PIETRAPERZIA (Caltanissetta) – Il castello della Principessa Dorotea Barresi “Grandes de Espana de primera grandeza” - La triste storia di uno dei castelli più belli della Sicilia..

















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Per lo matrimonio
della Sig.a Giovanna d' Austria col Principe di Pietraperzia Francesco Branciforte


Del Salso Gela, che col vago piede
Il fertil seno di Sicilia parte,
A la sinistra riva alzar si vede
Rocca la fronte in rilevata parte;
Che de' Barresi illustri antica sede
Cara è stata a le Muse, e cara a Marte;
Onde uscir sempre le più vive luci,
Di senno e di valor fidate duci.

E ben venir dalla chiarezza han mostro
Del sangue ond' hebbe vita il pio Goffrido,
E gli altri espressi dal purgato inchiostro,
Che sol hoggi ha fra noi la fama e il grido.
Hor in questo sublime eletto chiostro,
Qual novella Fenice in suo bel nido,
Nacque la nobil Dorotea, che ancora
Non pur' Italia, Europa tutta honora.

Ella qui in tempo, ed in virtù poi crebbe;
E di Giovanni il bel fatta consorte,
Le prime palme, e le più chiare accrebbe
Al gran nome immortal di Branciforte.
E però sempre amò, sempre caro hebbe
Il loco, a cui quel ben fu dato in sorte,
Fabritio il buon, Fabritio a sì gran madre
Degno figlio non men, ch'a si bel padre.

Di ricchi arnesi il signor il castello
Fu da' primieri fondatori adorno;
E lo fèr vago a maraviglia e bello
I bianchi marmi e' bei dispri intorno;
Ma l'opere di lima o di pennello
Son tal, che fanno a Morte invidia e scorno,
Vivi serbando degli estinti egregi
Gli aspetti, i fatti, le vittorie, e i pregi.

Nell'ampissime sale in su dal tetto
Armi pendenti, e spoglie da' pareti,
Spirano un dolce horror che con diletto
Spaventa e rende i riguardanti lieti:
Ha poscia in luminoso e bel ricetto
Humano studio onde s'affanni e acqueti;
Ne le moderne carte e ne le antiche
De' più saggi scrittori l'alte fatiche.

Pompa maggior Sicilia mai non vide;
Nè vedrà forse ne l'età futura.


Filippo Paruta
(Palermo, 1552 – 15 ottobre 1629)
Numismatico, archeologo e storiografo

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Indice:
1.      Ubicazione del castello;
2.      Storia; I Normanni – Contrada Runzi – I Feudatari: Abbo Barresi; Giovanni I Barresi…Giovanni IV Barresi…Scissione del Casato Barresi in due Rami: Pietraperzia e Militello (Val di Noto) – Giovanni Antonio II Barresi inizia la ristrutturazione del castello – Un foglio della regia Cancelleria d’Aragona – Matteo Barresi completa la ristrutturazione e crea un ambiente culturale – Girolamo Barresi: la storia di un parricidio – La condanna di G. Barresi e il suicidio della moglie Antonia Santapau – Perché Girolamo Barresi uccise il padre ? – Pietro Barresi e la sua morte legata ad un fulmine – I Monumenti sepolcrali dei Barresi nella chiesa Madre di Pietraperzia – La principessa di Pietraperzia Dorotea Barresi sposa  il principe di Militello Vincenzo Barresi che muore il giorno dopo le nozze – La Principessa di Militello Caterina Barresi sposa il figlio di Dorotea Barresi, Fabrizio Branciforte del Ramo Branciforte di Mazzarino e principe di Butera -  Caterina e Stefania Branciforte – I Principi Lanza di Trabia – Il castello adibito a Carcere, Lazzaretto..
3.      La Principessa di Pietraperzia (Viceregina del Regno di Napoli)  Dorotea Barresi – La storia di una ” Grandes de Espana de primera grandeza” - Il suo matrimonio con Juan de Zuniga y Requesens “Comendator Mayor de Castilla” – La Vita a Corte e il suo abito -  Il quadro di Dorotea Barresi opera di Alonzo Sanchez Coello (alcuni suoi quadri si trovano nel Museo Nacional Del Prado di Madrid) – Il suo quadro fu messo all’asta (Una storia assurda)– Il quadro ripreso in alcune scene del film “Il Gattopardo”
4.      La Biblioteca del castello con testi di altissimo valore … perduti ?
5.      I Tesori perduti del castello – Il Busto di Giovanni Antonio II Barresi.. si trova a Londra ? – Statue – L’Armeria -  il bassorilievo della fontana – le decorazioni del cortile…ecc.
6.      Il carcere
7.      Architettura : Ingresso – L’edicola – Il corpo di guardia – La Chiesa di Sant’Antonio Abate con la cripta e la sagrestia – Il Cortile – L’Armeria – Il Grande salone,  aveva un pavimento con maioliche di Manises (Valencia)– Il Puntale – Il Mastio – La torre “Della Corona del re” – Gli Ambienti – gli archi del Cortile – I Sotterranei  - La Relazione dell’Archeoclub di Pietraperzia nel periodico mensile (di Pietraperzia)  “La Voce del Prossimo” del 4 gennaio 1984;
8.      La leggenda delle Tre Donne
9.      I Graffiti nei sotterranei (databili tra la fine del XV secolo e metà del XVI secolo)


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1.      Ubicazione
Il grandioso e superbo maniero sorge sua una collina a settentrione della città ed è costruito sulla roccia nella quale furono ricavati vari sotterranei e parecchie stanze interne.
Il castello è situato in una posizione da belvedere ed è gradevole la veduta meridionale coronata dalle colline, che si sviluppano da nord-est a nord-ovest.
Un ampio panorama  che da Caltanissetta, castello di Pietrarossa, abbraccia Sabucina, Capodarso, Pasquasia, Enna per giungere fino alle Madonie. 














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2. STORIA
I normanni iniziarono l’occupazione dell’isola nel 1060 ed in un trentennio di lotte completarono la conquista. Fu proprio in questo periodo che sulle mura di una  probabile fortificazione, forse bizantina ed araba, i Normanni iniziarono la costruzione del castello.
Il territorio di Pietraperzia  in epoca romana presentava alcune colonie  e di almeno quattro di esse sia hanno dei riferimenti ben precisi nelle contrade: S: Giovanni, Pietra dell’Uomo, Vagne e Runzi.
Colonie romane che ebbero un notevole sviluppo ed in particolare la colona di contrada “Runzi” dove nacque una “stazione” romana che fu identificata da alcuni storici con la “Colloniana” Romana (inserito nell”Itinerarium Antonini”).

(In realtà l’antica “Colloniana” dovrebbe essere posta vicino l’attuale Barrafranca e la “mansio” di contrada Runzi dovrebbe essere una diramazione dell’Itinerario romano o probabilmente una fattoria romana).







Contrada “Runzi”

Tratto di strada lastricata

Muro di un edificio


Secondo lo storico Michele Amari nell’830 il condottiero musulmano Asbakl occupò una città di nome “Gallulia” che lo stesso Amari identificò la Colloniana Romana.
Durante l’occupazione scoppiò la peste e lo stesso Asbakal “..con altri capi perirono e la stessa località venne quindi abbandonata sia dai musulmani (abassidi) sia dalla popolazione”.

In contrada “Vagni” qualche scavo archeologico ha messo in evidenza come il luogo sia stato abbandonato improvvisamente.

Oltre ai resti di  mura frammentarie, di ceramiche di epoca bizantina ed araba, furono portate alla luce resti di ossa umane e di animali domestici, nonché oggetti di uso comune.
La località rimase deserta sono all’occupazione di Enna nell’859. Con la conquista araba  la vita nel territorio risorse. Gli arabi si stanziarono  in varie località di cui ancora oggi si conservano i nomi; Saracina, Musalà, Marano.
 Il primo a scrivere del castello fu il geografo arabo Abu Allah Muhammad detto Edrisi nel 1154 nel libro di Ruggero. Edrisi citò l’esistenza di una preesistente costruzione romana situata ove attualmente sorge il castello o comunque nelle sue vicinanze.
Edrisi completò la sua descrizione definendo come “robusto castello e ben saldo fortilizio, ha i confini molto estesi”.
La vita ritornò a fiorire ed ai piedi del castello si costruì il nuovo borgo le cui vicende si collegheranno con quella del maniero andato purtroppo in rovina.
 I Normanni si trovarono quindi a Pietraperzia in presenza di una struttura. Non  si hanno riferimenti in merito al fortilizio saraceno (Ribat) e probabilmente poteva anche essere una torre d’avvistamento.
I conquistatori intervennero sulla struttura con ampliamenti e ristrutturazioni.
Secondo alcuni fonti  Ruggero I d’Altavilla concesse questo castello ad Abbo Barresi verso il 1091.

I Barresi erano infatti giunti in Sicilia al seguito dei Normanni e dopo la conquista della Sicilia ottennero vastissimi possedimenti com’è dimostrato dai moltissimi diplomi.
Durante la conquista normanna della Sicilia la resistenza del musulmano Benavert, signore di Castrogiovanni (Enna), minacciò seriamente la sicurezza dei conquistatori a causa dell’insicurezza delle vie interne di comunicazione. I Normanni migliorarono quindi le difese dei castelli che si trovavano nell’interno ed in particolar modo quelli posti a guardia delle più importanti vie di comunicazione. Pietraperzia rientrava tra i punti strategici più importanti, perché posta a guardia della valle del Salso a Nord e del Braemi a Sud, ed il suo potenziamento è riccamente documentato.


Parte delle mura di cinta del castello sono ancora oggi visibili in diversi punti attorno al castello come nella strettoia di via Principessa Deliella, dietro la chiesa Matrice, lungo il  muro meridionale dell’ex convento dei Carmelitani, davanti all’ingresso del castello.

In giallo sono rappresentate le tracce delle vecchie mura

Via Principessa Deiella -  Tracce di vecchie mura (?)













La Matrice





Il Convento dei Carmelitani







Via Governatore
Resti di una porta d’accesso alla cinta muraria del castello

Pietraperzia – Palazzo del Governatore

Palazzo del Governatore – Particolare della Balconata




Il castello subì un iniziale restauro da Abbo I Barresi  e riesce a meravigliarci ancora oggi per la sua saldezza e tecnica muraria testimoniata da diversi muri che hanno sfidato i secoli, come quelli del “Mastio”, della “Corona del re”, delle bastionature nord e sud.

Il castello si erge maestoso lungo il perimetro di una roccia calcarea sulla quale i Sicani ed i Siculi avevano scavato decine di tombe. La roccia appare infatti piena di fori ed è per questo che il castello venne anche chiamato di “Pietraperciata”.




È forse uno dei monumenti più notevoli del Comune, ed alcuni storici, come il Maurolico, ponevano questo castello tra i più considerevoli della Sicilia nella Val di Noto.
Il castello per essere stato per secoli in possesso della famiglia Barresi (Barrese) fu anche ricordato con il nome di “Castello Barresio”.

Il cognome della Famiglia Barresi (Barrese) prese origine dai Duchi di Barry, ducea di Francia, assumendo diverse trasformazioni: de Garreis, de Garresio, de Garrexio, de Barres, Garresi, Garessio e Garisio. Il primo Barresi a giungere in Sicilia fu il cavaliere Abbo I Barresi che giunse in Italia con i principi Normanni offrendo il suo valoroso aiuto al Conte Ruggero I d’Altavilla. Giunto in Italia  dal Monferrato  scese in Sicilia con  Enrico Aleramico ( Del Vasto)  intorno al 1090.

Per il suo valore e i suoi preziosi servizi alla corona, Ruggero I volle ricompensarlo con la concessione delle terre di Naro, Ucria, Sommatino e Pietraperzia.


Abbo I Barresi sposò Ademara, figlia del conte d’Aversa, e dal matrimonio:
-          Giovanni I;
-          Roggiero;
-          Ramoaldo.

Giovanni I sposò Alvira, seconda figlia di Roggiero, Conte di Avenello, e quindi nipote dello stesso Giovanni. Dal matrimonio nacque:
-          Abbo II.

Abbo II, ha come figli:
-          Matteo I;
-          Nicolò.

Matteo I, ha come figli:
-          Giovanni II;
-          Enrico che intervenne nel Vespro Siciliano (1282).

Giovanni II, ha come figlio:
-          Abbo III;

Abbo III ha come figlio:
-          Giovanni III.

Giovanni III Barresi,  fu barone di Pietraperzia, Naso,  Capisti, Orlando, Militello (In Val di Catania). Giovanni III sposò Maria Camerana (figlia di Bonifacio Camerana, Signore di Militello), e dal matrimonio nacque Abbone (Abbo IV) Barrese.
Abbo IV (Abbone o Ammone) Barresi mantenne gli stesso titoli del padre (dal 1303 al 1330 circa) e sposò Ricca Lamertina. Dal matrimonio nacque Giovanni IV Barresi.
Sembra che lo stesso Abbo IV abbia ricevuto Militello dalla donazione dello zio Giovanni Camerana  (fratello della madre Maria Camerana) del 1303 “Castrum e casale di Militello in Val di Noto, cum pertinentiis et cappella sive ecclesia Divae Mariae (Santa Maria “La Vetere”)”.
Un atto che sarebbe confermato a Palermo da Federico III d’Aragona in data 28 settembre 1308 (o 2 gennaio 1308).
Nel 1318 sposò Ricca Lamertina (La Matina), che era damigella di corte della regina Eleonora d’Angiò e nello stesso anno ottenne l’investitura di Signore di Pietraperzia e di Militello.  Il 23 dicembre 1330 comprò il feudo di Convicino che in seguito cambierà il suo nome in Barrafranca.
Abbo IV acquisì il feudo Convicino per una vendita fattagli dal Cavaliere Manfredi Chiaramonte e da Fra Arrigo, fidocommissario dell’eredità di Alafranco di San Basile. Il feudo era pervenuto ad Alafranco, forse per metà, in seguito ad uno scambio di “Terre” con Francesco Ventimiglia al quale aveva ceduto la “Terra” di Pettineo.
Il Barresi fu citato nell’atto come “miles” e versò la somma di “onze mille d’oro e di cento avi” con atto pubblico del Notaio Bartolomeo Adamo di Messina nel “mese di dicembre 6, Ind. 1330”.
Alcuni siti internet riportano il feudo di Convicino acquistato dal padre Giovanni III nel 1337 ed è un errore dato che lo stesso Giovanni in quell’anno era già deceduto. Il termine Barrafranca è legato all’origine dell’importante casato Barresi. Il termine francese “Barry”  tradotto in “Barra franca” (il termine “franca”  era legato all’esistenza di un fiera esente da tributi).
Dal matrimonio con Ricca Lamertina nacque Giovanni IV Barrese.

Giovanni IV Barresi,  barone di Pietraperzia, Militello e di Convicino dal  1330 al 1342.
Fu nominato da re Federico III d’Aragona, cameriere del re, consigliere consultore e maestro giustiziere del Regno. Ebbe il privilegio di circondare di mura il casale di Militello con regia concessione emessa da re Pietro IV a Catania il 30 marzo 1337.
Re Ludovico d’Aragona (1342-1355) gli diede l’ufficio di gran camerlengo e comandò, come vicario d’arme, la milizia di Catania.
Sposò Maria Blasco, figlia di Blasco II “Il Giovane”, Conte d’Alagona, e di Beatrice (di cui non si conosce il casato). Un aspetto importante da mettere in risalto è che Giovanni IV fu l’ultimo esponente del casato Barresi a tenere sotto la sua signoria tutti gli stati .
Infatti, alla sua morte avvenuta nel 1342,  i possedimenti del casato furono divisi tra i due figli :
-          Abbo V Barresi che  ebbe le “Terre” e i titoli di Pietraperzia e Convicino:
-          Blasco I Barresi che ebbe la “terra” di Militello in Val di Noto (III barone di Militello).

Con la suddivisione degli stati feudali il Ramo dei Barresi si divise quindi in due rami:
-          Ramo di Pietraperzia;
-          Ramo di Militello .
Sembra che la scissione del casato Barresi nei due Rami sia legata ad una ribellione contro il Re di Sicilia Ludovico (Luigi) d’Aragona da parte di Abbo V Barresi.
I due rami s s’ignoreranno a vicenda per circa due secoli dal 1342 al 1567.
La  citazione di Giovanni IV, che “nel 1375 (?) era capitano di Plaza” è errata dato che in quell’anno il barone era già deceduto. Si tratta probabilmente di un errore di trascizione e comunque non ho riferimenti in merito a un suo incarico come “capitano di Plaza”.

Con Abbo V ebbe inizio quindi il Ramo di Pietraperzia che svolse una vita a sé separata da quella del ramo di Militello.
Sposò Donna Lucia Branciforte da cui i figli/e:
Artale;
Ughetto;
Archimbao;
Beatrice.
Con privilegio del re Marino I d’Aragona (1392 – 1409) emesso a Piazza (Armerina) l’11 gennaio 1397 fu investito della Terra di Militello Antonio Barresi, figlio di Blasco I.
Con questo privilegio finì la lunga controversia promossa da Artale ed Ughetto, figli di Abbo V, contro l’altro ramo dei Barresi di Blasco I.

Ad Abbo V successe Artale  (1420 – 1425).
Artale Barresi sposò la nobildonna Luigia (Luisa ?) Pontiaco.
(Famiglia Ponziaco, anticamente Ponciaco o Pontiaco e preceduti da “di”)  fu un nobile casato italiano e francese. Giunse in Italia con Raimondo al seguito del re Carlo I d’Angiò, con il quale era imparentato, nella sua campagna militare per la conquista del Regno di Sicilia. Fu feudataria di molti territori posti nell’Italia meridionale e i suoi membri ricoprirono cariche importanti).
Dal matrimonio nacquero i due figli:
Giovanni Antonio I Barresi
Tommaso Barresi

Artale fece donazione dei titoli al fratello Ughetto (1425 – 1440). Dopo la morte di Ughetto i feudi passarono al fratello Archimbao (1440 ) che morì senza prole.
Archimbao fece testamento lasciando i beni al nipote  Giovanni Antonio I Barresi (1453 – 1470), figlio del fratello Artale, che ne prese possesso anche grazie ad una sentenza emessa in suo favore nel 1444,  “a 10 maggio dal Tribunale della Gran Corte di questo Regno”.
Nel Registro del Protonotario del Regno di Sicilia, in merito al “Repertorio dei processi di investiture feudali dal 1452 al 1812, n. 122” si legge:
filza N. 77
Feudatari: Barresi Giovanni Antonio figlio e donatario d’Artale
costui successore e figlio di Abbo il quale dietro il volontario
rilascio di Pietro Gnegio da Berga ebbe concesso Pietraperzia da Federico II
Feudi e Titoli: Terra e Castello di Pietraperzia e
Feudo di Fontanamurata pervenuto da Luciano Ventimiglia
Anno Presentazione Investitura: 1454 – 1475

Filza n. 78
Feudatari : Barresi Giovan Antonio suddetto
Feudi e Titoli: Feudo di Fontanamurata
Anno  Presentazione Investitura: 1454 – 1475


Ottenne l’investitura dei feudi il 9 agosto 1453 ( 1454 ?) (compresa la Terra di Barrafranca in cui si confermava la clausola del “jus francorum” e soggetto al “servizio militare di un soldato”).
Don Giovanni Antonio I Barresi sposò Donna Caterina Ventimiglia, vedova di Martino Ventimiglia, successore nella proprietà del feudo di Fontanamurata, nel territorio di Mazzara, del quale non prese l’investitura (non si conoscono i motivi). In mancanza di figli istituì sua erede la moglie con conferma del passaggio di successione da parte del Re Afonso nel 1453.

Dal matrimonio nacque Giovanni Antonio II Barresi, s’investì di Barrafranca, Pietraperzia e Fontanamurata il 13 dicembre 1471 (R.C., 1470. F- 38).
L’investitura di Fontanamurata “s’investì alla morte di Caterina, sua madre per sé suoi eredi e successori qualsisiano” (R.C. 13 dicembre 1471, V Indiz., libro del 1470, f. 138)
In  merito all’investitura del principato di Pietraperzia, “Giovanni Antonio de Barresio, per la morte di Giovanni Antonio, suo padre, s’investì a 27 agosto 1470 (Libro Mercedes, anno 1453, f. 243 e copiato a foglio 336 retro).
Sposò Laura Sottile, figlia di Nicolò Sottile. Donna Laura aveva un fratello  Francesco che morì in tenera età ed i beni paterni, la Signoria di Bombiscuro, di Molisana (oggi Molisano) (entrambi nel territorio di Noto - Avola ) e il marchesato di S. Alfano (territorio di Canicattini Bagni – Siracusa), “gli furono investiti per sé e suoi eredi di sangue, Jure francorum, in Palermo a 27 agosto 1470” (R.C. 1409, carta 199/203, cons. anno 1459-1497, f. 248 - 252)
Dal matrimonio nacquero i seguenti figli/e:

Caterina Barresi (1478 circa; ?), sposò Girolamo Rosso
Matteo Barresi (1480 circa, fine 1531/ inizio 1532)
Emilia Barresi (1482 circa; ?), sposò Ercole Campo

Dal secondo matrimonio con Eleonora Branciforte, figlia di don Nicolò (1° Conte di Mazzarino)  nacque
Beatrice Barresi (1510 circa, ?) che sposò Giovanni Girolamo Valguarnera.

Giovanni Antonio II Barresi inizia la ristrutturazione del castello
L’anno 1472 potrebbe essere l’anno in cui barone Giovanni Antonio II iniziò la ristrutturazione del castello. L’anno fu riportato in un atto notarile redatto dal notaio Giacomo Randisi in cui il barone decise, insieme con la moglie Laura Sottile, di trasferirsi a Pietraperzia. Una decisione che  fu presa in maniera solidale dai coniugi dato che i capitoli matrimoniali prevedevano la residenza della coppia a Palermo ..”sotto pena di non poter conseguire certi determinati beni dotali”. (Atto Notaio Giacomo Randisi).
Naturalmente la residenza nel castello  determinava la necessità di una trasformazione della struttura in senso residenziale e nello stesso tempo la creazione di un architettura che potesse esaltare anche lo “status sociale” dei Barresi.
 Non si hanno riferimenti ben precisi sulle condizioni della struttura ma è intuibile come fossero necessari degli interventi di ristrutturazione ed anche di ampliamento che iniziarono probabilmente nel 1472.
Nel castello era presente un mezzo busto di Giovanni Antonio II, a ricordo dei suoi interventi edilizi sulla struttura, che era collocato in una nicchia a lato del portale d’ingresso della nuova ala del castello, di fronte alla cappella di famiglia dedicata a Sant’Antonio Abate. Busto marmoreo che, a quanto sembra non è andato perduto come affermano molti ricercatori e storici. Si troverebbe in un Museo di Londra… sempre che la mia ricerca corrisponda alla realtà. Citerò il busto , come le relative immagini, nel paragrafo dedicato agli oggetti perduti del castello.


Pietraperzia – castello – Seconda rampa d’ingresso
Si nota la cappella, sulla destra, e di fronte posto in una nicchia,
il busto di Don Giovanni Antonio II Barresi
(una foto del XIX secolo)

Le fortune della famiglia Barresi, nella seconda metà del Quattrocento, diventarono ben salde tanto che il 29 agosto 1470 Giovanni Antonio II Barresi ottenne dal sovrano il titolo di Barone di Pietraperzia. Due anni dopo il figlio primogenito Matteo si trasferì stabilmente a Pietraperzia e diede inizio ai lavori di restauro e d’ampliamento del castello già iniziati dal padre.
Il 12 ottobre 1474 gli venne concesso sui suoi feudi di Pietraperzia e di Convicino il “mero e misto imperio”.
Il barone Giovanni Antonio II era uno dei pochissimi grandi feudatari del tempo che non risultava indebitato e poteva permettersi di vendere in un solo anno ben 3000 salme di grano (una salma è circa 254 kg). Una vendita con atto rogato presso il notaio Gregorio Catalano di Enna, il 12 maggio 1505.
Alla morte di Giovanni Antonio II, il 15 ottobre 1510, i feudi con il loro titoli furono quindi ereditati dal figlio Matteo che  sposò Donna Antonella Valguarnera.
La moglie Eleonora Branciforte si risposò con  Ponzio Santapau (Marchese di Licodia, Signore di Occhiolà, Principe di Butera) da cui i tre figli:
Ambrogio; sposò Antonia del Balzo;
Antonia;
Francesco, sposò Imara Benavides


Il grano nel Medioevo



Le Spigolatrici…. Una triste realtà viva dal medioevo sino al XIX secolo
Donne che raccoglievano le spighe rimaste sul terreno dopo la mietitura..
Anche queste spighe dovevano essere divise con il padrone…

E’ un continuo susseguirsi di fogli d’investitura della Regia Cancelleria. Pagine forse “pesanti” nella lettura della ricerca ma necessari per comprendere il susseguirsi delle vicende storiche del castello. Riporto un antico foglio, a scopo illustrativo, della Regia Cancelleria della  Real Casa d’Aragona. Si tratta del testamento di Ferdinando II il Cattolico, del 22 gennaio 1516 e della relativa successione.





Matteo Barresi e Sottile fu investito degli stati il 23 gennaio 1511 (R.C. 1511, f. 295). “Edificò Pietraperzia nel 1520 e Barrafranca nel 1530. Il re l’onorò del titolo di Marchese di Pietraperzia con privilegio 16 agosto 1526, esecutoriato in Palermo a  20 ottobre successivo “ (R. C., f- 219).
Fu investito del titolo di Signore di Bombiscuro “per la rinuncia di Carlo V, il 14 gennaio 1517, come si rileva dalla Investitura di Pietraperzia spedita a 15 ottobre 1519 (Conserv. Anno 1512- 27, foglio 307).
Barone di Fontanamurata con investitura del 23 gennaio 1511  per la morte di Giovanni Antonio suddetto, suo padre (R.C., XIV Indizione, f. 295)
Signore di Molisena, oggi Molisano, con investitura del 14 gennaio 1517 e ciò per la morte del Re Ferdinando e successione al trono di Carlo e Giovanna (figlio e madre) (Conserv., libro Inv.re, 1512, 1527, f. 307)
Principe di Pietraperzia con investitura “ a 15 ottobre 1510 della Terra e Castello di Pietraperzia, quale figlio e per la morte del suddetto Giovanni Antonio (Conserv., 1497-1512, foglio 1150). Si reinvestì, a 14 Gennaio 1517, per il passaggio della Corona (Conserv., 1513-1527, f. 307). Con Real Diploma, dato a Granata, a 30 Novembre 1526. Carlo V concesse a detto Matteo e suoi eredi in perpetuo il titolo di M.se della Terra e Castello suddetto e sul feudo di Convicino (oggi Barrafranca) e sul feudo di Fontanamurata.
Vi concesse il mero e misto impero, con la piena giurisdizione Civile e Criminale. Il Diploma fu esecutoriato nel Regno a 7 Marzo 1527 (R. Conservatoria, libro Privilegi di beni feudali, 1518, f. 282).

Marchese di S. Alfano, Matteo de Barresio, suo figlio, fu investito del feudo di Alfano, a 14 Gennaio 1517 per il passaggio della Corona (Conserv., libro Invest.. dal 1514 al 1547, f. 307)

Matteo Barresi fu quindi il primo marchese di Pietraperzia grazie al privilegio dell’Imperatore Carlo V che, secondo E.M. Gaetani, fu concesso in Magonza il 16 agosto 1526 ed  esecutoriato a Palermo il 20 ottobre dello stesso anno, come rilevò dalla lettura del foglio 319 della R.C.
Giovanni Antonio II e il figlio Matteo furono quindi gli artefici dell’incremento delle ricchezze del casato e con i loro interventi edilizi resero il castello di Pietraperzia una corte colta e sofisticata.
Matteo Barresi sposò Antonella Valguarnera (1494 circa, ?), figlia di Vitale Valguarnera ( 1470, circa; 1516 circa) e di Eleonora Ribalsaltes (1480 circa; ?).
Dal matrimonio i figli/e:
Girolamo Barresi ( 1510, circa; ?)
Melchiorra Barresi ( 1532, circa; ?), sposò Giovanni Campo;
Eleonora Barresi (1535, circa; ?), sposò Giovanello Corvino

(in un sito internet si cita Matteo Barresi come padre  di:
Beatrice, la primogenita sposò lo zio Giovanni Valguarnera, fratello della madre Antonella, e che era succeduto a Vitale nel titolo nobiliare di barone di Assoro, e Sicilia, la secondogenita, sposò Artale Alagona, barone di Palazzolo. Una fonte che dovrebbe essere verificata dato che non ho trovato riferimenti in merito).



Matteo Barresi proseguì l’attività di ristrutturazione del castello
I lavori furono proseguiti da Matteo Barresi che seppe non solo amministrare il patrimonio economico ereditato dal padre ma anche incrementarlo. Uno sviluppo economico accompagnato da un grande mecenatismo artistico.

I due coniugi  si adoperarono per rafforzare il prestigio della nobile casata.  In questa ottica aiutarono economicamente i vicerè di Sicilia come nell’aprile del 1513 quando prestarono 500 scudi ad Ugo de Moncada. Il Moncada era di ritorno da una missione militare in Africa e ricevette la somma di denaro dal Barresi per pagare le truppe.
Il prestigio fu anche legato alla politica matrimoniale che nel medioevo era spesso la via più sicura per le fortune familiari.
Nel 1517, alla morte del re Ferdinando d’Aragona, Matteo Barresi, senza esporsi troppo, partecipò alla rivolta ed ai tumulti contro il vicerè Ugo del Moncada.  Il ruolo che il Barresi ebbe nei tumulti non fu sicuramente di secondo piano. Infatti con l’avvento del nuovo sovrano Carlo V d’Asburgo, una volta ristabilito un sereno clima  politico, Matteo Barresi fu espulso dall’isola ed ebbe confiscati ben un terzo dei suoi beni.
Per evitare la condanna si recò, nell’autunno del 1518 presso l’imperatore Carlo V in quel momento a Barcellona.
L’incontro fu positivo dato che riuscì ad ottenere il perdono ed il reintegro nel possesso dei beni e delle prerogative.
Tornò felice in Sicilia e si dedicò alla cura del patrimonio familiare con migliorie nella gestione fondiaria dei suoi feudi. I proventi delle attività agricole, dei censi e delle rendite di proprietà della famiglia vennero destinati ad opere che avevano l’obiettivo di rendere ben visibile, con orgoglio il prestigio raggiunto. Il palazzo di famiglia, nel quartiere della  Kalsa di Palermo, fu ristrutturato.

Il castello di Pietraperzia, fu ristrutturato secondo dettami architettonici di origine catalana.
Una delle stanze più importanti era lo “studiolo” all’interno del quale Matteo diede inizio ad una copiosa collezione libraria molto importante.
Nel 1251 costruì il convento dei frati domenicani e forse anche quello dei frati francescani conventuali.
Furono avviati anche i lavori per la ristrutturazione della chiesa madre di Pietraperzia. La ridotta costruzione di epoca normanna fu ampliata e decorata.
Nella chiesa Madre e nella cappella del castello, dedicata a Sant’Antonio Abate, dovevano ospitare le sepolture monumentali del casato Barresi di Pietraperzia.
Insomma il centro di Pietraperzia era un cantiere aperto che avrebbe fatto del centro una importante Universitas.
Gli artigiani responsabili di queste importanti costruzione e ristrutturazioni erano delle maestranze lombarde, insieme a maestranze siciliane come gli scultori Francesco Laurana , Antonello Gagini ed il pittore Antonello de Crescenzo.
Con queste attività sia Giovanni Antonio II che il figlio Matteo riuscirono ad attirare presso la corte di Pietraperzia importanti studiosi.
Tra il 1508 ed il 1515 erano presenti a Pietraperzia e a Convicino, l’umanista andaluso Lucio Cristoforo Scobar e lo studioso agrigentino Nicolò Valle.

Girolamo Barresi la storia di un parricidio nella Sicilia del Cinquecento…
Girolamo Barresi nacque tra il 1500 ed il 1510 a Pietraperzia o a Palermo da Matteo Barresi e da Antonella Valguarnera, figlia di Vitale, Conte di Assaro.
Girolamo ebbe quindi un infanzia in una famiglia aristocratica che era in piena ascesa politica e soprattutto in un ricco ambiente culturale.
La sua istruzione fu particolarmente curata. Non si sa dove abbia ricevuto i primi insegnamenti ma la presenza di Scobar a Convicino potrebbe fare avanzare l’ipotesi che sia stato il suo maestro tanto che fra il 1517 ed il 1518 Girolamo frequentò la scuola di grammatica aperta dallo studioso a Lentini.

