Monte San Basilio (Lentini) ...Un sito dimenticato..

 









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Indice:

1.      Il Sito
2.      Le Citazioni;
3.      Gli scavi di Paolo Orsi
4.       La Tomba del duce ignoto – La corazza
5.      Le capanne del 2000 a.C.
6.      Gli scavi della prof.ssa Sebastiana Laganà – Le grotte e il piccolo santuario di Demetra
7.       L’edificio sotterraneo
8.      Gli affreschi bizantini
9.      L’edificio sotterraneo era una cisterna ?
10.   Il termine Brikinnia
11.  Quando fu distrutta Brikinnia
12.  Il Feudo di San Basilio
13.  Elena Thovez a Scordia..una donna di grande cultura. I Thovez amministratori della Ducea di nelson
14.  Scordia. I Palazzi De Cristofaro
15.  Geologia di Monte San Basilio –  i Vulcani
16. 
La Storia

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1.      Il Sito

Lungo la strada che da Catania conduce a Gela (SS 417), 5 km dopo la base militare di Sigonella, sulla sinistra si nota una montagnola dalla caratteristica forma trapezoidale che si erge isolata.
È  Monte San Basilio, detto anche il “Colle delle Colonne”, alto 223 m. s.l.m. alla cui destra si trova un’altra piccola montagnola detta “Monte Serravalle” alto 242 m s.l.m.



Dalla Strada Statale (SS417) (Catania Gela)  dopo aver superato la Base Militare di Sigonella, s’imbocca sulla sinistra la Sp 69 II che attraversa la vallata.
Si può raggiungere anche dalla Strada Statale (SS385) (Catania Palagonia).  Giunti alla Stazione di Palagonia, in corrispondenza del bivio per Scordia, proseguire per Palagonia e sulla destra apparirà l’imbocco per la Sp 69 II.

Il Monte è posto a Nord di Scordia. ricade nel territorio del Comune di Lentini,  e visto da lontano ha qualcosa di misterioso e affascinante proprio per la sua particolare configurazione trapezoidale, posto a guardia dell’immensa Piana di Catania e facente parte degli antichi “Campi Leontini”.

I suoi fianchi sono scoscesi e quasi inaccessibili e il pianoro sul colle si può raggiungere da Sud-Est e Sud-Ovest grazie ad una stradella di proprietà privata, (un tempo proprietà del barone De Cristofaro).





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2.      Le Citazioni

Il colle ha attirato fin da epoca molto antica l'attenzione di viaggiatori e studiosi di antichità per le sue vestigia imponenti.
Fu citato già nella seconda edizione delle “Decadi” del Fazello, curata da Vito Amico (1749), con il nome di “Scordiae oppidum” e poco dopo nel “Dizionario Topografico” di Vito Amico (1757).


Tommaso Fazello o Fazzello
(Sciacca, 1498 – Palermo, 8 aprile 1570)
Presbitero, storico e antiquario



Vito Amico oltre alle grotte e alle mura, ricordò con il nome di “Basilica” una grande costruzione rettangolare scavata nella roccia del pianoro alla sommità del colle, con un tetto a larghi lastroni sorretti da pilastri anch’essi ricavati dalla roccia. Il  sito fu oggetto d’indagine da parte del Principe di Biscari  (1781) e  da J. Houel (1785).

Ignazio Vincenzo Paternò Castello
V Principe di Biscari
            (Catania, 24 maggio 1719 – Catania, 1 settembre 1786)

Dal "VIAGGIO PER TUTTE LE ANTICHITA’ DELLA SICILIA" DI
IGNAZIO PATERNO’, PRINCIPE DI BISCARI, leggiamo:

"In questo territorio (Di Lentini), nel feudo chiamato la Castellana, in una lunga collina detta di S. Basilio, esiste tagliata nella viva rocca una capacissima Conserva d'acqua, la quale facilmente ha deluse le ricerche dei Viaggiatori, per restare sepolta nelle viscere della collina medesima, non mostrando alcun sollevato indizio, e per restare fuori di strada.
"Trovato questo luogo, scenderà (Il Viaggiatore) in essa per comoda scala: vedrà uno scavo maestrevolmente eseguito nella viva rocca. Il suo vano totale è di canne 9 siciliane, e largo 7 e due palmi, ed alto palmi 22 circa. E' coperto tutto questo vano da un gran palco sostenuto da 30 pilastri, ciascheduno de' quali è formato di tre sole pietre; due meno grandi, che sono la inferiore e la superiore, di quattro palmi ogn'una: e palmi dieci quella di mezzo; conservandosi in tutti i pilastri la medesima disposizione. Sopra questi posa a traverso un'altra pietra, che per così dire forma il capitello, lunga palmi 7, che serve per stringere il vano tra pilastro e pilastro; e sopra queste corre una catena di simili sassi, che formano un lungo architrave sopra ciascuna pilastrata; che in numero di sei dividono la Piscina in sette navate, larga ciascuna palmi sette.
"La metà della lunghezza della prima di queste navate è occupata da larga scala, che dava il comodo d'attingere l'acqua; la quale è larga palmi dieci, formata di 27 scalini, l'ultimo de' quali resta 4 palmi sopra il pavimento. Sebbene la navata non sia più larga di palmi sette, la scala però è di palmi 10, essendo i palmi 3 incavati nel lato corrispondente."
"Dalla parte opposta alla scala vi sono della stessa fattura due piccole stanze, o vani, larghe palmi 10, e 12 lunghe; in una delle quali a pian terreno si osserva una tomba lunga palmi 8, e 4 larga. Questa se non è opera posteriore, potrai' credervi essere il ricettacolo delle deposizioni dell'acque; quivi calando per causa forse del declive del pavimento".
"La volta, o per meglio dire, il solare, che copre questo monumento, è tutto formato d'intere pietre di eguale misura: sono queste di palmi 9 di lunghezza, e 2 di grossezza, ben lavorate da tutti i lati.
Riposano queste sopra i sottoposti architravi che hanno palmi due di larghezza; in maniera che situati perfettamente l'uno accosto all'altra, posando un palmo per testa sopra l'architrave sudetto, ed attestando un ordine coll'altro cuoprono i 7 palmi di vano delle  navate, formando estesissimo palco.
"Ne' dee il viaggiatore stupirsi trovando un'opera di tanto laboriosa manifattura in una aperta campagna: più tosto la creda un comodo necessario per grossa popolazione, della qual cosa resterà persuaso, osservando nella medesima non piccola collina, e nelle vicine elevazioni centinaia di case: e molte di più stanze dello stesso modo intagliate nel sasso, che furono certamente abitate da riguardevole popolazione".

Jean Pierre Louis Laurent Houel ( (Rouen, 28 giugno 1735 – Parigi, 14 novembre 1813), famoso incisore, pittore e architetto francese,  disegnò il monumento più importante del sito, una costruzione sotterranea a pilastri, interamente scavata nella roccia.
Fece anche una breve relazione descrivendo il monumento nel suo  “ Voyage pittoresque des isle de Sicilie , de Malte et de Lipari” (1785) dove riportò i luoghi visitati  in Sicilia nel 1777.

Non ho potuto rappresentare questo luogo sotterraneo-una specie di scantinato-se non mostrando nello spaccato. La sua pianta è quadrata. Guardate A nella parte in basso della stampa. Vi si discende da una scala B, che si scorge nell'angolo a destra, attraverso i pilastri conclusi da elementi lapidei che sostengono grandi pietre. Queste, imitando le travi, sorreggono delle piccole pietre che si alternano ad esse. Molte lastre mancano, e io raffiguro l'insieme nello stato di degrado in cui è pervenuto. C'è una grande porta, un ridotto in cui si vedono ancora delle pitture: vi si celebrava la messa nel periodo in cui devoti di San Basilio occupavano questo luogo. ”Ho inserito nella stampa la pianta dell'edificio con il proposito di dare un'idea esatta della sua forma e dei suoi dettagli: D è il posto in cui si celebrava la messa. Si vede chiaramente un sarcofago nel luogo contrassegnato con E, la cui entrata è ricurva. Credo tuttavia che i sarcofagi scavati nella pietra siano posteriori al tempo in cui l'edificio fungeva da serbatoio, e che siano stati realizzati dopo la trasformazione in chiesa. Sono convinto che l'edificio fosse in origine una magnifica cisterna; ma ciò non deve stupire: gli antichi amavano dare a tutto ciò che creavano delle belle forme e sapevano abbinare la solidità al buon gusto. Alla base di questa montagna si ritrovano ancora delle vaste grotte, di cui una parte è adibita a sepolcri. Ciò prova che questo era il sito di una città. Lo testimoniano le dimore appena descritte che, presenti sulla cima della montagna, ne costituivano la parte principale.”
« Questi resti rappresentano un bellissimo edificio di cui tutto ignoto, persino il nome.
 L'edificio delle strutture che lo circondano non potevano essere che
la residenza di signori nobili e benestanti.”
Riportò anche la presenza di numerose cisterne..
“Montagna vulcanica e isolata.. con resti di bellissime abitazioni, cisterne
e grotte usate come tombe......quattro o cinque cisterne
o serbatoi degni di essere citati per la loro grandezza e profondità”
Quella che io presenti convincerà per la bellezza della sua costruzione che l’edificio per il quale essa fu fatta, con tante cure e spese, non poteva essere che un edificio considerevole; cosa che è ancora attestata da grotte, tagliate in una roccia calcarea prodotta da depositi marini.. per porvi delle tombe”.





Bellissimi disegni di Houel che si trovano in gran parte
all’Hermitage a San Pietroburgo

Jean-Pierre Houël

Nel 1861 il Sacerdote Mario De Mauro, un erudito locale, pubblicò quello che si potrebbe definire come il primo studio sulla storia del sito. Uno studio molto accurato, accompagnato anche da importanti disegni. che ricopriva tutti gli aspetti dell’area: archeologico, geologico, storico, antropico...

3.    Gli Scavi di Paolo Orsi

Alla fine del secolo scorso il famoso archeologo Paolo Orsi avviò degli scavi archeologici ed esattamente nel 1899 e nel 1922- 24.



L'archeologo Paolo Orsi



Dal punto di vista topografico nel descrivere la zona archeologica in merito al monte scrisse:

la formazione del colle visto da Sud-Est è quella di un trapezio, mentre in  planimetria
è una cornucopia colla bocca a Sud e la punta a Nord-Est.......
il colle è formato per metà da un sollevamento calcareo interposto tra due
masse basaltiche. I suoi fianchi sono quindi scoscesi, quasi inaccessibili per
enormi scarpate, coronate da piccole serie frastagliate.
Vi si accede meno a disagio da Sud-Est e Sud-Ovest per due viottoli che
salgono per uno sperone proteso; da tutti gli altri lati, specialmente
da Nord e Nord-Ovest è assai faticosamente inaccessibile, quasi impossibile poi
di forza o di inganno. Di lassopra, magnifica vista sul versante Sud
dell’Etna, su tutta la Piana di Catania, sul centro della Sicilia sino
a Castrogiovanni e sul bacino di Lentini.
Il luogo era assai acconcio per un luogo di osservazione e per una
piccola fortezza che al Monte Serravalle il quale sta a sinistra,
sé più basso, e quindi il S, Basilio resta isolato e fortissimo”.

Il luogo per le ricerche archeologiche presentava delle gravi difficoltà legate non solo alla natura topografica del terreno ma anche all’accessibilità nella zona di studio, tanto che lo stesso Orsi  definì la campagna di scavi come

Una disgraziata compagna topografica più che uno scavo;
il quale mi venne impedito dalla diffidenza e malafede degli uni, e dalla ignoranza degli altri”.

Le sue importanti ricerche rilevarono diverse fasi di vita del sito:

-          Età del Bronzo,  rinvenimento di una capanna risalente al periodo di Castelluccio (espressione dell'Antica Età del bronzo siciliana, situata nel periodo cronologico: 2300 a.C. - 1700 a.C. circa);
-          Arcaica, con una necropoli indigena e il rinvenimento come materiale ceramico di 4 anfore;
-          Protoclassica, costituita da una cinta muraria e da costruzioni sotterranee;
-          Ellenistica, necropoli;
-          Bizantina,  escavazioni nella roccia.

Gli scavi  rilevarono quindi una continuità di vita molto ampia e  decisamente importanti furono anche i rinvenimenti della cinta muraria e della costruzione sotterranea a pilastri.







La cinta muraria scoperta dall’Orsi si sviluppava lungo il limite Ovest del pianoro ed aveva al centro un passaggio, un ingresso. Costruita con grandi blocchi regolarmente squadrati e collocati con una tecnica simile a quella di Leontinoi.

L’attenzione dell’ Orsi fu rivolta allo studio della grande costruzione sotterranea, scavata magistralmente nella roccia, costituita da una grande sala rettangolare, (18 x 16) m con ben trenta pilastri, anch’essi ricavati nella roccia, con scala d’accesso e copertura realizzata con grandi lastroni della stessa pietra calcarea.







Scala d’Ingresso all’edificio sotterraneo








Una costruzione unica in Sicilia e che trova dei confronti con altre interessanti costruzioni presenti in aree che si affacciano nel Mediterraneo. 

Paestum

Si tratta di una galleria sotterranea che occupa lo spazio
tra il tempio di Nettuno e il tempo noto come Basilica, nel santuario
meridionale  di Paestum. Questa galleria era nota sin dall’Ottocento ed è
accessibile attraverso quattro pozzi. Ha una lunghezza di circa 50 m ed è percorribile
(al momento, per motivi di sicurezza, solo da tecnici addetti allo studio della struttura).
La presenza di malta idraulica, che riveste interamente le pareti della struttura,
lasciano ipotizzare la possibilità che sia stata usata nell’antichità come cisterna.
“A Paestum l’approvvigionamento delle acque rappresentava una criticità – spiega il direttore del Parco archeologico, Gabriel Zuchtriegel - l'acqua del Capodifiume era malsana e i pozzi non risolvevano il problema perché l’acqua di falda tendeva
a essere salmastra vista la vicinanza della città al mare. Così, raccogliere l’acqua piovana che scorreva dai tetti dei due templi più grandi della città in una grande cisterna poteva essere una buona idea, anche se ancora ci mancano dati precisi sulla cronologia della struttura".
Come sottolinea il funzionario archeologo del Parco, Francesco Scelza, la posizione della cisterna all’interno del grande santuario urbano della città antica non è casuale:
“Nei riti antichi, l’acqua giocava un ruolo fondamentale, anche se, spesso, non è facile distinguerne un uso cultuale da un uso corrente. La cisterna ipogeica del santuario meridionale di Paestum era nota già dai primissimi scavi dell’inizio del ‘900 ma finora è stata esplorata solo in parte”.
È un monumento che come pochi altri illustra come i templi fossero parte di una società, di un’economia e di una vita quotidiana nella quale la gestione delle acque rivestiva un ruolo centrale, dalla bonifica della piana da parte dei coloni greci fino all’impaludamento nell’Alto Medioevo. La storia di Poseidonia, come abbiamo raccontato in una mostra recente su archeologia e cambiamenti climatici, è anche la storia del rapporto tra la comunità e l’acqua”.
Sono state rilevati nella struttura anche dei graffiti che i viaggiatori
dell’ottocento e del Novecento hanno lasciato sulle pareti della galleria,
alcuni sono anche datati. Il più antico risalirebbe al 1855.

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Cisterna di Qormi (Malta) ?


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Cisterna di Thera (Santorini) – Grecia




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Basilica Sommersa di Istanbul (527 d.C.)

La Cisterna Basilica (Yerebatan Sarnıcı) (Cisterna sommersa o palazzo sommerso “Yerebatan Sarayı” è la più grande cisterna ancora conservata ad Istanbul.
Fu scoperta sul finire del XX secolo e fu costruita dall’imperatore Giustiniano I
nel 532. Uno spazio sotterraneo di (140 x 70)m con dodici file di 28 colonne alte
9 metri e distanti tra loro 4,90 m. i capitelli sono in parte ionici, in parte corinzi
e con qualche presenza di stile dorico. Sono presenti anche delle colonne
con capitelli non decorati.  Questa diversità artistica di decorazione
dimostra come le colonne furono prelevate da altri templi andati forse distrutti.
I muri perimetrale sono in mattoni e presentano uno spessore di 4 metri e
le pareti sono rivestite con malta impermeabile.
Una cisterna che era alimentata dall’acquedotto di Valente, uno dei più
lunghi della romanità che portava acqua fin dalla foresta di Belgrado.
Poteva contenere fino a 80 milioni di litri d’acqua.
È visitabile ed in ottimo stato conservativo tanto che nello strato d’acqua
vivono numerosi pesci.

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Cisterna di El Jadida in Marocco (XV secolo)


La cisterna fu costruita nel 1514 dai Portoghesi e scoperta per caso nel 1916.
Una sala che fu forse utilizzata in origine come arsenale e magazzino e successivamente
trasformata in cisterna. Costruita all’interno di un elegante edificio, è costituita da
una grande sala quadrata di 34 mq e sostenuta da cinque campate di colonne
e pilastri. Al centro un apertura, sopra ad un bacino, lascia filtrare
della luce  che riflette nell’acqua stagnante le colonne e le volte
creando uno spettacolo magico ed irreale.

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La Piscina di Siracusa


Piscina (?) di Siracusa che citerò più avanti.

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L’Orsi definì questa costruzione sotterranea del Monte San Basilio come una “conserva d’acqua”.
Ma le scoperte non finirono qui. Il sito presenta, forse ancora oggi, degli aspetti che non sono stati ancora rilevati e che dovrebbero essere indagati per creare un sua identità storica. 

4.     La Tomba del Duce Ignoto

L’Orsi continuò negli scavi e riportò alla luce una tomba che chiamò “Tomba del Duce Ignoto”..
Altre fonti citano invece la tomba presente all’interno della struttura sotterranea.
Comunque nel suo quaderno di scavi l’archeologo riportò il momento emozionante dell’apertura della tomba:

Sulla scarpata orientale del colle gli abitanti di Brikinnia avevano installata la loro necropoli […]. Fu in questo punto che il giorno 13 maggio u. s. alla presenza di Donna Maria De Cristofaro si procedette allo scoprimento del Sepolcro del Duce Ignoto, come io ho voluto fosse chiamato.


Pendici orientale del Colle San Basilio.
(In rosso le tracce del muro di cinta orientale del pianoro)

Dentro la tomba trovò un’Armatura di Bronzo che è conservata nel bellissimo e importante Museo Archeologico Regionale “ Paolo Orsi” di Siracusa.
Oltre alla corazza furono rinvenuti un cinturione e alcune punte di lancia.






Fu rinvenuta nel 1922  ed è un tipo di corazza anatomica di bronzo, tagliata all’altezza dell’ombelico,  che era molto diffuso nell’area italica (in particolare in Campania e Lucania) nel IV secolo a.C..
Per questo motivo fu avanzata l’ipotesi che potesse appartenere ad un mercenario campano o lucano che venne sepolto nella struttura sotterranea verso la seconda metà del IV secolo a.C.... dopo il 350 a.C.,,,,,, oltre 2300 anni fa....
Il suo corredo funerario era molto ricco perché oltre alla  corazza erano presenti:  un cinturone italico a fascia liscia in lamina di bronzo “con ganci a corpo di cicala e terminanti a punta di freccia”, delle lance di cui si sono trovate le punte e una daga ricurva di ferro e che solitamente è in dotazione alla cavalleria.
Oltre a questi reperti, di chiara espressione militare, c’erano: una “brocchetta spargisabbia” in vernice nera;  uno strigile, raschiatoio incurvato di bronzo, che serviva a detergere il corpo da sabbia, pomice e sudore; un’anfora a figure rosse di produzione siceliota in cui era raffigurato il colloquio tra una donna ed un atleta, testimonianza dell’adesione del defunto agli ideali dei giochi degli atleti greci.
Chi era questo guerriero del IV secolo a.C.? Un cavaliere capano o lucano giunto in Sicilia e comandante della piazzaforte militare sul Monte San Basilio ?
Forse non lo sapremo mai... il suo nome è purtroppo scomparso nel nulla...

Il corredo funerario della “Tomba del Duce”

Cinturone – Strigile – Piastre Quadrangolari in bronzo
Sostegno di Lucerna – Spada – Frammenti di Lance e Pugnali in ferro 





Myke – Brocchetta “spargisabbia” baccellata – Boccaletto baccellato
Lucerna – (Tutti i reperti sono a vernice nera)



Anfora Siceliota del Pittore di Lentini
(Dalla “Tomba del Duce” – Tomba N. 5  (?) –
Contrada “Fossa” – Monte Casale di San Basilio
Numero Inventario ; 42853)

Il Pittore di Lentini fu attivo durante  gli ultimi due quarti del IV secolo a.C.
Decorò molti lebeti nuziali, lekanines e anfore. Il soggetto preferito era
costituito dagli eroti associati a delle donne sedute che avevano la
parte superiore del corpo scoperta. Le donne hanno i capelli raccolti in
sakkos sopradipinti di bianco. Sullo sfondo compaiono spesso
rosette, puntini e grappoli, un artista che si distacca dai modelli attici
che erano presenti  nella ceramica di produzione proto-siceliota.



