipazia nella scuola d’Alessandria è importante citare il
passo di Socrate
Scolastico.. “era giunta a tanta
cultura da superare di molto tutti i filosofi del
suo tempo, a succedere nella
scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo
desiderava
tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei da ogni
parte tutti
coloro che desideravano pensare in modo filosofico».
In
basi ai riferimenti di Socrate Scolastico, Ipazia esluse dal suo insegnamento
la corrente
filosofica platonica magico teurgica (rituali atti ad inserire la
divinità in un essere inanimato o di
tecniche estatiche che avevano lo scopo di
far incarnare per un certo periodo di tempo la divinità
in un essere umano)
ostile al cristianesimo e presente nella scuola ateniese per condurla alle
fonti
platoniche per mezzo di Plotino.
Un’altra
citazione ci fu lasciata da Damascio che verso la fine del V secolo si stabili
ad
Alessandria e riferì che Ipazia “«di
natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che
viene attraverso
le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui ma, non senza altezza
d'animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettandosi
addosso il mantello
e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a
chiunque volesse ascoltarla Platone o
Aristotele o le opere di qualsiasi altro
filosofo».
Ipazia attraverso lo studio
delle scienze matematiche, scienze che forniscono le basi della
filosofia,
giunse alla “vera filosofia” che raggiunge il suo culmine nella dialettica.
Un
aspetto importante da rilevare dalle fonti antiche è il pubblico insegnamento
che Ipazia
esercitò verso “chiunque volesse ascoltarla”.
L’insegnamento
di Ipazia nella scuola avveniva in un momento dalle forti tensioni sociali e
religiose.
Siamo infatti nell’ultimo decennio del IV secolo e ad Alessandria furono
demoliti i
bellissimi templi dell’antica religione per ordine del vescovo Teofilo. Una demolizione che
simboleggiava la volontà di distruggere una
cultura alla quale Ipazia apparteneva e che era
intenzionata a difendere e a
diffondere nel rispetto delle parti.
Il
23 febbraio 303 durante la festa dei Terminalia (in onore del dio Termine,
divinità romana, che
proteggeva i confini), l’imperatore romano Diocleziano
emanò, su proposta di Galerio, un editto
persecutorio contro i cristiani in cui
si prescriveva:
-
L’abbattimento
delle chiese e il rogo della Sacre Scritture;
-
La
confisca dei beni ecclesiastici:
-
Il
divieto per i cristiani di intentare azioni legali collettive;
-
La
perdita di carica e privilegi per i cristiani di alto rango che si rifiutassero
di abiurare;
-
L’arresto
di alcuni funzionari statali legati al cristianesimo..
In
quel periodo Galerio rivestiva la carica di Cesare cioè la seconda autorità più
importante dopo
quella dell’Imperatore e quando Diocleziano abdicò, successe
all’imperatore. Continuò la
persecuzione contro i cristiani fino al 311 quando
concesse loro il perdono, la libertà di culto e lo
“status di religio licita”... Galerio
morì sei giorni dopo
L’editto
fu redatto in realtà a Serdica (l’attuale Sofia) e pubblicato il 30 aprile 311 a
Nicomedia.
Venne
subito diffuso e distribuito, come stabilito dal decreto, attraverso lettere ai
governatori
periferici di tutte le città
dell’impero sotto la competenza di Galerio cioè i Balcani romani.
Una
copia venne pure mandata al secondo imperatore per l’Oriente, Massimino Daia
che riprese
il testo privandolo di alcune sue parti. Fu quindi applicato in modo superficiale in
Oriente, solo
nell’Asia Minore, e non in Siria, Palestina ed Egitto che
facevano parte della prefettura di sua
competenza. Quindi l’azione persecutoria
contro i cristiani continuò già nell’autunno dello stesso
anno 311. Un editto
che è dimenticato dalla storia perché forse emesso da un imperatore in punto
di
morte e che quindi non venne ritenuto interessante dal punto di vista politico.
Galerio
assieme a Massimino Daia era stato un persecutore dei cristiani e prosecutore
della stessa
linea anticristiana di Diocleziano. Come mai Galerio si ravvide emanando l’editto
? Un
emanazione forse legata ad una sconfitta politica ?
Il
provvedimento forse fu legato alla dolorosa malattia di Galerio che chiamò per
farsi curare dei
cristiani. Altro motivo potrebbe essere legato al desiderio di
rivalutare la sua immagine politica e
di includere quindi il Dio dei cristiani
nel contesto delle forze divine a suo sostegno, dopo
decenni di continue
persecuzioni. Una valutazione legata ad una volontà politica con il quale il
cristianesimo diventava un nuovo sostegno per il tradizionale prestigio
dell’impero.
Editto di Galerio
– Placca trilingue (latino, greco e Bulgaro), di fronte alla chiesa di Santa
Sofia, Sofia (Bulgaria)
“Tra tutte le
disposizioni che abbiamo preso nell’interesse e per il bene dello Stato, in
primo
luogo abbiamo voluto restaurare ogni cosa secondo le antiche leggi e le
istituzioni romane, e
fare in modo che anche i cristiani, che avevano
abbandonato la religione degli antenati,
ritornassero a sani propositi.
Ma, per varie ragioni, i cristiani erano stati colpiti da una tale ostinazione
e da una tale follia
che non vollero più seguire le tradizioni degli antichi,
istituite forse dai loro stessi antenati. Essi
adottarono a loro arbitrio,
secondo il proprio intendimento, delle leggi che osservavano
strettamente e
riunirono folle di persone di ogni genere in vari luoghi.
Perciò quando noi promulgammo un editto con il quale si ingiungeva loro di
conformarsi agli
usi degli antenati, molti sono stati perseguiti, molti sono
stati anche messi a morte.
Ciononostante, la maggior parte di loro persisteva
nel proprio convincimento.
Considerando la nostra benevolenza e la consuetudine per la quale siamo soliti
accordare il
perdono a tutti, abbiamo ritenuto di estendere la nostra clemenza
anche al loro caso, e senza
ritardo alcuno, affinché vi siano di nuovo dei
cristiani e [affinché] si ricostruiscano gli edifici
nei quali erano soliti
riunirsi, a condizione che essi non si abbandonino ad azioni contrarie
all’ordine costituito.
Con altro documento[4] daremo istruzioni ai governatori su ciò che dovranno
osservare. Perciò,
in conformità con questo nostro perdono, i cristiani
dovranno pregare il loro dio per la nostra
salute, quella dello Stato, e di
loro stessi, in modo che l’integrità dello Stato sia ristabilita
dappertutto ed
essi possano condurre una vita pacifica nelle loro case”.
(Lattanzio, De
mortibus persecutorum, I, 34, 1-5 – Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica,
VIII, 17.)
L’Editto
di Milano (Editto di Costantino o “Editto di Tolleranza o Rescritto di
Tolleranza) fu
sottoscritto nel febbraio 313 dai due Imperatori dell’Impero
Romano: Costantino per l’Occidente
e Licinio per l’Oriente. Un editto di politica religiosa comune alle due parti
dell’impero che fu
sottoscritto a Milano (capitale della parte Occidentale
dell’impero), in Occidente, perché il
“senior
Augustus” era Costantino.
L’editto
concedeva a tutti i cittadini, quindi anche ai cristiani, la libertà di
venerare le proprie
divinità. I due imperatori diedero attuazione alle misure
che erano contenute nell’editto di
Galerio del 311 con il quale era stato
definitivamente posto termine alle persecuzioni e si
accordarono per emanare
anche delle precise disposizioni ai governatori delle province.
In
realtà le persecuzioni in Oriente, malgrado l’editto, continuarono perchè
Massimino Dacia,
che governava con Licinio, continuò le sue feroci
persecuzioni. Licinio alla fine riuscì a
sconfiggere in Tracia Massimino e le
persecuzioni anche in oriente cessarono. Licinio concesse a
tutti i cristiani
dell’impero d’oriente il diritto di costruire luoghi di culto e inoltre dispose
che
fossero loro restituite le proprietà che erano state confiscate. Le disposizioni
furono esposte
pubblicamente a Nicomedia in un rescritto il cui testo è diviso
in dodici punti .. l’introduzione ..è:
Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto,
essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti
relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo
utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste
relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti
gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la
divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi
dia pace e prosperità.»
La
diarchia di Costantino e Licinio durò circa undici anni. Anni in cui i due
imperatori
governarono in pratica i due regni separati ognuno per proprio
conto. La guerra fra i due era
ormai imminente e nel 324 Costantino sconfisse
Lacinio costringendolo a cedere il suo impero.
La
storiografia tramanda come la guida spirituale di Costantino fu il vescovo Osio
di Cordova.
Costantino
emanò successivamente altri editti in favore dei cristiani che avevano
l’obiettivo “di
far confluire in un’unica
forma e idea le credenze religiose di tutti i popoli… e di rivitalizzare e
riequilibrare l’intero corpo dell’Impero, che giaceva in rovina come per
l’effetto di una grave
ferita”.
I
provvedimenti religiosi emessi successivamente da Costantino furono:
-
Nel
321… stabilì che la domenica doveva essere riconosciuta anche dallo Stato come
giorno festivo…”dies Solis”;
-
324…
proibì magie e alcuni riti della religione tradizionale (la divinazione fatta
nelle case); chiuse i templi e vietò che nei giochi circensi si sacrificassero
i condannati a morte;
-
325…
convocò e presidiò il Concilio di Nicea, primo concilio ecumenico;
-
326..
emanò una legge che proibiva l’adulterio e vietava di portare a casa le
concubine. Inoltre stabilì che gli ebrei non potessero più convertire gli
schiavi né praticare su di loro la circoncisione.
Con
Costantino il clero assunse una posizione sociale di prestigio attirando le
migliori
intelligenze dell’impero. Non proibì il culto pagano e manifestò
infatti il massimo rispetto verso i
fedeli della vecchia religione cercando con
loro il dialogo anche con le correnti pagane più
estreme. Sapeva che i membri
del senato avevano continuato a professare la vecchia religione e
così decise
di impostare una nuova politica senatoriale rivolta ad evitare l’insorgere di
inevitabili
contrasti tra cristiani e pagani.
