Le Atrocità del Colonialismo Italiano.. una terribile verità storica nascosta.....

 



Come poterono fidarsi Maria Josè e gli altri esponenti (culturali, politici e militari) del Badoglio nel loro progettato piano di Colpo di Stato?
Un Badoglio già famoso per le sue, come lo stesso Mussolini e Graziani, per le stragi in Etiopia.
Non tutti sanno come Pietro Badoglio venne inserito nella lista dei criminali di guerra dell’ONU, su richiesta dell’Etiopia, per uso di armi chimiche sui soldati ed anche sulla popolazione civile. Non venne mai processato.

Nel 1925 furono sottoscritti i
Protocolli e la Terza convenzione di Ginevra(e successive integrazioni del 1929).
Contrariamente a questi accordi, l’Italia per la conduzione della guerra coloniale in Etiopia, sbarcò in Eritrea:
-        270 tonnellate di aggressivi chimici per l'impiego ravvicinato;
-         1.000 tonnellate di bombe caricate ad iprite per l'aeronautica;
-        60.000 granate caricate ad arsina per l'artiglieria.
Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2005.
Il loro primo impiego avvenne il 27 ottobre 1935 dietro autorizzazione di Mussolini concessa al generale Graziani, comandante sul fronte somalo-etiope.
Una autorizzazione espressa
come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco.
Nell’azione bellica il loro uso non fu ritenuto necessario.
Il 28 novembre 1935 il comando militare della spregiudicata offensiva in Etiopia fu assunta da maresciallo Pietro Badoglio.  Nella notte tra il 14 ed il 15 dicembre, le truppe del Badoglio furono colpite da una forte controffensiva etiopica.
Il Badoglio richiese espressamente a Roma
L’autorizzazione ad utilizzare gli aggressivi chimici.
(Angelo Del Boca, Memorie di un conquistatore, in Storia illustrata, n. 335, ottobre 1985, p. 86.)
I documenti dimostrerebbero come Mussolini autorizzò il Badoglio all’uso dei gas tra il 28 dicembre 1935 ed il 5 gennaio 1936 ed ancora tra il 19 gennaio ed il 10 aprile (1936).
E non solo… ci fu un’ulteriore autorizzazione, successivamente concessa, per la repressione dei ribelli.
Un altro aspetto sorprendente fu  legato ad una triste realtà… il maresciallo Badoglio aveva già iniziato, di sua volontà e quindi autonomamente, l’uso delle armi chimiche sin dal 22 dicembre 1935 e aveva continuato con il loro uso fino al  5 – 19 gennaio 1936.
(FR) Bernard Bridel, Les ambulances à Croix-Rouge du CICR sous les gaz en Ethiopie, in Le Temps. (Pagina non trovata)
Sul fonte Nord, nelle date su indicate, furono lanciati ben duemila quintali di bombe per la massima parte caricate a gas, tra cui l’iprite che provoca la leucemia.
Si contravveniva al protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925 la cui entrata in vigore internazionale era fissata per l’8 febbraio 1928.
L’entrata in vigore per l’Italia era fissata per il 3 aprile 1928.
Autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia dati con Regio Decreto n. 194 del 6 gennaio 1928 (Gazzetta Ufficiale n. 046 del 24 febbraio 1928). Data della ratifica: 03 aprile 1928. Entrata in vigore per l’Italia: 03 aprile 1928.
 All'aviazione italiana fu quindi dato l’ordine di utilizzare su larga scala il gas, che, irrorato dagli aerei in volo a bassa quota, sia sui soldati che sui civili, venne usato con la precisa finalità di terrorizzare la popolazione abissina e piegarne ogni resistenza. 
Nel 1928, tutti i principali Paesi del mondo (con la sola eccezione significativa degli Stati Uniti) adottarono la  convenzione per la messa al bando degli aggressivi chimici. Nessuno Stato, però, rinunciò a fabbricarli, Italia compresa. Anzi, l’esercito italiano fece ampio uso di gas in Libia, tra il 1923 e il 1931, contro i ribelli che si opponevano alla dominazione coloniale italiana.
L’aggressivo chimico più micidiale, negli anni Trenta, era l’iprite (chiamato mustard gaz dagli inglesi). In Italia, la produzione giornaliera di iprite negli anni 1935-1936 passò da 3 a 18 tonnellate al giorno. Nel complesso, durante la guerra, ne sarebbero state rovesciate sugli etiopici circa 300 tonnellate sul fronte settentrionale(cui vanno aggiunti i 30 500 kg utilizzati sul fronte somalo). 
Il 15 dicembre, anche Graziani richiese di nuovo al Capo del governo l'autorizzazione all'uso delle armi chimiche. Il comandante ciociaro fu autorizzato
“per supreme ragioni di difesa”.
L'uso fu effettuato a partire dal 17 dicembre sulla località di Areri, presidiata da Ras Destà, da parte di tre aerei Caproni 101 bis. Gli attacchi furono ripetuti in date 25, 28, 30 e 31 dicembre, per un totale di 125 bombe complessivamente lanciate. (Del Boca).

Ras Destà

La cattura di ras Destà
Fu catturato il 23 febbraio 1937 da Antonio Rizzo e 
immediatamente impiccato da parte delle autorità italiane

Il generale di brigata Antonio Rizzo pluridecorato con 27 titoli onorifici.
I bombardamenti con gas cominciarono dunque dal 17 dicembre. Il 26 dicembre, sul fronte sud, avvenne la brutale uccisione dell'aviatore Tito Minniti che, caduto in territorio nemico, era stato torturato, evirato ed infine decapitato. La ritorsione per tale atto intensificò maggiormente i bombardamenti e l'offensiva su quel fronte il 30 e 31 dicembre. Ras Destà, nel comunicare all'imperatore la sconfitta subita, dichiarò l'impiego dei gas:
Dal 17 dicembre gli italiani gettano anche bombe a gas, le quali piovono come la grandine... Le lesioni, anche leggere, prodotte da tale gas gonfiano sempre più sino a diventare, 
per infezioni delle grandi piaghe.
La ritirata delle truppe di Ras Destà fu oggetto dal 12 gennaio anche dell'uso di fosgene, ordinato da Graziani.
Il 30 dicembre 1935, in un bombardamento italiano a Malca Dida, ordinato da Graziani, fu colpito un ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa provocando la morte di 28 ricoverati e di un medico svedese. Complessivamente, furono diciassette le installazioni mediche distrutte dagli italiani, compresi gli ospedali da campo di Amba Aradam e di Quoram.
Il 10 febbraio 1936, Badoglio iniziò l'offensiva sull'Amba Aradam durante la quale vennero sparate 1 367 granate caricate con arsine.
Il 3 e 4 marzo 1936, Badoglio, vedendo fuggire il grosso dell'esercito del ras Immirù verso i guadi del Tacazzè, ordinò all'aviazione di proseguire da sola la battaglia. Venne così utilizzata ancora una volta l’iprite. I piloti scesi a volo radente per mitragliare i superstiti rilevarono notevoli masse nemiche abbattute e grande quantità di uomini e di quadrupedi trasportati dalla corrente.

Il Tacazzè nel 1935 (Prima battaglia del Tembien)
Per il maresciallo Badoglio era consuetudine usare le armi chimiche quando il suo esercito era in
difficoltà.
Esemplificativi in merito furono tre importanti episodi del conflitto:
- la battaglia del Tacazzé;
- la battaglia dello Sciré;
- la strage di Zeret,
La battaglia di Tazzé, del dicembre 1935, vide contrapposti i soldati di ras Immirù alle truppe dei
generale Luigi Criniti.
La supremazia degli etiopici era molto evidente e puntavano su Axum. Questa azione scatenò il
malcontento del Duce. Per questo motivo fece pressione su Badoglio affinché usasse i gas asfissianti
e vescicanti.
Fu uno spettacolo terrificante, io stesso fuggii per caso alla morte.
Era la mattina del 23 dicembre, a avevo da poco attraversato il Tacazzé,
quando comparvero nel cielo alcuni aeroplani. Il fatto, tuttavia,
non ci allarmò troppo, perché ormai ci eravamo abituati ai bombardamenti.
Quel mattino, però, non lanciarono bombe, ma strani fusti che si rompevano
appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume e proiettavano intorno un
liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo,
alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido
e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si
coprivano di vesciche, altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in una
agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini, che avevano
portato le mandrie al fiume, e la gente dei villaggi vicini.
I miei sottocapi, intanto, mi avevano circondato e mi chiedevano consiglio,
ma io ero stordito, non sapevo cosa rispondere, non sapevo come combattere
questa pioggia che bruciava ed uccideva…….
Pochi mesi dopo, il 3 e 4 marzo 1936, nuovamente gli uomini del ras Immirù tenevano impegnato l’esercito italiano nello Sciré, quando furono colpiti da tonnellate di esplosivo.
Eravamo partiti alla carica dei nidi di mitragliatrici e delle stesse batterie
d’artiglieria. Avevamo fermato i carri d’assalto con le sole braccia
Avevamo ricevuto, senza crollare, bombe e barili d'iprite. Contro tutte queste cose, noi avevamo sparato e colpito. La nostra coscienza era tranquilla. Ma contro la nebbia tossica, che si depositava impercettibilmente sui nostri volti e le nostre mani, noi non potevamo fare nulla. Tuttavia, la nostra coscienza restava tranquilla. Perché non si può uccidere la nebbia...», raccontò poi Hailé Selassié.
Infine, era il 30 marzo quando l'aeronautica avvistò un gruppo di ribelli, per lo più feriti, anziani, donne e bambini, asserragliati dentro una grotta nella regione del Gaia Zeret-Lalomedir.
Il colonnello Lorenzini ordinò di assediare la grotta, ma l'assedio si protrasse per giorni, finché venne invocato l'intervento di un plotone del reparto chimico. Il sergente maggiore Alessandro Boaglio fu l'esecutore materiale della strage:
«[...] Come Dio volle i dodici bidoncini raggiunsero la meta sani e salvi prima dell'alba: li feci ammucchiare al riparo di alcuni roccioni e ci ritirammo in attesa dell'alba e
dell'inizio dell'operazione.
Mancava un'ora circa, che passai raggomitolato sulla brandina da campo,
in preda al freddo pungente. Mi trassero dal torpore le esplosioni dei primi proiettili:
era il segnale dell'inizio della nostra operazione. [...]
Fissai a uno spuntone di roccia la grossa corda alla quale dovevo affidare la mia preziosissima (per me) vita, mi legai l'opposta estremità ai fianchi e, dopo accorate raccomandazioni ai miei uomini di attaccarsi... come l'edera alla suddetta corda, mi disposi a scendere, anzi a calarmi nel vuoto, nell'abisso. [...]
Scendevo lentamente e riuscii a toccare la parete dopo una trentina di metri e a porre piede su una specie di gradino ove erano fermi i bidoncini. Grossomodo, il piccolo spazio aveva una larghezza di tre metri circa e, affacciandomi, vidi sotto di me l'ingresso della fatidica caverna [...].
Il mio compito era far scendere e scoppiare i bidoncini all'altezza del sentiero, nel punto di entrata della caverna, in modo da ipritare tutto il terreno, impedendo così a eventuali fuggitivi di cavarsela impunemente [...].
Si trattava di fare le cose alla svelta, poiché se qualcuno della caverna si fosse accorto di ciò che stavo facendo, aveva la possibilità di affacciarsi e spararmi senza che io potessi tentare la benché minima difesa. [...]
Mentre lentamente sentivo scorrere la corda tra le dita, fissavo spasmodicamente il punto da dove lo "sciumbasci" avrebbe sventolato una bianca pezzuola: ero in posizione precaria e ogni minuto mi pareva ore. Sentivo intorpidirmi la mano con la quale mi reggevo alla parete, e i piedi stretti fra le fessure della roccia iniziavano a dolermi. Finalmente vidi il segnale, gridai "alt!" e subito la discesa della corda (alla quale era abbinato il filo elettrico per lo scoppio) si fermò. Avevo la maschera antigas legata al petto ma mi era assolutamente impossibile mettermela al viso, avendo ambedue le mani impegnate, e non vi era un minuto da perdere poiché ora i bidoncini danzavano innanzi agli occhi, certo stupiti, dei ribelli, e sarebbe stato facilissimo per loro troncare la corda e far finire nel nulla tutto il nostro lavoro. Diedi il segnale e subito sentii lo scoppio e contemporaneamente vidi salire verso di me un'intensa nube di iprite vaporizzata [...].
Sparai verso la valle un razzo verde con la pistola "Very" e il cannone prese a tuonare, infilando nella caverna i proiettili ad arsina». Nelle ore seguenti gli etiopici non si arresero, così i battaglioni italiani riversarono sull'ingresso della grotta migliaia di colpi di fucili e cannoni, tanto che gli occupanti della caverna decisero per la resa 1'11 aprile 1939. A quel punto gli italiani separarono gli uomini e i ragazzini dalle donne e i bambini: i primi furono fucilati, i secondi non sarebbero sopravvissuti a lungo a causa dell'iprite.
È difficile dire quante persone siano morte a Zeret.

Lo storico Matteo Dominioni calcolando la disponibilità alimentare degli etiopici asserragliati, parlò di 1200-1500 persona, numero che portò a considerare quella di Zeret una delle stragi più gravi compiute in colonia, insieme a quella di Debrà Libanòs. La ricostruzione di quanto avvenne a Zeret fu particolarmente importante inoltre perché fece emergere un tratto nuovo delle operazioni di polizia coloniale: l'utilizzo anche da parte delle truppe di terra degli aggressivi chimici. Non ci sarebbero altre testimonianze né cifre precise al riguardo. In secondo luogo, la conferma che gli ordigni caricati a iprite venissero approntati in loco non fu di secondaria importanza, perché non si potrebbe escludere che i reparti di terra ne facessero largo uso, visto che non esistevano registri come nel caso delle bombe C.500.T.
Il 4 aprile 1936, gli scampati alla battaglia di Mau Ceu furono bombardati con 700 quintali di bombe, di cui molte ad iprite.
Il 15 aprile Graziani diede inizio all'offensiva su Harar dopo aver gasato e bombardato per un mese la difesa etiope iniziando così l'attacco da terra. Il vescovo cattolico di Harar scrisse ai suoi superiori in Francia:
"Il bombardamento che gli italiani hanno fatto contro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del Cielo".
 Secondo i giornali dell'epoca  (anche Indro Montanelli entrò nel merito),
Regno Unito e Svezia  vendettero in modo continuativo agli abissini i proiettili “dum dum”  vietati dalle convenzioni.
I proiettili “dum dum” o proiettili a fungo sono una pallottola a espansione progettata per espandersi all'interno del corpo del bersaglio, aumentando così la gravità delle ferite.


Il 3 maggio 1936 Mussolini telegrafò a Badoglio:
Occupata Addis Abeba V.E. darà ordini perché: 1° siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città aut dintorni siano sorpresi colle armi alla mano. 2° siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopi, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi. 3° siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi incendi. 4° siano sommariamente fucilati quanti trascorse 24 ore non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni. Attendo una parola che confermi che questi ordini saranno - come sempre – eseguiti.
Due giorni dopo il maresciallo Badoglio entrava in Addis Abeba e il 9 maggio successivo, dal balcone di Piazza Venezia, Mussolini poté annunciare alle folle la "proclamazione dell'Impero".
Dopo la proclamazione dell'Impero, il maresciallo Badoglio fu richiamato in Italia e passò le consegne a Rodolfo Graziani, nel frattempo promosso Maresciallo d'Italia.
Il 20 maggio 1936, l'ufficiale fu investito del triplice incarico di viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe.
Rispettivamente in data 5 giugno e 8 luglio 1936, Mussolini telegrafò a Graziani, dal Ministero delle Colonie, i seguenti ordini:
«Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi» e «Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici stop. Senza la legge del taglione ad decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».
Un telegramma drammatico, da toni forti visualizzato nella realtà nel documentario
Fascist Legacy(L’eredità del fascismo).
Un documentario, in due parti, sui crimini di guerra commessi dagli italiani durante la seconda guerra mondiale. Fu realizzato dalla BBC (rete televisiva BBC 2), andato in onda nei giorni 1 ed 8 novembre 1989.
Una Eredità Scomoda


Parte prima 
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Seconda parte
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Terza Parte 

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Quarta Parte
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Quinta Parte
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Promessa Infranta

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 Seconda Parte 
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  Terza Parte 

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Quinta Parte
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Dalla documentazione “sopravvissuta” risultò come sia stato Graziani (il 12 ottobre 1935) il primo a
chiedere l’autorizzazione ad usare tutti i mezzi (compresi gli aggressivi chimici) contro il nemico.
Tale autorizzazione gli fu concessa da Mussolini il 27 ottobre. A fine anno, quando Badoglio rilevò
De Bono al comando del fronte nord (17 novembre), il nuovo generale si trovò in difficoltà ad
arrestare la violenta controffensiva etiopica. Pertanto, prim’ancora di ottenere un formale permesso
dal Duce (28 dicembre), Badoglio ordinò l’uso dei gas (20 dicembre). Gli attacchi chimici
proseguirono per circa tre mesi (l’ultimo documentato risalirebbe al 31 marzo 1936).
Angelo Del Boca (storico, giornalista e scrittore) uno dei più importanti studiosi del colonialismo
italiano, rilasciò numerose interviste che misero in risalto aspetti inquietanti..

Angelo Del Boca
(Novara, 23 maggio 1925 – Torino, 6 luglio 2021).
…….alla fine del '36, cioè a campagna finita, (l’Italia) inviò altre mille bombe c500t, le più potenti, il che fa altre 50 tonnellate circa.
E ancora: il 30 ottobre del '39, risultavano stoccate in Africa Orientale 2775 bombe c500t e 308 bombe c100b, le famose arsine... E secondo lei quelle bomba dove sono finite? Sono ancora lì: come faceva l'Italia a rimpatriarle nell'imminenza dell'entrata in guerra avvenuta nel giugno successivo e col timore che gli alleati avrebbero potuto usare armi chimiche? Non aveva senso portarle indietro. Che sia stato fatto durante la guerra lo escluderei. E se sia successo dopo non ne ho proprio notizia. Ma la Difesa dice che non risulta che l'Italia abbia lasciato qualcosa... Lo dimostri con carte alla mano e ci crederemo. Fino ad allora il dubbio rimane. La reticenza italiana su questa vicenda ha una storia troppo lunga perché sia sufficiente un comunicato.
L’iprite era gettata sul nemico dall’aviazione. Ad essere colpite erano soprattutto le retrovie, nei loro punti più strategici (strade, villaggi, guadi, accampamenti, corsi d’acqua...). Le bombe più utilizzate erano denominate C.500.T : ciascuna di esse pesava 280 kg e conteneva circa 216 kg di iprite. Ogni bomba irrorava delle goccioline di liquido corrosivo (e, quindi, mortale) un’area ellittica di circa 500/800 metri per 100/200 metri. Gli effetti duravano diversi giorni: per questo motivo, l’iprite era usata solo lontano dal fronte, in modo che non potesse colpire soldati italiani. Per la stessa ragione, nessun reparto italiano (con l’ovvia esclusione degli aviatori) ha mai assistito ad un attacco condotto contro il nemico mediate gli aggressivi chimici.
Alle numerose denunce internazionali il Duce rispose sempre minimizzando e giustificando il ricorso alle armi chimiche con il diritto alla rappresaglia e questo nonostante la Convenzione di Ginevra del 1925 ammettesse la ritorsione chimica solo contro chi ne avesse fatto uso per primo.
Ci fu una puntuale opera di censura da parte della stampa italiana in merito a quanto riguardava i gas.
Una censura che si rifletté sulla produzione documentaria e memorialistica con una sorprendente efficacia.
Saluto Romano, cartolina postale.
L'uso dei gas fu sempre negato per decenni dall'esercito italiano. Solamente nel 1996 l'allora ministro della Difesa Domenico Corcione ammise che sessant'anni prima in Abissinia furono impiegati bombe d'aereo e proiettili d'artiglieria caricati a iprite e arsine, e che l'impiego dei gas era noto al maresciallo Badoglio.
A Viterbo fu scoperto il diario di un soldato italiano e nelle pagine, del prezioso documento, le tracce di una realtà nascosta per tanto tempo e raccontata da un testimone oculare.
Un memoriale che fu tenuto nascosto perché ritenuto pericoloso dal regime.
Mancavano testimonianze dirette sull’uso delle armi chimiche e questo permise a molti settori del mondo culturale di essere dubbiosi sull'effettivo impiego dell'iprite.
Il diario di questo soldato, un semplice addetto alle camionette e che quasi mai prese parte attiva negli scontro bellici, lasciò una testimonianza viva dell’effetto dei gas, delle feroci rappresaglie, degli eccidi. Aspetti di cui tutti erano a conoscenza dato che nell’esercito era scontato l’uso dell’iprite
Il soldato si chiamava Elvio Cardarelli, nato a Vignanello in provincia di Viterbo). Lavorava come cameriere, aderì al regime fascista, emigrò in Francia e a Montecarlo. Dal punto di vista dell’istruzione, non terminò gli studi ma aveva una buona conoscenza della lingua italiana. Ricevette la cartolina precetto il 12 febbraio 1935 con destinazione Etiopia. Morì a causa di una malattia tropicale,  non riconosciuta,  circa quindici giorni il suo rientro a casa.
Il suo diario è costituito da quattro quaderni, circa 500 pagine.
I fatti che riguardavano l’uso delle armi chimiche erano tre.
Il primo episodio risaliva al 28 febbraio 1936 e coinvolgeva il generale  Rodolfo Graziani che aveva appena conquistato Negelli.
Il soldato Caldarelli si trovava sull’Alagi, all’altezza del passo di Falagan, da poco conquistato alla Guardia Imperiale del Negus
Scaliamo il colle, scendiamo poi una vallata ricca di vegetazione e ci troviamo nella zona colpita dai gas che i nostri aerei hanno gettato qualche mese fa quando il terreno che ora attraversiamo pullulava di abissini. L'effetto deve essere stato terribile. Lo certificano le centinaia di carogne che, rattrappite ed impressionanti, sono sparse ovunque.
 Quattro giorni dopo (4 marzo 1936) un’altra testimonianza ancora più crudele.
Il soldato Cardarelli faceva parte di una colonna  dell’esercito che stava attraversando un  campo di battaglia sulla piana di Mai-Chio. Qui s’era svolto, nel mese di febbraio, un scontro molto agguerrito.
il terreno diviene lussureggiante ed io scorgo di attraverso le erbe alte i corpi neri di indigeni rattrappiti dal fuoco dei nostri lanciafiamme.Non emanano cattivo odore, ma sono orrendi a vedersi.
Il soldato notò, sulle montagne vicino alla piana, gli effetti dei gas sulla vegetazione.
Mi colpisce un fatto difficile a spiegarsi: alberi altissimi, che sembra siano stati privati del fogliame della corteccia e dei rami più piccoli da un violento incendio. Il fuoco poi ha investito non solo una e poche di queste piante, ma migliaia di esemplari.
Sul terreno notò i serbatoi in cui venivano contenuti i composti chimici).
Assistette ad una rappresaglia contro la popolazione civile la cui ferocia - se la descrizione della foresta fa venire in mente il napalm usato dagli americani in Vietnam - ricordava da vicino episodi della Seconda Guerra Mondiale.
La mattina del 3 dicembre 1935, sulla strada tra Dolo' e Macalle', la colonna di Cardarelli scoprì i corpi orrendamente mutilati di quattro militari italiani.
Sfregi orribili sfigurano i volti , le membra sono distaccate dai corpi, da cui brani di carne sono stati staccati a colpi di coltello…..
Il pomeriggio notò
una grossa colonna di fumo nerastro" a te chilometri di distanza.
Sentì anche
il sinistro ticchettio della piccola Breda e le scariche più violente della Fiat pesante…Credo ad un attacco improvviso da parte nemica, ma resto sorpreso dalla calma che regna al campo. Domando e mi rispondono che in seguito ai fatti del mattino alcune pattuglie erano partite alla ricerca degli aggressori. In un villaggio erano stati accolti da scariche di fucileria. Era stato allora dato l'ordine di distruggere il villaggio con il fuoco insieme ad altri due, siti poco distante, con tutti gli abitanti (donne e bambini compresi) affinché  nessuno sfuggisse all'effetto del fuoco purificatore. Le mitraglie avevano pensato a chiudere ogni via d'uscita".
Non sarebbe necessario aspettare gli avvenimenti legati alla “Grotta dell’Iprite” di Gaia Zeret-Lalomedir ed il marzo del 1939 per scoprire gli orrori della Guerra di Etiopia.
Era appena tornato a casa da due settimane quando morì a causa di una malattia sconosciuta.
Lasciò il diario alla fidanzata ed alla madre, che lo portarono in tipografia per farlo stampare.
Era l'unica cosa che restava del loro caro Elvio.
Dopo diversi mesi, il tipografo restituì il diario alla famiglia.
Pagine troppo importanti e veritiere che avrebbero creato tanti problemi e per  questo motivo, il tipografo fu convinto a lasciare perdere la stampa.
Un classico esempio di come i regimi totalitari controllino ogni mezzo di comunicazione.
Il diario vene quindi restituito e per fortuna la famiglia lo conservò per restare un documento fondamentale perché sarebbe
l'unica testimonianza diretta da parte italiana di quegli orrori.
 Altra testimonianza quella del soldato Leandro Mondini. Una rilevazione avvenuta nel 1997 cioé
l'anno successivo all'ammissione sulle armi chimiche fatta dal ministro Corcione).
Il suo battaglione giunse in prossimità dell’Amba Alagi…
l'Amba Alagi


Grande era la delusione tra noi soldati. Gli ufficiali ci spiegarono che, se fossero arrivati i nuovi bombardieri, vi era il grosso pericolo di essere coinvolti anche noi e con gravi perdite; non tutti però erano convinti che le cose fossero veramente così. Mentre si era in marcia per retrocedere, si diceva che era la ritirata di Caporetto. [...]
Un grande timore ci assalì quando gli ufficiali ci annunciarono che erano stati lanciati dei gas molto potenti, raccomandavano di non toccare la terra, l'erba, le piante, tutto quello che era sottoposto alle radiazioni e ci raccomandavano la massima pulizia delle mani e del viso [...] qualcuno diceva che quei gas erano micidiali e bastava il minimo contatto per avere la carne divorata da piaghe inguaribili.
Per maggior prudenza, prima di coricarmi bagnai un fazzoletto di acqua, lo piegai a forma di triangolo e lo legai attorno alla fronte in modo da coprirmi gli occhi, una precauzione banale ma era sempre meglio di niente [...] dopo tutto quello che avevamo affrontato e visto,
 nessuno aveva voglia di commentare».

I telegrammi della Vergogna

M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
Roma, li  27  ottobre  1935
Segreto
S.E. GRAZIANI
MOGADISCIO
12409 - Sta bene per azione giorno 29 stop Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco.
Mussolini
timbro in alto a destra:
MINISTERO DELLE COLONIE
          UFFICIO CIFRA
              SPEDITO
timbro sotto la scritta Segreto:
SOPRACIFRATO
………………………………..
 
M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  28  dicembre  1935
Segreto                                               
S.E. BADOGLIO
MACALLE'
15081 - Dati sistemi nemico di cui a suo dispaccio n.630 autorizzo V.E. all'impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme.
Mussolini
 
 come sopra
……………………….
 
M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  2  gennaio  1936
Segreto                                               
S.E. GRAZIANI
MOGADISCIO
029 -Approvo pienamente bombardamento rappresaglia et approvo sin da questo momento i successivi. Bisogna soltanto cercare di evitare le istituzioni internazionali croce rossa.
Mussolini
c.s.
………………………….

M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  5  gennaio  1936
Segreto
S.E. BADOGLIO
MACALLE'
180 -Sospenda l'impiego dei gas sino alle riunioni ginevrine a meno che non sia reso necessario da supreme necessità offesa aut difesa stop Le darò ulteriori istruzioni al riguardo.
Mussolini
 c.s.
……………………………………
  
M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  19  gennaio  1936
Segreto
Maresciallo BADOGLIO
MACALLE'
790 -Manovra est bene ideata et riuscirà sicuramente stop Autorizzo V.E a impiegare tutti i mezzi di guerra dico tutti sia dall'alto come da terra stop. Massima decisione.
Mussolini
c.s.
…………………………….
 
M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  10  aprile  1936
Segreto
S.E.GRAZIANI
SOMALIA
4081 -Segreto. Non faccia dico non faccia impiego di mezzi chimici sino a nuovo ordine.
Mussolini
 
Come sopra 
………………………………
 
M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  8  giugno  1936
Segreto
S.E.BADOGLIO
ABA
6595 -Segreto. Per finirla con i ribelli come nel caso Ancober, impieghi i gas.
Mussolini
c.s.
...................................

M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  28  marzo  1936-XIV
Segreto
S.E.BADOGLIO
MACALLE'
3645 al 1834/M. Qualsiasi croce rossa si trovi a Gondar et qualsiasi bandiera tiri fuori all'ultimo momento, V. E. tiri dritto eviti tuttavia di danneggiare croce rossa inglese se esiste. -Segreto.
Mussolini
c.s.
………………………………………

M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  3/5/1936-XIV    
Segreto
S.E.BADOGLIO
DESSIE'
5007. Occupata Addis Abeba V.E. dara' ordini perche':  1°siano fucilati sommariamente tutti coloro che in citta' aut dintorni siano sorpresi colle armi alla mano  2° siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopi, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi  3° siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi incendi  4° siano sommariamente fucilati quanti trascorse 24 ore non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni. Attendo una parola che confermi che questi ordini saranno - come sempre - eseguiti.
Mussolini
c.s.
…………………………………

M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  5 giugno 1936    
Segreto 
S.E.GRAZIANI
ADDIS ABEBA
6496. Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi.
Mussolini
 C.s.
………………………….
  
M  I  N  I  S  T  E  R  O    DELLE    C  O  L  O  N  I  E
TELEGRAMMA     IN     PARTENZA
 
Roma, li  8 luglio 1936    
Segreto
S.E.GRAZIANI
ABA
8103. Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici stop. Senza la legge del taglione ad decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma.
Mussolini 
timbro in alto a destra:
MINISTERO DELLE COLONIE
          UFFICIO CIFRA
              SPEDITO
timbro sotto la scritta Segreto:
SOPRACIFRATO

Fonte: "I documenti provenivano dagli archivi del Ministero dell'Africa Italiana, trasferiti nell'Italia del nord dopo la creazione della Repubblica di Salò, andati dispersi dopo il 25 aprile 1945." tratto da:
Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia. Editori riuniti, Roma 1996, pp. 148-182.
………………………







le postazioni internazionali Croce Rossa

Ecc…..