5.     Le Capanne del 2000 a.C.

L’Orsi mise in risalto come il centro avesse avuto  una notevole consistenza già nella prima età del bronzo (agli inizi del secondo millennio a.C.) continuando a fiorire nelle epoche successive .
Le capanne rivenute dall’Orsi furono datate al “Siculo I” corrispondente cioè all’ultima fase castellucciana. Di una delle capanne l’archeologo trovò 
metà del muro perimetrale piantato sopra uno spianamento di roccia vulcanica decomposta,  con un’asse interno di 6,27 metri... a ridosso della capanna era una specie di abside o cortiletto”.

Area del Castellaccio di Lentini, Paolo Orsi, R Carta, R Santapaola
Fu proprio l’archeologo Paolo Orsi che pose le basi scientifiche per
lo studio delle popolazioni indigene della Sicilia. Sulla base dei dati raccolti
nei sepolcri e nei riti funebri, l’Orsi considerò tutte le popolazioni preistoriche
della Sicilia come facenti parte di un’unica entità culturale ed etnica.
Distinse quattro fasi della cultura preistorica della Sicilia:

Periodo Litico (Presiculo) : Palazzolo Acreide; mura di Dionisio; Santa Panagia; Tremilia; Cava del Filosofo, presso l’Epipole; Stazione neolitica di Stentinello;
Rinvenimenti: asce basaltiche, grotte naturali ad uso di abitazione umana, coltelli di silice, coltelli di ossidiana, schegge, resti di ossa di bruti, selci lavorate, avanzi di pasti e dell'industria

1º Periodo Siculo (età del rame e prima età del bronzo):
Necropoli di Melilli, Necropoli di Bernardina, Cava della Signora (Castelluccio), Scarichi del villaggio siculo di Castelluccio, Cava della Secchiera.
Rinvenimenti: coltelli di selce, ciottoletti forati ad uso di pendaglio, grotte a forno, scarso il bronzo, vasi mal cotti non torniti, cadaveri accoccolati scarniti, lame di selce presso i cadaveri, vasi nelle celle, potori cilindrici, calice a doppio manico, ossa ridotte ad utensili domestici, vasi mono e bicromici, rare anse, decorazione geometrica elementare

2º Periodo Siculo (età del bronzo):
Necropoli del Plemmirio, Necropoli del Molinello, Necropoli di Cozzo del Pantano, Tomba di Milocca, Necropoli di Pantalica, Necropoli di Thapsos.
Rinvenimenti: modificazioni delle tombe a forno che diventano piccoli tholoi, bronzo, ceramica né a tornio né a forno, decorazioni a stecco, vasi a calice, a decorazione geometrica; tecnica grezza, tende a scomparire l'antica pittura vascolare

3º Periodo Siculo (età del Ferro)
Necropoli di Tremenzano, Necropoli del Finocchito
Rinvenimenti: cadaveri distesi, non rannicchiati, lame di bronzo, pugnaletti di bronzo, tombe a forme rettangolari, asce o scalpelli di ferro, scarabei, scomparso lo scarnimento, Industria ceramica locale coesistente con quella straniera (vasi proto ellenici siculi)

Anche se non conosciamo l’estensione vera del villaggio castellucciano, del quale l’Orsi individuò solo qualche capanna posta sul pendio Nord-Orientale del colle, si può supporre che avesse una notevole consistenza, dato il numero ragguardevole di frammenti ceramici e di piccoli oggetti di selce e ossidiana sparsi sul terreno del colle e in particolare  nella zona Nord.
Nello strato soprastante una capanna sicula, l’archeologo rinvenne quattro grandi anfore di forma globulare alte 55 cm;  incuneate con quale zeppa di pietra. Dalla presenza di resti di ossa cremate nel fondo di una di esse, l’Orsi trasse la conclusione che fossero state usate come urne cinerarie. 
Si ritiene che il villaggio preistorico sia stato in parte cancellato dagli insediamenti successivi, com’è avvenuto nella punta Nord-Orientale, dove fu scoperta successivamente un unità abitativa medievale.








L’Orsi riportò nel suo quaderno degli scavi in merito alle pendici orientali del Monte:
la pendice orientale del monte formante un rampante di detriti
contiene la necropoli ellenistica e poco sotto di essa un profondo vallone,
squarciatura delle rocce vulcaniche, formava con la fossa naturale di esso;
sul lembo superiore di questo, cercando in un ripiano di sepolcri greci,
ci siamo imbattuti in detriti di vita Sic. I”.

Alla base della parete del “profondo vallone, squarciatura delle rocce vulcaniche”, s’apriva una breve galleria a sezione trapezoidale dalla quale sgorgava una piccola sorgente “d’acqua bevibile che alimentava una macchia di verde, tra cui un albero di fico, elemento botanico insolito in una zona così arida.
Questa sorgente ere probabilmente utilizzata sia in epoca greca che preistorica dalle genti che vivevano sul pianoro.
Forse la sorgente subì, con la costruzione della piccola galleria, l’intervento greco.
Durante la ricognizione delle basse pendici del monte, l’Orsi non escluse che la necropoli greco arcaica del VI – V secolo, soprastante l’insediamento Siculo I del Bronzo inziale, possa essere stata distrutta da precedenti “ricercatori” (tombaroli).
L’archeologo era impegnato nel liberare la capanna dai detriti e rinviò la ricerca della necropoli greca dove erano presenti delle sepolture per bambini posti dentro delle anfore.
Molti erano i detriti di vita risalenti al periodo Siculo I.
Nel 1922 furono ripresi dallo stesso Paolo Orsi le ricerche archeologiche sul sito.

“Tutta l’area che doveva comprendere il villaggio “castellucciano” era stravolto dall’azione di macchine escavatrici. Lunghi e profondi camminamenti, a mo’ di trincea, erano stati realizzati evidentemente da altri “ricercatori”, proprio alla ricerca di materiale greco, e forse non solo greco, da trasferire ai mercati clandestini.
È certo comunque che una massa di materiali preistorici, litici e fittili, di poco o nullo interesse per gli scavatori, fu abbandonata sul posto.
Un discreto campionario di tali materiali, attribuibili al Bronzo antico, furono recuperati e sottoposti a studio. Si tratta di due frammenti di corni fittili “votivi”, di strumenti di basalto, di selce e di numersi frammenti di vasi di ceramica decorati secondo lo stile “castelluciciano” definito nella Sicilia Occidentale”.

Corno fittile votivo di basalto



Basalti

Industria litica (Selce)


Industria litica

Il grande studioso, grazie alle sue scoperte, si propose di continuare le ricerche sperando di riuscire a riconoscere e ad identificare, in quelle testimonianze, l’antica Brikinnia che era citata dalle fonti storiche. Il suo tentativo fu vano perché non riuscì a raggiungere i suoi obiettivi.
Le indagini archeologiche sul monte finirono e furono riprese nel 1980 grazie alla Soprintendenza Archeologica di Siracusa che affidò le ricerche all’Istituto d’Archeologia dell’Università di Catania con la direzione della  Prof.ssa Sebastiana Lagona.

6. Gli Scavi sotto la direzione della Prof.ssa Sebastiana Lagona

Il sito veniva  studiato da un altro grande esponente dell’Archeologia.
Era Professoressa Emerita dell'Università degli Studi di Catania,
dove ha insegnato per oltre trent'anni Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana
e Topografia antica. Gli interessi scientifici di Sebastiana Lagona furono rivolti soprattutto
alla Sicilia e al Sud Italia (con le ricerche nel territorio di Caltanissetta, Lentini,
Scordia e Cosenza) e alla Turchia (con gli scavi della Missione archeologica italiana a Iasos e a Kyme).

Gli scavi furono avviati grazie ai finanziamenti del M.P.I e del C.N.R e con piccoli importanti contributi dei Comuni di Lentini e Carlentini. Le indagini confermarono l’esistenza delle fasi che erano state individuate dall’Orsi e furono riportate alla luce nuove costruzioni con l’acquisizione d’importanti dati.
Della cinta muraria individuata dall’Orsi e datata al VI secolo a.C., si conosceva un lungo tratto che seguiva il limite  del costone rocciose, posto ad Ovest del pianoro, e con un apertura in corrispondenza del punto vicino alla costruzione sotterranea. Si operò uno scavo sul limite Est del pianoro riportando alla luce un tratto di muro con un ingresso in corrispondenza di una stradella che saliva, con un andamento molto tortuoso a “zig-zag” dal pendio.
Le ricerche permisero anche di stabilire come la cinta, costruita tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C.. fu oggetto di una ricostruzione nel IV secolo a.C.
La cinta, conservata per più tratti, recingeva tutta la collina. Il tratto meglio conservato è quello Sud – Ovest, quasi rettilineo e lungo circa 65 m.  di esso rimangono per buona parte quattro filari di blocchi; all’estremità settentrionale di questo tratto, notiamo all’esterno, un breve muro lungo poco meno di 3 metri, in corrispondenza di un apertura della cinta stessa da cui dista appena un metro e la cui funzione probabilmente era quella di difendere l’ingresso.
Il muro è stato rimaneggiato in età moderna, si attende un’ulteriore scavo per definire il sistema di difesa della porta, che dall’esterno sembra avere una costruzione quadrata (torre).
Muro alto forse già in origine mentre il tratto Nord -Ovest, rimasto per circa 35 m e rovinato per l’asportazione dei blocchi.. presenta  un solo filare di blocchi in vista.
A Nord il pianoro era difeso da una scarpata ripidissima e quindi di accesso impossibile mentre a Sud si notano una serie di blocchi sparsi sul pendio (franati sia per cause naturali che per l’azione dell’uomo... i famosi “tombaroli” che hanno agito anche con ruspe) e tracce di una torretta  impianta su di un  tratto di roccia sporgente sulla scarpata con il piano livellato.


La tecnica di costruzione del muro di cinta era  quella a paramento esterno a grossi blocchi non molto regolari e con riempimento interno, abbastanza comune nella Sicilia Greca.
I grossi blocchi di arenaria dovevano provenire dalle cave situate sul monte Serravalle e in contrada Castellana,  tutte relativamente vicine.
La stessa tecnica del taglio dei blocchi presenta  il grandioso monumento sotterraneo che l’Orsi indicava come una cisterna.









La base del muro di cinta

Canale di drenaggio delle mura di cinta

Un ulteriore scavo eseguito sul limite Ovest del pianoro permise di portare alla luce un piccolo santuario rupestre e una capanna preistorica.

Il piccolo santuario era costituito da due grandi grotte scavate nella roccia e da una serie di muri, costruiti con grossi blocchi di arenaria o ricavati dalla rocca. In quest’ultimo caso i blocchi erano simulati con incisioni sulla roccia stessa , al centro era presente una specie di altare rettangolare, anch’esso ricavato nella roccia con una gradinata dal lato Sud.
Furono rinvenuti dei reperti in gran parte costituiti da lucerne, statuette di terracotta che erano riconducibili al culto di divinità, forse Demetra. Un santuario  probabilmente legato alla costruzione sotterranea che si raggiunge attraverso un apertura posta in una delle grotte del santuario. Un’apertura forse ricavata in epoca moderna per ricovero di animali ?
Nell’edificio la prof. ssa Lagona non eseguì nessun saggio  perchè la copertura del locale era in cattive  condizioni strutturali e c’erano quindi dei rischi di crolli. A quando sembra nell’edificio furono poi eseguiti dei lavori consolidamento ma non ho notizie in merito a successive indagine archeologiche









Nell’area del santuario gli scavi permisero di riportare alla luce anche una capanna  preistorica per il rinvenimento di una serie di buchi per l’inserzione di pali che ne indicavano il perimetro. Un’area della capanna piuttosto piccola e da collegare alla fase di Castelluccio e quindi collegate, per il periodo temporale, a quelle che furono rinvenute dall’Orsi.
Nei presso della capanna  fu trovata una tomba, con uno scheletro rannicchiato, e con un coperchio in pietra,


Altra zona ricca di reperti, forse sconosciuta all’Orsi, fu identificata a circa 300 m a sinistra di chi osserva il Monte da est ed interrotta dallo strapiombo. Si tratta di una spianata simile a quella che l’Orsi trovò sulle pendici orientali del Monte.
I tombaroli  rivolti alla ricerca di un'altra necropoli greca da saccheggiare, scavarono nel piccolo strato di humus creando delle piccole aree d’assaggio. I molti materiali fittili del Bronzo antico, mancavano quelli d’età classica, furono recuperati e sottoposti a studio.
Tra i reperti fittili furono recuperati:

Boccale (frammentario)

Corpo globulare a profilo convesso, collo cilindrico a profilo leggermente concavo, orlo con bordo molto assottigliato, fondo piatto leggermente convesso. Probabile ansa a nastro verticale, ad orecchio, impostata sul corpo e sopraelevata sull’orlo da cui si parte.
Decorazione dipinta in bruno, molto vivace e ben conservata. Sotto l’orlo, banda orizzontale interne ed esterna; lungo l’attacco del collo, altra banda orizzontale. Sul collo, fasci di quattro linee disposte a  zig-zag; sul corpo, fasci di sette o otto linee, verticali, convergenti sul fondo, alternate ad una linea verticale che si sviluppa a zig-zag.
Sotto l’orlo, all’interno, in corrispondenza del punto d’attacco dell’ansa, due fasci residui di tre linee verticali legate da due linee residue orizzontali.
Superficie ingobbiata color camoscio rosato ed impasto rosso chiaro.

Pisside (frammentaria)

Corpo ovoidale a profilo convesso, su piccolo piede tronco-conico, cavo all’interno, orlo indefinibile. Due anse a nastro verticale, contrapposte, indefinibili, ma probabilmente ad anello, e due bugne ellissoidali contrapposte, impostate verticalmente sul corpo.
Decorazione dipinta in bruno, ben conservata. Sul corpo, fasci di tre linee che s’incrociano obliquamente, èresumibilmente sull’orlo, e fino a una banda orizzntale che divide il piede del corpo; intercalate linee doppie a zig-zag, verticali.
Le bugne dono delimitate da due bande laterali campite con linee contrapposte a zig-zag.
Sempre dalla banda mediana, fasci di tre o quattro linee verticali dirette verso la base.
Ingobbiatura di color camoscio rosato, con chiazze più rosse. Impasto rosso chiaro.

Coppa Fruttifera su alto piede (frammentaria)

Bacino tronco conico a profilo quasi dritto, su piede troncop conico cavo all’interno. Orlo indefinibile. Due anse a nastro verticale, contrapposte, impostate sul bacino e sul piede. Decorazione dipinta in bruno, ben conservata. Sul frammento residuo del bacino nessuna decorazione.
Banda orizzontale che divide il bacino dal piede, per metà realizzata con due linee adiacenti e per metà con una sola linea. Fasci di due linee o tre linee che si partono dalla banda e formano motivo a zig-zag. Sulle anse, bande che le delimitano unite da segmenti orizzontali.
Superrficie ingobbiata rosso chioaro con larghe chiazze color camoscio. Impasto rosso chiaro.

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Sul pendio orientale vennero alla luce due complessi medievali costruiti adattando muri in pietra a grotte scavate nella roccia.
Particolarmente interessante era l’edificio posto nella zona più orientale del pianoro. Un edificio costruito con una tecnica a piccoli blocchi davanti a due grandi grotte riutilizzate in epoche recenti.
L’unità abitativa, forse familiare e produttiva di un insediamento feudale,  era costituito da una serie di ambienti disposti ad U intorno ad un cortile con piano di roccia  ed con il focolare posto nell’angolo Nord, vicino all’ingresso della grotta maggiore. Era probabilmente coperto da una tettoia a tegole retta da pali. Una porta, piuttosto larga consentiva l’ingresso alla grande grotta.
I materiali rinvenuti confermerebbero la data temporale dell’insediamento feudale da collocare ai secoli XII – XIII. Un insediamento costituito da piccoli nuclei che sfruttavano le risorse agricole della fertile pianura sottostante. 

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Le Cavità Rupestri

Ad Est del pianoro, dove gli strati di calcare hanno una maggiore profondità, le grotte sono disposte a quattro ordini sovrapposti ed hanno un perimetro quadrato.
Gli antichi lastroni di roccia che costituivano le volte delle grotte, a causa di fattori fisici (il peso proprio); chimici (la reazione del calcare a contatto dell'acqua e degli altri agenti meteorologici); ambientali (gli scavi clandestini che hanno interessato l'intera superficie delle grotte); già nel 1840 erano precipitati finendo con l'ostruire gli ingressi.
Comunque si può osservare, ancora oggi, come molte grotte siano in comunicazione tra di loro per mezzo di buche e di porte ricavate dalla viva roccia.
Nelle pareti si possono notare piccoli incassi in cui venivano collocati le piccole statuette votive, i lucernari o i vari utensili.
Sulle pareti sono visibili i buchi per l'inserzione di legni necessari per sorreggere un controsoffitto.
In qualche grotta si trovano le tracce di antichi sarcofagi a dimostrazione di come queste antiche abitazioni trogloditiche siano state successivamente usate per collocarvi i defunti, forse nel periodo in cui la città cominciò a spopolarsi mostrando i segni di una progressiva decadenza.
















Il De Mauro (nel 1861) citò  come il terreno era sparso di frantumi di crete, di mattoni con marchi, di lucerne, patere, lacrimatoi, anfore, idrie, vasetti d’acqua lustrate, idoletti e testine d’argilla,  ecc.. tutto matertiale ridotto in “pezzi...” per la ricerca di qualche reperto ancora più prezioso.....

   7.   L’Edificio Sotterraneo

Pianta dell’edificio




Ingresso del sotterraneo


Offre la divisione di sette scuole a chi stassi colla faccia a Nord, e quella di sei a chi tiene il Sud a destra e il Nord a sinistra. La sua volta è di enormi massi riquadrati strettamente tra di loro congiunti, è sostenuta da trenta pilastri, composti di più riquadrati massi, terminanti in cima per una specie di capitello di altrettanti intagli che vi stanno a guisa di martello e attaccansi alla volta di cui son l’estremo sostegno.


La campate dell'edificio

il visitatore scenderà per comoda scala; vedrà uno scavo maestrevolmente eseguito nella viva roccia. Il suo vano totale è di 9 canne siciliane (18,56 m), e largo 7 e due palmi (14,94 m)  ed alto 22 palmi circa (5,67 m).
E’ coperto tutto questo vano da un gran palco sostenuto da 30 pilastri, ciascun pilastro è formato di tre sole pietre; due meno grandi, che sono la inferiore e la superiore di quattro palmi ogn’una (1,03 m): e palmi dieci quella di mezzo (2,77 m); conservandosi in tutti i pilastri la medesima disposizione.
Sopra questi posa a traverso un’altra pietra, che per così dire forma il capitello, lunga palmi 7 (1,80 m), che serve per stringere il vano tra pilastro e pilastro; e sopra queste corre una catena di smili sassi, che formano un lungo architrave sopra ciascuna pilastrata; che in numero di sei dividono la Piscina in sette navate, larga ciascina palmi sette.

In realtà il pilastro è formato da tre pietre di cui l’ultima superiore funge anche da capitello.
Sul capitello poggia la trave copstituita da diversi conci. Le tre pietre (inferiore, mediana e superiore) non sempre presentano la stessa misura per tipologia di ubicazione

La metà della lunghezza della prima di queste navate è occupata da larga scala, che dava il comodo d’attingere l’acqua; la quale è larga pami dieci (2,57 m), formata di 27 scalini, l’ulitmo de’ quali resta quasi 4 palmi (1,03 m) sopra il pavimento. Sebbene la navata non sia più larga di palmi sette (1,80 m), la scala però è di palmi dieci (2,57 m), essendo i 3 palmi (0,77 m)  incavati  nel lato corrispondente.
Dalla parte opposta alla scala vi sono della stessa fattura due piccole stanze, o vani,  larghe palmi 10 (
2,57 m), e lunghe 12 (3,09 m); in una delle quali a pain terreno si osserva come una Tomba lunga palmi 8 e 4 larga ( 2,06 x 103 )m

Secondo lo storico De Mauro si tratterebbe di una tomba similie a quelle rinvenute nelle catacombe di Siracusa destinate ai cadaveri dei Cristiani.

La volta, o per meglio dire, il solare, che cuopre questo monumento, è tutto formato d’intere pietre di eguale misura:  sono queste di palmi 9 di lunghezza (2,32 m), e 2 di grossezza (0,52 m), ben lavorate da tutti i lati. Riposano queste sopra i sottoposti architravi che hanno palmi due di largezza (0,52 m); in maniera che situati perfettamente l’una, accosto all’altra, posando un palmo (0,26 m) per testa sopra l’architrave sudetto, ed attestando un ordine coll’altro cuoprono i 7 palmi (1,80 m)
delle navate, formando estesissimo palco”.  (Vi sono conci di copertura anche con le seguenti misure:
 palmi nove  ed once sei di lunghezza = 2,44 m
palmi quattro ed once quattro di larghezza = 1,12 m

una canna = 2,062 m
un palmo (“parmu sicilianu”) = 25,775 cm
uoncia (“unza liniari”) = 1,1479 cm




Si notano le colonne costituite da due blocchi di notevoli dimensioni più
il capitello, anch’esso un blocco di arenaria posto di testa, su cui appoggia
la trave per l’impostazione della copertura.










nelle pareti di Est veggonsi incavate due cellette quadrate che van gardo grado rastremandosi in su, ed indicano di essere i luoghi destinati alle vasche ove effettuarsi i bagni. Un aquidotto incavato pure nel vivo calcario, dolcemente declina dalla parte del Sud e  profondesi nel bagno allato alla scala intagliatavavi nel masso perché vi si scendesse comodamente. Di altro non difetta per dirsi intatto questo monumento, che di talini massi nel fondo caduti alla volta. Ci duole che l’ignoranza, l’incuria, o il niun attaccamento alle memorie illustri che rilevano la civiltà e la possanza de’ nostri maggiori, lo hano lasciato, per lungo volgere di anni, ingombro di ortiche, sanni, renischio, avanzume di muricce e macerie. Gli antiquarj che si snon accinti a dir qualcosa del S. Basilio, sonosi con particolarità attenuti a far cenno, o descrivere e dare importanza ad un tal vetusto monumento di non ordinaria architettura.
De Burigny ci ha detto: Sono osservabili sul colle di S. Basilio le rovine del Casale dello stesso nome, che non più sussisteva nel tempo de’ Normanni. V’è da congetturare, che fosse stato popolatissimo. Il sito ne è molto ameno, vi si scorge a mezzodì il Lago di Leontini, e dall’altro lato l’ampia pianura di Catania. gli avanzi di un sacro tempio ne accennano la magnificenza”








Al tempo degli studi operati dal prete De Mauro, fu il grande zelo dell’arciprete De Cristofaro nel fare pulire, a sue spese,  il prestigioso nonumento mettendo “in veduta il fondo del monumento in parola”.