Lucio Cristòbal de Escobar (Lucio Cristoforo Scobar)
(Niebla, 1460; Siracusa, 1525)
Umanista andaluso di nascita ma siciliano d’azione.
Aveva studiato in Spagna come allievo di Antonio de Nebrja, per poi trasferirsi
a Roma e a Messina.
Nel 1508 diventò cappellano di corte a Palermo del re aragonese
Ferdinando II “Il Cattolico”. Negli anni compresi tra il 1508 ed il 1515,
fu presente a Convicino e a Pietraperzia presso la corte di Matteo Barresi.
Fu poi Canonico ad Agrigento nel 1515 e successivamente a Siracusa.
A Lentini aprì una scuola di grammatica.
Un personaggio dimenticato anche nella stessa Spagna anche se a Palermo
gli è dedicata una via.
Nel 1519 pubblicò un dizionario bilingue siciliano-latino e l’anno
dopo un dizionario trilingue: latino – spagnolo – siciliano.
Fu stampato a Venezia ed è considerato un capolavoro.
Fu dedicato al vescovo siracusano Pedro de Urrea, e riprese il Lexicon,
vocabolario latino-castigliano, che fu scritto da Antonio de Nebrija.
Lucio Scibar completò l’opera con la lingua siciliana:
creò un dizionario distribuito su tre colonne:
la prima colonna:  in latino;
la colonna al centro: in siciliano;
la terza colonna a destra; in spagnolo

il vocabolario in tre lingue (Latina, Siciliana e Spagnola)
Lucio Cristòbal de Escobar (Lucio Cristoforo Scobar)



Girolamo si trasferì successivamente a Messina per seguire le lezioni del matematico Francesco Maurolico. Proprio a Girolamo furono infatti dedicati i libri XIII, XIV e XV degli “Elementa di Euclide” compresi da Maurolico negli “Opuscula mathematica”.




Il 31 luglio 1527 Girolamo Barresi sposò Antonia Ventimiglia, probabilmente appartenente all’importante casato dei marchesi di Geraci, nella chiesa palermitana del monastero di Santa Caterina presso il Cassaro.


Palermo – Chiesa di Santa Caterina

c.c.

Il matrimonio fu breve dato che Antonia in una data anteriore al 1529 morì.
Nel 1529 mentre era in viaggio per Lentini, Girolamo passò per il territorio di Licodia, principale residenza dei Santapau.
Fu ospitato nel castello di Giovanni Ponzio Santapau, marchese di Licodia e principe di Butera.

Licodia Eubea – Castello e stemma dei Santapau



Qui il Barresi conobbe Antonia, la figlia maggiore del principe e di  Eleonora Branciforti.

Il 14 aprile 1529 furono stipulati i patti matrimoniali fra Girolamo Barresi e Antonia Santapau redatti dal regio notaio Gregorio Catalano.
La sposa portava in dote ben 23.000 fiorini oltre ad un ricco corredo del valore di 2000 fiorini.
In occasione del matrimonio il padre Matteo concesse al figlio le entrate dei feudi di Fontanamurata (nel territorio di Mazzara) e di Alfano.
Gli sposi, secondo i patti matrimoniali, avrebbero dovuto risiedere a Licodia o presso i genitori della sposa per almeno i primi sei anni.
 Tra la fine del 1531 e il 9 gennaio 1532 il padre di Girolamo, Matteo Barresi morì.

Infatti proprio il 9 gennaio 1532 venne redatto l’inventario “post mortem” di Matteo Barresi da parte del notaio Giovan Tommaso de Scalcio di Calascibetta.
 La vita di Girolamo continuò nella normalità. Il 7 giugno 1533, a circa 15 mesi dalla morte del padre, grazie ad un procuratore, fu investito del marchesato di Pietraperzia e Barrafranca e di tutti gli altri e numerosi beni feudali.
Ma da tempo c’era una strana voce che circolava soprattutto tra la  nobiltà….. “…. Matteo Barresi non morì di morte naturale ma fu ucciso dal figlio Girolamo….”
Un vociferare  che era una grave accusa di parricidio per giunta contestuale all’uccisione di due servi.
Malgrado le voci, fino a quando il governo Regio rimase in potere del vicerè Ettore Pignatelli, duca di Monteleone, non ci fu alcuna azione accusatoria o d’indagine nei confronti del marchese di Pietraperzia.

Vicerè Ettore Pignatelli

Antonia diede alla luce nel 1533 il figlio Pietro che era quindi destinato alla successione  futura di Girolamo.
Erano passati tre anni dalla morte di Matteo Barresi e il 17 marzo 1535 giunse a
Palermo l’imperatore Carlo V che era di ritorno da un impresa militare di Tunisi.

L’Imperatore Carlo V

Sicuramente tramite la nobiltà venne a conoscenza delle accuse sul conto di Girolamo Barresi, fino allora quasi celate, di parricidio.
Fra i primi provvedimenti intrapresi da Carlo V, che nel frattempo si era trasferito a Napoli,  vi fu la nomina a vicerè di Ferrante Gonzaga.

Il vicerè Ferrante Gonzaga

 Il 3 novembre 1535 il nuovo vicerè fece incarcerare Girolamo Barresi che a quanto sembra fu anche torturato durante gli interrogatori.
Il Barresi confessò l’omicidio del padre dichiarando di averlo soffocato con un cuscino. Confessò anche l’omicidio dei due servitori e indicò come suoi complici il suocero  Giovanni Ponzio Santapau, marchese di Licodia; il cognato Ambrogio Santapau e Giovanni Valguarnera, barone di Assoro.

Il vicerè Ferrante Gonzaga fermò gli accusati, che erano presenti a Palermo, e mandò dei soldati a prelevare il barone Valguarnera che si trovava ad Assoro.
Comunicò il suo operato al sovrano e ricevette subito degli ordini ben precisi:
la causa non doveva essere giudicata dal vicerè,
ma affidata al Tribunale della Gran Corte per i necessari approfondimenti.

Forse il sovrano non era ancora convinto delle accuse rivolte agli imputati malgrado le indagini ben condotte dal vicerè.
Mentre Girolamo si trovava in carcere la moglie Antonia partorì nel 1536, forse a Palermo , la secondogenita Dorotea.
La carcerazione di Girolamo Barresi non dovette essere ferrea dato che nel maggio 1536, pur essendo detenuto, diede un anticipo ad Antonello Gagini per la realizzazione di un mausoleo in marmo che doveva accogliere le spoglie del padre Matteo e della madre Antonella Barresi nella chiesa Madre di Pietraperzia.
L’opera del Gagini non fu mai consegnata al Barresi ma ad un altro acquirente perché tutto il denaro della famiglia Barresi fu utilizzato per cercare di salvare da un eventuale condanna a morte  Girolamo.

Carlo V diede disposizioni in merito ad una possibile clemenza nei confronti degli imputati.. .. che modificarono naturalmente l’atteggiamento del Gonzaga.
L’imperatore aveva bisogno di forti risorse economiche per pagare le truppe che avevano partecipato alla presa di Tunisi e non solo…. Era necessario mandare risorse economiche ai presidi militari che in Africa presidiavano i territori in mano agli Spagnoli.
Naturalmente Carlo V doveva essere bene a conoscenza delle risorse economiche del casato Barresi di Pietraperzia e del loro aiuto economico dato in passato ai vari vicerè.
Malgrado tutto, la Regia Corte condannò alla pena capitale Girolamo.
Un’esecuzione che era stata fissata per un giorno successivo all’8 aprile.
La famiglia Barresi cercò subito di raggiungere una transazione economica.
 Gli avvenimenti che si susseguirono fanno riflettere perchè sembrano vicini, a distanza di circa 5 secoli ai nostri giorni…..
Giovanni Ponzio Santapau, scagionato insieme agli altri imputati, dall’accusa di complicità nell’omicidio… offrì ben 6000 ducati per evitare la morte-
Il vicerè Ferrante Gonsaga accettò la somma e non solo..
Raggiunse un accordo economico anche con l’assassino Girolamo..
purchè rendesse una somma da 25.000 a 30.000 ducati.

Nel mese di maggio 1537, il Gonzaga accettò il denaro dal Santapau, marchese di Licodia, con la condizione di restituirlo qualora Carlo V non avesse ratificato la dilazione della condanna a Girolamo Barresi.
L’imperatore negò il suo consenso e il vicerè dovette annunciare che la sentenza sarebbe stata eseguita non appena restituito il prestito.
Di fronte al duro atteggiamento dell’imperatore, si attivò anche il Parlamento Siciliano chiedendo nella seduta del 25 febbraio 1538…. la grazia per Girolamo Barresi.
Lo stesso Girolamo propose di versare altro denaro oltre a quello dato dal suocero fino a giungere alla somma di ben  40.000 ducati:
18.000 sarebbero stati versati subito;
22.000 pagati nell’arco di sei anni
Il Gonzaga era stato autorizzato da Carlo V a provvedere “in qualsiasi modo” al pagamento delle spese militari e quindi sottoscrisse l’accordo con il marchese di Pietraperzia salvo l’approvazione dell’imperatore Carlo V.
Carlo V fece subito delle critiche sull’operato del vicerè ricordando che il commissario della Crociata aveva condannato Girolamo al pagamento di 30.000 ducati.
La situazione era paradossale….
Il Gonzaga ricevette con amarezza l’ordine dell’imperatore e consapevole di non potere sciogliere gli accordi presi con Girolamo, scrisse all’imperatore dicendo che..
“… sarebbe stato pronto a ricevere egli stesso la punizione che sarebbe
spettata a Girolamo Barresi..”
il risultato finale fu l’assenso di Carlo V alla transazione.
Per reperire la forte somma il Barresi dovette vendere molti immobili che erano presenti nell’inventario “post mortem” di Matteo Barresi e che infatti risultano assenti nel successivo inventario “post Mortem” di Pietro Barresi, figlio di Girolamo e scritto nel 1571.
Fino alla conclusione del mandato del vicerè Ferrante Gonzaga, Girolamo Barresi rimase nel carcere di Castellammare a Palermo.



Palermo – Castello a mare nel 1686


 Nel 1457 giunse a Palermo il nuovo vicerè Juan de Vega, un uomo autoritario che fece della giustizia un'arma politica molto severa. L’esecuzione del marchese di Pietraperzia era molto richiesta dal nuovo vicerè.

Vicerè Juan de Vega y Hernriquez

Il 23 marzo 1549, dopo aver fatto testamento e aver controfirmato i capitoli matrimoniali fra Dorotea, sua figlia, e Giovanni Branciforte, conte di Mazzarino, Girolamo Barresi fu decapitato sulla piazza di Castellammare.
Pochi mesi dopo, la notte di Natale del 1549, nel castello di Licodia dove si era rifugiata mori Antonia.. forse un suicidio dato che le cronache parlarono di come la donna abbia bevuto una pozione letale.

Perché Girolamo Barresi uccise il padre Matteo ?
L’identità dei suoi complici non fu mai accertata. Non agì da solo dato che uccise anche due servi  probabilmente legati al padre e pericolosi testimoni.
 Il parricidio non fu atto di sopraffazione di un figlio nei confronti del padre per mire ereditarie.
Tra padre figlio non c’era un buon rapporto. Il marchese Matteo era un uomo rigido e il figlio non accettava vincoli di nessun genere.  Il cattivo rapporto tra padre e figlio da solo non sarebbe sufficiente a spiegare il delitto o parricidio associato a quello di due servi.  Servi il cui ruolo nella tragica vicenda non fu mai chiaro. Erano complici o  pericolosi testimoni ?
L’episodio dovrebbe essere inquadrato in un contesto sociale molto più ampio ricco di avvenimenti e dove i vari feudatari si sostituivano alle leggi dello stato.
Un cugino di Mattero Barresi, il barone Giovanni Antonio Perio Barresi appartenente al Ramo Barresi di Militello, aveva ucciso per una folle gelosia la moglie Donna Aldonza Santapau il 26 agosto 1473 nel castello di Militello in Val di Noto.
Donna Aldonza era figlia di Raimondo Santapau e quindi sorella di Don Ponzio, Calcerando e Francesco Santapau.
Il barone di Militello uccise prima il suo amministratore e presunto amante, Pietro Caruso detto “Bellopede” e poi la giovane moglie strangolata e gettata dalla torre del castello di Militello.
L’intervento del vicerè per salvare la giovane donna fu tardivo.  Doveva essere prelevata dai soldati regi per essere condotta nel Monastero delle Benedettine di Catania per essere affidata alla Madre Badessa.
I fratelli di Aldonza Santapau cominciarono a minacciare il barone  Giovanni Antonio ed i suoi fratelli, veri responsabili degli omicidi. Avevano sparso quelle voci per gelosia nei confronti della cognata e dell’amministratore.
Il vicerè ordinò al commissario Mirabella d’impedire ai Santapau di vendicare la sorella, pena la morte e la confisca dei beni.
 Gli avvertimenti del vicerè furono vani perché Nicolò, uno dei fratelli di Giovanni Antonio, fu ucciso in un agguato da Ponzio Santapau. Il delitto fu scoperto e il giovane condannato anche se successivamente ottenne la grazia.
Ma l’odio tra le due famiglie era rimasto sempre vivo.
 Un odio a cui si erano aggiunte anche le invidie per la posizione sociale raggiunta dai Barresi, sia del ramo di Militello che di Pietraperzia, con importanti incarichi regi.
È strano vedere i Santapu accogliere a corte Girolamo Barresi, con tutti i riguardi e concedergli la mano della figlia di Ponzio, Antonia.
Tutto sembra fare parte di un piano diabolico ben studiato dai Santapau…. Fare innamorare il giovane Barresi  di Donna Antonia.
Con cura si preoccuparono di mettere in risalto  a Girolamo come il padre Don Matteo Barresi sperperasse le ricchezze di famiglia nella ricostruzione di Pietraperzia e Barrafranca. Il giovane nel frequentare la corte dei Santapau finì con l’innamorarsi di Antonia, figlia unica di Ponzio (Principe di Butera), e chiese naturalmente la mano della giovane e bella donna al padre Ponzio che acconsentì ad una condizione: “… che don Matteo Barresi desse il proprio consenso”.
Girolamo tornò a Pietraperzia e chiese il consenso al padre per il matrimonio.
… Immenso fu  il dispiacere di Don Matteo nell’ascoltare tale richiesta… questo accese dei furibondi contrasti fra padre e figlio inducendo quest’ultimo ad abbandonare Pietraperzia per fare ritorno a Licodia dove, poco dopo, sposò Donna Antonia, senza il consenso del padre. Grazie all’astuta regia di Don Ponzio, i rapporti tra Don Girolamo ed il padre continuavano ad essere pessimi, cosicchè Don Girolamo, sobillato dal suocero, finì per soffocare il padre nel sonno da due servi…”.
In realtà  il racconto contrasta con alcuni avvenimenti che fecero da preludio al matrimonio.  Don Matteo Barresi alla fine acconsentì al matrimonio se è vero che nei capitoli matrimoniali fu riportata la donazione al figlio dei feudi di Fontanamurata (Mazzarra)  e di Alfano.
Questa era solo la prima parte del piano… la seconda parte del piano era di natura politica e prevedeva l’eliminazione di Matteo, con il delitto,  e Girolamo Barresi con l’impiccagione. Ponzio ed i suoi fratelli riuscirono ad evitare l’impiccagione perchè dimostrarono di essere estranei ai fatti. In ogni caso versarono delle ingenti somme al vicerè.
La soppressione dei due Barresi consentì a Ponzio Santapau di scalzare il casato rivale dei Barresi nella nomina di importanti incarichi regi
In questo modo il figlio di Ponzio, Ambrogio, riuscì ad ottenere da Filippo II nel 1563 il titolo di principe diventando il tal modo il capo di tutta la nobiltà siciliana titolata.
In questo teatro di miserie umane  risalta la figura di Antonia  che malgrado la presenza e vicinanza dei suoi due figli, Pietro e Dorotea, si suicidò bevendo un veleno.
Una vicenda, ammesso che sia vera, che mette in risalto la sua sensibilità nel vedersi convolta in situazioni tragiche più grandi di lei. Avrà capito di essere stato un oggetto per la realizzazione dei piani di vendetta e politici dei suoi zii. Penso che il suo amore per Girolamo Barresi sia nato lentamente nel tempo a tal punto che l’impiccagione del marito abbia creato in lei un senso di sconforto tale da spingerla al suicidio e questo malgrado la presenza amorevole dei figli..
Lo stesso figlio Pietro subì una fine atroce. Si narra che dal suo osservatorio astronomico situato nell’ultimo piano della Torre di Nord Est, detta Puntale, sia stato colpito da un fulmine mentre era in compagnia della moglie Giulia Moncada che rimase illesa…. Quella stanza prese il nome di “Stanza del Tuono”, oggi non più esistente se non due finestre che si aprono sulla valle sull’unica parete superstite.
Rimase Dorotea che diede ulteriore  lustro alla casata Barresi con la sua grande abilità politica ed economica, a tal punto da essere definita come la “figura femminile più importante del Cinquecento”.

Ultima nota sui Santapu…  Ponzio Santapau aveva sposato Eleonora Branciforti cioè la seconda moglie vedova di Giovanni Antonio II Barresi, padre di Matteo Barresi.
Ponzio Santapau (Princip di Butera, Marchese di Licodia), come i Barresi di Pietraperzia, era uno dei pochi baroni che non fosse costretto a vendere qualcosa e il suo obiettivo fu sempre quello di acquistare feudi e baronie ( Il Feudo Belmonte, vicino Mirto nel ’63; la baronia di Radali, nel territorio di Butera nel ’66 e quella di Palazzolo prima della sua morte). Tutti acquisti che incrementarono il patrimonio economico dei Santapau.

Nel 1550 il figlio di Girolamo Barresi, Pietro fu insignito dei feudi di casa Barresi. Famoso per la sua cultura e per la passione per l’astronomia, ampliò  la biblioteca del nonno Matteo. Sposò Giulia Moncada, figlia di Francesco Moncada, conte di Paternò e Caltanissetta, che sposò nel 1550.
 Pietro diede impulso ad una piccola corte dove si coltivava l’amore per la musica.
Fu nominato strategoto di Messina e capitano generale della milizia siciliana. Nel 1564 ebbe da Filippo II il titolo di principe di Pietraperzia ma fece una fine terribile.
Il 30 settembre 1571 fu colpito da un fulmine mentre si trovava all’interno del castello di Pietraperzia.
La leggenda narra che avesse previsto la data e le modalità della sua morte. Sembra che avesse delle doti particolari e soprattutto una grande santità del comportamento.
Il suo corpo fu seppellito, con quella della moglie, nella chiesa madre di Pietraperzia.
Pietro Barresi fu ricordato dagli storici come il Villabianca, il Mongitore e l’Amico più che per la nobiltà del casato per la sua cultura nelle scienza astronomiche e matematiche e quella protezione nei confronti dei letterati del suo tempo. Il re Filippo II, per ricompensa dei suoi servigi resi nella milizia, di cui era capitano, gli diede il titolo di principe di Pietraperzia (fu il primo principe). I cittadini, i vassalli portarono il lutto per tanto tempo memori dei benefici ricevuti dal suo operare con giustizia e dalle sua virtuose azioni per il benessere sociale della comunità. Fu l’ultimo principe della sua famiglia e con la sua morte s’estinse il ramo maschile dei Barresi di Pietraperzia.

Non ebbe eredi e i titoli ed i possedimenti passarono alla sorella Dorotea.


I  MONUMENTALI  SARCOFAGI DEI   BARRESI  DI  PIETRAPERZIA 

Pietraperzia
Chiesa Madre di Santa Maria Maggiore
 Ai lati dell’ingresso si notano due sarcofagi marmorei che contengono le
spoglie dei Barresi.
A sinistra si trova un sarcofago che fu eretto  nel 1582 e che contiene le
spoglie di Don Matteo,  della madre Laura e delle figlie, e di altri
membri delle famiglie Barresi, Valguarnera e Santapau.

Il sarcofago si eleva su un semplice zoccolo marmoreo privo di decorazioni.
Sullo stesso zoccolo poggiano quattro colonnine sulle quali si trovano addossate
quattro statuette  a bassorilievo che rappresentano:
la medicina, la giustizia, la scienza e le beneficenza.
La prima delle quattro statuette (a sinistra) tiene nella mano destra una coppa e
con la sinistra stringe, per il collo, un serpente; la seconda impugna con la
destra una spada e nella sinistra tiene il globo; la terza stringe tra le braccia
una pergamena arrotolata; la quarta versa da un’anfora in un’altra, il
liquido benefico della carità.
Statuette che simboleggiano le doti di cui andavano fieri i Barresi.
Su capitelli dorici delle quattro colonnine, poggia un’arma che è adorna di
bassorilievi floreali e disegni vari su cui spiccano due serafini che
sostengono,  da entrambi i lati, lo stemma delle famiglie Barresi
e Valguarnera. Sul coperchio del sarcofago è distesa, in
posizione supina donna Laura Sottile Cappello, prima moglie di
Don Giovanni Antonio II, barone di Pietraperzia.
L’epigrafe dell’urna riporta anche il nome di donna
Antonia Buxemar o Ademar (Santapau), moglie di Don Girolamo
Barrese (giustiziato per parricidio), che si suicidò e dei loro figli (?).
Si trovano anche le spoglie di Beatrice Barresi, figlia di
Don Giovanni Antonio II Barresi e della sua seconda moglie Eleonora Branciforte.
quindi sorellastra di don Matteo Barresi e moglie di Giovanni Valguarnera, conte di Assoro. Sono presenti anche i resti di Donna Eleonora Barresi /figlia di Don Matteo)
e di Gerolama  Barresi.
IVSSV ET FORTVSIS ILLVSTRIS HEROIS DON MACTHEI
BARRESII PRIMI HVIVS COGNOMINIS MARCHIONIS
EXTRVCTVM EST OPVS IN QVO CONDITVR HEROA
HEC LAVREA EIVS NATA ET EX BEATRICE
ASSORENSIVM DOMINA NATARVM ALTERA
NEPTES HIERONIMA ET LEONORA PVELLVLÆ
INSVPER ET ANTONINA BVXEMAR DNA
IPSIVS NVRVS.

Nella parte inferiore è presente un’altra epigrafe che riporta il nome
di Donna Antonella Valguarnera, moglie di Don Matteo Barresi,
e della loro figlia Laura, “di singolare bellezza”:

LAVRE HIC BVSTA JACET BARRESE STIRPIS
ALVMNE.
QVAM FATI INPIETAS SVBSTVLIT
ANTE DIEM. NON DAPHNIS LAVRO VATIS
NO LAVREA TVSCI. SIC CELEBRIS MAJVS
TERCIA NVMEN HABET. HEV DOLOR IN
LACRIMAS NE SOLVITE CORDA PARE(N)TES.
SI BREVIS ETERNAM CONTVLIT ARCA
DIEM BARRESIA HEC ILLVSTRIS
VIRAGO TENERIS SVB AN(N)IS ET
ADHVC VIRGO MIGRAS CONDITVR
HIC AN(N)O XPI ) MDXXXII
FORMA ET MORIBVS EGREGIIS


Il sarcofago è chiuso da un arco che poggia su due mensole sostenute dai
capitelli di due colonne in marmo bianco che si elevano per un’altezza
di circa tre metri dalla base. Il fonte dell’arco è adornato da fregi mentre
sotto la  volta dell’arco, in ciascuno degli otto scomparti in cui è suddiviso, 
vi sono scolpite in bassorilievo le teste di otto cherubini mentre nello scomparto
centrale si vede una colomba raggiante, scolpita anch’essa in bassorilievo,
che simboleggia lo Spirito santo.
 Nella parete di fondo, sempre sotto l’arco, si trova un bellissimo bassorilievo
che raffigura la Madonna con il Bambino  a  cui fanno da corona nove cherubini
con un artistico e ricco intreccio di nuvole.
Questo bassorilievo della Madonna è  attribuito da alcuni critici d’arte al Gagini,
ma non si ha la certezza. Anche il monumentale sarcofago
viene attribuito allo stesso artista.
 Girolamo Barresi mentre era in carcere commissionò ad Antonello Gagini
un mausoleo per collocarvi le spoglie dei suoi parenti. Ma per
problemi finanziari sembra che l’opera sia stata ceduta ad un altro acquirente.
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Nella stessa Matrice,  a destra dell’ingresso, si trova un’altra sarcofago
che contiene le spoglie dello sfortunato principe di Pietraperzia,
Don Pietro Barresi, e della moglie Donna Giulia Moncada.

In stile barocco con diversi adorni di marmo a intarsiature.
Nella parete un quadretto di marmo bianco con l’immagine della
Madonna con il Bambino. La parte superiore del monumento è
sormontata da un’artistica cimasa ai cui lati si trovano due putti ignudi
che simboleggiano l’anima addolorata del popolo che piange la morte
di colui che in vita tanto bene aveva arrecato alla comunità.
Nel centro si eleva uno scudo in cui s’intrecciano gli stemmi dei
Barresi, Valguarnera e Moncada. La grande cornice è sostenuta
da due sirene che poggiano per metà su mensole e recanti ognuna in
mascherone.  Il sarcofago reca la seguente iscrizione ( graffita da
Girolamo Mozzicato):


D. O. M.
PETRO BARRESIO PETRÆ
PERSIÆ PRINCIPI SUÆ TEMPES
TATIS EQVITVM VIRTVTIBVS
CVMVLATISSIMO EXACTIS
QVINQ, ET TRIGINTA SUÆ ÆTA
TIS ANNIS, FVLMINE DEMVM CÆ
LITVS FLAMMTO IVLLÆ. Q. MONCATÆ:
VXORI SVAVISSIMÆ TRIBVS CVMANNO
LVSTRIS POST XXXIJ SVI NATA
LIS ANNVM LVCTVOSIS
SIMÆ SUPERSTITI.
--------------------------------
Poiché Don Pietro Barresi non ebbe prole, gli successe la sorella Dorotea, nata nel 1529.
Con il matrimonio Don Giovanni Branciforte costituì un grandissimo patrimonio e i suoi discendenti erediteranno i principati di Pietraperzia e Butera, i marchesati di Barrafranca e di Licodia ed inoltre Occhiolà, Belmonte, Radali, Fontamanurata ed anche Militello in Val di Noto


Dorotea Barresi aveva sposato, nell’aprile 1555 a Palermo,  Giovanni Branciforte, IV conte di Mazzarino, e dal matrimonio era nato Fabrizio Branciforte.
Rimase vedova (all’età di 34 anni), il marito morì giovanissimo (aveva 23 anni),  e si trovò a reggere il Ramo Barresi Pietraperzia e il Casato di Mazzarino. La situazione economica non era delle più floride perché la famiglia Barresi aveva dovuto fare fronte alle forti spese giudiziarie per poter salvare il padre Girolamo accusato di parricidio.  Tentativi che furono vani malgrado i versamenti di forti somme.
Il ramo dei Barresi di Militello si trovava invece in condizioni economiche decisamente migliori e  Carlo Barresi, con atto stipulato preso il notaio Vitali di Militello, lasciò la Baronia di Militello, in data 19 febbraio 1557 al figlio Vincenzo Barresi ( Il barone Carlo aveva anche una figlia di nome Caterina).
Vincenzo Barresi, alla morte del padre (1557) aveva sette anni e il comando della signoria venne tenuto dalla madre Belladama Branciforte. Ne prese possesso il 29 febbraio 1559, cioè all’età di 11 anni, con atto stipulato presso il notaio G. Battista Bartolotta.
Con privilegio dato a Madrid da re Filippo II il 24 ottobre 1564 ricevette l’investitura di Primo Marchese di Militello.
Nel 1567 (diciassettenne) sposò Dorotea Barresi, ultima esponente del Ramo Barresi di Pietraperzia. Un matrimonio legato ad interesse economici perché Dorotea di anni ne aveva 38. Fu naturalmente stipulato il relativo atto di matrimonio ..
Capitoli di lo felice matrimonio infra lo ill/mo Vincenzo Barresi
Marchesi di Militello con ill/ma Donna Dorotea Barresi,
di lo Mazzarino (e Pietraperzia”.
L’atto fu firmato il 30 novembre 1566 dal principe di Butera, il 1° Dicembre 1566 da Vincenzo Barresi..
ho visto li sopra ditti capitoli e confirmo tutti li cosi in essi consessi”
Il 17 dicembre 1566 da Donna Dorotea Barresi
“confirmo supra”
E l’11 gennaio 1567 dal principe di Pietraperzia Don Pietro Barresi

Capitoli di matrimonio tra Vincenzo Barresi e Dorotea Barresi


Il matrimonio fu celebrato a Licodia Eubea il 15 agosto 1567 ma… all’indomani delle nozze Vincenzo Barresi fu colto da malore e morì…  si parlò di una febbre malarica precedentemente contratta
La madre Belladama Branciforte innalzò nella Chiesa Madre di Santa Maria della Stella di Militello un monumento funebre sul quale fu riporta la seguente epigrafe:
“All/mo B.D. Vincenzo Barresi e Branciforte
1° marchese di Militello.
La madre pietosa questo tumulo pose S.P.C.
Visse 17 anni, morì 16 Agosto 1576”.

Vincenzo Barresi
Monumento funebre
Militello In Val di Catania
Santuario Santa Maria della Stella

Il tentativo di riunire i due rami del casato Barresi, di Pietraperzia e di Militello, fallì anche perché il matrimonio non fu consumato.
Dorotea Barresi si ritrovò vedova per la seconda volta e avendo sempre in mente il progetto di riunire i due rami del casato, pensò al figlio Fabrizio Branciforti, Conte di Mazzarino, come possibile marito di Caterina Barresi, sorella di Vincenzo, ed ora Marchesa di Militello (Testamento di Vincenzo, notaio Bartolotta di Militello del 17 agosto 1567 reso esecutivo il 25 agosto 1567).
Un progetto ambizioso che cercò di portare a compimento con grande impegno.
L’investitura di Caterina porta la data del 13 novembre 1568 in Palermo.
Il progetto di Dorotea Barresi non era facile perché ci furono dei forti contrasti a corte. Il vicerè di Sicilia, Carlo d’Aragona Tagliavia (principe di Castelvetrano e duca di Terranova)  o Francesco Landriano ?, aveva promesso Caterina Barresi in sposa a Hildago Iberico, uno squattrinato nobile spagnolo.
Alla fine nel 1571 Fabrizio Branciforte (Conte di Mazzarino; Principe di Butera e di Pietraperzia) e Caterina Barresi si sposarono.





Con Caterina Barresi finì il ramo dei Barresi di Militello ed anche quello di Pietraperzia che confluirono nel casato Branciforte di Mazzarino.
Fece testamento presso il notaio Gianluigi Pandolfo in Palermo con il quale lasciò il Marchesato di Militello al figlio primogenito Don Francesco Branciforte.


Don Fabrizio Branciforte fu il primo barone di Sicilia ad essere chiamato “Il Butera” perché principe di Butera. Un titolo che gli dava il diritto ereditario di portare il vessillo del re e di annunziare al popolo il nome del sovrano alla sua assunzione al trono e di occupare il Primo Posto nel Parlamento Siciliano. Un personaggio di gran rilievo nello scenario nobiliare siciliano.