1200 Criminale di guerra Italiani erano ricercati per le
Atrocità commesse in Africa e nei Balcani
Fino al ’46 quando a Norimberga furono processati i criminali nazisti, gli Italiani non avevano estradato nessun criminale di guerra che era inserito nell’elenco della Commissione della N.U.
I documenti che furono scoperti provarono fino a che punto
il Ministero degli Esteri britannico sarebbe potuto arrivare
per bloccare l’estradizione dei criminali italiani nonostante le proteste dell’Etiopia, della Grecia e della Jugoslavia.
Dall’Ambasciata della R.F. della Jugoslavia
Al Governo Militare Alleato
Per facilitare il lavoro al Governo Militare, vi mandiamo l’elenco delle residenze
di 40 criminali di guerra, con la richiesta di mandarlo alle autorità responsabile
per il loro arresto e la loro estradizione al Governo Jugoslavo.
Nonostante le garanzie del Governo di Sua Maestà, fino ad ora ai Tribunali Jugoslavi
non è stato consegnato neanche un criminale di guerra italiano. 
Il Governo britannico mostrò preoccupazione e rispose…
Alcune di queste persone occupano alte cariche nel Ministero di Guerra Italiano.
Il loro arresto provocherebbe un vero imbarazzo politico.
Hanno offerto un esemplare aiuto agli Alleati.
Se gli arrestassimo adesso provocheremmo un vero shock  nell’opinione pubblica, e
creeremmo problemi anche a noi, con un coro di proteste e amarezza generale. 
Harley Bomont del Dipartimento per i Crimini di Guerra, scrisse…
La giustizia richiede l’estradizione di queste persone.
Però l’opportunità non lo consente.
Almeno l’estradizione di coloro che occupano le più alte cariche politiche.
Il 26 aprile ’46 Lord Halifax (Edward Wood) a Washington dichiarò la posizione dello State Department…
La posizione migliore per i due governi (americano e inglese) è quella dello stallo”…
in poche parole…. lasciare passare il tempo….
Il Foreign Office britannico si dichiarò d’accordo….
La cosa migliore per tutti è nel procrastinare l’intera faccenda…
I britannici avvertirono gli Jugoslavi come l’intera questione richiedeva molto tempo per il suo esame.
I britannici temevano ripercussioni politiche se avessero estradato gli italiani negli Stati dove sarebbero stati processati.
Secondo il trattato d’Armistizio, gli Alleati non potevano rifiutarsi di estradare i criminali di guerra.
Ma ovviamente non era un loro proposito adempiere a questa azione.
Per questo motivo al Governo Jugoslavo fu detto che avevano bisogno di più tempo per preparare i casi e che queste persone non potevano essere trovate……
Una posizione ambigua e mirata nel tempo,,, finita l’occupazione questo problema sarebbe passato  al Governo italiano che non avrebbe mai estradato i suoi cittadini ai tribunali jugoslavi.
Per questo motivo alcuni criminali furono processati in Italia…. con molte più possibilità di essere assolti.
Anche la diplomazia italiana concordò con questa linea, attuando resistenza passiva alle richiesta dei paesi esteri.
Il Presidente del Consiglio italiano De Gasperi informò l'ammiraglio E.W. Stone (capo della Commissione Alleata in Italia), che il
Ministero della Guerra sta provvedendo ad una severa inchiesta, il cui esito sarà appena possibile portato a conoscenza..." della stessa.
Nella risposta l'ammiraglio mostrò interesse perché  questo gli consentì di prendere tempo con il governo jugoslavo, che richiedeva insistentemente la consegna dei criminali di guerra italiani.

[Dal Presidente del Consiglio dei Ministri 
Roma, 9 aprile 1946
Caro Ammiraglio,
secondo una notizia diffusa in data 26 marzo dalla Agenzia Reuter i Governi americano e britannico avrebbero informato quello jugoslavo di aver dato istruzioni al Quartier Generale delle Forze Alleate a Caserta circa la consegna dei criminali di guerra italiani.
E' quasi superfluo, caro Ammiraglio, che io attiri la Sua attenzione sulla estrema gravità di tale notizia, qualora essa fosse esatta.
Non posso infatti nasconderle che una eventuale richiesta di consegna alla Jugoslavia di Italiani, mentre ogni giorno pervengono notizie molto gravi su veri e propri atti di criminalità compiuti dalle autorità jugoslave a danno di Italiani e dei quali sono testimoni i reduci dalla prigionia e le foibe del Carso e dell'Istria, susciterebbe nel Paese una viva reazione e una giustificata indignazione.
L'emozione cosi suscitata non mancherebbe di riflettersi anche su taluni aspetti della situazione interna di cui non appare conveniente turbare il processo di normalizzazione soprattutto nel periodo che precede le elezioni alla Costituente.
Sono poi ormai ben noti i metodi attualmente in uso nei Tribunali jugoslavi, metodi che non danno alcuna garanzia di osservanza delle più elementari norme di giustizia.
D'altra parte vi sono forti argomentazioni di ordine giuridico che inducono a ritenere che in materia il trattamento previsto per l'Italia è diverso - secondo la stessa Dichiarazione di Mosca - da quello stabilito per la Germania. E a tale riguardo La informo che il Ministero della Guerra, ansioso di stabilire le responsabilità nelle quali possano essere incorsi i Comandanti e i gregari italiani nei territori d'oltre confine occupati dalle FF.AA. italiane, e di punire gli eventuali colpevoli di reati detti «crimini di guerra», sta provvedendo ad una severa inchiesta il cui esito sarà appena possibile portato a conoscenza della Commissione Alleata.
Fto De Gasperi
[Dest.] Ammiraglio Ellery W. Stone
Capo della Commissione Alleata
ROMA
……………………….

HEADQUARTERS ALLIED
COMMISSION
Office of the Chief Commissioner APO 394
Ref. 6517/143/Ec.
2 May 1946
My dear Mr. Prime Minister
With further reference to your letter No. 440 dated 9 April 1946 on the subject of the handing over of Italian war criminals to Yugoslavia I have to inform you that the American and British Governments are fully aware of all the implications of this question and are giving it their active consideration.
It will materially assist the Allied Authorities if you will forward as soon as possible the results of the enquiries now being made by the Ministry of War which you mention in the last paragraph of your letter.
 Yours very truly,
Ellery W. Stone
Rear Admíral, USNR
 Chief Commissioner
[Dest.] Dott. Alcide De Gasperi
President of the Council of Minister Italian Government
ROME
 
SEDE ALLEATA
COMMISSIONE
Ufficio del Commissario Capo APO 394
Rif. 6517/143/Ce.
2 maggio 1946
Mio caro signor Primo Ministro
Con ulteriore riferimento alla vostra lettera n. 440 del 9 aprile 1946 sull'argomento della consegna dei criminali di guerra italiani alla Jugoslavia, devo informarvi che i governi americano e britannico sono pienamente consapevoli di tutte le implicazioni di questa questione e stanno dando è la loro considerazione attiva.
Aiuterà materialmente le autorità alleate se trasmetterà al più presto possibile i risultati delle indagini in corso presso il Ministero della Guerra, di cui lei parla nell'ultimo paragrafo della sua lettera.
 Sinceramente vostro,
Ellery W. Pietra
Contrammiraglio, USNR
Commissario capo
[Dest.] Dott. Alcide De Gasperi
Presidente del Consiglio dei Ministri Governo italiano
ROMA
 
………………………….
Il 6 maggio 1946 il I governo De Gasperi istituì una commissione d'inchiesta per i presunti criminali di guerra italiani, con l'obiettivo
"di poter giudicare, con i propri normali organi giudiziari e secondo le proprie leggi, quelli che risultassero fondatamente accusati da altri stati."

Manlio Brosio – Ministro della Guerra
…………………….

MINISTERO DELLA GUERRA
GABINETTO
Prot. N. 2030/11/255.5.1
Roma,
 6 febbraio 1946
Oggetto: Criminali di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri
AL SIG. PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
ROMA
e, per conoscenza:
AL SIG. MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI
ROMA
Alcuni Stati coi quali l'Italia è stata in guerra, precisamente la Gran Bretagna, la Jugoslavia, la Grecia, l'Albania e, sembra anche l'Etiopia, hanno sollevato il problema dei criminali di guerra italiani e presentato, alla Commissione Alleata per i criminali di guerra in Londra, le loro richieste. Anche la Russia ha sollevato il problema compilando un elenco di criminali di guerra italiani, ma non si sa con precisione se abbia o meno presentato le sue richieste a tale commissione.
Sono attualmente noti:
- 12 nominativi ed i relativi capi di accusa di quelli che sono stati incriminati dalla Russia;
- 447 nominativi e relativi capi di accusa di quelli che sono stati incriminati dalla Jugoslavia;
- 497 nominativi di quelli che sono stati incriminati dalla Gran Bretagna (nella maggior parte per il trattamento usato a danno dei loro prigionieri);
- 6 nominativi di quelli che sono stati incrimìnati dalla Grecia;
- 3 nominativi e relativi capi di quelli che sono stati incriminati dall'Albania;
ed ho ragione di ritenere che molti altri cittadini italiani, per la maggior parte appartenenti alle Forze Armate, sono stati e saranno incriminati.
Tra i nominativi noti figurano quelli di ufficiali, funzionari, uomini politici che ricoprono, attualmente, alte cariche nello Stato italiano.
Poiché questi nominativi e le relative gravi accuse sono stati più volte ripetuti dalla stampa e dalle radio, estere e nazionali, sembra conseguirne ormai la necessità, per il Governo italiano, di compiere quegli accertamenti atti a stabilire la verità sui fatti denunciati, allo scopo:
a) di salvaguardare l'onore e la dignità di quelli che possono ritenersi immuni dalle accuse loro lanciate;
b) di sfatare la leggenda, che potrebbe crearsi all'estero, che lo Stato italiano voglia proteggere gli autori di odiosi reati, o che non voglia attenersi a quella deferente cortesia propria dei rapporti fra Stati sovrani;
c) eliminare la possibilità di arresti e di consegne di italiani agli Stati richiedenti, senza il concorso dello Stato Nazionale;
d) di dimostrare che si tiene nel dovuto conto un grave problema quale quello dei criminali di guerra.
A compiere tali accertamenti il Governo italiano potrebbe chiamare un organo il quale, accertati i fatti, dovrebbe proporre:
- la riabilitazione pubblica a quelli che risulteranno innocenti;
- il perseguimento, in via legale, di quelli sicuramente responsabili di violazioni delle leggi e degli usi di guerra o di analoghe norme.
Tale organo, in considerazione:
a) che i fatti sarebbero costitutivi di violazione, di norme di natura e carattere militari ed avrebbero attinenza con la condotta bellica;
b) che sarebbe essenziale l'indagine nel rapporto tra i fatti con la necessità bellica o ragioni di guerra;
c) che la ricerca dovrebbe coinvolgere anche il principio dell'obbedienza assoluta all'elemento militare, sia nell'interno dell'aggregato militare (gerarchia), sia in relazione al potere politico;
d) che gli accusati sono, nella grande maggioranza, militari;
non può che essere un organo strettamente tecnico del Ministero della Guerra.
Nella specie, poiché i presunti crimini dovranno essere esaminati anche alla luce delle direttive di politica generale della guerra ricevute dal Governo dell'epoca, sembra opportuno che di questo organo facciano parte gli ex ministri della guerra (particolarmente quelli del periodo post-armistizio, escluso, naturalmente, il gen. Orlando perché compreso tra i presunti criminali di guerra).
L'organo dovrebbe concretarsi in una Commissione d'Inchiesta composta di un determinato numero di alti generali e degli ex ministri della guerra e dovrebbe, sulla base delle accuse lanciate da parte straniera, compiere tutti gli accertamenti possibili onde stabilire:
a) se i fatti si siano verificati; se siano leciti o se violino norme penali;
b) in quali condizioni d'ambiente siano stati attuati;
c) in che relazione si trovino colla condotta della guerra.
Non sembra che, nel campo internazionale, potrebbero sorgere gravi contrasti in merito, dato che si tratterebbe di un atto interno di Governo, compiuto col fine dichiarato di collaborare, ai fini di giustizia, cogli Stati Esteri.
Per quanto riguarda l'azione da compiere nei confronti degli Alleati, tenuto conto:
- degli obblighi derivanti all'Italia dalle condizioni di armistizio;
- della «dichiarazione sull'Italia» fatta alla conferenza di Mosca che, nella parte concernente i criminali di guerra italiani, sia per la dizione, sia per il diverso trattamento usato esplicitamente verso la Germania, sembra modifichi le clausole armistiziali;
- del parere dell'Ambasciatore a Londra (telespresso 5232/3616 dell'11 dic. 1945 - allegato in copia);
- del parere dell'Ambasciatore a Mosca (telespresso 930/56 dell'11 maggio 1945 - allegato in copia);
- della circostanza che, finora, a parte coloro che sono stati arrestati dalle autorità di polizia alleata per crimini che ho ragione di ritenere commessi solo contro cittadini inglesi, nessun altro di quelli che sono stati incriminati è stato arrestato;
- di quanto si può dedurre dalla lettera con la quale venivano richiesti dall'Autorità Alleata gli indirizzi di alcuni incriminati per fatti commessi contro inglesi e jugoslavi (ministero dell'Interno: lettera 500/73438 del 4 luglio 1945 - allegata in copia);
sono del parere che un'azione diplomatica, iniziata dal Governo italiano allo scopo di ottenere di poter giudicare, con i propri normali organi giudiziari e secondo le proprie leggi, quelli che risultassero fondatamente accusati da altri Stati, potrebbe avere prospettive di un certo successo.
Ove non si potesse realizzare tale scopo, si dovrebbe tentare di ottenere tribunali misti, dei quali dovrebbe far parte, come giudice, un rappresentante della Nazione dell'imputato, con esclusione del rappresentante della Nazione della parte lesa. Inoltre il tribunale dovrebbe esercitare le sue funzioni in Italia e la celebrazione del dibattimento dovrebbe essere pubblica, nel senso più lato, anche coll'intervento della stampa.
Sarebbe pure opportuno che l'imputato, data la materia, potesse farsi assistere, nel periodo istruttorio e dibattimentale, oltre che dai difensori, da diversi consulenti tecnici, messi a disposizione dallo Stato italiano.
Correlativamente, anche alla parte lesa dovrebbero essere concessi i diritti di costituzione di parte civile e dell'intervento di propri consulenti tecnici.
Se neppure questo scopo si potesse raggiungere, si dovrebbe tentare, ai fini di una giustizia serena e obbiettiva, di ottenere:
a) che del tribunale non facessero parte rappresentanti delle Nazioni delle parti in contrasto;
b) che il giudizio - per evidente legittima suspicione - non si celebrasse nel territorio nazionale della presunta parte lesa;
c) ferme restando le altre formalità di cui sopra, con assoluta garanzia della massima pubblicità, con in più l'obbligo, per i Governi, di far intervenire i testi citati e di esibire i documenti richiesti.
Infine, se per dannata ipotesi dovessero ancora verificarsi fermi di sospetti criminali di guerra da parte della polizia militare alleata, lo Stato interessato dovrebbe per lo meno:
a) avvisare immediatamente l'autorità giudiziaria e militare italiana dell'avvenuto arresto;
b) comunicare il luogo e la detenzione;
c) assicurare tutte le garanzie di visita, assistenza, difesa ecc. che si assicurano agli imputati secondo la procedura dei paesi civili.
Risolvendola nel modo sopraindicato, sono del parere che questa complessa e delicata questione potrebbe semplificarsi e porsi sulla via di una soddisfacente soluzione. E potrebbe altresì influenzare favorevolmente le decisioni che - in materia - saranno segnate nel trattato di pace in corso di compilazione.
Ne interesso pertanto la S.V perché voglia, in merito, compiacersi disporre quanto riterrà opportuno ed autorizzarmi, intanto, a provvedere alla nomina ed a fissare le attribuzioni della Commissione d'Inchiesta.
Fto
IL MINISTRO
 Manlio Brosio
…………………………………..

L'11 settembre 1946 De Gasperi comunicò all’ammiraglio Stone che la Commissione stava per deferire alla giustizia penale militare quaranta inquisiti con l'accusa
di essere venuti meno, con gli ordini o nella esecuzione degli ordini stessi, ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità, ed in modo particolare ai principi della inviolabilità degli ostaggi e alla limitazione del diritto di rappresaglia

Roma, 11 settembre 1946
Caro Ammiraglio.
con la Sua lettera n. 6517/143/E.C. in data 2 maggio. Ella chiedeva di essere a suo tempo informato dei risultati delle indagini compiute dalla Commissione d'Inchiesta del Ministero della Guerra sui presunti criminali di guerra italiani. Il Presidente della Commissione. Senatore Casati, Le fa ora sapere che la Commissione. dopo attento e severo esame di situazioni personali è venuta nella determinazione di deferire alla giustizia  penale militare coloro che  possono essere inquisiti per essere venuti meno, con gli ordini o nelle esecuzione degli ordini stessi, ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità, ed in modo particolare   ai principi  della inviolabilità degli ostaggi e alla limitazione del diritto di rappresaglia.
 La Commissione ha pertanto redatto un elenco di quaranta nomi di militari o civili,  contro í quali può essere elevata l’accusa e si riserva di precisare le singole posizioni personali in una prossima riunione.
Voglia, gradire. caro Ammiraglio. gli atti della mia alta considerazione.
Fto. De Gasperi
pesi.] Ammiraglio Ellery W STONE
Capo della Commissione Alleata
ROMA
…………………………

All’inizio del ’47 gli italiani non avevano estradato nessun connazionale criminale di guerra mentre nel frattempo processavano i nazisti per i crimini commessi contro i civili.
Per questo motivo gli jugoslavi mandarono una nuova petizione agli inglesi…
Nonostante gli impegni internazionali i governi inglese e americano,
hanno con continue scuse ostacolato l’estradizione dei criminali di guerra italiani.
Il risultato di ciò è che, fino ad oggi, non è stato consegnato neanche uno dei 750
criminali elencati dalla UNWCC.
La tolleranza di un tale stato di cose,  prepara in Italia una situazione
che minaccia il sviluppo pacifico delle relazioni internazionali in
questa parte dell’Europa.
Dopo una settimana (21 ottobre 1946) dalla ricevuta della petizione, l’ammiraglio Stone della Commissione per il Controllo rispose…
Ellery Wheeler Stone 
Contrammiraglio nella riserva navale degli Stati Uniti durante  la
Seconda Guerra mondiale,  prestava servizio come Commissario Capo,
Commissione di Controllo Alleata in Italia

Dato che il Governo Alleato è tato abolito in tutta Italia,
le richieste in tal senso devono essere indirizzate direttamente
al Governo Italiano.
(di non aver competenza a richiedere al Governo Italiano la consegna dei criminali
di guerra in quanto tale competenza spetta al paese interessato).

(Pietro Nenni – Ministro degli Affari Esteri)

Sui crimini di guerra commessi in Jugoslavia, Eritrea e in Grecia, l’opinione pubblica italiana non sapeva molto.
La Jugoslavia continuò a fare richieste agli Alleati e al Governo Italiano.
Il ministro per gli Affari esteri Inglese preparò un memorandum nel quale la Gran Bretagna specificava che
Tutte le richieste di estradizione dei criminali di guerra dovevano essere fatte
solo per via diplomatica.
La Jugoslavia non poté soddisfare questa richiesta, non avendo un proprio ambasciatore a Roma.
Venne osservato nella “Dichiarazione di Mosca” del ’43, l’esistenza di un buco giuridico.
Si capì che la parola “tedesco” venne scritta per errore e quindi, con grande ragione e opportunismo, i governi inglese e americano ne trassero vantaggio.
Gamer, del Foreign Office, propose al Governo di Roma
di mettere sotto processo qualche fascista insignificante, anche se un tale atto non solleverebbe gli italiani dalle loro responsabilità giuridica di estradare questi criminali.
Un’azione simile creava una base solida nel negare che contro i criminali di guerra non era stato fatto nulla.
La “Dichiarazione di Mosca” non fu intesa per dividere i tedeschi dagli italiani ma coinvolgeva tutte le forze dell’Asse Europeo.
L’idea era che
i criminali di guerra avrebbero dovuto affrontare gli accusatori dovunque nel mondo
questi crimini fossero stati commessi.
Ma queste rimasero solo grandi parole perché si fece ben poco per assicurare alla giustizia i criminali.
La parte triste di questa vicenda fu che
Ai britannici interessava solo che ciò accadesse perché: ostava, era impopolare,
face perdere voti, amici e consensi.
In Italia fu arrestato nella sua casa abitazione di Bari il generale Nicola Bellomo, con l’accusa di “crimini di guerra”.
Accusato di aver ucciso un inglese durante la fuga.
Fu l’unico italiano che gli Alleati giustiziarono.
Il corrispondente di guerra Sirll Ray notò molte irregolarità nel processo del generale Bellomo e mandò un telegramma ad un noto deputato laborista, Ivory Thomas..
Sono profondamente turbato dal rigetto dell’appello sulla sentenza di morte.
Ero presente per tutto il processo e non sono l’unico che la pensa in tal senso;
1. La sentenza è troppo severa;
2. Il difensore non è alla pari con il procuratore;
3. Non sono state prese in considerazione le circostanze attenuanti.
Anche se Bellomo è colpevole è solo un individuo di poca importanza in confronto
ai fascisti con cui abbiamo ancora a che fare.
La cosa importante è il diritto di Bellomo ad avere il beneficio del dubbio in questo caso.

L’avvocato della famiglia Bellomo, Russo Fratanzi, aveva tutte le autorizzazioni per adempiere alla difesa dell’imputato.
Ma non lo lasciarono entrare in tribunale, anche se mostrò i documenti.
Si potrebbero elencare tutta una serie di atti illegali, però la cosa importante fu che nessun processo, in quel tempo, venne condotto in questo modo.
Bellomo era l’unico generale antifascista.
Nell’esercito aveva ricevuto la medaglia per il merito nei combattimenti contro i tedeschi a Bari.
Il maresciallo Badoglio non gli era favorevole, perché con il suo comportamento fu di esempio per gli altri generali, che dovevano combattere i tedeschi, ma non erano in possesso di tanto coraggio.
Il Bellomo, all’inizio della sua carriera, salvò la vita ad un soldato inglese che fu condannato a morte dai fascisti perché sparò a due civili.
Il Bellomo riuscì a convincere la giuria che si trattò di un caso di autodifesa e non di un crimine.
Al processo contro Bellomo il Foreign Office le circostanza attenuanti non
Lo interessavano affatto


L’8 settembre 1945, Ivory Thomas ricevette la risposta del Foreign Office sulla richiesta di Sirll Ray.
"I verbali del processo sono stati attentamente studiati dal Foreign Office e mostrano come il procedimento sia stato effettuato in maniera normale e completamente giusta. Il generale Bellomo è stato condannato per aver commesso un omicidio particolarmente vigliacco per il quale non possiamo trovare circostanze attenuanti. Siamo sicuri che lei potrà condividere il fatto che l'effetto, sull'opinione pubblica del paese, di un perdono ingiustificato di un criminale di guerra, sarebbe altamente indesiderato.
Bellomo era quindi il capo espiatorio per le atrocità commesse dai fascisti sui prigionieri di guerra britannici in Nord Africa.
Così accadde che le prove sparirono, i testimoni non potevano testimoniare e a Bellomo non fu concesso un avvocato italiano ma gli venne assegnato un avvocato inglese incapace.
Lo accusarono  nonostante le proteste dei giornalisti inglesi e lo fucilarono senza pietà.
La più grande ironia fu quella che gli inglesi giustiziarono l'unico generale antifascista nello stesso momento in cui stavano coprendo noti criminali di guerra italiani. Bellomo aveva infatti combattuto i tedeschi a Bari e per questo aveva ricevuto una medaglia d'argento al valor militare. Non piaceva a Badoglio perchè dimostrò a quegli italiani che erano scappati, come bisognava combattere i tedeschi

Al generale Bellomo fu anche offerta la possibilità della fuga prima della sentenza.

Mio padre lo poté visitare con la macchina pronta,
mentre la guardia di turno era molto distante.
Di sicuro gli fu detto di agire così.
Certamente agli inglesi sarebbe bastato  di screditarlo, ma Lui non ha
Voluto scappare proprio perché questo (atto) era contrario al suo onore militare.

20  Giugno 1947

Gli jugoslavi facevano pressione, eravamo nel 1947, sul Governo Alleato e Italiano per la consegna dei criminali di guerra.
Per questo motivo l’ambasciatore inglese (Sir Victor Alexander Louis Mallet ?) 


presentò una proposta agli Alleati…
il Ministro degli Esteri Italiano (Carlo Sforza) propone
al fine di diminuire le pressioni della Jugoslavia sull'Italia, in rispetto dell'articolo 45 del trattato di pace, il governo di Sua Maestà e quello degli Stati Uniti scoraggino ulteriori richieste per la consegna di criminali di guerra italiani, dichiarando di ritenersi soddisfatti di lasciare il processo e l'eventuale condanna di coloro che non sono ancora stati arrestati al sistema giudiziario italiano".

Carlo Sforza
L’1 agosto ( sei settimane dopo) gli Alleati annunciarono la stesura di un accordo con il Governo italiano (De Gasperi IV) con il quale
Si rilasciava ogni attività di persecuzione e processo dei criminali di guerra
ai tribunali italiani.


Con questo accordo gli Alleati annullarono ogni possibilità di estradizione, di qualunque criminale presente nella lista delle Nazioni Unite e contenente più di 800 criminali italiani.
Naturalmente gli Alleati usarono la loro forte influenza sull’UNWCC per respingere tutte le innumerevoli richieste jugoslave e questo non tenendo conto delle prove inconfutabili.
Marian Mushkat, delegato polacco alla commissione Onu per i crimini di guerra (1946/48) rilevò come….
Marian Mushkat
Gli alleati occidentali sfruttarono la loro posizione preminente in seno alla commissione per i crimini di guerra e respinsero la maggior parte delle richieste degli iugoslavi ignorando molti documenti preparati dagli iugoslavi principalmente perché il governo di Belgrado era considerato alleato dell'Unione Sovietica. Un altro pretesto per respingere i dossier preparati dagli iugoslavi fu quello relativo alla loro mancata compilazione. Questo argomento si rivelò fittizio perché  i componenti iugoslavi della commissione per i crimini di guerra erano avvocati brillanti e esperti in diritto internazionale e i fascicoli da loro sottoposti erano ben preparati e documentati.

Jugoslavia che nel 1945 aveva assunto la forma istituzionale come
 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia
 (Socijalistička Federativna Republika JugoslavijaSFRJ)
che manterrà fino al 1992.
Il Capo di stato era Ivan Ribar mentre il maresciallo Josip Broz Tito era primo Ministro.

Ivan Ribar

Josip Broz Tito

Tito e Ivan Ribar a Sutjeska nel 1943

Incontro tra Tito e Winston Churchill a Villa Rivalta, Napoli, 12 agosto 1944

Josip Broz Tito con la moglie Jovanka Budisavljević Broz

Gli Alleati non tennero conto delle richieste della Jugoslavia anche per una questione politica a causa della sua alleanza con l’Unione Sovietica.
Un’alleanza che era ritenuta una minaccia per la pace e per lo nascere di un nuovo conflitto.
Un’altra scusa, portata avanti dagli Alleati, era che la documentazione non era pronta ma era una falsità.
La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (UNWCC) , inizialmente Commissione delle Nazioni Unite per l'indagine sui crimini di guerra , era un organismo delle Nazioni Unite che aiutava a perseguire i crimini di guerra commessi dalla Germania nazista e da altre potenze dell'Asse durante la seconda guerra mondiale.
Operativa dal 1943 al 1948, l'UNWCC aveva il mandato di
- identificare e registrare i crimini di guerra;
- preparare le incriminazioni;
- garantire che i presunti criminali di guerra fossero arrestati;
- determinare la base legale per l'estradizione e la punizione;
- aiutare a definire i crimini contro l'umanità e il crimine di genocidio .
Registrò oltre 36.000 presunti criminali di guerra e aprì oltre 8.000 casi.
La Commissione non giudicò i crimini di guerra da sola, ma piuttosto consigliò, supervisionò e coordinò con gli stati alleati per condurre i propri processi. L'UNWCC chiese anche la creazione del Tribunale militare internazionale di Norimberga e di altre corti per giudicare i crimini di guerra, e la sua ricerca e competenza furono successivamente utilizzate a supporto di questi organi giudiziari.
La Commissione venne formalmente istituita il 20 ottobre 1943, in una riunione tenutasi presso il Foreign Office britannico a Londra. Fu sostenuta dai governi di diciassette nazioni alleate: Australia, Belgio, Canada, Cina, Cecoslovacchia, Francia, Grecia, India, Lussemburgo, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Sudafrica, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia. L'UNWCC precedette la costituzione formale delle Nazioni Unite nel 1945.
Gli obiettivi e i poteri della Commissione furono conferiti come segue:
- indagare e registrare le prove dei crimini di guerra, identificando ove possibile i responsabili.
- segnalare ai governi interessati i casi in cui è emerso che si sarebbero potute ottenere prove adeguate.
Uno dei compiti principali della Commissione era quello di raccogliere attentamente prove di crimini di guerra per l' arresto e il giusto processo dei presunti criminali di guerra dell'Asse.
Tuttavia, la Commissione non aveva il potere di perseguire i criminali da sola. Si limitava a riferire ai governi membri dell'ONU che potevano quindi convocare tribunali , come il Tribunale militare internazionale di Norimberga.

La prima pagina di una delle tante accuse contro Hitler, questa volta mosse dal noto giurista ceco Bohuslav Ecer nel dicembre 1944.
 
Tutti i membri dell’UNWCC jugoslavi erano degli ottimi avvocati come il prof. Zivkovic, esperto nel diritto internazionale. Tutte le richieste di accusa e di estradizione erano ben preparate e documentate.
Il caso dell’Etiopia venne portato davanti alla Commissione (ultima) dell’UNWCC nella primavera del 1948.
La Commissione decise di esaminare solo 10 casi tra le centinaia preparati dagli etiopi rappresentati da uno svedese.
Il primo nella lista era quello del maresciallo Pietro Badoglio, il quale venne accusato dell’uso di gas tossici e del bombardamento di ospedali della Croce Rossa.


I britannici presero subito le sue difese….. Roberti Craige
Praticamente l’intera politica contro l’Etiopia venne organizzata da
Benito Mussolini e da Rodolfo Graziani.
Dubitiamo nella accusa contro Badoglio sull’uso dei gas tossici.
Non c’è niente che provi il suo coinvolgimento in tal senso..
 
Dr. Zivkovic (Risposta Etiope)…
Non ha importanza se lui abbia dato l’ordine.
Era suo dovere controllare i suoi subordinati e prevenire che fossero
commessi crimini, il generale giapponese Jamashito venne condannato su questa base.
 
Dr. Aars Rynning (Norway)
Sono convinto che il generale Badoglio, come comandante in capo e responsabile
della realizzazione dell’intera campagna militare, debba in qualche
modo essere stato coinvolto nella decisione dell’uso dei gas tossici,
visto che si tratta di una decisione presa dagli alti comandi militari.
 
Sir Robert Craigie
Sì, ì, però nel bombardamento degli ospedali della Croce Rossa, è chiaro dalla
corrispondenza, che esiste un dubbio che questi bombardamenti furono intenzionali.
 
Dr. Aars Rynning (Norway)
Questa non era la posizione del Governo inglese nel 1935 - 36 quando respinse
qualsiasi argomento dal Ministro degli Esteri italiano per discolparsi
 sul  bombardamento di unità mediche inglesi in Etiopia.
 
Baron Erik Leijonhufvud  (Imperial Ethiopian Government.)
Questa era la prima volta nella storia che le unità della Croce Rossa furono
Ripetutamente perseguitate. Il che lo confermano anche i rappresentanti italiani della
Croce Rossa. Questo ebbe luogo quando Badoglio era al comando.