Nel 315 il senato dedicò a Costantino un arco di trionfo, accanto
al
Colosseo, e questo lascia immaginare
come la linea politica e di condotta di Costantino abbia
avuto un gran
successo.
Particolare della
porta laterale di sinistra del Duomo di Milano
L’Editto di Milano
Arrigo Minervi-
scultore della prima metà del XX secolo
Alcuni resti dei
palazzi imperiali di Milano
Qui venne redatto l’Editto di Milano
Voltaire –
Trattato sulla Tolleranza
Nel “Trattato sulla Tolleranza”, scritto da Voltaire
nel 1793, il filosofo illuminista francese riflette su una vicenda di cronaca
che ha visto mandare alla forca (su prove inconsistenti, fanaticamente
religiose ed arbitrarie) un innocente padre di famiglia, Jean Calas, sospettato
di aver ucciso il figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Molti
anni dopo, la magistratura, rifatto il processo scevro da storture estremiste,
scoprì che il giovane inquieto si era impiccato. Ma intanto il padre, la madre
e le sorelle del giovane avevano subito la gogna pubblica.
I
decreti teodosiani (emessi tra il 391 e il 392 da Teodosio I) avevano decretato
la proibizione di
ogni genere di culto pagano ed equiparato il sacrificare nei
templi a un delitto di lesa maestà che
era punibile con la pena di morte.
In
realtà Teodosio all’inizio del suo regno (379 d.C.) insieme ai due Augusti,
Graziano e
Valentiniano II, promulgò nel 380 l’editto di Tessalonica con il
quale il credo niceno (Concilio di
Nicea) diventava la religione unica e
obbligatoria dello Stato e per quanto riguarda Alessandria
d’Egitto i decreti
anti pagani furono quelli del 392 su descritti.
Socrate
scolastico mise in evidenza nei suoi scritti che il vescovo Teofilo costrinse
l’imperatore
Teodosio ad emettere dei decreti per porre fine ad Alessandria
degli antichi culti religiosi..” «per
sollecitudine di Teofilo, l'imperatore ordinò di distruggere i templi degli
elleni in Alessandria e
questo avvenne per l'impegno dello stesso Teofilo”.
Il
terribile vescovo Teofilo d’Alessandria mise subito in atto una serie di azioni
contro il culto
pagano.
Fu
risparmiato il tempio di Dionisio che il vescovo ottenne in dono
dall’imperatore per essere
trasformato in una chiesa. Un altro tempo del
passato, sempre ad Alessandria, il Cesareo ovvero
il Tempio di Augusto, era
stato trasformato in una cattedrale cristiana ed era diventato il luogo di
culto più importante della comunità cristiana.
Gli
elleni si opposero con forza alla distruzione del “Serapeo”. Era l’edificio più
antico e
prestigioso della città “«così
adorno di atri con amplissimi colonnati, di statue che sembrano
vive e d'opere
d'arte di ogni genere, che nulla vi è sulla terra di più fastoso all'infuori
del Campidoglio”. (Ammiano Marcellino- Antiochia di Siria, 330 d.C. :
…400 d.C. – storico
romano di età imperiale)
Oltre
al culto di Giove Seapide, vi erano celebrati i culti di Iside e delle divinità
egizie e vi erano
custoditi il loro “misteri”.
Teofilo
«fece tutto quello che era in suo potere
per recare offesa ai misteri degli elleni»
esponendo pubblicamente per
dileggio gli oggetti di culto dei templi distrutti. Il gesto, da vero
mafioso e
da vescovo arrogante, provocò la giusta resistenza degli elleni «sconvolti dall'insolito e
insospettato
evento, non poterono starsene tranquilli e tramarono tra loro una cospirazione
ai
danni dei cristiani; dopo aver ucciso e ferito molti di loro, occuparono il
tempio di Serapide”.
Il
vescovo colpì anche la Biblioteca d’Alessandria e fu incendiata e distrutta dai
monaci di Wadi
el Naarum, fanatici e faziosi, guidati da un “papas” a cui non mancavano risorse
finanziarie e
uomini.
Lo
stesso imperatore, da Costantinopoli, appoggiò la comunità cristiana
sollecitando gli elleni a
convertirsi. Gli elleni abbandonarono il tempio che
fu occupato dai vili cristiani. Il giorno prima
della sua distruzione ,
Olimpio, l’ultimo sacerdote del Serapeo, fuggì in Italia.
Il
tempio venne demolito dalle fondamenta ed Eunapio (Sardi-Asia Minore, 347.- 414
d.C;
sofista, filosofo e storico greco)….”
Lasciarono solo il pavimento e solo perché le pietre erano
troppo pesanti…. Per
zelo e solerzia di Teofilo, l’imperatore ordinò di distruggere i templi degli
elleni in Alessandria e questo avvenne per impegno dello stesso Teofilo”.
Non
si è a conoscenza di come Ipazia, doveva avere come età tra 20/40 anni, visse
quei terribili
momenti di scontro religiosi e nemmeno dei rapporti tra la
stessa Ipazia e il vescovo Teofilo.
Sembra
che Ipazia abbia avuto una sua maggiore notorietà successivamente a quegli
avvenimenti.
La sua affermazione e notorietà coincise con l’affermazione
nell’impero orientale, del
movimento politico e culturale degli elleni. Elleni
che erano sostenitori della tradizionale cultura
greca a prescindere da ogni
religione cioè indipendentemente dalle singole adesioni a una
particolare
religione.
La
loro ascesa subì un forte contraccolpo con l’avvento al potere di Pulcheria,
nel 414. Ci furono
successivamente dei momenti di rinvigorimento alterno del
movimento fino al declino che
avvenne verso la seconda metà del V secolo.
Il
prestigioso di Ipazia ad Alessandria è strettamente culturale ma quella stessa
eminente cultura
fu per Ipazia
l’acquisizione anche di un potere politico e quindi non soltanto culturale.
Socrate
Scolastico , storico cristiano ortodosso,..
«Per la magnifica libertà di parola e di azione
che le veniva dalla sua
cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della
città e
non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a
causa della sua
straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e
provavano verso di lei un timore
reverenziale”(Socrate Scolastico, VII,15).
A
distanza di un secolo il filosofo Damascio..
«era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e
politica nelle azioni, il
resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i
capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano
soliti recarsi prima da
lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene.
Infatti, se lo stato reale della filosofia era in
completa rovina, invece il
suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione
per coloro che
amministravano gli affari più importanti del governo”.
Teofilo “trionfa
sul Serapeo”.
Teofilo
morì il 15 ottobre 412 e fu ricordato come colui che “fece tutto quello che era in suo
potere per recare offesa ai misteri
degli elleni”.
Fu
quindi innalzato al trono episcopale d’Alessandria d’Egitto…. il nipote Cirillo..
un uomo
violento, autoritario che ebbe,
purtroppo, “molto più potere di quanto ne
avesse avuto il suo
predecessore” e “si accinse a
rendere l'episcopato ancora più simile a un principato di quanto
non fosse
stato al tempo di Teofilo”….”la carica episcopale di Alessandria prese a
dominare la
cosa pubblica oltre il limite consentito all’ordine episcopale”.(Socrate
Scolastico).
Perseguitò e tormentò i “Katharoi” (i “puri”, chiudendo loro le
chiese e sequestrando i loro beni);
i “messalliani” (asceti penitenti dediti
alla povertà, dando fuoco ai loro conventi); gli ebrei
(cacciandoli dalla città
in cui erano la minoranza maggioritaria e dalle sinagoghe che diventarono
chiese
cristiane); i pagani (gli elleni che furono sterminati).. come faceva d’altra
parte con i suoi
amici/nemici cristiani ....condannò il vescovo siriano Nestorio e
depose l’arcivescovo e teologo
bizantino Giovanni Crisostomo), ecc….
Subito dopo le elezioni episcopali del 17 ottobre 412, Cirillo
attuò subito la sua politica colpendo
“per primis” gli “ortodossi” novaziani
che fino a quel momento erano stati tollerati. Cirillo non
fu impressionato
dalla loro morale puritana e in aperto contrasto con il prefetto fece chiudere
le
loro chiese con la forza e li caccio dalla città. Andando contro le leggi
imperiali il vescovo
s’appropriò di tutti i loro beni, compreso il patrimonio
privato del loro vescovo novaziano
Teopempto
Esclamava ..”Oh follia…. Oh
ignoranza, senno sconsiderato….. oh sproloquio da suocera,
intelletto assopito,
in grado solo di blaterare… gli eretici abbondano soltanto di invenzioni
irreligiose…. Favole raccapriccianti…. Di pura stupidità…. Sono il culmine
della malvagità… la
loro gola è davvero una tomba spalancata…. Le loro labbra
celano veleno di vipera…..
Rinsavite, voi ebbri”
San Cirillo d'Alessandria
Cirillo perseguitò quindi i messaliani (Msallyane cioè coloro che
pregano e per questo chiamati
in greco “Euchiti”). Erano degli asceti penitenti
dai capelli lunghi che provenivano soprattutto
dagli strati più poveri della
società. Si astenevano dal lavoro e nella povertà più assoluta si
sacrificavano
alla ricerca di Cristo. I messaliani interpretavano la fratellanza come
comunità
mista di uomini e donne, un interpretazione che diede molto fastidio
ai cattolici, già condannati
in precedenza, Cirillo decretò la loro fine ad
Efeso, dove la loro dottrina e le loro pratiche
vennero nuovamente condannate.
Cirillo e molti altri cristiani parteciparono alla “caccia” dei
messaliani. Il
patriarca Attico di Costantinopoli (406 – 4259, elogiato da papa Leone I e
venerato
dalla chiesa greca come santo (8 febbraio e 11 ottobre), incitò i vescovi di Panfilia a scacciare i
messaliani come fossero dei topi o parassiti. Il patriarca Flaviano di
Antiochia li fece cacciare
prima da Edessa e poi da tutta la Siria. Il vescovo
Amfilochio di Ikonium li perseguitò nella sua
diocesi così come il vescovo
Letoio di Melitene, che diede fuoco ai loro conventi.
