I CASTELLI E LE TORRI DI SAMBUCA DI SICILIA (Agrigento)
Indice:
1.
Il CASTELLO ZABUT (Sambuca di
Suicilia)
a)
Etimologia di
Sambuca di Sicilia
b)
La
Storia del Castello -La triste fine dei Saraceni - La Scale delle Apparizioni e
la costruzione della Chiesa del Rosario – Federico II di Svevia e la Questione
Saracena – Il suicidio della figlia dell’Emiro. - Bernardo Cabrera, Conte di Modica, distrusse Adragna e si suoi abitanti si
rifugiarono nel castello di Zabut.
Il piccolo esercito garibaldino del
colonnello Orsini a Sambuca… l’ospitalità dei
Sambucesi…..un impresa dimenticata.
2. IL
CASTELLO DI MAZZALLAKKAR – Resta sommerso
per sei mesi all’anno dalle acque del Lago Arancio – Il fortino è di origine
saracena – Confronto con i “ribat” - I
Feudatari: Ruffo, Ferrario, Denti –
3.
TORRE PANDOLFINA –
I Feudatari: Perollo – Monroy (discendenti
dal condottiero spagnolo Herman Cortes Monroy, conquistatore dell’Impero
Azteco) – Anna Monroy Paternò
4.
TORRE DEL CELLARO –
La
Madonna dell’Udienza – La famiglia Sciarrino e il loro feudo Verbumcaudo…
passato successivamente alla mafia… Oggi è gestito da una splendida cooperativa
di giovani.
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1.a
- Etimologia di Sambuca di Sicilia
Sull’etimologia del termine Sambuca ci sono varie
interpretazioni.
La più accreditata è legata ad un documento del 1185
in cui il re Guglielmo II, detto “Il Buono”, donava alla Chiesa di Monreale la
“Chabuta seu Zabut”. Nel termine “Chabuta” gli studiosi hanno letto una chiara
esplicitazione di Zabut che, a sua volta, risalirebbe all’omonimo emiro
considerato il fondatore della città.
“Chabuta” (splendida)…”seu” (è una congiunzione
disgiuntiva latina “ o, oppure, o piuttosto”) …”Zabut” era il leggendario Emiro
Al-Zabut, fondatore della città e valoroso guerriero seguace del conquistatore
maghrebino Ibn Mankud (“Ardente guerriero della fede”). Proprio per il suo
valore Al-Zabut su soprannominato “Al- Chabut” (“lo spendido”) che trasmise
alle terre da lui conquistate.
“Chabuta seu Zabut” …”La Spendida oppure Zabut”
Nell’800 gli esponenti della cultura sambucese
portarono avanti l’ipotesi sull’origine del mone del centro.
Il termine deriverebbe sempre da “Zabut” ma con
aspetti nuovi cioè legati o ad uno strumento musicale a coda e di forma
triangolare (un’arpetta) o ancora da “sambukie” cioè una macchina di guerra.
Uno dei massimi
esponenti della cultura del tempo era Vincenzo Navarro (medico, letterato,
poeta) che rinominò la cittadina, con il consenso dei cittadini, con il termine
di “Sambuca Zamut” mettendo in disparte il vecchio appellativo di “La Sambuca”.
Nel 1928 Mussolini decise di cancellare l’esotico
“Zabut”, il regime era contrario alle parole straniere o che avevano comunque
una loro origine straniera, e di mantenere l’italiano “Sambuca”. Aggiunse per
darle una connotazione regionale “di
Sicilia”.
Leonardo Sciascia scompose il nome di Sambuca in “As Sabuqah” cioè “luogo remoto” nel suo “Il Silenzio” dove venne esaltata
l’ospitalità dei sambucesi.
Nel racconto “Il Silenzio” contenuto nella raccolta
“Il Fuoco sul Mare”, Leonardo Sciascia (di Racalmuto) riportò un episodio
legato all’Impresa dei Mille che aveva come protagonista il colonnello garibaldino Vincenzo Giordano Orsini e il
centro di Sambuca.
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1.b.
- La Storia del Castello -La triste fine dei Saraceni - La Scale delle
Apparizioni e la costruzione della Chiesa del Rosario – Federico II di Svevia e
la Questione Saracena – Il suicidio della figlia dell’Emiro. - Bernardo Cabrera, Conte di Modica, distrusse Adragna e si suoi abitanti si
rifugiarono nel castello di Zabut.
Il piccolo esercito garibaldino del colonnello Orsini a
Sambuca… l’ospitalità dei Sambucesi…..un impresa dimenticata.
Il castello fu
edificato nella collina sulla quale sorge Sambuca.
Le
fonti sul castello non sono numerose.…
Giuseppe
Giacone nel suo libro sul “castello di Zabut e sul suo contiguo casale” citava:
““Il Castello di Zabut, edificato di mano
saracena nell’anno di nostra salute 827. Surse nel Val di Mazara della florida
e ridente isola di Sicilia, la quale, per il suo clima e per l’ubertoso suo
territorio fu agognata, posseduta e sottomessa a popoli stranieri che la
mantennero in continue guerre e scissa sotto governi barbari e tiranni.”
Pochissimi
cronisti o storiografi riportarono o descrissero il castello Zabut. Nemmeno
Tommaso Fazello che ebbe i natali a Sciacca e che visse “colà dal 1498 al 1470 e che nella Storia di Sicilia scrive tuttavia ““A
Chiusa verso ponente nell’altura di una rupe recita: “All’intorno sovrasta il
Castello di Giuliana ornato di mura e di fortezza da Federico II Re di Sicilia
e ripieno di abitanti. Questo castello era già casale di saraceni, insieme
con Zabut, Comicchio. Adrano, come si può ritrarre da un privilegio di
Guglielmo II, Re di Sicilia, dato in Palermo. nel mese di giugno di nostra
salute 1185; il quale chiama questi luoghi “casali”.
Il
Fazello: “Da Giuliana, sotto tre miglia
verso mezzogiorno si vede Comicchio rovinato, a cui sovrasta la Chiesa di San
Giacomo.”
L’Abate
Vito D’Amico ne parlò più estesamente: “Il
Castello di araba struttura sulla sommità orientale del Comune ed appellavasi
dal nome dell’Emiro saraceno; fu ridotto nel 1819 a carcere comunale; nel 1837
l’immenso numero dei mietuti dal colera fu messo nei suoi sotterranei, e
d’allora son venuti diroccandosi le sue magnifiche ruine”.
Ed
infine, sempre il Giacone, citò il Dott. Vincenzo Navarro, (medico, precettore
di Francesco Crispi. patriota liberale), padre di Emmanuele Navarro della
Miraglia precursore del verismo, trapiantatosi a Sambuca e proveniente da
Ribera che riportò:
“Sambuca, ricca ed
industriosa Comune di Sicilia, nella provincia di Girgenti. vuoisi deriva da
“Zabut”. nome di Emiro saraceno, dato ad un castello che torreggia la sommità
orientale di detto Comune, il quale or non più; esistette, il detto castello,
l’ino al 1818 ridotto a carcere comunale.”
Giuseppe
Gaicone (Sambuca, 4 febbraio 1840; …) riportò nel suo libro l’aspetto del borgo
con “gli umili fabbricati che
costituivano la parte dell’antichissimo casale, composto di sette vanelle (piccole
vie) che come a contrade o
quartieri ritennero quel nome sino al censimento della popolazione di quell’anno
1882, in cui fu sostituito il nome di “Vicoli Saraceni” dal numero uno sino
al settimo, e questo ci dà l’idea di questo umile casale fondato dall’Emiro
Zabut”.
Sino al 1870 il castello era “in
buono stato, esistente e se non fosse
stata la mano demolitrice dell’uomo che per profittare della pietra, ne volle
la distruzione, avrebbe potuto sfidare i secoli avvenire”.
“E’ biasimevole
l’opera contemporanea devastatrice del Castello di Zabut, poiché esso è
l’emblema, la vera figura simbolica della storia di Sambuca ed anche perché, a
dire dello Scaturro. il Castello di Zabut ebbe l’onore di essere assediato da
Re Martino I, in sul finire del 1403.”
“Nell’anno 1854, in occasione della venuta in
Sambuca dei PP. Gesuiti, per la missione, al minimo cenno dei Missionari, la
folla del popolo entusiasta, corse con zappe e vanghe rase del tutto le rovine
del Castello, vi eresse il “Calvario” con una spaziosa gradinata in
quell’ampio ed ameno poggio, nel cui centro furono erette tre croci, vessillo
della nostra redenzione e simbolo del monte Calvario, siccome fu generalmente
appellato”.
Le
vicende del Castello e del Casale – come abbiamo visto - s’intrecciano in maniera
strana, nel corso della sua secolare vita, con storie e leggende
socio-politico-religiose che hanno influito non poco nell’alterazione del
tessuto urbano e geografico del “Quartiere”.
L’iniziativa
di abbattere una parte del Castello per esprimere un fervore religioso con la
creazione di un Calvario era legata alla predicazioni di un certo padre La Nuza
di Licata, gesuita, che avviò lo scempio dei “luoghi alti”, dove in genere
sorgevano torri o castelli, per la creazione di Calvari.
D’altra
parte l’episodio della creazione del Calvario sulle macerie del castello di
Zabut va collegato ad un’altra vicenda vissuta nel 1597 ben 343 anni prima.
Nel
1597, ebbe luogo un “Corso di esercizi spirituali”, sempre ad opera dei PP.
Gesuiti ed eseguiti seguendo il volume degli “esercizi spirituali” del loro
fondatore, Ignazio di Lojola, dov’è la famosa frase “todo modo”, da cui Leonardo Sciascia trasse l’ispirazione di uno
dei suoi più belli romanzi.
Secondo
Rocco Pirri, il predicatore-guida degli esercizi spirituali fu un certo Padre
Paraninfo da Naro (1554-1624). Il Gesuita trovò lo stato d’animo dei cristiani
di Zabut in grave esagitazione.
Era
ancora vivo nella memoria, tramandatosi da padre in figlio, il massacro dei
Saraceni di questo lato occidentale della Sicilia. Quel massacro avvenuto sul
finire del 1243, quando il Conte di Caserta, genero di Federico II, diede il
via alla “soluzione della questione
saracena” nel Vallo di Mazara, e che aveva lasciato un segno profondo.
La
strage a Zabut fu dura. Molti musulmani, o saraceni, furono murati vivi negli
intricati camminamenti del Casale e del Castello di Zabut mentre i pochi superstiti
furono portati a “Nuceria Saracinorum”, in Campania o a Lucera.
La
cattiva coscienza crea i fantasmi.
Gli
abitanti del Quartiere ereditarono quella coscienza che li rendeva impotenti,
terrorizzati di sentire le grida dei trucidati o di vederne qualcuno, nella
fantasia alterata dal rimorso, di sembianze erculee e dal cipiglio
minaccioso, terrorizzare i poveri cristiani.
Tali
visioni, in concreto, si rivelavano nella scala esterna che, dalla parte alta
del Quartiere, conduceva alla base del contrafforte dove, poi, i contadini
trovavano la trazzera per andare nei campi. Era una scaletta dannata. Perché
non pochi vi perdevano la vita atterriti di sentire lamenti e grida forsennate.
Bastava mettere il piede fuori posto in quella ripida “scalidda” per finire nel
burrone a strapiombo sotto i bastioni della fortezza.
Lungo
la parete di quella scala i cristiani avevano collocato, in una nicchia,
un’immagine della Madonna. chiamata “la Madonna della Scalidda” per essere
protetti contro i dannati Saraceni.