 L’Etiopia era sostenuta da Norvegia e Cecoslovacchia. Badoglio venne classificato sulla lista dei criminali di guerra come
Criminale “A” per l’uso di gas e per il bombardamento degli ospedali.


Meno controversie ci furono per Rodolfo Graziani che venne classificato nella lista per ben 9 capi di accusa.

Altri otto fascisti furono messi nella lista per i crimini in Etiopia.
Nel 1949 l’Italia rifiutò l’estradizione, per i crimini in Etiopia, di Badoglio e di Graziani……
Il 17 settembre l'ambasciatore etiope a Londra sottopose la questione al Foreign Office che considerò
la richiesta inopportuna e consigliò di desistere.
Così nessun criminale fu mai estradato.















L'Etiopia si era appellata a una clausola del Trattato di pace, che indicava un ininterrotto stato di guerra tra essa e l'Italia sin dal 3 ottobre 1935; successivamente (nov. 1948), pertanto, chiese la consegna degli accusati per sottoporli a processo. L'Italia peraltro, riuscì a ottenere dagli alleati la rinuncia all'applicazione di tali clausole, impegnandosi a provvedere direttamente al giudizio di tutti i presunti criminali, individuati dalla Commissione ONU.
I lavori della Commissione d'inchiesta italiana si conclusero con l'archiviazione delle posizioni di tutti gli accusati.
............................................................................

Il Caso del generale  NICOLA BELLOMO
Giustiziato dagli Inglesi….. perché antifascista…..
(nella narrazione alcuni riferimenti legati all’Acquedotto Pugliese)
Fu accusato ingiustamente di “crimini di guerra”…..mai commessi….

Il Generale Nicola Bellomo 
Bari, 2 febbraio 1881 – Nisida, Napoli, 11 settembre 1945

Il generale Nicola Bellomo in visita al presidio militare di Bari nel 1941
Un generale dal carattere mite anche se temuto dai colleghi e sottoposti per il carattere spigoloso poco incline ai compromessi.  I superiori, invece, l'apprezzavano per l'acume intellettuale, per il vivace spirito d'iniziativa e per i solidi valori morali sempre dimostrati.
Aveva lasciato il servizio attivo da Comandante del Distretto Militare di Benevento nel 1936. 
Fu richiamato in servizio il 15 gennaio 1941 per esigenze belliche, con il grado di generale di brigata, e gli fu affidato l'incarico di Comandante del Presidio Militare di Bari.
Nel nuovo incarico mostrò, ancora una volta, le sue doti militari. Una delle sue prima operazioni militari fu la ricerca di un gruppo di incursori inglesi.
Si erano paracadutati, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1941,  nei pressi di Calitri (Avellino), e nella loro azione di guerriglia avevano distrutto il ponte-canale Tràgino e danneggiato il ponte-canale Ginestra dell’importante acquedotto pugliese. L’operazione d’incursione avevano il nome in codice di
“Operazione Colossus”.

Men from No.2 Commando (No. 11 Special Air Service Battalion)
who participated in Operation Colossus
Uomini del commando n. 2 (battaglione del servizio aereo speciale n. 11)
che hanno partecipato all'operazione Colossus

Nel 1940  Churchill, con l’obiettivo di alleggerire la pressione nemica, impartì dei comandi per portare la guerra oltre le linee avversarie.
Le azioni dei paracadutisti tedeschi avevano dimostrato al mondo l’utilità dei corpi aviotrasportati.  Per questo motivo gli inglesi seguirono l’esempio dei tedeschi e, alla fine del 1940, istruirono 500 Commandos come paracadutisti.  Furono i primi uomini dei ben 15 futuri battaglioni aviotrasportati inglesi nati durante la guerra.
La prima incursione "sperimentale” dei paracadutisti inglesi avvenne nel 1941 nell’Italia meridionale, col nome in codice di 
Operation Colossus.
Il “Colosso” era il canale principale dell’Acquedotto Pugliese che riforniva d’acqua gran parte della Puglia (porti e le installazioni militari di Bari, Brindisi e Taranto, quest’ultima base principale della Marina italiana).


Distruggere l’Acquedotto Pugliese con il risultato dell’interruzione della fornitura d’acqua per milioni di persone e in una regione che era la base di imbarco e rifornimento per le truppe destinate al fronte greco-albanese.
Con questa azione di sabotaggio gli inglesi volevano dimostrare di essere in grado di colpire anche lontano dai loro confini. L’azione avrebbe provocato allarme e avrebbe demoralizzato la popolazione ed i militari italiani.


Per il Commandos la speranza di sopravvivere ( e di sfuggire alla cattura e quindi alla prigionia)  erano scarse e i comandi inglesi decisero quindi di ricorrere solo a volontari.
Un corpo di volontari costituito da:
7 ufficiali e 31 uomini del Commando N. 2 delle Special Service Troops
(deniminati X Troops)

Il gruppo era comandato dal Maggiore  Trevor Allan Gordon Pritchard.

Il gruppo venne addestrato per circa sei settimane vengono e il 9 febbraio 1941 il gruppo fu trasferito con un aereo  a Malta.
Nella notte, tra il 10 e l’11, il gruppo salì  a bordo di alcuni aerei Withley. 
Due degli aerei, partiti da Malta, svolsero una azione dispersiva sganciando delle bombe su Foggia (colpirono gli scali ferroviari di San Severo e Rocchetta Sant’Antonio).
Altri sei aerei, con i paracadutisti e il loro equipaggiamento, deviarono verso il corso del fiume Ofanto fino alla zona di lancio, nei pressi dell’obiettivo:
il ponte-canale Tragino, lungo circa 100 metri.



Gli aerei giunsero sull’obiettivo a 400 piedi, quota comunque sufficiente per permettere l’apertura dei paracadute.
Alcuni bambini delle fattorie vicine si accorsero che stava accadendo qualcosa di strano, e furono subito richiamati al riparo dagli adulti.
Il lancio dei paracadutisti avvenne con successo.
Solo uno degli uomini, atterrato a circa metà strada tra la valle dell’Ofanto e l’obiettivo, si infortunò alle gambe. I britannici, presentandosi come paracadutisti tedeschi in addestramento, si impossessarono delle poche case situate nei pressi del ponte. Gli abitanti, molto spaventati, vennero tutti rinchiusi in una casupola.
Uno degli aerei, tuttavia, era in ritardo ed effettuò il lancio sulla sponda opposta del fiume Ofanto, a qualche chilometro dalla zona programmata.
Alcuni uomini presero terra così nelle campagne di Monticchio Bagni (frazione del comune di Rionero). Tra loro c’era anche l’esperto di demolizioni. Questi uomini non riusciranno più a ricongiungersi al gruppo principale.


Con questo lancio vennero a mancare anche diversi contenitori di esplosivo.
Il maggiore Pritchard aveva quindi a disposizione, per la sua azione militare,  circa un terzo dei 1000 kg di esplosivi programmati.
Un aspetto, che non fu considerato nell’azione di studio del sabotaggio, era legato al fatto che il ponte era costruito in solido cemento e non in mattoni, come ci si aspettava. Ad ogni modo, il maggiore Pritchard ordinò di minare il ponte Tragino e l’altro vicino ponte-canale sul torrente Ginestra, lungo 65 metri.




Veduta aerea attuale dell'obiettivo (in bianco, confine tra Campania e Basilicata)
 
L’11 febbraio 1941, alle 12,30  del mattino seguente,  due forti esplosioni segnarono il successo della missione.

I paracadutisti si divisero in tre gruppi dirigendosi verso la costa, attraversando missioni ostili e braccati da milizie locali. Punto di incontro, la foce del fiume Sele, dove dovrebbe attenderli il sommergibile britannico Triumph nelle notti del 16 e del 18 febbraio.


Sommergibile britannico Triumph 
In soli tre giorni di ricerche, i bersaglieri e i carabinieri (coadiuvati dalla popolazione civile) agli ordini del generale Bellomo riuscirono a catturare tutti i 35 uomini del commando, che vennero poi rinchiusi nel campo di prigionia di Torre Tresca (BA). Dopo la cattura, Bellomo impedì ai civili di eseguire una sommaria esecuzione dei sabotatori, ma trattenne come "preda bellica" la Colt Pocket mod. 1903 del maggiore comandante il commando britannico.

Una M1903 in calibro .32 ACP, prodotta nel 1935

L’azione di cattura dei sabotatori si svolse in diversi fasi.
Nella mattina del 12 febbraio venne catturato, presso Teora (Avellino) il gruppo del maggiore Pritchard che si arrese a tre civili italiani, armati solo di un fucile da caccia, un’accetta e una roncola. Poco dopo anche il gruppo del capitano Lea si arrese. Il sottotenente Jowett e i suoi uomini furono catturati il giorno 13 dopo uno scontro a fuoco con carabinieri e civili, dove perdettero la vita la vita due civili italiani. Il gruppo paracadutato per errore presso Monticchio Bagni si arrese il 15 febbraio, a soli 30 Km dalla foce del Sele.
Tutti gli incursori furono catturati. La loro fuga era comunque destinata a fallire dato che  i paracadutisti non avrebbero trovato il sommergibile ad attenderli. Uno degli aerei che aveva bombardato la zona di Foggia subì un guasto ed il pilota comunicò via radio che avrebbe tentato l’ammaraggio di fortuna alla foce del fiume Sele. Temendo che la comunicazione fosse stata intercettata, il comando inglese cancellò la missione di recupero del Triumph.
Da alcune foto aeree scattate dopo l’azione il ponte Tragino appare con una sezione crollata, il Ponte Ginestra apparentemente intatto. Probabilmente, il ponte-canale Ginestra non crollò, ma la condotta idrica venne sfondata dall’esplosione. A conferma di ciò, gli abitanti del luogo raccontarono come dopo l’esplosione un torrente d’acqua si riversò nelle case in cui erano stati rinchiusi i civili italiani prigionieri, invadendone i locali: doveva essere l’acqua che fuoriusciva dal ponte-canale Ginestra, collocato proprio a monte delle case.
In termini materiali, tuttavia, l’Operation Colossus riportò scarsi effetti.
La riparazione del ponte Tragino venne effettuata a tempo di record ad opera di pochi ma esperti tecnici civili dell’Acquedotto Pugliese, che riallacciarono le tubazioni distrutte prima che le riserve d’acqua si esaurissero.
Il diario di Ardengo Soffici, un pittore futurista ben introdotto nei circoli della capitale, riportò gli avvenimenti di quei giorni evidenziando un forte grado di approssimazione e la miseria morale del regime:
“Sono stato a Roma, dove ho trovato un inferno di carogneria e di disfattismo … pochi osano per ora esprimere la loro sfiducia nella vittoria, ma molti ne dubitano… notizie infami sui nostri soldati, sui nostri generali, su tutti quelli che sono in ballo, circolano per Roma… Si dice che i paracadutisti discesi in Calabria e in Puglia fossero italiani: quattro pratesi; che hanno distrutto una parte dell’acquedotto, e che diciotto di essi non sono stati ancora presi. I presi (italiani) sono stati fucilati”.
Paracadutisti italiano, tra cui quattro pratesi” che si sarebbero paracadutati “in Calabria e Puglia”, di cui ""diciotto non ancora catturati?"
Tra gli inglesi catturati c’era davvero un italiano.
Dichiarò di avere 44 anni…di essere un francese e di chiamarsi Pierre Dupont……
Ma alla fine… messo alle strette… dichiarò la sua vera identità
Fortunato Picchi,
sono un  toscano emigrato da anni in Inghilterra, dove vivo agiatamente.
Imbarcato prima come cameriere sul lussuoso piroscafo Majestic, poi diventai
vicedirettore del reparto banchetti del prestigioso Hotel Savoy di Londra, dove tutti mi conoscono come “Little Fortune”.

Fortunato Picchi

Non aveva mai mostrato simpatie per il fascismo, né ha aderito a sezioni del fascio aperte dagli italiani in Inghilterra, all’epoca ben tollerate dalle autorità britanniche.
Non apparteneva ad alcun partito politico.
Un rapporto del SOE - Special Operations Executives” definì Picchi
“un idealista, che non ha a che fare con la politica, che per molti aspetti
è più inglese degli inglesi”.
Allo scoppio della guerra fu internato, ma non fu inviato in Canada come altri italiani. Chiarita la sua posizione, avrebbe potuto tornarsene a casa ad attendere la fine della guerra, invece il mite e cortese capocameriere del Savoy, all’età di ben 44 anni, preferì arruolarsi nei corpi speciali.
Durante gli interrogatori specificò
di non ritenermi un traditore dell’Italia dato che
voglio combattere il regime fascista. Gli italiani devono svegliarsi e combattere Mussolini.
Si mostrò cosciente della situazione
Sapeva che, se catturato con la divisa inglese addosso, lo aspettava immancabilmente il plotone di esecuzione.
Era il 1941, e la vicenda di questo italiano, che volontariamente decise di andare incontro a morte certa pur di combattere il fascismo, fu un caso inquietante per le autorità. Solo un mese dopo la sua cattura, vennero diramati precisi ordini a tutti i comandi locali delle forze dell’ordine nel caso di
"prigionieri di guerra catturati sul suolo metropolitano".
“Pregasi impartire disposizioni ai Comandi dipendenti perché nella eventualità di cattura, da parte di elementi della Milizia, di prigionieri di guerra sul suolo metropolitano, i catturati si astengano da ogni interrogatorio a meno che esso sia necessario in relazione al fatto specifico della materiale cattura, nel qual caso le domande dovranno essere limitate esclusivamente a tale fine. I prigionieri dovranno essere subito consegnati all’arma locale o viciniore che provvederà alla immediata loro traduzione al Comando della Difesa Territoriale di Roma cui compete farli interrogare da apposita Commissione, custodirli e trasferirli ai campi di concentramento.”
Tratto dalla Circolare 10 marzo 1941 XIX – n. 298, Comando Generale della M.V.S.N. – Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (Servizio Politico).
L’ordine si commenta da sé. Da uno strafalcione del testo, redatto nel solito stile militar-burocratico, traspare la ragione della circolare, la quale ordina che i 
“catturati – laddove, al limite, il riferimento andrebbe ai catturatori – si astengano da ogni interrogatorio”. 
Il regime ha paura che gli italiani scoprano che esistono uomini come Picchi, paura di ciò che essi possano comunicare a coloro che li catturano, li scortano, li sorvegliano, e su tutte le coscienze addormentate da venti anni di censura di regime. Condotto a Roma, Fortunato Picchi venne condannato a morte dal TSDS (Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato) il 5 aprile 1941 e fucilato a Forte Bravetta il 6 aprile 1941, Domenica delle Palme. Il luogo della sepoltura non sarà mai identificato. Il quotidiano inglese Time del 28 aprile 1941 dedicò alcune righe a “Little Fortune”, che “ha sacrificato la sua vita per la causa della libertà. Un uomo coraggioso, di alti ideali”.

https://www.diarioromano.it/salvare-forte-bravetta-significa-salvare-la-memoria-di-fatti-atroci-della-nostra-storia-recente/

Il giorno stesso della fucilazione Picchi scrisse alla madre la sua ultima lettera.

“Mi dispiace cara mamma per voi e per tutti di casa di questa sciagura e del dolore che voi arrecherà. Oramai per me è finito tutto ciò che rimane al mondo sia di dolore o di piacere, di morire non mi importa gran cosa, della mia azione mi pento perché proprio io che ho voluto sempre bene al mio Paese debbo oggi essere riconosciuto come un traditore. Eppure io in coscienza non penso così.”
Le ultime parole della lettera, dopo l’addio alla famiglia, sono "Viva l’Italia”.
(Archivio INSMLI - Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana, in www.italia.liberazione.it ), riportata anche da Alessandro Affortunati, “Di morire non mi importa gran cosa” - Fortunato Picchi e l’Operazione “Colossus”, Comune di Carmignano – Pentalinea, Prato, 2004.)

Nel 1946 la madre di Fortunato chiese alle autorità il riconoscimento della qualifica di patriota o partigiano per il figlio. Fino al 1945 l’intera famiglia fu sottoposta a vessazioni dal regime fascista. Tre dei suoi figli furono privati del lavoro, un altro costretto a partire volontario per il fronte russo per lavare il disonore; un altro ancora deportato nel lager di Mauthausen nel 1944, perché segnalato ai tedeschi come  da un suo conoscente aderente alla repubblica di Salò. La madre di Fortunato scoprì ben presto, con grande amarezza,  che per gli uffici competenti 
mancavano i requisiti per accogliere la domanda.
Quindi la pratica fu trasmessa a Roma, ad altri  uffici competenti. Dopo oltre un anno arriva il responso definitivo, che fu negativo:
“non risulta(va) dagli atti inviati che il suddetto a(vesse) svolto una continuativa attività politica contro il nazifascismo. Egli – proseguiva la lettera – avendo tentato degli atti di sabotaggio nei primi anni della guerra come paracadutista dell’esercito inglese, non potrebbe considerarsi che come militare combattente al servizio dell’esercito suddetto.”
(atti citati da Alessandro Affortunati, “Di morire non mi importa gran cosa” Fortunato Picchi e l’Operazione “Colossus”, Comune di Carmignano – Pentalinea, Prato, 2004)
L’ottusità burocratica, quintessenza di tutti i regimi, è sopravvissuta indenne alla caduta del fascismo. La madre di Fortunato Picchi morirà nel 1954, senza ricevere dall’Italia democratica e repubblicana alcun concreto segno di riconoscimento alla memoria di suo figlio. Per di più, nel 1949 sulla stampa italiana apparve un articolo che delineava la figura di Fortunato Picchi insinuando un margine di dubbio: 
era un traditore oppure un eroe?
I giornali inglesi, le pubblicazioni degli italiani antifascisti rifugiati in Inghilterra, alcuni giornali italiani più volte riportarono articoli su Picchi, ma mai prima in questi termini. E tuttavia non si registrarono repliche in Italia. Fortunato Picchi non risultò come aderente ad alcun partito o formazione politica, così nessuno intervenne.
Rispose solo da Londra il deputato inglese Ivor Thomas, un ex ufficiale che aveva conosciuto gli ambienti antifascisti inglesi, il quale scrisse ai giornali una lettera vibrante che deplorava
l’equilibrismo dell’articolo e definiva Fortunato Picchi, semplicemente, 
"un eroe che amava la sua patria e sacrificò la sua vita per liberarla
dalla tirannide del fascismo".
Era questa la chiara e semplice sostanza delle cose, esattamente ciò che non volle dichiarare la burocrazia italiana.
Fortunato Picchi, il tranquillo antifascista che ebbe in verità molti torti. Il torto di schierarsi contro il regime fascista troppo precocemente rispetto a gran parte del popolo italiano, il quale si troverà di fronte a questa scelta drammatica solo dopo l’8 settembre 1943. Il torto di non limitarsi ad un antifascismo parolaio e di comodo, magari molto successivo al 1945. Il torto di non essere rimasto al sicuro in Inghilterra, ma di arruolarsi (a ben 44 anni) nei paracadutisti, accettando di partecipare ad una missione rischiosa. Il torto di aver maturato le sue scelte spontaneamente, senza militare in alcun partito interessato a rivendicarne la memoria.
Infine, il torto di aver sacrificato la sua vita per una patria che troppo spesso dimentica e maltratta i propri eroi.

Torre Tresca
 
La notte del 30 novembre 1941, due ufficiali inglesi - il capitano George Playne e il tenente Roy Roston Cooke - riuscirono a fuggire dal campo di prigionia di Torre Tresca, ma furono ricatturati alcune ore più tardi.
Riportati a Torre Tresca, trovarono ad accoglierli il generale Bellomo e il capitano Sommavilla che vollero farsi mostrare dai due ufficiali il punto esatto da cui erano evasi e le modalità di evasione.
Infatti il controspionaggio italiano sospettava l'esistenza di una rete spionistica inglese che si avvaleva dell'aiuto di ufficiali italiani.
In quell'occasione, i due ufficiali inglesi - secondo la ricostruzione italiana - avrebbero approfittato dell'oscurità per tentare nuovamente la fuga.
A quel punto Bellomo ordinò di aprire il fuoco: il Capitano Playne fu raggiunto alla nuca da un solo colpo che gli risultò fatale, mentre il Tenente Cooke fu ferito ad un gluteo. L'inchiesta interna avviata dall'Esercito Italiano e condotta dai generali Luigi De Biase (comandante del IX corpo d'armata di Bari) e Enrico Adami Rossi (comandante della Difesa territoriale di Bari) avvalorò la tesi fornita dal generale Bellomo, surrogata anche dalle dichiarazioni e dalle testimonianze degli altri militari presenti all'accaduto,
il generale Bellomo avrebbe dato ordine di sparare solo dopo la fuga dei due ufficiali inglesi.
Qualche mese più tardi, si indagò di nuovo sull'accaduto, questa volta con una nuova inchiesta sollecitata dal governo britannico che affidò l'incarico alla Legazione svizzera a Roma e alla Croce Rossa. Anche questa nuova inchiesta pervenne alle medesime conclusioni della precedente.
Il 26 luglio 1943 Bellomo fu nominato comandante della CLI Legione CCNN "Domenico Picca".
Il 9 settembre 1943 a Bari, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 , il Generale Bellomo venne fortuitamente a conoscenza della notizia che il generale tedesco Sikenius aveva mandato dei guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città pugliese. Bellomo raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza.
A questi si affiancarono dei genieri del 9º Reggimento guidati dal sottotenente Michele Chicchi. 
Con questi ridotti nuclei attaccò i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura. Costretti sulla difensiva, i tedeschi furono obbligati ad una ritirata da due attacchi condotti dal generale Nicola Bellomo e infine alla resa. Bellomo fu anche ferito durante questi scontri.  Bellomo riuscì anche a coinvolgere i civili nella difesa della città, tanto che ragazzi di Bari vecchia affrontarono i tedeschi con armi in parte fornite dallo stesso Bellomo, tra cui alcune casse di bombe a mano. Ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti.
Il Generale Bellomo mantenne la sua carica fino al 28 gennaio 1944, quando la polizia militare britannica lo arrestò nel suo ufficio
"per aver sparato o fatto sparare contro due ufficiali britannici, causando la morte di uno di essi e il ferimento dell'altro".
Al momento dell'arresto, non esistevano a carico del generale elementi precisi in mano agli inquirenti inglesi.
Solo il 5 giugno 1945 (dopo circa un anno dall'arresto) il tenente Roy Roston Cooke presentò una denuncia scritta e circostanziata contro il generale stesso, il quale, nel frattempo, era stato più volte trasferito tra i campi di concentramento alleati di Grumo Appula, di Padula e di Afragola (il campo 209). 

Solo il 14 luglio 1945 gli fu comunicato il deferimento dinnanzi alla Corte Marziale e accusato di aver sparato con la propria Colt Pocket contro i due ufficiali inglesi, nonostante Bellomo avesse sempre negato - sotto giuramento - di aver mai usato l'arma in quel frangente.
Lo stesso Bellomo ricostruì così gli avvenimenti:
«Io ordinai alla scorta di fare fuoco soltanto quando mi accorsi che i due prigionieri si erano fermati per scattare in avanti. Il capitano Playne avanzò per primo, seguito a breve distanza dal tenente Cooke. Allora ebbi la certezza che volessero tentare la fuga. Io non sparai: non perché non avessi la volontà di farlo, ma perché avevo dimenticato di abbassare la sicura e la pistola non funzionò. Comunque lo ripeto ancora una volta: se ci fossero responsabilità, queste sarebbero solo mie perché io ero generale, tutti gli altri erano miei subordinati,
ubbidivano soltanto ai miei ordini»
La Corte, il 28 luglio 1945, dopo poco più di un'ora di camera di consiglio pronunciò la sentenza di condanna a morte, eseguita mediante fucilazione presso il carcere di Nisida. 

Carcere di Nisida
Nìsida è una piccola isola appartenente all'arcipelago delle isole Flegree, (Napoli)


Bellomo rifiutò di inoltrare richiesta di grazia.
Il generale Bellomo fu l'unico ufficiale italiano fucilato, per "crimini di guerra", a seguito di una sentenza emessa da un tribunale militare speciale britannico.
La città di Bari gli ha dedicato via Generale Nicola Bellomo, vicino al Policlinico Cotugno.
 
L'operato della Corte Marziale britannica fu considerato controverso: essa non si avvalse delle due precedenti inchieste svolte l'una del Regio Esercito italiano e l'altra dalla Croce Rossa su input dello
stesso Governo britannico. Non  fu permesso al generale Enrico Adami Rossi chiamato dalla difesa ma prigioniero degli americani, di poter testimoniare, mentre la testimonianza del generale De Biase, raccolta da un ufficiale dei carabinieri, non fu accettata poiché mancante della formula del giuramento. Non si diede peso alle contraddittorie dichiarazioni del tenente Cooke (prima asserì che le sentinelle italiane gli spararono da distanza, poi ritrattò dicendo che fu il generale Bellomo in persona a sparare a bruciapelo a lui e al capitano Payne).
Bellomo fu inoltre accusato dai quattro militari italiani che avevano partecipato all'arresto del tenente Cooke e del capitano Playne che raccontarono versioni contrastanti tra loro. 
Il sottotenente Stecconi testimoniò di essere disarmato e che Bellomo aprì il fuoco senza dare alcun ordine. Il soldato Gigante sostenne invece che fu dato l'ordine di fare fuoco ma di non aver fatto fuoco. Il soldato Olivieri raccontò anch'esso di aver ricevuto l'ordine di sparare ma di aver sparato in aria. Il soldato Curci sostenne anch'esso di aver sparato in aria e accusò anche Sommavilla. Testimoniarono tutti e quattro di non aver sparato ai prigionieri e che fu lo stesso generale ad uccidere il prigioniero, ma Bellomo era armato con la pistola mentre le ferite sul corpo dei due fuggitivi erano causate da proiettili di fucile.
In un suo libro Peter Tompkins - referente dell'OSS a Roma nel 1944 - sostenne, riprendendo le conclusioni di Ruggero Zangrandi, che il generale Bellomo fu vittima delle macchinazioni di Badoglio e dei monarchici che volevano eliminare un testimone pericoloso dei giorni della fuga del dopo 8 settembre 1943 (dichiarazione dell’Armistizio di Cassibile):
«Dopo una lunga e accurata ricerca sulle circostanze relative all'arresto di Bellomo, Zangrandi è stato in grado di documentare come la corte britannica fosse stata tratta in inganno da Badoglio e da agenti monarchici che, in tutta segretezza, fecero ricorso al falso per favorire la fucilazione di Bellomo. Essendo l'unico generale italiano che di propria iniziativa combatté i tedeschi e mantenne la città di Bari fino all'arrivo degli Alleati, rappresentava una minaccia per il re e per Badoglio, perché rivelava al mondo lo squallore del loro tradimento.» (Peter Tompkins)
Commentò invece Eugenio Di Rienzo citando Emilio Gin:
"La faziosità del dispositivo della corte militare britannica, contrario alla Convenzione di Ginevra e al più elementare criterio di giustizia, non sfuggì al corrispondente inglese Steve Ray. Il giornalista scriveva infatti al deputato laburista Igor Thomas di ritenere che «il verdetto è contro il peso delle prove, che le capacità di accusa e difesa non erano eque, che insufficiente rilevanza è stata data a chiare circostanze attenuanti e al comportamento di Bellomo tenuto subito dopo l'8 settembre».
Secondo la testimonianza di Ray, l'affare Bellomo sarebbe stato quindi un vero e proprio caso di «giustizia politica», con il quale l'Alto Comando inglese dava libero sfogo alla sua volontà punitiva nei confronti dell'ex avversario di guerra. Questa interpretazione largamente diffusa non convinse però Gin che si mostrò scettico anche nei confronti della tesi secondo la quale la decisione del tribunale sarebbe stata influenzata da una fitta trama di delazioni orchestrata dagli elementi baresi maggiormente compromessi con la dittatura fascista. Più verosimile apparve invece a Gin l'esistenza di una «pista rossa» che avrebbe condotto Bellomo dinnanzi al plotone d'esecuzione. L'inflessibilità del comandante della Piazza di Bari e la sua decisione nel far rispettare rigidamente l'ordine costituito accrebbe il numero dei suoi nemici ben oltre la cerchia dei conniventi con le forze germaniche e dei nostalgici del caduto regime. Il CLN pugliese non esitò infatti a definirlo senza mezzi termini «un nevrastenico» e «un ex fascista», accusandolo esplicitamente di essere uno dei maggiori ostacoli alla rinascita della vita democratica nella regione in linea con l'impostazione reazionaria del governo Badoglio.
Inoltre, in quel torbido settembre del 1943 un flusso continuo di denunce, per lo più anonime, relative a casi di favoreggiamento col nemico da parte dei comandi militari italiani, avvenute durante gli scontri successivi all'armistizio, venivano indirizzate alle autorità militari inglesi.
Gli stessi Carabinieri Reali non rimasero incolumi da quella che apparve ben presto come una vera e propria campagna di criminalizzazione volta a discreditare le forze regolari italiane e l'istituzione monarchica. Di quella campagna Bellomo finì per essere la principale vittima, ma con la condanna infamante che pose fine alla sua vita si volle far scomparire soprattutto la memoria della resistenza del ricostituito Esercito italiano che, tra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, arrivò a schierare circa mezzo milione di uomini, inquadrati in sei Gruppi di combattimento, fornendo un concorso sicuramente più decisivo alla sconfitta delle forze naziste di quello rappresentato dalle sparute formazioni partigiane".

I nomi dei componenti del gruppo incaricato dell’azione di Ponte Tragino (foto sopra) sono i seguenti:
Major T.A.G Pritchard DSO MBE, Captain Christopher Lea, Captain G. Daly, Lieut. Anthony Deane-Drummond, Second Lieut. G Paterson, Second Lieut. G Jowett, Flight Lieut. Lucky, Sgt. P.P."Clem" Clements, Sgt. Arthur L. Lawley, Sgt. E.W. Durie, Sgt. J. Walker, Cpl. Philip "Pop" Julian, Cpl. J.E. Grice, Cpl. P. O'Brien, Cpl. D. Fletcher, L/Cpl. R.B. Watson, L/Cpl. H. Boulter, L/Cpl. Doug E. Jones, L/Cpl. Harry "Lucky" Pexton, L/Cpl. H. Tomlin, L/Cpl. J.E. Maher, L/Cpl. D. Henderson, Tpr. J."Nicky" Nastri, Tpr. Alan Bruce Ross, Tpr. E. Samuels, Tpr. E. Humphreys, Tpr. F. Picchi, Tpr. James Parker MM, Tpr. D.L. Struthers, Tpr. G. Pryor, Tpr. D.J. Phillips, Tpr. J.W. Crawford, Tpr. R. Davidson,
 Tpr. A Parker,
così come indicati da
http://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Colossus

Il maggiore T.A.G. Pritchard sarà liberato alla fine della guerra dal lager tedesco di Barth in cui era prigioniero.
Il maggiore Pritchard è il secondo da sinistra, con altri ufficiali russi, inglesi, polacchi,
dopo la liberazione.
Le notizie sugli avvenimenti che riguardano l’Acquedotto Pugliese,
sono tratte dall’interessante ricerca storica e reportage degli storici:
Giovanni Marino e Pasquale Libutti
.........................................