Oreste, prefetto d’Alessandria, ..”s’indignò molto per l’accaduto e provò un gran dolore perché
una città
tanto importante era stata completamente svuotata di esseri umani” ma per Cirillo
era un “miscredente”… Insomma
un vescovo che aveva una sua personale procedura di
condotta… per chi non la pensava
come lui bisogna ideare una soluzione finale…
In una simile situazione fu inevitabile lo scontro tra il
prefetto d’Alessandria, Oreste, che
difendeva giustamente le proprie
prerogative, e il vescovo Cirillo che
assunse poteri che non gli
spettavano.
Oreste era il “praefectus
augustalis Alexandreae et Aegypti” cioè il governatore della provincia
romana d’Egitto che era stato scelto nella carica direttamente dall’imperatore
e a cui, senza
intermediari, rendeva conto e aveva inoltre “l’imperium militiae” cioè il comando sulle truppe
cittadine. Anche
il vescovo aveva la sua milizia……. I parabolani e gli esaltati sostenitori
alessandrini. Nacque inevitabilmente un conflitto politico, d’interessi anche
se «Cirillo e i suoi
sostenitori tentarono di
occultarne la vera natura e di porre la questione nei termini di una lotta
religiosa riproponendo lo spettro del conflitto tra paganesimo e cristianesimo”.
Nel
414 durante un’assemblea popolare alcuni ebrei denunciarono al prefetto Oreste
il
comportamento provocatorio del “maestro
di grammatica Ierace”, sostenitore
del vescovo
Cirillo…. Maestro Ierace che era conosciuto come “il più attivo nel suscitare gli applausi
nelle
adunanze in cui il vescovo insegnava”. Giovanni di Nikiu, vescovo
copto, definì Ierace “un
cristiano che
possedeva comprensione ed intelligenza e che era solito dileggiare i pagani”,
Ierace
fu arrestato e torturato e la reazione di Cirillo non si fece attendere. Per
prima cosa
minacciò la comunità ebraica…. E naturalmente gli ebrei non si
fecero intimidire massacrando
un certo numero di cristiani. Il contrasto fra le due comunità non fu solo
religioso ma anche
economico perché era in gioco il monopolio dei trasporti
marittimi che l’imperatore aveva
concesso ad entrambe le comunità che così si
ritrovarono l’una contro l’altra. La reazione di
Cirillo, dopo aver causato la
diatriba, fu durissima: l’intera comunità ebraica fu cacciata dalla
città, i
loro averi furono confiscati e le sinagoghe distrutte…. Cirillo ottenne quello
che
desiderava… un perfetto ingannatore e gli ebrei caddero nella sua trappola
ben costruita.. come
la tela di un ragno pronta ad attendere che qualche
insetto vi finisca..
«Oreste,
prefetto di Alessandria, s'indignò molto per l'accaduto e provò un gran dolore
perché
una città tanto importante era stata completamente svuotata di esseri umani” ma,
purtroppo, non
potè prendere dei provvedimenti contro Cirillo perché con la
costituzione del 4 febbraio 384 il
clero era soggetto al solo foro
ecclesiastico……..
San
Cirillo d’Alessandria
Cirillo negava agli ebrei “ogni comprensione per il mistero” del
cristianesimo… parlava della
loro “ignoranza” e della loro “malattia”.. li
chiamava “spiritualmente accecati”… “uccisori del
Signore” e suoi
“crocifissori”… e nei suoi scritti li trattava “ancora peggio… dei pagani”
(Jouassard).
Cirillo non li colpi solo letterariamente ma anche nei fatti.
Nel 414 s’era infatti impadronito di tutte le sinagoghe d’Egitto per
trasformarle in chiese
cristiane ed anche in Palestina monaci fanatici
distruggevano le sinagoghe...
Ad Alessandria d’Egitto vivevano molti ebrei e Cirillo convocò i
loro rappresentanti accusandoli
del fatto che da parte ebraica fossero stati
commessi atti orribili. Un avvenimento che secondo le
fonti non fu dato per
certo ma nemmeno smentito.
In ogni caso, il grande Santo della chiesa… senza alcun diritto…
fece assalire e distruggere le
sinagoghe da un’enorme folla, guidata dai monaci
parabolani… una vera e propria azione di
guerra dove più di 100.000 ebrei,
forse 200.000 furono cacciati, facendo rapina dei loro beni….
Ma non solo..
donne e bambini furono lasciati senza cibo e senza averi. L’espulsione fu
totale.. lo
sterminio della comunità ebraica alessandrina, la più numerosa
della diaspora, che esisteva da più
di 700 anni, fu la “prima soluzione finale”
della storia della chiesa.
Gli ebrei che dal tempo di Alessandro il Macedone abitavano
Alessandria dovettero emigrare,
spogliati dei loro beni e si dispersero…
Oreste, com’era nei suoi poteri si rivolse all’imperatore e
rifiutò i tentativi di accomodamento del
vescovo alessandrino perché la
soluzione del problema era svanita nel nulla…. la città era stata
svuotata .
La “Biblioteca dei Padri della Chiesa” (1935) riporta che “è possibile che il comportamento di
Cirillo
non sia stato propriamente riguardoso o del tutto privo di violenza”.
Cacciati gli ebrei, Cirillo cercò di affrontare la seconda
soluzione finale…. rendere inoffensivo
Oreste o meglio… eliminarlo anche con
sicari….i parabolani.
Giovanni di Nikiu riferì come Oreste fosse un cristiano anche se
“aveva smesso di andare in
chiesa,
com’era in precedenza sua abitudine”..
Ormai in città era presente uno scontro giurisdizionale tra
il prefetto e il vescovo e dai monti
della Nitria scesero in città, a sostegno di “Cirillo” un gran numero di monaci detti “parabolani”.
della Nitria scesero in città, a sostegno di “Cirillo” un gran numero di monaci detti “parabolani”.
Monaci alquanto strani… in quanto membri di una setta che nella
Chiesa delle origini si
dedicavano sotto giuramento alla cura dei malati, specie gli appestati, e alla sepoltura dei morti,
sperando così di morire per Cristo….. bello ideale ma solo in teoria…..
dedicavano sotto giuramento alla cura dei malati, specie gli appestati, e alla sepoltura dei morti,
sperando così di morire per Cristo….. bello ideale ma solo in teoria…..
Quindi formalmente potrebbero essere indicati come degli
infermieri ma nella realtà «di fatto
costituivano un vero e proprio corpo di polizia che i vescovi di Alessandria usavano per
mantenere nelle città il loro ordine”.
costituivano un vero e proprio corpo di polizia che i vescovi di Alessandria usavano per
mantenere nelle città il loro ordine”.
“Usciti
in numero di circa cinquecento dai monasteri e raggiunta la città, si
appostarono per
sorprendere il prefetto mentre passava sul carro. Accostatisi a lui, lo chiamavano sacrificatore
ed elleno, e gli gridavano conto molti altri insulti. Egli allora, sospettando un’insidia da parte di
Cirillo, proclamò di essere cristiano e di essere stato battezzato dal vescovo Attico. Ma i monaci
non badavano a ciò che veniva detto e uno di loro, di nome Ammonio, colpì Oreste sulla testa
con una pietra”.
sorprendere il prefetto mentre passava sul carro. Accostatisi a lui, lo chiamavano sacrificatore
ed elleno, e gli gridavano conto molti altri insulti. Egli allora, sospettando un’insidia da parte di
Cirillo, proclamò di essere cristiano e di essere stato battezzato dal vescovo Attico. Ma i monaci
non badavano a ciò che veniva detto e uno di loro, di nome Ammonio, colpì Oreste sulla testa
con una pietra”.
I cittadini di Alessandria accorsero in aiuto del prefetto
riuscendo a disperdere i vili monaci
parabolani, senza il loro intervento
probabilmente il prefetto sarebbe stato ucciso. Ammonio fu
catturato e condotto
in prefettura al cospetto di Oreste.
«Questi,
rispondendo alla sua provocazione pubblicamente con un processo secondo le
leggi,
spinse a tal punto la tortura da farlo morire. Non molto tempo dopo rese
noti questi fatti ai
governanti. Ma Cirillo fece pervenire all'imperatore la
versione opposta».
Il vile Cirillo organizzò dei sontuosi funerali … fece collocare
la salma di Ammonio in una
chiesa e gli cambiò il nome in “Thaumasios”
(“ammirevole”)…. lo elevò al rango di martire…
come se fosse morto per
difendere la sua fede…… molti fonti citano che addirittura non fosse
nemmeno
cristiano... la chiesa ebbe un altro assassino come martire…Sant’Ammonio che sa
tanto di veleno…..
«Ma
chi aveva senno, anche se cristiano, non approvò l'intrigo di Cirillo. Sapeva,
infatti, che
Ammonio era stato punito per la sua temerarietà e non era morto
sotto le torture percostringerlo
a negare Cristo». Infatti, lo stesso
Cirillo «si adoperò per far dimenticare al più presto
l'accaduto con il
silenzio». Fu quindi costretto a
modificare i suoi piani….
Un
vero folle… questo Cirillo… il 3 febbraio portò la sua truppa d’assalto di
parabolani, che era
stata ridotta da una precisa disposizione imperiale del 5 ottobre da 500 unità a 416, a ben 600
unità.
Ipazia
Il contesto storico in cui sta per concludersi la vita di Ipazia
era ormai contraddistinto dal
conflitto tra il prefetto Oreste e Cirillo. Gli
storici cristiani non mancano e accusano Ipazia, non
si sa come, di essere
addirittura la causa del conflitto tra i due personaggi… Ipazia sarebbe
quindi stata diffamata e accusata con calunnia dai cristiani…
Il
prefetto Oreste accettava “ gli intenti dei discepoli di Ipazia” e criticava il comportamento
del vescovo
Cirillo che considerava Ipazia “un
affronto”.. ma Oreste aggiunse anche che
provava un certo timore perché “conosceva bene gli uomini che si agitano
con il nome di
cristiani e li teme”.