 Riunì nelle sue mani i feudi e i titoli di ben tre famiglie importanti nella storia della Sicilia_ Branciforte, Barresi e Santapau. Celebrò l’importante evento facendo realizzare un massiccio vaso d’oro di due chilogrammi, a forma di nave e tempestato di diamanti e pitre preziose, stimato del valore di 3327 once.
Ebbe la più alta onorificenza Spagnoa, il Toson d’Oro e in data 8 diecmbre 1591 ebbe l’investitura di Conte di Mazzarino.
Con la politica dei matrimoni i Branciforte fecero un autentico balzo in avanti nella feudalità siciliana collocandosi dietro ai Monaca ( alla fine del Cinquecento avevano un reddito che superava le 50000 onze), agli Aragona Tagliavia , ai Ventimiglia.
Fabrizio Branciforte, ancora ragazzino, grazie al matrimonio era diventato Marchese di Militello (Dote di Caterina Barresi con atto rogato presso il notaio Antonio Carasi il 29 aprile 1570) e con la morte di Pietro Barresi   diventava :
-          Principe di Pietraperzia;
-          Marchese di Barrafranca;
-          Barone di Fontanamurata
Tutti “Stati” che ereditava grazie alla madre Dorotea, sorella di Pietro Barresi.
Ma le sorprese non finivano.
Nel 1590 morì senza legittimi eredi Francesco Santapau, principe di Butera, marchese di Licodia, barone di Palazzolo, di Belmonte (Mirto), di Radalì (nel territorio di Butera), Signore di Occhiolà (Grammichele).
Francesco Santapau era fratello di Antonia, madre di Dorotea Barresi e quindi legittima erede dei titoli.
Per effetto di una transazione del 1583, voluta dallo stesso Francesco Santapau, alla sua vedova  Imara Benavides restarono il marchesato di Licodia e la baronia di Palazzolo (acquistata successivamente e che era di proprietà di  Artale Alagona) mentre a Dorotea Barresi furono ceduti il Principato di Butera e le baronie di Belmonte, Radalì e la Signoria di Occhiolà. Con la successiva morte di Dorotea barresi tutti questi stati passarono nel potere del figlio fabrizio Branciforte.
In realtà Fabrizio Branciforte ereditè  una situazione economica che era deteriorato soprattutto per quanto riguarda gli “stati” dei Santapau che per l’acquisto di palazzolo avevano fatto fronte ad un  grosso impegno finanziario.  Francesco Santapau con l’acquisto della baronia di Palazzolo voleva costituire un vastro patrimonio alla figlia Camilla.
All’inizio del Seicento gli stati di Fabrizio Branciforte si trovavano in “deputazione”.
 Nell’odinamento feudale siciliano era largamente diffusa la consuetudine di affidare ad un magistrato l’amministrazione degli “stati” posti  “in deputazione”, cioè di quei feudi la cui gestione era affidata dagli stessi baroni, sull’orlo del fallimento economico, all’istituzione della “deputazione degli stati”.
Infatti i marchesi di Giuliana tra cui Alfonso de Cardona, sostenevano che:
“fra alimenti del principe di Butera et quello di Pietraperzia
et spese di liti et subiugatarii annuali, li introiti annuali
si egualano a lo exito, in manera che mai più si pagheria le debiti currenti”.
I archesi di Giuliana erano creditori di 9.600 onze.
I debiti non preoccupavano don Frabrizio e tantomeno don Francesco che, rispetto al padre, aveva una visione ecnomica forse più attenta.
È anche vero che raramente i conti di Mazzarino riuscirono a riscattare quancuno dei loro feudi che era stata alienato ( tra il Quattrocentop e il Cinquecento ed ancora nel XVI secolo).
Giovanni Branciforte, marito di Dorotea Barresi e padre di Fabrizio, alla sua morte aveva lasciato presso il banco Cenami di Palermo, un debito di ben 3000 onze, con vari fideiussori, uno dei quali fu costretto a pagare 100 onze e il banco gli retrocesse i diritti contro i Branciforte.
Altre 4364 onze sembra le dovesse donna Dorotea, la quale ai commissari ininviati a Mazzarino per recuperare la somma disse che:
“essa si era impegnata in solido, ma soltanto per paura
del defunto suo marito Giovanni Branciforte”,
tanto che
“già si era fatta sciogliere dal giuramento nella curia vescovile di
Siracusa dimostrando appunto di aver giurato “vi coatta””.
Lo stesso don Fabrizio nel 1570 acquistava e pagava attraverso il credito che il banco Gentile concedeva al suo gabelloto Francesco Tornabuoni ed era costretto a vendere contemporaneamente i feudi di Gimia Sprana e Sottana a Giovanni Andrea Trigona; nel 1573 la baronia di Favara a don Simone de Grimaldis e nel 1574 il feudo Gallitano a Francesco Averna, smembrando ulteriormente la Contea di Mazzarino.
Con l’acquisizione dei nuovi stati e quindi di nuovi patrimoni, anche se dissestati,  nelle mani del conte di Mazzarino entravana una rendita lorda valutata a fine Cinquecento in ben 27000 onze. Un reddito che gli consentiva d’entrare nell’èlite dell’alta feudalità e i commenti su don Fabrizio (“elevato a principe modello”), accusato giustamente di avere poca conoscenza delle sue “cose”, non furono obiettivi come vedremo in seguito perchè sperperò ingenti somme di denaro:
“ è celebre oggi per la sua grandezza e magnanimità
Don fabrizio, principe, in cui risiedono tutte le virtù, che
devono in gran principe trovarsi, egli è amator d’ogni scienza e professione;
è litterato ed istoriografo, intendente di tutte le cose a principe necessarie;
è affabile, e gradisce i servigii, e remunera; onde egli nella nostra patria
può chiamarsi non tanto un Mecenate, ma per il grand’animo che
egli ha un nuovo Alessandro Magno; ed è cavaliero del Tosone,
e per luogo precede a tutti altri principi”.

Eppure  fu probabilmente l’assassino del figlio Francesco che fu avvelenato con l’arsenico…..
Ricapitolando aveva i seguenti territori:
-          Principati: Butera e Pietraperzia:
-          Contee: Mazzarino e Grassuliato;
-          Marchesato di Barrafranca;
-          Signorie: Occhiolà (Grammichele), Biviere di Lentini, Fontana Murata, Belmonte, Radali, Baudi, ecc…
In totale aveva 41 feudi

Dal matrimonio tra Fabrizio Branciforti e Donna Caterina Barresi nacquero ben 9 figli:
-          Francesco, il primogenito;
-          Giovanni (sposò la sorella di Nicolò Placido I Branciforte di Raccuia, principe di Leonforte, e morirà nel mese di dicembre del 1622, alcuni mesi dopo Francesco;
-          Vincenzo, abate dei Benedettini di S. Maria di Nuovaluce di Catania;
-          Pietro e Filippo, affetti da mutismo;
-          Dorotea, che sposò Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, Presidente del Regno e Vicerè di Sicilia;
-          Imara, prenderà i voti con il nome di Francesca Maria Moncada della badia delle Stimmate di Palermo, fondata dalla stessa e dove verrà sepolta assieme alla madre Caterina;
-          Caterina, che fu moglie di Nicolò Placido Branciforte, primo principe di Leonforte;
-          Isabella che morì giovane.

In merito al figlio primogenito Francesco, nato a Militello il 17 marzo 1575,  diede un maggiore importanza al casato grazie alle sue attività imprenditorali eseguite in massima parte su Militello ed alle sue importantissime iniziative culturali.
Ebbe dei fortissimi contrasti con il padre Fabrizio per la cattiva gestione del patrimonio familiare. Una situazione debitoria che influirà in forma decisamente violenta nei rapporti fra padre e figlio.
Nel 1602 i rapporti tra padre e figlio raggiunsero dei toni molti accesi… ci furono anche delle iniziative intraprese da Francesco per fare interdire il padre..
Comunque nell’anno 1602 Francesco reclamò “il mero e misto imperio dei feudi e anche il diritto di prendere il posto del padre nel Parlamento Siciliano”.
Fabrizio e la moglie Caterina, in quel periodo ancora in vita e morirà solo due anni dopo nel 1604, si trasferirono  definitivamente a Palermo dove elessero la loro corte.
In questo preciso momento si attuò nuovamente una scissione del casato questa volta dei Branciforti:
Ramo di Mazzarino
Ramo di Militello
 Il ramo di Mazzarino restò sotto la signoria di Don Fabrizio padre  amministrando i beni Branciforti di Mazzarino, Barresi di Pietraperzia e Santapau;
Ramo di di Miliitello sotto la Signoria di Don Francesco (figlio) che amministrava i beni che gli erano pervenuti dalla madre Caterina Barresi compresa la Terra di Militello.
Don Francesco sposò Donna Giovanna d’Austria, nipote dell’Imperatore Carlo V, ed ebbero una sola figlia, Margherita.



Don Francesco morirà il 23 febbraio 1622 a Messina … il responso medico riportò “forse di peste”.
La realtà fu completamente diversa.. morì avvelenato.. con l’uso di arsenico come rilevarono gli esami a distanza di secoli… nel 1996
Fabrizio Branciforte morì nel gennaio 1624 a Palermo, un anno dopo la morte del figlio secondogenito Giovanni.
Con la morte di Margherita nel 1604  e del marito Don Federico Colonna, non essendoci eredi, il casato di Militello confluì nei Branciforti di Mazzarino che detenevano anche il casato di Pietraperzia
La situazione nel casato Branciforte è per certi versi molto complessa perché si susseguiranno dei matrimoni che evidenzieranno i sottili giochi dinastici delle grande famiglie baronali.
Caterina Branciforti, figlia di Don Fabrizio, sposò il principe di Leonforte, Don Niccolò Placido I Branciforte del Ramo di Raccuia.
Giovanni Branciforti, figlio anche lui di Don Fabrizio, sposò la sorella di Niccolò Placido I Branciforte, Giovanna Flavia Branciforte, da cui tre figli/e:
Agata, Giuseppe (I principe di Niscemi),Caterina e Gabriele
Dal matrimonio tra Niccolò Placido I Branciforti e Donna Caterina Branciforti nacquero 5 figli anche se alcune fonti ne citano nove:
Giuseppe, Francesco, Caterina, Rosalia, Margherita e Maria
Le prime tre figlie si diedero alla vita religiosa entrando nel Convento delle Stimmate di San Francesco di Palermo con i nomi di suor Placida, suor Agata Rosalia e suor Caterina Giuseppa.
Giuseppe Branciforte (1616, 1698), II Principe di Leonforte e III Principe di Pietraperzia, ereditò i beni del padre, e sposò Caterina Branciforte (morta nel 1667), figlia di Giovanni Branciforte e della zia, sorella del padre Niccolò, Giovanna Flavia Branciforte. Dal matrimonio nacque un unico figlio, Baldassare Branciforte, che morì precocemente. Caterina Branciforte nel suo testamento istutuì un fondo in favore delle giovani bisognose che, a quanto sembra, è attivo ancora oggi.
I due Giuseppe ebbero dei contrasti molto forti per la spartizione dei titoli e dei feudi. Una lunga vertenza giudiziaria che alla fine si risolse con una suddivisione dei titoli secondo un accordo del 22 ottobre 1660 e pubblicato nel 1661:

A Giuseppe (figlio di Nicolò) ( Principe di Leonforte).
Furono concessi Mazzarino e Pietraperzia;
al cugino Giuseppe (figlio  di Giovanni B. e di Giovanna Favia B.),
furono concessi Butera e Militello



I due Giuseppe non furono fortunati nella discendenza.
Il Giuseppe  Branciforti, principe di Leonforte (Ramo di Mazzarino e Pietraperzia) ebbe un solo figlio Baldassare che mori giovane.
Il cugino Giuseppe Branciforte, marchese di Militello,l (Ramo di Butera e Militello) dopo aver sposato Agata Branciforte (cugina perché figlia di Nicolò Placido I Branciforte)) si risposò con Luisa Moncada (o Aloisia), nipote del  Principe di Paternò. Ebbe a quanto sembra tre figli/e (Giovanni, Casimiro e Caterina) che  morirono sezna dare origine a successione.
Il Marchesato di Militello passà nel potere della sorella Agata che aveva sposato il principe Federico Carafa, nipote del papa Paolo IV. Dal matrimonio nacque Carlo Maria Carafa Branciforte che con atto del 24 febbraio 1671 risulta essere signore di Niscemi.  Ci furono delle rivendicazioni da parte degli altri Branciforti ma Carlo Maria ne rimase signore per atto del Notaio Pietro Diego Cutrona di Palermo del 19 settembre 1675 (“Stati”: Militello, Niscemi, Occhiolà, Butera). Nella sua signoria si verificà il terremoto dell’11 gennaio 1693 e si distinse nella ricostruzione della Terra di Occhiolà.
Sposò Isabella d’Avolos  e dal matrimonio non nacquero figli.
Il Carafa lasciò gli stati alla sorella Giulia nel 1695, due anni prima della sua morte avvenuta il 15 luglio 1697.
Giulia Carafa  prese possesso degli Stati per atto del notaio Pietro Magro del 6 giugno 1695 e con investitura per atto  del 10 novembre 1695 in Messina.
Per testamento del 4 dicembre 1703, notaio Pietro Ruguccio di Napoli trascritto a Palermo il 10 giugno 1704 presso il notaio Polito Miceli, alla sua morte avvenuta nel 1705, lasciò Militello e i suoi stati allo zio Francesco II del Ramo Branciforte di Raccuia.
Con Francesco II si ha  la nuova riunificazione del Casato Branciforte con i Rami di Militello, di Mazzarino, di Pietraperzia e di Raccuia ma non quello di Cammarata.

Il fratello di Giuseppe (Principe di Leonforte), Francesco II si sposò due volte. La prima moglie fu Anna Gaetano (?) e dal loro rapporto non nacquero figli. La seconda volta si sposò con Caterina Beatrice del Carretto, figlia di Giovanni V del Carretto (IV Conte di Racalmuto e di Maria Branciforte. In base alle ricerche sembra che Maria Branciforte fosse figlia di Niccolò Placido I Branciforte e di Caterina Branciforte, e quindi sorella dello stesso Francesco II. Caterina Beatrice  del Carretto era quindi nipote di Francesco II,
Dal matrimonio nacque :
Nicolao Placido II Branciforte
Principe di Pietraperzia


Nicolao Branciforte, per mancanza di eredi, fu investito anche dei feudi di Butera, Raccuia e di Mazzarino, in cui era confluito anche il Ramo di Militello, e con il titolo di Principe di Butera e di III Principe di Leonforte.
(Subentrò al padre nel 1705 e morì nel 1723).
Ebbe una lite con Don Girolamo del Carretto (?) per la pretesa degli stati. La sentenza del 30 luglio 1704 vide vincitore il Branciforte che ne prese possesso con atto presso il notaio Magro del 26 febbraio 1705 e relativa investitura con atto dell’11 marzo 1705 a Palermo.
Sposò Stefania Ventimiglia e Pignatelli (Palermo, 1675 circa; Palermo, 31 agosto 1749), figlia di Francesco IV Rodrigo Ventimiglia, V principe di Castelbuono, e di Giovanna Caterina Pignatelli.
Dal matrimonio nacquero:
Agata Branciforte;(1695-1751 circa): sposò Ferdinando Moncada;
Caterina Branciforte, principessa di Butera;
Maria Anna Vincenza Giuseppa Branciforte e Ventimiglia;(Palermo,24 gennaio 1706;?)
Anna Maria Giuseppa Gioacchina Branciforte;(Palermo 29 luglio 1707; ?)
Beatrice Branciforte, principessa di Leonforte;(1710; Palermo, 21 marzo 1761)
Ignazio Vincenzo Francesco Emmanuele Domenico Saverio Branciforte; (Palermo, 2 marzo 1711; ?)
Maria Rosalia Branciforte; (Palermo, 11 novembre 1717; Palermo, Palermo, 20 luglio 1749), sposò Salvatore Branciforte

Caterina Btanciforte (1697, circa; Bagheria (Pa), 11 maggio 1763) aveva i titoli di:
Principessa di Butera, Contessa di Raccuja;
Signora della Terra di Pietraperzia; Marchesa di Militello;
Marchesa di Barrafranza; Signora della Terra di Santa Maria di Niscemi;
Contessa di Mazzarino.

Sposò Ercole Michele I Branciforte (Palermo, 1697 circa; Palermo, 20 novembre 1764), figlio di Girolamo Branciforte  e Colonna “Marchese delli Martini e Duca Branciforte” (1660 circa; 1716 circa) e di Lucrezia Gravina Requisenz (San Michele) (1660, circa; ?).  Lucreazia era vedova d’Ignazio Sebastiano Gravina, principe di Palagonia.
Aveva il titolo di Duca Branciforte “a 29 febbraio 1716 per la morte di Girolamo, suo padre, e come erede universale di lui – R.C., IX Indiz., foglio 47)” e di Barone di Cassibile. “…P.pe di Bufera (Butera), s’investì a 16 novembre 1750 nel nome maritale di Donna Caterina Branciforte Ventimiglia, la quale successe per la morte di Donna Maria Rosalia, sua sorella e la morte di Donna Stefania, figlia di lei, in stato infantile (Conserv. Di reg. Investitura, Vol. 1198, f. 62 retro).
Questo P.pe Ercole Michele e C.te di Raccuja fu onorato, a 6 Luglio 1738, della distinzione di Cavaliere di San Gennaro; fu gentiluomo di Camera con esercizio; Deputato del Regno nel 1728-1732-1738-1741-1740-1748-1750-1754-1758-1762, sempre interrottamente, fino alla morte. Fu grande di Spagna di 1a Classe.

Contessa di Raccuia:
Caterina Branciforte Ventimiglia s'investì della Contea e Terra di Raccuja, a 29 Settembre 1727, (foglio 11), per la morte di Nicolò Placido, suo padre, come sua erede e per transazione con le sorelle, agli atti di Not. Leonardo di Miceli di Palermo, il 23 Aprile 1727, ed atto provvisionale del Tribunale della Gran Corte in data 24 succ.
Sotto lo stesso giorno, ai fogli 9 (Libro 2 della R. C.) 13-15-17-19-21, s'investì del Principato e terre di Butera, Occhialà, Baronia di Belmonte, B.nia o feudo di Radali, Castello della Falconara, terra di Pietraperzia, con suo mero e misto impero, Marchesato di Militello (Val di Noto), Marchesato e Terra di Barrafranca, terra di S. Maria di Niscemi, titolo di Duca di Santa Lucia. In data 22 Giugno 1728 (foglio 113, libro 3°), s'investirono essi coniugi della Contea di Mazzarino, feudi e Castello di Grassuliato. Nel Principato e Stato di Leonforte successe Beatrice Branciforte e Ventimiglia, sorella di essa Caterina, sposata ad Ercole Branciforte e Naselli, P.pe di Scordia, e ciò in base alla transazione suddetta, per cui essi coniugi s'investirono, a 12 Giugno 1728, foglio 21. Nel titolo di Principe di Pietraperzia successe Maria Rosalia Branciforte Ventimiglia (altra sorella di Caterina), come figlia vergine in capillo di Nicolò Placido e per effetto della transazione suddetta. La investitura porta la data 9 ottobre 1727 (foglio 29, libro 1°). S'investì essa Maria Rosalia, in pari data (fogli 31 e 33), della Baronia, Castello di Cassibile e della Baronia, Castello e feudo di Fontana Murata.





Duca di Santa Lucia
Caterina Branciforte Ventimiglia s’investì del titolo di Duca di Santa Lucia, a 29 Settembre 1727, come figlio primogenito e per la morte di Nicolò Placido suddetto (R. Canc., VI Indiz., foglio 21).

I Marchesi di Barrafranca
D. Caterina Branciforte Ventimiglia ed il marito di lei D. Ercole Michele Branciforte come dotatario s'investirono del M.to e Terra di Barrafranca a 29 Settembre 1727, per la morte e come figlia primogenita ed erede di Nicolò Placido Branciforte suddetto in virtù di suo testamento, non che in base a transazione stipulata presso le minute di Not. Leonardo di Miceli il 24 Aprile 1727 ed atto provvisionale del Tribunale della Gran Corte del 24 Aprile 1727 (R. Canc., VI Indiz., f. 17).


Belmonte Baronia
D.a Caterina Branciforte e Ventimiglia e per essa D. Ercole Michele Branciforte, suo marito, s'investì a 29 Settembre 4727, per la morte di D. Nicolò, suo padre (Conserv. Inv. 1725-1729, f. 75 retro).


Barone del Biviere di Lentini
Caterina Branciforte Ventimiglia s'investì del Biviere di Lentini a 29 Settembre 1727 per la morte di Nicolò Placido suddetto, suo padre. Sposò Ercole Michele Branciforte; morta intestata a 11 Maggio 1763 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di San Nicolò la Kalsa di Palermo.

Principe di Butera
Caterina Branciforte Ventimiglia s'investì della Contea e Terra di Butera a 29 Settembre 1727 come figlia primogenita, legittima e naturale ed erede di Nicolò Placido, suo padre, in forza del testamento Paternò ed atto di transazione in Not. Leonardo Di Miceli di Palermo il 24 Aprile 1727 ed atto provvisionale del Tribunale della Gran Corte di pari data (R. Cancell., VI Indiz., f. 9, libro 2°).


Questa dama prese inoltre investitura in data suddetta dei presenti stati e titoli: Terra di Occhiala, Baronia di Belmonte , Baronia e feudo di Radali, Torre della Falconara, Contea e Terra di Raccuja, Terra di Pietraperzia con suo mero e misto impero, Marchesato di Militello , Marchesato e Terra di fearrafranca, Terra di Santa Maria di Niscemi, titolo di Duca di Santa Lucia, Contea e terre di Mazzarino, Castello di Grassuliato (R. Cancell., VI Indiz., libro 2, f. 11-13-15-1749-21 e libro 3°, f. 113); s'investì inoltre a 29 Settembre 1727 del Biviere di Lentini, a 20 Dicembre 1749 della Baronia e feudi di Pedagaggi e Randazzini già membri della Camera Reginale (Conserv. di Reg., Vol. 1168, f. 7 retro). Fu D. Ercole gentiluomo di Camera con esercizio, Deputato perpetuo del Regno, Grande di Spagna di l.a Classe, Cav. di S. Gennaio (1738). La P.ssa Caterina, successe nel titolo di P.ssa di Pietraperzia per avere la sorella Rosalia passato a matrimonio; e ciò in conformità del patto contrattuale del 1727 suddetto. Però di esso non s'investì avendolo ceduto a Salvatore suo figlio primogenito; s'investì invece per la successione suddetta della Baronia, feudo e Castello di Fontana Murata, di onze 120 di rendita sopra i proventi di Caltagirone, della Baronia con il Castello di Cassibile : e ciò a 16 Novembre 1750 (Conserv. di Reg., Vol. 1168, f. 60 retro e 62 retro). Morì questa P.ssa repentinamente a Bagheria il 11 Maggio 1763, di anni 72 (fede della Parrocchia di S. Nicolò la Kalsa di Palermo). Il P.pe Ercole morì a 20 Novembre 1764.

Baronia di Radali o Rachali
Donna Caterina Branciforte Principessa di Butera s’investì del feudo della Baronia suddetta a 29 settembre 1727 come primogenita e per la morte di Nicolò Placido suddetto (R. Cancelleria, VI Indizione, foglio 9, libro secondo.

Signore della Torre di Falconara
Caterina Branciforte s’investì del castello suddetto a 29 settembre 1727 come primogenita e per la morte di Nicolò Placido suddetto (R. Cancelleria, VI Indizione, foglio 9, libro secondo).

Marchese di Militello (Val di Noto)
Caterina Branciforte Ventimiglia, P.pe di Butera, s'investì, a 29 settembre 1747, per la morte di Nicolò Placido suddetto, suo padre, come sua primogenita e per transazione ed accordo fatto con la sua sorella in Notar Leonardo di Nicolò di Palermo, il 24 aprile 1747, ed atto provvisionale del Tribunale della Gran Corte di pari data ed anno (R. Cancell, VI Indiz, f. 15).


 Barone di Fontanamurata
Donna Caterina Branciforte Ventimiglia, P.ssa di Butera, s'investì della Baronia, Castello e feudo di Fontanamurata, a 16 novembre 1750 per la morte senza figli, di Maria Rosalia, sua sorella, avvenuta a Palermo, a 21 luglio 1749, come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di San Giacomo, non che per la morte di Stefania, figlia di essa Maria Rosalia, morta infante in Palermo, a 17 sett. 1749 (Parrocchia di San Nicolò la Kalsa) (R. Conserv., Vol. 1168, Invest., f. 60 retro); questa Dama Caterina era moglie di Ercole Michele Branciforte Gravina, Duca Branciforte.

Contea di Mazzarino già Baronia
Caterina Branciforte s'investì, a 22 giugno 1728, come primogenita di Nicolò Placido suddetto, sposò Ercole Michele Branciforte, Duca Branciforte (R. Cancell., VI Indiz., f. 113, libro 3).

Signore di Occhialà
Caterina Branciforte, P.pe di Butera, s'investì della Signoria suddetta, a 29 Settembre 1727, come primogenita e per la morte di Nicolò Placido suddetto (R. Cancell., VI Indiz., f. 9, libro 2). Sposò Ercole Michele Branciforte, Duca Branciforte.

Dal matrimonio con Ercole Michele I Branciforte nacquero:

Lucrezia Branciforte ( 1715, circa; Napoli, 1 gennaio 1801);
sposò Vincenzo Maria La Grua Talamanca ( a Palermo il 6 dicembre 1735);
Beatrice Branciforte ( 1725, circa; ?); sposò Giuseppe Lanza (1719-1783)
Salvatore Branciforte
Concetta Branciforte (1737, circa; ?, 18 ottobre 1800);
sposò Francesco Moncada il 28 aprile 1756

I titoli passarono a Salvatore Branciforte (1730, circa; ?, 15 gennaio 1799):
Marchese di Barrafranca (Investitura 5 agosto 1763); Barone di Belmonte; Barone del Biviere di Lentini; Marchese di Militello; Barone di Cassibile (29 Agosto 1766);  Barone di Fontanamurata (4 agosto 1763); Baronia di Radali o Rachali ( 4 agosto 1763); Signore della Terra di Falconara; Signore di Santa Maria di Niscemi (4 agosto 1763). Contea di Mazzarino (4 agosto 1763);Signore di Occhiolà; Duca Branciforte con investitura del 19 gennaio 1766; Principe di Butera (14 maggio 1763); Principe di Pietraperzia  (12 marzo 1738); Duca di Santa Lucia ( 15 giugno 1766)

Principe di Pietraperzia
Salvatore Branciforti e Barresi s'investì, a 12 Marzo 1738, per rifiuta fattagli da Ercole Michele Branciforti e Caterina Branciforti e Barresi, suoi genitori, ai quali apparteneva in vigore di patto convenuto nei capitoli matrimoniali tra essi e Maria Rosalia Branciforti, sorella di detta Caterina, in Not. Leonardo di Miceli a 9 Maggio 1737 (Conserv., libro Inv. dal 1741, foglio 13). S'investì della terra di Pietraperzia, a 4 Agosto 1763, per la morte avvenuta a 11 Maggio 1763 di Caterina Branciforti e Ventimiglia, sua madre (Conserv., libro Inv. dal 1761 al 1763, f. 157 retro).
Il P.pe fu Colonnello di un Reggimento di Fanteria nel 1754 e Ambasciatore da parte della Deputazione del Regno al Re Carlo III, per congratularsi della nascita di Filippo Barbone (1747), Deputato del Regno a 17 Agosto 1750, Cav. di Malta, Brigadiere nel 1772, Gentiluomo di Camera con esercizio, Cav. di San Gennaio 1766. Morto a Napoli a 15 Gennaio 1799, come risulta, da testimoniale ricevuta nell'ufficio di Conservatoria del R. Patrimonio.
Salvatore sposò in prime nozze Maria Rosalia Branciforte, principessa di Pietraperzia, vedova di Antonino Bonanno Filingeri, Duca di Montalbano, e sorella di sua madre Caterina. Maria Rosalia morì il 20 luglio 1749 e Salvatore si risposò con Maria Anna Pignatelli Aragona, in Palermo il 25 aprile 1750.
Maria Anna Pignatelli Tagliavia  d’Aragona Cortès (1730; ?) era figlia di Diego Pignatelli (Madrid, 21 gennaio 1687; Palermo, 28 novembre 1750)( 7° Principe di Nola e 9° Duca di Monteleone, duca di Terranova, della valle dell’Oaxaca) e di Margherita Pignatelli (6 settembre 1698; Napoli, 25 ottobre1744)(duchessa di Bellosguardo). Fu dama di corte della Regina Carolina dal marzo 1768 in poi.
Salvatore s’investì dei titoli dei genitori diventando 9° principe di Butera e 5° principe di Leonforte.
In merito a Pietraperzia si legge nei registri della regia cancelleria:
Salvatore Branciforti e Barresi s'investì, a 12 Marzo 1738, per rifiuta fattagli da Ercole Michele Branciforti e Caterina Branciforti e Barresi, suoi genitori, ai quali apparteneva in vigore di patto convenuto nei capitoli matrimoniali tra essi e Maria Rosalia Branciforti, sorella di detta Caterina, in Not. Leonardo di Miceli a 9 Maggio 1737 (Conserv., libro Inv. dal 1741, foglio 13). S'investì della terra di Pietraperzia, a 4 Agosto 1763, per la morte avvenuta a 11 Maggio 1763 di Caterina Branciforti e Ventimiglia, sua madre (Conserv., libro Inv. dal 1761 al 1763, f. 157 retro).
Dal matrimonio con Anna Maria Pignatelli nacquero:
Ercole Michele II Branciforte
Caterina Branciforte (1750, circa; Napoli, 23 marzo 1797); sposò Francesco Antonio Bonanno (1740; Napoli,2 dicembre 1797)
Teresa Branciforte (1760, circa; 14 agosto 1813);
sposò Nicola Brancaccio(Napoli, 21 marzo 1747; Napoli, 16 settembre 1822)
Giuseppe Branciforte (1767; ?) sposò Emanuela Vetrano (1767; ?)
(Giuseppe morì e la vedova Vetrano si risposò con Giovanni Calascibetta)


Ercole Michele II Branciforte (1750, circa; Napoli, 9 giugno 1814). Anche lui ereditò i titoli paterni e in merito  alla Terra di Pietraperzia
Ercole Michele Branciforti e Pignatelli s'investì della Terra di Pietraperzia e del titolo di P.pe per rifiuta fattagli da Salvatore Branciforti, P.pe di Butera, suo padre, agli atti di Notar Gioacchino Giuseppe Filippone di Palermo il 4 Maggio 1774. L'investitura porta la data 29 Maggio 1774 (Conserv., libro Inv. dal 1771 al 1776, foglio 90 retro).
Si sposò tre volte:
1.      Marianna Ferdinanda Reggio e Moncada (Napoli, 1750; Napoli, 1 febbraio 1789) dei Principi di Campofiorito, con matrimonio a Napoli il 23 ottobre 1766. Marianna Reggio portò in dote lo Stato di Aci, Aci Sant’Antonio e Aci San Filippo. Dal matrimonio nacquero:
Caterina Branciforte (Napoli, 1768 circa; Napoli, 1841 circa)
Margherita Branciforte ( Palermo, 1782 circa; Napoli, 1857 circa)
Sposò in prime nozze: Filippo Giusti (1770, circa; ?)
In seconde nozze : Guglielmo Gores (1770, circa; ?)
Dai due matrimoni di Margherita, non nacquero figli.
2.      Cornelia Gullè o Grillo (Palazzo, 1760; Albano, 17 settembre 1802) , (figlia di Domenico Grillo e di Maria Rosa San Severino); non ebbero prole;
3.      Ottavia Spinelli (Napoli, 1779 circa; Napoli, 31 luglio 1857) (figlia di Vincenzo Spinelli e di Paolina Giudice) e sposata da Ercole Michele II B. a Napoli il 27 settembre 1805; non ebbero prole. Due mesi dopo la morte del marito si risposò a Palermo, il 14 agosto 1814, con Robert Henry Herbert (Londra, 19 settembre 1791; Parigi; 25 aprile 1862), (12° Conte di Premboke, Contea del Galles). La coppia non ebbe prole.

Castello di Premboke

Ercole Michele II Branciforte fu l’ultimo principe prima dell’avvento della legge del 1812 sulla fine del feudalesimo. Di lui non si hanno molte notizie. In occasione del funerale del padre Salvatore, dispose la spesa di 8 once per fare  il “catafalco” a San Nicolò ed altre 20 once per la celebrazione di ben 300 messe (2 tarì per messa).
Volle che venissero distribuiti ai poveri altre 20 once e fece scarcerare due donne che erano detenute”-
Ultimo signore dei privilegi feudali e del “mero e misto impero”.
Dopo Ercole Michele II Branciforte, i suoi successori s’imparenteranno con l’altro ramo dei Branciforte di Cammarata o di Scordia che era rimasto estraneo agli altri rami (Militello e Mazzarino). Dopo circa tre secoli il casato dei Branciforti tornò ad essere unito ad una persona.

La figlia di Ercole Michele II Branciforte, Caterina, fu la prima Signora, principessa di Butera a cui il Decreto del 1812 non riconobbe la signoria sugli stati feudali. Prima del 1812 aveva aggiunto ai suoi titoli, ereditati dal padre, quello di:
 Principessa di Campofiorito
D.na Caterina Branciforte Reggio, P.ssa vedova di Leonforte s'investì del titolo di P.pe di Campofiorito a 16 Agosto 1808 per la morte senza figli di sua zia materna, Filippa Isabella, e ciò in forza di lettere di possesso spedite per via del Tribunale della Gran Corte il 25 Maggio 1807; s'investì in pari data dei titoli di M.se della Ginestra e della B.nia e Terra di Valguarnera Racali (Conserv. di reg., Vol. 1189, foglio 91 retro, 88 retro e 86). Fu questa Dama figlia di Ercole Branciforte, P.pe di Pietraperzia, di Butera e di Ferdinanda Reggio e Moncada; quale ultima fu sorella di Filippa Isabella suddetta e figlia del 2° letto di Stefano suddetto.
Baronessa di Valguarnera Rachali
Caterina Branciforte e Riggio s’investì, a 16 Agosto 1808, per la morte, senza figli, di Filippa, sua zia paterna, ed in forza dei suoi fidecommessi (Conservatoria, libro Investiture dell’anno 1807-1809, foglio 86). Questa fu Principessa di Butera come figlia primogenita del Principe Ercole.