Padre
Gaspare Paraninfo trovò una soluzione. Va bene l’immagine della Madonna; ma
non basta. Occorreva, invece, costruire una chiesa. Ma leggiamo la cronaca
nel latino storiografico del Pirri: “Divae
Mariae de Scala, sive de Scalila imago dipincta in loco obscuro eiusdam agri,
ubi saepe viatores daemonibus, vexabantur et periculis: divinitas inventa,
multis praeforget ntiraculis quibus permotus Paranynphus Societatis Jesu nobile
extuendum templum cum Societate eu Confratrem quae hodie unc: 46 abet,
curavit”.
La
traduzione in italiano suona così: “Un’immagine
della Vergine Santa, detta della Scala o della Scalilla, fu dipinta sul muro in
un posto appartato, dello stesso sito, dove spesso i passanti venivano
tormentati dai demoni o incorrevano in pericoli; questa immagine rinvenuta
in quel posto rifulge per innumerevoli miracoli; sollecitato dai quali. Padre
Paraninfo della Compagnia di Gesù, si adoperò di fondare un degno tempio con
una Società o Confraternita, che oggi è dotata di once 46”.
Durante
il corso della predicazione fu raccolto un grosso gruzzolo di denaro. Nel giro
di pochi anni sorse la Chiesa del Rosario che si può ammirare a tutt’oggi
eretta sul lato Nord/Ovest del Quartiere.
Chiesa del Rosario
Delle
testimonianze arabe rimangono la Fortezza di Mazzallakkar e il “quartiere
arabo” costituito dai sette vicoli, trasformati in Museo di Storia
arabo-siculo, con la Via Fantasma che fu battezzata in questo modo nel 1882 a
causa di strane apparizioni legate ad una leggenda che affonda le sue
radici proprio nella guerra che Federico
II combatté contro i Saraceni per volere del papa.
Abbiamo
visto come fu costruita una chiesa dedicata alla Madonna del Rosaio sul luogo
delle apparizione e come sulla parete della rocca venne dipinta un’altra
Madonna che doveva allontanare le anime sofferenti non pacificate. Una “Madonna
delle Scale” che con il tempo è scomparsa ma ha invece resistito la “Scala
delle Apparizioni” che continua ad attirare turisti che sembrano aver rispetto
per quei gradini .
Un’altra
testimonianza della presenza degli Arabi è legata alla Chiesa di San Giorgio. La
chiesa era la più antica del centro e fu costruita su un’antica moschea proprio
all’ingresso del quartiere Saraceno. La chiesa presentava due alti campanili,
di cui uno era in origine una delle torri del castello, e dava il nome ad una
piazza detta “lu chianu di San Giorgio”.
Il
luogo di culto, che segnava il passaggio tra il periodo arabo e quello
cristiano, fu demolito nel 1958.. un vero e proprio scempio culturale.
Probabilmente
al suo interno erano presenti delle tracce dell’antica moschea. Fu salvato solo
il portale che risale al 1565 come testimonia un incisione. Portale che venne accuratamente
smontato e conservato.
Dopo
i restauri fu collocato nuovamente nella sua sede originaria cioè nella piazza
un tempo dedicata a San Giorgio ed oggi intitolata allo scrittore Emanuele
Navarro della Miraglia.
Il castello, edificato dall’emiro Zabuth era di pertinenza
regia, appartenne a Guglielmo II e fu poi concesso dallo stesso re al Convento
di Monreale.
L’insediamento originario era costituito da un
castello-fortezza, fu infatti costruito sulla sommità della collina dove sorge
il centro. Dal castello iniziavano le cosiddette “sette Vaneddi” o vicoli
saraceni, secondo uno stile arabo, piccole e strette per permettere la difesa e
nello stesso tempo mantenere un clima adeguato.
Del castello, purtroppo non rimane nulla se non solo un
belvedere, che guarda verso Adragna, Monte Adranone, Giuliana e il territorio di
Caltabellotta, e la Torre inglobata come campanile della
Chiesa Madre.
Un terrazza che si affaccia a strapiombo ed una splendida
esplanade che con una maestosa scalinata si affaccia sulla piazza Baldi
Centilles. Piazza che nasconde nelle sue viscere i resti delle carceri e dei
camminamenti sotterranei del castello. Camminamenti che non sono fruibili ma
che rientrano nei progetti di valorizzazione intrapresi dal comune per il loro
recupero. Un recupero importante anche dal punto di vista storico.
Nel 1550 fu distrutto dai Gesuiti per costruire un calvario
con Tre Croci che oggi, anche loro, non esistono più.
Le pietre che costituivano la fabbrica del castello furono
utilizzate dalla popolazione per costruire le case che dopo la distruzione
della fortezza cominciarono a sorgere nella zona.
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Quartiere
Matrice – Piazza Baldi Centelles
XI
– XII costruzione del castello
XIX
(prima metà) distruzione del castello
1185
– Sambuca è ricordata come casale di pertinenza della Chiesa di Monreale (Amico
1855)
1403 - un importante documento attesta l’esistenza
del castello che era assediato dal re Martino I (Lagumina 1884-95, pg. 245)
XIII
– XVI - con Eleonora d’Aragona, signora
di Sciacca, Sambuca diventò feudo dei Peralta. La terra di Sambuca fu poi
venduta ai Ventimiglia, agli Abatelli, ai Bologna. Per matrimonio pervenne ai
Settimo. Passò poi ai Bardi (o Baldi), ai Mastrantonio, ai Centelles. Gli
ultimi signori di Sambuca furono i Beccadelli Bologna.
XVII
– il castello perse la sua funzione di difesa e incominciò a cedere la sua area
alla Chiesa Madre che nel tempo subì degli ampliamenti inglobando una delle
torri che fu adibita a campanile.
XVII
secolo (metà) “castello… quasi ruinoso” secondo quanto riporta l’Amico
XIX
(inizi) diventò prigione e durante l’epidemia di colera del 1837 fu adibito a
lazzareto;
La
proprietà attuale è del comune e la sua area, come detto, è adibita a piazza e
belvedere mentre l’area circostante, perimetrale del castello, è occupata da
abitazioni private. Pochissimi resti fuori terra che non consentono una lettura
ricostruttiva dell’antico impianto. Un impianto che comunque doveva essere a
planimetria irregolare con corti e torri.
Il
castello era posto sul punto più alto su un colle isolato e posto al centro di
una cerchia di monti. Era in comunicazione con il castello di Giuliana e di
Santa Margherita Belice.
Proteggeva
un insediamento urbano e una valle ricca di terree seminativi e di mulini.
Il
castello si articolava in due parti di cui quella più antica era posta sulla
sommità del colle e sul versante che guarda verso Giuliana aveva una torre
semicilindrica.
Il
corpo aggiunto aveva al centro un ampio cortile con cappella e dimora signorile
a cui si accedeva attraverso una scala monumentale non più esistente (atto
notarile del 17 dicembre 1722 stipulato presso il notaio Gaspare Graffeo, in
Giacomo, 1932). La zona del castello era percorsa da un sistema di corridoi e
fosse ipogee, depositi di grano (testamento di Giovanni Luigi Settimo, barone
della terra e castello della Sambuca (Biblioteca comunale di Palermo).
La Chiesa Madre di
Sambuca di Sicilia
Accanto la vecchia
torre del castello arabo adibita a campanile
Fu riaperta nel gennaio 2019..
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Il
centro fu abitato dai saraceni fino al 1225 anno in cui Federico II fece
costruire il Castello di Giuliana per adoperarlo come quartiere generale o base
operativa per risolvere la difficile “questione
saracena che tanto preoccupava il Papa”.
Castello di
Giuliana (Palermo)
FEDERICO
II DI
SVEVIA E LA QUESTIONE SARACENA
Durante la reggenza di Enrico VI e della moglie Costanza i
saraceni di Sicilia si mantennero calmi.
La situazione peggiorò in modo repentino quando morì la regina Costanza.
Federico II di Svevia, figlio della coppia reale, era ancora
in giovane età e divampò una lotta per la reggenza dell’isola tra i capitani
tedeschi, seguaci di Enrico VI, ed il papato. I musulmani assunsero in questo
scontro un aspetto decisamente importante
e la loro partecipazione mise in evidenza chiari contenuti politici,
sociali ed anche religiosi.
Erano coscienti della loro posizione, per certi versi
delicata, ed anche della loro forza
militare e per questo strinsero, cosa decisamente strana, un alleanza con il
principe tedesco Markwald von Anweiler contro il Papato ed i prelati di
Palermo.
Nel luglio 1200 nella campagna tra Palermo e Monreale la
strana coalizione subì una sconfitta. Una grave sconfitta dove tra le vittime
ci fu anche un famoso condottiero saraceno di nome Magded, un nobile
aristocratico della resistenza islamica.
Il Papato riconobbe la forza militare e politica, ben organizzata come un vero e
proprio partito o movimento, dei saraceni e decise d’avviare un attività
diplomatica per ottenere almeno la loro neutralità. Innocenzo III nel settembre
del 1206 inviò una lettera ai capi ed ai “sovrani” musulmani di Sicilia
invitandoli a “mantenere la fedeltà al
loro signore, il giovane re di Sicilia Federico”.
Il documento papale citava alcune località che erano nelle
mani dei musulmani e che erano state indicate in precedenza in modo vago come “castelli dei saraceni” o ancora più
vagamente come “montagne dei saraceni”.
L’epistola di Innocenzo III ricordava Jato, Entella, Platani
e Gelso. Altri documenti latini dello stesso periodo menzionavano Calatrasi,
Corleone, Guastanella e un fonte araba ricordava qualche anno dopo anche Cinisi
ed un sito di nome Gallo che non è stato identificato.
Non era citata Zabut (Sambuca) ma i nomi delle località
citate era sufficienti per dare una visione d’insieme del territorio occupato
dai rivoltosi. Un territorio che comprendeva le terre dell’Arcivescovado di
Monreale (Zabut ricadeva in questa frazione) e che dalla porte di Palermo
giungeva al bacino del Belice ed anche nell’entroterra agrigentino spingendosi
fino alla zona di Segesta.
In pratica quasi tutta la Sicilia Occidentale oggi occupata
dalle province di Palermo, Trapani, Agrigento.
Rimanevano escluse alcune
fasce costiere con i porti principali e i distretti intorno ai
pochi castelli latinizzati a partire già dall'XI secolo come Vicari, Prizzi,
Castronovo, Cammarata.
L’ambiente che caratterizzava i domini musulmani erano
costituiti da luoghi di montagna che esaltavano le azioni di riscossa. La
giovane età del sovrano e la sua lunga assenza, dal 1212 impegnato in Germania,
consentirono le azioni dei ribelli musulmani.
La regina Costanza, durante la sua reggenza, contrastò
l’arroganza dei musulmani che colpivano la Sicilia Occidentale.
Palermo venne attaccata forse nel 1216; la Cattedrale di
Monreale subì più volte delle forti molestie ed anche il Vescovo di Agrigento
Ursone venne catturato e rinchiuso nel castello di Guastanella.
Fu liberato dietro il pagamento di un forte riscatto.
La chiesa agrigentina fu particolarmente colpita perché fu
saccheggiata del tesoro, occupata dai rivoltosi che vietarono la celebrazione
dei battesimi ed impedirono ai cristiani di recarsi nelle campagne per
lavorare. Una rivolta che fu una vera e propria contrapposizione al regno
latino.
Le fonti parlano di un certo Muhammad ibn Abbad-Mirabettus
come capo riconosciuto di tutti i musulmani dell’isola che assunse il titolo di
“amir al muslimin” cioè “principe dei credenti”.
Un emiro che addirittura riuscì a battere una propria moneta
d’argento mentre le emissioni di Enrico VI e di Federico II vennero sfregiate
con punzonature.
Un avventuriero ?
Probabilmente no, perché il suo potere era considerato da
tutti i saraceni dell’isola come legittimo e derivava oltre che dalle sue
nobili origini, anche dall’aver sposato la figlia di Ibn Fakhir, capo della
precedente comunità islamica dell’isola.