Lo
storico romano Ammiano Marcellino (Antiochia di Siria, 330 – Roma, 400 circa)
ricordò da
pagano e senza animosità, da storico, la “setta” dei cristiani
appena uscita dalle persecuzioni….
“Non
ci sono belve tanto infeste agli uomini da essere più dei cristiani addirittura
esiziali a se
stessi” (Res Gestae, XXII, cap. 5 par. 4 - N]ullas infestas
hominibus bestias, ut sunt sibi ferales
plerique Christianorum expertus.
Socrate
Scolastico, come detto “Storico della Chiesa” affermò che Ipazia «s'incontrava alquanto
di frequente con Oreste,
l'invidia mise in giro una calunnia su di lei presso il popolo della chiesa,
e
cioè che fosse lei a non permettere che Oreste si riconciliasse con il
vescovo».!!!!!!!!!!!!!!!!!!
La
filosofa pagana faceva di tutto per impedire che il prefetto Oreste si
rappacificasse con il
vescovo e in che modo ? Facendo la magia .. I sostenitori di Cirillo, credevano in questa
accusa ingiustificata,
perché l’imputazione di magia comportava la pena di morte per il codice di
Teodosio I. La persecuzione religiosa contro i pagani era quasi sempre mascherata
dal crimine di
magia dove il popolino era convinto di farsi giustizia da solo.
Lo stesso Socrate Scolastico affermò che “Ftonos personificato si levò in armi contro
di
lei…”.Ftonos era il demone dell’invidia e della gelosia che genera la sofferenza fatta nascere non
solo dall’errore umano quanto piuttosto da un sovrapporsi di questo con l’invidia degli dei
che scombina ogni progetto deliberato.
lei…”.Ftonos era il demone dell’invidia e della gelosia che genera la sofferenza fatta nascere non
solo dall’errore umano quanto piuttosto da un sovrapporsi di questo con l’invidia degli dei
che scombina ogni progetto deliberato.
E poi non poteva mancare anche la cronaca di Giovanni
… per fortuna non il Santo ma Giovanni
di Nikiu, un vescovo copto molto attivo
ad Alessandria nel VII secolo secondo cui Ipazia era
……”una strega”…….!!!!!!!!!!!!!!!! Una versione di cui molti cattolici
ancora oggi sono
convinti.
«In
quei giorni apparve in Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata
Ipazia, che si
dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti
di musica e che ingannò molte
persone con stratagemmi satanici. Il governatore
della città l'onorò esageratamente perché lei
l'aveva sedotto con le sue arti
magiche. Il governatore cessò di frequentare la chiesa come era
stato suo
costume. Ad eccezione di una volta in circostanze pericolose. E non solo fece
questo,
ma attrasse molti credenti a lei, ed egli stesso ricevette gli
increduli in casa sua».
Marzo dell’anno 415, si festeggiava la quaresima…. «un gruppo di cristiani «dall'animo
surriscaldato,
guidati da un predicatore di nome Pietro il Lettore, si misero d'accordo e si
appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù
dal carro, la
trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario;
qui, strappatale la veste, la
uccisero usando dei cocci aguzzi di conchiglie. Dopo
che l'ebbero fatta a pezzi membro a
membro, trasportati i brandelli del suo
corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia
bruciandoli. Questo
procurò non poco biasimo a Cirillo e alla chiesa di Alessandria. Infatti
stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che
meditano le parole di
Cristo”. (Socrate Scolastico, VII,15).
«Poi una
moltitudine di credenti in Dio si radunò sotto la guida di Pietro il
magistrato, un
credente in Gesù Cristo perfetto sotto tutti gli aspetti, e si
misero alla ricerca della donna
pagana che aveva ingannato le persone della
città ed il prefetto con i suoi incantesimi. Quando
trovarono il luogo dove
era, si diressero verso di lei e la trovarono seduta su un'alta sedia.
Avendola
fatta scendere, la trascinarono e la portarono nella grande chiesa chiamata
Caesarion.
Questo accadde nei giorni del digiuno. Poi le lacerarono i vestiti e
la trascinarono attraverso le
strade della città finché lei morì. E la
portarono in un luogo chiamato Cinaron, e bruciarono il
suo corpo. E tutte le
persone circondarono il patriarca Cirillo e lo chiamarono 'il nuovo Teofilo'
perché aveva distrutto gli ultimi resti dell'idolatria nella città.» (Giovanni
di Nikiu..Cronaca)
Un’altra
versione ci fu lasciata dal filosofo pagano Damascio che si recò ad Alessandria
d’Egitto
nel 485 circa settant’anni dopo l’eccidio. Rilevò che nella città era
ancora “vivo e denso di affetto
il
ricordo dell’antica maestra nella mente e nelle parole degli alessandrini”,
Il
filosofo entrò a fare parte della scuola di Atene e scrisse una biografia su
Ipazia raccontando
anche la sua morte. Sostenne la responsabilità di Cirillo
nell’omicidio e in modo più esplicito
rispetto a Socrate Scolastico che era un
cattolico…: accadde che il vescovo,
vedendo la gran
quantità di persone che frequentava la casa di Ipazia, «si rose
a tal punto nell'anima che tramò
la sua uccisione, in modo che avvenisse il più
presto possibile, un'uccisione che fu tra tutte la più
empia».
“Così accadde che
un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione, passò presso la casa di
Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua
porta. Alcuni stavano
arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando
lui chiese perché c’era là una tale folla
ed il motivo di tutto il clamore, gli
fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il
filosofo e che
lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla
invidia
che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma
più atroce di assassinio
che potesse immaginare”.
Anche
Damascio rievoca la brutalità dell'omicidio:
«una massa enorme di uomini brutali,
veramente malvagi [...] uccise la filosofa
[...] e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli
occhi».
“Un giorno che Ipazia come suo solito tornava a casa da una delle sue
pubbliche apparizioni, le
piombò improvvisamente addosso una moltitudine di
uomini imbestialiti. Questi veri sciagurati,
incuranti della vendetta dei numi e degli
umani, massacrarono la filosofa. E mentre ancora
respirava un po’
le cavarono gli occhi. Fu una macchia enorme, un abominio per la loro città. E
l’ira dell’imperatore si sarebbe abbattuta violentissima su di loro, se Edesio
non fosse stato
corrotto, così da sottrarre i macellai alla loro pena”.
La morte di Ipazia (C.W.
Mitchell, 1885)
Filostorgio,
contemporaneo agli avvenimenti, affermò..”la
donna fu fatta a brandelli per mano di
quanti professavano la consustanzialità” e
quanti professavano la consustanzialità” e
Giovanni
Malala…”avuta licenza dal loro vescovo,
gli alessandrini massacrarono e bruciarono
Ipazia”..un avvocato cristiano contemporaneo, vicino alla Corte di Costantinopoli, che era
disturbato e disgustato dalla chiesa di Cirillo.
Ipazia”..un avvocato cristiano contemporaneo, vicino alla Corte di Costantinopoli, che era
disturbato e disgustato dalla chiesa di Cirillo.
Perché
la casa di Ipazia era così frequentata da gente ?
Probabilmente
Ipazia nella propria abitazione svolgeva culti misterici neoplatonici che erano
parte integrante del suo ricco insegnamento. La filosofia neoplatonica si basava
sull’insegnamento pubblico
(demosia) e anche riunioni private (idia) dove si realizzava una
dimensione
esoterica. Nelle sue riunioni Ipazia avrebbe offerto uno spazio all’elitè
pagana della
città.
In
definitiva l’omicidio di Ipazia era un esplicito avvertimento ai pagani , che
ancora occupavano
alcuni posti importanti nell’amministrazione della città, e
che tentavano di mantenere in vita la
cultura ellenica…. Un avvertimento di
tipo mafioso … e Cirillo era l’esponente di quella frangia
mafiosa..
Dopo
l’uccisione di Ipazia fu aperta un’inchiesta .
A
Costantinopoli regnava Elia Pulcheria, sorella del minorenne (12 anni) Teodosio
II (408 – 450)
e che era vicina alle posizioni del vescovo Cirillo e come il
vescovo fu anch’essa dichiara Santa
dalla Chiesa. (Elia Pulcheria era una
cristiana devota e aveva fatto voto di castità).
Il
caso fu archiviato… e non poteva essere altrimenti… a seguito della corruzione
di alcuni
funzionati imperiali.
Lo
stesso Socrate Scolastico obiettivamente affermò che la Corte imperiale fu
corresponsabile
della morte di Ipazia. Non intervenne malgrado le continue
sollecitazioni del prefetto Oreste che
cercavano di porre fine ai disordini
precedenti l’omicidio.
L’indignazione
del prefetto Oreste riuscì ad ottenere solo l’ira dell’imperatore, il dodicenne
Teodosio II, che colpì “violentissima”
gli assassini. per il resto, come già detto,
gli assassini
restarono liberi sia perché protetti dal vescovo Cirillo
sia perchè favoriti dalla corruzione di
Edesio e dalla devozione di Pulcheria
per lo stesso vescovo.
.
Cirillo
non scontò quindi alcuna pena per l’uccisione di Ipazia mentre il suo
monofisismo,
l’eresia basata sulle sue dottrine, venne condannato a Calcedonia
nel 451.
La
storia se ha assolto il vescovo sul piano giudiziario, non l’ha fatto su piano
politico e
soprattutto morale perché Ipazia fu elevata a una delle donne più
eminenti di tutti i tempi…
Ma
chi erano i parabolani che portarono a
compimento l’orrendo sacrificio di Ipazia ?
Era
un corpo di barellieri ed infermieri che in realtà costituivano la guardia
privata di Cirillo. Si
definivano cristiani ma non avevano né ordini, né voti
ma erano elencati nel clero e godevano
quindi dei privilegi e delle immunità
del clero.
La
loro presenza nei luoghi pubblici e nei teatri era vietata dalla legge. Spesso
manifestarono un
ruolo attivo nelle controversie ecclesiastiche come nel
Concilio di Efeso dove bastonarono
diversi vescovi che avrebbero potuto opporsi
al loro vescovo.