In precedenza il Badoglio fu artefice di altri gravi crimini di guerra. Il 17 giugno 1926 fu promosso maresciallo d’Italia insieme a Enrico Caviglia, Emanuele Filiberto duca d’Aosta, Gaetano Giardino e Guglielmo Pecori Giraldi. Un grado che fu costituito appositamente per quegli ufficiali che si erano particolarmente distinti durante la guerra mondiale. In precedenza fu attribuito solamente a Diaz e a Cadorna. Il 1º febbraio 1927 lasciò l'incarico di capo di stato maggiore dell'Esercito al generale  Giuseppe Francesco Ferrai.
Il 18 novembre 1928 fu nominato governatore della Tripolitania e della Cirenaica. Tre giorni prima di partire per Tripoli ricevette una grande onorificenza come il “Collare dell’Ordine dell’Annunziata”, insieme ad altre tre marescialli d’Italia nominati nel 1926.
Come governatore della Tripolitania Italiana, il collega e suo vice Graziani era invece governatore della Cirenaica, il 20 giugno 1930 dispose
La deportazione forzata della popolazione del Gebel..
Una lettera del Badoglio al suo vice Rudolfo Graziani, datata 20 giugno 1930…
Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo proseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.
Ben 100.000 persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni, portando con sé soltanto il bestiame. La massa dei deportati fu rinchiusa in tredici campi di concentramento nella regione centrale della Libia, dopo una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto. Solo in sessantamila sopravvissero alla deportazione (1932-33).
L’11 settembre 1931 fu arrestato il capo dei ribelli Omar al-Mukntar.

Omar al-Mukntar.

Graziani e Amedeo d'Aosta entrano nell'oasi di Cufra.
Con l'occupazione dell'oasi si strinse ulteriormente il cerchio intorno ad al-Mukhtār

Omar al-Mukhtār in prigionia
Dopo la cattura del ribelle, il Badoglio ordinò al generale Graziani
Di uccidere il prigioniero.
Il telegramma nel merito…
fare regolare processo e conseguente sentenza, che sarà senza dubbio pena di morte, farla eseguire in uno dei grandi concentramenti popolazione indigena.
Badoglio dispose quindi di
far eseguire la sentenza nel più importante campo di concentramento per libici, in modo che fosse vista dal maggior numero di persone.

L’impiccagione avvenne nel campo di concentramento di Soluch.
Fu fatto un processo sommario che non tenne conto di vari aspetti…
1)     l’età del prigioniero (73 anni);
2)     era un prigioniero di guerra;
3)     non era un traditore visto che non aveva mai percepito denaro dal governo italiano.
Il film
"Il leone del deserto",
del regista siriano Mustafà Accad,  narra le vicende di Omar e per anni fu vietato per censura
ministeriale.


Il leone del deserto (1981)Film italiano completo-HD
عمرالمختارالنسخةالايطالية

https://www.youtube.com/watch?v=sb3O3knbFCk

Campo di concentramento italiano in Libia

Abbiamo avuto il bis, come prevedevo. Siciliani, ripeto, non mi sembra all’altezza della situazione… La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramento.
Il dispaccio di Emilio De Bono, ministro delle colonie del governo fascista e già quadrumviro della marcia su Roma, a Pietro Badoglio, governatore delle colonie libiche e già eroe della Grande Guerra, fu del 10 gennaio 1930 e si riferirebbe alla irriducibile, esasperante, straordinaria resistenza nella zona montuosa della Cirenaica da parte dei guerrieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr. Eppure De Bono, all’alba del terzo decennio del secolo, non aveva bisogno di spiegare a Badoglio cosa intendesse per campo di concentramento. La locuzione era, evidentemente, ben nota, la pratica corrispondente già in uso, entrambe ricorrevano nella storia della colonizzazione italiana in Africa e nei suoi documenti ufficiali già prima di questa data.
https://militantduquotidien.blog/2021/01/10/10-gennaio-1930-libia-campi-di-concentramento-e-iprite-novantanni-dopo/

Un tragico aspetto della repressione in Tripolitania e Cirenaica fu legato alla presenza dei tribunali militari speciali.
I processi venivano eseguiti all’aperto in pubblico per eliminare la tesi di esecuzioni sommarie.
Gli imputati vennero più volte condannati a morte e le relative sentenze subito eseguite.
Le accuse, per la maggior parte dei casi, erano sempre le stesse..
Aver dao aiuto ai ribelli
Il governatore Rudolfo Graziani scrisse in merito…
Non appena giunge la segnalazione di un arresto in flagranza di reato, il tribunale parte e la Giustizia scende dal cielo. E questo è diventato così normale che quando un aeroplano giunge nel luogo dove è stato commesso un reato si sente mormorare negli accampamenti la parola tribunale" (in Graziani Cirenaica pacificata pag. 139).
1930 – le deportazioni delle tribù che abitavano il gebel Cirenaico. Un territorio che era chiamato anche “Montagna Verde” per il suo clima temperato e ventilato ed anche per la ricchezza d’acqua legata alla presenza di numerose sorgenti. Chiusura delle “zavie” cioè dei centri polivalenti senussiti.
Perché queste deportazioni?
Era collegate alla ripopolazione dei gebel da parte di coloni italiani. L’esodo delle tribù fu enorme… biblico.. e durò ben 20 settimane. Furono deportate 100.000 persone e ne arrivarono 85.000 secondo la relazione del generale Luigi Cicconetti inviata al generale Graziani.
I numerosi capi di bestiame furono falcidiati dalla sete, dalla mancanza di foraggio e dall’aviazione che li mitragliò a volo radente lungo tutto il Gebel per evitare di lasciarli alle bande locali.
Vi furono vari episodi di crudeltà come quello dell’abbandono di 35 indigeni, tra cui donne e bambini, nel deserto privi di acqua a causa di una rissa scoppiata tra loro.
Altri morti in seguito a fustigazioni, per sete o per la fatica.



Per evitare la sopravvivenza delle bande furono avvelenate le "guelte", pozze d'acqua dove si abbeveravano gli animali, i pozzi d'acqua delle varie tribù, incendiati campi e raccolti (cfr Ottolenghi,op. cit pag 62 e seg).
La lettera del Badoglio, già riportata e datata 20 giugno 1930, indirizzata al generale Graziani   giustificò le deportazioni perché
occorre creare un distacco territoriale tra le formazioni ribelli e le popolazioni sottomesse onde impedire alle seconde di sostentare le prime…. urge far refluire in uno spazio ristretto lontano dalle loro terre originarie, tutta la popolazione sottomessa, in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto tra essa e i ribelli.
Il Graziani giustificò quindi le deportazioni.....
lasciare le popolazioni nei loro territori di origine e dare ampia libertà di azione alle truppe per scovare e annientare i ribelli ovunque si trovassero. Non mi sfuggivano le tragiche conseguenze cui avrebbe condotto questo metodo perché conoscendo a fondo l'ignoranza delle popolazioni beduine, e l'opera su di essa compiuta dalla propaganda senussita, ritenevo che esse sarebbero state indotte a persistere nell'errore e a continuare a rifornire le masse armate di viveri, uomini, armi, donde sarebbe derivato lo sterminio pressoché totale delle popolazioni beduine della Cirenaica ...
 
La seconda via era quella di mettere le popolazioni in grado di non aver contatto con i ribelli ossia supplire con un intervento coattivo del Governo alla loro ignoranza e deficiente responsabilità risparmiandole agli orrori della guerra ... sarebbe stato meglio far sopportare a questa i disagi e le ristrettezze del concentramento ... anziché esporle allo sterminio. Questo spirito umanitario divenne oggetto di campagna diffamatrice nei confronti dell'Italia accusata di vilipendio e di offesa alla religione perchè abbatteva i suoi templi, di atrocità e di ogni genere e perfino del getto dell'alto degli areoplani di gente musulmana! Nulla di più spudorato ... Oggi quelle popolazioni a rischio sterminio sono avviate a raggiungere quel livello di vita civile ed economica che ingentilirà i loro costumi nobiliterà i loro cuori e costituirà il primo fattore della loro felicità. Marsa el Brega, Agheila, Sidi hamed el Magrum oggi hanno l'aspetto di piccoli villaggi". 
(Graziani in Cirenaica pacificata pag. 304)
Il 31 luglio 1930 l'oasi di Taizerbo venne bombardata con bombe all'iprite.

L’oasi di Taizerbo


Cufra (Kufra), città santa per gli islamici perché sede della Senussia (confraternita sunnita), era considerata da Graziani centro di raccolta di tutti i ribelli libici.
Il 26 agosto 1930  Cufra fu bombardata e i ribelli inseguiti, verso il confine con l'Egitto. Graziani parlò di 100 uccisi, 14 passati per le armi e 250 prigionieri tra cui donne e bambini. 

Oasi di Cufra sul castello di el Tag il governatore (Maurizio?) Rava e
il generale Domenico Siciliani

Cufra (Kufra) – 1930

Il bilancio complessivo fu in realtà molto più alto.
In merito importante fu la testimonianza del pilota V. Biano (in Del Boca Gli italiani in Libia).
"Partiti all'alba ... gli apparecchi riconoscono sul terreno le piste dei ribelli in fuga e le seguono finché giungono sopra gli uomini; le bombe hanno scarso effetto perché il bersaglio è diluito ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia; mirano ad un uomo e lo fermano per sempre, puntano un gruppo di cammelli e lo abbattono... il gioco continua per tutta la giornata ... le carovaniere della speranza diventano un cimitero di morti.
Il 20 Gennaio 1931 Cufra fu occupata; seguirono tre giorni di saccheggi e violenze di ogni tipo fatti dai soldati italiani col tacito assenso dei superiori….
17 capi senussiti impiccati
35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati
50 donne stuprate
50 fucilazioni
40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole.
Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e nel retto) teste e testicoli mozzati e portati in giro come trofei; torture anche su bambini (3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi)
(Ottolenghi op. cit.pag 60 e seg.)
Eccidi che naturalmente destarono tanto clamore nel mondo musulmano.
La “Nation Arabe” riportò un giusto commento..
Noi chiediamo ai signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?
Al Jamia el Arabia", giornale di Gerusalemme, pubblicò il 28 aprile 1931un manifesto dove si ricordavano
"alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, nè dei vecchi ....
Il manifesto del quotidiano Al Jamia el Arabia

Il generale Graziani riportò il testo in “Cirenaica pacificata” e definì l’articolo del giornale arabo come
infarcito di menzogne tali che non so se muovano più il riso o lo sdegno".
Nel 1933 Italo Balbo sostituì Badoglio restando in carica sino al 1940.
Nel 1934 Badoglio proclamò che
la ribellione araba in Cirenaica è stroncata.
Lo stesso Graziani parlò di 1641 mugiahidin caduti tra il marzo 1930 e il dicembre del 1931.
Tra il 1923 e il 1931 l'aviazione italiana impiegò fosgene e iprite.

Relazione Mombelli (1):
Caproni esplorò regione Uadi el Faregh...avvistò e bombardò grosso attendamento circa 150 tende coniche e rettangolari. Bombardò regione Saunno con esito visibilmente efficace settantina tende e numeroso bestiame al pascolo. Bombardò ripetutamente accampamento due chilometri est Garbagniha ... nonché  ...
…….. nuclei armati intenti lavori semina.".
(2)A prova della terribile efficacia dei bombardamenti sta il fatto che basta ormai l'apparizione dei nostri apparecchi perché grossi aggregati spariscano allontanandosi sempre più.
(3)Relazione De Bono al ministro delle colonie:
263 Op.UG/Segreto:
Stamane come stabilito quattro Ca 73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I quattro Ca 73 si sono spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando
 anche a gas circa quattrocento tende....".
(4)Relazione Teruzzi:
Gebel. Ieri undici, aviazione Mechili bombardato efficacemente noto accampamento con bestiame pascolante .... Risulta da fonte attendibile che recenti bombardamenti eseguiti da aviazione abbiano causato ai ribelli quarantina persone uccise altrettanti feriti e sessantina cammelli abbattuti....
(5)Relazione Teruzzi:
Sembra che nello Zeefran i ribelli abbiano abbandonato quaranta tende .... in seguito ripetuti bombardamenti a gas.
(6)Telegramma Badoglio a Domenico Siciliani e Emilio De Bono:
Si ricordi che per Omar el Muchtar occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite.....
(7)Graziani in Cirenaica pacificata a proposito del bombardamento dell'oasi di Taizerbo scrive …
Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo ... Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili,
e più grande ancora il panico.

Una deliberata politica di sterminio delle popolazioni locali con l’obiettivo di liberare il territorio libico per essere sfruttato dai coloni italiani.
Bel concetto di apporto di sviluppo…
Un tema che fu dibattuto da vari studiosi tra cui il libico-americano Ali Abdullatif Ahmida nel suo libro
Genocidio in Libia: Shar, una storia coloniale nascosta.


Un libro dalla realtà inquietante perché riportò le testimonianze di chi sopravvisse al fascismo.
Testimonianza di vicende personali e delle atrocità della conquista coloniale e delle violenze inflitte ai nativi. 
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La storia della conquista italiana del paese nordafricano fu lunga e molto difficile.
La prima fase fu la sconfitta dell’impero Ottomano e l’invasione di Tripoli.
Fu il Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia Giovanni Giolitti ( durata del mandato: 15 maggio 1892 – 15 dicembre 1893) ad iniziare la conquista delle regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica che, tra l’altro, erano controllate dall’Impero Ottomano.


Fonte: Il tricolore italiano in Tripolitania e Cirenaica. Diario illustrato della guerra italo-turca,
Stabilimento d’arti grafiche L. Teodoro & Frige, Milano, 25 novembre 1911.

Il quadro dell’Africa settentrionale ai primi del Novecento era drammatico perché sotto il controllo delle potenze europee ed in particolare della Francia e della Gran Bretagna.
La Gran Bretagna controllava solo l’Egitto mentre la Francia controllava  l’Algeria (sottratta alla dominazione ottomana), la Tunisia (nonostante le ambizione dell’Italia) e stava colonizzando con successo il Marocco (a scapito della Germania).
La Turchia controllava, come abbiamo visto, la Tripolitania e la Cirenaica (ambite dall’Italia) e il Fezzaz.
La Tripolitania aveva un suo valore strategico perché costituiva un ponte di collegamento tra la parte occidentale e quella orientale del Nord Africa, mentre le sue coste avevano una loro importanza per il controllo del Mediterraneo (il canale di Suez che collegava l’Europa con l’Estremo Oriente).
Le province turche del Nord Africa erano ambite dagli italiani anche per altri motivi.
Motivi commerciali per gli industriali che intravedevano la possibilità di sviluppare le loro produzioni; motivi agricoli per i poveri contadini del meridione d’Italia che avrebbero avuto la possibilità di ottenere della terra libera da coltivare. Terra che mancava in Italia e i coloni vedevano nelle terre libiche il sogno di poter lavorare per ottenere dei prodotti con relativi redditi.  Nei sogni dei contadini italiani si aveva la visione di una terra libica fertile e redditizia.
Una visione legata anche alle descrizioni di giornalisti e scrittori del tempo come Luigi Federzoni, Enrico Corradini e Giuseppe Bevione.
Racconti incredibili…….



I narratori  riportarono la flora dell’oasi di Tripoli, con  i suoi 2 milioni di palme, ed estesero questa visione lussureggiante a tutto il territorio libico che in realtà era in gran parte anche desertico e inospitale. Una comunicazione non corretta a cui molti credettero per ignoranza o forse per altri interessi.
I sostenitori dell’azione bellica in Libia e la relativa colonizzazione erano i nazionalisti le cui idee erano appoggiate dalla stampa.
Ma, se l’Associazione Nazionalista Italiana invocava la guerra, ovunque e comunque, ritenendola la giusta cura per i mali dell’Italia, anche gli assai meno bellicosi liberali – che, alla fine del secolo precedente, avevano disapprovato il tentativo fallito di conquistare l’Etiopia, esitato nella sanguinosa sconfitta delle forze italiane ad Adua – erano a favorevoli all’impresa libica. 
A favore dell’impresa bellica era anche la Chiesa e naturalmente i giolittiani. Decisiva fu comunque la posizione del presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Giolitti che la critica storica riportò come un
Politico accorto, freddo, prudente, attento alla politica interna e meno a quella estera,
specie se madre di avventure rischiose.
La realtà storica dimostrò il contrario specie nell’azione militare in Libia e con la decisione dei massacri, degli stermini sui nativi libici.


Il 26 settembre 1911 l'Italia inviò la seguente nota alle Potenze:

"L'azione alla quale il Governo italiano si è deciso riguardo a Tripoli è da considerarsi conte l'ultimo anello di una catena di avvenimenti che hanno spinto il Governo Italiano di fronte all'imprescindibile necessità di un'azione decisiva. Il continuo espandersi del dominio di altre Potenze nel Mediterraneo ha già da qualche tempo sollevato a Roma la preoccupazione che l'Italia, nonostante la sua posizione geografica, che fa di essa una potenza mediterranea per eccellenza, potesse a poco a poco essere esclusa completamente dalla sfera africana di questo mare.
Già al primo sorgere di codesta prospettiva l'Italia dovette rivolgere la propria attenzione a Tripoli, l'unico territorio che avrebbe potuto escludere la possibilità di un danno irreparabile per gli interessi italiani. Il Governo italiano, nonostante l'urgenza impellente della questione, ad un'azione rapida e decisiva per raggiungere lo scopo, ha preferito un lavoro moderato e progressivo. La piega assunta dalla questione marocchina in seguito alle trattative franco-germaniche che hanno dato per risultato l'assoluto dominio della Francia nel Marocco, ora assolutamente non permette più all'Italia di attendere oltre. Le possibilità che un'altra Potenza, con l'andare del tempo, possa desiderare di ampliare ancora di più la sua sfera di dominio nel Mediterraneo, favorita forse da una diversa costellazione politica, fa si che l'Italia si trovi obbligata, per ragioni di conservazione, ad affrettare il passo ed a rafforzare i mezzi per far valere le sue aspirazioni per ciò che riguarda una posizione privilegiata a Tripoli. Il desiderio dell'Italia di ottenere da parte della Turchia il riconoscimento dei suoi grandi interessi in Tripolitania, interessi che sono dati dalla sua posizione geografica, ha trovato disgraziatamente a Costantinopoli il più tenace rifiuto. Invece di mostrare accondiscendenza amichevole la Turchia ha rifiutato di trattare gli interessi italiani alla stregua di quelli delle altre Potenze. Davanti a tale palese ingiustizia e di fronte alla situazione creata dall'insediamento definitivo della Francia nel Marocco, la convinzione di tutta Italia è che il Governo commetterebbe una colpa gravissima, ed irreparabile verso gli interessi politici ed economici del paese, se non agisse in modo da risolvere la questione di Tripoli in una maniera consona ai vitali interessi dell'Italia nel Mediterraneo. Alla Turchia rimane aperta la via per un accomodamento pacifico, ed a Roma non si può credere fino a prova contraria che il Governo turco rifiuterà di discutere, respingendo a priori le proposte dell'Italia per un'amichevole discussione delle divergenze".
Nella notte del 26 – 27 settembre 1911 il Ministro degli Esteri marchese Antonino di San Giuliano spedì per telegrafo un ultimatum a Costantinopoli che, per ritardo di trasmissione, fu dal comm. Giacomo De Martino (plenipotenziario, reggente la Regia Ambasciata Italiana a Costantinopoli) consegnato al Governo turco il giorno 28 alle 14,30.  (Telegramma di cui diede comunicazione  anche all’incaricato d’affari ottomano a Roma).

Convegno di San Rossore (Pisa) del 22 ottobre 1912 per il rinnovo della Triplice alleanza. Da sinistra: l'ambasciatore italiano in Austria-Ungheria Giuseppe Avarna, l'ambasciatore austriaco in Italia Kajetan Mérey, il conte Alexander Hoyos, il principe Pietro Lanza di Scalea, la contessa Berchtold, il ministro degli Esteri italiano marchese Antonino di San Giuliano, il marchese Giovanni Visconti Venosta, il ministro degli Esteri austriaco conte Leopold Berchtold e Giacomo De Martino.

L’ultimatum fu concepito nei seguenti termini….
«Prego V. S. di presentare alla Sublime Porta la Nota seguente :
Durante una lunga serie d'anni, il Governo italiano non ha mai cessato di far constatare alla Sublime Porta la necessità assoluta che prenda fine lo stato di disordine e d'abbandono in cui la Tripolitania e la Cirenaica sono lasciate dalla Turchia, e che queste regioni siano ammesse a godere dei medesimi progressi compiuti in altre parti dell'Africa settentrionale.
Questa trasformazione imposta dalle esigenze generali della civiltà costituisce per l'Italia un interesse vitale di primissimo ordine a cagione della vicinanza di quelle regioni alle coste italiane.
Malgrado la condotta del Governo italiano, che ha sempre lealmente accordato il suo appoggio al Governo Imperiale ottomano in diverse questioni politiche anche in questi ultimi tempi; malgrado la moderazione e la pazienza di cui il Governo italiano ha dato prova finora, non solamente le sue intenzioni relative alla Tripolitania sono state disconosciute dal Governo Imperiale, ma ciò che è peggio, ogni iniziativa da parte degli italiani in quelle regioni ha sempre incontrato la più ostinata ed ingiustificata opposizione sistematica.
Il Governo Imperiale, che aveva così dimostrato finora la sua costante ostilità contro ogni legittima attività italiana in Tripolitania e Cirenaica, ha recentemente, con un passo dell'ultima ora, proposto al Regio Governo di addivenire ad un'intesa dichiarandosi disposto ad accordare qualunque concessione economica compatibile coi trattati in vigore e colla dignità e cogli interessi superiori della Turchia. Ma il Governo italiano non si crede oramai più in grado di entrare in simili trattative, di cui l'esperienza del passato ha dimostrato l'inutilità e che invece di costituire una garanzia per l'avvenire non potrebbero che determinare una causa permanente di attriti e di conflitti.
D'altra parte, le informazioni che il Governo Reale riceve dai suoi agenti consolari in Tripolitania e Cirenaica rappresentano la situazione colà come estremamente pericolosa, a causa dell'agitazione che vi regna contro gli italiani, e che è provocata nel modo più evidente da ufficiali e da altri organi dell'autorità. Questa agitazione costituisce un pericolo imminente, non solamente per gli italiani, ma anche per gli stranieri di ogni nazionalità, che, giustamente commossi e preoccupati per la loro sicurezza, hanno cominciato ad imbarcarsi, lasciando senza indugio la Tripolitania.
L'arrivo a Tripoli di trasporti militari ottomani, del cui invio il Governo Reale non aveva mancato di fare osservare anticipatamente al Governo ottomano le serie conseguenze, non potrà che aggravare la situazione e impone al Governo Reale l'obbligo stretto e assoluto di provvedere ai pericoli che ne risultano.
II Governo italiano, vedendosi in tal modo oramai forzato a pensare alla tutela della sua dignità e dei suoi interessi, ha deciso di procedere all'occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica. Questa soluzione è la sola che l'Italia possa adottare; e il Governo italiano si aspetta che il Governo Imperiale voglia dare gli ordini occorrenti affinchè essa non incontri da parte degli attuali rappresentanti ottomani alcuna opposizione, e i provvedimenti che necessariamente ne deriveranno, possano effettuarsi senza difficoltà. Accordi ulteriori saranno presi fra i due Governi per regolare la situazione definitiva che ne risulterà.
La R. Ambasciata a Costantinopoli ha ordine di domandare una risposta perentoria in proposito da parte del Governo ottomano entro un termine di 24 ore dalla presentazione alla Sublime Porta del presente documento. In mancanza di che il Governo italiano sarà nella necessità di procedere alla attuazione immediata dei provvedimenti destinati ad assicurare l'occupazione.
La S. V. vorrà aggiungere che la risposta della Sublime Porta, entro il predetto termine di 24 ore, ci deve essere comunicata anche per il tramite dell'Ambasciata di Turchia a Roma.
Firmato: Di San Giuliano»
Il 28, alle 14,30 il reggente dell'Ambasciata italiana a Costantinopoli (De Martino), accompagnato dal primo dragomanno, rimise a S. A. il Gran Visir (Ibrahim Hakki Pascià) la nota che comunicava l'ultimatum dell'Italia alla Sublime Porta.

Ibrahim Hakki Pascià

Allo scadere del termine, giungeva al Governo italiano la risposta della Sublime Porta che era del seguente tenore:
"L'ambasciata conosce le molteplici difficoltà delle circostanze che non hanno permesso alla Tripolitania ed alla Cirenaica di godere nella misura desiderata dei benefici del progresso. Basta invero un'esposizione delle cose per stabilire che il Governo costituzionale ottomano non potrebbe essere chiamato responsabile di una situazione che è opera dell'antico regime. Ciò posto, la Sublime Porta, ricapitolando il corso dei tre ultimi anni cerca invano le circostanze nelle quali ossa si sarebbe dimostrata ostile alle imprese italiane interessanti la Tripolitania e la Cirenaica. Al contrario le è sempre parso comprensibile e razionale che l'Italia cooperasse con i suoi capitali e con la sua attività industriale al risorgimento economico di questa parte dell'impero. Il Governo imperiale ha coscienza di aver dimostrato disposizione d'accoglimento ogni volta che si è trovato di fronte a proposte concepite in quest'ordine d'idee. Esso ha pure esaminato e generalmente risolto con lo spirito più amichevole ogni reclamo presentato dalla regia ambasciata. à necessario aggiungere che esso obbediva cosi alla sua volontà tanto spesso manifestata di coltivare e mantenere rapporti di fiducia e di amicizia con il Governo italiano? Infine, questo solo sentimento l'ispirava quando proponeva recentissimamente alla regia ambasciata un accomodamento basato su concessioni economiche allo scopo di fornire all'attività italiana un vasto campo nelle suddette province. Seguendo come soli limiti per le sue concessioni la dignità e gl'interessi superiori dell'impero, come pure i trattati in vigore, il Governo ottomano dava la misura dei suoi sentimenti di conciliazione senza però perdere di vista i trattati e le convenzioni che lo impegnano di fronte alle altre Potenze ed il cui valore internazionale non potrebbe decadere per volontà di una parte. Per ciò che concerne l'ordine e la sicurezza tanto nella Tripolitania quanto nella Cirenaica, il Governo ottomano ben situato per apprezzare la situazione, non può che costatare, come già ha avuto occasione di farlo, la mancanza totale di ogni ragione che possa giustificare apprensioni per la sorte dei sudditi italiani e per gli altri stranieri colà stabiliti. Non soltanto non vi sono in questo momento agitazioni in quella regione, ancor meno propaganda eccitatrice, ma gli ufficiali e gli altri organi dell'autorità ottomana hanno per missione di assicurare la tutela dell'ordine, missione che essi compiono con tutta coscienza. Quanto all'arrivo a Tripoli del trasporto militare ottomano, da cui la regia ambasciata prende motivo per trarne conseguenze gravi, la Sublime Porta crede dover far notare che non si tratta effettivamente che di un piccolo trasporto la cui spedizione è anteriore di parecchi giorni alla nota del 23 settembre. E indipendentemente dal fatto che questa spedizione che non comprendeva del resto le truppe, non ha potuto avere sugli animi che un'influenza rassicurante. Ridotto ai suoi termini essenziali, il disaccordo attuale risiede nella mancanza di garanzie atte a rassicurare il Governo italiano circa l'espansione economica dei suoi interessi in Tripolitania e Cirenaica. Il Governo reale non procedendo ad un atto così grave come ad un'occupazione militare. si unirà alla volontà che ha la Sublime Porta di appianare questo disaccordo. Pertanto il Governo imperiale chiede che il Governo reale gli voglia far conoscere la misura di tali garanzie, alle quali esso sottoscriverà volentieri, purché non tocchino la sua integrità territoriale. Esso prende a tale effetto impegno di non modificare affatto in qualsiasi caso durante i negoziati la situazione presente della Tripolitania e della Cirenaica, specialmente dal punto di vista militare, e vuole sperare che il Governo reale, arrendendosi alle sincere disposizioni della Sublime Porta. aderirà a questa proposta".