I ribelli musulmani avevano dei contatti politici e religiosi
con il mondo islamico –mediterraneo, cioè con le loro terre d’origine?
Non si hanno notizie in merito però doveva essere ancora ben
vivo, soprattutto tra i saraceni siciliani più colti, il ricordo dell’antica “Siqyllia” pienamente islamica sconfitta
dai Normanni.
Un ricordo presente in maniera forte nella loro coscienza e
che si affidavano a quella fiossofia che
potremmo definire come “la visione dei vinti”.
Prima di partire per la Germania, Federico II di
Svevia aveva cercato di tamponare la rivolta saracena con disposizioni che
dimostravano la gravità della situazione. L'arcivescovo di Monreale Caro era stato
autorizzato a far prendere, ovunque fossero, i villani di Jato e di
Celso che rifiutavano ormai apertamente la loro dipendenza dalla chiesa.
Per la difesa militare della Cattedrale di Monreale, il re di Sicilia aveva fin
dal 1211 ingiunto a quanti possedevano poderi e vigneti in quel territorio, di
fissare a Monreale la propria residenza. L'ordine era stato reso più incisivo
con la minaccia di confisca ed incameramento a favore dell'arcivescovado dei
beni degli inosservanti.
Quando Federico II rientrò dalla Germania nel suo
regnum, riprese le fila del problema saraceno. Nel luglio 1220 ordinò che tutte
le terre, i villani e i diritti dell'arcivescovado di Monreale venissero
restituiti. Il sovrano reiterava l'ordine nel marzo 1221 da Brindisi, sottolineando
il potere attribuito a Caro di impadronirsi di tutti i villani sottrattisi alla
giurisdizione della Chiesa. All’ Arcidiocesi di Monreale erano inoltre
confermate tutte le «buone usanze» e le «consuetudini» vigenti al tempo di
Guglielmo II.
Con dei semplicissimi documenti Federico II
ristabiliva sulla carta lo status quo ante.
In altre parole resuscitava nei termini più duri e
categorici la formula della convivenza ineguale, confermando inoltre il ruolo e
la potenza dell'arcivescovado di Monreale nei termini in cui erano stati
concepiti da Guglielmo II. La completa resa dei saraceni ed il loro
reinserimento nell'antico sistema socio-economico erano, d'altra parte,
obiettivi che Federico riteneva necessari per conservare il favore di
quegli enti ecclesiastici, senza il cui appoggio non sarebbe stato possibile
avviare la lotta contro il baronaggio recalcitrante del mezzogiorno
continentale.
I musulmani si prepararono allo scontro ed alla
resistenza ad oltranza, trincerandosi nelle loro roccaforti. Contro un
territorio topograficamente difficile ed irto di fortezze scese in campo
Federico II fin dall'estate 1221. Tempi, luoghi e particolari della repressione
sono noti solo attraverso una documentazione poco consistente, sicuramente non
adeguata alla gravità dei fatti.
Le operazioni del 1221, in particolare, rimangono poco
chiare. Fra maggio ed i primi di luglio l'imperatore si mosse fra Messina e
Catania. A luglio lo troviamo a Caltagirone e Palermo, quindi, in agosto, a
Piazza Armerina. Il 25 settembre è presso Trapani e, a novembre, ad
Agrigento. Sembra quasi che Federico abbia compiuto una ricognizione
generale intorno al terreno dello scontro, prima di sferrare l'attacco in
grande stile.
L'offensiva militare fu in pieno svolgimento
nell'estate successiva (1222). Da giugno ad agosto l'imperatore era
personalmente in campo di fronte Jato, con un esercito che una fonte araba
stimò in 2.000 cavalieri e 60.000 fanti. Le cifre erano certamente
esagerate ma probabilmente servivano a dare una visione dello sforzo militare
in atto. Non di operazione di polizia si trattò, ma di attacco in grande stile
contro una non trascurabile potenza nemica o, secondo i punti di vista,
ribelle. Non è azzardato parlare di questi fatti come di una vera e
propria reconquista dell'interno della Sicilia occidentale.
È probabile che, insieme alle manifestazioni di
potenza militare, Federico abbia avviato tentativi per intavolare trattative.
Le diverse versioni dei fatti tramandate dalle fonti non permettono però di accertare con sicurezza
in che maniera l'imperatore riuscisse alla fine ad avere nelle sue mani l'amir ribelle.
Neanche sulle circostanze della morte di Muhammad ibn Abbad le fonti danno una
versione unica. Secondo una fonte araba, l'emiro sarebbe stato annegato
in mare dopo che Federico infranse la promessa di farlo portare sano e salvo in
Africa. Altre fonti parlano invece di un'esecuzione capitale in piena regola.
La morte di Muhammad ibn Abbad non significò in ogni
caso la fine della rivolta. Nel
settembre del 1222 troviamo Federico a Calatrasi e nell'agosto del 1223
l'imperatore era di nuovo all'assedio di Jato. Evidentemente la fortezza
non era capitolata nonostante la cattura e la morte di Muhammed ibn Abbad o era
stata persa e quindi rioccupata dai saraceni.
Nessuna fonte cristiana citò per questa fase dello
scontro di operazioni militari anche contro Entella. Sull'assedio di quest'ultima fortezza si dilungò però,
con particolari romanzeschi o romanzati, lo scrittore arabo del XIV secolo
al-Himyari. Una figlia di Muhammad ibn Abbad sarebbe rimasta asserragliata ad
Entella, continuando la resistenza anche dopo l'uccisione del padre.
Sembra frutto di elaborazione letteraria il racconto delle profferte amorose
che Federico II avrebbe fatto a questa energica donzella, ammirato dall'astuzia
con cui essa aveva parato i suoi attacchi. E un brano di letteratura, che
esprime però come meglio non si potrebbe la situazione disperata degli ultimi
saraceni di Sicilia. Un brano che era la risposta che la donna avrebbe inviata
a Federico:
«C'è...da stupirsi del rapporto fra me e te: io sono come una donna senza figli, ristretta
su un colle di terra, priva di qualsiasi soccorso, mentre tu sei re d'un
territorio che ci vuole mezzo mese a percorrere, hai eserciti di cui è piena la
terra, tesori, denari, fidi consiglieri. Questo tuo soffermarti ad assediarmi
ti ha preso e distratto dai tuoi più alti affari politici. Io ti ho arrecato
maggiori danni di quanti tu ne hai arrecato a me, ti ho inflitto perdite
maggiori di quante tu a me...Ora non dispero di averti un giorno nelle mie
mani, sinché mi resta fiato in corpo. Ti combatterò e ti tenderò insidie
sino alla consumazione di ogni provvista in questa rocca, e sino a che i miei
difensori non ce la facciano più».
Secondo il racconto di al-Himyari, veritiero o
romanzesco che sia, una dose
letale di veleno avrebbe posto fine volontariamente alla vita della figlia di
Muhammad ibn Abbad.
Indeboliti da tre o quattro anni di guerra e dalla
perdita del capo carismatico, i saraceni di Sicilia fin dall'inverno 1224
inviarono dei rappresentanti per trattare la sottomissione. Nel luglio 1224
Federico era però, per il terzo anno consecutivo, all'assedio di Jato. Nello
stesso anno la flotta imperiale effettuò un vittorioso raid su Gerba da cui
potevano giungere aiuti ai saraceni di Sicilia.
Un grande sforzo bellico venne infine realizzato nel
1225, quando Federico chiamò al servizio militare tutti i feudatari del regno.
Le notizie provenienti dalla Sicilia non mancarono di esser registrate da
cronisti di varie parti d'Europa e queste testimonianze permisero
di fissare nel 1225 un netto successo dell'imperatore. I saraceni
sottomessi, in parte vennero trasferiti a Lucera dove formarono il nucleo
originario della celebre colonia militare; in parte tornarono ai casali.
Nel 1225 si concludeva quindi la prima fase dello
scontro con la distruzione dell'emirato riesumato da Muhammad ibn Abbad.
L'imperatore aveva inizialmente sviluppato la sua azione mirando ad un
ristabilimento delle buone usanze del tempo di Guglielmo II, cercando cioè di
far tornare i saraceni alla condizione di agricoltori ed ai vincoli di
residenza sulla terra. La gravità del problema aveva però reso
obbligatorio quasi subito un drastico cambio di strategia: l'obiettivo divenne
dichiaratamente exterminare de insula i saraceni. E nulla
toglie alla drammaticità della decisione il fatto che exterminare possa
avere il significato tecnico-giuridico di allontanare dai confini (termini),deportare,
piuttosto che quello che ora si attribuisca al verbo.
Non sarà mai possibile dire quanti musulmani siano
potuti tornare dopo la fine delle ostilità alle antiche residenze, quanti siano
state le vittime della guerra, quanti dei casali esistenti nell'arcidiocesi di
Monreale verso il 1180 sopravvissero ancora nel 1225. In ogni caso, il
ritorno al passato, alle usanze del tempo di Guglielmo II, si era dimostrato
semplicemente impossibile. L'annullamento completo e definitivo della minoranza
musulmana, ormai realmente sparuta sul piano numerico, era quindi solo
questione di tempo.
L'ultima rivolta e la fine
Sembra che alcuni anni dopo, nel 1229-30, le fortezze
di Jato, Entella, Cinisi, Gallo e qualcun’altra, fossero ancora teatro di
rivolta. Non si hanno però particolari su questa sollevazione. Intorno al
1239 la residua popolazione saracena di Sicilia era di nuovo in subbuglio. I
pastori che avevano preso in gabella le greggi della corte, non potendo pagare
quanto pattuito, erano minacciati di lavori forzati nei castelli di Lentini e
Siracusa. Altri saraceni dei casali, trasferitisi a Palermo, non manifestavano
alcuna volontà di stabilirvisi. Federico si sforzò di convincerli
promettendo loro favorem et gratiam. Alcuni saraceni di Lucera
cercarono poi l'occasione propizia per lasciare la nuova residenza e tornare in
Sicilia. Federico emanò così un nuovo ordine di concentrazione nella cittadina
pugliese.
Erano le ultime manifestazioni disperate di
insofferenza, sfociate nel 1243 in rivolta aperta. La nuova sollevazione si
svolse secondo un copione ormai ricorrente: fuga dai casali ed
asserragliamento ad Jato ed Entella. L'insurrezione saracena coincise con
il momento più drammatico dello scontro fra Federico II ed il papato di cui i
musulmani divennero obiettivamente alleati.
Per quel poco che le fonti permisero di sapere e soprattutto
per quello che esse non rilevarono, quest'ultima sollevazione fu un gesto
totalmente disperato, privo della consapevolezza e della valenza politica che
aveva animato la resistenza di Muhammad ibn Abbad. La documentazione non ha
tramandato il nome di nessun condottiero legittimato e carismatico. E’ inutile
nasconderlo ma è fortissima la tentazione di vedere dietro i fatti un diretto e
decisivo intervento esterno. Senza questo sembra difficile che gli sparuti
gruppi superstiti di saraceni abbiano avviato un nuovo moto di resistenza
totalmente privo di qualsiasi sbocco.