Ai
parabolani sono riferite due leggi imperiali del 416 e del 418 e furono accennati negli atti del
Concilio di
Calcedonia dove erano presenti accanto al vescovo Dioscuro Patriarca di
Alessandria.
Un
fugace accenno contenuto in un papiro egiziano del’ 600 come “gruppo
collettivo”. Le
citazioni, piuttosto
rare, non riportano alcun nome di
parabolano.
La
legge del 416, scritta in seguito alle lamentele avanzate da un gruppo di
alessandrini, cita lo
stato intimidatorio e le violenze esercitate dai
parabolani. La legge del 418 fu decisamente
restrittiva nei confronti dei
parabolani. Il loro numero venne limitato a 500, non potevano essere
presenti a
eventi pubblici e venivano di fatto commissariati al magistrato imperiale, cioè
al
prefetto augustale
Eunapio..
sui parabolani….”ma non erano neppure uomini,
se non in apparenza perché facevano
la vita dei porci e compivano apertamente e
assecondavano crimini innumerevoli e
innominabili”.
(Sono i partigiani
del Vescovo di Alessandria il quale ben sa, perché in gioventù faceva parte di
questa setta di monaci, che basta lasciarli sfogare)
Quando Cirillo morì, tutto l’Egitto tirò un sospiro di sollievo.
Un sospiro di sollievo che fu
testimoniato da una lettera, forse apocrifa,
inviata al padre della chiesa Teodoreto di Cirro
(Antiochia di Siria, 393 – Cirro
(Turchia) 457: vescovo sirio e fu considerato l’ultimo grande
teologo cristiano
della Scuola di Antiochia. Amico di Nestorio, pur non condividendo le sue
dottrine, e avversario di Cirillo d’Alessandria): “Finalmente, finalmente è morto
quest’uomo
terribile. Il suo congedo rallegra i sopravvissuti ma sicuramente
affliggerà i morti”.
Nel Concilio di Costantinopoli II del
553 d.C., il papa Vigilio non era presente (era stato messo a
domicilio coatto
e poi scomunicato, alla fine lasciato a Roma). Al suo posto Eustichio
presiedette
il sinodo e decretò: “Cirillo che è tra i santi, quello che ha
predicato la retta fede dei cristiani”.
Nel 1882 il terribile Cirillo
vescovo, fu proclamato Santo e Dottore della Chiesa, “dottore
dell’Incarnazione” da Papa Leone XIII e lo riaffermò, a più di un secolo di
distanza, Joseph
Ratzinger..”seguendo le
tracce dei Padri della Chiesa, incontriamo una grande figura: San
Cirillo di
Alessandria…. Fu più tardi definito custode dell’esattezza – da intendersi come
custode della vera fede – e addirittura sigillo dei Padri” (Benedetto XVI,
Udienza Generale
Piazza San Pietro – Mercoledì 3 ottobre 2007).
Il cattolicesimo lo ha proclamato
Dottore della Chiesa solo a oltre un millennio di distanza e da
parte di un
papa che non brillava certo per tolleranza e carità, seguito da un altro
pontefice a noi
più vicino, Benedetto XVI che è un grande teologo, e che probabilmente conosceva di Cirillo
solo
gli scritti dottrinali e non la sua vita violenta e ricca di soprusi e
angherie.
Il Ricrodo di Ipazia negli storici e letterali
Ipazia
venne ricordata anche nei secoli successivi da grandi storici e letterati..
tranne che nei libri
di storia…..
Voltaire sottolineò come la sua morte fu “un eccesso di fanatismo”..
L’Italiano
Vincenzo Monti la ricorderà nei suoi versi..
La voce alzate, o secoli caduti
Gridi l’Africa all’Asia e l’innocente,
Ombra d’Ipazia il grido orrendo aiuti”
L’irlandese
John Toland nel 1720 ..”Ipazia, la storia
di una Dama assai bella, assai virtuosa,
assai istruita e perfetta sotto ogni
riguardo, che venne fatta a pezzi dal Clero d’Alessandria per
compiacere
l’Orgoglio, l’Emulazione e la Crudeltà del loro Vescovo, comunemente ma
immeritatamente denominato Santo Cirillo”.
I
protestanti nel Settecento ricordarono anche loro la filosofa. Gibbon nel
“Decline and Fall”
criticò il vescovo di Alessandria..”Ipazia fu disumanamente macellata dalle nudi mani di Pietro
il Lettore
e da quelle di una ciurma di selvaggi e implacabili fanatici… ma l’assassino di
Ipazia
impresse un marchio indelebile sul carattere della religione di Cirillo
d’Alessandria”.
Con
la Controriforma cattolica si cercò, naturalmente, di mostrare gli eventi in
maniera
decisamente diversa… non poteva essere altrimenti.. mettendo in
discussione l’attendibilità delle
fonti… tante e anche di cattolici e che “Cirillo
si deve ritenere pienamente di ogni colpa
giustificato da ogni buon credente
per essere stato fatto santo dalla chiesa”.
La
marchesa Diodata Saluzzo Roero, membro dell’Accademia Torinese delle Scienze e
dell’Arcadia, nel 1827 presentò Ipazia come martire cristiana..
“ Languida rosa sul reciso stelo.
Nel sangue immersa la vergin giace
Avvolta a mezzo nel suo bianco velo
Soavissimamente sorridea
Condonatrice de l’altrui delitto
Mentre il gran segno redentor stringea”
Lo studioso Karl Heinrich Johannes
Geffcken, (Berlino, 1861- Rostock, 1935: filologo classico
tedesco), malgrado
la sua imparzialità e la vana ricerca degli aspetti del bene, per Cirillo priva
soltanto ribrezzo..”fanatismo senza vera, brillante passione,
erudizione senza profondità, zelo
senza una vera e propria fede, grossolana
litigiosità senza esercizio dialettico e infine nessuna
sincerità nella
lotta..”
Mario Luzi le ha
dedicato un poemetto drammatico ”Il libro di Ipazia” (1978)
e lì la finirono.
Lì agonizzò sul pavimento del tempio.
le stracciarono le vesti e le carni, la spinsero nella chiesa di Cristo,
Ebbene, parlava nell’agorà a molta gente.
E poi fecero a brani quelle membra
Parlava di Dio presente e l’ascoltavano in silenzio, con stupore, seguaci e avversari.
Lì agonizzò sul pavimento del tempio.
le stracciarono le vesti e le carni, la spinsero nella chiesa di Cristo,
Ebbene, parlava nell’agorà a molta gente.
E poi fecero a brani quelle membra
Parlava di Dio presente e l’ascoltavano in silenzio, con stupore, seguaci e avversari.
Ma irruppe un’orda fanatica, mani e mani le
s’avventarono contro le stracciarono le vesti e le carni, la spinsero nella
chiesa di Cristo, e lì la finirono.
Lì agonizzò sul pavimento del tempio. E poi fecero a brani quelle membra
Questa la sorte della prima donna scienziata della
storia che preferì, come donna, all’essere sposa
e madre, rimanere “sposa della
verità”.
Un figura a cui i libri di filosofia dedicano solo
poche righe… in un silenzio che fa riflettere…
Un fatto drammatico, storico,
realmente accaduto che supera i secoli ed il tempo per parlare ai
contemporanei
sulla diversità… sull’integrazione…sul rispetto. Un avvenimento che non era
finito con l’essere
accaduto perché immesso nella continua vita del mondo.
Un mondo, quello di Ipazia, in cui la forza della
ragione si sgretola davanti alle sacre scritture.
Per lei non c’è più posto con
il suo sapere perché accusata di empietà per le sue teorie
astronomiche che
contraddicono i dogmi dei libri sacri. Non piega la sua libertà di pensare e
dubitare alle credenze imposte proprio dai dogmi dei libri sacri ed è anche una
donna in grado di
insegnare la saggezza dell’agire politico agli uomini.
Una donna che Raffaello ritrasse nel suo bellissimo
dipinto la “Scuola di Atene” tra i filosofi
della storia anche se la critica
non è concorde, non poteva essere altrimenti essendo una donna, e
che si trova
per ironia della sorte nel cuore del Vaticano.
A fianco di Parmenide c’è una figura
dai tratti quasi angelici, con un drappeggio banco e con lo sguardo
rivolto verso lo spettatore. Questa
figura ha una sua identificazione che è
alquanto controversa.
L’ipotesi più accettata riguarda l’identificazione del personaggio con
Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e nipote del papa Giulio II.
All’epoca del dipinto il duca si trovava a Roma e probabilmente il
Raffaello in quel periodo era ai
suoi servigi forse per la commissione di alcuni dipinti.
Il quadro fu forse commissionato dal duca ?
Per il critico d’arte Giovanni Reale la figura dovrebbe essere identificata
con l’efebo greco cioè
il concetto della “bellezza/bontà” la Kalokagathia
(nella cultura greca del V secolo a.C.
rappresentava l’ideale di perfezione fisica e morale dell’individuo).
Per i critici d’arte l’identificazione della figura con Ipazia, (matematica
e filosofa del IV –V secolo a.C.)
Non è accompagnata da nessuna fonte o saggio critico attendibile. Tuttavia
negli ultimi anni
più volte è stata presa in considerazione la possibile identificazione
della figura del quadro con Ipazia.
Teneva
lezioni di filosofia ed ebbe il grande merito di fare rivivere la filosofia
nelle strade,
insegnandola a chiunque lo desiderassero. L’amore con cui
condivideva il suo sapere le creò tra
la gente una grande ammirazione e anche
le massime cariche politiche la ritennero saggia e
degna di essere ascoltata.
Insegnava
a pensare perchà la filosofia è figlia
della realtà del mondo… Damascio diceva che
“la
donna, gettatosi addosso il mantello e facendo le sue uscite in mezzo alla
città, spiegava
pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele
o le opere di qualsiasi altro
filosofo”.
Proprio
per la sua cultura e per il suo desiderio di comunicazione, godeva di una
posizione
sociale che era inusuale nel mondo greco. La sua libertà di parola e
di pensiero la poneva in
modo sapiente davanti alle autorità e alla comunità e
per lei non era motivo di vergogna, dati i
tempi, stare in mezzo a uomini di
cui godeva il massimo rispetto.