L’archeologo Winkelmann  invitava gli antiquarj a procedere nelle loro
ricerche..” quanto ci rimane di antico tutto può divenire utile sol
che si prenda nei suoi giusti rapporti, sol che lo esamini un occhio intelligente”.

La costruzione è quindi scavata nella roccia e i blocchi che costituiscono le travi e i pilastri hanno una tecnica di taglio che è simile a quella dei conci dei muri di cinta.
Il monumento  nel passato fu oggetto d’interventi di restauro da parte della Sovrintendenza ma furono bloccati per motivi di natura giudiziaria. se non ricordo male un operaio morì per un incidente sul lavoro. I blocchi numerati restarono sparsi sul pianoro perché la struttura fu messa sotto sequestro dall’A.G. ma non ai tombaroli che continuarono i loro lavori di “ricerca....”

Il monumento fu utilizzato in epoca bizantina  come sede di una chiesa cristiana come d’altra parte testimonierebbero i resti di affreschi ormai andati perduti.
Come riportà lo storico De Mauro fino al 1837 gli affreschi erano ancora in buone condizioni.
Il’edificio fu poi adibito a ricovero di intere famiglie che “per paura di contrarre il colera, morbo africano, si rifugiarono nelle grotte del Casale. Fu allora che l’inciviltà delle persone si scatenò sulle sacre immagini”.

8. Gli Affreschi Bizantini

Lo storico De Mauro vide quegli affreschi e li riportò nella sua descrizione del sito.
In merito al Crocifisso riferì che “alcuni feroci superstizioni, per strano consiglio, non so da chi suggerito..” di avere la possibilità di prendere gli “occulti tesori del Casale” dopo aver dato sette colpi di “coltello a quella immagine di Crocifisso”...
L’Immagine fu colpita e arrecarono “l’intero guasto non a questa soltanto, ma a tutti gli affreschi del bagno...”. affreschi che erano esposti a levante..
L’immagine di Maria con il Bambino in grembo
L’ingenua e così soave figura del Bambino in grembo alla Vergine Madre
L’immagine degli Apostoli Pietro e Paolo, del Salvatore con diadema ed altro che “si è unicamente osservato nelle immagini del IX secolo” e l’effige di un San Basilio, in uno dei piloni che sostengono la volta.
Un santo forse titolare della chiesa sotterranea e che conferì al sito e al territorio dell’antica Brikinnia l’appellativo di “San Basilio” con la conseguente  denominazione del titolo baronale per le varie famiglie nobiliari che entrarono in possesso del feudo.












una vera e propria distruzione....








9. L’Edificio Sotterraneo era una cisterna ?

Lo studioso Gaspare Mannoia ipotizzò come il monumento sotterraneo sia collegato alla presenza di svariati santuari degli eroi cioè di tombe ed altari dedicati a valorosi eroi. Il monumento sarebbe quindi un deposito delle offerte, soprattutto derrate, provenienti in massima parte dal circondario.
La definizione che venne data all’Orsi di monumento sotterraneo adibito a “cisterna” venne quindi messo in discussione.
Certo la presenza di un monumento così imponente non può lasciare indifferenti al suo studio.
Purtroppo gli scavi clandestini hanno cancellato tracce importanti che avrebbero potuto svelare  molti aspetti su questo Casale.  Molta ceramica giace a vista sul pianoro che mette in risalto un assidua frequentazione del sito,  strategicamente importante come Monte Turcisi.
Porzioni di roccia ben squadrata e residui di strutture murarie sono presenti in vari punti del pianoro, coperti da un sottile strato agrario che  potrebbe suggerire l’esistenza di un complesso abitativo molto più ampio di quello che è stato riportato alla luce in due campagne di scavi di cui l’ultima circa vent’anni fa... mentre gli scavi da parte dei tombaroli sono continuate......
È della fine del XIX secolo una ricevuta, rilasciata dal Museo Salinas di Palermo, della donazione di una Falera d’Oro che fu rinvenuta nel colle dal nobile Ippolito de Cristofaro, proprietario dell’area o Feudo.
Nello stesso museo sarebbe conservata anche una fibula bronzea, sempre d’epoca romana e sempre d’ambiente militare


Diverse falere romane su una corazza ricostruita

Falera con il volto di Augusto.

Non ho l’immagine della falera d’oro  e della fibula bronzea che furono trovate sul Monte San Basilio ma dovevano appartenere a qualche personaggio importante, per la qualità delle loro leghe.  e non so se siamo ancora presenti nel Museo Salinas di Palermo.
 
Le falere erano in origine di due dischi laterali dell’elmo a cui si fissavano gli allacci. Il termine venne poi esteso a un qualsiasi elemento decorativo in metalli che serviva a ornare le corazze dei soldati e le bardature dei cavalli. Alla fine diventò quasi esclusivamente un importante elemento decorativo militare romano.
Nei popoli più primitivi erano in legno e servivano a proteggere le mani, alle quali erano allacciati, e  a colpire gli avversari che venivano storditi. In seguiti furono creati in bronzo, agente e anche in oro per personaggi più importanti mentre raramente  erano in ottone e rame.
In genere era costituita da un disco con un rialzo centrale semisferico che veniva detto “umbone”.
Venne poi l’uso di applicare le falere sulle corazze sia di cuoio, di lino o di metalli.
La presenza delle falere sulle corazze aveva diverse motivazioni:

-          di poter mostrare ai nemici il proprio valore e quindi di intimidirli durante la battaglia;
-          di poter sfilare nelle parate militare con le falere raccogliendo così l’ammirazione del popolo che l’avrebbe ripagato con solo con l’ammirazione ma anche con regali o riguardi particolari;
-          di potersi presentare ad una candidatura politica con questa favorevole presentazione legata proprio alle falere perché i rimani apprezzavano negli uomini soprattutto le qualità militari;
-          di ricevere incarichi particolari in battaglia, con operazioni che potessero metterli ancora più in evidenza facendogli conquistare più meriti;
-           ricevere direttamente una nomina a un grado superiore  grazie ai meriti di calore conquistati e riconosciuti:
-          Di essere accolto dalla sua famiglia e dalla sua gens, come un membro che ha saputo dare lustro ad ambedue, con relativi riconoscimenti, affetti e riconoscenza.
Si trattava in poche parole di una medaglia al valore militare.

Il sito fu usato anche come luogo di mercenari durante il regno dei tiranni di Siracusa. La presenza romana sia sul Monte che nelle contrade circostante  fu testimoniata grazie anche ai vari rinvenimenti archeologici. Il sito sin dall’antichità aveva una sua funzione strategica molto importante perché dalla montagna si domina la valle che da Katane, attraverso il territorio di Leontinoi, portava a Gela collegando le due grandi e ricche pianure della Sicilia Orientale: quella catanese (I “campi Leontinoi”) e quella gelese (I “campi Geloi”).


Il sito oltre alla sua assodata funzione militare aveva anche un suo altissimo valore religioso per la presenza di un santuario, come affermò lo studioso Mannoia, che fu utilizzato per secoli da diverse fasi culturali ?
La presenza di un possibile presidio avrebbe quindi avuto una sua funzione nel controllo di una via commerciale, militare ed anche religiosa.
Nell’area di Monte San Basilio  l’archeologo Paolo Orsi rinvenne anche delle inumazioni dentro grandi contenitori in terracotta.  Lo studioso Gino Calleri avanzò l’ipotesi di un possibile collegamento di queste sepolture ad usanze tramandate da ambienti italici, riconducibili ai miti degli eolidi, e all’eventuale individuazione del mito e perduto regno di Xuto.
Secondo le narrazioni di Diodoro Siculo, Xuto, figlio di Eolo, sarebbe stato mandato in Sicilia dal padre.

(In realtà nella mitologia greca,  Xuto era il figlio di Elleno e della ninfa Orseide e fu costretto dai fratelli Eolo e Doro  ad emigrare  dalla Tessaglia per stabilirsi nell’Attica. Sposatosi con Creusa, figlia di Eretteo, ebbe i figli Archeo e Ione che sono nel mito i capostipiti dei popoli ellenici).
Comunque Xuto avrebbe fondato  in una zona compresa tra la Valle dei Margi e la Piana di Catania un ricco e potente regno, la mitica Xunthìa.  In questo regno si trovava l’area dedicata al culto dei Palici (l’antica Palikè, Mineo).
I riferimenti letterali tramandarono come il Regno di Xunthìa si doveva estendere tra l’antica Leontinoi (Lentini) e le balze di Caltagirone, lambendo le pendici Etnee  e delimitato dagli Iblei e dagli Erei.

Regno di Xuto

Un regno contraddistinto da terre fertili dive si coltivava il grano. San Basilio domina questo vasto regno  ed era un punto strategico e di controllo di grande importanza oltre che importante via di transito per i commercio. 
Era quindi una sede fortificata di ricchi depositi votivi ed agricoli ?
Fu scoperto un piccolo Santuario dedicato a Demetra ed anche la sepoltura del “Duce ignoto” lascia ipotizzare la presenza di un luogo dedicato alla sepoltura degli eroi tra cui forse lo stesso Xuto.
Eolo, dio dei venti, era il fratello di Xuto e il Colle di San Basilio è continuamente colpito durante quasi tutto l’anno dai venti e il termine Xuto, da “Xouthos”, significherebbe “biondo/bruno giallastro” , il colore del grano .
Xuto potrebbe nella fantasia identificarsi con un imprenditore agricolo che costruì un immenso granaio sotterraneo in un remoto passato per conservare i ricchi prodotti del territorio.
Il termine Basilio, dal greco Basileus e poi latinizzato in Basilius, sarebbe “ re” o “”regale” da “Basilieios”.  Il Colle di un re ?
Sembra fantasia.. in ogni caso ci troviamo davanti ad un sito archeologico importante con   una testimonianza architettonica di gran valore... eppure è abbandonato a se stesso ormai da anni e non penso che la situazione attuale sia cambiata...

In Sicilia è presente una struttura simile ed esattamente a Siracusa nel Parco Archeologico.
Un confronto che dal punto di vista archeologico potrebbe creare nuove ipotesi sull’uso del (tempio, cisterna, bagno, ecc.) di San Basilio.
Nel Parco Archeologico di Siracusa si trova una piccola chiesa normanna dell’XI secolo.  Si tratta della chiesa di San Nicolò ai Cordari, uno dei primi edifici cristiani costruiti subito dopo la cacciata degli arabi.

Chiesa di San Nicolò ai Cordari

Come si nota dalla foto, l’edificio fu costruito su una balza rocciosa e presenta un'unica navata, con abside semicircolare, finestrelle a feritoia e un piccolo portale d’accesso laterale. Nel 1093 vu furono celebrati i funerali di Giordano, figlio di Ruggero d’Altavilla. È detta dei Cordari perché nel 1577 fu concessa agli artigiani che fabbricavano corde.  Diventò la chiesa di una corporazione che non era distante dalla grotta dei Codari dov’era ubicato il loro cantiere di lavorazione.



“Discorso di  San Paolo” nella grotta dei Cordari

Siracusa - Grotta dei Cordari

La chiesa è impostata, in parte, su una costruzione a pianta rettangolare che  presenta uno sviluppo trasversale rispetto alla pianta dell’edificio sacro.
Una piscina d’epoca romana che fu scavata nella roccia viva e impostata su una latomia greca. L’ambiente è diviso da quattordici pilastri massici (una doppia fila di pilastri)  in tre navate. Sui pilastri poggiano degli architravi a piattaforma sormontati da volta a botte.  


"Piscina" Romana -  Siracusa

La piscina in origine aveva la funzione originaria di serbatoio d’acqua e presentava le pareti intonacate. Era collegata con il vasto sistema idrico dell’anfiteatro romano attraverso un canale interrato.
L’acqua del serbatoio era usata durante le naumachie che si svolgevano all’interno dell’Anfiteatro. Questa sua funzione è testimoniata non solo dalla presenza di una lunga condotta che si sviluppa oltre 1 km ma anche dalla presenza di due aperture, una delle quali connessa con un acquedotto retrostante che confluiva nell’Anfiteatro.
Fu ricavata troncando e ricoprendo un tratto di strada incassata nella roccia che costituiva un antico ingresso alla Latomia del Paradiso e le cui pareti erano ricoperte da incavi votivi dedicati al culto dei defunti eroizzati.

In seguito il serbatoio subì degli interventi strutturali perché in età paleocristiana e bizantina fu trasformato in chiesa sotterranea e in ultimo fu utilizzata come cripta della chiesa soprastante. Alcuni ingrottamenti erano in origine decorati con affreschi ed oggi non sono più distinguibili e costituivano dei sepolcri di martiri cristiani. Sempre nel serbatoio o piscina furono sepolti i cittadini siracusani morti nella carestia del 1672. Dal 1700  fu utilizzata in rapporto all’attività dei vicini mulini ad acqua. Negli anni ’90, durante i lavori di restauro del tetto e della pavimentazione, curati dalla Soprintendenza di Siracusa, sotto il pavimento furono rinvenute delle sepolture databili al I – II secolo d.C. entro tombe a fossa, a bauletto e alla cappuccina. Erano presenti anche incinerazioni in urne di terracotta.
Rispetto alla “cisterna” di San Basilio presenta una differenza che dovrebbe fare riflettere.
La struttura di San Basilio non presenta alcuna traccia di intonaco idraulico tenendo conto che le pareti di calcareniti sono costituite da una roccia molto porosa.
In nessun periodo dell’anno è stata mai riscontrata la presenza d’acqua stagnante. Risulterebbe quindi accettabile l’idea di un suo utilizzo come granaio.
 

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10. Il Termine “Brikinnia”

Malgrado le ricerche effettuate, il nome del sito resta un mistero. Si sono formulate due ipotesi che collegano il centro fortificato ai nomi di BRIKINNIA  e di EUBOIA.
La  prima ipotesi sarebbe legata alle fonti  tramandataci da Tucidide( che indica il sito come “fortezza”)
(Tucidide, V 4: Brikànnia on ôruma ùn t–Leontàn– ) e proposta anche dallo storico De Mauro e “quasi” accettata dall’Orsi.
La tradizione locale  colloca il termine “Bricinnia” a Buonvicino, un piccolo colle detto “Castelluccio” posto vicino all’antica Leoninoi e forse più vicino alla strada che collegava Gela a Catania.
La seconda ipotesi indica i ruderi come il centro fortificato di EUBOIA, colonia dei Calcidesi di Leontini e accetta da alcuni storici.
Indica un sito vicino al fiume Gornalunga presso il quale correva la strada  citata dalla fonte ma con il termine è oggi identificata la moderna Licodia Eubea,

11.      Quando fu distrutta Brikinnia ?

 Quando i Saraceni stabilirono la loro sede sul Casale fu probabilmente intorno all’845 quando fu conquistata Modica da “Maometto” figlio di Abd’allà e  dallo stesso condottiero anche Leonini e Ragusa.
La presenza della dominazione  musulmana sul Casale era testimoniata dalla presenza nel 1838 da
“un infinità di rottami, di utensili in creta, verniciati con ossido di piombo, confusi in tutta la periferia di quello altipiano con altra copia di rottami di varie crete dei
tempi greci e romani.
La tesi veniva confermata dalla forma più grande di quei reperti, dal modo con cui erano verniciati e che spesso presentavano degli arabeschi... una ceramica comunque “rude e da sesso”.
Il De Mauri citò  delle piccole monete in oro,
con note cristiane, delle quali due esibitemi dall’arciprete parroco
De Cristofaro, uscite dalla zecca bizantina, colla croce e la epigrafe
IC: XC: NIKA
(Vinci)

E le monete in bronzo colla immagine di Cristo sino al petto,
con diadema o nimbo e nel rovescio il
Basileus A. Omeon

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12. Il Feudo di San Basilio 

Non si sa per quale ragione Ruggero II diede il feudo all’archimandrita di Messina.
Nel 1283 un Giovanni di San Basilio figura tra gli “equites” di Lentini chiamati al servizio da re Pietro I.
Il “dominus” (signore/condottiero in guerra) Alafranco di San Basilio (della famiglia di Lentini) l’11 febbraio 1300 aveva ricevuto l’investitura di Pettineo e risultava stratigoto di Messina (l’8 agosto 1320) e giustiziere di Palermo nel 1326-27 e nel 1328.
Il 23 novembre 1331 la R.C. rilasciò una cedola con la quale si dettavano le modalità di scambio tra il casale Pettineo di Alafranco di San Basilio e il casale Convicino (Barrafranca) di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, “nel rispetto delle prerogative feudali di Pietro d’Antiochia, signore di Mistretta, nella cui baronia rientrava Pettineo”.
Il 7 marzo 1332 con rogito del notaio Nicola Sammarata di Polizzi, avvenne tra i due feudatari lo scambio di Pettineo con Convicino.
Nel 1332 un privilegio di re Federico III d’Aragona confermò i termini della permuta dei due casali (cancelliere Pietro di Antiochia).
Nella Deputazione Feudale del 1335 figurava titolare dei  feudi Siccafari ( in Val di Noto presso Licata), Comitium (Convichino, attuale Barrafranca) e San Basilio (in Val di Noto e territorio di Lentini) che gli assicuravano un reddito di 264 onze annuali.
Successivamente, in virtù delle ultime volontà testamentarie di Alafranco di S. Basilio, i suoi fidecommissari furono incaricati di vendere Convicino e Siccafari per soddisfare i molti legatari testamentari, e solo con un certo ritardo, dovuto all’assenza di Manfredi Chiaramonte che era uno dei suoi fidecommissari, si giunse alla vendita dei suddetti feudi.
Il  23 dicembre 1337 fu emanato un decreto da parte della Magna Regia Curia (MRC) che permise il 28 dicembre 1337 la stipula dell’atto pubblico di vendita del casale Convicino ad Abbo Barresi.
L’8 dicembre 1337 il re Pietro confermò la suddetta vendita.
 
Alafranco morì senza figli e gli successe nel feudo di San Basilio il cugino Alaynuccio di Alaymo (o di San Basilio o Aloisio de Santo Basilio) che comparve nell’adoa del 1345 domiciliato a Lentini e tassato per 3 cavalli armati (equivalenti a un reddito di 60 onze). Parisia, moglie di Alaymo di San Basilio, possedette Ucria, ma per la continuata dimora di quest’ultima fino al termine della sua vita presso i nemici angioini di Lentini ed altri luoghi, il casale venne devoluto al fisco.
Nel 1354 fu assegnato a Ruggero Lamia.
Alafranco figlio di Alaynuccio(?) e la moglie Venturella vendettero  nella V Indizione 1366-67 a Enrico di Santo Stefano il feudo Visamino ( Val Di Noto, in territorio di Caltagirone), appartenente a Venturella. Il 17aprile 1370 furono chiamati a corrispondere lo “ius decime” per la vendita dei feudi Viscara (o Biliscara) e Ribichino (o Libellini) (in val di Noto) a Pietro Capoblanco.
Il nipote Giacomo di Lentini ottenne la conferma del privilegio per San Basilio.
Nel ruolo feudale del 1408 signore dei feudi di San Basilio e Luculo(?) figurava Antonino di San Basilio.
Nel 1453 per atto della camera reginale, il feudo di San Basilio, Cucco e Castellana, era di Antonio di Lentini, padre di Alafranco ed avo di Giacomo che ottenne la conferma del privilegio dalla regina Maria.

Successivamente figura un Giacomo  di San Basilio la cui figlia sposò Angelo Balsamo (1506).
Il 14 marzo 1641 Pietro Balsamo comprò dalla Regia Corte, per la somma di 500 scudi, l’investitura del mero e misto impero, ottenendo i feudi su indicati che risultano staccati dal territorio di Lentini
 
Il barone D. Giuseppe De Cristofaro, padre dell’arciprete Don Mario, nel marzo del 1818 comprò dal principe di Cattolica (Giuseppe Bonanno Branciforte ? – figlio di Francesco Antonio e di Caterina Branciforte Pignatelli, figlia di Salvatore, principe di Butera) il feudo di Castellana, dove sorge San Basilio, per il prezzo di 20.000 e 10 onze. Ottenne la relativa investitura con il titolo di barone di San Basilio e fu l’ultima investitura a causa dell’abolizione della feudalità.