Questi disperati, in ogni caso, riuscirono a distrarre
e tenere impegnate forze imperiali non indifferenti. Nel 1245 Federico
spedì contro i ribelli il conte di Caserta (Riccardo che aveva sposato Violante
cioè la figlia di Federico II) che mise il blocco a Jato costruendo contro la
fortezza un castello d'assedio. Nell'estate 1246 l'imperatore inviò un
ultimatum ai guerriglieri non escludendo di trattare con una certa
indulgenza quanti si fossero immediatamente sottomessi. Nel luglio
Federico poteva comunicare al primogenito del re di Castiglia l'avvenuta resa e
la discesa dei saraceni dai castelli montani. L'imperatore peccò allora di
presunzione o vi fu forse un estremo episodio di resistenza. Nel novembre
1246 egli scrisse però ad Ezzelino da Romano annunziandogli trionfalmente che
anche gli ultimi ribelli erano finalmente discesi al piano. Jato ed Entella
vennero definitivamente abbandonate, come mostrano drammaticamente gli scavi. Gli
ultimi esponenti della resistenza musulmana furono in gran parte spediti
anch'essi a Lucera. Quanti poterono restare in Sicilia si nascosero fra le
pieghe di un tessuto demografico sempre più compattamente latino e cattolico,
venendo presto totalmente assimilati. Era la fine, questa volta per sempre.
I saraceni a Lucera formarono un esercito che si
mostrò sempre fedele alla casa Sveva pronti a combattere per il loro sovrano.
In merito a Federico II di Svevia c’è da puntualizzare
un aspetto importante. La forte lotta contro i saraceni di Sicilia sembra
contrastare con la visione di un imperatore “amico” dei musulmani ed ammiratore
della loro cultura.
I due aspetti, agire politico-militare e tensione
intellettuale , dovrebbero essere separati. Federico fu attratto dalla cultura
e dalla scienza arabo-islamica intrattenendo numerosi rapporti personali con
dotti musulmani.
Ma quest’ultimo aspetto non influì sulla sua condotta
politica che aveva come obiettivo di imporre ai suoi sudditi il potere della
corona e l’ordine imperiale. I saraceni di Sicilia perno per l’imperatori dei
ribelli e dovevano essere combattuti e allontanati. A Lucera i saraceni ebbero
poi dallo stesso imperatore notevoli elargizioni a tal punto che formarono un
reparto di valorosi combattenti sempre fedeli nel difendere la corona sveva sia
dal papato che dagli Angioini.
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Bernardo Cabrera, Conte di Modica, distrusse Adragna e si
suoi abitanti si rifugiarono nel castello di Zabut.
Il Conte Cabrera, il Casale di
Adragna posto a est di Sambuca ai piedi
del Monte Genuardo, sono legati ad un antico motto..” Pi’ na fimmina si sfici Ddragna”.
Il giudice Andria d’Anfuso in un
poemettto sull’eruzione dell’Etna del 1408, elogiò il coraggio di una donna paragonandola
ad un diamante. La definì “ nobili donna
di splinduri finu, inclita regina tam gracuisa”.
la regina Bianca di Navarra
(Pamploma, 5 luglio 1387; Santa Maria la
Real de Nieva, 3 aprile 1441)
(Regina Consorte di Sicilia e Reggente ) – ( figlia di
Carlo III, detto il Nobile,
re di Navarra, e di Eleonora Enriquez, secondogenita del
re di Castiglia e di Leon,
Enrico II di Trastamara.
La dedica era rivolta a Bianca di
Navarra, seconda moglie di Martino il Giovane, Re di Sicilia. L’antico borgo di
Adragna, che sorge ancora oggi al Nord di Sambuca ai piedi del Monte Adranone
(una propaggine del Monte Genuardo), fu distrutto dalle scorrierie di Bernardo
Cabrera, Conte di Modica, e pretendente al trono di Sicilia. Nel castello di
Zabut (Sambuca), importante presidio militare, si rifugiarono i superstiti di
Adragna e dei casali vicini colpiti dalle scorrerie del Conte Cabrera.
Il re Martino era vedovo della regina
di Sicilia, Maria, nei confronti della quale, secondo lo storico Giuseppe
Beccaria..”il re fu poco tenero, a
giudicare dagli ultimi momenti di lei che non furono affatto consolati dalla
presenza del consorte… e dal cinismo con cui scriveva da Modica, il 23 maggio
del 1401 al Capitano di Catania di provvedere al funerale della regina
gravemente malata e al cameriere di consegnarli tutti i gioielli persino il
pappagallo”.
Il 21 maggio 1402, a meno di un anno dalla morte della moglie, re
Martino sposò per procura Bianca di Navarra. Un matrimonio che si svolse nel
Castello Ursino di Catania.
Lo stesso anno la regina, con un
corteo guidato da Bernardo Cabrera, suo futuro nemico nelle lotte per la corona
dell’isola, giungeva solennemente in Sicilia.
Non si hanno notizie sulla vita coniugale
dei sovrani. Re Martino dopo appena due anni lasciò la Sicilia al governo della
moglie per recarsi in Catalogna da dove tornò nel 1405.
Nel 1408 ripartiva per la Sardegna
che si era ribellata al padre, Martino il Vecchio d’Aragona.
In quest’isola Martino il Giovane
morì nel 1409 ucciso, a “forza di baci”, da una donna, la “Bella di San Luri”.
Il Marianna, nelle “Historiae de
rebus Hispaniae”, narrava che egli “si
infermò di una febbre non mortale, della quale guarì, ma mentre era
convalescente, siccome era portato per il bel sesso, volle giacersi per una
bella giovane sarda, per cui tornò ad ammalarsi e cessò di vivere”.
La regina Binaca, rimasta vedova,
affiancata da un consiglio di baroni dal quale era stato escluso Bernardo
Cabrera, uomo orgoglioso, caparbio e superbo, fu confermata vicaria del regno
dal suocero che aveva ereditato dal figlio la reggenza dell’isola.
Morto il re Martino il Vecchio,
Binaca si ostinò a rimanere in Sicilia scatenando le ire di Bernardo Cabrera,
conte di Modica, il quale in quanto supremo magistrato del regno, aspirava a
impadronirsi del titolo regio. Tesi condivisa da gran parte dei baroni e
magistrati siciliani che si erano riuniti in parlamento a Taormina anche se
successivamente da questi sconfessata.
Il Cabrera era avanti con l’età, si
ribellò alla decisione del parlamento e pensò di chidere Bianca in matrimonio.
Sembra che la regina, dal castello Ursino di Catania, lo abbia deriso mentre
lui gli dichiarava “il suo amore”.
Cabrera poco tempo dopo, penetrò a Palermo, forzò il
palazzo Chiaramonte, lo “Steri”, per catturare la regina. Bianca, destata dal
frastuono, riuscì a fuggire con alcune dame rifugiandosi nel castello di Solunto. Sembra che il Cabrera
una volta entrato nella stanza da letto
delle regina e trovandola vuota, abbia esclamato “ Perdetti la pernice, ma tengo
il suo nido”.
Dopo due anni di guerra, in cui
furono distrutti i casali di Adragna, Comicchio, Senurio e Terrusio, i cui
abitanti si rifugiarono nel castello di Zabut, un Moncada che parteggiava per
Bianca riuscì a catturare Bernardo Cabrera. (A favore di Bianca erano anche i
Rosso, i Filangieri e i Lanza)
Il conte fu tenuto nudo dentro una
rete per diversi giorni, fino a quando il nuovo re Ferdinando I ne ordinò la
liberazione costringendolo a pagare diecimila fiorini a Bianca per risarcirla,
probabilmente dei gioielli che le aveva rubato allo Steri.
Bernardo Caprera (Cabrera) e de Fois fu uno dei primi
signori della Catalogna.
Visconte di caprera, passo in Sicilia con il re Martino e
con la carica di
ammiraglio dell’armata reale. Con Concessione del 5 giugno
1392 fu investito
della Contea di Modica che era stata posseduta da Andrea
Chiaramonte di cui
il Cabrera fu giudice e spietato carnefice.
La tomba di Bernardo Cabrera a Modica nella Chiesa di San
Giorgio
A pochi chilometri da Sambuca, Rocca
Battaglia, ricorda lo scontro tra il Conte il Modica e i partigiani della
regina Bianca di Navarra. (articolo di Licia Cardillo)
Ferdinando di Castiglia, nuovo re
d’Aragona e cugino di Bianca, inviò in Sicilia cinque nobili che dovevano
supportare la regina. In realtà la privarono di ogni potere lasciandole solo il
ruolo di Vicaria. Bioanca cercò di fare capire al cugino che questo
comportamento politico poteva aprire le porte ad altri aspiranti al trono di
Sicilia come i regnanti di Napoli. Ma Ferdinando non l’ascoltò e quanto lo
stesso Ferdinando decise di sottoporre a processo il nemico Cabrera, pur
garantendogli tutta l’assistenza legale di cui ella stessa si era resa
fautrice, fu costretta a liberarlo purchè abbandonasse la Sicilia.
Scomparso il suo nemico di sempre la
regina vide diminuire sempre più il suo ruolo, era sempre una vicaria e
rappresentava l’autorità centrale, perché i cinque ambiasciatori di re
Ferdinando esercitavano il dominio assoluto.
Bianca firmò qualche atto di
ordinaria amministrazione dimostrando come sempre la sua intelligenza e
sensibilità come nell’attribuire ufficialità all’attività di una donna chirurga
cosa, che per quei tempi, era un vero e proprio atto rivoluzionario. Decretò
tasse più giuste e cercò di combattere la corruzione dei pubblici funzionari.
Provà a fare ordine nella miriade di leggi e leggine che favorivano da sempre i
signori locali e mostrò il suo concetto di libertà.
Diede impulso all’artigianato, alla
pesca e favorì lo sfruttamento delle enormi ricchezze dell’isola.
Alla fine Bianca, stanca di non
ricoprire un vero ruolo di guida dell’isola e colpita nell’animo nel vedere
l’isola diovisa sotto l’azione di continue ingiustizie, scrisse una lettera ai
siciliani e scelse di tornare in Navarra nel suo castello di Olit.
Castello di Olite (Navarra – Spagna)
Continuò ad interessarsi della
Sicilia che amava tanto ma il sovrano alla fine gli tolse definitivamente
qualsiasi influenza sull’isola.
Uno storico affermò che “I siciliani di allora, come
quelli di oggi, impegnati a risolvere piccole beghe personali, osteggiando per
anni Bianca, avevano perso la loro occasione d'indipendenza, frazionandosi (una
devolution ante litteram, le piccole patrie costituite da un feudo…) e
alimentando gli odi e le invidie personali, i razzismi, in parole povere. Bianca ci aveva provato a rendere libera la Sicilia ma
non l’hanno seguita: era più facile e più bello essere ricchi e da soli”.
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La
storiografia non cita il colonnello garibaldino Orsini e tanto meno le vicende che lo portarono con il suo drappello di uomini a Sambuca.
La
storiografia è spesso superficiale e non rende sempre i giusti meriti.
Ma
chi era Vincenzo Giordano Orsini ?
Fu
un patriota e politico, nato a Palermo il 14 gennaio 1817 e morto a Napoli il 7
luglio 1889.
Era
un ex allievo della Scuola Militare Nunziatella ed ufficiale dell’artiglieria
borbonica.
Aderì
alla “Giovae Italia” di Mazzini partecipando ai moti siciliani antiborbonici
del 1848 e 1849. Fu mandato in esilio in Turchia ma rientrò per partecipare
alla spedizione dei Mille.
Garibaldi
si trovava a Piana e si rese conto che nonostante il valore dei “picciotti”,
mai riconosciuto e forse anche un po’ bistrattato come ha affermato qualche
storico, non poteva attaccare Palermo perché difesa da un forte e numeroso
esercito borbonico.
La
città doveva essere conquistata perché
avrebbe causato la fine del dominio napoletano nella Sicilia.
Ordinò
al colonnello V.G. Orsini di spostarsi a
Corleone per difenderlo e fortificarlo.
Francesco
Crispi, conosceva quelle zone essendo siciliano, e aveva suggerito Giuliana
posto su un colle alto circa 700 m e quindi difendibile in caso di attacchi
nemici.
L’Orsini
fu titubante e alla fine decise di prendere la via per Corleone.