Grazie
ai cristiani del suo corpo martoriato non rimase nulla nemmeno un iscrizione
sepolcrale a
ricordarla.
Nella
cultura greca la sepoltura era sacra.
Antigone eroina della tragedia di Sofocle diede la sua
vita in cambio di un
onorata sepoltura al fratello Polinice; Achille concesse una tregua ai Troiani
per seppellire il loro eroe Ettore morto valorosamente in battaglia…
Ipazia
voce della ragione.. nemica di ogni dogmatismo dove per lei era un continuo
dubitare si sé
e della vita come continua ricerca della verità delle cose.
L’anima stessa è per natura inquieta,
non può stare in pace, scalpita proprio
come i cavalli della biga di Platone. ..una bellissima
metafora per indicare il
cammino dell’anima umana verso la conoscenza.
La
filosofia deriva da “phileo” che significa amare.. lo stesso amore che Ipazia
comunicava ai
suoi discepoli, a
prescindere dalle loro religioni. Le sue lezioni erano aperte a tutti,
pagani e
cristiani. Uno dei suoi allievi, Sinesio, che ha tramandato importanti
testimonianze sulla filosofa,
diventò in seguito vescovo di Cirene.
Ipazia
e Sinesio furono legati da una vera e profonda amicizia come si evince
dall’Epistolario di
Sinesio. Un epistolario costituito da 156 lettere e in
particolare dalle missive (LXXIV, LXXXI,
CXLV, CXLVI, CXLVII, Cl, CLI) che
furono indirizzate ad Ipazia definita “
maestra di
filosofia”.
Da
queste lettere emerge in modo chiaro l’ammirazione al limite della venerazione
che il
vescovo di Cirene nutriva per la filosofa e i toni di racconto misti a
tenerezza affettuosa con la
quale a lei si rivolgeva ….”tra i beni che non possono essere tolti io conto te, con la
virtù”(CLI)
…”Se nell’erebo affonda in oblio dei morti la vita io però laggiù
potrò ricordarmi almeno della
cara Ipazia”(CXLV)….”Ora tra i mali che mi sono
toccati, privo dei figli, gli amici…. Sono
privo anche della tua divinissima
anima, la sola cosa che avevo sperato mi rimanesse per
sopportare i capricci
della sorte e i raggiri del fato..”(CXLVII).
Sinesio, miniatura
Sinesio eletto vescovo di Tolemaide, città della
Cirenaica, con capitale Cirene, visse un profondo
disagio culturale nel
passaggio dal neoplatonismo di Plotino,
seguito da Ipazia, al cristianesimo
dopo l’editto di Milano. Studioso di
scienza, matematica e anche d’alchimia, aveva aderito alle
idee di Plotino
facendole la base della sua religione.
Una
dottrina con un forte desiderio di Dio, un percorso graduale verso la
contemplazione e
l’estasi, che doveva svolgersi in un progressivo distacco
dalla materia. Un ripercorrere in salita il
cammino che l’anima ha compiuto
quando fu colpita dalla materialità della terra assorbendone i
vizi e i
difetti. Il neoplatonismo non conosceva l'umiltà, la povertà e la carità del
vero cristiano e
Sinesio si rendeva conto di i concetti del cristianesimo non
erano suoi.
Infatti
in una lettera inviata al fratello, nel 410 anno della sua elezione, si
dichiarava
completamente incapace di adeguarsi e quindi di seguire, la santità
del ministero. Tra gli ostacoli,
che elenca nella lettera, riconosce una certa pigrizia, l’amore per la
moglie, l’inclinazione per il
raccoglimento e lo studio, l’affetto per i
cavalli e i suoi amatissimi cani. Una vera
e forte
confessione di un uomo di fronte all’incapacità morale di accettare
elementi di carattere
dottrinario:
“chiamato all’episcopato non fingerò di credere in dogmi in cui non credo…”.
Avrebbe
potuto rifiutare la carica ? forse…. Era nato nel 370 d.C. da una ricca
famiglia di Cirene
e apparteneva alla
classe dei “Curiales” cioè una carica obbligatoria ed ereditaria. Una carica
che
era riconosciuta dal Codice Teodosiano in ben 117 decreti e ne formulava i
doveri e il divieto di
rifiutare la carica. Era un vero amministratore non
retribuito che doveva provvedere spesso, con
le proprie risorse finanziarie,
alla manutenzione delle opere pubbliche, all’esazione delle
imposte, alla
giustizia ed alla difesa. E proprio nella difesa dell’area più fertile dell’Africa,
di
antica cultura greca, e formata da cinque grandi città (Pentapoli). Sinesio
diede una grande prova
di coraggio ed autorità. Il territorio era infestato da
continui attacchi di nomadi provenienti
dall’interno (Berberi ?) che colpivano
con frequenti attacchi le città e i villaggi. Devastavano le
proprietà,
catturavano donne e bambini…”non li
chiamerei neppure nemici ma ladroni, banditi e,
se esiste, userei un termine
ancor più abbietto” scriveva al
fratello.
(Alcune
lettere di Sant’Agostino trovate casualmente nella Bibliotheque Nationale di
Parigi,
rilevano la sollecitudine del Santo e vescovo d’Ippona per quegli
sventurati che, “catturati e
rinchiusi
nella stiva delle navi, rischiavano d’esser venduti schiavi nei mercati
d’oltremare, nella
totale impotenza della polizia imperiale”.
“Tutta la
provincia, à avviluppata dai barbari come da una rete… are e sepolcri sono
violati,
chiese distrutte, altari usati per la mensa, vaselammi sacri per usi
demoniaci…” (Sinesio,
Operetta “Catastasis”).
In
vari passi del suo Epistolario Sinesio
la indica con i termini di “maestra di
filosofia”, “beata
signora”, “Madre, sorella e maestra” e nel suo ultimo
dialogo… “Per te.. che mi sei più cara
degli occhi”.
Nella
lettera CXLIX indirizzata ad Asclepio, Sinesio descrive Ipazia nel pieno della
sua lezione,
descrivendola con un aspetto di luminosità.. ”in quelle occasioni l’aspetto di lei, sempre grave e
verecondo, appare
come trasfigurato, non altrimenti che una viva luce dall’alto la illuminasse
sul viso dinanzi ai nostri occhi” e la definisce, ancora una volta, “guida dei sacerdoti di
filosofia”.
I
suoi discepoli “la vedono quasi fosse ad
immediato contatto con qualcosa di misterioso e di
soprannaturale e la ammirano
muti ed incantati”
Sinesio,
l’attento alunno di Ipazia e Vescovo di Cirene, morì nel 413 d.C., due anni
prima di
Ipazia, non vide quindi la tragica fine della sua “maestra di vita” e
l’ultima sua lettera…Detto
questa lettera
dal letto dove giaccio… possa tu riceverla in buona salute, madre, sorella,
maestra… la mia debolezza dipende da ragioni psichiche.. il ricordo dei figli
che non sono più
mi consuma….”
Tutto
era crollato intorno a lui… l’Europa invasa, il suo paese, la Libia, devastato…”respiro
un’aria inquinata dalla
putrefazione dei cadaveri… il cielo è coperto dalla fosca ombra degli
uccelli
da preda; eppure, anche in questo stato, amo la mia patria. E che altro protei,
Libico
quale sono, nato qui, avendo sotto gli occhi le tombe dei miei antenati
?”
Forse
negli ultimi istanti, nella città di Ippona assediata, ripetè dentro di sé le parole del filosofo
Plotino. Parole che avevano pronunciato Ipazia e da Sant’Agostino, quando si
trovava nella sua
città di Ippona assediata,..”il saggio non si sgomenta se cadono colonne e travi; poiché la Ciità
non è fatta di mura, è fatta di cittadini…”.
Nessuno, esluso Sinesio, dopo la morte di Ipazia si dichiarerà suo allievo. Il discepolo Paulisa
fuggirà in India portandovi le ultime scoperte di trigonometria e astronomia.
Le cause affondavano nella paura… comunicare le idee di Ipazia significava scontrarsi con
Cirillo, dottore e santo della Chiesa perché temeva che gli insegnamenti di una donna così
sapiente potessero turbare l’equilibrio della neonata religione dell’impero. Un equilibrio costruito
sul dominio, sulla violenza e sull’imposizione… e fu così che i suoi alunni rimasero in silenzio
per quasi trent’anni.
Uccisa nel corpo e nel pensiero, di lei purtroppo non rimase nulla.. gli storici Socrate Scolastico e
Filostorgio, sfidando le vecchie autorità religiose ancora in carica, responsabili del suo
assassinio, scrissero di lei dopo quasi vent’anni dalla sua morte … ed è grazie a loro che oggi è
possibile ancora ricordarla.
Il suo assassinio deve fare riflettere su tematiche attuali e scomode, quali la tolleranza,
l’accoglienza del diverso, il rispetto della libertà di pensiero, di credo religioso e di parola, in
opposizione alla violenza ideologica e religiosa, contro l’imposizione di un pensiero unico di
qualsiasi tipo o provenienza.
Ipazia martire della ragione….dopo di lei toccherà a Giovanna d’Arco e alle streghe guaritrici.
Nel Canton Ticino Carlo Borromeo presenziò, tra il 1565 e il 1583, a processi ed esecuzioni
sommaria di centinaia di “fattucchiere”,,, sarà poi la volta dei protestanti che manderanno sul
rogo nel 1589 a Quedlinburg ben 133 “streghe” e altre 300 a Ellwaangen….
Pallada, detto il
Meteoro, poeta e grammatico greco antico, vissuto tra la seconda metà del IV secolo e l’inizio del V secolo, ad Alessandria d’Egitto scrisse una poesia
dedicata ad Ipazia
(Pallada,
Antologia Palatina, IX, 400);
Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue
parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il cielo è rivolto
ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura
---------------------
Non mancheranno racconti…
Ci sarà chi rappresenta al meglio la scena del delitto
di Ipazia
e farà scempio di lei una seconda volta…
IL PENSIERO FILOSOFICO
Come
abbiamo visto furono la matematica, l’astronomia e la filosofia gli ambiti di
studio di
Ipazia. Le uniche testimonianze di studio ci furono lasciati dal suo
allievo Sinesio.