Sposò in prime nozze Nicolò Branciforte Valguarnera (il 26 luglio 1784 a Palermo), 6°principe di Scordia  (Palermo, 1761; Palermo, 1806), figlio di Giuseppe Branciforte (5° Principe di Scordia) e di Stefania Valguarnera.
Dal matrimonio nacque:
Stefania Branciforte (Palermo, 21 luglio 1788; Napoli, 9 dicembre 1843)
Nicolò Placido Branciforte Valguarnera s’investi del titolo di principe di Scordia l’8 maggio 1806 e di principe di Leonforte, Butera e di Pietraperzia grazie al matrimonio con la moglie Caterina.
Nel 1812 Caterina Branciforte concesse al Comune di Pietraperzia l’uso dei sotterranei dell’edificio come carcere mandamentale. Un utilizzo che durerà fino al 1906… quasi un secolo.
Nel 1820, durante dei moti il castello fu saccheggiato e privato degli infissi, degli arredi mentre le armi si trovavano al Museo di Agrigento dove ebbero una cattiva sorte.
Nel 1837 alcuni locali vennero adibiti a lazzaretto a causa dell’insorgere di alcune epidemie e il terremoto del 1838 diede il colpo di grazia provocando dei seri danni alle strutture. Malgrado le  strutture precarie dal punto di vista statico, continuò ad essere utilizzato come carcere tanto che nei moti dei Fasci dei Lavoratori del 1896 venne assaltato proprio per liberare i detenuti.

Dopo la morte del marito, Caterina Branciforte si sposò nuovamente con un nobile tedesco,  Georg Wilding (Uelzen, Lower Saxony-Germania, 24 giugno 1790; Wiesbaden, Darmstadt, Hesse – Germania, 6 settembre 1841) figlio di N Wilding-
Il Wilding aeva sposato in prime nozze Варвара Петровна (Varvara- Barbara – Petrovna) anche lei vedova, e sposò in seconde nozze Caterina Branciforte (dal matrimonio non ci fu prole).
Di Giorg Wikding non si sa molto.  Dopo il matrimonio con Caterina fu nominato ambasciatore del Re delle Due Sicilia alla corte russa. Un incarico che tenne dal 1824 al 1841. Completò la costruzione della palazzina all’Olivuzza che era stata iniziata da Caterina. In questa palazzina, dopo la morte della moglie, ospitò la zarina Alexandra Federovna ed il marito lo zar Nicola I.
Un soggiorno a Palermo per permettere alla zarina di riprendersi dalla grave malattia di tisi che l’affliggeva. Georg Wilding aveva un fratello  di nome Ernest.

Stefania Branciforte (Palermo, 21 luglio 1788; Napoli; 7/9 dicembre 1843) subentrò nel 1832 nei titoli dei genitori e nel 1805 sposò Giuseppe Lanza Branciforte (Palermo, 31 ottobre 1780; Palermo, 2 febbraio 1855), 8° principe di Trabia, figlio di Pietro Lanza e di Maria Anna Branciforte.
Dal matrimonio nacquero 6 figli: Pietro Emanuele, Maria Teresa, Francesco Paolo, Beatrice, Emanuele e Nicolò Placido.

Palermo – Chiesa di San Francesco di Paola
(Cappella della Madonna del Rosario) – Sepoltura di Stefania Branciforte
Un pregevole gruppo scultoreo opera di Valerio Villareale,
(Palermo, 1773; Palermo, 14 settembre 1854)
Fu allievo di Giuseppe Velasco ed è considerato il Canova Siciliano.
Il sarcofago reca un’epigrafe:
A Stefania Branciforti Principessa di Trabia di Scordia e di Butera nata
in Palermo a 21 luglio 1788 morta in Napoli a 7 dicembre 1843 che nelle
grandezze e nelle dovizie scogli funesti a virtù fu umile di cuore povera
di spirito madre agli inopi delle altrui fralezze compassionevole occultatrice
ancella fedele di Dio in lui solo si beò vivendo in seno alla famiglia
quasi fosse in cella romita **********I suoi figli dolentissimi questo
monumento eressero non lungi dall'ara maggiore sotto alla quale con
quelle degli avi riposano le sue ceneri nella patria traslate poco men di
due lustri dopo la sua dipartita 1857.

Nel 1878 il Comune di Pietraperzia richiese ai principi Lanza di Trabia la cessione del complesso monumentale senza avere, a quanto sembra, una risposta affermativa.
Nel 1898 si ebbe il definitivo sgombero delle carceri e nel 1910 venne nuovamente utilizzato come lazzaretto per un epidemia di vaiolo.
Nel 1912 una commissione tecnica del genio Civile di Caltanissetta, in seguito ad un sopralluogo, consigliò ai proprietari principi Lanza di Trabia, l’esecuzione dei restauri che non furono mai realizzati.
Nel 1938 vennero costruiti all’interno dell’area fortificata e a ridosso di alcune strutture, un serbatoio idrico comunale. La costruzione causò danni notevoli nella struttura del castello con l’abbatimento di alcuni fabbricati e di parte del mastio nel 1941 … vennero anche usati gli esplosivi  che cancellarono molte tombe che si trovavano sul costone roccioso .

I Branciforti e i Lanza non risiedettero nel castello di Pietraperzia.  Probabilmente dopo la morte di Dorotea Barresi, il castello lentamente perse i suoi momenti di vita così ricchi di cultura, di intrattenimenti  anche politici. Il terremoto del 1693 ed il degrado ebbero il sopravvento sulla struttura e i Branciforti preferirono risiedere nei grandi palazzi che avevano fatto costruire a Mazzarino, a Leonforte ed anche a Palermo.
I baroni si preoccuparono solo d’incrementare l’agricoltura e popolare le loro terre con vendite agevolate ad enfiteusi.

Probabilmente a Pietraperzia nel settecento c’era solo un castellano   addetto al presidio dell’immobile e del feudo e le visite del principe dovevano essere saltuarie e per brevi momenti. Quando poi il castello fu anche adibito a carcere, l’abbandono da parte dei principi dovette essere totale e questo favorì un ulteriore degrado dell’importante struttura.
Il maestoso castello sino ai primi anni del 1900 si era mantenuto in discrete condizioni. Verso la fine del secolo scorso, prima il crollo di un tetto, successivamente il crollo di alcune mura diedero il via ad una irrefrenabile distruzione. Distruzione  che fu  accelerata dall’azione vandalica dell’uomo che scavò dappertutto rovinando strutture murarie, affreschi e stucchi. Solo tra il 1985 ed il 1986, con interventi di restauro, si evitò la totale distruzione. La proprietà è comunale.
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3 .   DOROTEA BARRESI


Dorotea Barresi (1536 – 1591) fu al centro di vicende matrimoniali ed ereditarie quanto mai intricate. Riuscì con una scelta politica di alleanze matrimoniale a raggruppare i feudi contrapposti dei Barresi, Branciforte e Santapau.
Donna Dorotea era rimasta vedova all’età di 34 anni del marito Giovanni Branciforte, Conte di Mazzarino. Dal matrimonio era nato Fabrizio Branciforte che alla morte del padre aveva sette anni.
Con l’obiettivo di riunire il casato Barresi decise di sposare nel 1567 il cugino Vincenzo Barresi, diciassettenne, che mori il giorno dopo le nozze per una febbre malarica contratta in precedenza. Il piano era fallito ma Dorotea riuscì a fare sposare la Marchese di Militello e sorella di Vincenzo, Caterina Barresi con il proprio figlio Fabrizio Branciforte.

“..Capitoli di lo felice matrimonio di Don Vincenzo Barresi,
Marchese di Militello e Donna  Dorotea Barresi”
Prima pagina del documento formato dagli stessi 1566 - 1567

Con il matrimonio tra Caterina Barresi e Fabrizio Branciforte, Dorotea riuscì a realizzare il suo piano politico. La sua Militello divenne il centro propulsore della politica siciliana:  finirono le guerre locali, s’instaurano relazioni internazionali fruttuose; fiorirono le arti, la letteratura e la pittura. La storia non è tracciata, da una linea astratta, ma dalle persone concrete che hanno amato, odiato, fatto amicizia o preferito la guerra. Esattamente come oggi. Solitamente la storia viene rappresentata dagli storici come un procedimento lineare, dai presupposti evidenti e dalle finalità altrettanto sicure, anzi inevitabili. La realtà quotidiana c’insegna che non è così. Nel corso dell’ultimo ventennio abbiamo visto gli amici più cari combattersi aspramente e i nemici più contrapposti abbracciarsi, sia sul piano nazionale che su quello internazionale. Cambiamenti di regimi, involuzioni, trasformazioni in un susseguirsi d’atteggiamenti senza alcun preesistente progetto.
Realtà raggiunte senza nessun disegno preordinato ma semplicemente espressioni di momenti legati ai uomini che sono mutevoli e i fatti che producono lo sono altrettanto.
Dopo un anno di “vedovanza” sposò don Giovanni Zunica e Requesens, dei Conti di Castiglia, ambasciatore a Roma presso il papa Pio V(dal gennaio 1568 al novembre del 1579)  in un periodo in cui si svolsero importanti avvenimenti  come la battaglia di Lepanto e la successione al trono del Portogallo da parte del re Filippo II.

Juan de Zuniga y Requesens
(Giovanni di Zunica o Giovanni Zunica)
(Valladolid, 1539; Madrid, 17 novembre 1586)


Nel 1568 sposò Dorotea Barresi, Principessa di Pietraperzia e, grazie al matrimonio, diventò “iure uxoris”  Principe di Pietraperzia. Dal matrimonio non nacquero eredi.
Juan Zuniga fu nominato da Filippo II vicerè di Napoli. Una carica che mantenne dall’11 novembre 11579 all’11 novembre 1582 governando il regno insieme alla moglie che assunse il titolo di Viceregina.
Grazie alla grande conoscenza  della vita politica e culturale italiana, acquisita durante il periodo in cui era vissuto a Roma come ambasciatore presso la Santa Sede e anche attraverso i rapporti con la nobiltà italiana in seguito al suo matrimonio, riuscì a tenere le sorti della Stato napoletano con una grande abilità politica.
Juan e Dorotea ritornarono in Spagna nel 1582/83. Fu accolto con grande simpatia alla Corte di Madrid e per i suoi meriti fu nominato Presidente del Consiglio di Stato (una carica che mantenne fino alla morte). Fu uno dei principali consiglieri del Re negli affari di Stato e di guerra. Nel 1585 Filippo II lo nominò precettore del proprio figlio, il futuro re Filippo III, nominando contestualmente la moglie Dorotea Barresi  nel ruolo di “aia” cioè educatrice del futuro sovrano ed iscritta tra i Grandi di Spagna.


Lo Zuniga morì il 17 novembre 1586 nel Palazzo Reale di Madrid e fu ricordato come :
“uomo di grande valore, prudenza ed integrità”.


Diadema Grande di Spagna

Dorotea Barresi diventò una gran dama di corte a Madrid ed ebbe rapporti diplomatici con la corte ducale di Firenze. Fu una donna coltissima, intenditrice di musica (ebbe il privilegio di ascoltare la innovativa camerata del Bardi), studiò i saggi di Ludovico Dolce (spaziando dalla pittura al teatro alla volgar lingua) e come abbiamo visto anche molto sfortunata dato che rimase vedova per ben tre volte.


Lastra tombale di Juan 

L’Abito di foggia reale di Dorotea Barresi e Santapau principessa di Pietraperzia e Butera.

Nel corso del ‘500 in Sicilia, Dorotea Barresi fu certamente la donna più importante dell’isola per il suo peso nel quadro politico Europeo dati i legami con la Spagna Imperiale.
Un forte legame nato anche per il suo matrimonio avvenuto il 26 gennaio del 1573 (altre fonti citano il 1568) con il Comendator Mayor de Castilla” Juan de Zuniga y Requesens.
In virtù del matrimonio venne inserita nell’elevato ed esclusivo rango dei Grandes de Espana de primera grandeza”.
Il titolo, secondo gli usi e le consuetudini Spagnole, veniva assegnato per il matrimonio con lo Zuniga in cui il casato, a partire dal XIII secolo, era stato ininterrottamente derivato da re Arista primo sovrano della Navarra, al servizio del reali castigliani Trastamara.
Il padre del “Comendator Mayor”, Juan de Zuniga y Avellaneda, fra gli ultimi anni del’ 400 e i primi anni del ‘500, era stato sempre uno strettissimo collaboratore dell’imperatore Carlo V nelle sue varie imprese di guerra e nel trattamento degli affari di stato.
Anche la madre del “Comendator Mayor”, Estefania de Requesens y Lihorì, era una donna dalle notevoli capacità diplomatiche e politiche. A lei si deve il merito di avere contribuito a creare le condizioni favorevoli per il raggiungimento del successo politico dei suoi due figli: Luis de Requesens y Zuniga e di Juan (“Comendator Mayor”) (o “el joven”).
Un’abile donna di altissimo rango aristocratico che fu aiutata dalla madre Ipolita de Lihorì anche lei donna energica e titolare di numerosi feudi. Discendeva da una famiglia originaria dai Guisa del Rossignone, una delle più prestigiose e ricche della Catalogna.
Il padre, il nonno ed il bisnonno, avevano ricoperto la carica di governatori della Catalogna  a partire dalla seconda metà del ‘400.
Un fratello del nonno, Bernart (1395 – 1468) era stato vicerè di Sicilia nel 1430 e nel 1463. Nel 1474 per i servizi resi alla corona d’Aragona, il padre di Estefania ebbe concesso dal re Giovanni II, l’importante privilegio di apporre nello scudo del casato le armi reali della casa D’Aragona, lo storico “Palato”.
Anni prima il sovrano aragonese aveva donato ai Requesens il “Palau Rejal Menor” dove, in seguito, veniva alloggiato Carlo V durante le sue presenze a Barcellona.




Estefania si sposò nel 1526 con Juan de Zuniga y Avellaneda con l’assenso di Carlo V, e fu la promotrice del trasferimento del marito da Barcellona a Vallodolid al seguito di Calo V.
Di fatto con questo passaggio la Requesens, lasciava la patria dei suoi avi per permettere ai suoi figli di assumere gli usi e i costumi della gloriosa Castiglia.

Questo creava le premesse per i futuri inserimenti dei figli nella politica con il raggiungimento di traguardi prestigiosi.
Inserita in questo contesto prestigioso con un impressionante scenario di vita nobiliare e di politica internazionale, la principessa di Pietraperzia seppe introdursi a pieno titolo nella potente Spagna del “Siglo de oro”, la cui sfera d’influenza geografica planetaria ne dava l’esatta dimensione storica nella proiezione del futuro.
Dal tempo dell’impero romano, fino a quel memorabile ‘500, nessun’altra potenza aveva raggiunto l’importanza e gli splendori della Spagna del XVI secolo.
Dorotea Barresi, arrivata a Madrid nel novembre del 1582, godeva della massima stima e fiducia del re Filippo II e della consorte la regina Anna d’Austria, fino a quando la stessa regina visse.

Ana d’Austria
Alonso Sanchez Coello – Museo de Prado


Madrid .. nel Secolo D’Oro

Dorotea condivise con il marito la vita di corte, prima come moglie dell’ambasciatore di Spagna presso il Vaticano (1573-1579), poi come viceregina di Napoli (1579-1582), e da ultimo come aia delle infanti reali Isabella Eugenia Clara e Catalina Micaela (1583-1588/89) e di Filippo III, futuro sovrano.  Una vita di corte ricca di conoscenze di diplomatici, di politici, di prelati, di protagonisti di spicco dell’aristocrazia spagnola, di ambasciatori e inviati dalle potenze europee ed extraeuropee.

Il marito, per i compiti affidategli e gli incarichi che svolgeva come ministro della guerra, consigliere di stato e componente del ristretto gabinetto di Filippo II della “junta de gobierno de noche” venne appellato fin da quel tempo come “ministro universale”.
In quegli anni la principessa di Pietraperzia venne sicuramente a conoscenza di importanti segreti di stato di cui era fidato e massimo custode lo Zuniga.
La presenza di Dorotea a Madrid fu probabilmente per 7 – 8 anni, (dal 1583 al 1588/89) e il suo vivere a corte le imponeva di adeguare  il suo vivere ed agire con le etichette, le esigenze, gli usi dei tempi in osservanza al severo e codificato cerimoniale che certamente era in uso presso la corte degli Asburgo.
Lo stesso modo di ascoltare, di interloquire, di domandare, di osservare, di presenziare, di osservare le precedenze, di ricevere e di rappresentare istanze ai reali, doveva seguire le severe regole che venivano prescritte a quanti e qualificati personaggi venivano a contatto con la famiglia reale.
L’abito indossato da Dorotea, quando venne effettuato il dipinto che la raffigurava, è quasi identico alla forma dell’abbigliamento usato nelle grandi occasioni dalle mogli di Filippo II, Isabella di Valois e Anna d’Austria, dalla sorella del re donna Giovanna d’Austria e dalle stesse infanti reali.
La forma, lo stile e la stoffa degli abiti delle regnanti erano stati disegnati ed imposti, soprattutto, dalla figlia di Enrico II di Francia.
L’abito, così organizzato per gli usi particolari della corte, rappresentava il massimo dell’eleganza femminile dell’epoca e manifestava, allo stesso tempo, la posizione dell’autorità reale e l’iconografia del potere supremo che si ergeva sopra i livelli gerarchici dei vari ceti sociali, ivi compresi quelli della stessa nobiltà, che componevano la società spagnola.
L’abito dava quindi un preciso segno e simbolo ben visibile e suggestivo dello “status” sociale di appartenenza. Perseguiva il preciso intento di comunicare l’immagine dell’autorità e la derivante piena trasparenza della legittima funzione della sovranità del potere.
La ricchezza degli abiti malgrado le leggi contro il lusso emanate in Europa sin dal XIII secolo dai vari sovrani,  dietro la formale motivazione di ordine economico contro lo spreco delle risorse economiche, avevano una diversa spiegazione.
La legge consisteva nel controllare e dirigere le varie dinamiche sociali e culturali della gente non aristocratica che con l’uso di abiti costosi, gioielli di pregio e di oggetti di lusso, cercava di allargare la partecipazione politica e di avanzare nel ruolo sociale per potersi avvicinare alle classe nobiliari che da molto tempo detenevano il potere politico, economico e feudale.

Due papi spagnoli della famiglia dei Borgia.
il matrimonio di Lucrezia con Alfonso d’Este, avevano portato alla
diffusione in Italia delle novità vestiarie provenienti dalla Spagna.
Che consistevano soprattutto e fondamentalmente nella creazione di
strutture rigide che allargavano le sottane, allontanandole dal corpo,
invenzione che fu attribuita intorno al 1460 alla regina di Castiglia
Juana del Portogallo.
La leggenda vuole che la immorale regina avesse voluto nascondere un
“embarazo” compromettente, ma io penso che queste forme rigide e
geometriche siano nate per accentuare l’aspetto ieratico delle donne, quasi
per asessuarle. Non a caso i verdugos, rami di salice incurvato, posti
inizialmente sopra la faldetos. In seguito sottostanti, saranno alla base
delle enorm trasformazioni che avverranno nella moda cinquecentesca
a venire, proprio nel segno di una sempre maggiore distanza  posta posta
la donna naturale a quella artificiosa socialmente accettabile.
I verdugados, tramontati nel gusto di inizio secolo, saranno ripresi proprio in
Spagna a partire dagli anni ’30 del cinquecento, e nel momento di nuovo rilancio
della sovranità spagnola…Naturalmente in questo contesto non poteva che
nascere una moda che rispecchiasse questo sentimento di profondo rigore
ed austerità, ma che nello stesso tempo diventasse l’emblema della ferrea
etichetta e cerimonialità che esisteva in questa corte.
In questa moda tutto esprime Astrazione…. Il busto verra infatti completamente
annullato dalle strutture rigide interne, il verdugado impedirà ogni movimento
naturale, uniche parti del corpo visibili, ma sottoposte ad un controllo ferreo
dell’etichetta, le mani e il viso, che vengono ingabbiate da volute di lino e
pizzo, gorgiere e manichelli. L’abito, spesso nero, verrà completamente
sommerso di gioielli sempre più invasivi, nelle loro forme di carcanet intorno
alla gola, collari e collane a scendere sul petto, cinture a sottolineare la vita,
bracciali ai polsi. La ritrattistica è ricca di esempi che vengono direttamente
dalla corte. Innanzi tutto le moglie del re. Saranno le due
principesse che sposerà nel 1559 e nel 1570 a creare un modello femminile
valido per la corte e per l’Europa. La prima è Isabella di Valois, figlia di
Enrico VI di Francia, l’unica donna che il re abbia profondamente amato, come
le due figlie da lei avute: Isabella Clara Eugenia e Catalina Micaela…
Di lei abbiamo molti ritratti… Bellissimo quella della pittrice
Cremonese Sofonisba Anquissola del 1565….
La regina, indossa una saya di velluto nera con maniche “redonde” lasciate
pendere al braccio, in modo da evidenziare quelle aderenti interne,
probabilmente di uno “jubon”, di raso rosso, come rossi sono i nastri
che terminano nei puntali usati per chiudere anteriormente la veste.
Unica gorgiera in pizzo le chiude strettamente la gola, mettendo in risalto
il bel viso, dove l’unico elemento vezzoso dell’insieme è dato dalla piccola
berretta ingioiellata che porta sul capo… Molto interessante anche il
ritratto di Antonis Mor, della quarta moglie di Filippo II, la nipote
Anna d’Austria, sposata nel 1570, una bellezza bionda esaltata dal
candore della saya bianca, riscaldata da ricami in rosso sullo jubon…
I ritratti delle infanti sono invece decisamente più impressionanti…
Entrambe indossano delle saye rigidissime di broccato scuro ricamato
in oro, con busto,  verdugado e gorgiera, insomma tutto l’apparato
vestimentario delle donne adulte….
La dominanza delle forme mode nate dopo il 1560 è totale e lo
sarà fino al primo seicento…”.

Nella realtà aristocratica Spagnola del ‘500 era molto diffuso il colore nero nell’abbigliamento e comunque verso i colori molto scuri.
Un uso di questo colore che proveniva dalla corte borgognona e venne introdotto in Spagna da Carlo V.
Soprattutto l’abito nero, fornito di gorgiera inamidata a cannoncini, posta alla base del collo della persona, era esclusivamente indossato dalla nobiltà, ed esprimeva, in tal modo, l’elevato ruolo sociale e politico di chi l’indossava e la consequenziale preminenza sulle componenti umane sottoposte che formavano le comunità dei vari centri abitati.
Lo studioso Rocamora scriveva che: “L’Espagne  fut le pays qui dicta la plus grand quantitè de lois  soptuaires bien qu’on m’y fit pas trop attention. Au XVI Siecle ces lois defendaient l’usage dès brocarts et des ètoffes où il y aurait du fil d’or ou d’argent”

Al fine di immortalare per i posteri la posizione del rango particolarmente elevato, raggiunto presso la corte di Madrid, Dorotea Barresi dovette commissionare al pittore di corte Alonso Sanchez Coello un dipinto che la ritraeva nella postura eretta in “tutta la persona”.

Dorotea Barresi

fotografia realizzata nel1963 da Eugenio Barresi
(patrizio di Lipari, discendente dai Barresi di Militello Val di Catania)
a Palazzo Lanza Mazzarino di Palermo


Tenuto conto dei rigidi cerimoniali prescritti dei protocolli concernenti le gerarchie dei ruoli, sicuramente la principessa di Pietraperzia non potè non avere il consenso del consorte, se vivente, e l’autorizzazione dei reali.

Considerando l’importanza del personaggio per il servizio che svolgeva e per il fatto di essere la moglie del “Comendator Mayor de’ Castilla”, la pittura ricalcava quasi la stessa raffigurazione con la quale erano stati dipinti i quadri di Carlo V.
L’abito riprodotto dall’artista rispondeva quindi ai canoni classici di quelli indossati dalle regine e dalle donne di rango familiare della casa reale, dove si manifestava chiaramente l’affermazione della magnificenza e della sontuosità.
Esso era di colore nero o, comunque, di colore molto scuro.
All’altezza del collo era posta la gorgiera lavorata a piccoli cannoli pieghettati o scannellati.
Sotto la gorgiera si evidenzia il corpino lavorato a maglie quadrettate con delicate trine e con l’inserimento di frange e di passamano intrecciati di filo d’argento o d’oro nelle maniche corte “redonde”, “ad puntas”, pendenti lungo il braccio.
La veste, a partire dal corpetto, porta nel centro dell’abito i nastri che si completano nei puntali adoperati per chiudere sul davanti l’abbigliamento.
Ad ornamento del volto, posta sul capo, una piccola berretta dove si intravede un arricchimento di gioielli o similari.
Un aspetto importante è il rilevamento che oltre all’accostamento degli abiti delle regnanti e delle infanti, nella pittura della Barresi si evidenzia accanto alla figura slanciata della donna la riproposizione dello schema seguito in precedenza per i ritratti di Carlo V ad opera di Tiziano Vecellio del 1532 e di Jackob Seisennegger del 1533, dove l’imperatore poggia la mano sinistra sopra il grande cane alano Sampero.
La stessa presenza e la postura del cane si trova pure nei dipinti di Alonso Sanchez Coello concernenti la figlia di Carlo V Giovanna d’Austria, del figlio di lei il re Sebastiano I del Portogallo, di Margherita d’Austria-Storia moglie di Filippo III, di Alberto d’Austria il marito di Isabella Clara Eugenia figlia di Filippo II, di Carlo Emanuele I duca di Savoia marito dell’altra figlia di Filippo II, Catalina Micaela, e dei suoi figli.
Il cane porta nel collare incastonato lo stemma della conchiglia simbolo dell’ordine militare di San Giacomo e rappresenta la continuità, la familiarità e la fedeltà verso la casa reale asburgica.

Abito reale di Dorotea Barresi

Carlo V
Museo del Prado - Madrid
Opera di Tiziano Vecellio

La presenza dell’alano nel dipinto doveva avere un suo significato doveva essere legato ad un filo logico, forse di parentela o di intimità che univa in qualche modo i sudditi tutti appartenenti alla famiglia del sovrano.
La principessa di Pietraperzia era forse l’unico personaggio non appartenente a sangue reale inserito nella serie dei ritratti.
Il quadro fu per molto tempo conservato presso il  palazzo Lanza Mazzarino di Palermo e  in precedenza in alcune dimore storiche appartenute al casato dei Branciforti.
Ma anche il quadro di Dorotea Barresi ha una sua storia che sembra assurda e dimostra ancora una volta come il nostro patrimonio artistico sia depredato senza alcun controllo da chi dovrebbe proteggerlo.

Palermo - Palazzo Butera (Lanza Mazzarino)











Nel 1964 alla morte del principe Giuseppe Lanza di Mazzarino nel palazzo furono messi all’asta ben 18.000 oggetti, pari ai due terzi del preziosissimo arredamento. Tra questo oggetti  d’arte c’era anche il quadro dedicato a Dorotea Barresi che fu messo all’asta il 18 giugno 1964 e venduto per….. 200.000 lire…. circa 2.200 euro attuali.
Il quadro fu accompagnato da una piccola relazione dove veniva citato come
“un dipinto di scuola spagnola del 700 ? con riferimento a
Dorotea Barresi aia di Filippo IV(?)
Una relazione sbagliata data che fu “aia” cioè educatrice di Filippo III insieme al marito Juan Requesens y Zuniga.
Altro errore nell’affermazione di “dipinto di scuola spagnola del 700”.
L’autore non era un artista sconosciuto ma Alonso Sanchez Coello, pittore alla corte di Filippo II di Spagna vissuto nel XVI secolo….. e  i cui dipinti si trovano nel Museo il Prado di Madrid.

Autoritratto di Alonso Sànchez Coello

(Benifairò de les Valls, 1531 circa; Madrid, 8 agosto 1588)
Di origine portoghese , visse per un certo periodo nelle Fiandre dove
fu allievo di Antonio Moro e in seguito entrò al servizio di Filippo II
come ritrattista di corte.
Nella sua attività artistica realizzò sia ritratti che dipinti religiosi.
Molte delle sue opere religiose furono realizzate per il monastero dell’El Escorial.
È famoso invece per i suoi ritratti che sono contrassegnati da una grande
facilità di posa ed esecuzione, una dignità e sobrietà di rappresentazione e
un calore di colorazione. I suoi ritratti sebbene influenzati dai dipinti
di Moro e del Tiziano,  mostrano un aspetto originale e riescono
ad evidenziare, con grande capacità artistica, la modestia e la formalità
della corte spagnola. Il ritratto di Filippo II (1575 circa) e
dell’Infanta Isabel Clara Eugenia, realizzato nel 1579, sono due delle sue opere
migliori e sono esposte al Museo El Prado di Madrid-

Infanta Isabel Clara Eugenia
(Alonso Sanchez Coello)

Filippo II (Alonso Sanchez Coello)

La casa d’asta che curò la vendita del ricco patrimonio artistico dei Lanza Mazzarino, eredi dei Barresi – Branciforti) fu la  Galleria S.A.L.G.A. di Roma


Del quadro rimane solo il ricordo in qualche immagine.. come la stampa che ho inserito nella ricerca, e le riprese nel film il “Gattopardo” di Luchino Visconti, la cui data d’uscita risale al 16 dicembre 1963 a Madrid. (Un film tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa)
Nel film in alcune sequenze del Gran Ballo si nota, anche se per brevi attimi, il quadro di Dorotea Barresi sulla parete del palazzo Lanza Branciforte.

IL  FILM " IL  GATTOPARDO"




Dorotea inserì a corte il nipote Francesco Branciforti, diventato poi amico di Filippo III, e che avrebbe sposato Donna Giovanna d’Austria.
Francesco Branciforti ebbe anche il merito di salvare Filippo III da una grave situazione in seguito ad un rapporto sessuale avuto con una governante. Il futuro sorano si sdebiterà successivamente con il Branciforte e resterà una grande amicizia tra i due.
La principessa di Pietraperzia decise poi di ritornare a Pietraperzia dove morì  il 6 agosto 1591.
Le sue spoglie riposano nella Matrice di Pietraperzia dove, come abbiamo, visto sono presenti altri due sarcofagi monumentali di casa Barresi.
Le spoglie di Dorotea riposano in un sarcofago, fatto costruire dal figlio Don Fabrizio Branciforte, che è simile a quello di Federico II di Svevia e di Costanza d’Altavilla che si trovano nella Cattedrale di Palermo.

Lo stesso Don Fabrizio fece raccogliere tutti i ricordi della madre in una stanza del castello e fece murare la porta (1592).  Con la morte di Dorotea i principi si trasferirono a Militello e il castello perse il suo splendore perché affidati ai governatori.


Il Sarcofago di Dorotea Barresi (Chiesa Madre di Pietraperzia)

Nell’angolo della navata di sinistra della Chiesa Madre di Pietraperzia si trova un bellissimo e maestoso sarcofago in marmo verde (cimiliano ?).
 Il massiccio sarcofago, dal fondo ovale, poggia sulle spalle di artistici leoni. Un urna che richiama i fasti e la grandezza della famiglia Barresi che ebbe la benevolenza del popolo di Pietraperzia.
Su uno dei lati del sarcofago è presente un’epigrafe che ricorda le virtù della Principessa Dorotea, viceregina di Napoli….



D. O. M.
D. DOROTHEÆ BARRESIÆ, SANCTAPAV PRINCIPI
PETRAPERTIÆ H. PRINCIPI BUTERÆ HI VT QVÆ.
VIVENS ROMÆ ET NEAPOLI REGIAM PERSONAM
PRO DIGNITATE GESSIT, APVD REGEM REGII FILII
MOX PHILIPPI III DOMINI QVOD SVPREMVM
DECVS EST ALTERA VELVTI MATER MORIBVS ATQVE
EDVCATIONI PRÆFECTA EXCElSÆ MVNVS VIDEI
SVMMA EXPLEVIT FIDELITATE ET OBSEQVIO
MAGNOSQVE INTER HYSPANIARVM PROCERES.
NVMERATA. SVIS IDEM POSTERIS GLORIÆ,
CLARITATISQVE VESTIGIVM RELIQVIT.
MORTVA NVNC POST HONORVM TOT DECVRSUS
NEMINI SICVLORVM ANTEA COGNITOS SI NON
ILLVSTRI VT PAR HONESTO TAMEN SITA SIT
LOCO. FABRITIVS BRANCIFORTIVS, BARRESIVS,
SANCTAPAV TANTÆ MATRIS FILIVS VNICVS
PIETATIS, ET REVERENTIÆ P. ANNO MDXCI.
VIXIT. ANNIS LVIII.