Era il tramonto del 25 maggio 1850…. Garibaldi
prese la trazzera per Marineo mentre l’Orsini prese la via per Corleone, (si
separarono nei pressi del Ponte “Malanoce” e del mulino “Ciafèrra”) scortato
dai “marinari cannonieri” e dai pochi
militari che costituivano il corpo militare del genio.
Un
drappello di circa 100 uomini, “molti dei
quali feriti, non erano più in grado di combattere; trentadue erano i carri,
cinque i cannoni, venti appena i fucili…”.
E
l’esercito borbonico ?
La
critica storica ancora oggi cerca di studiare il comportamento militare,
decisamente strano, dei borbonici perché il colonnello svizzero, Luca von
Mechel, che insieme al maggiore Ferdinando Beneventano del Bosco comandavano le
truppe borboniche, pensò che il comando
dei garibaldini fosse dove c’erano i cannoni. Un comando che fuggiva verso
Sciacca perchè aveva considerato perso lo scontro…. mentre l’esercito che
marciava verso Marineo fosse solo costituito da squadre di picciotti.
Probabilmente il colonnello svizzero fu
informato male o non prese la reale
visione sulla consistenza dei due eserciti… un centinaio quelli che marciavano
verso Corleone e decisamente più numerose quello che marciava verso Marineo.
Lo
stesso colonnello svizzero telegrafò ai suoi superiori di Palermo affermando
che le squadre di picciotti avevano abbondonato Garibaldi.
Luca von Mechel
Ferdinando
Beneventano del Bosco
Secondo
alcuni storici il von Mechel aveva intuito i piani di Garibaldi e le sue mosse
militari ma non si preoccupò eccessivamente perché aveva ben ventimila militari
che presidiavano la capitale ed avrebbe potuto prendere in qualsiasi momento
agevolmente i cannoni e gli altri pezzi dell’artiglieria dell’Orsini.
Un
aspetto importante risalta in questa vicenda ricca di tattiche militari…
Nello
schieramento borbonico ben quattro battaglioni scelti e due ufficiali regi, tra
i più preparati ed esperti, furono sottratti dallo scontro finale.
L’Orsini
grazie alla sua perizia militare e con il favore della sera, riuscì con appena
100 uomini malandati ad allontanare da Garibaldi ben 4.000 soldati di Francesco
II facendo diminuire di numero il
presidio di Palermo. Gli storici che citarono l’episodio lo definirono
come la “beffa o diversione di
Corleone”.
Anche su questo aspetto la critica storica è
decisamente divisa.
Alcuni
sostengono che fu una mossa studiata per
ingannare i nemici mentre per altri fu solo casualità perchè Garibaldi volle
liberarsi degli impedimenti (i feriti) per marciare più speditamente verso
Palermo. In quest’ultimo caso la “beffa” la creò il colonnello borbonico con la
sua decisione d’inseguire il “falso comando nemico”. Nei documenti del tempo non
risulta alcun cenno sulla finta “fuga”.
Il
proposito di Garibaldi era quello di giungere il più presto possibile a
Palermo… aspettare il momento propizio per attaccare.. .. e se gli eventi
avessero preso una brutta piega,
effettuare una veloce ritirata verso l’interno dell’isola o verso le
squadre del La Masa.
A
Corleone l’Orsini ricevette degli aiuti da parte della popolazione meno
reazionaria ma inseguito dall’esercito borbonico fu costretto subito a
spostarsi verso Campofiorito. Qui gli abitanti, al passaggio del drappello, per
paura si chiusero nelle proprie modeste case. Anche a Bisacquino la gente si
comportò allo stesso modo. A Chiusa ci fu una timida accoglienza e l’Orsini
puntò su Giuliana seguendo le antiche indicazioni di Francesco Crispi.
Ormai
il piccolo drappello dell’Orsini era in fuga… una fuga vera e non simulata. La
strada per Giuliana era tortuosa, difficile, stretta e i garibaldini dovettero
portare i cannoni a braccia. Non incontrarono nessuno lungo la strada e tanto
meno qualche animale da tiro per essere aiutati nel difficile trasporto dei
cannoni. Fu informato che l’esercito borbonico era ormai vicino e l’Orsini
decise di non utilizzare i cannoni e di bruciare gli affusti cioè i sostegni di
legno dove si fissavano o appoggiano le bocche di fuoco per poterle manovrare
(puntamento e tiro) e trasportare.
I
giulianesi furono suggestionati dai discorsi del clero, decisamente
filoborbonico, e si rifiutarono di aiutare i rivoluzionari sebbene fossero
stati offerti cinque once per il trasporto di ogni cannone. Si creò un clima di
tensione e il colonnello garibaldino, dopo aver minacciato in preda all’ira
delle vendette, ordinò ai suoi uomini di stracciare le camicie che indossavano,
le bandiere tricolori e di riprendere il cammino.
Secondo
Leonardo Sciascia, nel suo racconto “Il Silenzio”, gli abitanti di
Giuliana erano venuti
a conoscenza di ciò che le truppe borboniche,
comandante dal colonnello svizzero Giovan Luca von Mechel, avevano scatenato a
Corleone con case incendiate e saccheggiate. I giulianesi, malgrado la paura di
possibili ritorsioni, con umanità donarono delle coperte, del cibo e dell’acqua
ai militari feriti, malgrado il parere contrario del clero e dei nobili
filoborbonici, ma dovettero costringere con la forza i borbonici ad abbandonare
la città per cercare rifugio altrove. Come si nota sono due versioni
contrastanti.
Il ogni caso il drappello dell’Orsini riprese la
marcia verso Sambuca…. Una meta che non
era stata prefissata e che in quelle condizioni di stress fece nascere nei
militari una fase di oscuramento.. senza una meta prefissata.
La stanchezza fece assumere al drappello l’aspetto di
uomini dispersi a tal punto che qualcuno vedendoli, fu assalito dal timore di
trovarsi di fronte ai componenti della famigerata banda di Santo Meli.
Quando si diffuse la notizia che erano dei garibaldini
inseguiti dalle truppe borboniche, una staffetta di sambucesi raggiunse
l’Orsini per offrigli ospitalità. …”a
mezza strada incontrarono i notabili di
Sambuca: venivano loro incontro ad invitarli, a rassicurarli. Avevano saputo di
quel che era capitato a Giuliana”.
Erano le cinque del pomeriggio del 28 maggio e
l’ufficiale rifiutò l’invito preferendo sostare presso una masseria detta
“Sommacco”.
Mentre si trovavano a riposare nella masseria, arrivò
la notizia che Garibaldi era entrato a Palermo.
Il secondo invito d’ospitalità offerto dalla
cittadinanza di Sambuca, guidata dallo scrittore Vincenzo Navarro, fu
accettato. Dopo una notte di riposo i garibaldini marciarono all’alba verso Sambuca.
Furono
accolti dai sambucesi con festeggiamenti. Le vie del paese, come riporta
Sciascia, erano illuminate a festa…”esattamente
come avveniva per la celebrazione della Madonna dell’Udienza”.
“… Quell’illuminazione, con von Mechel che gli correva
dietro, gli parve (al colonnello Orsini) inopportuna: ma l’accoglienza di
Sambuca lo ripagava dell’amarezza che gli aveva dato Giuliana”.
I feriti, gli ammalati, furono ospitati dai popolani (secondo
Sciascia) mentre nella tesi dello
storico Michele Vaccaro furono “ospitate nelle case delle migliori famiglie e negli ampi locali
dell’Ospedale “Caruso” allora chiuso all’utenza”.
Secondo Vincenzo
Navarro, che visse in quel periodo, nascondendo le milizie nelle case degli
umili si sarebbe eseguita una strategia psicologica. Infatti lo stesso Navarro avrebbe detto
all’Orsini che “Se vi inseguiranno fin qui, le nostre case saranno le prime a
essere perquisite: le mie, quella del dottor Merlini e dell’arciprete Ciaccio e
di tutti quelli conosciuti come liberali”.
Come
era già accaduto a Corleone, anche le loro dimore sarebbero state quindi,
bruciate dai borboni. Per questo motivo, secondo Navarro, era conveniente far
alloggiare i feriti, laddove l’esercito non avrebbe controllato, ossia nelle
case dei popolani, “gente di cuore, che si farebbe ammazzare senza
dire una parola”.
Sciascia fece un
accurata descrizione delle case dei contadini e degli artigiani, come se
fossero di sua conoscenza diretta: “i
letti incassati dentro le alcove in muratura, quasi tutti sovrastati da una
immagine della Madonna dell’Udienza, patrona del Paese, da un ramoscello
d’olivo, da una croce di palma. (…) Le donne si affaccendavano a preparare
l’acqua calda, le bende, i cibi che i medici avevano ordinato”.
Il colonnello Orsini fu commosso da tanta ospitalità: “quei segni di
greve miseria lo colpivano. Non aveva mai visto quella faccia dolente e greve
della sua terra. E più lo colpiva che in queste condizioni di vita non diverse
da quelle della capra, dell’asino, la gente conservasse intatti ed alti i
sentimenti umani: la pietà, la gentilezza, il coraggio.”
I
sambucesi, coscienti del pericolo per le possibili ritorsioni dei borbonici,
aiutarono i garibaldini (con cibo e vestiario)
mettendosi anche in contatto con i campi di Salemi e di Gibilrossa dove
avevano inviato alcuni patrioti.
Ci
fu una vera e propria gara di solidarietà.
Gli
abitanti del vicino centro di Giuliana, una volta saputo del trionfale ingresso
di Garibaldi a Palermo, si misero in contatto con l’Orsini dichiarando che “erano disposti a restituire le armi, le
munizioni e tutto quello che erano riusciti a rubare alla colonna… e di
premurarsi nel recuperare i cannoni e rifare gli affusti”.
Giunsero
attestati di stima anche da Chiusa, Bisacquino, Campofiorito…. Tutti erano
pronti ad accogliere i vincitori ed ad abbattere gli stessi dei Borboni tanto
ossequiati dal clero e da alcuni nobili.
Rifatti
gli affusti dei cannoni, riparati i carri, riforniti di vestiti e di
vettovaglie, di 59 onze (seicento ne furono spese per mantenere e rifornire la
colonna), di dodici muli da basto e due da sella, all’alba dell’uno giugno i
garibaldini si rimisero in marcia.
Tredici
sambucesi di aggregarono alla colonna e
alcuni di loro avrebbero successivamente preso parte allo sbarco in Calabria.
Il
6 giugno arrivarono a Palermo.
Una
pagina di storia che fu raccontata da tanti scrittori come il già citato
Leonardo Sciascia e storici come Carlo
Agrati, Giacomo Oddo e il prof. Michele Vaccaro.
Non
fu una pagina di storia “secondaria” perché quell’impresa fu fondamentale per
l’entrata di Garibaldi a Palermo.
Cosa
sarebbe successo se il von Mechel, come afferma il prof. Vaccaro, avesse preso
subito il colonnello Orsini e fosse tornato celermente indietro ?
È
giusto riconoscere il giusti meriti ed essere soprattutto obbiettivi. Un
aspetto che raramente s’incontra nelle pagine di storia scritte senza amore e
soprattutto coscienza.
Giusti
meriti anche per i patrioti di Sambuca perché il centro si presentò, come
affermò Sciascia, in un clima di disarmante armonia e tranquillità.
Quando
le truppe di Von Mechel giunsero a Sambuca di Sicilia, il comune si presentò
all’esercito borbonico in un clima di disarmante armonia e tranquillità.
Il
paese aveva ripreso a lavorare come se, tra quelle vie e in quelle case, non
fosse successo nulla. In verità, molti militari, pronti alla resistenza, erano
armati duramente e appostati nelle case lungo il Corso Umberto, pronti a
qualsiasi possibile attacco; ma all’apparenza, come in una performance
teatrale, tutto doveva apparire normale.