Ipazia
portò, grazie alle sue conoscenze scientifiche, dei miglioramenti a degli
strumenti
importanti nella ricerca scientifica:
-
L’astrolabio
piatto: la sua invenzione fu attribuita a Ipparco di Nicea (II secolo a.C.),
uno dei massimi astronomi della storia. Contribuì allo sviluppo della teoria
degli epicicli e, conoscendo il principio della proiezione
stereografica, realizzò l’importante strumento. Adoperando questa particolare proiezione riuscì a
costruire l’orologio anaforico cioè un dispositivo che indicava l’ora e le
posizioni degli astri rispetto a una rete di coordinate. Claudio Tolomeo era a
conoscenza della proiezione stereografica e nel suo Planisfero ne espose
l’applicazione in uno “strumento oroscopico” munito di una rete, c forse un
vero e proprio astrolabio piano. Dalla Grecia l’astrolabio piano si diffuse ad
Alessandria d’Egitto grazie all’opera del matematico Teone, padre di Ipazia, e
fu la stessa Ipazia che lo migliorò con le sue conoscenze matematiche. Si
tratta quindi di un antico strumento con il quale è possibile localizzare o
calcolare la posizione dei corpi celesti come il Sole, la Luna, i pianeti e le
stelle. L’astrolabio che fu progettato o migliorato da Ipazia, era formato da
due dischi metallici forati, ruotanti l’uno sopra l’altro mediante un perno
rimovibile. Veniva utilizzato per calcolare il tempo, per definire la posizione
del Sole, delle stelle e dei pianeti, sembra che mediante questo strumento
Ipazia sia riuscita a risolvere alcuni problemi di astronomia sferica.
Lamina di un
astrolabio di al-Andalus del secolo XI
Museo Archeologico di Spagna - Madrid
-
Aerometro:
storicamente la prima menzione dell’aerometro è collegata proprio alla figura
di Ipazia: Sinesio di Cirene scrisse infatti verso il 400 d.C. alla sua maestra
per chiederle spiegazioni circa la costruzione di un aerometro. Come indica
l’etimologia della parola stessa, si tratta di uno strumento che serve per
determinare i gradi della rarefazione o della condensazione di un dato volume d’aria.
-
Idroscopio:
si presenta come un tubo cilindrico avente la forma e la dimensione di un
flauto. In linea perpendicolare presenta degli intagli, attraverso i quali si
può misurare il peso dei liquidi. Da una delle estremità è otturato da un cono
fissato strettamente al tubo, in modo che sia unica la base di entrambi. È
questo il cosiddetto barillio. Quando s’immerge il tubo nell’acqua, esso rimane
eretto e si ha in tal modo la possibilità di contare gli intagli, i quali danno
l’indicazione del peso.
La
ricostruzione del pensiero filosofico di Ipazia non è facile dato che mancano
opere autografe e
gli unici riferimento sono legati alle lettere del suo
allievo Sinesio e alle citazioni di altri storici.
Socrate
Scolastico citò che Ipazia “«era giunta a tanta cultura da superare di molto tutti
i filosofi
del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita
da Plotino”.
Scuola
Platonica o Neoplatonismo è un termine con cui s’indicano le
dottrine che si
svilupparono tra III ed il IV secolo e la cui nascita venne
identificata con la figura di Plotino
(Licopili, 203 /205; Campania, 270)
che proprio ad Alessandria d’Egitto elaborò la sua filosofia.
La sua filosofia si può riassumere schematicamente in questi
punti:
-
L'intero
cosmo deriva la sua esistenza da un principio primo ineffabile, totalmente
trascendente e buono, chiamato da Plotino "Uno”;
-
La
potenza infinita dell'Uno genera l'universo;
-
Il
processo di emanazione avviene per natura, non meccanicamente
come quando l'uomo compone artificialmente più parti tra di loro, bensì in
maniera organica, a partire da un principio assolutamente semplice e
irriproducibile;
-
Le
anime umane sono decadute dalla loro condizione iniziale, nella quale erano
unite all'anima del tutto e assolutamente libere dai bisogni del corpo
-
Lo
scopo dell'uomo si configura perciò come un cammino di liberazione dalle
conseguenze della caduta e dai falsi bisogni che l'eccessiva attenzione per i
corpi ha imposto alle anime
La
mancanza di opere filosofiche scritte da Ipazia non permettono di stabilire
quali punti della
filosofia di Plotino furono accettati e tramandati con
l’insegnamento rivolto a tutti.
Un altro elemento che viene sottolineato dalle fonti antiche
è il pubblico insegnamento esercitato
da Ipazia verso chiunque volesse ascoltarla:
iniziato il suo percorso culturale dallo studio delle
scienze matematiche - che
sono, secondo la concezione platonica, le scienze propedeutiche alla
filosofia
- Ipazia è poi approdata alle scienze filosofiche, ossia alla «vera filosofia»,
che
raggiunge il suo culmine nella dialettica.
Era indipendente e libera e non era messa alla
berlina per il fatto di essere una donna se non da
una minoranza, anzi era
ascoltata dai potenti e pertanto temuta.
Il prestigio conquistato da Ipazia ad
Alessandria ebbe una natura eminentemente culturale, ma fu
proprio il suo
prestigio culturale a farle ottenere un enorme potere politico.
Ipazia credeva in un mondo in
continua evoluzione, retto da un ordine segreto del cielo
che solo
attraverso l’intuizione filosofica poteva essere svelato e condiviso.
Un ordine che fa da specchio
al mondo umano e che è in grado di mostrare come
il disordine della vita umana sia solo
apparente. Ipazia professa ante litteram
la teoria galileiana che annulla ogni dualismo fra cielo e
terra, sostenendo
che un unico principio regola la sfera celeste e quella umana, dove non esiste
alcuna imperfezione, ma solo una diversa perfezione. La volontà
della filosofa di cogliere il
segreto movimento degli astri, al di là di ogni
apparenza, si scontrava con la concezione di un
mondo immutabile e retto
da un ordine manifesto ed enunciato dalle sacre scritture.
Ipazia, infatti, metteva in discussione la teoria cosmologica
aristotelico-tolemaica secondo cui
la
terra è immobile e il sole si muove attorno ad essa secondo orbite
circolari. Già il filosofo
Aristarco di Samo aveva intuito che a muoversi non è
il sole ma la terra, adesso ad essere messo
a dura prova è il moto circolare.
IL CERCHIO
Ipazia aveva una profonda fede filosofica nel cerchio, figura geometrica perfetta nel mondo
greco perché
chiusa e finita. Tutto ciò che è infinito, infatti, è indeterminato e per i
greci
imperfetto, mentre tutto ciò di cui si può scorgere inizio e fine in un
continuum armonico è
simbolo di perfezione. Ma, per la prima volta, la filosofa
alessandrina, erede del pensiero
platonico, si chiede se l’imperfezione di ciò
che non è cerchio sia solo apparente. Il non essere
per Platone è solo un
essere diverso, non implica necessariamente il male. Ipazia, nel IV d. C.,
approda alla teoria, confermata in pieno Rinascimento da Keplero, che la terra
si muove intorno
al sole disegnando un’ellisse, la quale non è che un cerchio
molto speciale i cui due fuochi si
sono avvicinati a tal punto da sembrare uno
solo.
Come
l’ellisse è un’imperfezione solo apparente, anche il mondo morale e delle
credenze umane
solo in apparenza può essere regolato da un unico ideale
centro ordinatore del mondo. Più
religioni possono, infatti, convivere come
fuochi di un’unica orbita che non ha più un solo centro
ordinatore sulla base
del principio che siamo tutti uomini che aspiriamo alla felicità.
Questo
è un insegnamento il cui valore supera gli anfratti spazio-temporali del mondo
e come
fenice risorge sempre dalle sue ceneri alla ricerca di un senso di autenticità
che affonda le sue
radici nell’umanità più originaria. L’insegnamento di una
donna che osservando il mondo
imparava a guardare nella propria interiorità.
Questo è l’insegnamento di Ipazia che, guardando il
cielo e ipotizzando
possibili spiegazioni del movimento degli astri, mostrava una via, nuova e
temuta da occhi non abituati a vedere, ma familiare per occhi in grado di
cogliere la vera bellezza
che desta meraviglia.
Una
via che parla a uomini e donne di ogni tempo e luogo affinché possano orientarsi
dal cielo
alla terra, in fondo il termine rivoluzione nasce in campo
astronomico e indica il movimento che
la terra compie girando su stessa, forse
che la via da seguire sia quella di un ritorno nella propria
interiorità alla
ricerca delle ragioni su cui si fondano le nostre convinzioni e credenze? Un
ritorno
la cui grandezza e il cui valore si misurano nelle relazioni con gli
altri.
LE SIGNORE DEL CIELO
Nel
settembre 2017 a Torino, nel Palazzo della Regione in Piazza Castello, fu
dedicata una
mostra di dipinti e sculture a Tema: “Le Signore del Cielo”.
Saint-Exupery
poeticamente ipotizzava che ..”se le
Stelle sono illuminate perché ognuno un
giorno possa trovare la sua”, e la
volta celeste ha regalato in realtà destini eccezionali a queste
donne alle
prese con lavori da “maschio” in epoche non certamente favorevoli per motivi
culturali e soprattutto religiosi. Vari artisti hanno esposto le proprie opere
come i pittori Angela
Betta Casale,. Martino Bissacco, Gianfranco Cantù,
Nikolinka Nikolova e Luciana Penna che fu
la curatrice della mostra.
Una
rappresentazione di storia e di donne entrambi dimenticate… la più antica è
ambientata
intorno al 2350 a.C. e riguarda En-Hedu-Anna, figlia del re Sargon I
di Mesopotamia, che fu la
prima persona a scrivere versi, e la prima donna ad
occuparsi di scienza di cui ci sia giunta
testimonianza. Era egiziana, invece,
Aganice, che, all’incirca nel 1850 a. C., alla corte del
faraone Sesostri I,
era una sacerdotessa incaricata di calcolare le posizioni stellari.