Prima donna della nobiltà siciliana e italiana ad essere annoverata tra i
GRANDES    DE   ESPANA"

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          4.      LA BIBLIOTECA

I riferimenti sulla biblioteca, che era presente nel castello di Pietraperzia, risalgono al 29 ottobre 1571 quando fu stipulato un inventario “post mortem” dei beni posseduti da Pietro Barresi, primo principe di Pietraperzia e figlio di Girolamo Barresi e di Antonia Santapau. Un documento importante che fa luce non solo su un prestigioso esponente della nobiltà siciliana ma anche sulla composizione di  una biblioteca privata della seconda metà del cinquecento.
Pietro era stato investito dei titoli di marchese di Pietraperzia e Barrafranca nel 1550 ed elevato al rango di principe di Pietraperzia nel 1564.
Pietro sposò nel 1550 Giulia Moncada, figlia di Francesco Moncada, conte di Paternò e Caltanissetta, e di Caterina Pignatelli.
Pietro Barresi  fu una figura importante nel regno di Sicilia. Un importanza confermata dai vari riconoscimenti e incarichi: Cavaliere dell’Ordine equestre del Toson d’Oro, Vicario di Catania e strategoto di Messina (1564 – 1565), capitan d’armi generale delle truppe di Sicilia, governatore di Caltanissetta.
Il prestigio di cui godevano Pietro e la moglie Giulia è confermato dai documenti. In un privilegio di papa Pio IV emesso nel 1562, si concedeva a loro favore

l’assoluzione e l’indulgenza di tutti i peccati,
compresi spergiuri, simonia, omicidi casuali o mentali, ecc.
semplicemente da parte del proprio confessore privato, scavalcando
così le gerarchie ecclesiastiche”

Le fonti lo citano, come il padre Girolamo, allievo del matematico Francesco Maurolico.
Il principe Pietro era anche cultore  dell’astronomia, delle scienze e protettore e mecenate di musicisti (Salvatore Di Cataldo, Pietro Havente) e promotore, insieme alla moglie Giulia Moncada, di numerose commissioni artistiche.
Il merito all’attività musicale nel castello di Pietraperzia si potrebbe affermare che giunse a corte grazie alla passione di Giulia Moncada. Alla corte dei Moncada a Caltanissetta era nata la scuola madrigalista siciliana che grazie a Giulia giunse anche a Pietraperzia.
(Madrigale è un termine che indica l’insieme dei procedimenti compositivi utilizzati per illustrare e sottolineare musicalmente alcune immagini del testo poetico nella polifonia vocale).
Oltre ai feudi di famiglia la famiglia Barresi possedeva una grande quantità di case, giardini, terreni (vigne, oliveti, mulini), taverne, magazzini, censi, gabelle e numerosi oggetti artistici, arredi sontuosi e suppellettili di varia natura (gioielli, preziosi, argenti, quadri).
Possedeva anche un considerevole numero di trattati che erano conservati nella stanza adibita a studio, detta “studiolo”, e posta proprio nel castello di Pietraperzia.
Nell’inventario “post mortem” di Pietro fu riportata l’annotazione

“et appressop sequitano tutti li altri libri conforme sono scritti in lo libretto”

che consente di avere la visione di una biblioteca con una ricca raccolta di libri che, secondo le stime, doveva essere costituita da almeno un migliaio di volumi.
Una biblioteca costituita quindi da un numero consistente di volumi alla cui creazione avevano contribuito anche altri membri della famiglia Barresi come il nonno Don Matteo Barresi.
Don Matteo Barresi fu il committente delle grandi trasformazioni del castello di Pietraperzia, in parte iniziate dal padre Don Giovanni Antonio II, e grande bibliofilo al quale si deve certamente il merito di avere dato inizio alla ricca collezione libraria.
In un documento del notaio G. Scavuzzo, datato 23 novembre 1528, figura il prete Pietro La Croce che si obbliga a
“designare et pingere de minea”

cioè miniare due immagini e decorare con altre figure un libro appartenente a Don Matteo Barresi. Un libro dal titolo “De Gesti regis Alfonsi”, un probabile codice manoscritto che Don Matteo voleva impreziosire con delle miniature.
Nella Biblioteca Centrale della Regione Siciliana (BCRS) si trova un incunabolo (un libro stampato con la tecnica a caratteri  mobili) dal titolo “Hortus sanitatis” (del 1491) che alla fine del volume reca l’iscrizione:
 “ex biblioteca per Ill. d. don. Matheum de Barresio facta anno Christi 1531”

“Hortus sanitatis”

La stessa dicitura “ex libris…”  appare anche in un codice manoscritto del XV secolo, conservato nella Reale Biblioteca Ventimiliana di Catania dal titolo “Homeri traductio exametris versibus Pyndari haud indocti”.
La segnalazione, all’interno dell’inventario, dei titoli con le relative edizioni, offre un quadro indicativo del grande patrimonio culturale della stessa biblioteca e degli interessi di studio della famiglia.
Non si sa quali dei testi siano appartenuti al nonno ed al bisnonno, ma l’indicazione delle relative edizioni potrebbe fornire indicazioni utili  per l’attribuzione dei libri a don Matteo o a suo padre.
I libri posseduti da Pietro Barresi presentano vari argomenti che variano dalla letteratura dei classici latini e greci alla filosofia, dalla storia alla matematica ed all’astronomia. Sei libri riguardano in modo specifico l’architettura.
Tra i libri d’architettura figurano:
-           un trattato dal titolo “Architettura di Pier Cotonio” che fu pubblicato a Venezia nel 1567 e che si dovrebbe identificare con il trattato d’architettura di Pietro Cattaneo
-          Due diversi edizioni del “De re aedificatoria “ di Leon Battista Alberti, una da riconoscersi con quella edita a Monte Regale e l’altra a Venezia,  entrambi risalenti al 1565;



-          Due esemplari del trattato di Sebastiano Serlio; uno nell’edizione veneziana del 1551 che, in base alla nota “per Petrum de Nicola de Subio”, sarebbe identificabile con quello edito nello stesso anno da Pietro de Nicolini de Sabbio e l’altro del 1566;

 Serlio
il primo-quinto libro d’architettura di m.
Sebastiano Serlio Bolognese,” Venezia 1551


-          Il trattato di Vitruvio nell’edizione del 1567 di Daniele Barbaro.

I testi d’architettura denotano un grande interesse da parte di Pietro Barresi  per la materia. In qualità di committente mostrò un certo interesse a questo tipo di letteratura molto specialistica anche per restare aggiornato sulle ultime novità in campo architettonico.
All’interno dell’inventario  è presente un libro del 1532 dal titolo “Antiquitatum urbi Rome”. Una raccolta di antichità romane molto diffusa in quel periodo e che collegherebbe la famiglia Barresi all’interesse per la cultura classica ed anche all’archeologia.
 Questo potrebbe essere un volume appartenuto a Matteo Barresi che aveva un grande interesse per la cultura classica e a cui si deve il primo nucleo originario della biblioteca forse, in gran parte, andata perduta.

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5,  I Tesori del Castello …..scomparsi

Diversi testimoni lasciarono importanti dichiarazioni in merito ai lavori eseguiti sul castello da parte di Matteo Barresi.
C’erano delle indicazioni di carattere generico come quella di Nicola di Ragusa, frate dell’ordine degli Agostiniani, che ricordava come
“alcuni volti vidia magistri muraturi  murari lo castello di
Pietraperzia al tempo di dittu spectabili don Matteo”.
Un cero Leonardo Cocilovo, in data  25 novembre 1543 dichiarava che oltre alle attività edilizie promosse da Matteo nei feudi di sua proprietà…
“.. questi insieme al padre edificaro lo castello in ditta terra di
Pietrapercia undi fichiro la sala grandi, cammari, mezzagni, studi,
stalli ed altri stancii chi prima era quasi rocca scuperta”
Una testimonianza che era la prova dei lavori eseguiti dai due barresi, Giovanni Antonio II e Matteo.

Un “magister” Antonio Cancemi, alias Salzio, originario di Piazza Armerina, in un documento datato 8 dicembre 1543, dichiarava che
“lu quondam illustris marchisi di Petrapercia don Matteo Barresi
edificao et muraro et redificao tutta quella partenza di castello
undi est la sala grandi quali di havia arso a lo presenti cum tutti li stanci”…
….ordinao li marmori et petri di intaglio su in la intrata di dicto castello
et la cappella…. Fichi la scala grandi”

 In definitiva Matteo Barresi continuò l’opera di edificazione del padre e la completò con la costruzione di numerose stanze tra cui la sala di rappresentanza ed il cortile. Nel cortile fu realizzata una scala esterna e commissionò opere di decorazione tra cui
“tutti gli ornamenti…. a la intrata di lu castello cum la
Cappella di Sancto Antonio”.

I documenti se da un lato permettono di inquadrare in un ristretto ambito cronologico i lavori eseguiti, non consentono invece di fare luce sulle varie maestranze che vi lavorarono.
Un atto dell’8 aprile 1521 citava l’esistenza di un “magister, Chanchio de Allegra”, il quale dichiarava di aver ricevuto da Matteo Barresi la somma di sette onze per alcuni lavori che si stavano eseguendo
“per servicio di maramma non havi di fari”.
Il documento non forniva altri chiarimenti in merito ai lavori che si stavano eseguendo e fornisce solo il nome di un artigiano che lavorava nel cantiere del castello.
Questi atti erano  allegati alla causa giudiziaria relativa ai beni ereditati da Girolamo accusato di parricidio
“che si dice salva veritate essere stato ucciso da domino suo figlio Girolamo”.

Durante la causa giudiziaria il Girolamo si trovava nel carcere di Castellammare di Palermo  infatti nella redazione dei suoi beni venne definito come:
“carceratus et condenpnatus ad mortem et… de próximo decapitandi”.

Citazione di alcuni storici per le sue preziosità
Il Maurolico poneva questo castello tra i “più ragguardevoli della Sicilia”.
Questa considerazione era legata non solo alla sua importante posizione strategica ed alla ricca architettura ma anche per le ricchezze che sino al secolo passato  vi erano contenute.
 Il castello è ormai ridotto in misero stato e nel suo interno in passato si potevano ammirare notevoli ricchezze artistiche ed archeologiche.
Frate Dionigi di Caltanissetta, nei suoi scritti affermava che nella metà del secolo XVIII si vedeva “giganteggiare sulla cima del castello una grande statua di San Michele, corrosa dal tempo. Sopra una delle porte per le quali si entrava nelle camere del castello, era scolpita l’immagine di San Giorgio che difendeva una giovinetta minacciata da un serpente (scultura che si attribuiva all’epoca normanna)”.
Il frate aggiunse nel suo racconto “Quanto tal castello di poi,  fatto signoria da Abbo Barresi fu abbellito da altre nuove sculture lapidee e nei tempi più bassi, fu adorno di più statue di marmo, rappresentanti diversi eroi di casa Barresi, e di un  Armaria così nobile ch’era decoro di un vassallaggio.
Inventate le presenti artiglieri fu anche munito di una gran cannone, quali arme, pella trascuraggine di chi avrebbe dovuto conservarle, si sono disperse per ogni dove, cosa veramente  meritevole di un’aspra repressione”.
L’Amico nella sua descrizione del castello citò “che prima di entrare nel cortile, in una nicchia pregiata di marmo, secondo lo stile rinascimentale si osserva il busto di un grande di casa Barresi. Di fronte a questa nicchia vi era la cappella dedicata a Sant’Antonio abate, in cui si accedeva attraverso una porta, in cui l’architrave e i pilasti erano ornati di fregi e di figure del’ 500.
In questa cappella vi erano seppelliti i primi signori che abitavano Pietraperzia, comunque gli interni del castello erano ricchi di bassorilievi e di pitture”.

Il busto di Giovanni Antonio II Barresi era posto di fronte alla cappella di Sant’Antonio Abate e a sinistra dell’ingresso che, dalla scalinata, conduce al grande cortile.

Il busto si nota a sinistra della rampa di scale e posto in una nicchia.

Questo busto, citato dagli storici antichi ed attribuito allo scultore Francesco Laurana, sparì  e si persero le tracce. Secondo alcuni storici fu prelevato dal principe Giuseppe  Lanza nel 1830 (archeologo e collezionista d’arte), quando il castello era ormai abbandonato, e portato a Trabia.
Alcuni ricercatori da tempo si occupano della ricerca di questo famoso busto e sono giunti a delle ipotesi che potremo definire sorprendenti anche se ancora da verificare.
La studiosa Renata Novak Klemencic nel “Dizionario Biografico degli Italiani” (vol. 64, 2995) citò:
“ "Middeldorf e Kruft (1971) hanno attribuito al Laurana tre busti maschili, secondo loro riconducibili a questo periodo siciliano: quello di Ferdinando il Cattolico (Berlino, Staatliche Museen), di Antonio Barresi proveniente dal castello di Pietraperzia (già in Inghilterra, collezione privata, ora a Zagabria, Hrvatski restauratorski zavod (Istituto croato del restauro)...."

Si trovava a Zagabria per un restauro per poi ritornare in Inghilterra in una collezione privata.  Come finì il busto in Inghilterra ?
Faceva parte degli “oggetti”, ben 18.000, che furono messi all’asta assieme al famoso quadro che ritrae Dorotea Barresi ? 




Si ha notizie di un altro busto che ritrae “ Un giovane di casa Barresi” e probabilmente dello stesso autore Francesco Laurana. Il giovane potrebbe essere il figlio di Don Giovanni Antonio II Barresi, Don Matteo Barresi.
Dove si trova questo busto ?


La storia del quadro che ritrae Dorotea Barresi, opera dell’artista spagnolo Alonso Sanchez Coello, e della sua vendita all’asta, ho esposto nel paragrafo dedicato alla  Principessa di Pietraperzia e “Grande di Spagna” la triste fine dell’opera d’arte.

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Nel cortile era presente una
“fonte in marmo con una mano a bassorilievo che fu trasportata a
Palermo per volere del conte di Sommatino,
figlio del principe di Trabia, e del conte Tasca suo genero”.
Di questo preziosissimo elemento scultoreo ci sono dei riferimenti d’archivio che attribuiscono a Matteo Barresi l’iniziativa di avere intrapreso la costruzione di
“li stantii et fonti marmori”.
È probabile che questa fontana fosse collocata in una posizione centrale del cortile secondo una consuetudine diffusa nei palazzi baronali.
Gli elementi del cortile furono in parte risistemati all’interno del castello del principe di Trabia nel  1830.  Secondo le fonti  la preziosa scultura si dovrebbe quindi trovare all’interno del castello di Trabia (?).

Si cita anche un statua di San Michele Arcangelo posta in cima alla torre della cappella e di alcuni cannoni……(?)




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Resta da citare solo l’Armeria che era presente nel castello.

Il poeta pietrino (di Pietraperzia) Tortorici Cremona riportò che fino al 1790 nell’armeria erano ancora presenti
“le armi bianche antiche, conservate ed intatte trasmesse da erede
in erede, che formavano il decoro del casato illustre:
elmi, corazze, archi, mazze, lance, alabarde ed intere armature”.
Questo patrimonio storico fu trasportato al Museo Archeologico di Agrigento da Don Mauro Deliteris che allora ricopriva la carica di capitano del castello.
Le armi…..scomparvero nel 1820 quando i rivoltosi saccheggiarono e depredarono il museo di tutti i suoi oggetti di valore.
Anche Fra Dionigi citò nei suoi scritti, anche se brevemente,  l’armeria definendola
“il decoro di un vassallaggio” )1776 (Dionigi Bongiovanni)
“ Questo castello di poi,  fatto signoria di Abbo Barresi, fu abbellito di
altre nuove sculture lapidee e nei tempi più bassi fu adorno di più statue di marmo, 
rappresentanti diversi eroi di casa Barrese, e di un armario così nobile,
ch’era il decoro di un Vassallaggio, cui fu notabilmente profittevole
nel tempo delle guerre civili, ed ultimamente, inventate le presenti
artiglierie, fu anche munito con grossi cannoni, quali arme, per la
trascuragine di chi avrebbe potute conservarle, si sono disperse per
ogni dove, cosa veramente meritevole d’un aspra riprensione”

Finestra dell’Armeria


L’Armeria……………….
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Delle opere d’arte presenti nel castello non c’è traccia.
I decori del cortile, almeno una parte, sembra che si trovino nel castello dei Lanza a Trabia mentre delle travi dipinti, degli stucchi, ecc. furono selvaggiamente distrutti dai numerosi “visitatori” del castello. Le travi in legno dipinte furono adoperate come legna da fuoco anche dagli stessi pecorai che utilizzarono il castello come luogo di pascolo o di ricovero del bestiame.. nelle stanze superstiti addirittura accesero dei fuochi per la caseificazione dei formaggi…. Assurdo….

Tutti  questi decori........scomparsi ..
sottratti del Principe Lanza di Trabia... come riportano le fonti e
altri..... "amanti dell'arte".....

6.  LE CARCERI

Nel 1812 venne abolito il feudalesimo  e nel palazzo del principi rimasero i custodi. Una parte fu preso in affitto, con il parere favorevole di donna Caterina Branciforte, da parte del Comune che lo adibì a carcere fino al 1906.
Il Comune, a quanto sembra dalle ricerche in merito, non pagò mai l’affitto e non fece nemmeno le riparazioni necessarie se non qualche muro divisorio per creare nuovi ambienti destinati ai prigionieri.
Ulteriori  crolli nei terremoti del 1883 e del 1899 colpirono la struttura e, malgrado le rovine, continuò ad essere utilizzato come luogo di prigionia ed anche come lazzaretto, nelle sale ormai fatiscenti del castello, per gli ammalati di colera nel 1887 e di vaiolo nel 1910 e nel 1918.
I suoi decori furono, piano piano, portati via dagli ultimi amministratori, dai principi Lanza di Trabia, dai custodi, da funzionari poco onesti e anche da occasionali visitatori….
Perché non fu dichiarato monumento nazionale ?
Domanda alla quale è difficile dare una risposta…..
Il castello abbandonato rimase in balia di tutti,,, anche dei cacciatori che vi si recavano per esercitarsi nel tiro al bersaglio e per uccidere inerti corvi e colombi che abitavano tra le rovine; i pastori vi portavano a pascolare i propri ovini e facevano i formaggi in qualche stanza; i bambini vi andavano a giocare portando via quel poco che ormai trovavano e i grandi vi si recavano per fare legna da bruciare prelevando le travi.
Nei giorni 1 e 2 gennaio 1894, il castello fu assaltato, durante la sommossa dei fasci del Lavoratori Siciliani, per liberare i detenuti. Il tentativo fu represso così come vano fu l’assalto all’esattoria. La sommossa riuscì a colpire i casotti daziari, a bruciare il Casino o club dei galantuomini, l’ufficio telegrafico e il Municipio distruggendo l’ufficio anagrafico.

Pietraperzia
L’ingresso del Municipio vecchio, incendiato il 14 gennaio 1894, durante i moti
dei  FASCI SICILIANI DEI LAVORATORI

Nel carcere del castello i detenuti vivevano, è facile immaginarlo, in modo veramente pietoso, in condizioni disumane. Nei sotterranei mancava l’aria e le latrine intasandosi provocavano spesso delle gravi epidemie.
Le critiche, le accuse erano forti e sempre presenti nel tessuto sociale ma l’amministrazione comunale rispondeva sempre affermando che “..esso offriva le più ampie garanzie igienico-sanitarie”.

“il cibo ai condannati veniva somministrato attraverso una pietra forata posta nell’atrio prospiciente il portone d’ingresso alle celle nelle quali per l’esiguità dello spazio, non potevano stare né in piedi né coricati”.

La terza delle arcate a sud-ovest del cortile ha un’apertura da cui si accede a un lungo e largo corridoio, in fondo al quale c’è un vano poco spazioso e buio, pur essendo aperto nell’ambulacro. Probabilmente serviva per deposito di derrate ma non si esclude che in qualche periodo sia stato utilizzato come prigione. Quand’era funzionale, la luce e l’aria erano date solo da un foro largo circa 15 centimetri, entro il quale c’erano due ferri incrociati che avrebbero impedito il passaggio di un braccio, nel caso di prigione, o di un colombo, nel caso di deposito alimentare. All’interno di questo piccolo vano ci sono due “cucce” contigue, entro le quali una persona non potrebbe stare né in piedi né distesa. Poiché il locale è esposto a nord-ovest, d’inverno sarà terribilmente freddo: buon frigorifero ma tremenda prigione.
Nel corridoio c’è una finestra aperta fino a terra che si affaccia nello strapiombo, molto pericolosa per chi dovesse spingersi a guardare l’incantevole paesaggio”.


Le carceri verranno descritte nel paragrafo seguente mentre i graffiti disegnati dai prigionieri sono trattati nel paragrafo n. 9

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7.  L’ARCHITETTURA DEL  CASTELLO 


L’ingresso al castello è costituito da un arco ( 2,20 m di larghezza x 3,20 d’altezza in chiave) che era sormontato da un bellissimo bassorilievo che raffigurava un scrofa nell’atto di allattare i suoi piccoli.
Bassorilievo che è scomparso e secondo alcuni autori rappresentava il blasone dei Barresi. La scrofa che allatta rappresenta “l’abbondanza” e i piccoli, ammesso che siano stati quattro, potevano rappresentare le quattro stagioni.
Il bassorilievo avrebbe potuto indicare agli ospiti il senso di grandezza, di “abbondanza di ricchezze  e di nobiltà” della famiglia Barresi. Lungo la scala d’accesso al cortile c’era il busto di Don Giovanni Antonio II Barresi e lo stemma della famiglia accompagnava probabilmente il gruppo scultoreo.



L’ingresso presenta una copertura ad arco a tutto sesto ed era raggiungibile attraverso una grande scalinata che si sviluppava a raggera.
Le spalle dell’arco d’ingresso sono realizzate con lo stesso tipo di pietra che si ritrova negli archi del grande cortile.
Sulla spalla sinistra è presente un “opus reticulatum” che rivestiva un “concretum” costituito da pietre disposte in modo disordinato anche se tenute da un legante molto forte (“opus incertum”).

Opus incertum

Opus reticulatum

La parete che fiancheggia il lastro destro dell’ingresso, presenta una finestra bifora che s’affaccia sulla salita interna del castello e che presenta una muratura simile a quella del muro  del mastio presso la “Corona del Re”.

Facciata d’ingresso con le due bifore e il muro adiacente della
Torre della cappella di Sant’Antonio Abate.

Dopo aver attraversato l’ingresso si ha una leggera salita per giungere ad una prima rampa di scale e si nota a destra del portone, un camminamento scavato nella roccia che doveva condurre ad alcuni ambienti sotterranei che erano collegati, seconda un’antica tradizione orale molto diffusa, alle contrade circostanti.
Il vano che conduce ai sotterranei è di piccole dimensioni ed è interamente scavato nella roccia. Sul pavimento si trova un grosso foro che oggi è coperto da una grata di ferro. Fino agli anni ’30 era possibile accedere al alcuni brevi e oscuri passaggi privi di sbocco.
Molti sotterranei devono ancora essere scoperti e un probabile passaggio dovrebbe portare al “Cortile Testalonga”. La costruzione della nuova Matrice di Pietraperzia ne avrebbe però interrotto il passaggio. Ma è tutto da scoprire…

La prima rampa di scale sulla destra si nota l’inizio di un camminamento
scavato nella roccia

Prendendo la prima rampa di scale si nota sul muro di fronte una nicchia.
Nella nicchia era affrescata un’immagine della Madonna delle Grazie con il Figlio sulle braccia. Davanti a questa immagine, purtroppo andata perduta, si svolgeva un rito suggestivo e commovente.
Fra Dionigi Bongiovanni parlando di questa cappella affermò che
“in una piccola tribuna, dopo la prima entrata del Castello, si
adora la Madonna delle Grazie ove si vedono appesi più voti” (1776)

Pietraperzia – Castello
L’edicola della Madonna delle Grazie e a destra, l’inizio della
seconda rampa di scale.

Le pareti della prima rampa di scale era caratterizzate dalla presenza di formelle in cui erano dipinti delle stelle, soli ed altre figure. Purtroppo dell’antica decorazione del ‘500 non rimane nulla. Le pareti presentano degli elementi in pietra, come nell’edicola della Madonna delle Grazie, che forse erano ingressi di vani o camminamenti sotterranei.
La scala, che fu restaurata nel 1995, presenta una copertura con volta a crociera ed è quindi databile al XIII – XIV secolo..
La pendenza della scala si adatta all’andamento altimetrico della crosta rocciosa su  cui poggia e per la sua realizzazione non furono quindi necessari grandi opere di riempimento

La seconda rampa di scale permetteva di raggiungere la prima elevazione del castello e quindi conduceva al Grande Cortile e alla Cappella di Sant’Antonio Abate.

corpo di guardia

Seconda rampa di scale. A sinistra l’ingresso per il grande cortile e a destra  l’ingresso
della Chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate

All’inizio della seconda rampa, a sinistra ed accanto all’edicola, è presente un ambiente interamente scavato nella roccia.


L’ambiente presenta una grande apertura ricavata in modo grossolano, si accede in un ambiente di circa (4 x 5) m che presenta nei lati piccoli due piccole esedre (incavi ricavati nella parete).
È un ambiente umido e buio e non presenta, oltre l’apertura, altri punti d’aereazione.
Fino al 2000 era visibile sul soffitto un’aperura che comunicava con la stanza adiacente, che s’affaccia sul grande cortile.
La parete di fondo presenta un motivo ad arco ricavato con il taglio dei blocchi di pietra.
Questo ambiente era probabilmente un corpo di guardia  e  all’occorrenza poteva servire come punto di scarico.
L’ambiente è databile al XIII – XIV secolo.
La facciata di questo ambiente, prospiciente il lato sinistro della rampa di scale, presenta un’elegante disposizione delle pietre calcaree bianche che si ritrova anche nelle scalinate del grande cortile.
È una parete che riassume, come in un catalogo, tutti gli elementi costruttivi presenti nel castello.


Il riempimento del muro fu realizzato con grandi blocchi di pietra squadrata che si ritrovano sia nel portone d’ingresso che nei pilastri dei due archi presenti nel grande cortile.
Tracce d’intonaco grigio è presente nella parte superiore del muro ed aveva il compito di ricoprire la muratura più “disordinata” (opus incertum), realizzata con pietre di piccole dimensioni.
È importante notare la solidità delle mura che sostengono il primo piano ed i relativi ambienti che si affacciano sul cortile.
Proseguendo nel cammino, la rampa si fa più stretta e sul lato sinistro si trova lo stesso materiale lapideo del corpo di guardia.
Un aggetto delle pietre fu realizzato ai piedi della nicchia in cui fu collocato il busto  del principe Giovanni Antonio II Barresi, che fu sottratto dai principi nel 1830.
Questo stretto camminamento era forse protetto da un ballatoio in legno.
L’impostazione di una volta in pietra di giunzione tra la prima rampa e la seconda rampa non era possibile a causa del peso eccessivo che si sarebbe scaricato sulla volta stessa e alla conseguente riduzione dell’altezza del passaggio.
Tuttavia alcuni blocchi di pietra presenti sulla facciata dell’ambiente destinato a corpo di guardia, che sono incurvati verso la rampa, probabilmente sono la testimonianza di una soluzione differente.
I blocchi lapidei bianchi della parete incorniciano la bella finestra bifora che si affaccia sulla salita del castello. La volta della finestra è a sesto acuto ribassato e presenta due sedili in pietra che permettevano un comodo affaccio verso l’esterno.

La seconda rampa
A sinistra il busto del principe e l’ingresso del grande cortile mentre a destra
la Chiesa di S. Antonio Abate.
Che peccato……. Foto del 1880

Anche la seconda rampa fu oggetto di restauri recenti.
La rampa finiva davanti ad una bella parete con bugnato rustico.
Il confronto tra le foto, quella del 1880 e quella attuale, mostrano come del bellissimo bugnato rustico lievemente aggettante e delle decorazioni, vicino all’ingresso del cortile e sulla facciata della chiesa, siano rimasti solo delle tracce.


In origine il muro, realizzato con blocchi in aggetto di calcare bianco intrecciati in modo elegante, era più alto e terminava con una merlatura andata distrutta.
La foto del 1880 presenta una merlatura anche sulla chiesa, si parla infatti di torre della cappella.


CAPPELLA DI SANT’ANTONIO ABATE

La cappella era posta all’interno della torre quadrangolare e quindi posta nel recinto del castello.
Era la cappella privata dei principi Barresi che “da uno stallo posto di fronte all’altare, assistevano alla messa”.
Una cappella ad unica navata, a pianta quadra (6 x 6 )m e che riceveva luce da un’unica finestra.
L’altare era posto a destra dell’ingresso e dava quindi la possibilità ai principi di assistere alle funzioni rimanendo appartati nei loro stalli che erano posti accanto alla porta.


Secondo le fonti sull’altare era affrescata un’immagine della Madonna della Catena, di cui i signori erano molto devoti, racchiusa da ornati alla moresca”.
Sopra la cappella c’era la “glorietta” cioè uno spazio che era destinato a sagrestia ed alloggio del cappellano.
L’abate Vito Amico I1677 – 1762) riportò nel suo “Dizionario Topografico della Sicilia” una descrizione della cappella di Sant’Antonio Abate che visitò nel 1757 e che definì “non molto dissimile dallo schema consueto delle cappelle medievali”.
Lo storico Rosario Nicoletti sosteneva che la cappella fu costruita dall’imperatore Federico II di Svevia e che i bassorilievi che adornavano il portale della cappella, oggi scomparsi, erano anch’essi di età federiciana.
All’interno della cappella era presente un ciclo pittorico ad affresco con versi in dialetto siciliano. Si voleva esprimere in questa cappella l’ideale cristiano fissato nelle formazioni canoniche ed in ossequio a quella ordinata gerarchia di valori teocratici che erano stati riprodotti nella vita culturale della grande corte normanna di Palermo.
La lingua volgare era fortemente diffusa a Pietraperzia e si poteva leggere nelle pitture della cappella presenti anche nei piedritti del soffitto.
Erano frasi contraddistinte da una terminologia mista di vernacolo siculo, latino
Tra quelle citate dallo storico Nicoletti:
la maledicioni di Adamo.
Deo fici li pixi et li herbi vireti.
Uno dei tanti cicli pittorici, posto sempre nei piedritti del soffitto, rappresentava gli avvenimenti della Genesi  così come i nomi di alcune nobili famiglie siciliane.
Presso l’altare, sulla sinistra, si apriva una botola che, dopo aver sceso sei gradini, immetteva in una stanza sottostante dove “in marmorei avelli furono seppelliti alcuni tra i primi signori che hanno abitato a Pietraperzia”. ( Una cripta che si trovava adiacente all’ingresso del castello, cioè al piano terra).
Riassumendo la torre orientale presentava i seguenti ambienti:
-          Al piano terra, posto al livello della prima rampa, subito dopo l’ingresso, e sottostante alla cappella, si trovavano le sepolture dei signori di Pietraperzia, presso le quali, uno spazio più antico adiacente, reca ancora tracce di affreschi e di sepolture scavate nella roccia;
-          Al secondo piano, dove finisce la seconda rampa di scale, la cappella vera e propria  e un locale contiguo, coperto da una volta a cupola, denominato comunamente “sacrestia”;
-          Al terzo ed ultimo piano vi era la “glorietta” o alloggio del cappellano a cui si accedeva tramite la seconda rampa di scale presenti nel grande cortile del castello.

Planimetria della parte Nord del castello
 Ad Est si nota la planimetria irregolare della chiesa/torre

L’area che circoscrive la cappella non presenta una planimetria regolare. Le mura della torre non hanno una disposizione quadrangolare ma poligonale irregolare.  Una pianta che rispondeva alla particolare disposizione del corpo roccioso sul quale sorge.
Il lato esterno della torre presenta una messa in opera delle pietre in modo ordinato. C’è qualche differenza tra i vari livelli, infatti in corrispondenza del primo piano si nota subito una migliore ed accurata disposizione delle file con l’ausilio di piccoli elementi (pietre) adoperati come materiale di riempimento.
Il materiale impiegato è eterogeno  per la contemporanea presenza di materiale calcareo ed arenario. Il legante adoperato è costituito da una miscela di calce bianca e gesso.
Il piano superiore presenta un numero di pietre più elevato, si adoperano molte pietre piccole, e disposte in modo disordinato. Maggiore cura venne invece prestata nella realizzazione delle cornici delle finestre e negli angoli della torre.