Quel giorno stesso il De Martino presentò al Gran Visir la seguente dichiarazione:
"In obbedienza agli ordini di Sua Maestà il Re, suo Augusto sovrano, il sottoscritto incaricato d'affari d'Italia ha ordine di significare a Vostra Altezza quanto segue: Il termine che il Governo reale aveva ultimamente accordato al Governo imperiale, in vista dell'attuazione delle misure diventate necessarie, è trascorso senza che gli pervenisse una risposta soddisfacente. La mancanza di tale risposta non fa che confermare il malvolere o l'impotenza di cui il Governo e le Autorità imperiali hanno già fornito in numerose prove specialmente per ciò che concerne la tutela degli interessi o dei diritti italiani in Tripolitania e in Cirenaica. Il governo italiano si vede per conseguenza obbligato a provvedere direttamente alla salvaguardia di quei diritti ed interessi come della dignità e dell'onore del Paese con tutti i mezzi di cui dispone. Gli avvenimenti che seguiranno non potrebbero essere considerati altrimenti che come la conseguenza necessaria, per quanto penosa, del contegno adottato da lungo tempo dalle autorità dell'impero di fronte all'Italia. Essendo quindi interrotte le relazioni d'amicizia e di pace fra i due Stati, l'Italia si considera da questo momento in stato di guerra con la Turchia. Il sottoscritto, d'ordine del suo Governo, ha per conseguenza l'onore di far conoscere a Vostra Altezza che i passaporti saranno messi oggi stesso a disposizione dell'incaricato d'affari dell'impero ottomano a Roma e prega Vostra Altezza di voler fargli pervenire senza ritardo i propri passaporti. Il Governo reale ha incaricato il sottoscritto di dichiarare nello stesso tempo a Vostra Altezza che i sudditi ottomani potranno continuare a risiedere sul territorio del regno senza che vi sia a temere alcuna offesa alla loro sicurezza personale, alle loro proprietà ed ai loro affari". Contemporaneamente il Governo italiano lo stesso giorno dava comunicazione alle Potenze dell'annuncio della dichiarazione di guerra alla Turchia accompagnandola con una lunga relazione sugli incidenti che l'avevano determinata: "Il conflitto - cosi la nota che riportiamo integralmente- che sembra scoppiato improvvisamente fra l'Italia e la Turchia non è che l'epilogo di una lunga serie di vessazioni e di soprusi, ancor più reali che apparenti, fatti all'Italia e agli italiani dai Turchi dell'impero ottomano. Da qualche tempo innumerevoli erano le lagnanze dei nostri connazionali in ogni parte dell'impero al Governo del Re, che reclamavano sollecita opera di giustizia, per lunghe angherie, per la negata giustizia, per vera e propria sopraffazione che essi subivano e la cui soluzione era eternamente dilazionata. In questa categoria di reclami eternamente insoluti che dimostrano il conto che delle premure del regio Governo faceva la Sublime Porta, basta ricordare il reclamo Giustiniani e l'intervento arbitrario dall'autorità ottomana nel corso della giustizia locale. quello di Napoleone Guarnani. di Kuhn e di Cuttoni, di Marcopoli, degli eredi Sola, rispettivamente creditori verso lo Stato o verso personaggi della famiglia imperiale. La ditta Stagni, dalle ostilità dell'autorità locale ottomana, fu costretta ad abbandonare la concessione del taglio del legname nella provincia di Brussa. E cosi rimasero sempre insoluti tutti i danni d'ordine pubblico subiti dai sudditi italiani nelle varie province dell'impero, come quelli dipendenti dai massacri di Adana nel 1909 e dal saccheggio dell'Agenzia della Società di Navigazione Generale Italiana a Santi Quaranta. E numerosi altri reclami e infinite altre controversie di maggiore o minore gravità esistono - come ad esempio quelle per sfregi e aggressioni compiute contro il personale appartenente ai consolati italiani - tali da dimostrare come da qualche tempo i nazionali fossero circondati da un'atmosfera ostile, non rispondente alle nuove relazioni ufficiali esistenti fra i due Stati.
"Col nuovo regime, che tante speranze destò in Italia, gl'incidenti dolorosi si moltiplicarono e si aggravarono. Un fatto gravissimo avvenne recentemente: il ratto della giovanetta minorenne Giulia Franzoni, d'anni sedici, rapita fraudolentemente alla propria famiglia di onesti operai adibiti ai lavori delle ferrovie ottomane a Adana, sequestrata e convertita a viva forza all'islamismo e maritata con la violenza a un cittadino musulmano, nonostante le proteste dei genitori e degli stranieri di altre nazioni e nonostante l'intervento del regio consolato e della regia ambasciata. Questo incidente. che ha per ogni nazione importanza grave, ne ha più ancora per l'Italia che deve provvedere alla tutela di una numerosa emigrazione italiana, la quale trova lavoro nelle opere ferroviarie dell'Asia Minore. Ora il fatto di non aver trovato una rapida soluzione punitiva per questo barbaro sistema di forzata conversione e di ratto di un'ingenua fanciulla. può essere incentivo ad altri fatti consimili, che siano diretti a colpire tutta la popolazione operaia. che è in gran parte italiana. costretta a vivere con la propria famiglia in tali regioni.
" Ma gli atti più perseveranti d'avversione, di ostilità delle autorità ottomane, furono compiuti in quella parte dell'impero dove maggiori sono gl'interessi degli Italiani, cioè nel Mar Rosso e in Tripolitania. Dai rapporti dei nostri consoli, dalle relazioni di coloro che tornavano da quelle regioni, dai continui incidenti sollevati per colpa dei funzionari turchi, è dimostrato chiaramente conte se si volesse creare un ambiente di ostilità agli interessi italiani, quasi diffidandone lo sviluppo sempre crescente. Il contegno dell'autorità ottomana nel Mar Rosso e sulla costa araba prospiciente la colonia Eritrea, è stato sempre violento e continuamente provocante. Troppo lunga sarebbe la serie degli incidenti con i quali fu fatta offesa alla bandiera italiana. Citiamone soltanto alcuni, avvenuti sotto il nuovo regime. Il 5 giugno 1909 la cannoniera Nurahad. a 40 chilometri dalla costa turca, si impossessò con atti di violenza della somma di 2340 talleri a bordo del sambuco italiano Selima, vero atto di pirateria senza nessuna attenuante. Recentemente ha avuto una certa notorietà l'incidente del Genova, sequestrato da una cannoniera turca a Hodeida e sottoposto a iniquo procedimento e a tentativi di appropriazione a mano armata.
" Animato da spirito di conciliazione, il Governo italiano accettò di fare un'inchiesta in proposito per comporre l'incidente, inchiesta i cui risultati farebbero onta a qualsiasi Governo civile per quanto riguarda la condotta dei funzionari locali. Ma non basta! Mentre erano in corso le trattative per l'incidente del "Genova, il comandante di una cannoniera turca penetrava a mano armata a bordo del sambuco "Selima il 5 dicembre del 1910, e costringeva il nacuda a consegnare la corrispondenza dei negozianti di Massaua. Prepotenze di altra natura e di non minore gravità furono commesse a danno dei sambuchi eritrei appartenenti a Ali Kozem e a Kalid Kamed. Mentre le autorità turche perpetravano altre molestie di minore gravità verso altri sambuchi, esse, sempre felici di cogliere qualsiasi circostanza per danneggiare il commercio eritreo, si sfogavano il 31 agosto 1911, sperando l'impunità, sulla merce eritrea caricata a bordo del sambuco ottomano Path Es-Salam, ne bastonavano il nacuda, lo buttavano a mare e lasciavano il veliero in avaria, dopo aver preso a bordo tutta la merce, compresi i viveri dell'equipaggio. I sambuchi dei negozianti eritrei, terrorizzati dalle continue minacce loro sovrastanti per parte delle autorità turche sulla costa araba, hanno perciò, in gran parte, rinunciato a trafficarvi, con gravissime danno del commercio della nostra colonia. "In Tripolitania l'ostilità sistematica delle autorità ottomane, ora aperta e violenta, ora subdola e maligna, assume proporzioni ancor maggiori. Uno solo é il proposito loro; muovere guerra agli interessi economici e commerciali dell'Italia, impedire in tutti i modi lo sviluppo dell'influenza italiana. Citiamo pochi esempi, prescegliendoli dalla lunga serie che potremmo riferire anche a persuasione del più indulgente lettore. Il banco di Roma inizia in Tripolitania con capitale italiano una vera e benefica opera di progresso economico e di incivilimento del paese. Le autorità vietano agli indigeni di avere relazioni con quell'istituto e li puniscono per reati immaginari se vi ricorrono; si impedisce al banco di ottenere il riconoscimento giuridico dinanzi ai tribunali locali e quando dopo due anni di laboriose trattative il riconoscimento non si può negare, le angherie ricominciano sotto altra forma. I "vali" si susseguono rapidamente nel governo del "vilayet", ma la politica è sempre la medesima; finché nel 1910 il nuovo vali IBRAHIM pascià dichiara apertamente al Consiglio d'amministrazione che egli farà opposizione sistematica e irresistibile ad ogni iniziativa italiana, lasciando comprendere chiaramente che tali erano le istruzioni del proprio Governo. E cosi tutte le proposte, tutte le domande di concessioni e imprese fatte da italiani, quali d'acqua, impianti radiotelegrafici, lavori stradali ecc., sono sempre respinti. Contro i trattati s'impediscono ai regi sudditi sia l'acquisto di terreni, sia le volture catastali; a Homs, a Bengasi, gl'indigeni che vogliono vendere sono minacciati, e la vendetta si esplica con pretesti estranei alla vera causa. Contro gl'impegni assunti, si oppone l'ostruzionismo alla missione archeologica e mineralogica italiana.
"Tutti gli ostacoli e le difficoltà si accumulano contro gli impianti italiani - molini, oleifici - e contro la nostra navigazione. Gli indigeni, terrorizzati, non osano valersi di tali benefiche istituzioni e impianti per timore di proditorie vendette. In mezzo a questi impedimenti e difficoltà accadono gravissimi fatti delittuosi. quali l'assassinio di padre GIUSTINO e DERNA e l'altro di GASTONE TIRRENI, avvenuto a breve distanza fra Tripoli e Hons, assassinio che si volle coprire con l'apparenza di un suicidio, smentito dai testimoni e dalle posteriori rivelazioni; barbaro delitto per il quale non si poté mai ottenere una qualsiasi soddisfazione, neppure una seria istruttoria né criminale né civile, invocata dai parenti dell'ucciso e insistentemente richiesta dalle autorità diplomatiche e consolari. Una dichiarazione "di non luogo a procedere e d'estinzione dell'azione penale per intervenuta amnistia" fu tutto quanto si degnarono di concederci le autorità del luogo. Tali due luttuosi fatti notoriamente cagionati dall'odio dei Turchi contro gli Italiani, gettarono la costernazione e lo scoraggiamento nella colonia italiana, che divenne forzatamente timida davanti a qualsiasi utile iniziativa. Ogni intervento delle regie autorità consolari nel vilayet è contrastato apertamente o di nascosto dalle autorità ottomane, come lo dimostra l'incidente del giornalista ARBIB, bastonato dalla polizia, contro la quale l'intervento del regio drogomanno Samaz non ebbe altro effetto se non quello di provocare una nuova e più flagrante violazione delle capitolazioni. Tutta questa ininterrotta serie di soprusi, violenze, intimidazioni e sopraffazioni è apertamente incoraggiata e sostenuta dal giornale "Marasd, organo ufficiale del vali del vilayet, stampato nella sua tipografia e ispirato dallo stesso vali, giornale largamente diffuso tra gli arabi e che non risparmia in nessuna occasione oltraggi o insulti verso l'Italia. Da tutto quanto procede, chiaramente emerge che il Governo italiano si è trovato di fronte a un sistema o programma di avversione preconcetta contro i sudditi e contro le iniziative italiane in genere, in Tripolitania in modo speciale. La calda e quasi universale simpatia con la quale l'Italia aveva salutato l'avvento al potere della giovane Turchia, il proposito di dar tempo al nuovo regime di consolidarsi, di non creare difficoltà o imbarazzi all'impero ottomano o all'Europa, consigliarono al Governo d'Italia una pazienza e condiscendenza che non aveva avuto esempio nella storia dei popoli. Si sperava sempre nel consolidamento del nuovo Governo, nell'accoglimento dei buoni consigli, nella condiscendenza, nel ricambio di una buona amicizia che da parte nostra si era spinta fino al sacrificio dei propri interessi. Ma tutto fu vano. Ogni giorno la situazione peggiorava. Di fronte al nostro cosi paziente, si ergeva a Costantinopoli alternativamente o un Governo che dava melliflue parole é promesse alle quali mancava poi ogni corrispondenza nei fatti, ovvero un Governo senza autorità che non era capace d'imporre l'obbedienza alle dipendenti autorità locali, un Governo cui mancava la forza di far rispettare ed osservare i trattati, le capitolazioni, gl'impegni contratti, un Governo insomma che ha mancato nei riguardi dell'Italia ai propri doveri internazionali.
La misura era ormai colma. Gli attacchi violenti ed oltre ogni limite ingiuriosi della stampa ottomana, l'ostruzionismo sistematico e la malafede delle autorità in sott'ordine, la straordinaria serie di incidenti e reclami d'ogni genere ogni giorno in aumento, hanno finito per scuotere e stancare l'opinione pubblica, la stampa, il parlamento il Governo d'Italia. Ormai l'Italia non ha più alcuna fiducia di risolvere amichevolmente le proprie questioni con la Turchia; e disillusa di tante buone parole e promesse mendaci, datele in questi ultimi anni, perduta la pazienza, e decisa ad uscire da una tolleranza che potrebbe essere rimproverata quale debolezza e riconoscimento d'inferiorità, ha stabilito di ottenere con la più grande energia il rispetto dei propri diritti e la tutela dei propri interessi. La colpa ricade su coloro che da tre anni sono venuti ogni giorno provocandoci e creandoci con dei piccoli e grandi incidenti un ambiente di ostilità nelle varie province dell'impero, e specialmente in Tripolitania, si da rendere malsicura l'incolumità dei sudditi italiani e pericoloso il pacifico svolgimento del commercio eritreo nel Mar Rosso".

L'azione della diplomazia era terminata e la parola era già ai cannoni.
Il 29 settembre 1911 il Re (Vittorio Emanuele III  di Savoia) in base  all'art. 5 dello Statuto Albertino, dichiarò guerra alla Turchia.
Art. 5 – Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare: dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.

 Una dichiarazione di guerra senza l’approvazione né ratifica da parte del Parlamento, il quale, in vacanza da fine luglio. riaprirà solo il 22 febbraio 1912.
Nel frattempo in Italia, fin dal giorno dell'ultimatum (del 26 set.) la direzione del partito socialista congiunta a quella della CGdL ( Confederazione Generale del Lavoro) proclamò uno sciopero generale contro la guerra, che ottenne però solo un parziale successo anche a causa di lacerazioni interne al PSI e alla CGdL.
Più violente furono invece le agitazioni in Romagna guidate da due giovani, il rivoluzionario Benito Mussolini, e il repubblicano Pietro Nenni. Altre difficoltà interne sorsero pochi giorni dopo (il 15-18 ottobre a Modena) al XII congresso socialista. Spaccatura irreversibile dentro i riformisti di sinistra con Filippo Turati e Giuseppe Emanuele Modigliani  che passarono all'opposizione per protestare contro la guerra. Invece la corrente di Leonida Bissolati ( Leonida Bergamaschi), in contrasto con le direttive del partito, continuerà a sostenere le scelte di Giolitti.
La corrente rivoluzionarie fu invece intransigente e ottenne la sua vittoria morale, ottenendo la maggioranza relativa dei voti. Ma nessuna delle mozioni ottenne la maggioranza assoluta. e quindi rimase in carica la direzione riformista.


Dopo la dichiarazione di guerra, la Turchia inviò, in data  30 settembre, alle Potenze la seguente nota:
"Malgrado il termine di ventiquattro ore, termine estremamente breve. che ci è stato fissato dall'Italia nel suo ultimatum, ci siamo affrettati a rispondere assai prima dello scadere del termine, affinché il governo italiano non avesse bisogno di procedere ad un'occupazione militare per ottenere da noi in Tripolitania e in Cirenaica garanzie di espansione economica. Ci dichiarammo pronti a tali garanzie in quanto non toccassero la nostra integrità territoriale. Ed a tale scopo prendemmo l'impegno di non modificare durante le trattative la nostra situazione militare in dette province. Senza neppure rispondere a queste offerte concilianti, il Governo italiano, nello stesso tempo e prima dello spirare del termine invia la sua flotta a far attaccare una nostra torpediniera nelle acque del Mare Adriatico, e poi ci invia una dichiarazione di guerra in regola. Penosamente sorpresi da questa ostilità inattesa che non è affatto giustificata dalla nostra attitudine verso l'Italia, noi vogliamo credere che • date le intenzioni concilianti, dalle quali siamo animati- vi sia ancora il tempo di arrestare gli effetti nefasti di una guerra che non ha cause reali. E' perciò che ci rivolgiamo ai sentimenti pacifici ed umanitari, come all'amicizia del vostro Governo, perché intervenga presso l'Italia e la persuada del nostro sincero desiderio di negoziare con essa per prevenire un'inutile effusione di sangue". 
Fu tutto inutile. La guerra era stata ormai "voluta" e anche iniziata! La Flotta era già sul posto e all'opera, il Corpo di spedizione già in partenza. 

Forse il Giolitti ebbe dei ripensamenti sull’azione militare, non lo sapremo mai, ma la pressione dei nazionalisti, desiderosi in realtà di un’azione bellica nei Balcani, lo costrinse nel proseguire il folle progetto d’invasione della Libia.
In questo contesto influì anche l’opinione del Ministro degli esteri, Antonio di San Giuliano, anche lui uno dei più fervidi sostenitori dell’azione militare in Libia.
Il marchese di San Giuliano era del parere che la campagna militare si sarebbe risolta
in una breve passeggiata militare e che non avrebbe avuto conseguenze sul piano europeo.
Anche le idee del San Giuliano furono smentite dalla realtà.
Ma i libici e i turchi reagirono diversamente rispetto alle aspettative del ministro degli Esteri San Giuliano e del console generale a Tripoli Carlo Galli.
Gli arabi non manifestarono accoglienza agli  italiani, prima schierandosi a fianco dei turchi e, dopo la sconfitta di quest’ultimi, dando vita ad un energica resistenza che durò oltre vent’anni circa.
Era un’Impero Ottomano ormai debole su tutti i fronti compreso quello Balcanico.
Tutti aspetti che porteranno l’Europa e il resto del Mondo verso la Prima Guerra Mondiale.

Il marchese Antonino Paternò di San Giuliano (1852-1914),
due volte Ministro degli Esteri tra il 1905 e il 1914.
Fu tra i più strenui sostenitori dell’impresa libica.

Giovanni Giolitti
Il 7 ottobre 1911 il Giolitti tenne un discorso al Teatro Regio di Torino, quando l’occupazione della Libia era ormai avviata…


Teatro Regio di Torino
Vi sono fatti che si impongono come una fatalità storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del Governo di assumere tutte le responsabilità, perché un’esitazione o un ritardo può segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo talora conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni,
 talora per secoli.
Se il governo italiano avesse avuto un attimo di esitazione forse sarebbe stato meglio per tutti… per gli italiani, per i libici… per il mondo intero.
L’aspetto strano fu che anche gli esponenti della sinistra italiani furono favorevoli al conflitto:




La voce di coloro che erano contrari alla guerra non fu ascoltata e i loro discorsi furono un rischio anche per la loro incolumità.
Erano isolati…..


Queste importanti figure della cultura italiana avevano criticato le narrazioni riguardanti la Tripolitania come “colonia di insediamento”.

La guerra avrebbe avuto un alto costo non solo di vite umane ma anche economico.

I costi dell’impresa libica avrebbero fermato lo sviluppo industriale dell’Italia portando il Paese verso una società militarista e barbarica.






Pietro Nenni, Amedeo Bordiga, Benito Mussolini e la CGdL tentarono di impedire la guerra con scioperi e manifestazioni, ma non ebbero grande seguito. Nenni e Mussolini scontarono anche alcuni mesi di carcere a Bologna.
Purtroppo le frasi di dissenso all’azione militare non furono ascoltate e il 26 settembre 1911, il Governo Italiano mandò un ultimatum alla Turchia.
L’ultimatum fu definito come un ….
guazzabuglio di arroganza nelle lagnanze e di vaghezza nelle richieste, ma non conteneva nulla che potesse realmente definirsi un casus belli,
per i turchi fu un ingiustificato ultimatum…
Dopo un primo momento di naturale indignazione, la Turchia assunse un atteggiamento accomodante impegnandosi anche
a garantire le prerogative dei commercianti italiani in Libia.
La proposta turca, ad ultimatum scaduto,  il termine era di appena 24 ore, fu respinta dal governo italiano perché considerata come
Un artificio per guadagnare tempo.
Il 3 ottobre 1911 venti nave italiane aprirono il fuoco contro i vecchi forti di Tripoli, mal difesi da obsoleti cannoni turchi. 
Le navi italiane aprirono il fuoco contro le forze turche di stanza in Libia, pochi giorni dopo la scadenza dell’ultimatum inviato dal governo Giolitti al governo turco. Iniziò la guerra italo-turca, motivata dal fatto che il Regno d’Italia voleva delle colonie in Nord Africa e aveva deciso che quelle che facevano al caso suo erano le due province del vacillante impero ottomano costituite dalla Tripolitania e dalla Cirenaica.
L’Impero ottomano, almeno sulla carta, era un nemico facile da sconfiggere ma la sconfitta delle forze turche fu meno rapida e più impegnativa del previsto.
I turchi avevano l’appoggio degli arabi che vedevano gli italiani naturalmente come dei conquistatori e non liberatori dalla dominazione araba.
Questo aspetto tradì le aspettative del governo italiano. 
Il 4 ottobre 1911 furono inviati a Tripoli ben 1732 fucilieri di marina al comando del capitano Umberto Cagni contro i turchi e gli arabi di Enver Pascià e di Aziz Bey.


Il 5 ottobre 1911, due giorni dopo avvenne lo sbarco. E in due settimane tutti i 34000 uomini del corpo di spedizione da contrapporre ai 4000 soldati turchi, erano a terra, intenti ad occupare Tripoli e Homs in Tripolitania e Tobruch, Derna e Bengasi in Cirenaica.

Ufficiali turchi in Libia. Tra loro, quarto da sinistra, si trova anche Mustafa Kemal,
il futuro Ataturk.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/a6/Atat%C3%BCrk_1912.jpg/1024px-Atat%C3%BCrk_1912.jpg

Cartina che raffigura il teatro della guerra italo-turca del 1911-12

A Tripoli e Tobruch gli sbarchi avvennero quasi senza problemi, ma nelle altre località ci furono degli scontri molto duri.
A Homs, la previsione del console Galli fu immediatamente smentita: i 500 soldati turchi della guarnigione ebbero l’appoggio di oltre 1.000 libici.
Ma anche a Tripoli l’occupazione fu presto contrastata. Il 23 ottobre la guarnigione italiana venne attaccata dai turchi e dai libici appartenenti non solo alle tribù del deserto ma anche a quelli che abitavano nell’oasi di Tripoli e nella città stessa. Un attacco sferrato da almeno  8.000 uomini molto motivati. Un’insurrezione generale, alla quale parteciparono donne e uomini, vecchi, giovani, adolescenti. La rivolta colpì 21 ufficiali e 482 soldati di truppa, uccisi nell’oasi, mentre altri vennero uccisi entro le mura cittadine.
La rappresaglia italiana fu immediata e infinitamente più brutale della violenta ribellione libica.
Per le strade di Tripoli iniziò la caccia all’arabo.
E tra fucilate e impiccagioni di gruppo (una foto immortalò 14 ribelli (valorosi capi tribù) impiccati alla stessa forca nella piazza del Pane di Tripoli) ….. furono assassinate 4000 persone. 


Ribelli senussi impiccati dagli italiani a Tripoli nel 1911.
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A queste drammatiche immagini si contrapponeva la propaganda giornalistica italiana…
Una cartolina di propaganda che inneggiava alla conquista armata della Tripolitania
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E non fu che l’inizio, perché presto le forche e le esecuzioni sommarie si sparsero in tutta la Libia.
I giornali italiani riportarono invece degli articoli pieni di indignazione e di rabbia per quella che consideravano
Un’ingratitudine libica.
Definivano la naturale reazione di chi difendeva la propria terra, la propria casa e i propri cari dall’invasore italiano come
Un’insidia… un tradimento…. Un vile attacco…… un assalto proditorio.
I soldati italiani furono orribilmente massacrati, ma occorreva considerare che nelle oltre due settimane trascorse dallo sbarco, non soltanto le truppe avevano occupato le case e stravolto la vita degli abitanti di Tripoli, ma non avevano fatto nulla per ingraziarsi la popolazione e proporsi come liberatori.
Il maggiore Giovanni Braganze annotò nel diario storico del suo reparto come
i bersaglieri non meno dei fanti si diedero un gran daffare a molestare le donne.
Il comportamento offensivo tenuto nei giorni precedenti dai bersaglieri verso le donne arabe, in contrasto con gli intenti del proclama del contrammiraglio Raffaele Borea Ricci del 7 ottobre, che
prometteva il massimo rispetto per il sesso femminile,
venne considerato uno dei motivi che diedero alla rivolta un carattere più violento e duro e indussero allo sfregio dei corpi. La stessa coincidenza dello sbarco con il periodo del ramadan aveva già ferito i sentimenti dei musulmani, al di là delle diverse appartenenze.
Gli arabi reagirono quindi all’occupazione italiana in corso con una violenza impressionante. Nell’oasi dove si svolse l’attacco, tra il Forte Messri e il villaggio di Sciara Sciat, gli arabi non presero prigionieri e le truppe italiane trovarono poi i corpi dei bersaglieri spesso mutilati dei genitali.
La reazione italiana, però, fu ancora più brutale e priva di discernimento. Gli arabi, infatti, nel ribellarsi all’occupazione se l’erano presa con i militari e non con quei civili italiani che vivevano e lavoravano a Tripoli. Le nostre truppe, invece, non fecero distinzioni.  La caccia all’uomo si scatenò con una rapidità e una ferocia imprevedibili.
Il giornalista dell’epoca Paolo Valera scrisse…

Paolo Valera
Giornalista, scrittore
(Como, 18 gennaio 1850 – Milano, 1 maggio 1926)
I corrispondenti inglesi e tedeschi hanno restituito le loro tessere al generale Carlo Caneva per protestare contro i massacri degli arabi. Tutti loro hanno assistito a scene orribili. Il corrispondente della Westminster Gazzette ha dichiarato che fra 400 cadaveri di donne e di fanciulle e ragazze e fra i 4000 uomini abbattuti dalla gragnuola di piombo non vi potevano essere neppure 100 colpevoli.

Gli arabi furono energicamente puniti. Ma gli Arabi erano convinti da Maometto che
chi cade in guerra va in Paradiso, muore come vive, senza scomporsi mai. La morte non teme e talora la cerca. […]
Forse la deportazione li tocca di più, perché temevano di essere trattati come fra di essi, con la frusta, coi ferri e colla fame. Per esempio sarebbe meglio impiccarli, perché dubitano che la loro anima rimanga nella strozza e non arrivi al cielo.

Secondo alcuni calcoli, vi furono tra millecinquecento e duemila morti, ma per la stampa straniera almeno quattromila arabi e berberi vennero fucilati o impiccati. 
La «crudeltà», il «fanatismo», il «tradimento» e la «dissimulazione»
della popolazione araba furono le categorie esplicative costruite dopo l’evento per legittimare l’uso sproporzionato della violenza.
Lo stesso giornalista Paolo Valera, sul campo per il suo personale periodico La Folla, fu autore di un reportage sulle terribili giornate di Sciara Sciat, accompagnato da numerose foto a testimonianza inequivocabile della violenza italiana sulla popolazione araba. Gli spari arabi, scrisse Valera,
erano senza dubbio pericolosi, ma nessuno avrebbe dato all’episodio il nome di sommossa e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di iniziare un massacro che sarebbe finito con quattro mila e più cadaveri […] La guerra è diventata un’effusione di sangue all’ingrosso, un omicidio generale, una esecuzione senza esempio.
Il sergente Guido Sponsali raccontò invece alla famiglia le sue impressioni sulla battaglia al forte Messri:
il 26 novembre le palle fischiavano e i nostri cavalli entravano fino al ginocchio nella sabbia, ma noi siamo andati sempre avanti per sconfiggere questi barbari. Il più bel divertimento è quando si carica alla baionetta; si infilano questi cani come i rondoni.
 Ain Zara venne occupata il 4 dicembre, nonostante l’accanita resistenza turca. Tiberio Nesi, artigliere, scrisse alla famiglia gli avvenimenti legati al bombardamento dell’oasi:
La mattina del 4 ci alzammo di buon’ora, andammo subito ai nostri posti e si principiò a sparare. Non potete credere mai che cosa pareva che succedesse in quel momento. Da tutte le parti era un tonare di cannoni, e sembrava che tutto dovesse cedere sotto quel frastuono. Questa orchestra durò fino alle ore 11; poi un poco calmò.
Le esecuzioni nei confronti degli arabi, come si evinsero dalla lettera dell’artigliere, proseguirono ancora, nonostante fosse trascorso un mese dall’attacco di Sciara Sciat:
ora siamo tranquilli, ma sempre vigili perché con la gente con la quale abbiamo da fare non c’è mai da fidarsi. Ne abbiamo avute le prove. Anche ieri furono giustiziati dodici arabi autori del tradimento del 23 contro i nostri bersaglieri.
Sulle popolazioni arabe, come si rilevò nella maggior parte delle missive, era chiara una visione dell’alterità stereotipata, propria della cultura cristiana e occidentale: 
gli abitanti sono così brutti e sembra perfino impossibile che la natura abbia creato esseri tanto orribili. Questa gente che non conobbe mai la civiltà, rassomiglia e fa come le belve alla foresta.
Marsilio Gobelli raccontò invece un episodio drammatico, che ebbe per protagonista un giovane arabo di quindici anni:
Siamo a dieci chilometri da Ain Zara, verso Garian. […] Mi rammento la gloriosa giornata del 4. In quel giorno furono anche impiccati diversi arabi traditori. Mentre il corpo di uno penzolava al nodo scorsoio lungo il tronco di una palma, una famiglia araba fu ritrovata nei dintorni da una pattuglia di cavalleria. Della famiglia faceva parte un giovinetto di 15 anni circa il quale, vedendo quel corpo ciondoloni ed il nostro accampamento vicino, tirato fuori un coltello, nascosto sotto il barracano, se ne inferse un colpo alla gola.
Il ragazzo fu curato dai reparti sanitari italiani ed interrogato sui motivi del gesto, rispose che
i turchi avevano detto che tutti gli arabi, caduti in mano degli italiani sarebbero stati impiccati e sgozzati. Egli aveva voluto uccidersi per non essere martirizzato.
Sulla battaglia di Ain Zara, Gobelli rievocò anche la potenza distruttrice dell’artiglieria,
una vera meraviglia ed uno sfacelo violento. Brandelli di carne volavano per aria.
 Al termine della campagna militare, con l’impiego di oltre 100.000 soldati, l’Italia riuscì ad ottenere dalla “Sublime Porta” le regioni definite oggi libiche nel trattato di Losanna del 18 ottobre 1912.
La Sublime Porta in epoca ottomana.
Era uno degli elementi architettonici del Palazzo di Topkapi di Istanbul,
antica residenza del sultano ottomano.
L'espressione, nel corso dei secoli, fu usata per indicare la sede del
 governo dell'Impero ottomano.

La firma del trattato di Losanna (18 ottobre 1912)
da una copertina della Domenica del Corriere.

Il Trattato disponeva:
-        la cessazione delle ostilità con il ripristino dello status quo e lo scambio dei prigionieri;
-        l'autonomia della Tripolitania e della Cirenaica dall'Impero ottomano;
-        il ritiro dei rispettivi funzionari sia militari sia civili dalla Libia e dalle isole dell'Egeo;
-        l'amnistia per le popolazioni arabe che avevano partecipato alle ostilità;
-        l'impegno a versare annualmente alla Turchia una somma corrispondente alla media delle somme introitate dalle province negli ultimi tre anni prima della guerra;
-        la garanzia da parte dell'Italia della presenza di un rappresentante religioso del califfo nelle due province;
-        da parte ottomana, la revoca dell'espulsione dei cittadini italiani (effettuata a giugno come ritorsione dell'occupazione italiana del Dodecaneso) e il reintegro nel lavoro svolto, con relativo trattamento comprensivo dei contributi per le pensioni di fine rapporto equivalente i mesi passati senza impiego.
Il trattato di Losanna, quindi, non prevedeva "la sovranità piena ed intera del Regno d'Italia" sulla
Tripolitania e la Cirenaica, così come venne dichiarato unilateralmente dall'Italia con Regio
decreto n. 1247 del 5 novembre 1911, convertito in legge il 23 e il 24 febbraio 1912, bensì la sola
amministrazione civile e militare - una sorta di protettorato - su un territorio che giuridicamente
restava a far parte dell'Impero ottomano.
Al trattato venne data piena e intera esecuzione con legge n. 1312 del 16 dicembre 1912, che ne
riportava il testo per intero, in lingua francese.
La restituzione delle isole dell'Egeo, che l'Italia subordinò al ritiro totale delle truppe ottomane dalla
Libia, non venne attuata e l'occupazione delle isole proseguì fino agli anni immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale.
La piena sovranità italiana sulla Tripolitania, la Cirenaica e il Dodecaneso venne riconosciuta con un
secondo trattato di Losanna, sottoscritto da tutte le potenze dell'Intesa e la Repubblica di Turchia, il
24 luglio 1923.
REGIO DECRETO 5 novembre 1911, n. 1247
Che pone sotto la sovranità piena ed intera del regno d'Italia la Tripolitania e la Cirenaica. (011U1247)
note: Entrata in vigore del provvedimento: 12/12/1911 (Ultimo aggiornamento all'atto pubblicato il 15/12/2010)
(GU n.276 del 27-11-1911)







Anche la ritirata delle truppe italiane dalle regioni più interne verso la costa fu punteggiata di abusi,
massacri, razzie e altre forme di sadismo.
Persone gravemente ferite vennero bagnate di benzina e bruciate vive dagli ufficiali e dai soldati
italiani, altre buttate dentro i pozzi, molte fucilate per capriccio, per non citare i paesi non ribelli che
vennero depredati con sistematicità.
Noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, le sconfitte subite ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine.
Nel suo rapporto per il generale Santangelo, il tenente colonnello Gherardo Pànatano scrisse:
Non è raro purtroppo sentire ufficiali distinti e di animo generoso proclamare le teorie più reazionarie e più feroci, come ad esempio, l’utilità della soppressione di tutti gli arabi della Tripolitania. […] Vi sono ufficiali che si incaricano personalmente delle esecuzioni e se ne vantano […] Donde venga ai nostri ufficiali tanta cieca ferocia, tanta sete di sangue, tanta raffinatezza di crudeltà, io non so comprendere. […] Noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, le sconfitte subite ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine. Anzi, non potendo vendicarci sui nemici che ottennero, con così scarsi mezzi, risultati tanto vistosi, sfoghiamo l’umiliazione sui deboli, sugli inermi.
Complessivamente il tentativo di occupare la Libia durò 4 anni dall’autunno del 1911 alla
fine del mese di luglio 1915. Per raggiungere l’occupazione globale sarebbero occorsi altri 17
anni. Più di tre lustri, quindi, segnati anche da morte e terrore ai danni della popolazione libica. 
Un ottavo di essa venne annientato dagli italiani, nei campi di sterminio, con esecuzioni
arbitrarie e in combattimento.
(Alberto Quattrocolo)

Dal  1911  al 1914 gli italiani fecero in Libia una campagna di deportazione collettiva.
 