Non
per tutte le protagoniste di questa mostra – che inaugura la decima edizione
del Festival
«Teatro e Scienza», in programma sino a novembre - la passione per
il sapere fu una croce
dolorosa. A Caroline Lucretia Herschel, anzi, la scienza
portò bene. Nata nel 1750 e morta
novantasettenne, aveva lavorato come
governante prima di affiancare il fratello William, già
scopritore del pianeta
Urano, nello studio della volta celeste. Caroline diventò tanto brava da
meritarsi uno stipendio assegnatole dal re e la medaglia d’oro della Reale
Società di Astronomia,
di cui divenne primo membro femminile. Alcune dovettero
molto lottare per coronare il sogno,
come la scozzese Mary Fairfax Somerville,
che nel ‘700 studiò di nascosto e con successo,
contro la volontà sia del padre
che del marito. O Hildegarda di Bingen, aristocratica sassone del
1098, che la
famiglia fece rinchiudere giovanissima in convento, e che studiò e preconizzò
la
struttura eliocentrica dell’Universo, secoli prima di Copernico. In altri
casi, l’incontro con la
scienza è stato casuale ma non meno folgorante, come
per la maestra scozzese Willelmina Paton
Stevens Fleming, che si trasferì in
America con il marito: quando il matrimonio finì, lei, incinta,
trovò lavoro
come domestica del direttore dell’Osservatorio di Harvard, che la incaricò, tra
l’altro, di analizzare le lastre fotografiche del cielo. Fu l’inizio di una
carriera che fruttò alla
donna la nomina di socio onorario della Royal
Astronomical Society di Londra.
Non
poteva mancare la celebre Ipazia, vittima dello scontro tra fede e ragione, con
l’aggravante
di essere donna e martirizzata… L’arista Luciana Penna ha dedicato
alla studiosa un dipinto dove
oltre al famoso vescovo, che l’accusava di
paganesimo, si intravede l’idroscopio che fu inventato
da Ipazia per rilevare i
pesi specifici. Nel quadro anche l’astrofisica più “amata dagli italiani, la
fiorentina Margherita Hack, morta nel 2013, grande scienziata e divulgatrice, oltre
che fondatrice
della rivista “l’Astronomia”.
Luciana Penna –
“Le Signore del Cielo : Ipazia “
Luciana Penna –
“Le Signore del Cielo : Margherita Hack
Torino
- Centro Internazionale Ipazia Unesco (IpUC) Donne e Scienza
Nel 2004 fu creato da Centro Unesco di
Torino e dal Forum Internazionale delle Donne del
Mediterraneo, il Centro Internazionale Ipazia Unesco (IpUC) Donne e Scienza, con sede nel
campus della Nazioni Unite. Il Centro
Ipazia è il consolidamento del Programma Ipazia,
sviluppato dal centro Unesco
di Torino fin dal 1999.
Infatti Nni mesi di giugno-luglio 1999 si svolse a
Budapest la Conferenza Mondiale Unesco “La
Scienza per il XXI secolo, un nuovo
impegno” in relazione al tema “Donne e Scienza” con la
necessità di creare una
rete Internazionale di donne scienziato.
La Rete Mondiale di Donne Scienziato fu dedicata ad Ipazia
specificando che spesso le donne
nel mondo scientifico furono tenute in ombra e
i loro risultati posti in secondo piano rispetto a
quelli dei colleghi uomini.
“Il Programma Ipazia” mette al servizio del Mediterraneo e del
mondo, principalmente
femminile, uno spazio fisico ed informatico di incontro e
di confronto, nonchè organizzare e
gestire un sito portale informatico per
permettere alle donne scienziato di paesi diversi di
lavorare insieme
attraverso i moderni meccanismi di comunicazione on-line.
I
principali strumenti utilizzati dall'UNESCO sono le tavole rotonde
internazionali con tematiche
generali.
UNESCO che offre la possibilità alle reti di
donne scienziato già esistenti ed alle specialiste in
generale di lavorare
insieme su temi UNESCO.
E'
invece attraverso la programmazione di corsi di formazione per formatrici nei
campi della
scienza e alla crescita di donne leader che si cerca di creare
gruppi nazionali di appoggio alle
istituzioni per la formazione a catena.
informazioni con i poli
UNESCO ed ONU di Venezia e Trieste, allo scopo di creare soluzioni a
partire da
un patrimonio di esperienze il più ampio e ricco possibile e per far conoscere,
in
ambito internazionale, il grande apporto dato dalle istituzioni Piemontesi
allo sviluppo e alla
cooperazione. L'obiettivo è quello rappresentare un
tramite di conoscenza e collaborazione tra la
realtà piemontese e quella degli
organismi internazionali.
Si è così attivata la consultazione tra i gruppi delle diverse
regioni UNESCO per valutare i
bisogni regionali più urgenti e decidere le
iniziative da intraprendere regione per regione ed
incoraggiare la creazione di
legami a carattere progettuale tra i diversi Paesi partecipanti e di tali
paesi
con la Regione Piemonte.
Il Centro UNESCO di Torino gestisce il
progetto IPAZIA attraverso
le
seguenti
attività:
-
Giornate di studio, seminari e tavole rotonde per la diffusione della scienza
nelle diverse Regioni UNESCO.
-
Programmi di promozione dell'apporto delle donne scienziato attraverso il
network internazionale di IPAZIA:www.womensciencenet.org
-
Corsi di formazione per formatrici e formatori.
-
Borse di studio annuali per giovani ricercatrici che operino a vantaggio della
pace e dello sviluppo.
-
Ricerche e collaborazioni con università italiane e straniere rivolte ai
giovani per incrementare la loro partecipazione alle carriere scientifiche.
IPAZIA vede come
protagonisti principali sia le associazioni già costituite dedite al
miglioramento delle politiche di sviluppo ad all'intercultura, sia le donne di
spicco nel campo
della scienza. Ci si augura anche la partecipazione di donne e
uomini leader nella promozione
delle pari opportunità nei paesi coinvolti. Per
valorizzare il patrimonio di persone e relazioni
intrecciatesi negli anni il
Programma IPAZIA diverrà un'istituzione stabile, "Centro
Internazionale
IPAZIA - UNESCO per le Donne del Mediterraneo e dei Balcani" sotto la
responsabilità del Centro UNESCO di Torino.
A
cura di Redazione Torinoscienza - Barbara Girardi, del 08/11/2006
CENTRO UNESCO - TORINO
A Novara, il 28 settembre 2018, fu inaugurato il nuovo polo sanitario "Ipazia" per le visite di
allergologia e reumatologia.
FILM "AGORA' " sulla Vita di Ipazia
allergologia e reumatologia.
FILM "AGORA' " sulla Vita di Ipazia
Nel Festival del Cinema di Cannes nel 2009 fu presentato il film
“Agorà” dello sceneggiatore
Alejandro Fernando Amenabar Cantos (Santiago del
Cile, 31 marzo 1972). Un film storico che
fece conoscere la storia sulla vita di
Ipazia. Il film fu proiettato in varie parti del mondo ma non
in Italia.
Impawards.com
Solo dal 23 aprile 2010 venne proiettato anche in
Italia, grazie all’impegno di molti intellettuali,
tra cui Odifreddi e la Hack,
che s’impegnarono nella raccolta di firme per superare quella
barriera dettata
dalla censura.
Il film evidenziava il fondamentalismo religioso e non
era un’invenzione del XX secolo …. Già
nel IV secolo la mancanza di tolleranza
permetteva che il cristianesimo si macchiasse di atroci
delitti. In questa
visione reale s’inserisce la bellissima figura di Ipazia, non solo non
cristiana, ma
anche donna… considerata una strega e non scienziata e per questo
barbaramente uccisa a 50
anni…
Il film aveva come obiettivo la rivalutazione di
Ipazia e nello stesso tempo voleva mettere in
evidenza il problema del
fondamentalismo religioso e la violenza immotivata che scatena la
diversità
religiosa. Nel particolare il cristianesimo doveva essere la religione
dell’amore, della
fratellanza, della condivisione e invece si macchiò di atroci
delitti.
Un legame con la famosa biblioteca d’Alessandria, un
patrimonio culturale di oltre 500.000
volumi, che come Ipazia fu bruciata.. in
un periodo in cui la furia iconoclasta dei parabolani,
monaci cristiani,
distrusse splendidi templi pagani, sinagoghe e soprattutto la già citata
biblioteca
in cui erano conservati ben sette secoli di sapere umano… e questo
anche per merito di Cirillo il
Dottore della Chiesa… oggi Santo….
Il film ha portato alla conoscenza di una delle poche
donne scienziato a cui è stato impedito di
dare alla scienza ed alla filosofia
il contributo di cui erano capaci.
Il film ha portato alla conoscenza di una delle poche
donne scienziato a cui è stato impedito di
dare alla scienza ed alla filosofia
il contributo di cui erano capaci.
“Quanto diverso
sarebbe il mondo se non fossero stati messi a tacere spiriti liberi come
Ipazia?
Nella prefazione Margherita Hack disse che
“questa storia romanzata ma vera di
Ipazia ci
insegna ancora oggi quale e quanto pervicace possa essere l’odio per
la ragione, il disprezzo per
la scienza. E’ una lezione da non dimenticare e un
libro che tutti dovrebbero leggere.”
Ipazia scopre l’orbita ellittica
A lei si devono l’invenzione o il
perfezionamento di strumenti come l’astrolabio, il planetario e
l’idroscopio.
Fu anticipatrice di Galileo per il metodo sperimentale e di Keplero per
l’intuizione
dell' ellitticità delle orbite dei pianeti. Purtroppo dei suoi scritti
non rimase nulla, solo le lettere
di
Senesio che seguiva le sue lezioni e che la consultava, come abbiamo visto, a
proposito
dell’idroscopio e dell’astrolabio. Una filosofa che era tenuta in
gran considerazione da illuministi
come Voltaire e Diderot e anche Leopardi ne
parla nella sua opera giovanile “La Storia
dell’Astronomia”.
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