La cartolina del 1903 ritrae il lato est del castello.
La torre è in primo piano. Si notano anche la bifora e la finestra del Grande salone

Le finestre della torre erano tre e tutte con cornici di pietra bianca ben squadrata così come negli angoli della torre.
La torre dovrebbe essere contemporanea al mastio, un edificio militare, in considerazione delle somiglianze costruttive ed anche per la presenza dei versetti in lingua siciliana all’interno della cappella.
Un aspetto questo che porterebbe di datare la costruzione intorno al 1250 , anno della morte di Federico II di Svevia.
Ritornando alla cappella ci sono degli aspetti da visualizzare che considero molti importanti. Servono a far capire come nel giro di pochissimo tempo si sia perduto un patrimonio culturale che era riuscito a resistere al tempo ed all’azione dell’uomo per molti e molti secoli.
Alcuni cornici presentano uno stile moresco databile tra la fine del’ 400 e gli inizi del ‘500.  Oggi elementi quasi del tutto distrutti.

Le figure visibili sulla cornice furono ricavate grazie all’uso di “matrici” poste direttamente sulla parete intonacata ancora fresca.
Tre immagini che testimoniano solo una parte di un antico splendore perduto.

Decorazione in gesso all’interno della cappella
Foto del 1910

Resti di decorazioni nel 1989

Elementi vegetali e tralci (1989)

Sulle pareti della chiesa c’erano degli affreschi che rappresentavano:
-          La fuga in Egitto della Madonna con il Bambino e San Giuseppe;
-          Adamo ed Eva nel paradiso terrestre;
-          La Maledizione di Adamo, seguita dalla cacciata di questi ed Eva dal paradiso terrestre;
-          La Creazione del Mondo.
Il soffitto a cassettoni con travi dipinte in oro e nelle quali era disegnate scene della Genesi.
Nel 1938 la torre della cappella fu abbattuta per metà della sua altezza a titolo precauzionale…. I motivi ?....Assurdi….. La collocazione di un serbatoio comunale …
Non c’erano altri siti dove costruirlo ?  Quant’è difficile avere il senso della coscienza storica…. e del rispetto del lavoro dell’uomo.
Il serbatoio fu addirittura posto davanti all’ingresso del castello dove in precedenza c’erano dei magazzini recintati da una muratura merlata.
Fu costruito in epoca fascista e ci furono molte delibere comunali in merito.
Gli operai usarono addirittura la dinamite per fare saltare le bellissimi tombe del periodo siculo ….. tombe da cui traeva origine il nome del paese…. e ricavate nella roccia che era accessibile da due aperture comunicanti.
Nello stesso anno (1938) si eseguirono i lavori di sbancamento per la sistemazione del serbatoio e il luogo volle quasi vendicarsi dei misfatti subiti perché avvenne una disgrazia… morì un operaio a causa del “brillamento di una mina”.


 La torre al cui interno si trovava la cappella palatina di S. Antonio Abate, oggi in parte inglobata nel serbatoio comunale dell'acqua.

Adiacente alla cappella c’è uno spazio che fu definito “abitazione rupestre” da una ricerca dello storico Giomblanco Fazio nel 1997.
Si tratta di un’area che si trova ad un piano di quota più basso rispetto alla chiesa ed è completamente scavata nella roccia. “Osservando quest’area dal centro della  cappella si riesce a percepire la forma semicircolare troncata nell’estremità della sua copertura”.

Planimetria ed altimetria della torre della cappella di
Sant’Antonio Abate

Ciò è spiegabile dal momento che quando i Barresi modificarono le strutture del castello, la chiesa ostruiva quest’area sottostante.
Si notano sul lato ovest della parete interna della cappella delle tracce ben evidenti di antichi affreschi disegnati una parete naturale che fu successivamente ricoperta in stucco.
Gli affreschi, che sono ancora presenti anche se molto rovinati,  non erano più considerati di pregio per il mutato gusto contemporaneo.
Gli ambienti dell’”abitazione rupestre” sono due:
-          Ambiente semicircolare che è caratterizzato da affreschi;
-          Vano retrostante, posto ad un livello inferiore, che presenta al centro i resti di due sepolture scavate nella roccia.
Nel primo ambiente si notano degli affreschi molto rovinati che ritraggono una serie di personaggi di cui, purtroppo, non è visibile il volto.


Tracce degli affreschi all’interno della cappella

Si nota ancora l’eleganza dei panneggi e il colore di fondo della scena  che è in prevalenza il giallo. Le figure hanno un portamento rigido e simmetrico, secondo quelli che potrebbero essere le regole della pittura bizantina.
La figura più importante domina la scena e presenta una ricca veste in tinta viola e rossa. L’altra figura che gli sta a fianco indossa una lunga e larga tunica dal colore roseo e rosso.
Ma non è finita…..
Si vedono altre immagini che furono dipinte su uno strato di calce che doveva essere la prima decorazione del castello dell’VIII secolo.
Bisogna d’altra parte affermare che lo “stile bizantino” non fu solo una prerogativa tipica dell’età bizantina ma il genere iconografico si ritrova anche nel periodo post bizantino almeno fino al XIII secolo.
È probabile che questi antichi ambienti siano entrati nella costruzione della cappella di Sant’Antonio Abate e che quindi, prima di questa, doveva esserci un luogo di culto di cui non si conosce la titolazione.
Il secondo ambiente, collegato al primo, presenta un vano di piccole dimensioni, completamente scavato nella roccia, e al cui interno di trovano due sepolture.
La sepoltura maggiore ha la particolarità di presentare una doppia scanalatura laterale per collocare con maggiore precisione il feretro.

La sepoltura realizzata nel corpo roccioso ad ovest della cappella
e a fianco della sagrestia. Posta a circa 1,50 m dal piano soprastante.

 La presenza delle due tombe pone l’ipotesi di una funzione funeraria dell’ambiente.
I due vani sono contemporanei e ciò è anche dimostrato dal collegamento diretto.
Resta da chiarire a chi erano destinate queste antiche sepolture. L’autore della bellissima ricerca avanzò l’ipotesi che siano state utilizzate nel basso medioevo dagli ultimi membri del casato Barresi. Una botola nel pavimento del locale detto “sagrestia” permetteva l’accesso direttamente in questo ambiente.

Il locale detto “sacrestia” è invece un ambiente direttamente comunicante con il livello della cappella dal lato occidentale.
Un vano ben conservato malgrado gli atti di vandalismo visibili nelle numerose tracce di incisioni presenti sulle pareti.
Ben conservata è la copertura a cupola con rivestimento in stucco chiaro, nella cui parte centrale è presente una sagoma rettangolare che è posta in corrispondenza del primo ripiano della scalinata interna del cortile.

di fronte si nota l’ingresso della sagrestia e superiormente una porta da dove
i principi entravano in un probabile stallo per assistere alla funzione religiosa

ingresso cortile e cappella

“sagrestia” – La volta a cupola, particolare


La muratura è caratterizzata da grossi elementi lapidei completamente affogati nella malta, come si nota da un lato prospicente la porta esterna. Questo ambiente è l’unico che si collega direttamente con cappella e doveva quindi assumere delle funzioni complementari e collegati alla chiesa.
Non sono presenti in questo locale affreschi o decorazioni. Si trovano solo delle piccole nicchie scavate nelle pareti e adoperate come piccoli ripostigli o altro.
La datazione del vano dovrebbe essere della fine del XV secolo e gli inizi del XVI.
Lo spazio occupato dalla “sagrestia” è probabile che fosse già presente durante i primi anni di vita del castello, sebbene il suo aspetto originario non è ricostruibile.
Il piano inferiore della cappella, definita “cripta”, è accessibile tramite un piccolissima apertura posta sotto il piano di calpestio della cappella vicino alla parete degli affreschi, ed occupa le stesse dimensioni della chiesa soprastante.
Doveva esserci un accesso più comodo in questo ambiente e doveva trovarsi vicino all’altare, forse tramite una botola.
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IL CORTILE

Al termine della seconda rampa di scale, a sinistra vi era il portone che permetteva l’accesso al grande cortile.
Un cortile che misurava (14,70 x 13,30) m e che un tempo presentava una bellezza architettonica che non è facile descrivere… un vero gioiello d’arte.

Ingresso cortile dalla rampa
(foto di alcuni anni fa, prima dei restauri)


Arco ingresso cortile visto dalla parte interna

“In esso vi era una grande profusione di marmi….
Lungo le scale, nei portali “flamboyants”, nelle finestre,
nei bassorilievi, nei capitelli, vi era un intreccio continuo di
sculture e di motivi architettonici di vario stile…
Quest’architettura rappresentava il simbolo della presenza
aristocratica e dell’orgoglio dei baroni feudali che
raccoglievano tesori nei loro palazzi sontuosi”.
“Nel cortile vi erano delle arcate con pilastri quadrati ed in ogni angolo colonnine e fasce annodate, con ornamenti variegati di animaletti e di figure. Si apriva su quelle arcate una finestra con ragguardevoli profili, decorata nel fregio da emblemi baronali e segni dello zodiaco. Di fronte ai due grandi archi sul lato meridionale del cortile vi erano tre arcate, di cui una oggi non più esistente, su cui si ergeva, tramite un passaggio ricavato dal loro spessore, una parete decorata con un bugnato a punta di diamante, simile ad un campo erto di punte. Nella “Storia dell’Arte Italiana” di Adolfo Venturi è riportata una sommaria descrizione di questo cortile, oltre ad una foto che in passato è stata molto pubblicizzata”.



Immagine del cortile lato Nord.
In primo piano la parete a bugnato e a fianco la parete con la finestra in
stile gotico catalano.

“Tra le bugne s’apriva la porta “flamboyant” del Grande Salone e nella strombatura del portale di era una fila di colonnine capricciosamente scolpite mentre, negli spazi delle lunette gotiche tra le colonnine, s’attorcigliavano rami e foglie uncinate. La parete di fronte all’ingresso del cortile era in blocchi di calcare bianco, secondo Nicoletti di tipo travertino, squadrati con cura e capaci di mettere in risalto la grandissima finestra decorata con fregi di emblemi baronali e di segni dello zodiaco”.

Immagine d’epoca.
Le due pareti del bugnato a Nord e della finestra con
Segni dello Zodiaco ad Ovest

Queste opere d’arte sono solo un ricordo perché sono scomparse per l’incuria, per i terremoti ma soprattutto per le spoliazioni di cui fu vittima il castello tra l’indifferenza generale. È strano ma si dice che anche  il principe Lanza di Trabia abbia asportato dal cortile un gran numero di opere d’arte per portarle nel suo castello.
Continui furti nel corso degli ultimi cento anni….
In merito all’architettura del cortile si nota la presenza di materiale lapideo di diversa tipologia che fu impiego nel rivestimento.
La pietra di natura calcarea e di colore bianco riveste completamente il paramento esterno della scalinata interna del cortile sul lato orientale. La rampa è impostata sul lato nord est del cortile e dopo una prima elevazione si divide in due parti.
Le due braccia sul lato est conducono al passaggio di roda che raggiunge le camere del gruppo I (al primo piano) e l’alloggio del cappellano.
L’ulteriore braccio orientato ad Ovest raggiungeva il Grande Salone e quindi le sale poste vicino alla finestra “catalana”.






Il fronte del bugnato era caratterizzato al piano terra dalla presenza di tre archi:
due aventi un profilo a sesto ribassato e uno rampante. Di questi archi ne sono rimasti solo due. Poggiavano su pilastri che presentavano nella parte superiore un fregio
con motivi vegetali di cui non rimane traccia. I tre archi sorreggevano una scala esterna, scoperta, in pietra vista e in parte ancora presente.
L’imponente scala era uno degli elementi più qualificanti del cortile insieme ai portali e
alle finestre. Era presente in queste opere una grande accuratezza nella loro
realizzazione e una grande attenzione nell’esprimere il dettaglio, il particolare.
La scala collegava il piano terra della corte con le stanze ubicate al primo piano,
piano nobile, unendo e distinguendo nello stesso tempo lo spazio pubblico dall’ala
domestica. La struttura era formata da una serie di quattro rampe piane,
della larghezza di circa 1,80 m., orientate diversamente e separate tra di  loro
da pianerottoli intermedi. Dal cortile una prima rampa giungeva al pianerottolo,
da cui la scala si divideva in due bracci.
Un braccio era raccordato in curva con il precedente e giungeva, con un’ulteriore rampa, al lungo ballatoio che era delimitato da un parapetto in pietra. Da questo ballatoio si accedeva direttamente al salone il cui ingresso si apriva sulla parete
del cortile. Un altro portale, più piccolo e posto nell’angolo nord-ovest, immetteva
nell’ala privata del castello. L’altro braccio dal pianerottolo di sosta consentiva,
attraverso un portale, l’accesso diretto all’abitazione del cappellano posta sopra la cappella. La scala proseguiva con un’ulteriore rampa ad un secondo pianerottolo.
Da qui si accedeva ad un altro ballatoio che conduceva all’ala Sud – Ovest del
Castello dove si trovano le stanze degli ambienti gruppo “A” del primo piano.
Con un’ulteriore rampa di scale si raggiungeva il corpo di ronda.
La scala fu descritta dalle fonti come riccamente decorata e presentava
il motivo detto a “dente di sega” cioè la cornice aggettante del gradino,
secondo uno stile spagnolo del ‘400.
(Don Matteo Barresi era stato in Spagna a Barcellona nel 1518).

Scala interna del cortile lato Est (1906)
Si nota  il portale che consentiva l’accesso alla camera del cappellano
(posta sopra la cappella)

il cortile durante i trafugamenti....

Confrontando le immagini   non si riesce a capire come si sia perso lo splendore
di quest’ala del cortile… una devastazione totale…..


L’ingresso al primo piano del Grande Salone e dove finisce la parete a bugnato,
sulla sinistra, un portale posto anch’esso sul ballatoio, delimitato dal
muretto in pietra, permetteva l’ingresso all’ala privata del castello.

Sul primo ripiano della scala del cortile, un ingresso conduceva ad un piano elevato rispetto alla cappella e poteva quindi rappresentare uno “stallo” di cui si servivano i signori Barresi per assistere alle funzioni religiose.
Un ingresso, circondato dal paramento bianco della scala, ha un’altezza di circa 1,60 m e reca sulla sommità un elemento triangolare, aggettante e di tufo calcareo, che potrebbe fare pensare ad un modello tipico dell’arte normanna o di gusto catalano. Si notano i motivi a perlina dell’estradosso dell’arco che sono identici a quelli del portone d’ingresso del cortile.
È un espressione artistica spagnola molto ricercata dalle famiglie aristocratiche siciliane e tipica quindi delle residenze nobiliari del ‘400.

Cortile - Affaccio Cappalle


In corrispondenza del muro del primo ripiano della scala si nota come lo stesso muro sia costituito da pietre di diverse dimensioni affogate nella malta.



residuo della scala e del ballatoio del piano nobile


La scala prosegue verso il passaggio di ronda posto sopra l’ingresso del cortile.
Si raggiungeva la soglia dell’abitazione del cappellano che si nota nell’immagine su riportata.
Le due arcate dell’armeria presentano alcuni resti scultorei: la rappresentazione seriale di fogliette su due bande e in un altro arco, assieme ai motivi floreali, c’è anche l’immagine di una piccola scrofa che allatta i piccoli.


Un’immagine che riporterebbe al simbolo araldico dei Barresi composto da tre file di quattro  scrofe rosse ciascuna.
La prima delle tre arcate che reggevano il passaggio d’ingresso al Grande Salone ha un’apertura a semi arco, mentre l’arcata adiacente, così come il terzo (non più esistente), è a sesto ribassato.
Sulla soglia d’ingresso del secondo arco del cortile, all’epoca comunicante con l’armeria, un’apertura realizzata sul pavimento conduceva tramite una scala ad un grande locale sotterraneo che era probabilmente adibito a magazzino o a cantina.
Questo sotterraneo ha una copertura a volta e le sue pareti poggiano direttamente sulla roccia. La lunghezza di questo locale dovrebbe essere uguale a quella dell’armeria soprastante e terminava  in prossimità del “puntale”.






Sulle pareti di questa galleria furono scoperti dei graffiti che sono ancora oggetto di studio.
Questo locale ha un punto luce costituta da un’apertura sul lato destro del piano dell’armeria.
Forse la realizzazione del sotterraneo è più antica rispetto alle fabbriche rinascimentali. Questo sia per le dimensioni che per la natura sotterranea. Probabilmente in questo locale si dovevano conservare derrate alimentari già nelle prime fasi di vita del castello per essere poi adibito a carcere
Esiste un altro vano sotterraneo che fu individuato alcuni anni fa e il cui ingresso è posto alla base dell’arco terminale la facciata a bugnato, oggi non più esistente.
Un ambiente che fu definito “cisterna” e che sembra occupare un quarto dello spazio del cortile sovrastante. Resti di canaline bianche circondano l’imbocco dell’apertura.
Un locale chiuso e perennemente umido e buio che anche in epoche recenti fu adibito a carcere.
La pavimentazione del cortile   è un argomento molto difficile per riconoscere il suo aspetto originario dato che il livello della roccia sottostante non è perfettamente regolare e presenta una pendenza sia dal lato Sud verso Nord e verso il portone d’ingresso.
Queste pendenze furono utilizzate realizzate per permettere un efficiente scolo delle acque dal piano del cortile.
Acque che dovevano scendere verso le due rampe d’ingresso come testimoniano alcune tracce di canaline ricavate nella roccia poste in corrispondenza del portone del cortile.
L’acqua veniva poi defluiva attraverso delle canaline piatte a cui si aggiungevano canali di scolo inferiori.
Il livello d’impostazione della pavimentazione del cortile doveva essere collegato ad uno spesso riempimento che doveva ricoprire la roccia sottostante e colmare quei vuoti presso l’angolo Nord-Ovest.
Non si ha traccia della pavimentazione originaria e quindi non si sa se fosse pavimentata, cementata o rivestita in blocchi calcarei bianchi come quelli visibili nelle rampe delle scale.
Il portone d’ingresso al cortile s’apriva verso il lato interno attraverso un arco a sesto ribassato mentre dal lato esterno, verso la cappella, presenta un’apertura a sesto acuto.

Arco d’ingresso al cortile visto dalla rampa esterna

Questo portale doveva essere adornato da un pannello scultoreo che forse raffigurava San Giorgio nell’atto di uccidere il drago come ricorda fra Dionigi Bongiovanni nel 1776.

“Sopra una delle porte, per le quali si entra nelle camere di detto castello,
vedesi scolpito il glorioso S. Giorgio sul destriere, e la zitella in ginocchio che
viene difesa dal serpente ed è così artificiosamente lavorata la statuella
con tutta l’istoria, che non può farsi al meno di doversi confessare
opera normanna”.

 Nei piedidritti dell’arco sono ancora presenti i fori per l’inserzione del portone in legno.
La parte superiore della volta crollò e fu realizzata una passerella in legno dove un tempo si trovava il passaggio di ronda.

L’arco d’ingresso visto dal cortile

Non si sa quale fosse la funzionalità dell’arco posto a fianco, a destra guardando dal cortile, dell’ingresso. Presenta un arco a tutto sesto  e il relativo ambiente non presenta alcuno sbocco essendo murato.
Attorno al cortile si trovavano le camere che erano poste in successione dall’angolo sud occidentale fino all’estrema ala nord del castello.
Una continuità di camere che si manifesta attraverso le immagini delle foto del muraglione.
Nel muraglione si notano le finestre, parete di fondo delle camere sul cortile, di quelle poste al livello dell’armeria, di quelle adiacenti al Grande Salone e delle stanze private poste nell’ala cinquecentesca del castello.







Queste stanze erano disposte su tre livelli o piani. Delle stanze poste ai piani superiori non rimane altro che qualche finestrone e gli incavi per le rispettive solette.
Le camere poste nel cortile si disponevano in uno spazio delimitato tra il muraglione esterno e la parete che presentava la finestra catalana, con i segni zodiacali, che s’affacciava sul cortile.
Il muro è crollato forse negli anni ’20 così come l’arco gotico “flombayant”, il bugnato che furono rimossi e trasferiti dai principi Lanza nel corso degli anni ’30 nella loro villa di Trabia.
Gli ambienti del gruppo “B” e “C” presentano una planimetria non molto regolare a causa della roccia sottostante. In queste stanze furono trovate delle aperture che conducevano ad ambienti sotterranei che furono utilizzati come prigioni e dove furono rinvenuti nel 1992 dei graffiti. Tutte le finestre poste sul muraglione al livello del cortile, presentano due sedili laterali dalle quale era possibile visualizzare il paesaggio.
Le estremità superiori delle stesse finestre erano leggermente inclinate verso l’interno permettendo una maggiore propagazione della luce all’interno della stanza.
Il cortile, come la maggior parte delle dimore del 400/500 era destinato ad accogliere ambienti di servizio come magazzini, stalle, dispense, cucine, alloggi per la servitù.

Nel cortile era presente una
“fonte in marmo con una mano a bassorilievo che fu trasportata a
Palermo per volere del conte di Sommatino,
figlio del principe di Trabia, e del conte Tasca suo genero”.
Di questo preziosissimo elemento scultoreo ci sono dei riferimenti d’archivio che attribuiscono a Matteo Barresi l’iniziativa di avere intrapreso la costruzione di
“li stantii et fonti marmori”.
È probabile che questa fontana fosse collocata in una posizione centrale del cortile secondo una consuetudine diffusa nei palazzi baronali.
Gli elementi del cortile furono in parte risistemati all’interno del castello del principe di Trabia nel  1830.  Secondo le fonti  la preziosa scultura si dovrebbe quindi trovare all’interno del castello di Trabia (?).


L’ARMERIA


L'Ameria, cerchiata in rosso

L’ingresso all’armeria  avveniva dal cortile attraverso gli archi che sostenevano la parete a bugnato. L’armeria era detta “cammaria di l’armi”
Questa parte del castello fu in gran parte modifico o costruito ex novo agli inizi del 1500 da Matteo Barresi.
La sala d’armi presenta una pianta rettangolare (estesa in lunghezza circa 16,50 m) e  sul lato occidentale, vi erano le stanze (camere gruppo “C”) con le finestre che ancora oggi sono visibili nel muraglione ovest.

Muro est dell’armeria
Si notano gli archi  dei tre ingressi che mettevano in comunicazione
l’armeria con il cortile.

L’inventario “post mortem” di Pietro barresi del 29 ottobre 1571 registra i beni posseduti dal principe alla sua morte e da delle indicazioni anche sugli ambienti di servizio del castello (la dispensa nuova, la dispensa vecchia, la cucina…) tra cui l’armeria. L’invetario, che non sono riuscito a visualizzare, cita anche gli oggetti che erano conservati nell’armeria.
Il poeta pietrino (di Pietraperzia) Tortorici Cremona riportò che fino al 1790 nell’armeria erano ancora presenti
“le armi bianche antiche, conservate ed intatte trasmesse da erede
in erede, che formavano il decoro del casato illustre:
elmi, corazze, archi, mazze, lance, alabarde ed intere armature”.
Questo patrimonio storico fu trasportato al Museo Archeologico di Agrigento da Don Mauro Deliteris che allora ricopriva la carica di capitano del castello.
Le armi…..scomparvero nel 1820 quando i rivoltosi saccheggiarono e depredarono il museo di tutti i suoi oggetti di valore.
Anche Fra Dionigi citò nei suoi scritti, anche se brevemente,  l’armeria definendola
“il decoro di un vassallaggio” )1776 (Dionigi Bongiovanni)
“ Questo castello di poi,  fatto signoria di Abbo Barresi, fu abbellito di
altre nuove sculture lapidee e nei tempi più bassi fu adorno di più statue di marmo, rappresentanti diversi eroi di casa Barrese, e di un armario così nobile,
ch’era il decoro di un Vassallaggio, cui fu notabilmente profittevole
nel tempo delle guerre civili, ed ultimamente, inventate le presenti
artiglierie, fu anche munito con grossi cannoni, quali arme, per la
trascuragine di chi avrebbe potute conservarle, si sono disperse per
ogni dove, cosa veramente meritevole d’un aspra riprensione”

Dell’armeria si conserva il suo piano di calpestio, una parte della parete orientale che si affaccia sul grande acquedotto, sorretta dalla roccia emergente.
Questa parete orientale sosteneva anche il piano superiore del Grande Salone, come si può dedurre dalla presenza degli incavi quadrangolari utilizzati per l’inserimento delle travi della soletta. Questa parete s’innesta, perpendicolarmente, alla controfacciata della parete a bugnato e reca ancora tracce di intonaco bianco.
La parete di fondo dell’armeria era costituita dalla prima elevazione (primo piano), dell’edificio che è denominato il “puntale”.
Questa parete presenta  un motivo ad arco che fu realizzato con il taglio dei blocchi di pietra bianca e che incorona una porta d’ingresso che comunica con l’interno del “puntale”.



Sull’angolo sinistro dell’armeria, adiacente al puntale, c’è un ripiano che presenta la sagoma di uno scalino. Si tratta della base di una scala a chiocciola di ben 50 gradini.
Una scala ricordata dagli anziani del centro e che crollò in occasione del terremoto del 1883. Questa scala permetteva di raggiungere il piano superiore dell’armeria e le sale della servitù poste all’ultimo piano sopra un’ala dell’edificio che era chiamata “cucula” da dove si potevano osservare sia le coperture restanti del castello sia tutta la valle del fiume Salso.
Nella relazione del secondo semestre del 1883 sullo stato dei monumenti esistenti nel territorio di Pietraperzia, si affermava che in occasione del terremoto accaduto poco prima
“il coverticcio del vasto salone dell’armeria era in parte crollato
E che la stanza del puntale, al primo piano era adibita a carcere”.

Le tre stanze che si affacciavano sul lato sinistro dell’armeria, di cui solo due conservano la finestra sul muraglione, non recano più le tracce dei muri perimetrali, eccetto una piccola parete divisoria, posta vicino all’ingresso dell’armeria, realizzata sulla roccia emergente.
Al piano sottostante di queste camere si susseguono file di stanze sotterranee, successive a quelle poste sotto il gruppo di camere “B”.
Il loro collegamento è interrotto da una parete ricca di graffiti.
Una parte di questi sotterranei è visibile dall’ingresso del puntale.  Una zona che non è esplorabile data le condizioni statiche precarie e che potrebbe rilevare tante sorprese….
Le finestre del muraglione che si affacciano sullo spazio dell’armeria presentano ancora la copertura a botte alla luce come continuazione dell’antica copertura delle stenze.
Le finestre dei piani superiori presentano invece i fori per le solette ed è possibile notare la particolare muratura che caratterizza le arcate delle finestre del secondo piano. Arcate che sono realizzate mediante l’accostamento a semicerchio di pietre fluviale, piuttosto piccole, che incorniciano l’apertura.

Finestra dell’Armeria



Armeria
Arco con l’ingresso al Puntale (primo piano)
Sulla destra si nota una botola per l’ingresso nei sotterranei (carceri)


IL GRANDE SALONE

PIANTA  AL 1° PIANO


Il Grande Salone, al primo piano sul cortile (sopra l’armeria), era compreso tra lo stesso cortile e gli ambienti prossimi al puntale.
Crollò a causa delle infiltrazioni d’acqua e del terremoto del 1883. La sua struttura è rimasta nella memoria solo grazie alle fotografie ed alle descrizioni degli storici.
Lo storico Tortorici Cremona nel suo testo del 1928 citò il salone.
“La sala di ricevimento del principe, ove i nostri padri si recavano
ad assistere alle rappresentazioni, era uno stanzone dal soffitto ligneo
scolpito in stile cinquecentesco con indoratura a zecchino.
Di quello che fu ora rimangono le mura diroccate di vari androni
e dell’armeria, varie stanze senza tetto, alcune celle anguste di prigionieri,
e le cantine sotterranee”.

Secondo antiche testimonianze locali,
le robuste travature del soffitto erano dipinte con bizzarre scene di caccia e
 vita agreste. Vi erano raffigurati cacciatori a piedi e a cavallo che
ferivano con lunghe lance animali dalle forme grottesche.
Nella sala primeggiavano gli stemmi della Sicilia, dei re,
e delle famiglie nobili alle quali erano imparentati  le
famiglie  Barresi – Branciforte, e che da questo salone si poteva
accedere alla cappella di sant’Antonio Abate”.

Nel 1820 cessò la castellania dei principi Lanza di Trabia ed il castello fu ceduto in affitto al Comune e il grande salone fu adibito a teatro e successivamente a carcere.
Con l’acquisto da parte del Comune del convento di San Francesco, nel 1872, il salone cessò di essere adibito a teatro.
Allo stesso livello del salone si trovava l’appartamento del principe, insieme a quattro stanze, di cui tre dette “delle donne” ed una “del custode”.
Al grande salone s’accedeva tramite il portale che si ergeva sul lato sinistro del bugnato a punta di diamante, in spagnolo “pizos” che rientrava nello stile architettonico spagnolo di fine  quattrocento.


La parete orientale del salone era arricchita da tre finestre di stile “normanno”, caratterizzate dall’abbondanza delle decorazioni e dei trafori che davano luminosità agli ambienti.
La viaggiatrice francese  Giannette Power nel 1842 visitò il castello  e in merito al salone citò
“che si potevano ammirare ai suoi tempi tre grandi finestre di
gusto normanno, insieme a qualche mensolone rimasto sulla cornice”.
Quella finestre furono distrutte dal terremoto del 1883 come si può rilevare da un documento del cav. Rocco Drogo, allora presidente del Comitato Archeologico di Pietraperzia, che dopo aver deplorato e descritto, con evidenti toni drammatici, lo stato del castello in base all’evento sismico, riportò

“.. non parliamo poi dei delicati bassorilievi che esistevano dappertutto
e fin nelle volte in legno di varie date, ora quasi tutti rovinati.
Di questi ne esiste appena l’ombra, ma quello che maggiormente destra
attenzione per i pericoli che potranno avvenire è il palese crollo della volta
in legno di stile “normanno” sul Gran Salone soprastante il carcere detto del Civile.
È inoltre crollato il cantone del muro laterale del salone che guarda a sud-est,
cioè nella facciata delle finestre”(Pietraperzia, 10 gennaio 1884
a firma del Comitato Archeologico di Pietraperzia).

Esistono delle cartoline d’epoca che mostrano queste finestre. Cartoline che sono di proprietà di P. Nicoletti, con cartolina affrancata nel 1903 dove si nota un grosso finestrone a sesto acuto incorniciato e sormontato da una muratura realizzata in pietra bianca.

Sulla destra si nota la grande finestra del Salone

L’altra cartolina affrancata nel 1920, nello spazio che era occupato dal grande salone, a seguito del crollo si notano nella parete del puntale e nell’altra mal conservata, verso la torre della cappella, chiare tracce di due finestre laterali.

Tracce delle finestre poste al secondo piano,
affacciate verso la parte orientale del castello.
Sullo sfondo il camminamento di ronda e la porta
esterna della “sagrestia”


Eppure fino ad un paio d’anni fa si vedono ancora le tracce di due finestre sul lato orientale del castello. Una finestra presentava una spalla di pietra scura ed una porzione di cornice orizzontale. Secondo un'architettura dell’inizio del 1500.
L’altra finestra era prossima al puntale. Doveva essere di dimensioni minori rispetto alle altre due e doveva essere una piccola bifora perché c’era l’accenno di una piccola colonnina divisoria. Le tre finestre, oltre ad avere dimensioni diverse, erano collocate o posizionate a livelli leggermente diversi. Si sono potute conservare, almeno in parte, perché furono murate prima del terremoto ed inglobate al muro perimetrale del salone.
Del salone purtroppo non ci sono immagini o raffigurazioni di fine ‘800 ed è un vero peccato.






La stessa foto di sopra con le due finestre del Grande Salone  e
sulla sinistra la porta che conduceva direttamente dal castello nella sagrestia



Era l’ambiente più rappresentativo del castello con il suo bellissimo soffitto in “zecchino”.
Probabilmente si trattava di un soffitto a cassettoni con un fondo o dettagli in oro, secondo l’architettura del tempo. Costituiva il centro dell’ala residenziale del castello, il prestigio del nobile casato.
Secondo le antiche testimonianze c’erano dei decori e alcune mattonelle di maiolica dovevano appartenere a questo salone ed oggi forse parzialmente conservate.
Un pavimento di colore blu cobalto su fondo bianco, in parte di provenienza iberica e in parte siciliana.
Un’altra piccola testimonianza dello splendore del castello tra il 400 ed il 500 legato al gusto dei Barresi.
Si conservano tre pannelli, datati XV secolo, realizzati nelle fabbriche di Manises (provincia di Valencia).