 Fu quindi Giuseppe Rocco Silvestro De Cristofaro (Scordia, 31 dicembre 1754 – Scordia, 26 marzo 1835) (figlio di Mario De Cristofaro e di Ninfa Onfici) ad acquistare il feudo. Sposò Donna Fortunata Savoca, dai cui i figli/e:

-          Sebastiano Vincenzo De Cristofaro (Scordia, 26 maggio 1779 – ?), sposò Teresa Mauceri, da cui il figlio Francesco De Cristofaro;
-          Mario De Cristofaro (1784 – ?)
-          Maria Ninfa Gesualda De Cristofaro ( 1787 –  ?)
-          Gaetano Antonino    De Cristofaro (Scordia, 6 febbraio1793 - ?); sposò Francesca De Cristofaro da cui i figli: Antonino (1823 – 1878) e Filippo (1830);
-          Vincenzo De Cristofaro (Scordia, 1796? –  Scordia, 9 maggio 1876)
-          Lucia Ninfa Maria De Cristofaro (Scordia, 2 maggio 1800 – Scordia, 11 giugno 1860); sposò il 23 giugno 1829, in Scordia, Ercoli Paolo (1797 – 1873): da cui i figli/e: Giuseppe (morto all’età di un anno). Filippo, Giuseppe. Filippa, Mario;
-          Michelangelo Giuseppe Antonio De Cristofaro (Scordia, 10 novembre 1801 – Scordia, 23 aprile 1880); sposò Lucia Di Martino, da cui i figli: Luigi e Giuseppe.
-         
Felice Simone Giuseppe De Cristofaro (Scordia, 28 ottobre 1805 – Scordia, 25 febbraio 1875); sposò Rosaria Trovato.

Giuseppe di Cristofalo s'investì del feudo dell'Ingegno col titolo di Barone, a 11 Novembre 1808, per nomina fatta a suo favore da Michele Cali, agli atti di Notar Salvatore Milana da Palermo, il 27 Ottobre 1808. A detto Cali spettava, per averli acquistati per persona da nominare, da Francesco Leonardo Lo Faso e Gastone per contratto agli atti di esso Notaro il 21 Ottobre 1808 (Conserv., libro Invest, dal 1807 al 1809, f. 101 retro).
Francesco De Cristofaro (nato a Scordia nel 1820 circa) sposò il 9 maggio 1843, a Scordia, Elena Thovez (figlia di Filippo Thovez e di Elisabetta ?), da cui il figlio Enrico De Cristofaro (1844 – 1898). Barone dell’Ingegno.

13.    Elena Thovez a Scordia -  I Thovez in Sicilia, amministratori della Ducea di Orazio Nelson

Come mai questa famiglia inglese, originaria di Portsmouth, si trovava a Scordia ?
“La sera del 3 settembre 1799, durante un solenne convegne tenuto nel Real Palazzo  con l’intervento dei ministri di Stato, e di magnati del regno, il Grande Ammiraglio, visconte Horatio Nelson, ebbe un diploma con cui gli venne conferito il titolo di Duca di Bronte, con l’appannaggio dei redditi e diritti, che il Nuovo e Grande Ospedale di Palermo godeva su Maniace e Bronte”.
Perché quel conferimento ?
Ferdinando III di Borbone volle ricompensare il vincitore di Abukir per aver salvato la vita del sovrano e dei suoi familiari trasferendoli al sicuro in Sicilia (Napoli era attaccata dalle truppe napoleoniche) e  per aver riconquistato il trono reprimendo nel sangue, il 20 giugno 1799, la rivoluzione napoletana.
Lo stesso sovrano, animato da una immensa gratitudine verso il suo eroe,  aumentò la rendita della Ducea di Bronte, calcolata in 5.500 onze annuali, con qualche altro migliaio di reddito derivanti dall’acquisizione di terre confinanti.
Fece altresì a concessione di trasmettere la proprietà anche a non congiunti e di esentarlo dal pagamento sia dei previsti redditi d’investitura che dei consueti donativi nei confronti della corona.
Ci fu una protesta da parte dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo che dal 1491 era in possesso dei beni dell’Abbazia Normanna di Maniace e dell’Abbazia di San Filippo di Fragalà ? La decisione regia fu considerata un’indebita sottrazione di terre con relativa perdita di una somma considerevole di reddito ?
 La risposta, può  lasciare sorpresi e increduli,  ma fu negativa.
Per l’Istituzione dell’Ospedale fu una vera e propria fortuna caduta dal cielo perché finalmente si liberava di una gestione che nel corso del tempo (1538 – 1784) era diventata troppo complessa per una serie di atti di arrendamento (imposta indiretta di consumo) con soggetti nobili e borghesi, spesso in società tra di loro, che avevano determinato la nascita di una gran numero di controversie giudiziarie con la comunità brontese.
Una serie di liti che erano culminate il 6 aprile 1636 con un tumulto sanguinoso proprio a Bronte.
Una protesta che portò alla morte di due rivoltosi, il capitano d’arme Matteo Pace e Luigi Terranova, e un indebitamento da parte della comunità brontese di 9000 ducati nei confronti dell’Ospedale di Palermo.  Un debito che determinò un forte inasprimento fiscale con gravi conseguenze sociali per comunità.
Lo stesso Ospedale per la perdita della Ducea ebbe un indennizzo di 5.600 onze l’anno che fu basato sulla rendita annua della ducea aumentata di 100 onze derivanti dall’esercizio del mero e misto imperio.
Allora Bronte, siano nel 1798, aveva 9193 abitanti in gran parte contadini e pastori e l’elevazione a contesa della loro terra non fu  ben accettata. Per gli abitanti significava riduzione a sudditi feudali di uno straniero con la perdita del diritto di  mero e misto imperio riacquistato nel 1638 da Randazzo con una spesa notevole e la fine di secolari aspirazioni di reintegrazione al regio demanio.
Orazio Nelson non venne mai in Sicilia a visitare la sua Ducea che venne amministrata da diversi governatori che intervennero nelle strutture edilizie dell’antico monastero di Santa Maria di Maniace.
Uno dei primi governatori fu John Andrew Graeffer che fu raccomandato al Nelson da sir William Hamilton, ambasciatore inglese alla corte dei Borboni.
Non fu un’amministrazione felice perché con i suoi bandi  rinnovò i divieti sul legnatico, semina, pascolo, passaggio per le regia trazzera e sull’uso dell’acqua di Maniace. Ci furono una serie innumerevole di controversie con il comune.
Con la morte di Orazio Nelson, il 21 ottobre 1895,  la Ducea passò al fratello reverendo William. Ci fu un nuovo amministratore Antonio Forcella e la situazione peggiorò con l’inasprimento dei divieti, che erano rilevati da guardie o campieri, e con la distruzione di boschi.
Nell’aprile 1819 giunsero a Bronte i Thovez destinati ad amministrare la Ducea.
Philip Thovez era nato a Napoli nel 1789 da un funzionario inglese al servizio di Orazio Nelson. Era ritornato in Inghilterra ancora adolescente ed era diventato commissario della marina inglese. Dimorava a Portsmouth dove aveva conosciuto e sposato Elizabeth Paton.


A Bronte erano deceduti sia Antonio Forcella che la giovane moglie e il Thovez con la nomina di procuratore generale della Ducea giunse nel centro insieme alla madre, Marianne Nun e ai figli William, Francis ed Helen.
Dovette affrontare i problemi rivoluzionari legati ai moti del 1820 facendo un importante opera di mediazione e nel 1824 nuovi dissidi tra la stessa Ducea e il comune di Bronte a causa di una spregiudicata iniziativa del Thovez.
Il procuratore autorizzò i gabelloti  e coloni di provvedere, per aumentare la superficie del seminativo, al taglio indiscriminato di alberi nei boschi di S. Maria di Maniace, di S. Filippo di Fragalà e in altri ex feudi (Mangione, Porticelli, Petrosino, Bochetto, S. Nicolò).
Nel 1825 il comune di Bronte chiese ai Nelson il ripristino dei diritti civici su tutto il territorio comunale. Il problema fu seguito dal Consiglio d’Intendenza che accettò la richiesta del Comune ma solo su espressa autorizzazione della Ducea... una decisione che sa tanto di “lavata di mano”... in pratica i boschi continuavano ad essere di proprietà privata.
Il Thovez  rispose in maniera provocatoria alle richieste del Comune e gabellò le terre ai coloni dei comuni vicini di Maletto, Tortorici e Cesarò.
Gli anni passarono sempre con i soliti problemi   legati ai numerosi divieti e ad aggravare la situazione ci fu anche l’eruzione del 2 aprile 1832 che cancellò boschi e vigneti fermandosi vicino all’abitato.
Nel 1830 c’era stata un ennesima richiesta del comune di Bronte sugli usi civici  presentata  e discussa dall’avv. Placido De Luca coadiuvato dal rettore del locale Collegio Capizzi, il canonico Giuseppe Saitta considerato «il promotore più ardito e più accanito della lite».
Il 5 settembre 1833 fu mandata una supplica al Duca, il reverendo William Nelson. Si trattava di un memoriale firmato da un centinaio di brontesi indirizzato al parlamento inglese che “non si commosse”. Nell’ottobre del 1837 il fratello dell’avvocato De Luca, l’abate e futuro cardinale Antonio Saverio, si recò a Londra e intrattenne uno scambio epistolare con lo stesso Duca. Cosa ottenne ?
Una formale e semplice promessa d’interessamento....
Nel 1835 morì il reverendo Nelson  e la figlia Charlotte ereditò la  Ducea.
La questione degli usi civici era sempre in primo piano e i nuovi protagonisti erano: il medico chirurgo e sindaco di Bronte negli anni 1840 -1848, Luigi Saitta, un esponente di primo piano dei liberali locali, e il trentenne William Thovez.
William Thovez che nel 1837 era subentrato al padre Philip, gravemente ammalato (morirà nell’ottobre del 1839), come governatore della Ducea dopo essere stato per alcuni anni al servizio del connazionale Beniarnin Ingham, noto imprenditore vinicolo con aziende a Marsala. L’11 dicembre 1841 furono emanate le Istruzioni che portavano a soluzione la difficile questione demaniale. Le norme determinavano la quotizzazione dei territori demaniali e comunali e decretavano la restituzione ai comuni, da parte dei proprietari degli ex feudi, di almeno un quinto degli stessi ex feudi a titolo di indennizzo per l’abolizione degli usi civici.
Ci furono come conseguenza delle Istruzioni tutta una serie di ordinanze da parte dell’Intendente, di ricorsi da parte del Thovez e anche di lettere del Comune , tutti elementi che crearono uno stato di profonda confusione,
Nel 1846 ci fu l’intervento risolutore della Gran Corte dei Conti di Palermo che diede un forte colpo agli interessi economici della Ducea. Pur non accogliendo tutte le richieste del Comune di Bronte, fece diventare lo stesso Comune titolare di un cospicuo patrimonio fondiario consistente nella

metà delle terre boschive, un quarto delle terre aratorie e pascolabili
ed in terzo di quelle vulcaniche con esclusione delle terre censite”.
 
Queste furono le esperienze che visse Elena Thevez a Bronte perché il 9 maggio 1843 sposò a Scordia il Barone dell’Ingegno (territorio di Tortorici ?), Francesco De Cristofaro.

Era nata a Portsmouth nel 1815 e nel 1820 giunse in Sicilia assieme ai fratelli e alla nonna.  In Sicilia conobbe  il barone Francesco De Cristofaro che sposò nel 1843, fissando la residenza a Scordia  che un tempo fu possedimento dei Templari per donazione dei signori Normanni Enrico di Buglio e Goffredo figlio di Oliviero.
Nell’Ottocento Scordia era un villaggio contadino che aveva però un grosso vantaggio legato alla sua vicinanza con Catania (circa 35 km).
Elena Thovez aveva una grande cultura che non era comune per le donne del tempo. Conosceva tre lingue, come si nota dal suo diario in cui sono contenuti componimenti poetici in inglese, italiano e francese; disegnatrice di gran pregio ci cui si conserva uno straordinario disegno a penna sul cui margine pose la sua firma accanto al titolo “Eruzione dell’Etna avvenuta l’anno 1832”; scrittrice di teatro con il dramma storico in cinque atti “Elfrida di Salerno, ossia Vendetta e Perdono”, ambientato nel Medioevo, pubblicato a Catania nel 1847 e rappresentato nel teatro comunale di Scordia e un “Mistero” ambientato in Pennsylvania sullo sfondo della Rivoluzione Americana.
L’ambiente paesano di Scordia non  gli consentiva quegli scambi culturali che amava.
Aveva studiato in Inghilterra, con frequenti viaggi a Bronte per rivedere il padre e i fratelli, dove fioriva un lunga e gloriosa tradizione massonica ed esoterica e vista la mancanza in Sicilia di logge femminili, si affiliò alla Massoneria inglese.
Un’affiliazione che la vedrà collaborare con diversi periodici  e  prendere contatti epistolari con altri affiliati, artisti e letterati.
Entrò in contatto in Sicilia con il geniale medico Giuseppe Migneco, originario di Augusta e che successivamente si trasferirà a Catania.
Giuseppe Migneco   fu massone, omeopata e mesmerista, in fama di spiritista e la Elen Thovez, così come Mariannina Coffa (famosa letterata siciliana), si pose sotto le sue cure recandosi spesso a trovarlo.
La giovane donna inglese diventò ben presto il centro della vita intellettuale del piccolo paese e con il suo desiderio di comunicare e di diffondere il suo sapere e le sue dottrine anche nella piccola Scordia, riuscì a sprovincializzare l’ambiente.
Non fu certamente un procedimento culturale semplice ma con la sua tenacia riuscì a fondare prima il “Casino dei Civili” cioè un circolo di conversazione e subito dopo un circolo esoterico, “La Società Spiritica”.
Nel 1866 la “Società Spiritica” fu anche dotata di una pubblicazione mensile.
Il periodico si chiamava “La Voce di Dio” e pubblicava le comunicazioni che “gli spiriti emissari del Supremo”, tra cui sant’Agostino, davano dall’aldilà ai vivi tramite il medium nel corso delle sedute spiritiche.
Lo storico Nuccio Ganbera, riportò come la “Società Spiritica” di Scordia fece stampare nel 1865 un piccolo opuscolo contenente i verbali di undici sedute spiritiche che si erano tenute  nello stesso anno con le relative comunicazioni spiritiche tramite il medium E.T.
Le iniziali E.T. identificano Elen Thovez “che fu medium ella stessa”.
Lo spiritismo era un fenomeno molto diffuso in quegli anni anche in Sicilia e vi aderivano anche intellettuali di primo piano. Era presente una rete di società spiritiche che operavano nell’isola mettendosi in contatto con le principali città italiane e straniere. La presenza di personaggi come l’inglese Thovez o Luisa Hamilton, moglie del principe Eugenio Caico, a Montedoro (Cl) e a Palermo, con i vasti contatti che furono capaci d’instaurare, permisero alla Sicilia, anche nei piccoli centri, di non rimanere mai isolata dal punto di vista culturale.

La Thevez era un personaggio scomodo per la Chiesa ma godeva di una grande protezione e grazie alla sua affidabilità poteva avvalersi della stima di un nutrito seguito di persone.
Nello spiritismo si nota la volontà dei filosofi positivisti  di sottrarre alla Chiesa il dominio del mondo degli inferi e dell’aldilà e il merito della Thovez fu quello di fare conoscere alla Sicilia nuovi fenomeni.
La scrittrice Marinella Fiume affermò come lo “spiritismo legava a doppia mandata molti dei nostri scrittori siciliani”. Sempre secondo la scrittrice uno di questi letterati fu Luigi Capuana che dedicò intere pagine al verismo e alle forze dell’aldilà.
Il Capuana affermò come “quel demone chiamato scrittura sarebbe capace di trasformare lo scrittore in un medium” (Spiritismo 1884).
Elen Thovez, una donna forse dimenticata, ci parlò di una Sicilia magica e forse oscura.... un’altra misteriosa testimonianza di questa Terra che non finisce mai di stupire con i suoi segreti...un altra testimonianza di una delle suoi tanti aspetti storici e culturali..
Leonardo Sciascia scriveva:
basta girare una montagna, salire da una valle o scendervi,
per trovare un mondo diverso, sorprendente.
 
Elen Thovez morì a Scordia nel 1896.
Dal matrimonio con Francesco De Cristofaro era nato a Scordia il 18 Luglio 1844 , Enrico De Cristofaro (morto a Scordia il 18 marzo 1898).
Enrico De Cristofaro non chiese il riconoscimento del titolo di Barone dell’Ingegno.
Sposò il 27 gennaio 1883, in Scordia, Giuseppa Di Mauro (Scordia, 1844 ? – Scordia, 11 agosto 1923) (figlia d Antonino Di Mauro e Serafina Mangano)
Dal matrimonio nacque  a Scordia il 24 settembre 1884, Sebastiano Francesco Paolo De Cristofaro ( morì a Scordia, 4 aprile 1955).
Fu riconosciuto Barone dell’Ingegno con Decreto Ministeriale del 10 dicembre 1901.
Sposò a Catania il 22 luglio 1905, Lucia (Lucietta) Elvira De Cristofaro (Scordia, 21 maggio 1882 – Scordia, 5 dicembre 1910) (figlia di Giuseppe De Cristofaro e di Francesca de Cristofaro fu Filippo, nata a Scordia il 21 maggio 1882).
Dal matrimonio i figli/e:
-          Giuseppina De Cristofaro ( Scordia, 22 marzo 1906 – Scordia, 21 dicembre 1942);
-          Francesca Elena Serafina De Cristofaro (Catania, 26 dicembre 1907 – Catania, 12 maggio 1983) – sposò il 12 luglio 1928 in Scordia, salvatore Linguanti (1899 – 1962);
-          Enrico De Cristofaro (Catania, 19 novembre 1910 – Scordia, 16 dicembre 1975)
-          Giuseppe De Cristofaro (Scordia, 2 gennaio 1913 – Scordia, 1 gennaio 1984) – sposò Annunziata Romano, da cui la figlia Maria De Cristofaro.
-          Ernesto De Cristofaro (Scordia, 18 dicembre 1918 - ?) – sposò Concetta Ferrotta. Dal matrimonio nacquero Sebastiano Antonio e Alessandro Leopoldo Paolo De Cristofaro
Ricordo di aver conosciuto il Barone Giuseppe De Cristofaro quando come collaboratore del geom. Sciuto Sebastiano, padre della topografia a Catania ed inscritto all’Albo dei Geometri di Catania al n. 63, mi recai a misurare  l’ex feudo di San Basilio. Mi accompagnò nella visita del Casale di San Basilio e ricordo la sua amarezza nel vedere lo scempio che quotidianamente avveniva ai danni delle antiche e memorabili vestigia. Una figura dalla grande cordialità che mi ha regalato piccoli momenti  che sono rimasti impressi nei miei ricordi. 

14.  Scordia : I Palazzi De Cristofaro 

La nobile famiglia De Cristofaro aveva diversi palazzi a Scordia.

I Palazzi della Famiglia De Cristofaro sono indicati con la lettera X”(gialla)

Il Palazzo in Via Trabia, diventato quasi interamente di proprietà del Comune di Scordia, fu costruito verso il 1842 sotto la direzione di “artigiani palermitani”.
Occupa un intero isolato con due ingressi e nella cui rosta è posto lo stemma gentilizio della famiglia.





La parte  retrostante del palazzo su Via Bellini

Si nota lo stemma della casata sulla rosta di uno dei due portoni d’ingresso.

I De Cristofaro, secondo un’antica voce locale, vollero costruire il palazzo imponente e grandioso “onde ostruire la visuale togliere un po' d’aria alla famiglia Vecchio, fiera avversaria, il cui vicinissimo palazzo svettava sui circostanti edifici del centro storico”.
La residenza rimase disabitata per parecchi anni e l’edificio venne denominato “La casa degli uccelli” perché le rondini, un tempo molto numerose, e i passeri vi nidificavano.
Fu più volte restaurato e conserva ancora oggi un aspetto quasi monastico con gli archi che si dipartono sull’ampio cortile interno, dalla pianta quasi quadrata, e nel quale si sviluppano, in modo simmetrico, due ampie scale che portano ai piani superiori.
Della famiglia De Cristofaro sono ancora i palazzi posti su:
-          Via Principe Amedeo e Via Cavour

Palazzo De Cristofaro su Via Principe Amedeo e lateralmente su Via Cavour

Palazzo che fu costruito nella prima metà del XVIII secolo

Prospetto su Via Cavour

-          Un altro edificio, sempre su Via Cavour, poco prima di giungere alla chiesa di Santa Liberata




15.  GEOLOGIA

Nel 1846 il sig. cav. Prof. Dr. D. Agatino Longo, presentò ai membri effettivi della Sezione Geologica dell’ottavo  Congresso degli scienziati italiani, svoltosi a Genova, una sua relazione sui vulcani estinti della val di Noto in Sicilia che era stata presentata nel 1845 alla sezione geologica del Congresso di Napoli.
Nella relazione mostrò di non condividere i pareri del prof. geologo Carlo Gemmellaro e di altri insigni geologi italiani e stranieri. I materiali vulcanici secondo il professore Longo “non esistevano ed erano tutti un prodotto dell’acqua dato che sono basalti amorfi, basalti ricomposti, basalti in decomposizione, pietre ferruginose a base d’argilla, ecc.