Gli italiani non potevano essere considerati come dei liberatori degli arabi dalla dominazione turca.
D’altra parte non poteva essere considerato un gesto di liberazione il massacro indiscriminato
perpetrato, il 23 ottobre 1911, per le strade di Tripoli, come rappresaglia per gli attacchi alle
truppe italiane da parte della popolazione locale, al fianco dei soldati turchi, nelle vie della città e nel
vicino villaggio di Sciara Sciat.
Alle 16,45 del 25 ottobre  1911– quindi, due giorni dopo l’attacco arabo ai soldati italiani appostati a
Sciara Sciat e la successiva caccia italiana all’arabo per le vie di Tripoli, esitata in 4000 morti,
bambini, ragazzi e donne inclusi,  il presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Giovanni
Giolitti, inviò al generale Carlo Caneva, a capo del corpo di spedizione italiano, un telegramma:
Quanto a rivoltosi arrestati, che non siano fucilati costà, li manderà alle isole Tremiti, nel mare Adriatico, coi domiciliati coatti, dove ella può direttamente dirigerli avvisandomi partenza. Le isole Tremiti possono accogliere oltre 400 detenuti.
Una misura amministrativa e strumento «preventivo» per l’ordine pubblico che era in vigore in Italia
dal 1863. Molti di loro non tornarono mai nelle loro abitazioni in Libia.
Gli abitanti di Tripoli finirono nelle colonie penali di Ustica e nelle isole Tremiti.
I cittadini di Bengasi, Derna e Homs furono deportati a Gaeta e a Favignana.si trattava di colonie
penali soggetti al domicilio coatto.
A Ustica e nelle isole Tremiti sbarcarono i primi 2975 esiliati, presi a caso per le strade di Tripoli,
stivati a forza nelle navi,  naturalmente senza alcuna prova di reato.
Fra di loro bimbi in tenera età, donne e vecchi e moltissimi non sopravvivranno.
La reazione violenta e rabbiosa delle autorità civili e militari italiane fu causata, innanzitutto, dalla
spiacevole sorpresa di vedere che i libici solidarizzavano, al momento dello sbarco, nell’ottobre del
1911, con le truppe turche di guarnigione ed anzi costituivano i reparti più aggressivi.
Giolitti, male informato, era persuaso che gli abitanti della Tripolitania e della Cirenaica
attendessero l’arrivo degli italiani con autentica gioia. Deluso ed irritato, inviò al generale Carlo
Caneva dei nefasti telegrammi con i quali ordinava stragi e deportazioni. 

Il generale Carlo Caneva col suo Stato Maggiore

Gli italiani avevano sottostimato il patriottismo arabo ed erano convinti che un «popolo di beduini»
non sarebbe stato in grado di opporre una valida resistenza. Dovettero amaramente ricredersi.
Già il 23 ottobre subirono, a Sciara Sciat, una pesante sconfitta con un bilancio di 21 ufficiali e 482
soldati uccisi. Ma fu soltanto l’inizio.
Nel 1915, durante la «grande rivolta araba», gli italiani avrebbero perso tutti i territori conquistati ed
avrebbero conservato soltanto alcuni porti, dopo una frettolosa e disperate ritirata che era costata
diecimila morti.
I deportati libici in Italia superarono i 4 mila nel solo ottobre del 1911.
Con il proseguo delle ostilità,  le colonie penali italiane videro giungere altri confinati, dei quali però
non fu possibile tenere una precisa contabilità.
Molti libici vennero giustiziati in strada ma non molto diverso fu il destino dei libici che vennnero
inviati nelle colonie penali. Come i 920 uomini che, il 29 ottobre 1911, laceri e malandati venivano
sbarcati ad Ustica. Di questi 69 perirono entro due mesi dall’arrivo, inclusi giovani di 16 anni.
Al 31 gennaio 1912 i morti in viaggio furono meno di 600-700, mentre i deportati giunti vivi
nelle strutture detentive italiane furono così distribuiti:
-        1.080 alle Tremiti,
-        834 ad Ustica,
-        654 a Gaeta,
-        349 a Favignana,
-        136 a Ponza.
Di questi entro il 1912, ne vennero rimpatriati 917Ma le deportazioni continuarono negli anni
seguenti per impennarsi durante la grande rivolta del 1915, tanto che nel marzo del 1916 (nel
pieno quindi della Prima Guerra Mondiale, cui l’Italia prese parte per “liberare” alcuni territori dalla
dominazione austro-ungarica), nella sola Ustica vi erano 1.300 libici detenuti.
Ovviamente su tutto ciò che accadeva di violento e negativo in Libia l’opinione pubblica italiana
non veniva informata. La censura era rigidissima sia nel periodo della liberaldemocrazia che durante
il ventennio fascista. Ma ciò che sorprende e indigna fu il silenzio sulle deportazioni e le stragi,
consumate in Libia come in Etiopia. Un silenzio assoluto  mantenuto in Italia anche nel secondo
dopoguerra, a libertà e democrazia ristabilite.
Ancora oggi i testi scolastici, salvo poche eccezioni, ignorano quei gravissimi fatti o li minimizzano.
E si dà il caso che un film sulla resistenza libica, «Il leone nel deserto», sia stato in pratica proibito
e visionato soltanto nei cineclub. Ciò che prevale ancora oggi in Italia, nonostante le precise ed
assordanti rivelazioni sui misfatti del colonialismo italiano, fu una visione mitica e bonaria delle
nostre imprese coloniali.
I risarcimenti dei danni di guerra, richiesti dalla Libia e dall’Etiopia, furono rimborsati con estrema
taccagneria, al punto da aprire, specie con la Libia di Gheddafi, un eterno contenzioso. Si cercò, con
altrettanta grettezza, di saldare il debito materiale e morale con la promessa di costruire un ospedale
o una strada litoranea. Ma ciò che si attendono veramente i libici, a saldo dei loro 100 mila morti,
non sono tanto dei beni materiali quanto il riconoscimento del loro sacrificio, della loro dignità
troppo a lungo calpestata, del loro patriottismo sovente negato. Salvo alcune nobili parole dell’allora
presidente del Consiglio Massimo D’Alema, il 1º dicembre 1999, dinanzi al monumento ai martiri
di Sciara Sciat, i vertici dello Stato italiano continuarono ad ignorare i fatti e i loro debiti morali.

Tra il 25 e il 30 ottobre il generale Caneva imbarcò più di 4000 detenuti.
 Il numero esatto non fu noto, ma non si sarebbe lontani dalla realtà affermando che furono più di
4.000. Infatti, non furono inviati solo alle Tremiti, ma anche a Ustica, Favignana, Caserta, Gaeta e
Ponza, cioè nelle colonie penitenziarie.
Ma chi erano coloro che venivano deportati?
Un aspetto… agghiacciante… erano vittime casuali….
Di quei terribili momenti fu testimone oculare un giornalista, Giuseppe Bevone, che riferì come..
Ad essere imbarcati erano uomini di tutte le età, vecchi canuti e giovani imberbi.

Alle Isole Tremiti giunsero soprattutto le persone catturate nell’area di Tripoli. Secondo la relazione
della Commissione dei prigionieri di guerra dell’epoca, oltre a tutti coloro che erano accusati di
attività politica o militare o di collaborazione con i ribelli e che esercitavano, in virtù del loro rango
sociale, una certa influenza sulle rispettive tribù, vennero deportati anche un miscuglio di
mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani,
e di donne e di bambini e ragazzi.
Un’azione orribile….. perché in pratica veniva deportato
chiunque capitasse a tiro, “in modo frettoloso
Il viaggio per raggiungere i centri di prigionia era di circa 4 giorni.
Le navi d’imbarco non erano certamente navi da crociera e molti deportati morirono anche per le
condizioni di stress legate alla navigazione e i loro corpi gettati in mare….
Giunti nelle colonie penali, le condizioni di sopravvivenza erano minime.
Le Isole Tremiti potevano accogliere circa 400 persone ma ne arrivarono circa 1300.
Fu una strage… ne morirono uno su tre..
La Direzione delle carceri riferì che
La capienza dei sette cameroni, destinati ai deportati, era di circa 360 persone.
I più fortunati trovarono ospitalità nei cameroni ma gli altri 1000 circa furono ammassati in maniera
promiscua……
malati e sani, maschi e femmine, bambini e adulti, un po’ nelle stalle e un po’ nelle grotte…
… nelle cavità scavate sul pendio nel monte sovrastante l’Isola di San Nicolche
mancano di porte ed il vento vi penetra da tutti i lati…. Buie, umide e
senza scolo….. poco adatte persino per gli animali.
(Relazione di due delegati di Pubblica Sicurezza del 12 novembre 1911).

La scarsità di cibo e acqua, le numerose malattie (soprattutto, il tifo e il colera), l’ostilità di una parte
cospicua della popolazione locale, che spesso rubava i viveri destinati ai prigionieri, spiegarono
perché già il 9 gennaio 1912 risultarono deceduti 198 deportati: inclusi due bimbi di 10 anni, mentre
a giugno i morti diventarono 437, un terzo di quelli che erano arrivati.
Molti tremitesi,  con grande umanità e rispondendo ai loro principi cristiani, videro  in quei deportati
degli esseri umani e mostrarono loro una grande solidarietà a tal punto di essere accusati di
sovversione e di simpatie socialiste.
 Nelle isole Tremiti fu edificato nel 2006, sopra una grande fossa comune, il primo mausoleo italiano per i deportati libici….
«Per restituire dignità»

Isole Tremiti

Isole Tremiti - Monumento ai caduti Libici

Secondo l’ultimo censimento del 2022, nelle isole sarebbero residenti 496 persone.. i morti libici
esiliati furono 400….
Per il Comune delle Isole Tremiti fu un dato di alto valore morale dare vita ad una memoria non
accettata e dimenticata legata al brutale colonialismo  italiano.
Di grande umanità il racconto del Sindaco delle isole Tremiti, Giuseppe Calabrese, che organizzò nel
2007 anche un convegno per ridare vita agli sventurati libici esiliati….
Il senso di questa iniziativa è innanzitutto questo: noi isolani abbiamo voluto restituire dignità a persone che non ci sono più, di qualunque nazionalità siano, perché la dignità non ha colorazioni particolari, e che finora invece erano stati quasi cancellati, messi alla rinfusa in anonime fosse comuni. Perché secondo me la storia delle persone va rivalutata, a qualunque realtà nazionale appartengano. Per noi la dignità ha un solo colore e quindi abbiamo voluto ridare dignità a morti che erano sulle nostre isole così messi alla rinfusa, dimenticati in una fossa comune e abbiamo voluto dare loro un riconoscimento che finora 
non è ancora arrivato da nessuno…..
Sin da ragazzo passavo nella parte più lontana dell’isola di S. Nicola dove c’è un cimitero che risale all’epoca dei benedettini» spiega il sindaco. Lì c’era un’abbazia ed era all’epoca l’unica isola abitata. Sopra ci passavano capre e le persone non sapevano nemmeno che laggiù in fondo fossero stati seppelliti in una fossa comune i deportati libici 
morti di stenti e malattie alle Tremiti.

Tremiti, isola di San Nicola – Abbazia di Santa Maria a Mare

Così, con un po’ di fondi messi a disposizione dal ministero degli esteri e un po’ di soldi trovati tra gli isolani, le Tremiti hanno eretto il primo mausoleo in terra italiana per i deportati libici. E’ venuto qui un imam che prima ha sconsacrato il luogo poi lo ha riconsacrato secondo il rito musulmano. In fondo il nostro mausoleo è stato solo un riconoscimento di dignità, un gesto molto semplice», conclude il sindaco Calabrese.
Diverse centinaia, tra cui anche donne e bambini, morirono quindi proprio sull'isola.
La loro colpa?
Ufficialmente legata alla presunzione italiana..
Rei di resistenza alla politica coloniale giolittiana.
Morirono  per denutrizione o affetti di “malattia misteriosa”, che il capitano Sabellico di Alatri
scoprì essere tifo petecchiale. Anche lui morì nel marzo del 1912 curando quei disperati, nel marzo
del 1912.
Erano in 1300 e deportati nell’Isola dopo  la battaglia di Sciara-Sciat e a distanza di un anno circa,
un terzo dei deportati morirono di tifo esantematico. 
Difendimi dalle forze contrarie / La notte, nel sonno, quando non sono cosciente /Quando il mio percorso si fa incerto / E non abbandonarmi mai / Non mi abbandonare mai.
(Franco Battiato - L'Ombra della Luce)

25 ottobre 1911: gli italiani iniziano a deportare i libici in Italia
https://www.me-dia-re.it/25-ottobre-1911-gli-italiani-iniziano-deportare-libici-italia/

I deportati ad Ustica





Un telegramma del Ministero delle Colonie, datato 14 giugno 1915. Informava il Governo di Tripoli
che in quel giorno…
Era giunto a Ustica il piroscafo “Re Umberto” con 778 deportati  (libici) fra cui
sei ammalti comuni e 12 feriti….lo sbarco si era compiuto senza incidenti.

Telegramma n.3144 in data 14/6/1915
Dal Ministero delle Colonie in Roma per il Governo di Tripoli.
Prefetto di Palermo informa piroscafo “Re Umberto” con 778 deportati
giunto in Ustica 14 corrente con sei ammalati comuni e dodici feriti.
Sbarco compiutosi senza incidenti.
Il Ministro Anezia (?)

Altri deportati arriveranno nell’isola. Un’isola che presentava nel marzo 1916 ben 1300 confinati
arabi.
Chi era il Ministro delle Colonie del tempo?
Ferdinando Martini
(in Carica del 31 ottobre 1914  al 18 giugno 1916 – Governo Salandra II)
Centocinquanta di essi non faranno più ritorno nella loro Libia. I loro nomi saranno aggiunti, se fu
possibile, a quelli deceduti nell’isola nel 1911 e nel 1912.

Isola Ustica

Le deportazioni iniziarono nel 1911 e proseguirono nel 1912 con una sconfortante replica nel 1915 e
1916.
I riferimenti storici alle deportazioni nell’isola di Ustica sarebbero legate a  fonti archivistiche e
giornalistiche. Le morti furono tante e le cause legate alle pessime condizioni di vita, alle carenze
igienico sanitarie della colonia penale.
Le deportazioni del 1915 e 1916 furono legate alla rivolta araba esplosa nel luglio 1914. La
repressione italiana fu legata ad un’azione di “polizia coloniale”.
Le sconfitte dell’esercito italiano in Libia erano una costante.
Le insurrezioni del libici era animate naturalmente dal desiderio di libertà dei nativi e ben viste dagli
Imperi ( Impero Tedesco, Impero Austro-ungarico, Impero Ottomano e Regno di Bulgaria).
Un bilancio catastrofico per l’esercito del Regno d’Italia con le sconfitte di Uadi Marsit (6 – 7 aprile
1915), di Gasar Bu Hadi (Al-Qardabiyyah) del 29 aprile 1915 e nel disastro del 18 giugno 1915
quando la guarnigione di Tarhuna, che aveva abbandonato il presidio ormai non più difendibile per
ripiegare su posizioni più sicure, fu attaccata dai ribelli.
In Italia non trapela nulla. Un fatto che non è accaduto neppure dopo la sconfitta di Adua.
Trapelarono invece delle notizie sulla sconfitta di Gasar Bu Hadi (Al Qardabiyyah)
La vittoria di Gasar Bu Hadi (Al-Qardabiyyah) diede slancio all’azione libica e la rivolta si estese in
altri ed ampi territori coinvolgendo intere comunità e provocando defezioni di quei capi tribù che
erano alleato degli italiani o non ostili.


Al-Qardabiyyah, a Sud-Est della città di Sirte, fu la città dove si riunirono i libici di Misurata, Ziten,
Mesellata, Tarhuna, Uerfella… Una forza di ben tremila libici che si era unita agli italiani nella
campagna di “polizia coloniale”. Una campagna progettata per disperdere le forze dei guerriglieri
che si erano concentrati nella Sirtica e nel territorio di Marada. Fecero causa comune e insorsero
contro la spedizione del colonnello Miani determinandone la disfatta. Il ricorso a bande di irregolari
libici era un procedimento molto usuale perché permetteva di ridurre l’impiego di militari nazionali.
Ma era anche un procedimento molto insicuro dato che per lo più si trattava di un arruolamento
forzato.
I capi delle bande venivano catturati e trattenuti come ostaggi. Il “Corriere della Sera” del 7 maggio
1915, citò il caso dei capi della banda del Tarhuna che poi si ribellarono contro il colonnello Miani a
Gasar Bu Hadi (Al-Qardabiyyah).
Il colonnello Antonio Miani

Su 84 ufficiali, ne morirono 19 e 23 furono feriti. Dei 900 soldati nazionali i caduti furono 237 e 127
i feriti. Dei 2.174 ascari , 242 furono uccisi e 290 feriti.
(L'àscari era un militare eritreo dell'Africa Orientale Italiana, inquadrato come componente regolare
nei Regi Corpi Truppe Coloniali, le forze coloniali italiane in Africa. Fu quindi utilizzato anche per
indicare i militari reclutati nelle altre colonie africane italiane, tra i somali, gli etiopi e i berberi).
Pesantissime le perdite di materiali: 5.000 fucili di ricambio, alcuni milioni di munizioni, tutte le
mitragliatrici, 6 sezioni di artiglieria, l’intero convoglio di viveri e perfino la cassa…
I superstiti, rientrati nel campo trincerato di Sirte, ebbero qualche problema e si registrarono
sparatorie. Seguirono vendette ma anche processi sommari, impiccagioni e fucilazioni, episodi che
con il colonnello Miani non si erano mai verificati.
Le sconfitte subite generarono nelle truppe italiane sgomento e confusione.
Ci furono delle violente reazioni italiane con: condanne a morte di capi arabi ritenuti colpevoli di
tradimento, massacri, arresti e deportazioni.
Fu l'intera popolazione indigena che venne considerata nemica e sottoposta a tutte le vessazioni.
Il dilagare della rivolta spinse il Consiglio dei ministri a proclamare lo stato di guerra in Libia il 3
maggio 1915.
Il “Corriere della Sera” del 4 maggio riportò…
La deliberazione presa stamane dal Consiglio dei ministri mostra che il nostro Governo è fermamente risoluto a punire i ribelli e a mantenere il nostro prestigio 
contro ogni mossa sospetta.
Il commento sarebbe emblematico…
-        Spirito di vendetta degli italiani;
-        Una forte, ferma ed energica reazione governativa nella repressione di tentativi di altre ribellioni, dopo Al-Qardabiyyah.
Le repressioni dopo Sciara Sciat e quelle del 1915, durante la grande rivolta araba furono
tra le peggiori pagine che il nostro esercito abbia mai scritto. Il soldato italiano, che si è battuto
lealmente e cavallerescamente nelle guerre risorgi-mentali, in terra d'Africa si fa giustizia da solo,
si trasforma in boia erige forche (gli allucinanti "alberi di natale" di Scalarini) e le usa per punire e
per intimorire [...1. In questo clima nascono i campi di concentramento, che la tenace resistenza dei
libici alimenterà per anni.
Disegnatori come Scalarini, Galantara e Bruno  interpretarono con la matita i fatti.
L’albero di Natale di Giuseppe Scalarini, dove al posto dei consueti addobbi penzolavano
dall’albero i corpi di decine di arabi.
Nell'elenco dei libici morti a Ustica figuravano anche ragazzi di 16 anni ed anziani di 75.
Probabilmente la rappresaglia e la repressione non si limitarono ai libici Al-Qardabiyyah, ritenuti
traditori e caduti nelle mani del grande sconfitto colonnello Miani, o ad altri ribelli catturati
successivamente, ma che fossero più stese coinvolgendo anche altri territori.
Al-Qardabiyyah diventerà il simbolo della resistenza libica.
La sconfitta costringerà la forza d’occupazione italiana a rivedere la posizione dei presidi preferendo
quelli costieri.
La notizia della sconfitta fu pubblicata sul “Corriere della Sera” del 3 maggio…
Defezione di bande durante un combattimento nella regione Sirtica….notevoli perdite subite.
Il 4 maggio lo stesso quotidiano riportò un comunicato dell’Agenzia Stefani che riferiva come
il combattimento doveva aver rivestito "un notevole carattere di gravità",
a causa delle perdite considerevoli;
mise in evidenza anche  
gli "errori politici" e le "responsabilità dell'ufficio politico-militare di Tripoli.
dava notizia dell'arrivo dcl piroscafo Letimbro a Siracusa, avvenuto il giorno precedente, con 435
feriti che furono ricoverati negli ospedali di Catania e di Siracusa. 
Nell’articolo figuravano anche le prime cifre sui morti  e sui dispersi (18 ufficiali e 200 soldati morti
o dispersi, oltre gli indigeni).
Il 7 maggio, sempre sullo stesso giornale, il titolo
11 tradimento dei Tarhuna,
che riferiva di altri 150 ascari morti o gravemente feriti e pubblicava un elenco dei nominativi dei
soldati italiani feriti.
Un altro elenco verrà pubblicato l'8 maggio. Nei giorni successivi, fino al 28 maggio, non ci saranno
più riferimenti alla situazione in Libia. Se ne scriverà ancora il 29 maggio e il 16 e il 24 giugno. Si
citarono piccole cronache di guerriglia che, seppure sostenute da una prosa enfatica sull'eroismo
delle truppe nazionali e degli ascari, lasciavano trapelare l'entità delle disfatta del 29 aprile e la
gravità della rivolta in corso.
Non si faceva segno invece al pesante rovescio del 18 giugno, durante il ripiegamento da Tarhuna: la
logica di un paese ormai in guerra esigeva una vigile censura sulla diffusione di notizie che
avrebbero potuto nuocere sia sul piano politico e diplomatico, sia sul morale dei soldati italiani
inviati al fronte.
Nella stessa logica comunicativa rientravano sia la tendenza a rappresentare una situazione tenuta
sotto controllo, sia il silenzio sulla feroce e indiscriminata repressione in atto, sia sulle deportazioni
in Italia.
Le deportazioni in Italia furono invece riportate da quotidiani dell’opposizione e da alcuni quotidiani
palermitani come “L’Ora” e “ Il Giornale di Sicilia”.
Ci furono dei coraggiosi reportage, come quello di Paolo Valera sull’”Avanti” del 1912 che riportò le
condizioni di vita dei libici deportati nelle isola di Ustica e Favignana.
Un dato fu certo. I fatti della Libia successivi al 1911 rimasero lontani dai quotidiani nazionali.
Quegli stessi quotidiani che avevano scritto pagine piene di enfasi sullo sbarco degli italiani a
Tripoli, Bengasi, Hos e Derna, e tutte le operazioni militari di conquista che nell'immediato ne
seguirono al canto "bel suol d'a-more".
Avvenimenti, questi, che avevano visto impegnati come corrispondenti di guerra le più prestigiose
firme del giornalismo nostrano.
Nel  "cimitero degli arabi" di Ustica esisteva già una lapide, posta nel 1913, che ricorda i libici
morti nel 1911 e 1912. E' giusto, pensiamo, affiancarne oggi un'altra anche per quelli morti nel
1915 e 1916: se non ne conosciamo ancora le sofferenze, riconosciamone, almeno, l'esistenza.
L’Elenco dei libici deceduto ad Ustica
Dal giugno 1915 all’agosto 1916
(trascritti con le omissioni, gli errori e le inesattezze ortografiche
riscontrati nei registi del Comune)..


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I Deportati Libici a Ponza



In merito alla deportazione libica a Ponza non ci sarebbero studi e ricerche. I ricordi di quel triste
avvenimento sarebbero legati alla gente nativa del luogo la cui voce si è tramandata nel tempo con il
susseguirsi delle generazioni.
Una signora anziana di Ponza raccontò come la madre gli parlò della deportazione libica…
giungeva a Ponza la nave della Croce Rossa che periodicamente portava i prigionieri, lei, fanciulla di 15 anni, correva al molo, a  casa delle sue amichette. Dal  terrazzo vedevano sbarcare sulla spiaggia della Caletta i deportati libici traghettati con dei barchini. Qui venivano lavati e disinfestati, prima di essere avviati ai loro alloggi.  Quando poi a Ponza giunse in visita ufficiale il principino Umberto, venne accolto nella piazzetta di S. Maria dalle autorità  e da  un gruppo di libici in costume, che in suo onore si esibirono
 in una danza folkloristica.

Lo storico Gino Usai fece delle ricerche in merito  alle vicende  di vita dei libici nell’isola..
(…) L’ondata retorica che investì Italia in occasione dell’invasione della Libia tendente a
convincere l’opinione pubblica dell’opera civilizzatrice che ci attendeva in Africa, giunse anche a
Ponza; ma la maggior parte del popolo, composta da umilissimi contadini e pescatori, non si lasciò
incantare dalla propaganda. Certamente provò compassione per i deportati, e li accolse con la
stessa gentilezza e simpatia con la quale successivamente accoglierà le migliaia di  antifascisti che
Mussolini  confinò  sull’isola, dal 1928 al 1939. (…) Noi non sappiamo a quali ristrettezze e a quali
obblighi vennero sottoposti i libici a Ponza; (…) Sappiamo però che a loro venne accordato un
trattamento ancora più incivile di quello fatto ai domiciliati coatti.

(…) Silverio Corvisieri (giornalista, storico e politico) scrisse: 
“I Libici furono costretti a dormire, in sei-sette in piccole camerette, su un palco di paglia e senza
coperte. Non fu loro assegnato né un asciugamano né un sacco per chiudere le loro povere cose. Il
vitto giornaliero consisteva in 750 grammi di pane e una minestra di 200 grammi; la carne la
vedevano soltanto una volta alla settimana. I prigionieri erano quasi tutti beduini abituati a vivere
nel deserto, alla vita nomade a un clima caldo”. (…) La denutrizione e le pessime condizioni
igieniche ebbero conseguenze fatali sulla salute di molti libici: nei primi sei mesi del 1912 ne
morirono ben tredici mentre numerosi altri contraevano gravi malattie polmonari. I cadaveri dei
prigionieri furono gettati in una fossa comune fuori del cimitero.”
L’arrivo dei deportati a Ponza avvenne sul finire del 1911 e coincise con la cessazione del
domicilio coatto e con la crisi dell’amministrazione Comunale.
 Il 15 dicembre infatti il Consiglio di Stato annullò le elezioni amministrative e il Prefetto inviò
sull’isola il Commissario Prefettizio Cav. Claudio Rugarli.
Il cav. Rugarli al termine del suo mandato, 24 marzo 1912, nel congedarsi fece una relazione sul suo
lavoro.
Nella relazione scrisse come..
Ponza bella e ridente isola, che è gran gemma, d’inestimabile valore, 
emergente in amplissimo mare,
dove, nell’aria balsamica, la natura sorride incantevolmente………
.......... .difetta di viabilità, di acqua potabile, di edifizi scolastici, 
d’una casa comunale propria” dove la nettezza urbana lasciava molto a desiderare.
Il Commissario per ripulire l’isola fece richiesta  di una decina di arabi al direttore della Colonia dei deportati Musco Nazzareno, il quale esaudì volentieri la richiesta.
In pochi giorni gli arabi ripulirono per bene le strade del paese.
Il Rugarli annotò nella sua relazione..
“Gli arabi lavoravano di buona voglia e coi pochi soldi che guadagnano, comprano sigarette,
piacendo ad essi fumare, assai più che mangiare.
Io che scambio con loro qualche parola in arabo (appena qualche parola) che imparai, a Massaua,
ove stetti due anni, sono salutato dagli spazzini arabi, quando m’incontrano, così:
– SALAM  ALEKUM.
Ed io rispondo:
– ALEKUM EL SALAM.
Ridete pure, Signori, ma vi assicuro che questo è il vero, genuino saluto che gli arabi si scambiano tra loro, e che, tradotto in italiano, dice:
– LA SALUTE SIA CON VOI.
– CON VOI SIA LA SALUTE.”

 “Nel 1912 nel cimitero di Ponza vi era una parte ben tenuta e pulita ed un’altra trasandata e
trascurata, coperta di sterpi disseminata di croci in sfacelo, divelte e disseminate qua e là senza
alcuna indicazione dei defunti.
Claudio Rugarli nella sua relazione scrisse…. 
Nella zona così mal tenuta, sono sepolti dieci degli arabi, qui deportati dalla Tripolitania e dalla
Cirenaica, che morirono in Ponza, nella infermeria della colonia penale.
Io ne registro qui i nomi, non già per onorarli, giacché furono nostri in territorio guerreggiato, ma
per l’importanza che ha il fatto storico, che merita d’essere segnalato e mandato ai posteri (…) Ho 
pur creduto di compiere un atto di civiltà facendo apporre sulle rispettive fosse una tabella
segnalante il nome, cognome e la data del decesso di ciascuno. 

I deportati a Ponza furono trattati con molta umanità dalle autorità e soprattutto dal popolo.
(…) I padiglioni che ospitavano i libici (…) erano da considerarsi nel complesso ben areati e
luminosi, dotati di servizi igienici e di rete fognaria. I prigionieri avevano vestiario e pasti caldi
garantiti, bevevano  l’ottima acqua del Serino portata da Napoli esclusivamente per il
mantenimento della Colonia; ricevevano una diaria di 67 centesimi (…) infine avevano a
disposizione l’assistenza medica e l’Ospedale Militare.
(una descrizione completamente opposta rispetto a quella originaria sull’arrivo
nell’isola dei deportati)
Nel 1912, malgrado le discrete condizioni igieniche sanitarie, morirono 13 libici a causa di infezioni
alle vie respiratorie.
Nel 1913 ci fu un solo morto ma nello stesso anno morirono nell’isola 55 bambini su una
popolazione di 4702 abitanti.
La popolazione dell’isola, soprattutto delle zone periferiche, abitava in grotte umide ricavate nel tufo
nel corso dei secoli. Le strade del centro erano scarsamente illuminate (da lampade a petrolio) e la
corrente elettrica era assente. La parte restante dell’isola era completamente al buio.
La rete fognaria era limitata solo al centro urbano mentre in alcune abitazioni erano presenti i pozzi
neri. Moltissime abitazioni erano  prive di servizi igienici. Gli escrementi a cielo aperto erano
presenti ovunque e quindi adatte per le mosche che diffondevano i batteri infetti.
L’acqua piovana era raccolta in apposite cisterne scavate nel tufo e, malgrado fossero ben tenute,
biancheggiate e disinfettate con pietre di calce, erano sempre sporche per la presenza di larve.
Per questo motivo la malattia più diffusa nell’isola era l’elmintiasi da ascaridi, cioè la produzione di
vermi nell’intestino.
I bambini avevano la tigna, e gli occhi malati di tracoma; l’assistenza sanitaria era molto carente, vi
era una sola farmacia e spesso ci si curava con i rimedi, a base di erbe, delle nonne.
Certamente, in queste precarie condizioni di vita, una buona parte della popolazione invidiò la diaria
assegnata ai deportati.
 c’è da domandarsi se l’opera di civilizzazione non andava intrapresa nell’Italia del sud 
piuttosto che in Africa.