Ceramica di Manises





Manises (Valencia)



La cucina del palazzo del Marchese de Dos Aguas de Valencia

I tre pannelli del castello di Pietraperzia, di maiolica di Manises, presentano il motivo centrale della rosa gotica ed esagoni con l’elemento della palmetta.
Si conservano anche 72 tozzetti centrali (piccola piastrella quadrata di ceramica che si intercala tra le mattonelle dei pavimenti) di fabbrica siciliana, forse realizzati presso le fornaci di Sciacca e databili al XVI secolo. Questi tozzetti presentano delle raffigurazioni di tipo zoomorfo e fitomorfo.

Piastrelle del pavimento del Grande Salone
Castello di Pietraperzia


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IL PUNTALE





a destra si nota la Torre che prende il nome dal vicino
 “Puntale”, caratteristica formazione rocciosa “a punta”.

Il “Puntale”, sulla sinistra,  e la facciata occidentale del muraglione

È il corpo di fabbrica posto all’estremità orientale del castello.
Una parte della struttura in cui è possibile valutare i danni subiti dal castello  negli eventi sismici del XIX secolo e nell’incuria.
Il termine di “Puntale” deriva dalla presenza di un masso roccioso, dalla caratteristica configurazione “a punta”, posto nelle vicinanze.


Si tratta di un corpo di fabbrica, molto alto ed isolato a  nord, che presenta una pianta quadrangolare. Adiacente all’armeria, di cui costituiva la parete di fondo dove, come abbiamo visto, è presente un arco realizzato con blocchi di pietra bianca ben squadrati e da cui si accedeva ad un vano piuttosto angusto, corrispondente al primo piano del puntale.





Il livello superiore, dove era presente il salone, conduceva invece ad una camera che presentava un affaccio sul fondo valle ad est e ad ovest.
Nel salone doveva esserci la famosa biblioteca di casa Barresi.


All’ultimo piano, quello delle camere che si trovavano al di sopra del grande salone adibito a biblioteca, era localizzato un vano che viene ricordato dalla tradizione locale come “osservatorio astronomico” creato da Pietro Barresi, figlio di Girolamo Barresi e nipote di Matteo. Qui Pietro barresi morì colpito da un fulmine, mentre la moglie che gli era accanto, rimase illesa. La stanza da quel momento prese il nome di “stanza del tuono”



“Puntale” i resti di una finestra “bifora”.

La rovina di questa parte del castello è visibile nella cartolina del 1920. Il crollo del grande salone determinò la rovina di una buona metà della superficie dei vani posti nel puntale.
L’ingresso del puntale al piano dell’armeria era affiancato da una scala a chiocciola ora scomparsa. Nello stesso spazio in cui era impostata la scala, una piccola apertura introduceva all’interno del puntale.
La superficie interna del puntale fu sgomberata dalla macerie e i muri interni superiori recano ancora le tracce dell’impostazione per le solette.
Al primo livello, superato l’ingresso, sul lato est si apre una grande finestra che fu riscostruita accanto ad una piccola feritoia.

La finestra e la feritoia piano terra del puntale.

Sul lato ovest è presente uno stretto e piccolo corridoio, ricavato nello spessore murario, che conduce ad un’altra feritoia.
La muratura è costituita da pietre non squadrate e affogate in un legante scuro. Al piano superiore si trovano ancora due grandi finestre che affacciano sulla grande valle del fiume Salso. L’ultimo piano del puntale presenta due finestre affiancate, di piccole dimensioni, a sesto ribassato.


Lo spessore dei muri varia dal piano inferiore a quello superiore attraverso una riduzione del loro spessore o “risega”.
Il pavimento del puntale presenta delle spaccature che potrebbero fare pensare alla presenza di un vano sottostante a volta. Non sono state effettuate indagini o sondaggi in merito.
Quest’ala del castello è posta rispetto all’edificio in maniera obliqua.


La posizione obliqua fu dettata dalla particolare conformazione della roccia su cui poggia che permette d’altra parte al corpo di avere un affaccio chiaro e netto verso l’esterno rispetto al resto dell’edificio.

Qual’era la sua funzione ?
 Lo spessore della muratura al livello inferiore e la sua posizione sono aspetti dell’importanza del puntale nel suo ruolo difensivo. Il piano inferiore doveva essere già preesistente, si tratterebbe quindi di una torre d’avvistamento originaria nella storia del castello. E i piani superiori furono aggiunti dai Barresi nel corso del XV-XVI secolo.
Il giovane Pietro Barresi morì in questa parte del castello denominata “cucula”, un terrazzo dove era posto il suo importante osservatorio astronomico.
Durante una delle sue osservazioni, il 30 settembre 1571 fu colpito da un fulmine e molti autori, fra cui fra Dionigi Bongiovanni,  Tortorici Cremona, Nicoletti, scrissero di aver visto un forte squarcio sul soffitto del puntale provocato dal terribile fulmine che provocò la morte del giovane principe.
Questa stanza fu da quel momento chiamata dalla tradizione popolare la “stanza del Tuono”, di cui rimangono solo le due finestre…..

Il vasto panorama dal “Puntale”
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I MURI  PERIMETRALI  DEL CASTELLO

Le mura non hanno una disposizione regolare, sfruttano in maniera perfetta le balze rocciose, e presentano anche una tipologia muraria differente.
Le mura prese in considerazione fanno riferimento al lato ovest del castello e che sono prospicienti il fondo valle e guardano verso Caltanissetta.






Gli elementi che costituiscono le mura sono:
-          Le torri semicircolari o Baluardi e le mura di cinta;
-          Resti del muraglione dei gruppi  di ambienti “A” e “B”.

I BALUARDI

Si trovano ad un livello inferiore rispetto al mastio a causa del forte dislivello del terreno. Si tratta di due torri semicircolari che sono inserite nella cinta muraria che collega il muraglione delle finestre con la roccia sulla quale si eleva la “Corona del Re”.
Si tratta di un’area che rappresentava la difesa del castello nel lato Sud Ovest.  Lo stato di conservazione delle strutture non permette di poter stabilire quale fosse la loro altezza originaria e sembrano, in ogni caso, mozzate nell’estremità superiore.
La prima torre è posta nell’angolo della cinta muraria mentre la seconda è inserita nel tratto rettilineo dello stesso muro di cinta.




L’aspetto esteriore delle due torri è caratterizzato da uno spesso strato di intonaco bianco di natura calcareo gessoso che riveste la muratura. Muratura che è realizzata con l’impiego di materiale lapideo di vario genere e disposto in modo grossolano con l’utilizzo, alquanto sporadico, di malta. Una tecnica costruttiva che caratterizza anche la cinta muraria che unisce le due torri al mastio.


Poggiano su un basamento artificiale che permette alle strutture una maggiore stabilità e spessore dei corpi stessi.
In corrispondenza dell’angolo meridionale del primo baluardo, a causa delle ferite del muro, è emersa una canalizzazione circolare sagomata da elementi ceramici curvilinei.
Sul lato esterno della cinta sono visibili due aperture, una sul ripiano superiore, l’altra posta al livello del basamento, il cui piano di calpestio soprastante è coperto da erbacce.
Un possibile ingresso a questi locali sotterranei potrebbe trovarsi nel pavimento sotterraneo della camera e che forse sono ancora coperti da detriti, e posta lungo il primo tratto del muro perimetrale.
Questo vano era infatti collegato tramite una botola con il locale sotterraneo sottostante il gruppo “A” di camere.
In merito alla già citata altezza non doveva  essere molto differente da quella che presentano oggi. La stessa conformazione attuale sembrerebbe già idonea nel suo compito di difesa  dalla valle sottostante.
Forse erano coperte da una merlatura piuttosto semplice, aspetto che probabilmente aveva anche il muro di cinta.

Ricostruzione dell’artista Michele Ciulla

  

IL MURAGLIONE OVEST DELLE FINESTRE


Il muraglione ovest si presenta alquanto complesso perché presenta i vari rimaneggiamenti che furono effettuati sul castello nel corso dei secoli.
Poggia direttamente sulla roccia sottostante e si può suddividere in tre sezioni facendo riferimento alle strutture a cui è collegato:
A-    Sezione collegata alla cinta muraria del Mastio;
B-    Sezione collegata al gruppo delle camere “B”
C-    sezione collegata al gruppo delle camere “C”

A
Tracce di mura sono ben visibili anche se in maniera esigua. Vi sono le tracce di un elemento di rinforzo posto vicino alla torre semicircolare più piccola e un’ulteriore parete di rinforzo che collega la seconda parte (B) del muraglione.
La muratura è costituita da pietre ben squadrate, di piccole dimensioni e disposte su filari abbastanza regolari.
Lo stato attuale risale all’inizio del secolo quando il muro crollò.
Probabilmente questo muro aveva la stessa altezza del muraglione di finestre riuscendo a coprire, sia pure parzialmente, la facciata del mastio retrostante.

B
La facciata di questo tratto di muro è crollata per circa la metà e presenta una finestra sul primo livello relativa alla camera interrata.
Presenta tre aperture che fanno parte del livello sottostante e in corrispondenza del corridoio sotterraneo.
Negli anni ’80 la facciata presentava nella parte superiore tre grandi finestre disposte in maniera regolare e simmetrica dove una di queste, sul lato interno, presentava ancora tracce d’intonaco bianco e due stipiti laterali.

Foto dei primi anni ‘80


Le finestre al primo livello erano di dimensioni minori rispetto a quelle del piano superiore e presentavano una disposizione alquanto irregolare.
L’angolo superiore del muro, in prossimità dell’incorniciatura del terzo muraglione,  crollò negli anni ’40 e presentava un’unica apertura. La muratura esterna era pressochè identica a quella del tratto di muro (A) (prospicente il Mastio) e si trovavano ancora, quando il muro era in piedi, tracce di intonaco bianco sui due piani superiori.

C
L’ultimo tratto di muraglione domina ancora oggi la vallata.
Conserva i tre  piani delle finestre disposte in maniera simmetrica e regolare oltre ad un livello inferiore di piccoli finestre relative ai sotterranei.
I finestrini dei sotterranei sono posti in corrispondenza di ciascuna serie di finestre dei piani superiori.
Permettevano ad una piccola quantità di luce di illuminare ed aerare i locali sotterranei posti sotto il cortile e sotto l’armeria, non ancora visitabili e studiati.
Tenendo conto dell’ultima colonna di finestre, crollata da tempo, l’affaccio delle aperture era di 21 unità.
Il collegamento tra questa sezione e quella vicina era realizzata con una disposizione regolare verticale di pietre bianche calcaree.
Un intervento di consolidamento è visibile nei due elementi di rinforzo realizzati all’interno del castello in corrispondenza delle finestre che s’affacciano sul cortile, per permettete una migliore stabilità del muraglione che era in condizioni precarie.
Nel  ‘500 forse nello stesso punto erano stati post due elementi di rinforzo anche sulla medesima faccia esterna.
Particolare l’andamento parabolico del muro inarcato verso l’interno e la conservazione dell’intonaco originale nella parete esterna dell’ultima sezione.

Andamento parabolico del Muraglione



Paramento di rinforzo

La parete interna del muraglione permette di osservare la tecnica costruttiva del nucleo realizzata con l’impiego di pietre di piccole dimensioni affogate nella malta. In alcuni spazi si conserva ancora l’intonaco chiaro dall’aspetto roseo a seguito dell’effetto ottico prodotto dalla luce del sole in alcune ore pomeridiane.
Le finestre poste più a nord conservano oltre all’intonaco anche la cornice superiore di epoca rinascimentale, aggettanti con in elemento piatto sottostante, e gli stipiti laterali in pietra.


IL  MASTIO



Il Mastio si trova nella parte più antica del castello tra la torre detta “Corona del Re” e l’attuale… obbrobrio serbatoio interno dell’acqua potabile da non tempo funzionante.
Il problema architettonico del mastio è legata alla sua planimetria, non propriamente rettangolare, ed alla sua ricostruzione in elevato.
Purtroppo di questo elemento di fortificazione rimangono solo due porzioni di muri distinti.
Un tratto di muro largo circa 2 metri (H), che si dovrebbe collegare idealmente con l’altro tratto di muro (K) che a sua volta si collega con il corpo aggettante della “Corona del Re”.

I due tratti di muri superstiti del Mastio

Il lato nord del mastio doveva essere forse collegato ad un avancorpo.
I resti di questa corpo si trovano a fianco del serbatoio idrico che tanto danno ha creato alla struttura del castello.
Le dimensioni del mastio, rilevate nel 1982,  sarebbero di (25,60 x 12,10) m.
Una struttura che doveva servire come ultima difesa nel caso fossero state espugnate le altre barriere difensive del castello. Era situato sopra la cima della cresta rocciosa ed in parte ricavato nella stessa roccia.
La sua posizione e la sua costruzione rendevano la struttura robusta e difficile da espugnare.


Il Mastio e a destra la Torre “Della Corona del Re”,
sulla sinistra si notano i due Baluardi

La costruzione in epoca fascista del piccolo serbatoio idrico, ripeto non più funzionante, ha danneggiato questi spazi anche dal punto di vista geologico. La struttura, con il suo peso, ha creato un avvallamento del terreno tra la parte posteriore del serbatoio e il lato orientale del muro (H) del mastio.

Si nota il forte avvallamento prospiciente il lato sud del serbatoio

All’interno di quest’area si nota quindi un forte avvallamento del terreno che partendo dalla scala scavata nella roccia della “Corona del Re” prosegue verso il lato Ovest dove il corpo naturale roccioso funge da basamento del muro H.
A terra si trovavano: frammenti di roccia; numerosi resti di muratura provocati dal crollo dei fabbricati circostanti e numerosi sedimenti che si sono accumulati nel corso dei secoli.

L’avvallamento che inizia dal muro H del Mastio

Un dislivello molto forte considerando che la distanza tra il lato sud ed il lato Nord del mastio è di circa 16 metri.
La larghezza del mastio (Ovest – Est) tra il lato meridionale del muro H e il lato opposto del muro perimetrale è di circa 9 metri.
Il muro H del mastio misura 7,5 metri ed ha una larghezza di 2,5 metri.
La tecnica costruttiva del lato est dello stesso muro è caratterizzata dall’uso di pietre di grosse dimensioni che sono disposte in modo irregolare e legate fra loro da malte di tipo sabbioso gessoso, con l’ausilio di piccoli riempimenti.
Il paramento opposto (Ovest), sempre del muro H, presenta una messa in opera più accurata sia nella disposizione delle pietre sia nell’uso di conci come riempimento.


Il muro ha conservato i resti di una piccola feritoia a dimostrazione dell’uso militare del corpo.
Il basamento di un piccolo tratto di muro  che congiunge i due muri darebbe la dimostrazione della loro unione. La ricostruzione planimetrica non è facile a causa della roccia sulla quale si elevano i due corpi di fabbrica che idealmente non consente un collegamento diretto. Probabilmente la planimetria del complesso non era perfettamente regolare. Il lato settentrionale del muro K, all’interno dell’area del mastio, presenta una disposizione delle pietre alquanto disordinata e simile al paramento posteriore (Est) del muro H.
Furono infatti utilizzate pietre scure che sono presenti nelle campagne circostanti e anche blocchi di pietra calcarea di colore grigio scuro. Una pietra molto diffusa nella contrada Rocche e nel fondovalle dello stesso castello.
Per la realizzazione del mastio non fu quindi impiegato materiale molto raffinato, lavorato e ben squadrato, in considerazione degli elevati costi della materia prima e del loro trasporto nel castello.
Quindi si adoperarono pietre grossolane, raccolte soprattutto nelle vicinanze del castello e che furono impiegate nella fabbrica degli edifici.
Il lato est del mastio presenta dei resti di murature con l’utilizzo di leganti robusti, che sarebbero il risultato di interventi risalenti a qualche decina d’anni fa.
L’area del mastio si trova ad una quota più alta rispetto al livello delle camere adiacenti.
Frate Dionigi Bongiovanni affermò che 
“ai suoi tempi,  nel 1778, il castello era ancora intatto”
e probabilmente anche il mastio.
In una cartolina del 1932 si nota la presenza di un alto arco d’ingresso posto tra l’area del mastio e il lato meridionale del complesso delle camere del castello.
Un arco che era impostato sulla roccia che fungeva da soletta di sostegno.
Un ingresso collegato all’antica via per Palermo ?


Foto epoca 1900/1932

Secondo lo studioso Nicolò Contini il mastio potrebbe rientrare nella tipologia dei “donjopn” normanni per la sua planimetria, quasi rettangolare, per la torre d’avvistamento e anche per la sua superficie.
Una superficie che avrebbe consentito la creazione nell’interno dell’edificio di tutta una serie di ambienti necessari per la sopravvivenza anche in caso di assedi prolungati. Un edificio che fu probabilmente ripristinato in epoca sveva.





MURAGLIONE  E TORRE  DELLA  CORONA DEL RE

Questo lato del castello è caratterizzato dal muro (K) del Mastio e dall’adiacente Torre detta “Della Corona del Re” a cui si accede tramite una bellissima scalinata, anche se purtroppo rimaneggiata, scolpita nella roccia.


La scalinata della Torre “della Corona del Re” ricavata nella roccia


Una torre importantissima nella difesa del castello grazie alla sua elevata posizione che consentiva di visualizzare un ampio territorio circostante.
Non si trovano tracce di fori per la collocazione di eventuali solette dell’area interna ed è quindi probabile che l’interno del baluardo fosse privo di ripiani.
La Torre “Corona del Re” misura (6,5 metri di larghezza Nord/Sud e circa 3 metri di larghezza Est/Ovest) mentre la larghezza del muro adiacente (K) è di circa 7,5 metri con uno spessore di circa 2,5 metri. Non si hanno riferimenti in merito all’altezza del muraglione che poteva oscillare tra i 10/15 metri circa.
Lo stato di conservazione sia del muraglione (K) che della Torre sono discreti e gli interventi di restauro interessarono solo il basamento esterno del muro e la parte di collegamento tra lo stesso muro e la torre.

Muro di collegamento tra la Torre (Corona del Re) ed il muro K del Mastio

L’angolo Sud-Ovest del muro K, prospiciente il fondovalle, fu realizzato con pietre bianche squadrate che costituiscono una cornice dell’intero corpo di fabbrica. Una tecnica di incorniciatura che si riscontra in altre parti del castello come nell’angolo esterno del puntale a Nord  e presso la torre della cappella all’ingresso del castello.
La parete orientale della Torre è identica per tecnica costruttiva a quella del muro K. Anche qui le pietre si presentano in maniera abbastanza regolare utilizzando sui due lati la tecnica dell’incorniciatura tramite materiale lapideo di colore chiaro.
La bellezza della Torre, oltre che per la sua maestosità e collocazione., e anche legata all’aspetto archeologico della rupe sul quale sorge.  Il sottostante complesso roccioso calcareo presenta una serie di piccole grotte a “fornacella”







Probabilmente sulla torre era presente una merlatura  collegata ad alcuni elementi lapidei posti in cima del manufatto. Particolare è anche la sua planimetria trapezoidale, “più propriamente esagonale”, collegata  alla naturale roccia sottostante che regge tutto il complesso fortificato.
Le case che sono addossate al lato d’ingresso del castello non permettono di riportare in luce possibili passaggi scavati nella roccia che dovevano essere visibili in questo lato dell’edificio. Tuttavia si possono ancora vedere lungo la via San Francesco dei resti di piccole grotte di forma ellittica lungo tutto il perimetro Est (?).
Fra le case che sono addossate sotto la Torre della Corona del Re si conservano alcuni resti di passaggi che conducono ad ambienti semicircolari ricavati nella roccia. Uno di questi era direttamente collegato con il mastio sovrastante….



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LE  CAMERE  DEL   CASTELLO

Una leggenda popolare narra che le stanze del castello fossero 365, quanti i giorni dell’anno; disposte su quattro piani, quante le stagione e difese da 12 torri, quanti i mesi dell’anno.
Lo storico Guarnaccia nel suo libro sul “Castello di Pietraperzia” (edito nel 1985) riportò che:
“… le finestre sono 44 per ciascuno lato e che moltiplicando
questo numero per i quattro lati del castello di
otterrebbero 176 stanze. Aggiungendo poi anche i locali che si
affacciavano sul cortile, le camere sarebbero state 362”.

Non è facile risalire al numero delle stanze presenti in origine nel castello anche basandosi sul numero delle aperture presente nel  muraglione esterno di ponente peraltro  non intero. Mancano poi i muri del mastio dove erano presenti degli alloggi.
Certamente data la vastità del castello e soprattutto la sua complessità planimetrica, disposta su diversi livelli, compresi i sotterranei, il numero delle camere doveva essere rilevante.
Un numero così alto che la tradizione locale ha metaforicamente collegato ai giorni dell’anno per facilitare probabilmente il ricordo.
Camere quindi numerose e disposte planimetricamente in modo poco regolare tanto da fare smarrire le tre donne protagoniste della leggenda popolare.

Attualmente le camere del castello sono organizzate in tre gruppi principali all’interno del castello:

-          Gruppo A; poste al  primo piano sopra il cortile, raggiungibili dal passaggio di ronda che si sviluppa sopra  il portale d’accesso allo stesso cortile. A questo gruppo di camere si dovrebbe aggiungere un ulteriore gruppo di alloggi posti vicino all’area del mastio  (A- 1)
-          Gruppo B;  nell’area più prossima al muraglione esterno delle finestre e che è contigua al gruppo delle camere (A). Quest’area risalirebbe al periodo svevo.
-          Gurppo C; camere poste nella parte cinquecentesca del castello (dove si trovava il Grande Salone, l’armeria e le camere della servitù) e che si affacciava sul cortile tramite la famosa parete a bugnato con punta di diamante




GRUPPO  (A)

Questo gruppo di vani costituivano un corpo rettangolare ed erano collegati da aperture alte circa 2 metri.


 La foto evidenzia come agli inizi del secolo scorso,  questa parte del castello era ancora  intatta. Il  gruppo di camere “A” presentava una copertura a doppio spiovente ed aveva una pianta rettangolare come si nota da una ripresa aerea risalente al 1991 dove si nota la disposizione dei muri perimetrali.


Fino al 1999 era possibile osservare la muratura dei muri di questo corpo abitativo. In seguito si decise di ricostruire la copertura di questi vani e si “cancellò il cuore architettonico di questa parte del castello attraverso la sovrapposizione di intonaci moderni sul nucleo dei muri originari”. Per realizzare questo intervento furono aggiunti ex novo alcune pareti per sorreggere le coperture”.
Il numero delle camere doveva essere di 9 unità.
A questo gruppo di camere si affianca un’area, non ben definita dal punto di vista planimetrico, di un gruppo di camere indicate con A-1. La presenza di questo gruppo di camere è testimoniata da abbondanti infrastrutture in gesso. Un materiale che difficilmente era usato in età medievale per la realizzazione di muri divisori e di due tramessi semicircolari che furono scoperti verso il 1999.
  
La muratura delle stanze del gruppo “A” è caratterizzata dall’impiego di materiale lapideo di piccole dimensioni e di un legante di colore scuro integrato da piccolissimi conci lapidei. Queste camere erano disposte in maniera simmetrica e separate soltanto da un muro divisorio che sosteneva le due capriate del tetto sovrastante. Sulle mura si osservavano,  fino al 1995, tracce di intonaco bianco ornato da alcune cornici in gesso.

Foto del 1995, prima dei restauri con relative modificazioni.
Le camere del gruppo “A”  sul cortile (al di là del muro in elevazione)
In primo piano si nota il muro divisorio dei vani

Tracce di decorazione si potevano osservare negli ambienti rivolti verso il Mastio.
Decorazioni ottenute sull’intonaco bianco con la rappresentazione di cornici sottili di vario colore con motivi circolari e rosette.

Una foto degli anni 1970 sempre delle camere del gruppo “A”

Foto degli anni 1979.
Decorazione delle camere del gruppo “A”.

Il lato del muro esterno del complesso di camere A, (verso il Mastio), è caratterizzato da una tecnica costruttiva che è molto simile a quella del mastio. Furono messe in opera delle pietre di grandi dimensioni e dei leganti più grossolani. Questo lato del muro, sorretto dall’arco a tutto sesto che conduce nello spazio interno del cortile e nei sotterranei, era fino al 1995 pericolante e crollò nella sua massima parte per essere
ricostruito nei recenti restauri.
Questo muro doveva essere anche il muro perimetrale del gruppo di case A-1-
Vicino al gruppo di case A-1, di cui rimangono solo delle tracce, c’è un terrazzo che è vicino anche al mastio e posto lungo il margine orientale dell’area fortificata.

Ambienti del gruppo “A) – Piano Terra e  1° Piano
Il 1° Piano era raggiungibile attraverso la scala del cortile e cioè
con la rampa che conduceva al camminamento di ronda

Ambienti ristrutturati del Gruppo “A” – 1° Piano

Come sopra
La porta frontale sporge sull’area retrostante di fronte al Mastio.

Un terrazzo dalla pianta rettangolare e realizzato con una muratura molto simile a quella del gruppo di stanze A. Le possibili funzioni di questo terrazzo potevano essere ad esigenze militari come  ulteriore punto d’avvistamento o comunque di controllo della rampa sottostante d’ingresso del castello.


 CAMERE  GRUPPO B

Gli ambienti presenti nel gruppo B sono poste lungo il muraglione occidentale del castello, quello che sporge sul fondovalle. Presentano una disposizione e caratteristiche architettoniche molto importanti.
È innanzitutto quella parte del castello che gli storici hanno definito “sveva”.
Il gruppo era costituito da una successione di ambienti, disposti su due piani, poco illuminati e poco sviluppati in altezza ed era in comunicazione con il gruppo di camere “C”.


I muri divisori delle stanze  e la parete di fondo, sostenuta dalla roccia sottostante, presentano conci di grossi dimensioni che sono intervallati da trafori per l’inserimento delle travi delle solette superiori

Parete delle camere del gruppo B (muraglione che sporge sul fondovalle)
Si notano i trafori per l’inserimento delle travi linee per la messa in opera della soletta.

Notevole è l’uso dell’arco a sesto ribassato per la copertura dei vani, di cui rimangono delle tracce  al primo piano.

Arco a tutto sesto
  
Le finestre alcune camere presentano un aspetto particolare che è rimasto solo in due vani: due piccoli stipiti o sedili che permettevano la visione del fondovalle verso il fiume Salso.
Quest’ala del castello è stata oggetto di disastrosi crolli come dimostrano le fotografie. Crolli causati dalla rovina dei pavimenti e di parte della volta dei sottostanti sotterranei.
Il crollo più grave fu quello del muraglione con le relative finestre. Si tratta di una parte del castello che ancora è in fase di studio sia per la planimetria che per la sua funzionalità. Interventi ?  Difficile definirli e preventivarli dati i tempi con gravi con gravi problemi di natura economica e sociale.


Sempre nel gruppo B di camere, al secondo piano ed al confine tra il gruppo di camere A ed il gruppo C, è presente il residuo di un pavimento costituito da un mattonato di piastrelle quadrate in terracotta  dal colore rosso e verde che sono disposte in modo alternato. Un pavimento che era ancora visibile nel 1999.




Riguardo alle camere che sono scomparse con i ripetuti crolli, molte informazioni ci vengono fornite dall’inventario “post mortem” di Pietro Barresi del 1571 che consente di delineare l’organizzazione  distributiva  degli ambienti nel castello, la relativa destinazione d’uso e la caratterizzazione degli stessi.
L’elenco indica la presenza di stanze destinate ai componenti della corte e prosegue con la descrizione degli oggetti contenuti in due delle tre camere facenti parte “di lo castello vecchio”.
quest’ultima informazione è interessante perché indica la presenza di fabbriche antiche e nuove e che l’impianto abitativo attuale usufruiva anche di vani precedenti. Vani precedenti che potrebbero identificarsi con tre camere poste a piano terra, di cui però non è possibile stabilire con assoluta certezza la loro ubicazione.
L’inventario cita inoltre l’esistenza di:
-          Una “cammara di Lo Paramento”, dotata anche di una retrocamera;
-          Una “retro cammara di li donni” che farebbe supporre l’esistenza di una camera riservata ad un uso femminile;
-          Una “cammara sotto l’astraco”, un termine per indicare una copertura piana a terrazza;
A queste stanze s’aggiungevano altri ambienti di servizio, probabilmente ubicati a piano terra, come la:
-          La “cocina di li donni”;
-          Il “guardaroba di li donni”;
-          La “cammara dello studio vecchio” cui corrispondeva al piano superiore un’altra camera;
-          Una stalla.
La presenza di stanze riservate alle donne lascia intendere che vi fosse una netta divisione tra gli ambienti destinati al signore e quelli adibiti alla consorte ed alla servitù.
Del resto questo tema distributivo non è raro nelle dimore rinascimentali italiane e rispondeva ai testi del Vitruvio,  che espone  questo schema di divisione degli ambienti nella descrizione della “Casa dei Greci” e di Don Leon Battista Alberti che nel “De Re aedificatoria” espone l’esistenza di spazi destinati alle donne e agli uomini affermando che:
“… nella abitazione regale si tengano ben divise la parte riservata
alla moglie, quella riservata al marito e quella destinata alla servitù”.
Non si sa se questa distribuzione degli ambienti risalga a Giovanni Antonio II Barresi o a Matteo Barresi o allo stesso Pietro Barresi.
Tra i numerosi testi che si trovavano nella ricca biblioteca del castello c’erano i testi di Vitruvio e dell’Alberti.

SCHEMA  DISTRIBUTIVO DELLE  CAMERE
La parte residenziale del castello doveva articolarsi secondo due livelli principali a cui si aggiungeva un terzo livello.
Al pianto terra, come già accennato, secondo l’uso consueto dovevano trovarsi le stanze destinate ad ambienti di servizio.  Tra questi ambienti rientravano gli alloggi per la numerosa servitù e per le persone che gravitavano attorno alla corte dei Barresi; le stalle per la grande quantità di animali che risultavano sempre presenti come beni inventariati nei documenti; i depositi per le derrate alimentari con la cucina in posizione adiacente e la dispensa.
La cucina, anche per ragioni destinate all’approvvigionamento idrico, era ubicata a piano terra poiché sotto il cortile era posta una grande cisterna d’acqua.
Al  piano superiore, primo piano, si sviluppavano gli ambienti residenziali, destinati ad essere fruiti privatamente dai signori e disimpegnati da ingressi indipendenti, e quelli di rappresentanza come il grande salone.
Il terzo livello, secondo piano, dovevano trovarsi ulteriori ambienti destinati all’ambito privato e collegati internamente con scale di legno. (Tra questi ambienti dovevano esserci la biblioteca).

GLI ARCHI DEL CORTILE E I SOTTERRANEI

Nel lato Sud-Ovest del cortile si sviluppa un corpo di fabbrica rettangolare che presenta un planimetria unitaria e regolare che in parte si è conservata grazie ai restauri.
In planimetria è indicato come : Ambienti gruppo “A” (Piano Terra e 1° Piano).
Il pano terra è diviso un tre ambienti rettangolari che comunico con il cortile con degli archi.


L’ambiente N.3, il primo ad Est, presenta due vani coperti da volte a crociera mentre il gli altri due ambienti ambiente (N. 1 e N. 2) presentano due ambienti, tra loro comunicanti, con volte a botte e comunicano con il cortile grazie a due archi a tutto sesto. Da questi vani si accede ai sotterranei del gruppo “A”.

Ambienti  del gruppo “A”
Piano Terra  e  1° Piano

Cortile  - Lato   Sud – foto del 1989 (prima dei restauri)


Disegno di C. Crocitti

Dalla porta (3) si accede a due vani tra loro comunicanti. Si tratta di vani che presentano una costruzione massiccia e nel primo vano, appena varcato l’ingresso, sul lato sinistro erano presenti i resti di una mangiatoia che fu realizzata in epoca recente.
La porta d’ingresso presentava sui due stipiti laterali e sull’architrave dei blocchi di calcare bianco.
 Quando il castello fu abbandonato dai proprietari, diventò addirittura luogo di pascolo e anche di ricovero del bestiame. Nei soffitti di questi due vano erano presenti tracce di fumi provocato dal fuoco di legna adoperata dai pastori per  la caseificazione del latte.
Il secondo vano, privo di punti luce, fu realizzato con gli stessi accorgimenti costruttivi del precedente ed è posto al piano superiore di quel locale, detto corpo di guardia, che s’incontra all’inizio e a sinistra della seconda rampa di scale prima di entrare nel cortile del castello.
Non si conosce l’utilizzo di questi due vani e probabilmente erano adibiti a magazzino o cantina, soprattutto nelle prime fasi di costruzione del castello, data la mancanza di finestre o di altre apertura  per dare una maggiore luminosità agli ambienti.