Il De Mauro citò come

“.. all’angolo del Colle, sporgente verso il Nord, trae origine, in direzione
ad Oriente, un prolungamento di eruzione che stendesi a guisa di muraglione.
Appartiene al genere basaltico, e molti massi mostrano di essere imbevuti diuna vera sostanza quarzosa e zeolitica. In parecchi siti rinvengonsi de’ lapilli che contro ai raggi del sole palesano bizzarramente delle particelle brillanti.
Da taluni banchi svolgonsi dei ciottoli e de’ massi formati di una grana grossetta, forati di piccoli buchi; laonde riesce poco difficile il romperli, e sono poco penetrati di sostanze cristalline. Alcune palle di lava, feldispatica ossia trachitica, uscenti da seno di masse vulcaniche nello stato di distruzione, mostrano la loro struttura a strati concentrici, e nel centro chiudono un nocciolo solido e compatto ( dovrebbe trattarsi di Pillow lava)”.

Pillow lava, di grandi dimensioni
Le piante fiorite sono  la Mandragora

In direzione a Sud -Est, in una piccola valle incavata dalle piogge, inalzansi
a perpendicolo delle piccole colonne di figura prismatica, le quali sembrano
una concrezione di arena ocracea intermista a vulcaniche or già indurite
lave. Rischiarate alquanto dal tremolo raggio del nostro satellite, tra le
svariate ombre che gettan qua e là le rupi circostanti, sembrano una mano di
feroci che, ritti in quella muta solitudine, stiano appiattati per la esecuzione
di un qualche grave delitto”.

Quando vidi la valle con  queste particolari formazioni geologiche, ricordo che ne rimasi affasciato e li chiamai “Santoni” vedendo in loro qualcosa che potesse prevedere il futuro nel loro attento e silenzioso aspetto di osservatori della realtà circostante. Mi trovavo in quel luogo per fare delle misurazioni topografiche  e spero tanto che siano ancora presenti come a testimoniare un’antica civiltà e il susseguirsi di eventi antichissimi che sfuggono alla nostra memoria.

L’antico cratere vulcanico





Sulla sinistra uno dei “Santoni”

Il professore Salvatore Lanza di Palermo, nella sua nota sulla “osservazione de’ naturali prodotti del San Basilio” contenuta nella sua “Guida del Viaggiatore in Sicilia Palermo 1859” scrisse:
Parecchie miglia prima di Palagonia, sulla sinistra, si offre la collina di
S. Basilio, dove il sito offre delle doppie osservazioni a fare e per la storia
Naturale e per l’Archeologia. Sotto il primo rapporto è importante notare
che questo è uno dei molti siti dei campi Flegrei siciliani, dove si osserva
il lavoro una volta fatto dal fuoco, essendo chiaramente qui, come in altri
luoghi, un vulcano estinto. Vi si osserva la sovrapposizione intersecata di
strati vulcanici e calcarei che meritar devono l’attenzione del naturalista”.

Il prof. Giovanni Storiale del Dipartimento di Scienze geologiche dell’Università di Catania  fece degli interessanti ricerche sulla storia geologica dell’edificio vulcanico di Colle San Basilio.
Sulla base dei rilievi effettuati riuscì a ricostruire la genesi geologica dell’area e delle  variazioni che questa ha provocato nella morfologia.
Distinte ben cinque fasi di sviluppo:

I FASE: durante il Pleistocene inferiore (da 2,59 milioni d’anni fa a 781.000 +/- 5.000 anni fa) nella zona in cui si elevano Monte San Basilio e Monte Serravalle, da più apparti vulcanici subacquei, che erano attivi contemporaneamente o in momenti diversi, vennero emesse delle lave basaltiche.  Intorno ai centri d’emissione, in funzione della distanza degli stessi edifici vulcanici, si depositarono dei prodotti idroclastici.
Le ialoclastiti massive rappresentano la copertura in situ delle colate laviche


Mentre le ialoclastiti stratificate sono le porzioni distali più fini. Questi materiali si accumularono.
Questi materiali si accumularono romando dei rilievi subacquei con pendii poco inclinati.

........................

II Fase

La fine dell’attività di questi vulcani di Monte Serravalle e di Monte San Basilio fu segnata  dal  deposito di calcarenitici infrapleistoceniche. (La calcarenite è un tipo di roccia sedimentaria clastica formata da particelle calcaree delle dimensioni della sabbia (> 0,0625 mm, < 2 mm di diametro). In merito al termine “clastico” ci si riferisce a quelle rocce sedimentarie che si originano per l’accumulo di detriti di natura e dimensioni diverse, cementati o sciolti).

Blocchi di calcarenite nelle Cave di Cusa

Calcarenite marina

D   Dopo le ultime emissione dei suddetti edifici vulcanici o forse contemporaneamente, ad oriente e in un ambiente sempre subacqueo ma caratterizzato da una bassa profondità, uno o più apparati eruttivi (probabilmente disposti in modo lineare) posti nella zona occupata da Graben di Castellana, fuoriuscirono delle lave che presentavano una composizione chimica alcalina. Queste lave si riversarono lungo un pendio subacqueo poco inclinato e che degradava verso settentrione. (Con il termine di Graben s’indica una fossa tettonica e cioè una parte di crosta terrestre sprofondata a causa di un sistema di faglie  normali in regine tettonico distensivo.

Sistema tettonico di tipo distensivo, a “horst e graben”.
i due margini crostali, indicati dalle frecce, tendono ad allontanarsi
tra loro determinando il collasso di alcune parti di crosta terrestre che
formano  fosse o graben delimitati da faglie dirette.



È probabile che in questa fase eruttiva sia avvenuta l’attivazione delle faglie con direzione Est – Ovest che daranno origine successivamente a fuoriuscite di magmi tholeitici in ambiente subaereo nella zona di Monte Serravalle.
Questi vulcani di castellana  ebbero un attività con periodi più o meno lunghi di stasi che furono evidenziati dalla presenza di intercalazioni calcarinitici con livelli conglomeratici basali.
.................................

III Fase
l’attivazione di alcune faglie con direzione Nord – Sud provocò la formazione di un horst e la ripresa dell’attività vulcanica collegata al sistema tettonico. Ci furono degli esplosioni frato-magmatiche in ambiente marino di bassa profondità che diedero origine a dei depositi idroclastici. Questi prodotti colmavano, livellandole, le depressioni preesistenti determinando una morfologia pianeggiante.
La presenza di tre distinte superfici a “ripples”, sulle quali poggiano lembi discontinui di depositi di ghiaie e calcareniti, indica come le eruzioni freato-magmatiche siano avvenute in almeno quattro distinti episodi che furono intervallati di periodi di stasi durante la quale riprendeva la normale deposizione sedimentaria in ambiente marino.
(I ripples sono i segni di increspatura sulle superficie rocciosa legate al movimento dell’acqua avvenuta milioni d’anni fa nei sedimenti di acqua basse.

 

Le ultime manifestazioni legate a queste eruzioni diedero luogo all’emissione di colate sottomarine sommitali.
Nel settore orientale sulle calcareniti si sedimentarono delle argille azzurre che sarebbero il risultato di una sedimentazione in acqua più profonde o protette da particolari morfologie. In quest’area furono anche trovate tracce di eruzioni avvenute durante il periodo di sedimentazione delle stesse argille azzurre.

.................................

IV Fase
In questa fase avvenne la completa emersione dell’area.
In seguito nell’area di Monte Serravalle e a settentrione di Monte Casale di san Basilio,, da alcune zone di debolezza tettonica con andamento Est – Ovest, si verificarono delle emissioni di lave tholeitiche subaeree, che si sono riversate, in dipendenza delle nuove condizioni morfologiche, verso settentrione nella zona a Nord di Monte Casale di San Basilio e principalmente verso meridione invece nella zona di Monte Serravalle.
Queste emissioni erano collegate con l’attivazione di faglie presenti nella zona.
Nel settore orientale di verificava  l’attivazione della Faglia di Castellana, che portava all’individuazione di una zona depressa in cui iniziava l’accumulo di depositi alluvionali.
 

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V Fase
Quest’ultima fase fu legata ad un’evoluzione morfologica del territorio legata in prevalenza all’attività di faglie orientate Est – Ovest e in subordine Nord – Sud che contribuirono ad accentuare  l’andamento a horst ed a graben del rilevo.


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Il professore Curiale pubblicò nel 1999 una foto, scattata dal versante settentrionale di Monte Serravalle, che riprendeva una cupola esogena in contrada “Xirumi”. Un affioramento lavico che evidenziava una zona cirolare dove gli alberi stentavano a crescere.

In vulcanologia la cupola di lava è una protrusione circolare a forma di tumulo
risultante dalla lenta estrusione di lava viscosa da  un vulcano. Generalmente sopno
comuni nelle impostazioni di confine di pèlacche convergentio. Comunque sono
imprevedibili a causa delle loro dinamiche che possono essere di crescita, collasso,
solidificazione ed erosione. Le cupole crescono per crescita endogena della cupola o
crescita esogena della cupola. il primo caso rigiarda l’ampliamento di una cupola di lava
a causa dell’afflusso di magna all’interno della cupola stessa mentre il secondo caso, come quello di contrada Xirumu, si riferisce a lobi di lava (o porzioni di lava) che si pongono sulla superficie della cupola
(sovrapposizione in superficie di successive colate laviche).
È l'elevata viscosità della lava che le impedisce di fluire lontano dalla bocca da cui fuoriesce, creando una forma a cupola di lava appiccicosa che poi si raffredda lentamente in situ

Il De Mauro parlò anche di risorse idriche nel territorio citando come
Le vene d’acqua che emergono alle basi e nel mezzo dell’elevazione
di quelle vecchie lave, sono in genere dolci, morbide e cristalline.”
Lo storico citò anche la presenza di un’acqua minerale che fuoriesce
Da due meandri incavati nel tufo calcareo-terroso
e specifica che
per l’idrogeno solfarato o dell’idrosolfuro che di essa fa parte,
positivamente infastidisce le narici dell’osservatore”
La sua posizione non è facile da identificare con precisione..
Per un doppio scolo che a non molta distanza del prolungamento
adjacente alla schiena vulcanico-calcarea che a guisa di muraglione
dal medio dibassaento settentrionale estendesi ad oriente.
esce da due vallette contigue, e da due meandri incavati nel tufo
calcareo-terroso..”



La sua descrizione continuò affermando che
E pur degno di nota quel che siegue
Nelle  estremità di un gruppo di colline intersecate da piccole
valee, e che per la schiena di cui testè abbiam ripetuto il cenno,
è congiunto al nostrop Casale, sotto un grosso deposito di tufo
calcareo vien fuori a grossi gorgoglioni e con molto impeto
una copiosa acqua sensibilmente tiepida in estate come in inverno.
È una verità che le acque minerali nella loro primitiva azione riescono
eccitanti senza eccezione alcuna, e che per un abuso istantaneo son
capaci di disturbare, a seconda dei principj mineralizzatori in maggiore
o minor quantità in esse contenuti, l’esercizio della economia animale,
o di produrre delle passeggere affezioni cutanee in chiunque non ne
abbia giammai fatto uso. Di fatti, queste affezioni producono le
acque che vengono alla superficie non molto lungi dal
San Basilio, in contrada della Sagona. Se alcun non avvezzo beve o ribeve
delle impetuose bolle di un tal fluido, o che vi si bagni, viene ad
essere invaso da una fastidiosa eruzione cutanea pruriginosa in forma
di orticaria, durevole per un tre o un quattro giorni, o infine a tanto che
colui si abitui all’uso dell’umore mineralizzato.
Per sempre nuovi e ripetuti argomenti si è preteso e si pretende
provare che il fuoco centrale che elevò le montagne, è pur causa
delle fonti termali, delle esalazioni di gas carbonico (moffette) e di
vapori sulfurei”.

L’acqua doveva uscire con una certa forza se costrinse il De Mauro a cercare di spiegarne il fenomeno:

può darsi che ciò avvenga  per le correnti di gas acido crenico o  carbonico
e di gas idrogeno che insieme al liquido incalzano per isprigionarsi de
sotterraneo meato; e può darsi ancora per molto peso grado grado crescente del
liquido tendente di continuo a livellarsi. Perciocchè non è improbabile il credere
che introducendosi questo primieramente in un largo meandro, e passando in
seguito in condotti men larghi che lo conducono fin dove la uscita non sia punto
proporzionata al suo proprio volume, ne siegua che la forza dopo aver cresciuto
secondo il declivio procedente forse dalle vicine alture del Casale, aumentata
d’altronde dalla concomitanza de’ gas sopra cennati, sospinga esso liquido a
sgorgare con furia e con violenza”.

L’Ingegnere Don Carmelo Lanzarotti di Siracusa, vittima dei moti rivoluzionari contro i Borboni  del 1848, visitò il Colle San Basilio  nel 1822 probabilmente per un indagine geologica per lo scavo di un pozzo.

Riferì all’arciprete De Cristofaro:
Reverendissimo, scorre un gran fiume sotto questa vostra montagna.

Una verità affermata dall’ingegnere dato che al tempo, nella vicina contrada “Sagona” erano presenti ben 50 salme di risiere.
L’arciprete affermò che:
facendo egli eseguire nel dibassamento orientale del Casale alcuni incavamenti
per investigazione d’acqua; dai minatori ch’eransi molto inoltrati
orizzontalmente in quel terreno, udissi, da qualche screpolo forse o sottil
fessura che si si ebbe a riempire tantosto per qualche ragione sconosciuta;
udissi un sordo rumoreggiar d’acque che queglino dissero
“come un fiume che scorre”.

 Il De Mauro aggiunse come l’arciprete alla fine “con genio e coraggio” riuscì  a captare o “a troncare almeno in parte” il corso del fiume sotterraneo in modo che con le sue acque riuscì a migliorare dal punto di vista agricolo i terreno sottostanti Sul pendio orientale del Colle era presente un’antica sorgente che fu utilizzata in epoca antica. Il De Mauro citò questa fonte per gli interventi eseguiti dall’arciprete su di essa:

che accresciuta dai tentativi dell’arciprete parroco De Cristofaro, e
da esso lui incanalata, dopo un miglio e mezzo di tortuoso corso,
nuovamente svolge la sua argentea purezza dinanzi ad un delizioso casino che
quel prelato ha riabbellito per comodo e solazzo di se e dei suoi.
Un acqua pura e limpida....

Nel 1854 l’arciprete De Cristofaro fece intraprendere  da “mano perita taluni incavi” per  verificare la presenza o meno di una miniera di zolfo.
A poca distanza dal principio di un incavamento, trovaronsi cristallizazioni in piccoli
Prismi esagoni e verticalmente modificati, traslucidi, di aspetto vitree, biancastri, ecc.
Nessuno non avrebbe potuto ravvisare in questo minerale il carbonato di stronziana.
Il Carbonato di stronziana è una polvere bianca che serve a fare delle fiamme di colore rosso).
Perciocchè a ragione il prelato anzidetto veniva assicurato da quello indagatore della
esistenza dello zolfo. Se non che da costui si disse di essere un po' difficile di giungere a
rinvenirsene l’abbondante miniera in un terreno così duro e scabroso, e quelle
cristallizazioni esser pertinenti ad una vena o ramificazione di essa”.
Il De Mauro riportò anche una confidenza del suo amico barone Sebastiano De Cristofaro che gli rilevò come
Anni addietro da un Salvatore Lucchese, non analfabeta, fu trovato al
Casale uno strato di arena dotata di un certo grado di pellucidità e di color
zecchino. Non volle a nessuno  manifestarne il sito. Sognava il gonzo di
tesaurizzare, ritenendolo per un oro purissimo. Non possiamo giudicarne la origine e composizione, né decidere se mai la colorazione fosse dipendente dal
quatri-solfuro cubico, o dal solfuro di ferro, o dalla pirite o idrosolfuro e solfuro  di rame”.

Nei dintorni di San Basilio furono trovati pezzi e frammenti di ossa di animali terrestri fossilizzati.
Nel 1837 si rinvennero
Talusa ossa che si credettero di elefante.
Er l’or già estinto valoroso medico prof. Digiacomo, in una sua
Relazione Accademica (Catania 1837) che nel 30 maggio di quello stesso anno
leggeva alla Gioienia di Scienze Naturali, scrisse:
A Scordia, e precisamente al Casale, si fu ritrovata una difesa di Elefante di 4 palmi circa, rotta in pezzi, svolta dalla calce carbonata che a me inviò il nostro socio corrispondente mio amico Dottor  Pugliese”.
Il De Mauro si recò sul luogo in cui fu trovato il fossile e riferì di aver  notato la presenza di un detrito sabbioso ed argilloso ma non di calce carbonata.
Riferì anche di aver notato la presenza di grandi mascelle e di tibie pietrificate.
Non sappiamo se debbano riferirsi alla classe degli Elefanti, oppure a
quella oggi perduta, o abitante altri climi sconosciuti,
de’ Mamouth, confusi da molti con la precdente”.

16.  STORIA

Lo sviluppo di Brikinnia, posta sul Monte San Basilio, fu legato, a prescindere dalla sua origine o meno sicula, agli avvenimenti che coinvolsero le colonie calcidesi e doriche nel 476 a.C. e che trovarono nell'antica Leontinoi l'elemento cardine degli avvenimenti storici.
Secondo Tucidide
Thoukles e gli abitanti di Naxos calcidese, cinque anni dopo la fondazione di
Siracusa fondarono Leontinoi, dopo aver cacciato i Siculi con le armi”.
La fondazione della sub-colonia di Leontinoi si potrebbe fissare intorno al 729 a.C.
La prova degli avvenimenti narrati da Tucidide troverebbe conferma nel ritrovamento di un insediamento indigeno risalente all’età del ferro nel sito che fu successivamente occupato dalla città greca.
La più antica storia della città di Leontinoi  è ignota anche se si sa dell’esistenza  del tiranno Panatios, citato da Aristotele, e della fondazione di una sub-colonia Eubea (nel 650 a.C. circa), forse da identificare con l’odierna Licodia Eubea.
(Siracusa era stata fondata un anno dopo Naxos, nel 734/733, dal corinzio Archia della stirpe degli Eraclidi... ) (Tucidide).
È  probabile che Brikinnia sia stata fondata dai Calcidesi di Leontinoi ancora prima di Eubea. In ogni caso si trattava di due presidi militari importanti per controllare il vasto entroterra, ricco e fertile, che costeggia i Monti Iblei.

Sarebbe importante sapere se i Calcidesi  abbiano trovato o meno sul colle di San Basilio i Siculi e se quest'ultimi siano stati cacciati dalle loro residenze trogloditiche o se abbiano instaurato con i colonizzatori dei rapporti di pacifica convivenza. Questo aspetto potrà essere rilevato solo attraverso scavi archeologici mirati che dovrebbero riguardare sia il pianoro sul colle che i territori vicini.
Nel V secolo a.C. Leontinoi e Brikinnia rientrarono nel dominio del tiranno Ippocrate di Gela (Ἱπποκράτης, Hippokrátes; Hippocrătes) secondo tiranno di Gela che governò dal 498/497 a.C. fino alla morte avvenuta ad Ibla nel 490 a.C.
In sette anni di potere Ippocrate riuscì a conquistare un vasto territorio che comprendeva Callipoli, Nasso, Zancle e Leontinoi.
Nella sua politica militare attaccò prima i centri minori per procurarsi dei bottini fondi per sostenere la guerra.
E’ necessario ricordare che “Ghelas” fu fondata da coloni di Rodi e di Creta, condotti rispettivamente da Antifemo ed Entimo, 45 anni dopo la fondazione di Siracusa.
La corinzia Siracusa riuscì a sfuggire alla servitù d’Ippocrate grazie ai soccorsi di Corinto e Corcira (Isola di Corfù) ma negli eventi bellici dovette cedere Camarina.
In questa campagna militare Ippocrate diventò padrone della Sicilia orientale, con l’esclusione di Siracusa e  Gelone grazie al suo valore militare dimostrato nel campo, fu nominato “Ipparco” cioè comandante della cavalleria.
Sembra che Ippocrate si sia servito di una milizia mercenaria composta da Greci e Siculi. Le città conquistate  venivano saccheggiate per ottenere ricchezze che rimetteva in circolazione coniando moneta. Una moneta necessaria non solo per pagare i mercenari ma anche per l’intensa attività edilizia che coinvolgeva Gela e la madrepatria per interventi edilizi nel santuario di Olimpia.
Per pagare le truppe mercenarie Ippocrate adottò un sistema che venne adottato anche da tiranni successivi. Istituì delle colonie militari  da destinare ai soldati e che riguardavano la concessione di vasti superfici di terreni coltivabili.
Il tiranno di Gela non distrusse quindi le città conquistate. Furono infatti affidate a tiranni vicari che dipendevano dal suo potere e  che quindi avevano un’autonomia solo formale. A Leoninoi mise il tiranno Enesidemo di Leontinoi, figlio di Pateco, che comandava anche su Brikinnia.
Con Gelone, I tiranno di Siracusa dal 485 a.C. fino alla sua morte avvenuta a Siracusa nel 478 a.C., gran parte della Sicilia orientale era sotto il suo domino fino a Naxos.
L’immagine di Gelone nello scenario politico internazionale fu importante per vari motivi.
Aiutò i Romani nel 491 a.C., secondo una notizia riportata da Dionigi di Alicarnasso, quando il senato romano chiese aiuto all’esterno per il grano a causa di una forte carestia. Gli ambasciatori romani P. Valerio e Lucio Geganio Macerino passarono l’invero a Gela e poi ritornarono a Roma con ben 25.000 medimmi di grano (circa 984 tonnellate di derrate alimentari).
Sembra che Gelone non abbia preteso alcun corrispettivo economico e considerò quel grano come una donazione (Plutarco).
Vincitore con la quadriga ai giochi panellenici di Olimpia nel 488 a.C.; sconfisse i Cartaginesi ad Himera e nelle seguenti trattative di pace entrò di scena la moglie Damarete (la protettrice dell’infanzia nell’antichità); operò una redistribuzione delle terre e delle ricchezze che avevano come obiettivo  la perdita d’importanza della classe aristocratica e del loro peso politico.
Alla sua morte il potere passò al fratello Ierone o Gerone I , tiranno di Siracusa dal 477 a.C. fino alla sua morte avvenuta ad Aitna nel 467/466 a.C.
 