Ad
accogliere il generale von Merchel a
Sambuca fu l’arciprete Ciaccio che, nonostante il ruolo
increscioso che gli toccò svolgere, al comandante sanguinario non disse mai il
falso: “Parola di sacerdote: Garibaldi è
a Palermo” – infatti Garibaldi era a Palermo, a Sambuca c’era Orsini.
Gentilezza e
furbizia salvarono così il comune di Sambuca dal disastro borbonico.
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2. IL
CASTELLO DI MAZZALLAKKAR – Resta sommerso
per sei mesi all’anno dalle acque del Lago Arancio – Il fortino è di origine
saracena – Confronto con i “ribat” - I
Feudatari: Ruffo, Ferrario, Denti –
“Zabut”, l’odierna Sambuca, fu fondata nell’830 circa
dagli Arabi. Il termine sembra collegato all’Emiro Al Zabut, un seguace del
conquistatore maghrebino Ibn Mankud “l’ardente guerriero della fede” e signore
indipendente delle kabyle di Trapani, Marsala e Sciacca. Fu proprio Mankud che
guidò le truppe alla conquista di Castrogiovanni, Val di Noto e dopo, un lungo
assedio, anche alla presa di Siracusa che allora era la capitale bizantina
dell’isola.
L’Emiro Al Zabut era un giovane guerriero che si
distinse nella conquista della testa di ponte di Mazara e per il suo valore nei combattimenti di Girgenti e di
Castrogiovanni. Infatti si guadagnò l’appellativo di “Al Chabut” cioè “lo
splendido” che trasmise alle terre da lui conquistate.
Zabut fu abitata dalla popolazione islamica, malgrado
la conquista Normanna dell’isola, fino al XIII secolo quando si ribellò, come
altre città dell’isola, al consolidamento imperiale di Federico II di Svevia.
Federico II che costruì il castello di Giuliana come base per le sue azioni
militari per la definitiva soluzione della "“questione araba” anche su
sollecitazione del papa.
Zabut riuscì a resistere alle truppe imperiali per ben
due anni fino al 1225 quanto la sua resistenza fu stroncata e ci fu la strage.
Sambuca conserva ancora oggi questa testimonianza
islamica con il “quartiere arabo” che si sviluppa attorno a sette “vicoli
saraceni”.
Vicoli che sono un museo vivente di storia
araba-sicula. Ma c’è un'altra testimonianza araba, anche particolare, legata
alla fortezza di Mazzallakkar sulle sponde del Lago Arancio.
Particolare perché le acque del lago in piena riescono
a sommergere la splendida fortezza.
Il
fortino nella zona dei Mulini, per la presenza di numerosi mulini lungo le
sponde del torrente Rincione, tra la collina di Castellazzo e la Torre Cellaro
che si estende nella parte bassa del territorio di Sambuca.
La
sua costruzione risale al periodo in cui gli Arabi fondarono Zabut. Si trattava
di un avamposto per difendere il territorio attorno al castello di Zabut posto
più in alto dove oggi sorge la Matrice.
Ha
una pianta quadrangolare e ad ogni vertice si eleva un torrione di forma
circolare coperto da una cupola in pietra calcarea con un ornato cuspidale
(forse in origine una mezzaluna o una
fiamma).
I
torrioni sono muniti di feritoie e l’altezza delle mura raggiunge circa i 4
metri. Le escursioni termiche e le depressioni idro-geologiche stanno
distruggendo in modo irreparabile questo capolavoro storico e architettonico,
l’unico in tutta la Sicilia.
La
sua tutela può essere attuata con opportuni studi di ingegneria al fine di
ipotizzare l’isolamento della struttura dalle acque o il trasferimento sulla
terra ferma. Mancano d’altra parte rilievi archeologici sulla zona che
potrebbero svelare tanti segreti.
Sulla
fortezza mancano citazioni mentre i documenti rilevano l’esistenza del feudo
Mazzallakkar (Mazzallaccar) di cui faceva parte la contrada “Castellazzo” che
traeva la sua terminologia proprio dalla presenza della fortezza.
Il
Barberi cita un atto in cui il feudo Mazzallakkar, chiamato successivamente
“Chillaro”, venne concesso da Re Ruggero a Gervasio Ruffo e ai suoi eredi.
I Ruffo di
Calabria è annoverata tra le sette più
grandi casate del Regno di Napoli.
Una discendente è
la sesta regina dei belgi, Paola, figlia di Fulco Ruffo di
Calabria e moglie
del sovrano Alberto II del Belgio.
Alcuni Agiografi e
genealogisti ha assegnato alla famiglia Ruffo una sua origine
romana(discendenti
dalla gens Cornelia e nel particolare dal ramo
consolare dei
Rufo) o bizantina (per la presenza presso la corte imperiale di
Bisanzio di
personalità di rilievo con il cognome Rufus).
L’ipotesi normanna
è invece la più accreditata perché i Ruffus o Rufus sono
presenti in
Calabria, Inghilterra e in Sicilia nell’XI e XII secolo.
Gervasio Ruffo, fu
nominato nel 1125 strategoto di Messina ed elevato
da Ruggero II di
Sicilia nel 1146 al rango di Signore di Mizzillicar e Chabuca (Sambuca).
Un probabile
discendente di quest’ultimo, ricordato come Ruggero de Gervasio, fu
Nominato da
Federico II di Svevia “vallectus camerae”
nel 1223 e nello
Stesso periodo di
ricorda un Serio Ruffo, gran maresciallo del regno, che prese parte alla
Scorta della salma
dell’Imperatore a Taranto per essere imbarcata per la Sicilia..
“un foltissimo gruppo di saraceni scalzi e piangenti
accompagnò l’Imperatore…..”
Il
feudo assunse il termine di “Chillaro”
verso il 1455 quando una discendente Ruffo lo donò al nipote Jacopo de
Ferrario.
Ferrario; Ferrara;
Ferrari
Antica famiglia
originaria forse della Lombardia e portata in Sicilia da un
Luigi o Pierluigi
che fu castellano di Piazza (Armerina) sotto re
Pietro I d’Aragona
“Godette nobiltà in
Messina, in Sciacca, in Palermo, ecc.
Possedette i feudi Benvini,
Bertavilla, Cellaro, Godrano, Giardi-nello,
Palomba e Caruso, Lazzarino,
Montagna di Monterosso, ecc.
Tra gli altri notiamo un
Cosma, che fu senatore di Palermo nel 1649-50”.
In
seguito ai dei matrimoni il feudo pervenne nel 1465 ai Perollo.
Diventò
poi feudo della famiglia Denti.
Vanta discendere da un Giovanni Denti di Ravenna, luogotenente
del vicario imperiale
in Italia nell’anno 724 e signore dello stato di
Balugolo in quel di Padova.
Si vuole che sia stata portata in Messina nel 1248 da
un Alberto Denti.
Un Giacomo, fu dottore in leggi e giudice della Gran
Corte del Regno nel 1399;
un Andrea, sotto i Martini, ebbe il feudo di
Resuttano; un Giovanni fu il primo barone di Raneri; un Cesare (apparteneva a
detta famiglia?) con privilegio dato il 20 marzo
esecutoriato a 22 agosto 1605 ottenne il titolo di
Don;
un Lucio barone di Raneri, fu giudice della Gran Corte
nel 1613-14-15,
presidente dello stesso tribunale nel 1639 e morì nel
1649……”
Dopo
il 1860 fu incamerato al Regio Demanio per essere lottizzato e venduto ai cittadini di Sambuca.
In
origine sorgeva su una posizione elevata , posto all’imboccatura della valle a
guardia di un passaggio obbligato lungo la strada che da Palermo conduceva a
Sciacca passando nelle vicinanze di Sambuca.
Fino
agli anni cinquanta il fortino si trovava in discrete condizioni malgrado il
suo utilizzo abusivo da parte di pastori. Fu costruita la Diga Carboj,
sbarramento delle acque del fiume Rincione-Carboj, e la sua realizzazione causò
degli inconvenienti per la bellissima struttura che restava sommersa
parzialmente dalle acque del lago per almeno sei mesi all’anno.
Gole della Tardara
– Lago Arancio
Presenta
una pianta rettangolare (51,60 x 54,20) m ed è fiancheggiato, ai quattro angoli
da torri. Torri cilindriche aventi un diametro di 5 m ed avanzate rispetto ai
muri perimetrali in modo da tenere sotto il controllo di tiri incrociati tutto
il perimetro della fortezza e naturalmente anche gli ingressi.
I
muri perimetrali hanno un altezza di circa 5 m ed uno spessore di 1,10 m. e le
porte si aprivano sui due lati nord e sud. A causa dell’erosione delle acque è
crollata quasi interamente la parete settentrionale per cui non c’è più traccia
della porta nord e con essa sono scomparse le tracce di una iscrizione in
caratteri arabi che secondo alcune voci locali, sovrastava la stessa porta.
È
probabile che non sia stata rimossa, almeno si spera, e che possa quindi
trovarsi tra il cumulo di pietre e lo spesso strato di melma depositato dalle
acque del bacino durante le piene invernali.
Uno
scavo archeologico potrebbe riportarla alla luce e fornire anche altre notizie
con il possibile recupero di preziosi reperti.
La
porta meridionale, dell’apertura di 1,30 m, era perfettamente integra con arco
a sesto fortemente ribassato. Un arco ottenuto grazie ad una fila di conci
posti di taglio, con effetto di
strombatura volta verso la parte interna del cortile.
Porta Meridionale
vista dal cortile
Guardando
dall’esterno, sullo stipite sinistro erano ancora visibili i fori in cui erano
infisse le cerniere della porta che si doveva quindi aprire verso l’esterno.
All’interno
del cortile, nell’area antistante la torre sud-est, erano visibili le tracce di
ambienti, forse delle abitazioni. La loro piccola dimensione fa pensare come la
fortezza fosse in grado di accogliere solo un piccolo nucleo di difensori
(addetti alla sorveglianza). Questo quindi conferma la tesi come la fortezza
sia un avamposto del castello di Zabut ed in ogni caso anche la base per azioni
di disturbo verso nemici in marcia verso importanti obiettivi.
La
difesa vera e propria del territorio spettava al castello “Qasr Ibn Mankud”
posto in alto sulla colla di Zabut (Sambuca).
Gli
Arabi nella loro architettura e pianificazione bellica erano soliti ricorrere a
questi avamposti. Attorno alla piazzaforte di Sfax, in Tunisia erano presenti
queste piccole fortificazioni che venivano considerate complementari di
strutture militari di primaria importanza. Erano dei semplici corpi di guardia
posti lungo le vie d’accesso alla città con il carattere di cinte fortificate.
Questo
dimostra le grandi differenze che tali fortificazioni mostrano con i ribat e i
castelli fortificati dell’Iraq e con quelli della Giordania, dei quali ripete
solo l’impianto.
Dei
ribat mancano la serie di celle e soprattutto la moschea, caratteristiche peculiari di quei conventi fortezza legati
all’idea islamica di guerra santa mentre dei palazzi fortificati non presenta
quella suddivisione simmetrica degli spazi. Da questa suddivisione simmetrica
prendevano sviluppo o nascevano gli alloggi e le sale di rappresentanza.
Di
entrambi i modelli mancano sia l’avancorpo turrito che, attraverso una galleria
monumentale, immetteva al recinto interno, sia i contrafforti semicilindrici,
posti ad intervalli regolari, lungo il perimetro delle mura ed intermedie alle
torri d’angolo.
L’unico
aspetto che induce a collegare la fortezza di Mazzallakkar ai ribat ed ai
modelli africani di palazzi fortificati, è la suggestiva presenza delle torre
angolari, cilindriche.