Malgrado queste condizioni precarie di vita, non mancò la solidarietà, la comprensione e l’umanità
nei confronti dei libici.
L’ISIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, Ente pubblico non economico posto sotto la
“sorveglianza” del Ministro degli esteri, fondato nel 1995 e sciolto nel 2012)

I rappresentanti dell’ISIAO chiesero al Sindaco di Ponza di poter onorare i libici morti nell’Isola tra
il 1912 e il 1918, erigendo in loro memoria un piccolo monumento.
La giunta comunale, con il sindaco Mario Balzano,  esponente di una coalizione di centrosinistra
(liste civiche),  concesse per la costruzione del monumento l’estremo lembo dello sterrato della
Batteria “Leopoldo”,  una fortificazione dell’Ottocento (1808)..

Ponza - Abbascio 'a Battaria
(Foto dell'archivio fotografico di Giovanni Pacifico)

La Batteria Leopoldo era nella parte bassa del cimitero.

Nel luglio 2003, dopo appena un anno, il monumento, a forma di piramide turrita con gradoni,
fu consacrata (La giunta comunale con il sindaco  Pompeo Porzio, lista civica).
Il monumento recava i nomi in arabo del 36 caduti libici a Ponza. Un monumento rivolto verso la
Mecca in ossequio alla religione islamica.
All’inaugurazione del monumento fu presente anche una delegazione libica giunta a Ponza per
l’importante evento.
Nell’inaugurazione fu assente la popolazione locale. Ancora oggi  la gente si reca al cimitero e non
sa cosa significhi quel monumento in ricordo di chi..
Nel monumento non c’è una targa e le scritte in arabo non sono accompagnate dalle relative
traduzioni in italiano. Nelle scuole il tema, anche sulla storia locale, è assente.
Un messaggio importante, dal grande contenuto umanitario, quello mandato dallo studioso Gino
Usai in merito al monumento ai deportati libici…
sento di dover invitare tutti i ponzesi a tenere in cura questo nostro monumento giù alla Batteria e a
deporvi qualche fiore ogni tanto, quasi a risarcimento del molto male inferto. Un piccolo gesto per
sdebitarsi, anche se le colpe resteranno indelebili nel tempo; sia almeno di monito e di speranza per
un mondo di pace e di solidarietà.

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I Deportati Libici a Favignana



Piscine Romane (San Giovannello) Le suggestive e squadrate piscine naturali che si snodano lungo la litoranea sono in realtà tra le più antiche cave di tufo dell'isola, risalenti a periodi remotissimi, sprofondate per fenomeni di bradisismo nel corso dei secoli.

Molti libici accusati di aver combattuto contro gli italiani o di aver appoggiato la resistenza libica al
colonialismo italiano, furono deportati anche nell’isola di Favignana.
Tra gli sfortunati deportati anche un poeta libico che narrò in versi quei terribili anni di prigionia
nell’isola. Un vero e proprio dossier dove citò persone, capi tribù, luoghi. Un poema  raro perché
prese gli aspetti inquietanti di tragica testimonianza storica.
I suoi componimenti furono raccolti in un libro pubblicato nel 2024..

ديوان الشاعر المجاهد فضيل حسين الشلمانيشاعر معتقل فافنيانا
Poeta dei Mujahid Poeta Fadeel Hussein Al-Shalmani:
Un poeta in prigione, Fafniana (Favignana)
 
ه أحد أخرى إذ اسم إشارة إلى إلا الإبل الاحتلال الأخ الأرض الإيطالية البطنان البيت التي التي كان الحصان الدنيا الذي الذين الرجال الرعيض الزروق الشاعر العامية العدو الفرس القصيدة الله اللي المجاهدين المرحوم المعتقل المعتقلين المفردة الملحق رقم إلى إلى الوطن إلى إيطاليا إليه اليوم أن انظر أنه أنها أولئك أي أيضا إيطاليا بالسجن برقة بعد بعض بمعنى بنغازي به بها بيت بين تعبير تقول تلك ثم جزيرة فافنيانا جمع حسن حسين حوالي حياته حيث حين ذلك رواية سلوق سنة سنوات طبرق طلميثة عاد عام على عليه عليها عليهم عمر المختار عنه غير فرع فوق فيه فيها قبل قبيلة قد قمينس كانت كانوا كل كما كناية عن لا لم لنا له لو ليبيا ما محمد مدينة بنغازي معتقل منطقة منه منها نفسه هذه هم هنا هو هي والتعبير والمقصود وان وفي وقد وكان ولا ولد وما ومن وهو وهي ويقصد يا يرجح يعود يقصد يكون يوم يونس

Il poeta vide le torture e le umiliazioni subite da uomini che erano dei valorosi e giusti capi tribù.
Era un umile agricoltore nato nel 1877 ad Al Murassas, nel distretto di Tobruk. All’inizio
dell’invasione italiana nel 1911, si unì alla resistenza e fu coinvolto in tutte le battaglie che si
svolsero a Tobruk. Negli anni successivi andò a Qaminis e qui visse per un po’ prima di essere
arrestato.
Il cognato era  Nueiji al Shalmani, uno dei leader della resistenza libica.
Il cognato scrisse una lettera al poeta in cui lo sollecitava
A passare per Qaminis.
La lettera fu affidata ad un messaggero che non conosceva né il mittente (personalmente), né il
destinatario e neanche il contenuto.
Al posto di blocco, all’ingresso della città, dei soldati italiani, il messaggero fu fermato e  perquisito.
I soldati gli trovarono la lettera. La fecero tradurre e scoprirono che conteneva importanti
informazioni sul movimento di resistenza e una richiesta di rifornimenti.
Il messaggero e il poeta furono arrestati.
Nella cella iniziò a scrivere i suoi drammatici momenti di vita in dialetto libico ricco di rime e di
metriche musicali
Una tradizione difficile corredata da importanti immagini.
Sulla prima notte trascorsa in cella scrisse…
Insonne, la mia mente è confusa e il mio cuore trema, mi sento le viscere ridotte in poltiglia. Qui non
ho altri compagni di cella a parte uno, legato a me con una catena, che non smette mai di piangere.
Sono in un buco stretto, le pareti mi schiacciano e ogni sera mi tirano su con le mie catene di ferro.
Poi mi scaraventano giù come uno straccio. 
Non possiedo più il mio domani, non è più alla mia portata.

Il poeta chiese al suo compagno di cella, Sharaf Aldeen el Orfey, di raccontargli la sua storia…
Fui arrestato a causa di una lettera.
Uno sconosciuto mi chiese di portarla a Fadil al Shalmani, che di fatto non conoscevo.
Ero in viaggio per comprare provviste per la mia festa di matrimonio.
Il poeta gli rispose…
La lettera era indirizzata a me…
I due litigarono e alla fine il diverbio fu superato.
Alla fine entrambi si trovarono d’accordo sul piano morale….
Questo è il nostro destino e il volere di Dio è inevitabile.
 Il numero di detenuti nella cella cresceva, e tutti di notte erano legati alla stessa catena di notte. Tre
mesi dopo tutti furono processati sommariamente e condannati a pene comprese tra i dieci e i
venticinque anni di carcere, che avrebbero dovuto scontare in Italia.
Temevano il trasferimento molto più del carcere stesso.
Il poeta ricordò a se stesso e ai suoi compagni di cella che
la vita è questa, un’oscillazione costante tra gioia e dolore, e forse quel destino non era peggiore di ciò che avevano già visto, o di ciò che dovevano ancora vedere.
Poi disse della vita:
La vita è così, sin dall’antichità. Strappa le persone le une dalle altre. Sembra sorriderti per un po’,
ma alla fine ti volta le spalle. Non ha mai avuto pietà del povero che non possiede nulla e non ha
nessuno. Non ha mai avuto pietà di un bambino indifeso a cui rubava il padre e che abbandonava al
suo destino. Continua a girare come un vento spietato, e proprio quando dici ‘Ecco una cosa dolce’,
l’amarezza già ti serra la gola. Quanti giovani amanti ha colto di sorpresa, nonostante i loro
tentativi
e i loro sforzi infiniti. Quante ragazze felici, agghindate con i loro gioielli più preziosi e i loro abiti
più belli, sono diventate simili a una terra bruciata, con tutti i giorni di tristezza con cui la vita le ha
inondate. Quanti nobili comandanti al culmine della loro gloria dalla sera alla mattina vengono
cancellati e spariscono senza che di loro resti nulla a parte il ricordo e un sussurro che passa di
bocca in bocca: qui una volta c’era un padrone.
Nonostante ciò dio è generoso, dona senza limiti, ha già calcolato i nostri giorni, tutto è già scritto e
deciso. Possa egli mandare un disastro su questa terra corrotta e un cannone, roboante e adirato
come il tuono, non smetta mai di fare fuoco finché non saranno spazzati via gli italiani con i loro
seguaci, che con le loro campagne ci stanno sterminando. Possa dio confermare le mie parole con
dei segni, ed eliminare per sempre il loro dominio sulla nostra patria.

Soldati italiani scortano un gruppo di prigionieri a Tripoli, in Libia, novembre 1911.
(Biblioteca ambrosiana/De Agostini/Getty Images)

Giunse il giorno della partenza, la sirena della nave risuonò e i detenuti furono radunati e messi in
fila, pronti per salire a bordo. Il poeta descrisse quel momento in cui stava in piedi sul molo tra file
di volti tristi. La sirena della nave gli sembrò un urlo che lo metteva in guardia da quel viaggio
minaccioso. Parlò della nave come se fosse una creatura vivente….
La loro nave ha urlato, mi sta avvertendo, ha intenzione di portarci via dalla terra dei nostri padri.
Ci hanno gettati lì dentro, mentre lei raccoglieva le ancore e si preparava a partire. È avanzata
come la notte che prende il sopravvento sul giorno, determinata a portarci via, senza alcuna
esitazione, senza ripensare alle sue azioni, è andata avanti. Poco dopo non vedevo altro che cielo e
acqua, un pesce che saltava e alti marosi. I figli dei nobili soffrivano il mal di mare, erano testimoni
di una nuova era che non avevano mai vissuto prima.

Molti detenuti non erano mai saliti su una nave e soffrivano il mal di mare.
La nave arrivò a Siracusa e il poeta, un semplice agricoltore, fraintese quei momenti di ospitalità
ricevuti nella città.
Infatti nei suoi versi parlò dell’ospitalità della gente generosa di Siracusa ma in realtà ciò che
descrisse erano le procedure di accoglienza per i nuovi detenuti, a partire dal momento in cui li
lavarono e lavarono i loro abiti fino al trasferimento alla destinazione finale.
Con educazione rese onore  a chi lo ospitava ed essere grato dell’ospitalità ricevuta.
Arrivammo a Siracusa, il cui popolo è gentile e generoso. È importante apprezzare le buone azioni,
anche se vengono dal nemico. Al nostro arrivo ci hanno lavati e hanno lavato perfino i nostri vestiti
con il vapore. Uno di loro ci ha mostrato i nostri letti e ci hanno fatto sedere per mangiare. 
Davanti a noi file di piatti, ognuno aveva il suo, nessuno condivideva il cibo con gli altri.
La mattina dopo lasciarono Siracusa di buon’ora per andare alla stazione ferroviaria. Anche questa
era un’esperienza nuova per loro, prima di allora non solo non erano mai saliti su un treno, non ne
avevano mai visto uno. Nonostante la sua situazione, prevalse nel poeta il fascino per il treno e per
la bellezza della natura e del paesaggio:
Siamo partiti prima dell’alba, legati in gruppo come bestie da allevamento. Ci hanno fatto salire su
un vascello, il treno, costruito da un cristiano. 
Che cosa meravigliosa! Non avevamo mai visto niente
del genere prima di allora. Era splendido a vedersi, faceva un rumore simile 
al ruggito del tuono e si
muoveva sulle ruote come un tamburino che fa rullare il suo tamburo. 
Ha attraversato molti villaggi, un’opera meravigliosa, chiunque l’abbia realizzata è degno 
della più grande ammirazione. 
In alcuni villaggi c’erano agricoltori con il capo scoperto, e tutti ci correvano 
incontro quando ci vedevano, ci attaccavano come se fossero iene imbattutesi in un asino.
(Immaginò che si trattasse di agricoltori visto che non si coprivano il capo, poiché per lavorare nei
campi non ci si veste bene. Le persone che li picchiavano in ogni stazione forse avevano perso
qualcuno nelle battaglie in Libia).
C’erano alte montagne che sembravano sfiorare le nuvole. Le vedevo, strato su strato. Il treno
correva e continuava a urlare come fa un cavaliere durante una razzia. Continuava ad aumentare la
distanza tra me e i miei cari, ma avrò pazienza, sono in grado di resistere. Faccio appello alla
generosità dell’onnipotente, creatore di tutte le creature, lo imploro, per amore del suo profeta, di
farci tornare a casa.
In carcere, nei suoi componimenti successivi il poeta assistette alle torture e alle umiliazioni subite
da uomini che un tempo erano capitribù. Descrisse quei cavalieri in patria, il loro eroismo e il
coraggio in battaglia, e paragonò quelle immagini alle condizioni in cui si trovavano in quel
momento, sottomessi e indifesi. Una delle umiliazioni a cui furono sottoposti era la rasatura della
barba agli sceicchi. Pur essendo anche lui un prigioniero sottoposto alle stesse pratiche umilianti, le
loro sofferenze lo addoloravano più di quelle patite in prima persona. Era doloroso vedere uomini
buoni trattati a quel modo. Avevano vissuto con orgoglio, avevano affrontato le truppe italiane in
molte feroci battaglie ed eravamo riusciti a infliggergli pesanti sconfitte, ma alla fine la potenza delle
armi italiane aveva avuto la meglio.
I giorni trascorrevano lentamente e pieni di dolore. Ogni mattina li mettevano in riga per la conta e
poi, come si fa con gli schiavi, sceglievano i più forti per costringerli a lavorare. Il corpo del poeta
era in carcere, ma la sua anima e il suo cuore continuavano a viaggiare per tornare a casa. In un altro
componimento, si rivolse a un uccello:
Oh uccello che voli e vaghi nel cielo, a cui dio ha concesso due ali, avvicinati così potrò raccontarti
quello che mi è successo. Io qui sono uno straniero, e tu sei un viaggiatore. Oh fratello ti imploro,
vola fino alla nostra patria, porta i miei saluti, che la pace sia con loro, ai forti cavalieri, i protettori
delle mandrie nel giorno della battaglia. Porta i miei saluti agli anziani, ai giovani e a chiunque sia
loro vicino. Che la pace sia con i vicini dei loro vicini e con chiunque si trovi a portata d’orecchio, e
con qualsiasi straniero dovesse di notte intravedere il fuoco del loro accampamento. Porta i miei
saluti, che la pace sia con la nostra patria, tutta intera, senza escludere nessuno, nemmeno i cani e i
lupi nelle valli. Se dovessero chiedere di me, io sono stremato, il mio cuore è tormentato,
ossessionato dal loro ricordo. Da quando non sto più con loro non ho più conosciuto la felicità e le
mie gambe non hanno mai camminato. Sono in un buco, sette livelli sotto terra, è buio qui e il sole
non si vede.
Poi proseguì dando notizie di alcuni dei suoi compagni di prigionia, alcuni ancora vivi e altri già
morti. Documentò la presenza di detenuti elencandone i nomi completi, quelli delle loro tribù di
appartenenza e delle loro famiglie. Pregò Dio di mettere fine alla loro tragedia. Nonostante la
disperazione più nera, confidò nel fatto che in un modo o nell’altro la salvezza sarebbe arrivata,
magari con un’amnistia generale che avrebbe incluso tutti loro. Alzo al cielo un desiderio:
Quando morirò, vorrei stare in un posto da cui poter sentire le preghiere.
Con il passare degli anni l’angoscia e la rabbia gli riempirono il cuore, e a questi sentimenti dedicò
un intero poema. Maledisse Favignana, chiedendo a dio
di riversare sull’isola tutta la sua vendetta e di cancellarla dalla faccia della terra, perché il suo popolo non aveva pietà né bontà.
Concentrò il racconto su un ufficiale italiano, forse uno dei carcerieri, che continuò a prendersi gioco
del poeta offrendogli alcol invece di acqua. Lo stesso ufficiale radunò di continuo i detenuti
costringendoli a stare in piedi davanti a lui. Con una penna dietro l’orecchio e i documenti in
mano, lui si prendeva gioco di loro elencando punizioni per infrazioni che non avevano commesso e
punendoli, nonostante loro negassero con forza, per il solo gusto di farlo. Descrisse inoltre il cibo
disgustoso che veniva servito loro, piccole quantità di pasta, pane duro come pietra e pochissima
acqua. Dopo sette anni trascorsi nella prigione di Favignana il re proclamò un’amnistia generale.
Insieme a quelli che erano rimasti in vita il poeta fece ritorno a casa, 
alla sua famiglia e alla sua fattoria. 

Nel 1929, quando le autorità italiane cominciarono a deportare il popolo della Cirenaica nei campi di
concentramento, il poeta, la sua famiglia e tutta la sua tribù furono deportati nel campo di
concentramento di El Magrun. Per caso sua moglie era andata a trovare la sua famiglia di origine,
che viveva in un’altra zona, perciò lei fu deportata nel campo di concentramento di El Agheila.
Cercò di scappare con il fratello, ma le guardie li presero e li uccisero.
Il poeta sopravvisse a tutto questo e morì nel suo letto, all’alba del 21 dicembre 1951, proprio
mentre riecheggiava la chiamata alla preghiera, a tre giorni di distanza dal primo anniversario
dell’indipendenza libica.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Un anno dopo la fine del conflitto con la Turchia – che, firmando il Trattatao di Losanna del 18
ottobre 1912, lasciò all’Italia i Vilayet della Tripolitania e della Cirenaica, nonché le isole egee
del Dodecaneso -, il Re affermò che 
                                                 quella italiana in Libia era una missione di civiltà.
                      Compito dell’Italia era insegnare i benefici della civiltà alle popolazioni indigene e                nel farlo, rispettare le loro proprietà, le loro famiglie, le loro tradizioni e la loro cultura. 

I libici giustamente continuarono a non apprezzare tali «benefici della civiltà», visto che
implicavano una sottomissione a chi, lungi dall’agire come un liberatore, ogni giorno dispiegava una
dominazione assai più spietata e oppressiva di quella turca. 
Nel gennaio 1913 l’Italia istituì due distinti governi:
-        Uno per la Tripolitania affidato al generale Ottavio Ragni;
-        Uno per la Cirenaica guidato dal generale Ottavio Briccola.

La Tripolitania era controllata dal Regio Esercito sotto la guida, dall’ottobre 1913, del governatore
Giovanni Ameglio mentre la Cirenaica era sotto il controllo dei gruppi arabi turchi.
All'interno dell'attuale Libia, principalmente nel Fezzan, la guerriglia indigena continuò per anni,
approfittando dell'impegno italiano nella prima guerra mondiale e in particolare le zone interne d
fatto non furono sotto controllo italiano. Infatti i governatori ridussero la dislocazione dei presidi sul
territorio, procedendo allo sgombero di quelli più avanzati, all'interno della regione. Nell'ottobre
1918 le ostilità con l'Impero Ottomano cessarono e questi lasciarono nelle loro basi armi e
munizioni, che furono prese dai capi delle tribù arabe.


Nel frattempo durante il Governo Facta I e II, la Francia e la Gran Bretagna cedettero alla
sovranità italiana alcuni territori desertici (così da rendere i confini più lineari), nel tentativo di
placare le polemiche di Roma sulla presunta "vittoria mutilata", e definendo i confini con la Tunisia
da un lato e l'Egitto dall'altro. Solo nel 1923 la Turchia riconobbe la piena sovranità italiana.
L'espressione vittoria mutilata fu coniata nel 1918 da Gabriele D'Annunzio e adottata da nazionalisti
e da una parte degli irredentisti per denunciare la mancanza di tutti i compensi territoriali che
ritenevano spettassero all'Italia dopo la prima guerra mondiale a seguito del Patto di Londra e dei
termini dell'armistizio di Villa Giusti con l'Austria-Ungheria.
A partire dal gennaio 1922 il governo Facta, tramite il suo ministro per le colonie Giovanni
Amendola, avviò un'ampia campagna militare che portò in breve alla riconquista di Misurata. 

Giovanni Amendola
Quando la gestione della questione libica passò nelle mani del governo presieduto da Benito 
Mussolini (31 ottobre 1922), questi decise di procedere con ancor più spietata decisione, rispetto a
suoi predecessori, per la  riconquista dell’intera Libia. Nel dicembre del 1914 la Libia era stata in
gran parte liberata dall’invasore italiano, costretto dai “ribelli” ad abbandonare le zone interne e a
ritirarsi sulla costa. Iniziò una nuova fase, lunga un decennio, di inedite e vergognose atrocità. Tra
queste, non mancarono fucilazioni, deportazioni e marce forzate, di oltre 1.000 chilometri attraverso
il deserto, verso campi di concentramento impostati e gestiti con il preciso scopo di far morire di
fame e dove i maltrattamenti e le malattie decimarono migliaia di deportati.
Mussolini  era a conoscenza della vitale importanza della posizione dell’Italia nel Mediterraneo.
Una posizione strategia, al momento molto fragile, importante sia dal punto di vista commerciale
che militare.
Giuseppe Volpi di Misurata (nobile, imprenditore e politico aderente al fascismo) dichiarò ..
Ricordo con emozione il primo incontro che, governatore della Tripolitania, ebbi con lui alla
Consulta, tre giorni dopo la marcia su Roma. Il suo pensiero  era già chiaro. Occorreva
innanzitutto  riconquistare la Libia e dare conveniente assetto alle vecchie 
nostre colonie dell’Africa orientale.
Nel ricordare la decisione del Duce di portare avanti la riconquista della Libia, senza più un attimo
di indugio, Volpi si chiese..
Qual è stata, in Africa, la linea inaugurata da Benito Mussolini?
È stata quella che noi coloniali siamo soliti chiamare “politica di prestigio”.
Con tale espressione va intesa quell’azione di governo che dia alle popolazioni soggette – chiara ed
inequivocabile non solo la sensazione della nostra superiorità militare….…. ma anche e soprattutto
una superiorità morale che ci deriva dal valore e dalla Forza delle nostre tradizioni storiche e dalla
grandezza del compito di civiltà che da secoli l’Italia ha assolto”.

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Gli Ebrei di Libia

Nel tempo importanti e consistenti comunità ebraiche si insediarono e svilupparono a Tripoli,
Bengasi e regioni vicine, i cui membri erano dediti ad importanti attività artigianali, commerciali e
finanziarie. La presenza ebraica in Libia fu in seguito ampliata dall’arrivo di correligionari
provenienti da varie nazioni europee, che portarono alla presenza in Tripolitania, a inizio Novecento,
di ebrei inglesi, olandesi, austriaci e italiani, provenienti questi ultimi soprattutto da Livorno.
Gli ebrei erano presenti in Libia da oltre 2000 anni. Molti di loro sostennero l’intervento dell’Italia e
contribuirono allo sforzo bellico. Questo aspetto di sostegno all’Italia e al cambio di regime dalla
dominazione turca, sarebbe legato  ai forti rapporti commerciali e culturali con gli italiani.
Un altro aspetto sarebbe legato ai frequenti pogrom di cui soffrivano gli ebrei per mano dei loro
vicini musulmani.
L'ondata di antisemitismo che si diffuse nell'impero ottomano durante la metà del XIX secolo non
colpì gli ebrei della Libia, ma l'autonomia che ricevettero dall'impero non impedì il ripetersi di casi
di pogrom.

A seguito dell’occupazione italiana, iniziata nel 1911, i rapporti tra le comunità ebraiche locali e
l’amministrazione coloniale rimasero in generale abbastanza buone, data anche l’importanza
fondamentale assunta dagli ebrei nella economia della Libia, mentre gravi tensioni caratterizzarono
invece i rapporti italiani con la popolazione araba, resasi protagonista di coraggiose, e inizialmente
vittoriose, ribellioni. Nel 1931 un censimento della popolazione ebraica in Libia individuava circa
25.000 presenze complessive, di cui oltre 15.000 a Tripoli, e 5.000 nella restante Tripolitania.
Nel 1934 Italo Balbo fu nominato governatore generale della Libia italiana. Sviluppò la "colonia
italiana" e, come molti altri fascisti, la vide come il simbolo del ritorno dell'Italia alla grandezza
dell'Impero Romano. Durante il suo mandato, accelerò il processo di modernizzazione delle
comunità ebraiche e gli ebrei entrarono a far parte attivamente delle istituzioni governative. 
Balbo rispettò la tradizione ebraica fino a quando non impedì il progresso che aveva già portato in
passato in Libia.
Un caso di conflitto si verificò quando gli ebrei chiusero i loro negozi di sabato, anche al di fuori
della comunità ebraica. Balbo condannò gli ebrei alla fustigazione, ma più tardi, nell'ottobre del
1937, ammise a un raduno del Partito Fascista 
Mi sono sbagliato e non faccio distinzione tra cattolici ed ebrei: sono tutti italiani
Una frase veritiera dato che Balbo si schierò sempre contro le leggi razziali.
Fu infatti l’unico a votare, non a porte chiuse ma in modo palese, contro le leggi razziali del 1938. E
quando furono promulgate, rifiutò di licenziare i suoi collaboratori ebrei, continuando a ostentare
frequentazioni con persone del mondo ebraico. Aveva una grande popolarità in Libia che gli permise di
creare una solida base di potere. Questo aspetto diede fastidio sia a Mussolini che ai gerarchi fascisti di
Roma tanto che incominciarono a sospettare che pensasse alla secessione della colonia per sfidare il duce.
Una volta, volendo entrare con un amico ebreo in un ristorante dove era esposto il cartello "Ingresso
vietato agli ebrei", sfondò la porta con un calcio.
Secessione della Libia? Erano solo voci di corridoio…
Tobruk, giugno 1940: i militari italiani abbattono per sbaglio due aerei.
Su uno di essi si trova il noto gerarca fascista Italo Balbo.
Un incidente..un errore o forse un complotto?
Furono scritti molti articoli e libri sull”Ultimo volo di Balbo”
La ricostruzione dei fatti….

Il 28 giugno 1940, alle 17:30, due aerei si avvicinarono a Tobruk, in Libia,
all'epoca colonia italiana.
Da una ventina di giorni Mussolini aveva dichiarato guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia schierandosi a fianco di Adolf Hitler.
Subito dopo la dichiarazione di guerra, gli inglesi iniziarono a bombardare, sia pure sporadicamente, la Libia.
Sempre il 28 giugno il porto e l’aeroporto di Toburk erano stati bombardati dagli inglesi senza arrecare danni rilevanti. Alle 17,30 le sirene, a circa due ore dalla fine del raid inglese,  le sirene non avevano ancora suonato il cessato allarme.
Nel cielo comparvero due sagome di aerei… avevano il sole alle spalle e non furono identificati.
Tutte le batterie italiane, da terra e dal mare, si misero a sparare contro i due aerei: i cannoni dell'esercito, quelli della milizia fascista, quelli dell'incrociatore San Giorgio all'àncora in porto, e persino le mitragliatrici di un misterioso sommergibile, la cui presenza, proprio sulla rotta di quei due aerei, fu confermata soltanto 60 anni dopo.
Gli aerei erano italiani e la contraerea italiana sparava su di loro….
Aerei che non era difficile da riconoscere dato che si trattava di due trimotori
Savoia-Marchetti S.M.-79, un modello arcinoto a tutti i militari,
con una evidentissima "gobba" sulla fusoliera.
Da terra alcuni addetti alle postazioni si accorsero dell'errore,
smisero di sparare e cercarono di informare gli altri.
Ma alcuni militari continuarono a fare fuoco anche mentre i due aerei stavano
iniziando le manovre di atterraggio. I due aerei erano ormai vicini e facilmente
identificabili… perché si continuò  a fare fuoco contro di essi?
Uno dei due aerei riuscì ad atterrare mentre l’altro precipitò  in fiamme..
Nessuno degli uomini a bordo si salvò.
Ai comandi dell’aereo abbattuto c’era Italo Balbo, uno dei più importanti gerarchi
fascisti e governatore della Libia. Uno tra i pochi che si era opposto all’alleanza
con Hitler e all’entrata in guerra dell’Italia.
la moglie del Balbo fu informata dell’accaduto e urlò..
"Me l'hanno ammazzato! Mussolini lo ha fatto uccidere!".
Stranamente gran parte degli Italiani ebbero lo stesso pensiero.
Sull'aereo volavano altri otto uomini, collaboratori di Balbo, che lasciarono vedove e orfani. Fra questi c'era un bambino di 10 anni, destinato a diventare un famoso documentarista, giornalista e scrittore: Folco Quilici (scomparso nel 2018), che successivamente  avrebbe indagato sull'accaduto senza scoprire le realtà..
Gli studiosi in gran parte fece propria la tesi della fatalità, dell’errore.
Mancarono le prove.. scritte… ma l’ordine di ucciderlo venne da Mussolini.
Il Balco era l’unico che fosse in grado di affrontare Mussolini a viso aperto..
ci fu anche chi sentì i due gridare l'uno contro l'altro, dietro le porte chiuse.