 
Lo storico De Mauro trovò sul monte, così come il Principe Biscari, delle monete che in ogni caso sarebbero da considerare testimonianze archeologiche importanti per descrivere la storia del sito con una certa attendibilità e riferibili ai periodi dei tiranni Gelone e Ierone .

Nessuna moneta  riportava la scritta “BPIKINNIAƩ”.
 Il De Mauro scrisse:
“le più comuni e più facili a rinvenirsi son coniate in bronzo, col capo di Apollo coronato di alloro e nel rovescio offrono il leone grandiente e la leggenda AEONTINΩN

“Il capo laureato accenna alle tradizioni della religione dei primi coloni greci, che imponevano come nessun Ateniese si sarebbe sciolto dalla madre patria se prima non avesse sacrificato ad Apollo Arcagete per consultarne gli oracoli: il leone è invece un simbolo di Ercole e presente nelle monetazioni di Leontini”.
Aggiunse...”moneta coniata dopo il 478 a.C. tempo in cui fioriva il figliuolo di Leoprepe”.
Chi erano Leoprepe e il suo figliuolo ?
Nel 556 a.C. a Iulide, nell’isola di Ceo, arcipelago delle Cicladi,  nacque Simonide, figlio di Leoprepe. Il giovane iniziò la sua attività come maestro di cori per poi entrare nel circolo della poesia aristocratica nell’Isola di Eubea.
Isola di Ceo

Simonide fu poi inviato ad Atene dal tiranno Ipparco. A corte incontrò
Anacreonte, anche lui un esponente della poesia nobiliare. Alla morte del tiranno,
nel 514 a.C. circa, ucciso da Armodio ed Aristogitone, Simonide celebrò  l’evento come
la nascita di una nuova epoca. Fu quindi chiamato in Tessaglia dalla grande dinastia degli Scopadi di Crannon, di cui celebrò le vittorie con vari epinici cioè dei canti corali di vittoria. Compose dei carmi nel genere della poesia gnomica
(si potrebbe accostare al proverbio) e conviviale.
Il rapporto con la forte dinastia s’interruppe quando la dimora degli Scopadi
crollò e dalla strage si salvò il solo Simonide. Grazie alla sua abilità nella
mnemotecnica aiutò successivamente a riconoscere i corpi ricordando i posti a cui erano
sdraiati durante il banchetto. Nel 490, dopo la battaglia di Maratona, il poeta tornò ad
Atene e fu preferito ad Eschilo per comporre l’elogio dei caduti alle Termopoli.
Celebrò in varie elegie le grandi battaglie della prima guerra persiana e compose il
distico inciso sul tripode che il re spartano Pausania offrì a Delfi per celebrare la
vittoria di Platea. I rapporti tra Simonide e Temistocle erano molto forti e quando la fortuna politica del giovane democratico di Atene cominciò a scemare, lasciò la città e con Eschilo raggiunse la Sicilia. La presenza nell’isola di governi tirannici favorì la pratica del mecenatismo in  un ambiente adatto alla personalità del poeta lirico.
Operò presso la corte di Gerone I a Siracusa e di Terone ad Agrigento.
Alcuni citano che sia morto ad Agrigento nel 455 mentre Callimaco riportò la
sua morte a Siracusa nel 467 a.C. e sepolto fuori la città.
Un'altra figura di rilievo nella Storia del Regno di Sicilia di cui molti
sconoscono l’esistenza.

Statua di un suonatore di lira.
Copia romana del II secolo a.C. , da un originale in bronzo del V secolo a.C.
Alcuni storici hanno identificato il suonatore con Simonide.
Artista: Pitagora da Reggio
Altezza della statua: 1,68 m – Collocazione: Museo del Louvre, Parigi

A Simonide si deve l’invenzione della tecnica mnemonica che permette d’imprimere
i dati nella memoria tramite la fissazione di alcuni punti di riferimento visivi.
Tale notizia deriva da un aneddoto ambientato al tempo della permanenza di Simonide presso il re tessalo Skopas. Il re si rifiutò di pagare Simonide per un ode scritta su una vittoria perché
conteneva troppi riferimenti decorativi ai mitici gemelli Castore e Polluce. Avrebbe
pagato la metà e la parte restante “sarebbe spettata ai mitici gemelli”. Simonide stava
celebrando la vittoria con il re i suoi familiari in un banchetto quando ricevette la
notizia che due giovani lo stavano aspettando fuori   per vederlo.
Simonide uscì dalla stanza e non trovò i due giovani e si rese subito conto che la
sala del banchetto stava crollando alle sue spalle. Scopas e molti suoi parenti
perirono sotto le macerie. Chi erano i due giovani? Erano Castore e Polluce che avevano
voluto premiare l’interesse del poeta per loro, salvandogli la vita. Simonide successivamente
fece derivare alla tragedia, a cui aveva assistito, un sistema di mnemonici.
Ma questa non fu la sua unica fuga miracolosa.
Ci sono due epigrammi nell’”Antologia Palatina”, entrambi attribuiti a Simonide e dedicati
ad un annegato. Un cadavere trovato da Simonide e da alcuni suoi compagni e
sepolto in un isola. Nel primo epitaffio il defunto invoca benedizioni su coloro
che avevano seppellito il suo corpo e il secondo, invece, è un ringraziamento del
poeta all’annegato per avergli salvato la vita. Simonide era stato avvertito dal
fantasma di non salpare dall’isola. Le voci non furono ascoltare e i suoi
compagni annegarono. Dopo il crollo del palazzo del re Scopas, Simonide fu
chiamato per identificare tutti i corpi recuperati. I corpi erano ridotti
in uno stato pietoso e il poeta riuscì a completare il difficile e raccapricciante
incarico di riconoscimento correlando “le loro identità alle loro posizioni al
tavolo prima della sua partenza”. In seguito creò da questa esperienza  un
modello per sviluppare il “teatro della memoria” o “palazzo della memoria”.
Un sistema mnemonico ampiamente utilizzato nelle società orali fino a Rinascimento.
Cicerone riportò un commento di Temistocle sull’invenzione del metodo da parte
dell’amico poeta:
"Preferisco una tecnica dell'oblio, perché ricordo quello che preferirei non ricordare e non posso dimenticare quello che preferirei dimenticare".
Simonide è ritenuto portatore di un'etica originale, una visione disincanta dell'uomo e del suo operare nella comunità,
La Virtù autentica risiede solo negli dei immortali e perfetti, l'uomo non può far altro che imitare tali valori assoluti, e pertanto può accontentarsi di vivere una vita felice e serena rispettando adeguatamente le leggi e le regole. Se è un politico, governare adeguatamente portando benefici e prosperità alla comunità, senza pensare all'assillante accumulo delle ricchezze, come avviene negli arcaici elegiaci di Solone e di Teognide.
 
L'esempio di vera valenza può essere dato da azioni eroiche durante la guerra, dato che Simonide nel carme Per la battaglia di Platea così come nella Commemorazione dei caduti alle Termopili, paragona la causa bellica greca alla guerra di Troia, per valore e possenza, e per sacrificio di uomini. La valenza verrà raggiunta mediante la gloria del sacrificio umano di un piccolo drappello di Spartani, come l'esercito di Leonida alle Termopili nel 480 a.C., e il ricordo futuro della comunità e la celebrazione con steli e monumenti ne renderà la magnificenza eterna, senza occorrenza di gemiti e lamenti inutili, poiché il sacrificio servì per permettere la continuità stessa della comunità non solo spartana, ma della Grecia tutta.
Famoso il suo encomio per i morti della Battaglia delle Termopili 
«Dei morti alle Termopili
gloriosa la sorte, bella la fine,
la tomba un'ara, invece di pianti, il ricordo, il compianto è lode.
Un tal sudario né ruggine
né il tempo mangiatutto oscurerà.
Questo sacello d'eroi valorosi come abitatrice la gloria
d'Ellade si prese. Ne fa fede anche Leonida,
il re di Sparta, che ha lasciato di virtù grande
ornamento e imperitura gloria.”
«τῶν ἐν Θερμοπύλαις θανόντων
εὐκλεὴς μέν ἁ τύχα, καλός δ'ὁ πότμος,
βωμὸς δ'ὁ τάφος, πρὸ γόων δὲ μνᾶστις, ὁ δ'οἶκτος ἔπαινος·
ἐτάφιον δὲ τοιοῦτον οὔτ'εὐρὼς
οὔθ'ὁ πανδαμάτωρ ἀμαυρώσει χρόνος.
ἀνδρῶν ἀγαθῶν ὅδε σηκὸς οἰκέταν εὐδοξίαν
Ἑλλάδος εἵλετο· μαρτυρεῖ δὲ καὶ Λεωνίδας,
Σπάρτας βασιλεύς, ἀρετᾶς μέγαν λελοιπὼς
κόσμον ἀέναόν τε κλέος.”


Pompei “Casa del Poeta tragico”
Simonide in primo piano

..........................

Di Gelone (Tiranno di Siracusa dal 485 a.C. fino alla sua morte avvenuta nel 478 a.C.) il De Mauro scrisse che “ne esiste presso di me una d’argento”.

L’autore si soffermò sull’aspetto artistico della moneta mettendo in risalto la figura di Gelone:
la testa diademata di quel buon principe offre tutti i caratteri fisionomici dell’uomo che nel suo
bel volto lascia trapelare la luce di un animo grande e generoso, alieno da qualunque vano 
forsennato fastigio, una bontà naturale scolpita nelle sue labbra chiuse con grazia; e nella  
dolcezza del suo sguardo di pace, quella fermezza e lealtà nelle promesse che tanto il distinse.
Nel rovescio ha la biga retta dalla Vittoria; sul capo di questa la leggenda  ƩYPAKOƩION e sotto
i piedi dei cavalli IEAΩNOƩ

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Le monete del fratello Gerone I (Ierone) (in carica dal 478 a.C.  al 466 a.C.) sono pure “diademate, il mento carnoso e rientrato disvela la propria debolezza di spirito; la bocca fortemente chiusa, la sua violenza crudeltà, avarizia; e lo assieme delle parti fisionomiche, composte ad una tal quale aria di ostentata disinvoltura, annunzia quella vanità che fu sostenuta dalla adulazione de’ poeti che alimentava nella sua corte, quando dissimulando le violenze  onde egli si contaminò, non rifinivan di esaltarlo come generoso e giustissimo, amico della poesia e della musica.

La testa del cavaliero è coverta d’elmo, il petto di corazza: colla destra impugna lunga asta, la clamide gli sventola sulle spalle e mostra di andare alla pugna.
Sotto la leggenda..IEPΩNOƩ


Sia le monete di Gelone che quelle del fratello Gerone I (o Ierone I) furono coniate   successivamente  al dominio dei due tiranni ?. Dagli studiosi Spanhemio e Eckhel furono assegnate all’epoca “dell’orgoglioso e vano tiranno” Geronimo (basileus di Siracusa dal 215 al 214 a.C., per appena 13 mesi) mentre l’abate F. Ferrara le collocò al tempo di Gerone II (“uomo di singolare modestia che giammai volle usar alcuna insegna regia che lo distinguesse dagli altri cittadini”). Secondo gli studiosi l’assegnazione cronologica sarebbe legata alla nitidezza del disegno, alla vaghezza dei contorni, alla pienezza delle figure, all’esatta esecuzione del conio, alla sostituzione della omega alla omicron e il diadema che non fu usato sia da Gelone che dal fratello Gerone I.. Tutti caratteri propri di quel secolo che fu definito dagli storici come un “luminoso artistico periodo”. 

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A Leontini e Brikinnia ,  intorno al 476 a.C.. Ierone deportò  nei due centri gli abitanti di Naxos (Nasso) e di Katana.
Si tratta di un intenso programma di redistribuzione demografica che venne attestato da Diodoro Siculo:
«Ierone, dopo aver cacciato dalle loro città i Nassii e i Catanesi, vi inviò propri coloni, raccolti cinquemila dal Peloponneso e altrettanti da Siracusa. Catania la ribattezzò in Áitna e assegnò in lotti non solo il suo territorio, ma anche molto di quello limitrofo [...] sia perché voleva disporre [...] di una forza di intervento pronta e numerosa, sia perché mirava a ottenere onori eroici da una città di diecimila abitanti. Trasferì poi in Lentini i Nassii e i Catanesi scacciati dalle loro città, obbligandoli a coabitare con gli indigeni”.
 
Un operazione che fu favorita da una forte eruzione dell’Etna che venne citata anche da Pindaro ed Eschilo.
L’eruzione sarebbe legata a Monte Arso nel territorio di Ragalna.



Una quercia secolare vicino Monte Arso 

Il ripopolamento definisce tre centri del dominio del regno di Gerone:
a.       La capitale Siracusa;
b.      Leontini dove i calcidesi erano attentamente controllati dato che vi risiedano anche dei mercenari
c.       Aitna, sarebbe l’antica Katane ribattezzata e dove risiedano  dei mercenari.
Gerone morì nel 466 a.C. .. lapidato non si sa da chi...

La sua statua che era stata scolpita in suo onore, cadde nel giorno in cui morì. Si tramanda come venne sepolto in Aitna ma la città non sopravvisse a lungo. Dopo la morte di Gerone i calcidesi tornarono e cacciarono i coloni di Aitna che si rifugiarono ad Inessa.  Ad Aitna venne di conseguenza restituito l’antico ed originario nome di Katane mentre Inessa venne ribattezza “Aitna”. Il monumento funebre che era stato dedicato a Gerone venne distrutto.
Non bisogna dimenticare che alla corte di Gerone trovarono grande ospitalità Eschilo, Pindaro, Simonice, ecc.....
Trasibulo,  fratello di Gerone, fu l’ultimo tiranno della stirpe dei Dinomenidi. E rimase al potere per circa tredici mesi.
Un avvenimento importante perché fu sempre commemorato con grandiosi festeggiamenti annuali in onore di Zeus Eleuterio, il cui profilo appare nelle monete del periodo.
Era l’anno 465 a.C.
Festeggiamenti per la riconquista della libertà democratica che avvenivano nell’Ara di Ierone (Gerone ).

LA DEMOCRAZIA

 

Non oggi per la prima volta, ma da sempre li conosco, costoro che con simili discorsi o altri ancora più dannosi e con i fatti vogliono spaventare voi, il popolo, per aver loro il comando della città. E certo temo che dopo molti tentativi possano riuscirci
(Dal discorso del democratico Atenagora di Siracusa)

Fu un periodo caratterizzato da molti eventi: la rivolta dei Siculi capeggiati da Ducezio; la spedizione ateniese in Sicilia, il ritorno dell’insidia cartaginese.
Parlare di democrazia, un termine di cui ancora oggi forse non comprendiamo il significato, è piuttosto azzardato.
In merito le parole di Aristotele furono molto chiare dato che parlò di “reggimento politico” cioè di una “politheia”..”un “sistema che comprendeva l’oligarchia e la democrazia”.
Un governo “democratico” che era presente ad Atene con Pericle e che si era diffuso si Sicilia.
L’intenzione dei Siracusani era quella di abbandonare la politica militare e di egemonia degli anni precedenti per raggiungere i seguenti obiettivi: uguaglianza, pace, fraternità fra i siciliani.  Belle parole.... ma solo parole come avviene nei nostri giorni,,, dove fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare......
Eppure qualcosa non andò per il verso giusto in quegli anni perché i Siracusani ben presto si trovarono ad affrontare un gravissimo problema rappresentato da una forte coalizione Siculo – Sicana  - Elima che aveva come obiettivo la messa in atto di un freno alla politica siracusana che era diventata troppo espansionistica.
I conflitti erano anche interni e in particolare con la colonia calcidese di Leontinoi.
Per liberarsi dalla dominazione siracusana, la città di Leontinoi promosse una lega di città calcidesi chiedendo anche l'aiuto di Atene.
Questa alleanza, rinnovata nel 433, sarà all'origine dell'intervento ateniese in Sicilia.
Per convincere Atene ad un suo intervento militare, i Leontini mandarono ad Atene il celebre Gorgia, il più grande retore del tempo, fondatore della prima sofistica.

Gorgia (Gorgias de Leontinos) ( Γοργίας)
(Leontinoi, 460 a.C. circa – Larissa, 380 a.C. circa)
Filosofo sofista – allievo di Empedocle
Alunni : Ippocrate e Isocrate

Nel 424 a.C. tutte le polis convolte  si riunirono a Gela per trattare la pace.
Il congresso, uno dei primi della storia, sancì la fine delle ostilità.
Gela fu scelta come sede del Congresso di pace perché città culturalmente e politicamente importante e posta in una posizione baricentrica sia dal punto di vista geografico che politico della Sicilia.
Il generale siracusano Ermocrate prese la parola nel Congresso auspicando una pace duratura tra le città sicule:

Ermocrate
(Siracusa, seconda metà del V secolo a.C. - ?, 407 a.C.)
Politico e militare siceliota

Non è vergogna per uomini che abitano la stessa patria scendere a qualche concessione reciproca, Dori a Dori, Calcidesi a quelli dello stesso ceppo e, in complesso, tra genti vicine che abitano il medesimo suolo, lambito dal mare e distinto da un unico nome di popolo: Sicelioti. Combatteremo, io credo, e ricorreremo alla pace quando sarà opportuno, ma sempre tra noi, appellandoci a trattati che noi soli riguardino....” (Tucidide, La Guerra del Peloponneso – IV 64).

Ermocrate nel suo discorso rilevò l’aspetto di una possibile nuova spedizione ateniese. In ogni caso il suo discorso fu “unitario” e si potrebbe definire come il primo personaggio politico a pronunciare in un discorso pubblico la visione di un “unico popolo”  che invitava all’unità delle genti di Sicilia.
Come si vedrà più avanti la pace tra le poleis siciliane non durò e il congresso di Gela fu presto un ricordo.
Nel trattato di Gela, nel 424, gli abitanti di Leontinoi ottennero la cittadinanza di Siracusa.
Ma la crisi sociale a Leontinoi era già al culmine; due partiti o classi sociali si scontravano con progressivo ardore.
Da un alto i popolari che chiedevano la spartizione delle terre che erano state sottratte ai Siculi al momento della colonizzazione di Leontinoi e dall'altro la classe aristocratica che non avrebbe mai accettato di perdere i fondi agricoli su cui si basava la propria supremazia economica.
Fu così che l'aristocrazia di Leontinoi chiese, per placare le rivolta o le esuberanti richieste dei popolari, l'aiuto della vicina Siracusa.
Questa espulse da Leontinoi il demo, mentre gli aristocratici si rifugiarono a Siracusa.
La richiesta di aiuto da parte del partito democratico fu nuovamente rivolta ad Atene, con la promessa di un risarcimento di denaro.
Tale richiesta fu la causa di una nuova spedizione Ateniese dalla Grecia, ( ci fu anche una richiesta d’aiuto da parte di Segesta attaccata dai Selinunte) che finì col provocare non solo una delle più gravi sconfitte subite dagli Ateniesi nel corso della storia, ma anche la distruzione totale o parziale della stessa Leontinoi.
 
Per gli ateniesi l’esito della sua prima spedizione in Sicilia fu disastroso.
Gli ateniesi, rimpatriati con l’esercito, esiliarono gli strateghi Pitodoro, Sofocle e multarono Eurimedonte. Tutti sarebbero stati corrotti dall’oro dei nemici in particolare dei siracusani e alla fine, anche se a malincuore, l’assemblea  ateniese accettò le decisioni del Congresso di Gela. Alla città di kamarina sarebbe rimasta Morgantina mentre a Siracusa avrebbe avuto un indennità.
Questa sconfitta fu la prima tra gli innumerevoli successi che la storia di Atene aveva sempre coronato, in particolare con l’Atene di Pericle. Avevano sempre  dimostrato una grande sicurezza nei confronti bellici e probabilmente questa considerazione giocò a loro svantaggio anche perché l’evento bellico era molto distante dalla madre patria e quindi in un ambiente per molti in gran parte sconosciuto.
 