Ribat di Monastir
– Pianta del piano inferiore
Kasr i Shirin
La
fortezza di Mazzallakkar presenta, come
nelle su citate strutture militari, le torri con feritoie e vuote all’intero,
con un ampio spazio praticabile.
Le
torri angolari non oltrepassano l’altezza dei muri, hanno un diametro di 5 m e
uno spessore murario di 76 cm. Si aprono verso il cortile interno con porte di
cui rimangono visibili solo quelle delle torri sud-est e nord-est che hanno
resistito all’azione erosiva delle acque. Un aspetto caratteristico è dato
dalla disuguaglianza tra le due porte delle torri. La porta della torre sud-est
copia il modello dell’unica porta d’ingresso alla fortezza oggi visibile
mentre la porta della torre nord-est è
architravata e fungono da stipiti ben tre massi sovrapposti per parte e sormontati
da un blocco monolitico in funzione di architrave.
Torre di Nord-Est
vista dal cortile
Porta della torre
nord-est vista dall’interno
Il
modello della porta della torre nord-est richiama le aperture dei locali che
circondano il cortile del ribat di Monastir e stabiliscono quindi con la
fortezza di Mazzallakkar un altro punto di contatto tra quello che potremo
definire architettura araba-siciliana e architettura araba-tunisina.
Le
feritoie poste lungo il perimetro delle torri sono in numero di cinque e
presentano una forma ad imbuto a testimonianza che dovevano servire a dei
soldati che combattevano con archi.
Queste all’esterno sono mimetizzate grazie all’uso di lastre calcaree in
cui è stato praticato un foro.
Feritoia vista
dall’esterno
Pianta
della fortezza di Mazzallakkar – Sambuca di Sicilia
Le torri s’inseriscono nei muri perimetrali mediante
un aro della loro circonferenza.
Datare
la costruzione della fortezza al periodo arabo è possibile grazie proprio alla
pianta delle torri e viene accattata la sua derivazione dai ribat della fascia
mediterranea dell’Africa.
Una
sua possibile derivazione romana o forse bizantina ?
La
pianta dei “castra” romani presenta con agli angoli del quadrilatero delle
torri quadrate. Una pianta che fu preferita anche per le fortificazioni bizantine
la cui altra caratteristica era quella di presentare muri con elevato spessore,
a doppia cortina formata da blocchi squadrati e con un riempimento ottenuto con
pietrame legato da malta.
La
civiltà araba portò in Sicilia anche espressioni architettoniche d’ispirazione
persiana. I conquistatori venivano da quella parte della Tunisia che aveva
assorbite delle influenze persiane.
Le
torri esaminate dall’esterno appaiono cilindriche, sono coperte da cupole nascoste dal muro perimetrale e si elevano
fino a raggiungere l’altezza dei muri del quadrilatero.
Le
cupole emisferiche sono raccordate alle pareti senza alcuna membratura in
aggetto e la curvatura fu ottenuta accostando, con un movimento a spirale,
conci posti di taglio e saldati per mezzo di un abbondante colata di malta
tanto da apparire infissi in essa.
Cupola
dall’interno
Una
simile struttura architettonica si trova nel mihrab della Grande Moschea di
Kairouan. La tecnica edilizia adottata nell'erezione dei muri è un conglomerato
di pietre legate con abbondante malta, rivestito da uno strato d'intonaco, di
cui rimangono tracce. Questa tecnica muraria, frequente nell'edilizia minore
della Val di Mazara fino al periodo normanno, accostata talvolta alla pietra
ben tagliata, veniva adoperata anche in Africa e, secondo alcuni studiosi, è di
derivazione berbera.
Che
possa essere stata edificata durante il regno normanno non sembra verosimile.
In questo periodo non ci sarebbero state ragioni per fortificare in tal modo un
paese posto non eccessivamente all'interno e perciò costantemente controllabile
da Palermo, sede del potere regio, né sulla costa e quindi non alla mercé
d'incursioni dal mare. In
quanto ad una datazione dell’edificio in epoca posteriore al periodo normanno,
lo escluderebbero le sue proporzioni. Nel periodo svevo si fabbricarono molti
castelli e torri, anche a pianta quadra, ma avevano un forte sviluppo verticale
che risentiva fortemente d'influenze gotiche. Un aspetto del tutto estraneo a
quello arabo che, anche se di pianta ampia, banno un equilibrio di proporzioni
tale per cui sembrano non volere dominare sull'ambiente circostante. Nulla prova che
sia stato Ibn Mankud a volerne l'erezione. Sono solo congetture suggerite dalle
parole di Idrisi. Se il geografo arabo, quando la Sicilia era ormai regno
normanno, accenna al casale per riflesso, menzionando il castello da cui era
dominato, evidentemente nella contrada era ancora vivo il ricordo di Ibn Mankud
e molto probabilmente perché questi, tra i capi ribelli, doveva essersi
distinto per qualche ragione. Un castello sorto forse quando il domino arabo
era al tramonto ed erano vive le dispute tra arabi e berberi o ancora con gli
arabi di Palermo ? Forse degli scavi potrebbero svelare i segreti ma in ogni
caso sarebbe opportuno adottare tutte quegli interventi, penso non molto
dispendiosi, per permettere che questo raro esempio di fortificazione araba
possa essere salvaguardato.. Lo so sono parole gettate al vento .. ma la
struttura è una ricca testimonianza di Storia della Sicilia…
“Ove son or le
meraviglie tue
O Regno di Sicilia
? Ove son quelle
Chiare memorie
onde potevi altri
Mostrar per segni
le grandezze antiche ?”
(Tommaso Fazello)
Aggiungo ….
“La nazione che
distrugge il proprio suolo distrugge se stessa….”
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2.
TORRE PANDOLFINA –
I Feudatari: Perollo – Monroy (discendenti
dal condottiero spagnolo Herman Cortes Monroy, conquistatore dell’Impero
Azteco) – Anna Monroy Paternò
La Torre si trova nell’omonima
contrada (ex feudo) posta a nord del centro.
Il nucleo originario fu probabilmente
costruito verso la fine della seconda metà del XIII secolo. Si trova a presidio
di un importante valico per la valle di Zabut. In questo sito trovarono una
forte resistenza le truppe del Conte Cabrera durante gli scontri per la
successione al Trono di Sicilia.
Feudo Pandolfina ?
La torre è munita di feritoie e merli
e domina l’angolo del massiccio muraglione quadrangolare nel quale si entrava
attraverso un portone guarnito da un portale medievale. Nell’interno del
quadrilatero adibito, a stalla….. furono costruite stalle e fienili !!!!!!
Ritornando alle fase storiche c’è da
dire che nel 1397 Guglielmo Peralta concesse la torre ed il feudo alla famiglia Perollo (al milite
Giovanni Perollo) di Sciacca con il titolo di baronia (Atto del 27 gennaio).
Nel XV secolo la famiglia Perollo ristrutturò la torre che in seguito, nella
metà del secolo XVII, passò grazie ad un matrimonio alla famiglia Monrov, che
ne ebbe il privilegio di costruirvi una terra e di godervi il mero e misto
impero ottendno nel 1733 anche il titolo il principe.
Alcuni eredi divisero il feudo in
lotti e concessi in enfiteudi. Con
l’abolizionedella feudalità la torre e parte dei terreni furono venduti alla
pamiglia Planeta che ne detiene la proprietà fino ad oggi.
La famiglia Monroy o “de
Mondory” è originaria della Spagna,
insignita di varie onorificenze e spesso ricordata perché tra i suoi esponenti
c’era il celebre condottiero spagnolo Herman Cortes Monroy (conquistatore
dell’Impero Atzeco e primo Marchese della Valle dell’Oaxaca-Messico).
Originaria dell’Estremadura, fu
insegnita della Signoria, poi marchesato nel 1644, di Monroy da cui prese il
nome.
La venuta in Sicilia delle famiglia
Monroy risale alla prima metà del XV secolo con un certo Gonsalvo che seguì
Alfonso V d’Aragona ( re di Sicilia e di Maiorca con il nome di Alfonso I).
Il Gonsalvo diede un forte aiuto per
recuperare le isole di Sardegna e Corsica ricevebdo come ricompensa la possibilità di acquistare
nel 1421, per la somma di 30.000 fiori d’oro, le isole di Malta e Gozo con il
titolo di Contea dipendente dal Regno di Sicilia. Isole che perdette dopo pochi anni per una insurrezione
popolare.
In Sicilia aveva comunque acquistato
alcuni feudi tra cui quello di Motta Sant’Anastasia e la tonnara di Bonagia.
Nel “Nobiliario Siciliano” del Dott.
Antonino Mango di Casalgerardo (edizione del 1912) è riportato che “fu cameriere maggiore di detto re e ottenne
da lui, con privilegio del 16 aprile 1416, concessione di tutti quei feudi e
baronie esistenti nel Regno di Sicilia e caduti alla Regia Corte, purchè la
loro annua rendita non eccedesse la somma di once 400 d’oro; fu perciò barone
di Frascino, Briemi, ecc.”.
Il ramo siciliano della famiglia
Monroy discende da Herman de Monroy, signore di Deiletosa e il capostipite in
Sicilia fu Ferdiando del Monroy y Monroy che si traferì a Palermo nel 1648.
Una brillante carriera politica:
Prefetto di cavalleria delle armi spagnole ion Fiandra nel 1631; cavaliere
dell’Ordine di San Giacomo della Spada nel 1636; ambasciatore straordinario in
Polonia; Maggiordono e Primo Cavallerizzo di Don Giovanni d’Austria (Vicerè di
Sicilia) ; Maestro Razionale di cappa e spada del Real Patrimonio; Conservatore
del Real Patrimonio….
Con privilegio datato 22 dicembre
1652 prese il titolo di primo Marchese di Garsigliano.
Dal matrimonio con Francesca Maria
Perollo e Cappasanta eredità le terre e la signoria di Pandolfina.
Giustamente il Monroy con il
matrimonio con la perollo avrebbe ereditato la castellania perpetua di Sciacca.
Nel corso dei secoli i Monroy acquisirono la signoria di quattro principati, un
ducato, due marchesati e tanti altri feudi minori.
La famiglia si divise in tre rami:
-
Il ramo principale legato al Feudo di
Pandolfina che come vedemo diventerà principato;
-
Il ramo dei principi di Belmonte per
successione Ventimiglia di castello Maniaci dal secolo XIX;
-
il ramo dei Principi di Giampilieri.
Il nipote di Ferdinando, Ferdinando
Monroy Tassis Gisulfo Perollo Colnago, , terzo marchese di Garsigliano, fu il
primo principe della casata con privilegio imperiale datato 14 febbraio 1733, “emesso dal Serenissimo Imperatore Carlo VI…
esecutoriato a 8 Aprile di detto anno”.
Titolo di “Principe di Monroy” da
appoggiarsi sul feudo di Pandolfina.
Fu governatore del Monte di Pietà di
Palermo nel 1728, 11733 e 1734; capitano di giustizia di Palermo nel 1714.
Si sposò con Antonia Scuderi e Palma
“figlia di Vito” e dal loro matrimonio nacque Alonso de Monroy Scuderi,
principe di Pandolfina con l’investitura registrata a 10 giugno 1748
Oltre al titolo di (secondo) principe
di Pandolfina era “Barone del Canale di
Sciacca e del Celso; Padrone del Castello di Sciacca e del Castello del Monte
di San Giuliano; Signore della Salinella, Palomba, Xabithiffeti, Piraino, San
Marco, Buonriposo, Pirrello, Torrebianca…ecc”.
Era deputato del Regno, Vicario Generale
nella Val di Mazzara nel 1747- 48, gentiluomo di camera di re Ferdinando IV,
ecc.