Il primo vano dell’ambiente “3”

Il secondo vano dell’ambiente “3”

L’ambiente N.1  risulta direttamente collegato con la strada che proveniva dalla zona Sud-Ovest  del castello (forse l’antica strada per Palermo) che costeggiava un muro sul uale si elevano degli ambienti, posti al primo piano, e che nella relativa planimetria sono indicati come “Ambienti gruppo “A1”.
Ambienti che si trovavano tra gli Ambienti del gruppo “A” ed il Mastio e difficilmente leggibili a causa degli scarsi resti soprattutto in conseguenza dei lavori che furono compiuti in quest’area, in epoca fascista, per la costruzione d’un serbatoio.
Grazie ai due archi a sesto acuto si accedeva ad un grande vano, ai sotterranei, alle camere del gruppo B ed alla salita che conduceva al mastio.
In questa parte del castello è visibile una tecnica di costruzione che è differente dalle altre tecniche adoperate nei vari corpi .

Gli archi 1 e 2 visti dalla parte interna

“… si osserva nel castello di Pietraperzia una fabbrica più antica,
che appoggia come un contrafforte gli avanzi di opere ancora più antiche.
Queste opere sono romane alcerto, poiché gli archi a tutto centro, gli
architravi orizzontali, gli stipiti, e le cornici, senza sgombro di fregi le
distinguono dalle opere saracene e normanne, in cui gli archi
a sesto acuto, le colonne tramezzano le aperture, ed immagini di animali
e frasche di fiori le adornano a profusione”


“ .. la pietra impiegata è molto diversa. Nel grande pilastro di basamento delle
due volte, si può osservare l’incastro e le notevoli dimensioni di questi blocchi
di pietra bianca, regolari squadrati, utilizzate per sostenere i piani
superiori. Tra la prima impostazione degli archi e le due arcate vere e
proprie, si notano i resti di una cornice eseguita in maniera molto semplice, mentre
sulla facciata prospiciente il cortile si ammira la successione ordinata
di questi lastroni di pietra che costituiscono ed adornano entrambe le volte”.

Guardando l’immagine si nota come la muratura che sovrasta le arcate, dove sono inserite le tre grandi finestre, è molto diversa.
L’architettura del muro delle tre arcate era quindi antecedente a quella sovrastante. Gli ambienti del piano superiore, gruppo camere A, furono utilizzati da Barresi in un periodo successivo.
I due archi 1 e 2 danno quindi origine a due androni paralleli, orientati Nord-Sud, che presentano una copertura a volta accompagnata da un’accennata impostazione a crociera.
Le pareti interne presentano una muratura molto simile a quella presente nel mastio.
I due grandi ambienti avevano probabilmente diverse funzioni. Il primo ambiente aveva la funzione di magazzino fino all’abbandono del castello da parte dei Barresi. Il secondo ambiente aveva la funzione di passaggio o di collegamento tra i sotterranei ed il resto delle camere.

I locali sotterranei sono raggiungibili tramite gli archi del cortile e le aperture che si trovano nelle stanze poste presso il cortile.
Dopo aver varcato l’arco 2, sulla destra è presente un’apertura che conduce al primo livello di ambienti del gruppo B e ad un locale dalla planimetria molto stretta e piccola, forse un cunicolo di passaggio ricavato tra due ambienti durante l’utilizzo a carcere del castello). Un ambiente che presenta quindi degli aspetti che ne rendono difficile l’interpretazione della sua funzionalità.
Un tempo si riusciva ad intravedere l’interno di questo vano da un buco ricavato nella  parete laterale della porta. Un piccolo ambiente che presentava una copertura ad arco ribassato; uno spazio molto alto e stretto; le pareti ricoperte da intonaco bianco forse di natura  gessosa.
La pavimentazione, come per i due grandi ambienti degli archi 1 e 2, presentava uno strato di sabbia molto fine e polverosa, tipica degli ambienti poco arieggiati.
È probabile che questo ambiente sia stato ricavato da un successivo rimaneggiamento di una parete delle camere del gruppo B che sono adiacenti  per la realizzazione di un vano adibito a carcere.
Oltrepassata la prima porta, vi sono le tracce di una scalinata con andamento destrorso che conduce ad un ambiente  voltato di grandi dimensioni, che in tempi moderni costituiva parte del carcere mandamentale. La copertura di questo sotterraneo è a sesto ribassato poggiante su due pareti in pietra bianca successivamente stuccata. Questo spazio è illuminato e arieggiato da due finestre di cui una è di notevoli dimensioni.

Locale sotterraneo posto sotto le camere del gruppo A


Locali sotterranei  posti sotto le camere del gruppo A (1989)


Questo grande sotterraneo conduce, sul lato sinistro, ad una parete di fondo dotata di un’apertura. Quest’apertura dà l’accesso ad un basso spazio coperto da una volta e anch’esso adibito a carcere.
Qui è visibile in un punto della copertura una sorta di botola che doveva mettere in comunicazione questo spazio con una camera superiore che nel 1999 era ancora sommersa di detriti.
Al centro di questo vano sotterraneo, un tramezzo in gesso metteva in comunicazione due piccolissime celle il cui accesso era possibile da due basse aperture. Nella parete opposta era presenta una piccola finestra che presentava tracce di ostruzione. 
Il lato opposto del grande ambiente presenta una serie di ambienti molto pericolanti ed anch’essi adibiti a carcere dove la presenza di muri divisori in gesso è molto presente.

Ambiente sotterraneo sotto le camere del gruppo B


Molti di questi sotterranei si sviluppano sotto le camere del gruppo B mentre altri sotterranei erano presenti sotto le camere del gruppo C vicino all’armeria.
Anche questi vani presentano una copertura a sesto ribassato.
I sotterranei sono numerosi e gran parte non accessibili mentre altri sono murati ed ancora oggetto d’indagine.
A prescindere dal loro utilizzo, in tempi recenti a carcere mandamentale, c’è da dire che in epoca antica erano destinati a magazzini o cantine dato che mancano adeguati sistemi di areazione per essere oggetto di residenza.

Un gruppo di soci dell’Archeoclub di Pietraperzia, composto dai signori Rocco La Monica, Filippo Emma e Rosario Nicoletti, ha recentemente visitato il castello allo scopo di accertare se è possibile o meno recuperare al nostro paese quanto rimane dell’antico maniero.
Ecco la relazione redatta in tale occasione:
“Erano circa le ore 8,00 di Domenica 9 Ottobre 1983, quando, prendendo le mosse
Da piazza Matrice, c’incamminiamo verso il Castello. Diciamo francamente che eravamo convinti di trovare di peggio. Pensavamo, infatti, di un ammasso amorfo di pietrame e malta di gesso su cui incombevano, con la minaccia di nuovi crolli, gli avanzi dei muri perimetrali, della torre occidentale e di quella – più recente – orientale. Invece notiamo, con grande soddisfazione, che non tutto era da considerare perduto e che un buon intervento, eseguito con serietà e competenza, avrebbe potuto salvare ancora molto.
Sempre bellissima e pressochè intatta ci appare la torre occidentale formata da un unico grossissimo muro e terminante alla sommità in uno spiazzo di forma trapezoidale denominato “La cruna di lu Re”, ampio abbastanza da contenere diverse persone. Adibita, un tempo,  quasi certamente, a posto di vedetta, ha oggi perduto la merlatura che ne coronava la sommità e da cui deriva la suddetta denominazione popolare. Vi si accede tutt’ora a mezzo di una scala ricavata all’interno dello stesso muro, ben incassata in modo da proteggere da attacchi esterni chi la percorra. Venne costruita a guardia della sottostante vallata, su di una roccia a picco le cui pareti furono scalpellate e rese perfettamente lisce e perpendicolari per vari metri dal suolo e tali da renderne assai difficile la scalata. Basterebbero, pensiamo dei modesti lavori di consolidamento e di ripristino alla base, cosa non difficile da eseguire e non eccessivamente dispendiosa, per assicurarne la conservazione ancora per lungo tempo.
In quella occasione ci fu possibile notare che coloro che scalpellarono la roccia, tagliarono, senza distruggerle, due tombe a grotticella riferibili alla cultura di “Realmese”, databili quindi alla fine dell’età del bronzo. Salvo errore, esse sono le uniche testimonianze di insediamenti umani preistorici visibili sulla collina ove si adagia Pietraperzia.
Assai bello a vedersi appare tutt’oggi il cortile interno con le scalinate che portavano alle terrazze da cui si accedeva al piano nobile dell’edificio ove erano le stanze di rappresentanza e quelle direttamente usate dalla famiglia del principe.
Il tutto sorretto da arcate in pietra bianca, squadrate da veri maestri dell’intaglio, in buono stato di conservazione e facilmente salvabili. Le arcate sono ornate con fregi colpiti, di stile gagginiano, a motivi floreali, purtroppo semidistrutti da atti di vandalismo. Lo stesso può dirsi riguardo alle due piccole torri cilindriche prospicenti la vallata del Salso, alle quali mancano solo le merlature e che costituiscono, unitamente alla torre di vedetta di cui parlammo innanzi, la parte più antica dell’intero
complesso edilizio.
Nell’insieme riteniamo che questo corpo di fabbricati, così come oggi ci appare, sia facilmente salvabile e valorizzabile anche a fini turistici, parimenti a quanto rimane del castello dal lato prospicente la Via Principessa di Deliella. Quivi si apre l’ingresso principale situato fra due torri quadre, di cui una andata distrutta in occasione della costruzione dei serbatoi dell’impianto idrico di Pietraperzia.
La parte più nuova del Castello, comprendente i giganteschi muri perimetrali che guardano sulla valle del salso, i muri interni e le stanze cui si accedeva dal Cortile, è quella che ha subito i danni maggiori. Ciò è dovuto al fatto che essa venne costruita in pietrame e malta di gesso, secondo l’uso allora in voga nel nostro paese e continuato fino a pochi anni addietro. Purtroppo un buon 70% è andato irrimediabilmente perduto frantumato nei crolli che si sono succeduti nel tempo e che ancora continuano a ritmo accelerato.
Restano ancora ben conservati i vani sottostanti al piano di calpestio del Cortile, pur essi in gesso ed esposti a tutte le intemperie. Ripuliti dalle macerie che li coprono ed opportunamente protetti dalle piogge, sarebbero da considerare recuperabili ed utilizzabili anche per visite guidate”.

ESAURITA  LA  RELAZIONE  DEI  SOCI  CHE  EFFETTUARONO  IL  SOPRALLUOGO,  pare opportuno fare alcune considerazioni e dare alcune notizie.
IL  CASTELLO  DI  PIETRAPERZIA fu abitato, anche se non in maniera continuativa, fino alla fine del secolo scorso ed utilizzato, fino agli inizi di questo secolo, quale carcere mandamentale.
Il suo degrado cominciò quando, venute meno le necessarie e ricorrenti opere di manutenzione che i principi di Trabia e di Scalea, succeduti ai Branciforte, facevano eseguire periodicamente, il tetto, per primo, cedette lasciando scoperti i vani dei piani superiori.
Le infiltrazioni d’acqua, in pochi anni, produssero i loro effetti deleteri.
Non si dimentichi che stiamo parlando di una costruzione in malta di gesso, materiale
estremamente poroso che assorbe l’acqua con facilità trattenendola per lungo tempo e difficilmente riesce ad asciugarsi anche nei periodi estivi.
Il primo crollo di parte del muro perimetrale del lato Nord, quello a picco sulla vallata, avvenne verso la metà degli anni ’80 dello scorso secolo, cioè all’incirca cento anni addietro.
La sua Chiesa, splendidamente ornata di pregevoli stucchi, ubicata in quella parte dell’edificio che si affaccia sull’odierna via Deliella ed i cui resti sono tutt’ora visibili, fu agibile fino ai primi anni del 1900 e vi si celebrava la Messa nei giorni festivi ed in quelli di Domenica.
All’incirca all’epoca del primo crollo, e probabilmente da qualche decennio prima, una delle sale del Castello venne usata quale teatro da una compagnia di filodrammatica locale composta da giovani dilettanti, amanti dell’arte, che si esibirono in varie recite per diversi anni.
Le notizie di cui sopra mi sono state riferite da mio nonno, insegnante Rosario Nicoletti, morto nel 1949 all’età di 84 anni. Egli mi raccontò di aver assistito, casualmente al primo crollo e di aver fatto parte di quella filodrammatica.
Questi fatti stanno a dimostrare che, fino ad un ottantennio fa, il Castello fu parte integrante e vitale della comunità pietrina e che il suo degrado è relativamente recente.
La incomprensione e l’ottusità hanno fatto sì che esso divenisse quello che al momento è: un rudere.
Sarebbe bastato poco  per conservarlo fino a noi ancora in piedi e lascio immaginare cosa potrebbe significare un fatto del genere per il nostro paese.
Ma forse i tempi non erano maturi e le cose del passato non venivano apprezzate da nessuno nel loro vero valore.
Paragonato a tanti altri manieri della Sicilia di cui non restano che poche vestigia il nostro ha, ancora, delle parti integre che è dovere di noi tutti proteggere e conservare per le future generazioni.
Quando alla fine del Medioevo, quasi tutti gli altri Castelli della Sicilia, venuta a mancare ogni loro funzione politica e militare per l’evolversi dei tempi e per i progressi delle tecniche di guerra, furono lasciati in abbandono ed andarono in rovina, quello di
Pietraperzia venne ricostruito e trasformato.
Da semplice sentinella armata, divenne una confortevole e sicura dimora patrizia.
Tale la vollero coloro che ne erano o proprietari, i principi Branciforti, succeduti ai Barresi, una delle famiglie più in vista della nobiltà siciliana i cui membri rivestirono, in varie occasioni, cariche di grande prestigio presso la corte di Spagna e dimostrarono interessi che spaziavano ben oltre i confini dei loro domini.
Aperti alle nuove idee e forse coscienti che il benessere non avrebbe potuto continuare avulso od in contrasto con quello dei territori che amministravano, i signori di Pietraperzia favorirono lo spezzettamento dei grandi latifondi con vendite agevolate ed enfiteusi, migliorarono le loro terre con impianti arborei ed incoraggiarono il formarsi di una borghesia rurale ed artigianale che assieme ai ceto dei cosiddetti “burgisi” (= proprietari diretti coltivatori) ed ai mezzadri fu per alcuni secoli l’asse portante dell’economia locale.
Pietraperzia era allora considerata una delle più agiate cittadine dell’isola.
Il suo grano, il suo olio, le sue mandorle, il suo vino (prima che, vero la metà dell’1800 la filossera distruggesse tutte le viti) erano esportati ed apprezzati in tutta l’isola.
Anzi per quanto riguarda il grano mi risulta che fino alla metà del secolo scorso veniva venduto direttamente a Terranova (Gela) ed a Licata ove commercianti e produttori lo trasportavano con carri e con carovane (=”ritini) di asini e muli per essere imbarcato sui velieri diretti verso tutti i porti del Mediterraneo.
Tornando al nostro Castello, per finire, mi corre l’obbligo di ricordare al riguardo quanto scrive di esso e di Pietraperzia il dottor Angelo Li Gotti nella sua opera intitolata “Su Grassuliato e su altri abitati dell’interno”.
Lo storico barrese, nell’intento da dare ragionevole e giusta spiegazione al fatto che Grassuliato cessò di esistere verso la fine del 1300, mentre Pietraperzia, Mazzarino e Barrafranca, continuarono a vivere e prosperare, così testualmente si esprime a pagina 12: “Ma in tutti i casi a Mazzarino, Butera, Barrafranca, Pietraperzia, ecc… riunite sotto la stesso dominio, le cose vanno diversamente, perché qui i Branciforte incrementano direttamente le loro terre con impianti di vigneti, uliveti, orti, ecc…… qui in questi vasti stati non c’è affatto fame di terra e chi vuole lavorare viene anche rifornito di attrezzi e di animali”.

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 8. LA  LEGGENDA DELLE TRE  DONNE

Il castello  presentava un grandissimo numero di stanze…la leggenda narra che fossero 365, quanti i giorni dell’anno; elevate su quattro piani quanti le stagioni ed aveva 12 torri quanti i mesi dell’anno.
Si narra che tre donne scesero nei sotterranei, molto intrigati del castello per cercare qualche oggetto di valore.
Per non smarrire la via dell’ingresso. Usarono un rotolo di spago.
Una strana processione perchè le tre donne in fila tenevano un una mano lo spago e nell’altra la candela per creare un po' di luce.
S’inoltrarono per le varie stanze dei sotterrannei…. Le percorsero una dopo l’altra con tortuosi camminamenti…
Una di loro fu attratta da un luccichio, c’era qualcosa a terra e nel chinarsi  inavvertitamente avvicinò la candela allo spago che subito prese fuoco.
Le tre donne non riuscirono a trovare la via del ritorno e morirono nei sotterranei.
 La storia probabilmente prende spunto da un fatto realmente accaduto . Durante il regno di Federico II di Svevia (1194-1250), e le tre donne erano le mogli di Teobaldo, Francesco e Guglielmo Sanseverino, tre fratelli appartenenti alla nobiltà che avevano congiurato contro l’imperatore. I traditori vennero fatti arrestare e condannati al rogo, e non certo miglior sorte toccò alle loro mogli.
Le tre donne, portate da Napoli a Palermo, vennero rinchiuse nelle carceri e morirono di fame e di stenti. Intorno al 1550, durante i lavori di restauro del Palazzo reale di Palermo, sotto quella che viene chiamata “Torre Rossa”, dove venivano tenuti i prigionieri, vennero alla luce i resti delle tre sfortunate donne, mentre la loro leggenda era già conosciuta per tutta l’isola.



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9.   I Graffiti nei sotterranei (databili tra la fine del XV secolo e metà del XVI secolo)
Sono segni lasciati da carcerati e condannati a morte e rinchiusi in quelle che potremo indicare come le “segrete” del castello.
A che periodo risalgono questi dolorosi segni ?
Nel 1569 un prigioniero ha lasciò impresso sulla roccia il suo nome…”il carcerato Pasquale Russo”.
A meno di sorprendenti ritrovamenti documentali non si saprà mai per quale motivo fu rinchiuso in carcere e soprattutto quale fu il suo destino.
Per decenni e forse per secoli,  i sotterranei furono adibiti a prigione, prima come carcere mandamentale dal 1460 circa e poi dal 1812 come carcere comunale.
I prigionieri hanno lasciato sulle mura delle anguste e fredde celle dei segni, tracce della loro sofferenza. Non sono pochi segni ha centinaia di graffiti dove si leggono nomi, date e varie scene di vita come: la caccia, l’impiccagione.
Ci sono anche dei segni che sono di difficile identificazione forse legati alla fantasia del condannato che cercava di sfuggire ad una realtà opprimente.
Le prime notizie di un carcere presente nel castello risalgono al 1489 dove
“alcuni ambienti furono destinati a carcere mandamentale”
Quali ambienti furono destinati a luogo di prigionia ?
Probabilmente era l’ampio vano ipogeo, scavato nella roccia, e posto sotto la Sala delle armi da cui si accedeva tramite un ingresso dal cortile ricavato nell’arco centrale del prospetto “a bugnato”.

Il carcere nel 1489 (segnato con linee verdi)







Il Principe aveva il “mero et mixto imperio” e quindi delegato dal Re di Spagna ad amministrare tutti i poteri, tra cui anche quello giudiziario, sulla “Terra” oggetto di ripopolamento. Nel castello doveva quindi esserci anche una prigione per chi contravveniva alle leggi feudali.




Questo carcere fu utilizzato fino al 1782 quando il re Ferdinando III di Sicilia (1759 – 1816) (Ferdinando I di Borbone) mise al bando le prigioni sotterranee imponendo il ricorso a luoghi di detenzione che tenessero conto della dignità umana dei condannati.
Un provvedimento che fu voluto dal vicerè delle Sicilie Domenico Caracciolo (1781).
Una delle tante riforme nate dalla corrente illuminista eseguite  dal giovane sovrano. Una riforma legata al trattato di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” che aveva riscosso un grande successo in tutta Europa per le riflessioni che aveva suscitato nei governanti.
Una trattato che metteva in evidenza l’inefficacia della pena di morte come mezzo di prevenzione del reato. Metteva in evidenza anche la possibilità dell’errore umano nella sentenza (errore giudiziario) e suggeriva la sostituzione della pena capitale con la pena dell’ergastolo.
In realtà l’8 marzo 1739 Carlo III (re di Sicilia dal 1735 al 1759) (Carlo Sebastiano di Borbone) con la Prammatica del 14 marzo 1738  proibì la tortura e l’uso di pozzo sotterranei di isolamento per i detenuti:
Il Real Governo ordina l’immediata chiusura di tutte le carceri sotterranee, buie e oscure, retaggio di un passato poco attento alla dignità della persona detenuta.
Si ordina la costruzione di nuove carceri con tutti gli accorgimenti necessari per assicurare la salute dei reclusi.
Lo stesso sovrano nel 1745 fornì nuove disposizioni per evitare abusi da parte degli operatori penitenziari ed infine ordinava il trasferimento dai luoghi tradizionali di custodia alle nuove carceri.
Una trasformazione radicale del sistema penitenziario che portò alla ricerca di mezzi finanziari per attuare le nuove normative. Introiti finanziari in gran parte ottenuti con la sostituzione della pena penitenziaria con sanzioni pecuniarie a fronte dell’aumento dell’organico di magistratura e dalla necessità di provvedere alle spese di gestione sulla giustizia penale.
Nel 1812 Caterina Branciforte affittò al Comune di Pietraperzia  parte del castello. Il Comune a quanto sembra non pagò mai i proprietari. Un castello che doveva trovarsi in condizioni strutturali già precarie a seguito degli eventi sismici. lo stesso Comune si preoccupò solo di creare ulteriori spazi suddividendo gli ambienti sotterranei.
Lo storico Lino Guarnaccia riportò nella sua ricerca sul castello il verbale di un’assemblea straordinaria del Consiglio decurionale del 25 maggio 1827 in cui si legge che:

il Regio Procuratore Generale presso la Gran Corte Criminale, con sommo rammarico, ebbe luogo ad osservare che le carceri possono equipararsi ad orride e squallide caverne inventate nei secoli di barbarie
I sotterranei continuarono ad ospitare i detenuti, è facile intuire in che condizioni, per altri ottant’anni, fino al terremoto dell’11 settembre 1906 che costrinse il Comune a trasferire i detenuti nel confortevole ex convento di Santa Maria.
La scoperta dei graffiti fu casuale e legata all’intraprendenza dell’architetto Paolo Sillitto, dirigente del Comune di Pietraperzia,  e degli operai (Rocco Vinci e Salvatore Siciliano) addetti ai lavori di recupero del castello.
Levando le  macerie dei crolli che coprivano il piano, venne portata alla luce una botola che permetteva l’ingresso in un ambiente sotterraneo profondo un paio di metri.
Grazie ad una scala scesero nel sotterraneo e  gli operai si trovarono di fronte ad una impressionante serie di volti incisi nella roccia. Una visione lugubre perchè quei volti sembrava che guardassero dritto negli occhi dei due operai.



Con questi disegni i detenuti davano sfogo alla loro libertà manifestando le loro ansie, la loro disperazione.. erano dei messaggi incisi. Si esprimevano con segni perché molti erano analfabeti ed è ricorrente il simbolo della Croce. Un simbolo semplice da realizzare e presente nel cuore di ciascuna persona per il riferimento alla Passione di Cristo. Un riferimento che era sempre presente nella mente di questi poveri disgraziati che erano spesso in attesa del giudizio finale… la morte violenta per lo più con impiccagione.
Sono presenti delle date  forse collegate alla loro cattura o al giorno dell’esecuzione.
Qualcuno doveva avere una certa cultura e sensibilità con la creazione di espressioni legate alla complessità della loro anima.
Riaffiorano navi, animali e figure di non facile lettura che si susseguono una dopo l’altra disegnate da tanti secoli.
Una aspetto lega questi disegni: l’essere affidati ad una parete che è sovrastata da una frase che ricordava ai detenuti la giustizia della condanna che stavano scontando:

Si carceri non cà fossi, iusticia non fora
(se qua non ci fosse un carcere non ci sarebbe giustizia all’esterno)

Poco distante una scena che rappresenta una forza da cui pende un impiccato.

Tra i graffiti rinvenuti nelle segrete del Castello di Pietraperzia si distingue la rappresentazione di una condanna a morte per impiccagione

Le date leggibili si riferiscono agli anni 1516, 1560, 1569 e i graffiti riproducono imbarcazioni, scene di caccia e figure umane. Questo aspetto fa avanzare l’ipotesi della presenza nelle carceri di uomini che conoscevano la navigazione ed i paesaggi africani.
Nella Sicilia del Cinquecento erano presenti circa 12.000 africani provenienti dalle regioni sudanesi. Una presenza che non era legata ad un flusso migratorio ma al commercio degli schiavi che in quel periodo era molto fiorente.

Alcuni graffiti sembrano rappresentare scene di caccia ambientate in luoghi esotici. Non è escluso che qualcuno dei 12.000 schiavi sudanesi presenti in Sicilia nella metà del ‘500 sia stato imprigionato nelle segrete del Castello di Pietraperzia.

Tra gli uccelli domina la figura del pavone insieme a stelle, scudi araldici e croci.
C’è anche una croce a doppia traversa, simile a quella di Lorena, simbolo cui erano devoti i duchi d’Angiò e che richiama a filosofie orientali.
In merito al pavone la sua ruota dovrebbe esprimere l’immensità dell’universo nella cultura degli alchimisti musulmani. Un uccello “dai cento occhi” che richiamano il sole, la luna, le stelle e la volta celeste. Anche nell’arte protocristiana, ad esempio, i pavoni bianche erano utilizzati per rappresentare il Cristo.

Le date, secondo il ricercatore Vincenzo Sottosanti, coinciderebbero con la fase più tormentata della navigazione mediterranea. Nel XVI secolo le coste della Sicilia erano sempre minacciate da frequenti incursioni di pirati e corsari musulmani che avevano le loro basi nel Nord Africa. lo storico Vincenzo Sottosanti
La navigazione commerciale era insicura e le sempre più frequenti razzie nei centri costieri della Spagna e della Sicilia spinsero la Corona di Spagna ad organizzare spedizioni militari per neutralizzare il fenomeno della pirateria e riconquistare il controllo del Mediterraneo.
Nel 1530, Re Carlo V attaccò e conquistò Celcel, una città ad ovest di Algeri, covo del temuto corsaro Barbarossa. La vittoria venne considerata un grande successo ma nel 1534 Barbarossa dimostrò il suo valore occupando Tunisi. Carlo V fu così risoluto nelle sue intenzioni che nel 1535 con una possente flotta condusse personalmente un attacco contro Tunisi distruggendo la città.
Nel saggio “Corsari e schiavi siciliani nel mediterraneo”,Giuseppe Bonaffini– professore di Storia dell’Africa mediterranea dell’Università di Palermo – osserva che quasi tutte le città marinare della Sicilia divennero centri propulsori della fiorente pratica marinara che in breve rivelò il suo stretto legame col mercato della schiavitù.
Un mercato che portò notevoli vantaggi funzionali al sistema produttivo isolano almeno sino al XVI secolo, risultando “un non disdicevole investimento”.
Anche i nobili trapanesi non disdegnarono d’investire i propri capitali armando navi corsare per ottenere guadagni elevatissimi. E’ probabile quindi che tra i tanti schiavi presenti in Sicilia qualcuno sia finito in carcere per aver tentavano la fuga o per aver commesso reati ai danni del padrone.
Persino il vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo ebbe modo di constatare personalmente quanto fosse pericoloso avventurarsi per mare. Nel giugno del 1561 la nave che lo stava trasportando a Napoli venne assaltata al largo di Lipari dal corsaro Dragut e l’alto prelato fu costretto a trascorrere dieci mesi di prigionia a Tripoli nell’attesa che fosse pagato il riscatto per la sua liberazione.
Per impedire che pirati e corsari continuassero a compiere scorrerie e razzie nei borghi marinari il vicerè Giovanni de Vega, nella metà del Cinquecento, potenziò il sistema di difesa delle coste siciliane facendo costruire nuove torri d’avvistamento, ma ciò non bastò ad evitare episodi come quello dell’11 luglio 1553 quando Licata fu distrutta da corsari turchi e centinaia di abitanti fatti prigionieri o ancora episodi come quello del giugno 1596 quando lungo il litorale di Scicli 11 ragazzi sparirono misteriosamente, forse catturati e fatti schiavi da pirati barbareschi.
Non sempre i predoni avevano la meglio. Le cronache raccontano che nel 1553, nei pressi di Modica, gli uomini del terribile corsaro Dragut caddero in un’imboscata in cui rimasero uccisi in 40 ed a centinaia fatti prigionieri. Non è escluso quindi che anche nelle segrete del castello di Pietraperzia siano finiti pirati e corsari che ben conoscevano gli animali e i personaggi incisi nelle pareti della prigione che rimandano ad ambienti esotici come quelli africani. Ma come facevano i carcerati che si trovavano in condizioni disumane a trovare quella serenità mentale necessaria per incidere pazientemente la roccia?
La risposta può essere trovata in un’antica canzone siciliana recita
cu dici ca lu carcere è galera?
per sottolineare la consapevolezza che il carcere non era la peggiore delle sorti per chi incappava nelle maglie della giustizia del tempo.
Ancora peggio del carcere c’era la galera, “la pena del remo”.
Nel medioevo ed in epoca moderna molti crimini si scontavano non con la detenzione ma con il lavoro di rematore a bordo delle galere, il che era molto spesso una vera e propria condanna a morte.
Le galere furono la naturale evoluzione delle navi dell’antichità; avevano propulsione mista: a vela ed a remi e si distinguevano per velocità e facilità di manovra, caratteristiche che le resero ideali per il combattimento a mare. Conobbero il loro apice nella metà del XVI secolo, proprio nel periodo a cui si riferiscono le date rinvenute nella prigione sotterranea del castello di Pietraperzia, erano lunghe circa 50 metri ed avevano un equipaggio complessivo di circa 220 uomini. I rematori erano circa 150 ed appartenevano a tre categorie: schiavi, galeotti e buonavoglia. Le prime due categorie erano costituite da forzati tenuti giorno e notte legati con una catena alla panca in cui sedevano, i buonavoglia erano volontari disposti a remare per guadagnare qualcosa. La vita di bordo era terrificante, s'andava incontro a fatiche animalesche, a trattamenti disumani e, soprattutto, al rischio di morire in battaglia o di annegare.

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Che altro dire su questo questo immenso patrimonio culturale che è stato oggetto nel tempo di azioni vandaliche epresse con l’abbadono e le devastazioni.
Se tornassero in vita  quelle anime che hanno vissutto in questi ambienti, tra gioie e dolori, tra intrighi e passioni, tra  studi e ricerche, resterebbero allibiti davanti al suo aspetto attuale.
Com’è possibile ?
Una risposta legata alla coscienza umana così difficile da seguire….
Quello che resta è in ogni caso il segno di un glorioso passato dove la Sicilia era al centro dell’Europa con le sue iniziative architettoniche,  con la sua cultura che rese Palermo una delle capitali più prestigiose d’Europa.
Le brave guide di Pietraperzia vi sveleranno altri aspetti del castello che non ho citato e di cui non sono a conoscenza.
Resta  la speranza che con le nuove scoperte si possa dare un ulteriore spinta alla valorizzazione del castello e soprattutto del territorio di Pietraperzia con i suoi importanti aspetti archeologici, culturali e religiosi.

Ho iniziato la ricerca con una poesia di uno scrittore siciliano dimenticato e concludo  con una frase tratta da una novella siciliana del secolo XIII“
“Gualtiero” Di Giuseppe De Spuches .

Ancora una volta un grande poeta siciliano ripreso dall’oblio. Principe di Galati e duca di Caccamo (Palermo, 8 luglio 1819; Palermo 12 novembre 1884) marito della poetessa Giuseppina Turrisi Colonna, morta undici mesi dopo il matrimonio. Un grande poeta anche nelle versioni dei classici greci e nei carmi in latino scritti con estrema facilità e con  una sua impronta legata alla novità dell’argomento e della forma. Un grande esponente della cultura siciliana dell’Ottocento….. studiato e conosciuto da chi ?



Giuseppina Turrisi Colonna
La Poetessa Rivoluzionaria


"Nè di Pietraperzia torbido e lento
il popolo a seguir costui si rende;
Pietraperzia leggiadro, e forte arnese,

Che sta nel core al siculo paese."

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