 
I democratici di Leontini furono costretti ad abbandonare la città per rifugiarsi a Brikinnia dove, come tutte le colonie calcidesi, vigeva la legislazione di quel grande legislatore catanese, di nome Caronda.
Tucidide non solo descrisse gli avvenimenti su menzionati, ma riportò nelle sue narrazioni anche del viaggio fatto da Feace, grande artefice del trattato di pace del 424 a.C., il quale da ritorno da Gela, "attraverso il territorio dei Siculi" per andare a Katane, si sarebbe fermato a Brikinnia.
La città ebbe quindi un incremento demografico con l'esodo degli abitanti provenienti dalla vicina Leontinoi e merita quindi attenzione la definizione di Stefano Bizantino che citò il sito come "città della Sicilia".
L'antico sito venne così circondato da una serie di ricchi villaggi che si svilupparono nelle vicine contrade di Sirume, Cucco, San Giorgio, Santorello, Palazzelli, tutti facenti parte dell'ex feudo di Castellana, che avevano nella forte ed inespugnabile Brikinnia il loro caposaldo militare, economico e politico.
I rinvenimenti archeologici che si sono susseguiti sin dal lontano 1824 stanno a dimostrare la continuità di vita che ebbe il centro.
Una delle monete più antiche è di rame, senza iscrizione, della grandezza di una dracma attica, con raffigurata da un lato la civetta con un leone in cammino ben rilevato e con l'albero della palma nel rovescio e risale probabilmente ad un periodo antecedente alla "dominazione siracusana".
Negli anni successici la città di Leoninoi dovette rimanere quasi deserta se nel 406 vi furono  sistemati gli Agrigentini cacciati dall’avanzata Cartaginese. In questi anni la città è infatti un avamposto, così come Brikinnia, di Siracusa  abitato da esiliati e da stranieri.
Dichiarata libera dopo la vittoria cartaginese su Dionigi di Siracusa nel 405, sarà rioccupata e fortificata nel 396 dal tiranno che vi immagazzinò i cereali del ricco territorio e vi insediò 10.000 mercenari, ai quali concesse, invece della paga, il possesso della disgraziata città con il suo territorio.
 
A questo punto è necessario fare alcune considerazioni su Brikinnia.
 Brikinnia quindi in possesso dei mercenari e posti a presidio del territorio ?
La corazza rinvenuta sarebbe quindi appartenuta al capo dei mercenari visto anche il pregiato corredo funerario ?
Ultimo punto sarebbe legato al “Tempio sotterraneo delle colonne” perchè qualche storico avanzò l’ipotesi che non si trattasse di una “cisterna” ma di un deposito di grano. La presenza delle canalette esterne servirebbe a convogliare l’acqua meteorica verso punti prestabiliti per preservare il deposito da infiltrazioni d’acqua.
Ipotesi probabili ?
Solo degli scavi archeologici potrebbero confermare l’ipotesi della sua destinazione d’uso a granaio. A quando sembra gli unici “scavi”, a prescindere da quelli eseguiti dall’Orsi e dalla Lagona, furono effettuati dai tombaroli e in modo sbrigativo con ruspe e altri macchinari. Uno scavo naturalmente eseguito non in modo “scientifico” ma con la tecnica del “mordi e fuggi”.... con la speranza di trovare qualcosa. Certo i reperti rinvenuti saranno stati molto numerosi perché l’Orsi già nel 1922 si trovò davanti alla visione di una zona letteralmente sconvolta.
Negli anni 1970/80 quando misurai la proprietà del barone De Cristofaro notai anche delle ruspe che lavoravano sul colle... in maniera del tutto indisturbata e a dispetto di un controllo del territorio da parte delle autorità... chissà quanta gente s’è arricchita vendendo nel mercato d’antiquariato i reperti che vi furono rinvenuti...
 
Ma torniamo alla pagina storica lasciando le persone che non rispettano l’ambiente alle loro tristi miserie umane...
Leontinoi fu quindi direttamente convolta nelle guerre intestine tra Dionigi il Giovane e Dione.
Al suo ritorno a Siracusa. Dopo l’esilio,  Dionisio II Il Giovane aveva quindi ripreso il potere della città cacciando il fratello Niseo. Il suo potere nella città era debole così  come nel resto dell’isola. Era un periodo caratterizzato dalla presenza di numerosi tiranni:

Leptine, uccisore di Callippo si era stabilito ad Apollonia e ad Engio (Troina?);
Manerco, mercenario campano a Katane;
Un tiranno della stirpe Apolloniade ad Agirio;
Nicodemo a Centuripe;
Ippone a Messana
Andromaco a Tauromenio;
Iceta, originario di Siracusa, a Leontini.

In questo periodo Brikinnia, sul Monte San Basilio, risulta probabilmente  soggetta alla madre patria Leontini che si era liberata dal dominio siracusano.
Nella fortezza di Brikinnia  erano sempre presenti dei mercenari dato che in questa fase di grave crisi economica per l’isola, risultava essenziale l’assunzione e il mantenimento del potere per le varie polis.
I siracusani guidati da Iceta di Leontini si rivolsero a Corinto ed i Corinzi decisero d’inviare in Sicilia un esercito di volontari e mercenari. All’unanimità i Corinzi votarono l’affidamento della spedizione a Timoleonte.

Ritratto di Timoleonte
Artista: Giuseppe Patania
(Palermo, 18 gennaio 1780 – Palermo, 23 febbraio 1852)

A Metaponto Timoleonte fu informato da alcuni emissari di Iceta che il tiranno di Lentini s’era impadronito di Siracusa e che Dionisio II si era barricato ad Ortigia.
C’erano ancora dei tiranni che contendevano a Siracusa il dominio e cioè Iceta, Mamerco, Ippone, Nicodemo e Apollonide. Tutti erano animati dalla paura che Siracusa, aiutata dalla madre patria Corinto, li avrebbe prima o poi rovesciati.
Ancora una volta Timoleonte fu costretto ad intervenire.
Iceta, forse il più agguerrito, fu sconfitto e condannato a morte per tradimento insieme al figlio. Purtroppo la componente femminile della sua famiglia venne condotta a Siracusa e condannata a morte dall’assemblea del popolo.
I cartaginesi stipularono  un trattato di pace , 339/338 a.C., con Timoleonte che stabiliva nel fiume “Halikos” (l’odierno Platani) il confine del loro territorio.


Nel trattato gli stessi cartaginesi riconoscevano l’indipendenza di tutte le città greche ad oriente del fiume. S’impegnavano ad astenersi da qualsiasi alleanza con eventuali tiranni  della zona greca e ogni cittadino greco della provincia cartaginese, se lo avesse desiderato, era libero di trasferirsi a Siracusa.
I tiranni ancora in guerra erano ormai isolati e per Timoleonte fu facile sconfiggere Mamerco di Katana e Ippone di Messana che vennero giustiziati. Mamerco fu crocifisso mentre Ippone fu torturato a morte nel teatro di Messana davanti a numerosi spettatori fra cui alcuni adolescenti che erano stati condotti nel teatro dalle vicine scuole.
Al tiranno Andromaco, che aveva appoggiato Timoleonte sin dal momento in cui era giunto in Sicilia,  gli fu concesso di restare a capo della città di Tauromenio.
 
Da non dimenticare nell’opera sociale politica di Timoleonte anche l’adozione della costituzione siracusana. Si dovrebbe parlare all’infinito sull’importanza di questo condottiero morto tra il 337 ed il 336 a.C.
Timoleonte, ormai padrone di Siracusa, con grande impegno cercò di ricostruire l’antica immagine della città rispondendo alle istanze popolari.
Una città che mostrava evidenti segni di crisi economica e demografica a causa delle guerre civili e dell’occupazione cartaginese.
Per rimediare allo spopolamento Timoleonte promosse una serie di bandi di colonizzazione.  Furono circa 60.000 le unità che affluirono da tutto il mondo greco per ripopolare Siracusa e tra questi c’era anche un profugo da Terme (città sorta dopo la distruzione di Himera), il giovane Agatocle, che sarà il futuro tiranno.
L’apporto   umano fu notevole soprattutto per lo sviluppo agricolo e fu testimoniato anche dai ritrovamenti archeologici del periodo che sembrano testimoniare delle cifre al rialzo.
Cercò di fronteggiare la crisi economica con un opera di redistribuzione della chora, cioè del territorio della polis con vendita a condizioni agevolate di immobili demaniali e con sussidi ai meno abbienti.
Ad eccezione della statua di Gelone, mise all’asta le statue dei vecchi tiranni per avere dei fondi con cui finanziare la guerra ai cartaginesi.
La sua opera fu fondamentale nella rinascita della città anche nel campo dell’edilizia monumentale e  sociale favorendo anche le classi meno abbienti.
Alla fine della sua vita ebbe dei gravi problemi alla vista e si ritirò a vita privata non facendo ritorno a Corinto  ma rimanendo a Siracusa. Si narra che ormai cieco, quando si presentavano dei problemi da affrontare nella vita cittadina partecipava sempre all’assemblea cittadina prendendo la prola.
Ai suoi funerali affluirono genti da tutta la Sicilia e nel suo funerale, secondo il racconto di Plutarco, un tale Demetrio prese la parola e con voce potente lesse da un manoscritto un decreto che recitava:

«Il popolo di Siracusa qui onora il rito funebre di Timoleonte, figlio di Timodemo, di Corinto, con duecento mine, e lo riverisce in eterno con gare musicali, equestri, ginniche; egli infatti cacciò via i tiranni, vinse i barbari in guerra, restaurò la grandezza delle città devastate e ridiede ai Sicelioti le loro leggi”

«ὁ δῆμος ὁ Συρακουσίων Τιμολέοντα Τιμοδήμου
Κορίνθιον τόνδε θάπτει μὲν διακοσίων
μνῶν, ἐτίμησε δ᾽ εἰς τὸν ἅπαντα χρόνον
ἀγῶσι μουσικοῖς, ἱππικοῖς, γυμνικοῖς, ὅτι
τοὺς τυράννους καταλύσας καὶ τοὺς βαρβάρους
καταπολεμήσας καὶ τὰς μεγίστας τῶν
ἀναστάτων πόλεων οἰκίσας ἀπέδωκε τοὺς
νόμους τοῖς Σικελιώταις.”

(Plutarco, Vita di Timoleonte, 39.5)

Siracusa – I Funerali di Timoleonte
Artista: Giuseppe Sciuti

Zafferana Etnea, 26 febbraio 1834 – Roma, 13 marzo 1911
Datazione: 1874 – Collocazione: Galleria Arte Moderna, Palermo

Sotto l'eroe repubblicano di Siracusa, Timoleonte, la città ebbe il suo maggiore sviluppo e le contrade attorno a San Basilio si popolarono anche con la costruzione di importanti edifici.



Proprio in contrada Palazzelli, in una grotta antichissima, vi era un antico bagno, che l'allora proprietario Antonino Trovato, destinava a cantina.
Per chiudere la grotta e collocarvi un cancello, il vecchio proprietario fece fare delle opere di scavo.
Nel corso di questi lavori si rinvennero numerose colonnette di marmo bianco, "attortigliate nella loro superficie di spire con cavette o scanalature di circa oncia una di diametro".
Al termine dello scavo, "profondo palmi sette siciliani", (circa 25 cm), fu rinvenuto un pregevole lastrico di marmo cipollino. "di bel marmo rosso e di granito greggio, tutto messo in bella simmetria a foggia di mosaico".


San Basilio visto da Contrada Palazzelli

Il De Mauro fu presente al rinvenimento e riportò la sua breve relazione che ritengo sia molto interessante  anche se, purtroppo il reperto sicuramente andò perduto..
“non ha guari che si è a caso trovato in questa contrada un antico bagno del periodo artistico luminoso de’ Greco-Sicoli, in piedi di una rupe (concrezione tufaceo-calcare) assai pittoresca, sportà al meridiano, davanti ad un antichissimo antro dei tempi trogloditici o lestrigoni, il quale dall’attuale proprietario Antonino trovato è destinato ad uso di cantina.
Dalla rupe spolpata onninamente di particelle di terra coltivabile, colavan le acque pluviali, e depositavansi bell’altro, daddove introducevansi al bisogno del bagno.
Il cennato proprietario voendo dilatare il vano della cantina, faceva calar le fondamenta per impiantarvi il muro di prospetto con sua porta d’ingresso.
Nel corso di questa operazione, si rinvennero alcuni pezzi di colonnette di bel marmo bianco, attorcigliate nella loro superficie di spire con cavette o scanalature di circa oncia una di diametro.
(un oncia = 2,15 cm circa)
Uno di quei pezzi o rottami offre l’imoscapo (estremità inferiore del fusto di una colonna) di una delle colonnette, ed ha once otto di diametro (17 cm), senza che vi si comprendessero le spire dello scannellamento, ed once nove (19 cm), comprendente le menzionate spire.
Altro rottame, non lungi dal sommoscapo conveniente, ha once sei di diametro (13 cm circa), senza che vi fossero comprese le spire, ed once sette (15 cm circa) comprendendovi queste.
Giunti che furono gli operai al termine della escavazione profonda palmi sette siciliani (1,80 m)( un palmo = 25,775 cm), rinvennero un pregevole lastrico di elegantissimo marmo cipollino, di bel marmo rosso e di granito greggio, tutto messo in bella simmetria e foggia di mosaico.
Si desidera che il proprietario si accingesse ad imprendere, dietro che a viva istanza abbian cercato d’indurvelo, un’apposita escavazione, che di altronde potrebbe costar poco, per così rinvenirsi nuovi pregi e testimonianze dello antico lustro delle arti in Sicilia”.
Il reperto poteva essere di epoca romana e il De Mauro non specificò se  fu salvato. Dalla sua relazione sembra quasi che il proprietario  non avesse intenzione di continuare nello scavo. 
 
In Contrada Cucco il De Mauro segnalò “oltre alcune monete greco-sicole in oro e in rame, e oltre un buon numero di monete dei tempi romaneschi, sonosi recentemente rinvenuti aquidotti di piombo e di enormi massi riquadrati. I vari rottami di creta cotta, e sovratutto di dolii, idrie ed altri utensili”.
Il sito fu scavato negli anni trenta del secolo scorso e venne rilevata la presenza di una villa di periodo romano con i “Resti di una fattoria il cui alzato era realizzato in conci isodomi di grandi dimensioni”. (Che fine hanno fatto queste ricerche ?)
Nei pressi si rinvennero frammenti di ceramica databili tra il I ed il II secolo d.C.
Nei pressi si rinvennero frammenti di ceramica databili tra il I ed il II secolo d.C.
Nei primi decenni del sec. XVI il sito, insieme a S. Basilio, apparteneva alla famiglia Balsamo (?).
Oggi, seppure all’interno di un agrumeto, si conservano ancora lunghi tratti di mura, alte anche un paio di metri, costituite da grossi blocchi di pietra e in qualche parte è possibile rilevare piccoli tratti di pavimento rosso decorato con piccoli frammenti bianchi (?).
 
 
In Contrada “Sirune” (Xirume), nella proprietà dell'allora barone di Serravalle, furono rinvenute delle sepolture greco-sicule e avanzi di antiche fabbriche “nella base occidentale antichissimi antri”
Nel 1858 nelle falde occidentali del colle furono scoperte due urne rotonde di piombo, a poca distanza l'una dall'altra. destinate a contenere le ceneri di personaggi importanti.
L'avidità di coloro che fecero l'importante ritrovamento, coloni locali e "vangatori calabresi", fece dividere l'importante reliquario in piccoli pezzi.
Una lamina di appena "quattro pollici di larghezza e cinque di lunghezza" era di proprietà del prete di Scordia... “A stento  potei acquistarne una lamina, assai doppia, di quattro pollici circa di larghezza e cinque di lunghezza”.
Da questa località provengono materiali preistorici, prevalentemente castellucciani, oggi depositati al museo archeologico di Adrano ed in parte esposti.
Successivamente sede di un casale medievale attestato fino ai primi decenni del XV secolo
 
Belle pagine di storia, forse sconosciute a tanti, dove appare anche la figura di uno dei maggiori filosofi dell’antichità come Platone, allievo di Socrate e maestro di Aristotele, giunto in Sicilia con la sua filosofia del “buon governo”.
Ma sullo specifico in merito a Brikinnia sembra assodato la sua dipendenza dalla corinzia Siracusa così come per Leontinoi, entrambe calcidesi.
 Una simile tesi dovrebbe essere confermata da indagini archeologiche mediante il rinvenimento di reperti.
 Purtroppo la zona è stato oggetto di escavazioni da parte di tombaroli, un azione ripetuta nel tempo senza alcun intervento da parte delle autorità competenti responsabili nel presidio del territorio. Dovrebbero essere questi piccoli e minuscoli “tombaroli” a scrivere la pagina storica  avendo avuto una percezione diretta dei preziosi materiali ritrovati.
Prima d’iniziare uno scavo clandestino dovrebbero avere ben in mente un epitaffio scritto da William Shakespeare e che si trova sulla sua tomba presso la Chiesa della Santa Trinità a Stratford in Inghilterra:
Caro amico per amore di Gesù,
rinuncia a cavare la polvere che qui è racchiusa.
Benedetto colui che risparmia queste pietre,
e maledetto chi muoverà le mie ossa”.
 
Parole forti... ma quelle pietre... quei reperti.. sono Patrimonio dell’Umanità
e come tali dovrebbero essere rispettati e valorizzati e non venduti a scopo di lucro.
Un reato che meriterebbe la scomunica che d’altra parte è ancora oggi in
vigore per i piromani.

..............................
Di Agatocle (tiranno di Siracusa dal 317/316 a.C. e basileus di Sicilia dal 307/304 a.C. fino alla morte avvenuta nel 289 a.C.)...” mi è toccato di vederne due”.
“La prima d’oro col capo di Proserpina (Artemide ?) nel dritto, e l’epigrafe aiay
Vergine, nel rovescio la Vittoria che orna un trofeo, e al basso dell’esergo AIAƟOKAEOƩ  BAƩIAEƟƩ  di Agatocle.

 








La seconda moneta “è di bronzo col capo giovanile di Apollo a profilo coronato di alloro e la leggenda ΔIOƩ  EAAANIOY, Dei dei Greci.
Nel rovescio l’aquila con il fulmine, simbolo di celerità e di potenza, è cinta dalle lettere ƩIPAKAI’AƟOKAE
 
Morto Timoleonte salì al potere Agatocle che subito riuscì ad estendere il suo “orrido dominio” sull’isola riprendendo il governo di tutte quelle città e centri che sotto Dionisio II “Il Giovane”, a causa del suo malgoverno, avevano riacquistato la libertà.

Agatocle
Incisione su rame del XVIII secolo


La “triskelès” alata, simbolo di Agatocle che fu incisa sulla serie
di alcune monete emesse da Agatocle (che recano l’immagine di
Apollo sul dritto)

Agatocle stipulò un trattato di pace con i cartaginesi con il quale si stabiliva che “tutte le città dipendenti da Siracusa dovessero governarsi colle proprie leggi”.
Ma era solo una falsa promessa perché ben presto Agatocle violò il trattato di pace portando la guerra sin nel centro dell’isola e in due anni di ripetuti scontri riuscì a riportare le città greche sotto il suo dominio. Quella libertà che aveva avuto da Timoleonte, sinonimo di sviluppo sociale e culturale, s’era nuovamente perduta sotto un nuovo tiranno.
Anche Brikinnia subì gli effetti  della guerra portata all’ambizione del tiranno al comando di un esercito “depredatore”.
Il tiranno subì la controffensiva cartaginese e fu sconfitto da Amilcare, figlio di Giscone, nei campi d’Imera.
Leonzio e la sua colonia Brikinnia, Katana, Tauromenio, Abaceno e Messana dovettero a malincuore sottomettersi ai Cartaginesi.
Un buon numero di monete punico-sicule attestano questa presenza cartaginese sia sul Monte Basilio che nei dintorni. Sono di bronzo e presentano uno stile “originale e forbito, proprio di quell’epoca memorabile per artistica eleganza, con capo di donna inghirlandato di foglie di canna o di altra pianta palustre, il quale da alcuni vuolsi di Venere, o di Teti moglie dell’Oceano, e da alcuni altri di Giunone o di altra particolare deità dei Punici; e nel rovescio con il tipo del cavallo intero, e dietro a questo quello della palma fruttifera”.