Alonso de Monroy fu ucciso nel 1764 a
Salemi, “nelle sue terre” in contrada “Passo del Principe”. I motivi non furono
chiari.
Si parlò di motivi passionali e
quindi la vendetta di un “santo sacerdote” a cui il principe aveva disonorata
la cognata. Altra versione, legata alla fantasia popolare, cita come autrice
del delitto una donna per vendicare il proprio onore. La verità fu un’altra e
dimostra come non fosse molto amato dai cittadini di Salemi.
Da ricordare il quinto principe di Pandolfina,
Ferdinando Monroy e Barlotta, artefice con Ruggero Settimo della rivoluzione
siciliana dal gennaio 1848 al maggio 1849. Fu esiliato e insieme al Settimo fu
tra i quarantacinque valorosi che non ebbero accordata l’amnistia.
In merito ai Principi di Belmonte c’è da rilevare che
Donna Marianna Ventimiglia di Castello Maniaci (Palermo, 17 novembre 1810:
Firenze, 15 dicembre 1867), Principessa di Belmonte dal 1832, sposò a Palermo
il 2 settembre 1832 Don Ferdinando Monrov e Barlotta (5° Principe di
Pandolfina).
Il ramo dei Ventimiglia di Belmonte si estinse così
nei Monroy di Pandolfina dando quindi origine ai Monroy Ventimiglia. Dal
matrimonio nacque Gaetano Monroy Ventimiglia di Pandolfina (1837 – 1888),
grande diplomatico e deputato del Regno d’Italia. Sposò Stefania Lanza
Branciforte ed ebbero sette figli tra i
quali Eleonora che sposò il duca Leopoldo Torlonia.
Fra i discendenti anche quel bizzarro conte di
Ranchibile, ricordato da Roberto Alajmo nel suo "Repertorio dei pazzi
della città di Palermo", che avendo fatto voto di andare in pellegrinaggio
in Terra Santa ma non potendovisi recare di persona, decise di percorrere la
stessa distanza che intercorre fra Palermo e Gerusalemme fra i viali del suo
giardino. Fu così che, seguito dal suo cameriere e da un cane, iniziò a girare
come un forsennato per i viali finché non ebbe percorso le migliaia di
chilometri che separano Palermo da Gerusalemme.
Nel XX secolo nella famiglia Monroy importanti
esponenti della cultura come Alberto Monroy (1913 – 1986) scienziato e pioniere
della biologia molecolare marina; Beatrice Monroy (figlia di Alberto) nota
scrittrice e giornalista e ancora un altro Alberto Monroy a cui fu affidata la
carica di Sindaco di Palermo durante lo sbarco alleato del luglio 1943.
Discendente della famiglia è Donna Anna Monroy
Paternò, Marchesa di Spedalotto, che fu ritratta da celebri fotografi, con
bellissime immagini, come Slim Aarons e Shobha.
In un articolo “Anna Monroy Paternò di Spedalotto.
Gattopardo di Sicilia” rileva nella sua semplicità, il suo amore per la
Sicilia, per la natura, per chi soffre impegnandosi bel sociale, per la storia
della sua nobile famiglia. Una storia comunicata con profondo amore facendo rivivere
quegli attimi così importanti non solo per lei ma anche per l’Isola.
Il giornalista la definì “Il Gattopardo di Sicilia”.
Nel “Gattopardo” Don Fabrizio Corbera , Principe di
Salina descriveva il suo dramma e quella della sua generazione vissuta tra
l’800 e il ‘900, della Sicilia negli
anni dell’unificazione. Ma il dramma più forte era legato alla percezione
negativa della realtà che si tramutava nella volontà del non agire e nella
“perenne” attesa di qualcosa o di qualcuno che sveli il senso della vita e
riesca così a placare l’attesa di felicità dell’uomo.,.. quella “perenne
felicità tanto attesa e invocata alle stelle..”.
Per Anna Monroy la nobiltà ha oggi un senso “se riesce a veicolare ancora educazione,
storia delle famiglie, storie locali potrebbe avere ancora un suo valore.
Significa anche impegno sociale verso gli altri”.
Il senso di nobiltà per Dante va al di là della
collocazione sociale “nobile è chi vuole
elevarsi alla ricchezza del cultura, delle gentilezza e del rispetto verso gli
altri”.. I nobili per lui non sono un ceto sociale legato a ricchezze
economiche ma un ceto da chi eticamente e moralmente è in grado di fornire il
giusto valore alla ricerca e al possesso del sapere, alla ricchezza personale e
culturale da condividere.
La Signora Anna Monriy con il suo essere rispecchia
perfettamente quelli che sono gli ideali della vera nobiltà.
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4. TORRE DEL CELLARO –
La
Madonna dell’Udienza – La famiglia Sciarrino e il loro feudo Verbumcaudo…
passato successivamente alla mafia… Oggi è gestito da una splendida cooperativa
di giovani.
La
torre si trova a sud-est del centro nella vallata che è attraversata dal
torrente Rincione.
Non
si hanno delle fonti ben precise sull’origine della torre. Fra il 1093 ed il
1146 l’intera zona sembra di pertinenza del Demanio Reale.
Nel
1230 la proprietà reale di Cellaro appare divisa in quattro casali.
Nella
baronia del Cellaro era presente una torre antica, imponente e fortificata,
databile al XIII secolo con una sopraelevazione inserita nel XIV secolo.
Sembra
che la torre sia stata costruita sui resti di una preesistente villa o fattoria
romana (di epoca tardo-romana). Nella zona furono rinvenuti delle rovine
monumentali e anche dei rozzi mosaici che lasciano pensare a possibili
insediamenti, con la presenza di ville di proprietà di benestanti agricoltori,
databili in un periodo compreso tra il V secolo fino all’830, momento
dell’invasione araba.
Ritornando
alla torre ha una pianta piramidale mozzata ed è composta da un pianterreno e
da due piani superiori di un solo vano ciascuno. Presenta un unico ingresso. Conserva uno stile
romanico con alcune aperture guarnite di archi e adibite a finestre.
Accanto
e vicino alla torre erano presenti una lunga fila di mulini che si estendevano
fino a valle su entrambi i lati del torrente Rincione.
Il
feudo del Cellaro nel 1503 venne affidata a Giacomo Sciarrino di Mazzarra e
rimase in suo possesso fino al 1721 quando un discendente della famiglia,
Pietro Sciarrino, la donò all’Ordine dei Cavalieri Ospedalieri e permettendo in
questo modo l’unificazione con il limitrofo feudo di S. Giovanni.
Nella
Torre del Cellaro secondo l’antica tradizione fu rinvenuta la Madonna
dell’Udienza che venne trasportata a Sambuca. In occasione della peste del
1575. Dal nome dell’ex feudo del Cellaro prende il nome il vino omonimo nelle
qualità rosso, rosato e bianco.
Mulino del Cellaro
Madonna dell'Udienza
La statua fu trovata in un luogo non ben precisato.
La tradizione cita un antico forno, nei pressi della Torre
di Cellaro, di proprietà
di una famiglia benestante (i Sciarrino) di Sambuca. Una
statua in marmo di
carrara che fu attribuita alla scuola del Gagini.
La Madonna ha uno sguardo molto dolce, rivolto per il
Bambino e verso chi gli rivolge
preghiere e suppliche. Il Bambino Gesù sembra avere un
espressione ingenua.
La Madre porta un abito a tunica lungo e ad alta vita, il
volto è delicatamente
incorniciato da lunghi capelli ondulati, di un delicato
colore oro.
Fu ricavata da un unico blocco di marmo e il gruppo
scultoreo poggia su
un alto zoccolo a base ottagonale che reca, nella parte
mediana, un piccolo presepe.
Ma come mai si trovava nascosta in quel luogo ? Da dove
proveniva? Tanti interrogativi senza risposte. Si decise di trasportate la
Statua in paese.
Un paese colpito dalla peste del 1575.
Al passaggio del simulacro gli ammalati guarirono
miracolosamente.
In segno di riconoscenza per la grazia ricevuta si decise
di invocare la Madonna
come “Madonna dell’Udienza” o “Adienza” cioè la Madonna
“che ascolta”.
Chiesa del Carmine (Santuario Maria SS. dell’Udienza)
Chiesa del Carmine - Interno
Chiesa del Carmine - Interno
Vicino al Santuario (Chiesa del Carmine) ci trova la Chiesa di Santa Caterina del XVI
secolo.
Al suo interno sono presenti stucchi dell’artista
palermitano Vincenzo Messina, del 1600.
Chiesa di Santa Caterina - pavimento di maioliche smaltate di Burgio
In
merito alla famiglia Sciarrino non ho trovato molte notizie.
“E’ tipicamente siciliano, di Palermo e
Carini nel palermitano, di Riesi nel Nisseno e di Marsala nel trapanese.
Dovrebbe derivare da un soprannome attribuito al capostipite, originato dal
termine dialettale siciliano “sciarrino” (litigioso, attaccabrighe)
probabilmente per sottolineare un aspetto del suo carattere”.
“Tracce di questo cognome si trovano a Sciacca
nell’agrigentino fin dal 1500 quando si
verificarono dei matrimoni effettuati da delle Sciarrino con famiglie nobili
locali”.
Tra
i personaggi importanti troviamo un Rosario Sciarrino Mèndola, agrimensore a
Valledolmo e nella seconda metà del 1800
il Notaio Giovanni Sciarrino nel
palermitano.
Un
Rosario Sciarrino, dottore in leggi, in data 22 giugno 1791 e 22 giugno 1804
ottenne l’investitura della baronia di Verbumcaudo.
(Un
feudo dalla lunga storia. risalente al 1200 e che fu di proprietà di tanti feudatari fino a diventare proprietà.. della
mafia.. del boss Michele Greco. Oggi il feudo è gestito da una cooperativa di
giovani.”La Cooperativa Sociale Verbumcaudo”…Un argomento che tratterò in un prossimo
articolo.
Una
bellissima storia di legalità, lontana da certe storie di cooperative sociali
“fasulle……”.
Feudo Verbumcaudo
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LE “ FESTE SARACENE “ – SAMBUCA DI SICILIA
(Il programma del 2019)
“Feste saracene“, in programma
dal 19 al 21 agosto, che hanno per palcoscenico il quartiere omonimo. Tra
i suoi vicoli va in scena la storia della fondazione della cittadina, avvenuta
intorno all’830, da parte dell’Emiro Al Zabut, fino alla cacciata degli arabi
nel XIII secolo. Diciotto sono le scene narrate e oltre 160 i
figuranti che vestiranno i panni degli antichi abitatori in un percorso
guidato che si snoda all’interno della fitta mappa de “li sette vaneddi“, i
sette vicoli appunto, tra rievocazioni storiche, citazioni letterarie, leggende
animate e colpi di scena fatti di fantasmi e anime di saraceni sepolti vivi nei
“dammusi” del castello.
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Palazzo Panitteri
Piazzetta della Vittoria
Agli abitanti di Sambuca questa antica nomina di “sammucari
babbaluciari” piace così tanto che hanno voluto pure la statua della lumaca nel
centro della piazza. Proprio così, da ieri sera un’enorme chiocciola
sopraelevata da un basamento che funge anche da panchina, si trova nel cuore
della Piazza Vittoria lungo il Corso Umberto I.
“In questa piazza dobbiamo riscoprire il valore della
lentezza ma anche della sosta. Vogliamo tornare a far rivivere la piazza come
si faceva un tempo; così, accanto alla lentezza della lumaca abbiamo aggiunto
anche il luogo della sosta: una panchina per riflettere, discutere, scontrarsi
portando avanti, tutti insieme, un progetto comune”.
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Straordinaria testimonianza storica della cultura araba fin dai tempi di re Ruggiero II, del grande Federico II e oltre, fino ad oggi.
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