I cartaginesi strinsero d’assedio anche Siracusa e Agatocle dopo alterne fortune riuscì a spostare la battaglia in Africa.
Nell’assedio di Siracusa Amilcare pur avendo un esercito di 123 mila fanti e 5000 cavalli fu preso prigioniero..condotto in Siracusa, ed ivi, dopo essere stato infelice zimbello di una plebe furente che fra obbrobrj e oltraggi li menava in catene per la città, ebbe mozzata la testa che fu mandata in Africa...”.
Il numero considerevole di monete punico-sicule che  furono rinvenute sul Monte San Basilio
dimostrerebbero come il sito non fu solo usato come importante presidio militare. Probabilmente s’insediò una consistente comunità cartaginese  dedita all’agricoltura legata ai fertili campi a valle.  Brikinnia aveva per i cartaginesi un suo valore militare ma anche civile ed economico che portò probabilmente ad una pacifica convivenza con la comunità che vi era insediata e costituita da esuli  siracusani, lentinesi ed agrigentini.
I cartaginesi dopo la sconfitta di Amilcare nominarono come nuovo generale Dinocrate.
Agrigento, dopo le guerre contro i siracusani ed i cartaginesi, si era ripopolata e approfittando del momento critico dei due contendenti, cercò di ampliare il suo territorio.
 Mise in armi una forte armata affidata all’agrigentino Senodico.  L’azione fu immediata perché in breve tempo riuscì a conquistare Enna, Erbesso e nel suo cammino s’impadronì di molte roccaforti che erano in mano dei cartaginesi e dei siracusani.  Nelle città conquistate furono riconosciuti i loro diritti e antichi privilegi. Non si hanno notizie in merito alla situazione di Brikinnia.
I cartaginesi d’altra parte cercarono di creare una lega con le città sicule per combattere Agatocle in nome della libertà.
Agatocle si trovava in Africa ed informato sugli insuccessi dei suoi generali Demofilo e Leptine, decise di tornare in Sicilia. Giunto nell’isola fu informato della vittoria riportata dai suoi due generali contro l’agrigentino Senodico che fu costretto a fuggire verso Agrigento.
Giunsero notizie negative dall’Africa dove il suo esercito aveva subito due gravi sconfitte da parte di Annone ed Imilcone. Salpò da Siracusa e giunto in Libia s’accorse delle condizioni “miserevoli”  del suo esercito.
Nonostante le forze stanche ed esigue del suo esercito volle scontrarsi con il nemico subendo una sconfitta.
Agatocle era “avvilito e smagato per quest’ultima sconfitta subita, sfornito di truppe, oppresso da melanconici pensamenti, e credendosi in pericolo di essere assassinato da un suo figliuolo,  lasciò l’Africa, e tra difficoltà e stenti ritornò in Sicilia”.
Il suo esercito venne abbandonato in Libia e i militi uccisero i due figli di Agatocle per poi arrendersi ai cartaginesi. Per vendetta Agatocle “ strozzò a Siracusa i parenti dei suoi generali che lo avevano tradito in Africa”.
I cartaginesi chiesero ad Agatocle la restituzione delle città e dei presidi che avevano conquistato nell’isola e in segno di pace gli mandarono, secondo la versione di Timeo,  “150 talenti d’oro, oltre dugento mila medimni di frumento”. (Il medimno era l’unità di misura di volume per le sostanze secche).
Brikinnia era di nuovo in potere dei siracusani di Agatocle.
Il tiranno morì nel 289 a.C. avvelenato da Menone che prese la “suprema autorità”.
Nuove oppressioni per Brikinnia ed altre città greche di Sicilia.
I siracusani, stanchi di continue tirannie, affidarono il comando dell’esercito al concittadino Iceta per attaccare Menone. Questi chiese l’aiuto dei cartaginesi  pronti a scendere in campo in cambio di acquisizioni e restituzioni territoriali ma Iceta riuscì a conquistare il governo della città ancora prima dell’intervento cartaginese.
Gli agrigentini s’erano ripresi dalla sconfitta subita da Agatocle e  con un esercito composto anche da ribelli ed esuli siracusani, si spostò verso Ibla al comando di Finzia. Ad Ibla vennero attaccati e sconfitti da Iceta.
Sul Monte San Basilio furono trovate alcune monete del tiranno agrigentino Finzia e  questi ritrovamenti fecero avanzare l’ipotesi che l’esercito agrigentino “abbia dimorato in Bricinnia con l’esercito alleato cartaginese e che via sia perdurato sin dopo che Iceta, gonfio per la battaglia d’Ibla, fu sconfitto con incredibile strage nelle vicine sponde del Teria (l’attuale fiume San Leonardo) dall’armata cartaginese, e costretto a fuggirsene in Siracusa”.
Di queste monete una di bronzo fu trovata sulle pendici orientali del Colle “di esimia (perfetta) conservazione, offre nel dritto il capo di Diana dea della caccia, delle selve, dei monti, col turcasso sporgente dietro il collo, e nel rovescio un cignale furibondo in corsa, con bocca spalancata, grifo strano, ottusa proboscide ritorta in su, coda tesa, orecchi levati, setole irte; e sopra la leggenda
BAƩIAEΩƩ, e sotto ΦINTIA (“io genero”).


Molte medaglie emesse dai tiranni di Siracusa hanno il volto di Diana nel dritto perché venerano la Diana Liberatrice e salvatrice con la speranza di avere i suoi favori.
Durante l’assenza di Iceta s’era impadronito del potere cittadino Tinione. Trovò subito l’opposizione di Sosistrato (280 a.C.) anche lui in preda alle stesse ambizioni di potere. Si scatenò una sanguinosa guerra civile e i cartaginesi sfruttarono l’instabilità politica di Siracusa per riconquistare molti territori e tra questi Brikinnia.
Una poderosa armata cartaginese s’accingeva a conquistare le grandi polis dell’isola.. “una flotta di cento vascelli e con cinquantamila armati”.
Tinione e Sosistrato si resero conto dell’inutilità di quella lunga e sanguinosa guerra fratricida per la conquista del governo della città e decisero d’unirsi per fronteggiare il comune nemico cartaginese.
Inviarono a Pirro, re di Epiro, che si trovava a Taranto, dei messaggeri per invitarlo a scendere in Sicilia per liberare “i Greci dalle mani dei barbari”.
Pirro “ricevè i messi graziosamente” e salpò da Taranto alla volta delle coste siciliane.
Sbarcò a Tauromenio, raggiunse Catania per poi procedere verso Siracusa.
Il suo era un esercito di “trenta mila fanti e due mila e cinquecento cavalli”... entrò a Siracusa senza trovare alcuna resistenza da parte dei Cartaginesi (278 a.C.).
Giunsero a Siracusa degli ambasciatori da Leonini,  la città si era unita a Tinione e Sosistrato, e pregarono Pirro di recarsi “senza indugio a prendere sotto la sua protezione i loro stati, ed offrendogli di dare in suo potere la loro rispettiva città, e di unirsi alle forze di lui con un corpo di quattromila fanti e cinquecento cavalli”.
Brikinnia come altre città greche subiva ormai da tempo le angherie dei tiranni soffocando i principi di libertà e quindi seguì l’esempio della “madre patria”  Leontini.
 Pirro per i Siciliani  rappresentava la speranza di un nuovo periodo di libertà e di sviluppo e non tradì le attese. Da Siracusa marciò verso Agrigento che era sotto il possesso dei cartaginesi comandati da Finzia. Durante la marcia giunse la notizia che gli agrigentini avevano cacciato dalla loro città gli alleati ed erano pronti non solo a riceverlo con gli onori ma anche ad unirsi alle sue truppe.
Difatti, giunto alle loro frontiere, fu incontrato da Sosistrato a capo di ottomila fanti agrigentini ed ottocento cavalli. Prese sotto la sua protezione trenta città vicine a quel paese; indi, avanzatosi nei territori cartaginesi, ridusse in servitù Eraclea, Azone, Selinunte, Alicia, Egesta. Fornito da Siracusa di copioso numero di dardi, frecce, di ogni sorta d’armi, e macchine da batteria, prese per assalto la inespugnabile Erice, s’impadronì di Panormo, di Erecta e di altre piazze, e assediò con tutte le sue forze Lilibeo, unica città rimasta ai cartaginesi, da esso loro stimata una delle chiavi della Sicilia”.
 
I cartaginesi a Lilibeo  (Marsala) si difero con coraggio respingendo ogni attacco di Pirro che fu costretto a togliere l’assedio. Aveva deciso di spostare l’asse della guerra in Africa “per ferire i Cartaginesi nel cuore e dar nuova linfa alla sua ambizione”.
Ma fu abbandonato dall’armata siciliana per i suoi “arbitrarj procedienti”  e fu quindi costretto a desistere da ogni ulteriore impresa bellica e ritornò in Italia.
Con la partenza di Pirro la siatuazione politica di Siracusa era molto confusa e alla fine Artemidoro e Gerone ebbero il comando delle truppe e e della città.
Ma fu soprattutto Gerone II che seppe “sperimentar le dolci emozioni che sono il più nobile diuturno retaggio di chi sa guadagnarsi affetto e benevoglienza nel tener le redini del governo con prudenza, con senno e con modi placidi e gentili”.
“Dopo che ebbe Gerone sonfitto i Mamertini nelle pianure di Mile, all’arrivo ch’ei fece in Siracusa, fu proclamato re (269 a.C.)”.
Brikinnia, come le altre città greca, ebbe un periodo di prosperità economica agevolato da una ristabilita tranquillità sociale. Gerone seppe riconciliare, dopo alcune consultazioni, le varie fazioni che avevano funestato lo stato siracusano per lunghissimi anni.
Sposò la figlia del nobile e influente Leptine che gli permise di accrescere la simpatia degli ottimati che del popolo.
L’esercito siracusano era in gran parte costituito da mercenari  infidi e molto legati al denaro.
Durante il conflitto con i Mamertini, che avevano conquistato Messina e saccheggiato i possedimenti siracusani, pose l’accampamento nel pressi del fiume Cinasmoro e aspettò i nemici. Nel corso della battaglia, tenne nelle retrovie la cavalleria e le unità della falange cittadino e mise in prima linea i mercenari. Lasciò che i mercenari venissero circondati mentre con gli altri soldati si ritirò a Siracusa, debellando ogni forma di ammutinamento.
Ricostituì un esercito composto da siracusani e con questi respinse i Mamertini conquistando in poco tempo Mylae e Alesa Arconidea mentre importanti città come Tyndaris, Abacenum e Tauromenium si dichiarano a favore di Siracusa. Grazie a questi importanti appoggi si spinse fino al torrente Longano (nei pressi di Barcellona Pozzo di Gotto) e annientò i mamertini catturando anche il loro comandante Clo.
I Mamertini furono confinati a Messina e si salvarono da un ulteriore sconfitta grazie alla mediazione dei cartaginesi che costrinsero Siracusa a firmare una tregua.
I cartaginesi avrebbero posto una guarnigione a Messina a garanzia della tregua.
Gerone II, anche se non troppo convinto, accettò.
Nel 272 lo stesso Gerone II mandò delle truppe in aiuto dei Romani che stavano assediando Rhegium.
Nel 270 a.C. fu accolto a Siracusa come un eroe e fu nominato tiranno  o sovrano della citta, una carica che mantenne fino alla morte.
Il sovrano mantenne stabili contatti con i romani ed anche con i cartaginesi fino al 264 a.C.
Il 264 a.C. sarà ricordato nella storia del Regno di Sicilia in modo negativo. I mamertini, stanchi della presenza cartaginese, con funzioni di dominio, mandarono un ambasceria a Roma offrendo la resa della città di Messina in cambio di un aiuto contro i cartaginesi. Dopo una lunga discussione i Romani accettarono ed inviarono il console Appio Claudio Caudice ad occupare Messina.
Gerone II s’adirò e preso dal desiderio di espellere dalla Sicilia i mamertini, stipulò un alleanza con i cartaginesi e partì con il proprio esercito alla volta della città. Insieme al generale punico Annone, pose il campo nei pressi della città ed iniziò l’assedio di Messina.  Giunto l’esercito romano ci fu una forte scontro militare e il console riportò la vittoria sull’esercito punico-siracusano.
Gerone II ritornò, dopo la sconfitta, a Siracusa non pienamente convinto della lealtà cartaginese.
Il console romano, dimenticando i rapporti amichevoli avuti in passato con Gerone, decise di attaccare Siracusa. Conquistò delle città sicule e alla fine assediò la città.
Scaduto il mandato del console, il senato romano elesse nel 263 a.C. i nuovi consoli Manio Otacilio Crasso e Manio Valerio Massimo Messalla che subito furono inviati in Sicilia con quattro legioni.
All’arrivo dei consoli, molte città siceliote passarono ai Romani e cercarono di convincere Gerone a non intraprendere una guerra dall’esito molto incerto. Alla fine il sovrano siracusano accettò i consigli ed inviò degli ambasciatori presso i Romani con lo scopo di trattare la pace e una possibile alleanza. Dopo varie discussione i Romani accettarono la proposta.
Gerone II manteneva il possesso della Sicilia Sud-Orientale, fino a Tauromenium e fu anche costretto a pagare una somma di denaro e a liberare i prigionieri di guerra.
Il sovrano  siracusano intervenne più volte in aiuto dei romani come nel 262 a.C. quando fornì un forte quantitativo di viveri ad un esercito che era impegnato nell’assedio di Agrigento.
Fornì anche un importante aiuto militare fornendo delle macchine belliche durante l’assedio di Camarina e nel 252 a.C. quando inviò una flotta armata in aiuto del console Aurelio Cotta.
I romani non dimenticarono gli aiuti forniti da Gerone II perché nel 248 a.C. fu rinnovato il trattato di tra Roma e Siracusa. Il senato romano rinunciò ad ogni forma di tributo e incluse il sovrano siracusano tra gli alleati. Infatti nel 241 a.C. quando gli stessi romani conclusero un trattato di pace con i cartaginesi, pretesero da quest’ultimi l’obbligo di non arrecare guerra né a Siracusa né ai suoi alleati.
Gerone II per le sue riforme sociali fu visto con grande rispetto sia dai romani che dal mondo greco. Fu noto per i suoi grandi atti di liberalità presso il Santuario di Olimpia e inviò forti aiuti economici ai Rodii quando nel 226 a.C. subirono i danni di un devastante terremoto.
Sul Monte San Basilio come riportò il De Mauro un
Immenso numero di monete dei tempi degli imperatori romani, le quali trovansi tuttodì a Casale, e tra le zolle che volge e rivolge la mano del colono  nelle contrade de Cucco, de’ Palazzelli e d’atri terreni adjacenti, oltre a Britinnia, danno pure argomento a supporre che sino a quell’epoca fossero animate di popolosa frequenza...”.

 

Moneta di Gerone II (Tiranno di Siracusa e Basileus di Sicilia dal 270 al 215 a.C.) sono “in bronzo e di piccol modulo, ne hanno il capo senile. I rovesci tengono impresso il tridente con due  delfini, emblemi di navigazione e di commercio esterno, e a traverso il manico la parola IEP – ΩN


Monete Romane 




“Degli imperatori d’oriente, abbiam monete di Costanzo figlio di Costantino in bronzo, con capo di profilo cinto di diadema, e la epigrafe D.N. CONSTANTIUS P. F. Aug.; e di Tiberio Mourizio vittoriate in oro, come in bronzo battute in Catania di prima grandezza, colla croce nel rovescio...”





Con la dominazione bizantina dal 536  circa, sul Monte San Basilio s’insidiarono  delle comunità che utilizzarono ed ampliarono le cavità preesistenti e a riadattarono la cisterna o granaio a luogo di culto affrescando alcuni pilastri e collocandovi anche un altare. Un culto legato a San Basilio ed è quindi probabile la presenza anche di un piccolo gruppo  di monaci basiliani.

In epoca bizantina il casale mantenne probabilmente la sua funzione militare; probabilmente in collegamento con la vicina rocca su Monte Turcisi. Ed anche religiosa con  l’edificio sotterraneo adibito a luogo di culto (nei pilastri furono raffigurati dei Santi).


Di epoca medievale, il sito doveva  presentare delle piccole comunità, sono delle monete, rinvenute sempre dal De Mauro, risalenti al periodo di Guglielmo II e dell’aragonese re Ludovico.

 








Il sito fu in seguito abbandonato ed è difficile indicarne il periodo dato la mancanza di scavi archeologici. È  comunque probabile che già alla fine del XV secolo il sito  fosse ormai spopolato con il trasferimento delle comunità a valle e verso il feudo della Castellana.

ALTRE MONETE CON L’EFFIGE DI APOLLO


IL De Mauro si pose la domanda su quale Apollo fosse raffigurato sulle monete di Agatocle: “l’’arcageta (colui che guida la fondazione), il Dafnite  (Apollo innamorato di Dafne), il Libistino, il Feritore (Peana o Peane era un inno cantato in onore di Apollo Feritore del serpente Pitone o dopo qualche vittoria o per allontanare qualche sciagura), il Temenite (Temenite  deriva dalla parola greca “”temenos” (recinto) ed è il piccolo rilievo montuoso che divide in due parti il Parco Archeologico della neapolis di Siracusa. Qui sorgeva il tempio dedicato ad Apollo a cui fu aggiunto l’attributo di Temerite per indicare l’Apollo venerato a Siracusa).
E’ probabile che Agatocle, avversario dei Cartaginesi, vi avesse raffigurato Apollo Libistino, per aver questo morto di pestilenza i Libici che approdato aveano al promontorio Pachino per invadere la Sicilia... e avrebbe potuto anco a questo essere accoppiata la divozione del Feritore”.
“Un uomo (Agatocle) datosi in braccio alla più scapigliata tirannide, implorar dovea la protezione di un nume, sul cui dardo volava la peste foriera d’orrida morte”.
Lo scrittore latino pagano Macrobio, vissuto tra il IV ed il VI secolo d.C., testimoniò la presenza di un tempio dedicato ad Apollo presso Pachino. Esisteva da almeno due secoli dato che era citato nell’itinerario Antonini.
Nei suoi “Saturnalia” scrisse in merito al tempio:
Presso Pachino, promontorio della Sicilia, viene venerato con esimia religione
Apollo Libistino. Infatti, avendo i Libici che stavano per invadere la Sicilia
approdato con la loro flotta in quel promontorio, Apollo, che colà è onorato,
invocato dagli abitanti, diffuse la peste tra i nemici che furono quasi tutti colpiti
da subitanea morte e perciò da allora fu soprannominato Libistino”.
Nel IV secolo d.C. ancora molti dei e templi pagani erano venerati in Sicilia.
Il Cluverio citò il tempio nel castello di Spaccaforno e il Fazello nella
città di Ina vicino alla Cava d’Ispica. Entrambi caddero in errore dato che
il Macrobio citò in modo chiaro il tempio su un promontorio
vicino Pachino. È da escludere Marzamemi come citò Vito Amico.
Purtroppo del tempio rimane solo la base... l’alzato è inesistente... opera benevola dell’uomo..
Nel  ‘500 il Fazello rilevò infatti come il tempio era ormai inesistente.
In contrada “Scalo Mandria”, nei pressi delle antiche casette dei marinai,
sono presenti dei conci che furono sottoposti a lavorazione per scopi edilizi.
Le pietre del tempio è probabile che siano state utilizzate come materiale
da costruzione in epoche diverse come il castello nell’Isola di
Capo Passero o nella costruzione della tonnara. Tutte opere elevate in epoca
Medievale. Le colonne invece sarebbero in fondo al mare se si
dovrebbe dare credito ai racconti di numerosi pescatori....
 
Nella moneta dedicata ad Apollo Libistene è presente sia l’aquila che il fulmine che sono simboli di Zeuss. (altri suoi simboli erano: il toro, la quercia, ecc.).
Il De Mauro analizzò questo aspetto rilevando come “gli antichi riunivano nelle loro medaglie i simboli di vari numi ch’essi adoravano”.
“Ad Apollo in piedi col capo radiato, Messana riuniva nelle monete il capo di Giove, padre dio altronde del nume della poesia, della musica e dell’eloquenza...”..”Leontini al capo di Apolline laureato accoppiò il capo del leone, il leone intero, i grani dell’orzo, i pesci, e talora l’immagine di Cerere, o di Erco le sacrificante all’ara. E così via..”.
 
Sul Monte furono rinvenute altre monete che furono sempre descritte al prete di Scordia:
“ Di altre medaglie con capo di donna, il delfino e il polipo; con capo di un giovine e il cavallo sfrenato o il pegaso volante; con capo di Giove barbato cinto di alloro e con l’aquila e il caduceo; e di altre in maggior numero e assai facili a rinvenirsi, massime col capo di Aretusa nel dritto e il bue cornipeta nel rovescio, con sopra la clava, o invece un delfino, ed anco due, l’uno sopra e l’altro sotto il toro, ed uno rincontro l’occipizio della Ninfa.... crediamo che come il pegaso, così il toto alludesse a commercio marittimo e a navi greche o fenicie....”.





Il pegaso sarebbe legato alla leggenda di Bellerofonte ma anche alla madre patria Corinto.
Vicino Corinto c’era la fonte Priene dove Bellerofonte riuscì a catturare il “cavallo pegaso” che venne effigiato nelle monete della città. I coloni corinzi giunti a Siracusa guidati da Archia, mantennero l’immagine nelle nuove monete.

Le “palle di pietra” rinvenute sul Colle
Il De Mauro  citò l’esistenza di una voce che parlava di “poderose palle di pietra assai dura” trovate sul Monte Basilio o Casale e che “si rotolassero giù contro nemici che nei tempi andati avrebbero tentato salir per aggredirne gli abitatori”.
Lo storico era dubbioso su questa voce ma si dovette ricredere perché fu testimone del ritrovamento di alcune “palle di pietra”.
“Tra le ruine della robusta muraglia (allora il muro di cinta doveva trovarsi in discrete condizioni) rimpetto l’occidente, sonosi testè ritrovate nove palle di marmo “palumbino” di Taormina ben tornite, tre delle quali del raggio di once sette (15 cm circa), linee sei e punti tre (circa 18 cm di raggio per un diametro di 36 cm) e di libbre 170 di peso (circa 54 kg)...
Linea... unità di misura della lunghezza: 1 linea = 1,79 mm
Punto..    “            “                     “          : 1 punto = 0,15 mm
Libra    Unitò di misura di peso alla fina: 1 Libbra = 317,36 g
e sei del raggio di once sei, linea una e punti tre e di 70 libre di peso. ( 13 cm circa) (22 kg di peso)

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