11 29 giugno del 1440. diciannovesimo giorno di guerra,
il bollettino del Comando Supremo annunciava che
 Italo Batto ora caduto sul "campo dell’onore" al ritorno
da una missione bellica sul territorio egiziano.
I particolari dell'incidente non venivano forniti per ovvie ragioni di segretezza. ma la mancanza di spiegazioni plausibili non mancarono i sospetti.  
"La strana morte del maresciallo dell'aria è ormai sulla bocca di tutti. Le voci che il suo aereo sia stato abbattuto per ordine di Roma si intensificano a tal punto che la polizia non fa in tempo ad accoglierle tutte. Mussolini è nervoso (idea che si possa pensare che sia stato lui a liquidare il famoso gerarca gli provoca attacchi di ulcera. La situazione peggiora quando gli comunicano che anche i familiari di Balbo sostengono quella versione o che la vedova, contessa Florio, dice a tutti coloro che vanno a farlo visita che "e. stato Lui ad ucciderle il marito".
D'altra parte. era nota la rivalità esistente fra Mussolini e l'eroico transvolatore e. di conseguenza. non mancò di prendere subito piede l'ipotesi del sabotaggio. La voce che fosse stato Mussolini a organizzare la liquidazione del pericoloso concorrente dilagò dai salotti-bene della capitale all’ultimo bar di periferia.
(LA CONGIURA DELLE BARBETTE alcuni la conoscevano ed anche Mariti...J0SE' )
 Ma sembra che dell'incidente Mussolini non ne avesse colpa.
" La prova è tuttora conservata fra lo carte del suo archivio. Si tratta della relazione riservata sull'incidente che il Duce in persona chiese al generalo di brigata aerea Egitto Perino.
La relazione porta la data del t. luglio 1940 (due giorni dopo l’incidente). Ma per ignote ragioni, non fu mai resa pubblica. (Forse Mussolini temeva gli immancabili ironici commenti sul fatto che i nostri artiglieri facevano "centro" solo quando tiravano sui nostri aerei). E di conseguenza il mistero rimase inviolato.' (Arrigo Petacco. Il Resto del Carino. 26 agos2o 1997)
Com'era avvenuto l'incidente: Il 28 giugno 1940, dopo aver compiuto un volo di missione assieme ad un altro trimotore, Balbo era giunto nei pressi Tobruk mentre sull'aeroporto -dice la relazione-stavano cadendo delle bombe sganciare da bombardieri inglesi in volo ad alta quota.
(Gli aerei inglesi quel giorno erano tre Bristol Blenheim che per bombardare volavano a 2000 metri di quota (nessun bombardiere che a pieno carico e lento, vota al di sotto di tale quota e proprio per evitare una semplice artiglieria) mentre la S'oda (che non Q un'antiaerea) con i suoi proiettili da 20 men raggiungo a malapena (con qualche effetto) i 1000.1500 metri: «a quindi un'arma quasi innocua per i bombardieri che volavano a 20004000 metri. 
Si sprecavano solo proiettili!!.)
Quasi sulla verticale dell’aeroporto fummo investiti da una centratissima salva d'artiglieria' sparavano le batterie costiere e quelle dell'incrociatore San Giorgio incagliato nella baia. Mentre l'artiglieria italiana sul campo all’apparire dei nostri velivoli li scambiò
 per aerei nemici e aprì il fuoco."
I due aerei di Balbo e compagni stavano per atterrare: e bombardieri nemici (è appena stato detto che volavano ad alta quota) che atterrano in un campo nemico è 
cosa piuttosto improbabile)
"Noi del primo aereo riuscimmo  a deviare verso il mare, mentre quello di Balbo verso terra .
Lo vedemmo scivolare su un'ala e quindi precipitare al suolo dove, dopo l’urto, si incendiava.
Sul posto fu constatato più tardi che l'apparecchio era sfato centrato da un proiettile dell'artiglieria". E' provato che la Marina sparo 280 colpi di cannone e anche i sommergibili lanciarono proiettili (relazione di Perino).
Con Bulbo more anche un famoso giornalista, Nello Quilici. Un grande reporter che aveva saputo conservare un'invidiabile margine di libertà. Capace di prendere posizioni contro certe decisioni del regime che valsero a Quilici i rimbrotti vivaci del ministero della Cultura Popolare.
Balbo nel 1925 aveva fondato a Ferrara il Correre Padano e aveva chiamato Nello Quilici a dirigerlo. E fu poi Balbo - il giorno dopo l'inizio dello ostilità -  a chiamarlo
a Tripoli il 12 giugno 1940.

Dopo 57 anni sappiamo dal protagonista cosa avvenne quel famoso giorno. Il redivivo responsabile
dell'abbattimento diede proprio lui l'ordine di sparare. Così racconta il capopezzo Claudio Marzola,
del 202 Reggimento artiglieria, pure lui di Ferrara come Balbo.
"Macché ordine di esecuzione, quale congiura, quel giorno in batteria non c'era nemmeno un
ufficiale, io avevo vent'anni, ed ero un ragazzino spaventato dalla guerra. Era dall'alba che stavamo
subendo incursioni di bombardieri inglesi. Incalzavano e solcavano il cielo ogni quarto d'ora.
Abbiamo visto due aerei sulla stessa rotta utilizzata dai nemici, si vedevano male nè c'erano segni di
riconoscimento e abbiamo aperto il fuoco. Diedi io l'ordine di sparare a raffica con le nostre tre
mitragliatrici Breda con proiettili da 20 mm traccianti, esplosivi e perforanti. I primi colpi ci
diedero la certezza che ne avevamo colpito uno, e quando si avvicinò lasciando una Scia di fumo
solo allora riconobbi la sagoma del SM 79.
 Era spacciato, ci passo sopra e subito dopo cadde poco lontano incendiandosi.
Quando recuperammo qualche giaccone, riconoscendolo scoprimmo che avevamo ucciso Balbo.
Fu una tragedia. L'omicidio di regime? Una stupidaggine, una vera sciocchezza.
(Intervista-servizio di Mario Fornasari sul Resto del Cereo del 26 agosto 1997).
Su 'Il Messaggero di Sant'Antonio”, dell’ agosto 1995 troviamo questa testimonianza.
"Il signor Nunzio Russo racconta con dovizia di particolari le vicende di suo nonno materno,
SALVO MESSINA, siciliano, tenente artigliere del Regio esercito italiano, mandato in Africa nel
maggio del 1949. II racconto del signor Salvo prende le mosse dal momento dell'imbarco per
Tripoli. Arrivato a Tripoli viene assegnato al XXI corpo d'armata del generale Dalmazzo presso la
Divisione di artiglieria Cirene e viene trasferito a Tobruk. Questo l'episodio che Salvo ricorda: "Il
10 giugno 1940, entrammo in guerra contro (Impero britannico e la Francia. La situazione militare
non era certo favorevole, Italo Balbo sino all'ultimo aveva tentato di convincere il Duce a non
dichiarare la guerra. Ci trovavamo un pomeriggio sulle alture attorno la piazzaforte, era il 28
giugno, eravamo in guerra da appena diciotto giorni e, a un tratto. un aereo proveniente da ovest
sbucò all'orizzonte e prese a sorvolare la città e la baia del porto.
In rada stava ormeggiato l'incrociatore San Giorgio che aprì subito un micidiale fuoco di
contraerea. L'aereo dopo pochi secondi, crivellato di colpi, precipito dietro le nostre postazioni.
Tutti insieme, i presenti, battemmo a lungo le mani, avevamo assistito alla prima azione di guerra
della nostra vita. Poi si seppe che l'aereo abbattuto era un ricognitore italiano (SM 79 non era un
ricognitore ma un bombardiere ) non riconosciuto dalla nostra contraerea e che, a bordo, viaggiava
il comandante dell'Armata d'Africa e maresciallo dell'aria Italo Balbo.
A lungo si parlò di questo incidente fra le truppe: popolare era la figura di Balbo, e piuttosto nota la
sua avversione alla guerra contro gli inglesi e la sua devozione alla principessa di Piemonte Maria
Josè, fiera avversaria delta politica di Mussolini.
Ma tutte le supposizioni sul complotto non si sono placate, allora e a distanza di anni. Si basano su
un non rintracciabile ufficiale della San Giorgio che raccontò durante un interrogatorio in Svizzera.
di aver ricevuto l'ordine di far fuoco su quel velivolo malgrado fosse italiano. Vennero poi alla luce
svariate ricostruzioni, storie strane. leggende. A sparare fu proprio l'incrociatore San Giorgio,
sostennero in molti (del resto 1a Relazione di Perino a Mussolini, citata  sopra) parla effettivamente
di 280 colpi sparati). Folco Quilici, il figlio di Lello saputa la confessione di Marzola ha così
commentato "Ora so. ma non mi basta. Errore clamoroso e stupido" "Marzola spero di non
incontrarlo mai.  Balbo. mio padre e gli altri furono abbattuti erroneamente da una mitraglietta
quasi innocua. Marzola non poteva non conoscere la sagoma del trimotore era unica e
inconfondibile". Folco Quilici si basa sulle confidenze ricevute da un marinaio della San Giorgio,
testimone oculare dell'episodio (diversi studenti dell'Università dove insegnava proprio Lello Quilici
si erano arruolati sul fronte africano od erano proprio sull'incrociatore San Giorgio).  
 
(Nella dichiarazione di Marzola c'è dell’incredibile. "Ogni quarto d'ora ci volavano addosso". 
Eppure in batteria dice "non c'era nessun ufficiale presente": ma solo uno spaurito ventenne 
capopezzo a dare ordini. Ed era appena iniziata la seconda guerra mondiale!.

L’annotazione di Galeazzo Ciano su Italo Balbo..
Ingegno scarso, grande ambizione, assoluta infedeltà, capace di tutto: ecco Balbo.
Conviene tenerlo d'occhio'.  Perché  Balbo non perde occasione di criticare Mussolini.
Quando lo informai del Patto d'Acciaio con Hitler, Balbo quasi infuriato mi disse..
'finirete tutti a fare il lustrascarpe dei tedeschi", mi ha sbattuto la porta in faccia.
Quando si parlò di dichiarazione di guerra accanto a Hitler. corse a Roma a dissuadere Mussolini;
ma fu inutile: se ne ritornò in Africa arrabbiato.

La principessa Maria Josè andava spesso a trovarlo in Libia suscitando anche qualche pettegolezzo
(episodi che danno forza alla 'congiura delle barbette"). Balbo suddito fedele alla monarchia
corteggia la principessa e lusinga il debole principe ereditario:
"Un giorno, confida agli intimi, Umberto sarà re ed io il suo primo ministro..."(Arngo Petacco.
26/8/97 – Il Resto del Carlino). Che avesse l’ambizione di succedere a Mussolini. questo tutti lo
sapevano, compreso Ciano (il delfino e genero di Mussolini). 

Il merito alla morte di Italo Balbo, ci fu una lettera inviata da Rommel alla vedova…
" Ribbentrop mi augura buon viaggio e torna a portarmi di Ciano ed Attolico entrambi antitedeschi.
Egli critica la leggerezza di Ciano ed i pettegolezzi che egli ha tatto in Germania con signore anche
poco conosciute. Mi racconta che ha criticato Farinacci e Buffarini in pubblico Ira tedeschi, e che
ha scherzato con compiacimento sulla morte di Bulbo". (vedi Diario di Rommel) 

 Quanto a Mussolini. ecco cosa scrisse Badoglio in "Memorie e documenti" in l’Italia nella seconda
guerra mondiale"  1a ed. Mondadori, 1946. pag. 48
"Ero con lui in Piemonte quando ci giunse un radiogramma che ci annunziava che Balbo era morto
in un incidente di volo. Mussolini accolse la notizia senza dimostrare il minimo turbamento. Forse
la scomparsa dell'unico gerarca che osasse tenergli testa non gli era del tutto sgradita Ad ogni
modo non disse una parola e mi domandò solo chi potevamo destinare a succedergli"
Quanto ai pettegolezzi, sempre Badoglio sullo stesso libro (pag. 35) confermando ciò che scriveva
Rornmel: "Era ormai noto a tutti che nessun segreto rimaneva a lungo tale in Roma, ove gerarchi e,
specialmente. mogli ed amanti di gerarchi, si facevano vanto di diffondere ogni notizia.

L’autore della ricerca riportò alcuni dettagli tecnici sull’abbattimento dell’aereo SM79 di Italo
Balbo..
Già a 2000 – 3000 metri in orizzontale o in verticale si individua subito la sagoma di questo aereo
(SM 79) sia di profilo che in verticale.
Da terra, a 1000 – 1500 metri di altezza l’aereo (un 79 – 81 – 82) lo si vede bene ad occhio nudo

Non solo, ma i suoi tre potenti motori (Alfa Romeo 128 RC) emettono un rumore così inconfondibile che è impossibile sbagliarsi anche se lontani 4000 – 5000 metri.
È quindi abbastanza discutibile che “non si sono riconosciuti gli aerei”
(dobbiamo, con cognizioni di causa, dare ragione a Fabio Quilici).

L’autore ricevette questa precisazione:
La Regia Marina utilizzava mitragliere C. A.  a partire da 13,2 mm in su.
Per quel che concerne la tanto “sminuita” arma da 20 mm Ansaldo-Breda (cannone-mitragliera)
comunque non pare corrisponda al vero il fatto che arrivasse a sparare solamente a 1000 metri
come si legge nel Vs. testo:
questi i dati ufficiali relativi all’arma:
Lunghezza in calibri: 65
Rigatura destrorsa a passo costante di 8 righe
Cadenza di fuoco pratica 220 colpi al minuto
Gittata massima (questo è il dato più interessante relativamente alle dichiarazioni sull’incidente):
in orizzonte: 5500 metri
in verticale: 2400 metri
Settore verticale di tiro: da – 10 a + 80
Fonte: Artiglieria e motorizzazione – Eserciti del XX secolo – Curcio Editore
L’autore dell’articolo rispose:
io non mi rifaccio ai testi, ma all’esperienza diretta essendo
stato capo della squadra artiglieri.
La Breda ammettiamo pure che arrivi a 2400 in verticale (a 1000 con qualche effetto)
ma non sono colpi che potevano danneggiare un SM 79.
Che era quasi tutto in tela alluminizzata su un telaio a tubi…
…. ma non era così facile colpire gli involucri dei tre potenti motori contemporaneamente.
E con uno e anche con due motori fuori uso l’SM 79 ( così l’81 – 82)
 poteva atterrare senza danni.

L’autore dell’articolo è il terzo, seconda fila a destra, su un SM 81…
Un aereo quasi identico a un SM 79.

Savoia-Marchetti S.M.79

Savoia Marchetti SM79 - atterraggio di fortuna e apparecchio in riparazione

Savoia Marchetti S.M.79 - incidente in atterraggio di fortuna

Schieramento di Savoia-Marchetti S.M.79
Foto dal sito:
https://it.wikipedia.org/wiki/Savoia-Marchetti_S.M.79#/media/File:Schieramento_di_Savoia-Marchetti_S.M.79.jpg

La carcassa dell'SM79 di Balbo abbattuto sulla baia di Tobruk

Rarissima foto del monumento funebre sul luogo di caduta,
dedicato a Italo Balbo


S.E. Balbo con la moglie Emanuela Florio e i figli Giuliana, Valeria e Paolo
Il ventitreenne Balbo fu presentato alla contessina Emanuela Florio di San Daniele del Friuli, all’epoca diciottenne, nell’inverno del 1919. I due si sposarono nel 1924 alla morte del padre
della contessina, il conte Florio, che era contrario al matrimonio. Dal matrimonio nacquero tre figli (Giuliana nel 1926, Valeria nel 1928 e Paolo nel 1930).

Italo Balbo e la contessina Florio.

La contessa Emanuela Florio, moglie del maresciallo Italo Balbo,
distribuisce doni ai soldati in Libia
Durante il suo incarico di Governatore della Libia, balbo si innamorò di un’attrice di teatro
modenese Laura Adani, conosciuta durante una tournée della compagnia teatrale
nella colonia italiana.

Laura Adani

Laura Adani con Totò e Achille Majeroni in "Arrangiatevi"



Orbetello (Grosseto) - La tomba di Italo Balbo

La lapide posta nel sacrario di Tripoli

La situazione cominciò a cambiare alla fine degli anni Trenta. Ancora nel 1937 gli ebrei libici
avevano accolto con entusiasmo la visita di Mussolini, rassicurati dalle sue dichiarazioni che
sarebbero stati trattati al pari dei cittadini italiani, 
liberi di continuare a professare la propria religione.
L’emanazione della legislazione italiana cosiddetta «razziale» l’anno successivo pose fine a quella
illusione.
Lee leggi razziali in Libia furono attuate in modo attenuato  grazie all’intervento del governatore
Italo Balbo. L’unico contrasto con gli ebrei fu legato alla decisione del governatore di ordinare
l’apertura anche il sabato delle scuole e dei negozi di ebrei.
Italo Balbo 

Mussolini nel 1937 si autoproclama
“difensore dell’Islam”
(Nella foto è con Italo Balbo, governatore della Libia)
Balbo morì il 28 giugno 1940 e con l’avvento di Ettore Bastico, governatore della Libia dal 19 luglio
1941 al 2 febbraio 1943, gli aspetti sociali cominciarono a peggiorare con l’applicazione 
delle leggi razziali.

Ettore Bastico

Nel 1942 le leggi razziali vennero applicate con modalità sempre più brutali fino a toccare il culmine
con l’ingresso delle truppe inglesi nel territorio libico.
Nel giugno 1940 in Libia risiedevano circa 1600 ebrei con cittadinanza francese, tunisina,
marocchina, mentre 870 ebrei erano titolari di cittadinanza britannica, a seguito soprattutto di
immigrazioni provenienti da Malta e Gibilterra. Per tutti il governatore Balbo prese in
considerazione delle misure di internamento che furono applicate solo parzialmente per mancanza di
mezzi e finanziamenti.
L’azione definitiva per l’evacuazione dal territorio libico di tutti gli stranieri fu intrapresa l’8
settembre 1941 quando il governatore Bastico inviò al Ministro dell’Africa Italiana, Attilio Teruzzi
un telegramma….
Attilio Teruzzi
Ministro per l’Africa Italiana
(dal 31 ottobre 1939 al 25 luglio 1943 –
Governo Mussolini) 

Imprescindibile necessità reprimere spionaggio insito elementi infidi ed anche alleggerire peso rifornimento popolare civile mi ha indotto a disporre allontanamento da zone operazioni militari (cioè da intera Libia) di tutti gli stranieri senza distinzione ed eccezione alcuna. Partenza avverrà con successivi convogli a decorrere da settimana prossima (...) Con primo convoglio partiranno 1970 ebrei stranieri. (...) prego disporre accordo Ministero Interno località di destinazione.

Il piano di evacuazione iniziò nel gennaio 1942, su direttive del Ministro dell’Interno.
Il Ministro dell’Interno Benito Mussolini  ordinò
l’internamento in territorio metropolitano di varie centinaia di cittadini stranieri di potenze nemiche (tra cui greci, anglo-maltesi, inglesi) e di buona parte dei
sudditi inglesi di «razza ebraica».
Nei primi mesi del 1942 furono deportati in Italia:
-         263 ebrei libici in possesso di cittadinanza britannica;
-        225 membri della locale comunità greco-ortodossa;
-        1900 maltesi;
-        Altri stranieri il cui numero non fu precisato.
Fu precisato che..
tutti gli individui arrivati dalla Libia furono avviati inizialmente in centri di accoglienza predisposti dall’Ispettorato servizi di guerra, come fossero normali sfollati italiani.
Per i casi di “comprovata pericolosità” le destinazioni furono diverse ed avviati in campi di
concentramento.
Il primo gruppo costituito da ebrei anglo-libici, maltesi con passaporto inglese e greci, furono
raggruppati il 13 gennaio 1942 nella scuola Roma, a Tripoli per poi essere condotti
all’imbarco per l’Italia. 
Tripoli – Scuola “Roma”
https://i.pinimg.com/736x/c3/f1/c7/c3f1c739c6d65f44bffd622806dbbcd7.jpg

I deportati furono imbarcati sulla motonave “Monginevro” e, dopo pochi giorni, sbarcarono a
Napoli. Furono sottoposti a delle visite mediche per evitare il diffondersi di presunte
pandemie.

I deportati abbandonarono le loro case e le piccole proprietà. Furono autorizzati a portare
solo una valigia con pochi beni di utilità. Furono definiti dalla critica storica come  ebrei
“tripolini” e si trovarono ad intraprendere un nuovo percorso di vita nell’incertezza del futuro
e del luogo di destinazione. Furono imbarcati soprattutto anziani, donne e bambini mentre gli
uomini ritenuti idonei al lavoro coatto furono destinati in vari campi di concentramenti.
Un campo di concentramento fu istituito dal governo italiano a Giado.
A Giado era presente una vecchia caserma posta nel deserto del Gebel.
Caserma di Giado

Altro campo di concentramento era quello di Sidi Azaz, vicino Tripoli.
Se fossero stati imbarcati per l’Italia, al loro arrivo nel porto italiano sarebbero stati
divisi dai famigliari e dagli altri internati per essere trasferiti in altri luoghi di
detenzione.
Secondo la studiosa Liliana Picciotto, gli ebrei con cittadinanza britannica trasferiti
dalla Libia all’Italia furono un totale di quasi 400 persone; 389 quelle elencate dalla
studiosa Anna Pizzuti.
I deportati (non solo gli ebrei anglo-libici) furono divisi in 4 gruppi destinati ai campi o luoghi di internamento di:
-        Civitella del Tronto (107 persone),
-        Civitella della Chiana (51 persone di cui 27 tra donne e bambini);
-        Badia al Pino, vicino ad Arezzo:
-        Bagno a Ripoli (77 uomini) in provincia di Firenze;
-        Pollenza in provincia di Macerata. 
Altri anglo-libici, con successivi trasporti, furono inviati all’internamento libero nei comuni di :
-        Camugnano (Bologna);
-        Bazzano (Bologna)
e successivamente anche nei Comuni di:
-        S. Felice sul Panaro (Modena);
-        Cavezzo;
-        Medolla;
-        Nonantola;
-        Modena;
-        Casinalbo;
-        Fiumalbo;
-        Bastiglia.
(Tutti Comuni in provincia di Modena)


-        Ferramonti in provincia di Cosenza.

Nel decreto del 4 settembre del 1940 XVIII (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.
239 dell'11 ottobre 1940), riguardante l'internamento, venne espressamente precisato
che
"gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza" (art. 5).
Un principio che fu rispettato ?
Ma l’internamento in un campo aveva un suo aspetto drammatico dato che
rappresentava una limitazione della libertà personale.
Le persone, strappate alle loro famiglie e alle loro case, erano ammassate in base alle
possibilità di ricezione dei campi.
I campi erano inoltre sorvegliati anche se, con l'eccezione di Ferramonti, non cera il
filo spinato.
Il permesso d’uscita veniva concesso solo in casi eccezionali come un intervento
medico d’urgenza.
Qualsiasi atteggiamento o azione  che poteva compromettere l'ordine interno era
punito con il trasferimento in un campo ancora più duro, soprattutto dal punto di vista
logistico (campo di Ustica).
Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento
un sussidio giornaliero di 6,50 Lire, appena sufficiente per mangiare e per la
sostituzione degli abiti logori. Quando le difficoltà di approvvigionamento
aumentarono, anche a causa degli eventi bellici,  e non tutti i generi alimentari
giungevano nei campi, gli internati cominciarono a patire la fame.
Le condizioni igieniche erano carenti e il riscaldamento invernale era assente o
insufficiente.  Gli internati, nei campi più grandi, avevano la possibilità di esercitare 
una forma di amministrazione autonoma. Nel campo di Ferramonti, in Calabria, era
presente un’assemblea dei rappresentanti delle baracche. Eleggevano il portavoce del
campo e creavano delle commissioni come quella sanitaria, culturale ed educativa.

Campo di concentramento di Ferramonti






Nel 1940 a Ferramonti furono edificate delle baracche per famiglie dopo l'arrivo di un
gruppo di ebrei stranieri arrestati a Bengasi, in Libia, perché tentavano  la fuga in
Palestina.
Era costituito da un gruppo di 302 persone in gran parte da donne e bambini.
Le baracche erano però insufficienti per alloggiare tutte quelle famiglie.
Così, a partire dalla primavera del 1941 venne concessa la possibilità, su istanza degli
internati, di passare al regime di "internamento libero", in cui molti sperano di trovare
condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia
settentrionale.
La tragica conseguenza fu che, dopo 1'8 settembre del '43 (Armistizio di Cassibile),
molti profughi e immigrati ebrei si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e
vennero deportati.

L'Internamento libero
L'isolamento in un comune lontano dal proprio domicilio abituale determinava una
notevole limitazione della libertà personale. Gli internati erano strappati all'ambiente
loro familiare, separati da parenti e amici, e costretti a vivere in un luogo fino ad
allora sconosciuto, dove era loro proibito ogni contatto con gli abitanti, ad eccezione
dei padroni di casa. Non potevano allontanarsi dal territorio comunale senza
autorizzazione speciale e dovevano presentarsi alla stazione di polizia o dei
carabinieri in orari determinati, di solito una volta al giorno. Potevano lasciare la casa
dove abitavano solo durante il giorno, senza però mai superare un determinato
perimetro. In un primo momento l'internamento nei comuni era previsto solo per le
donne. Questa forma più blanda di isolamento forzato venne vista come una
soluzione transitoria fino a quando nei campi non si crearono posti sufficienti per
famiglie e donne sole. Ma ciò di fatto non accadrà mai. Le località di "internamento
libero" nella Penisola erano alcune centinaia e ciascuna poteva accogliere un numero
variabile di internati: da uno/due a diverse decine. Talora lo stesso comune ospitava
sia un campo di concentramento che un campo di "internati liberi".
In generale, le località prescelte non si trovavano all'interno delle zone strategiche da
un punto di vista militare. E quando le donne e i bambini partivano per
l'internamento, le Autorità del luogo di residenza consegnavano loro il "foglio di via
obbligatorio", con il quale dovevano presentarsi entro una data prestabilita alla
questura della provincia decisa dal Ministero dell'interno, che li destinava poi a uno
specifico comune.
Nella prima fase dell'internamento, fino all'agosto 1941, non era difficile reperire
alloggi, ma in seguito la situazione andò sempre peggiorando, malgrado
l'internamento venisse esteso anche alle province dell'Italia settentrionale. Ciò era
dovuto soprattutto allo sfollamento nelle campagne di gran parte degli abitanti delle
città bombardate. Le prefetture tempestarono quindi di lettere e telegrammi il
Ministero dell'interno per evitare d’inviare altri internati, appellandosi ogni volta alla
mancanza di alloggi. Alloggi che, anche nel caso dell'internamento libero, erano quasi
sempre poveri o squallidi, e molte volte invivibili. Pur costretti a rinunciare alle più
modeste comodità quotidiane, molti internati dovettero adattarvisi per oltre tre anni.
https://giustiemiliaromagna.it/linternamento-italiano-degli-ebrei-durante-la-seconda
guerra-mondiale/
Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, 
Direzione Generale di Pubblica
Sicurezza,
Divisione Affari Generali e Riservati, A4 bis, busta 27 fasc. Bachmann Kurt

Non tutti gli anglo-libici internati in Italia riuscirono a sopravvivere agli
eventi bellici. La stessa sorte toccò agli ebrei italiani e a quelli stranieri catturati in
Italia perché furono inviati nei campi di concentramento nazisti di Bergen Belsen.
Qui furono uniti agli ebrei arrestati in Europa e che erano di nazionalità neutrale,
britannica, americana o di altra nazione non occupata dalla Germania.
Erano considerati come ostaggi in attesa di un probabile scambio con cittadini e
soldati tedeschi in mano degli alleati.
Un primo gruppo di ebrei anglo-libici raggiunse Bergen Belsen nel febbraio 1944
provenienti dal campo di Fossoli, dove erano stati via via concentrati nella parte del
cosiddetto «campo vecchio», sottoposto ancora a controllo italiano, a differenza del
«campo nuovo», in mano tedesca. 

15 febbraio - primi di agosto 1944: Nel corso del 1944, il campo di Fossoli diventò il
Campo di polizia e transito ("Polizei- und Durchgangslager"), utilizzato dalle SS e
inserito quindi nel sistema dei campi di concentramento nazisti.  Diventò  un triste
campo deputato alla deportazione dall'Italia verso i Lager e i campi di sterminio del
Reich. Nei paesi occupati dell'Europa occidentale (Francia, Belgio, Olanda, e quindi 
dopo l'8 settembre 1943 anche l'Italia) la decisione delle autorità naziste fu di non
creare ghetti o campi di sterminio e di evitare il più possibile atti aperti di violenza
antiebraica.  L'antisemitismo era minore, e si aveva timore di esacerbare un'opinione
pubblica già in larga parte ostile. Si istituirono così appositi campi di internamento o
di transito lontani dai centri abitati dove la popolazione ebraica potesse essere
raccolta prima di essere trasferita nei campi di concentramento o sterminio della
Polonia. Al campo di Fossoli in Italia venne quindi assegnata la stessa funzione svolta
in Francia dal campo di internamento di Drancy, in Belgio dal campo di transito di
Malines e nei Paesi Bassi dal campo di concentramento di Westerbork. I circa 5000
deportati politici e razziali internati a Fossoli ebbero come tragiche destinazioni 
campi di Auschwitz,  Bergen Belsen, Mauthausen, Ravensbruck., Birkenau, 
Buchenwald. Ad oggi è noto che tra il gennaio e l'agosto 1944  furono organizzati per
gli internati di Fossoli almeno 8 convogli ferroviari, cinque dei quali destinati ad
Auschwitz.
La Questura di Modena (Rsi) restò a dirigere il Campo Vecchio (l'area a nord che si
affaccia su via Grilli) e vi fondò il campo per internati civili (attivo fino all'inverno
del 1944). Già presenti da inizio febbraio 1944, le SS nello stesso mese assunsero
ufficialmente la direzione del campo di Polizia e Transito nel Campo Nuovo (l'area a
sud-est che si affaccia su via Remesina). Prigionieri politici e razziali vennero qui
trasferiti dai campi e dalle carceri del nord Italia per essere successivamente deportati
nei Lager europei.



Fossoli Campo Vecchio

Fossoli Campo Nuovo

A causa dell'avvicinarsi del fronte e dell'intensificarsi delle pressioni partigiane nella zona, la
gestione e il controllo del campo diventarono difficili. Il 2 agosto il comando tedesco decise
la chiusura del lager e il suo trasferimento più a nord, a Bolzano-Gries. Si stimò che siano
passati da Fossoli circa 5000 deportati, di cui la metà ebrei, un terzo dei deportati ebrei
dell'Italia transitò per il campo di Fossoli.
Vista del campo di transito di Bolzano (1945)

Agosto 1944 - novembre 1944: Il Campo Nuovo passò alle dipendenze della Direzione
generale per l'ingaggio della manodopera per la Germania (Gba). Nel campo confluirono
cittadini rastrellati, oppositori politici, uomini e donne da inviare al lavoro coatto nei territori
del Terzo Reich. In seguito ai bombardamenti il campo venne trasferito a Gonzaga nel
mantovano.
Dopo la fine della guerra il Campo Nuovo venne utilizzato come campo di concentramento
per prigionieri: militari che avevano combattuto al servizio dei nazifascisti e civili
collaborazionisti.
In questa fase, come nelle fasi precedenti, Francesco Venturelli, parroco di Fossoli, svolse
opera di assistenza ai prigionieri. Nel clima di forte contrapposizione di quei mesi il
Venturelli fu ucciso il 15 gennaio 1946.
Padre Francesco Venturelli

Nella notte del 15 gennaio 1946 uno sconosciuto pregò Padre Venturelli di seguirlo per assistere un ferito. La mattina del 16 gennaio lo trovarono ucciso.
La DC di Modena accusò il giornale dell'ANPI, la polemica politica divampò assai dura.
Il colpevole o colpevoli non furono mai assicurati alla giustizia.
Godeva della massima fiducia del Comitato di Liberazione Nazionale (CNL). Diede la sua vita nell’assistenza degli internati e durante i rastrellamenti 
si rifugiava nel sottotetto della chiesa.
Fu un omicidio di mano comunista? In questo caso dovrebbe essere inquadrato in un clima di generico anticlericalismo.
Un omicidio legato alla sua attività nel campo di concentramento di Fossoli?
Nel campo nell’inverno ’45-46 c’erano non solo numerosi gerarchi fascisti in via di epurazione, ma c’erano anche molte persone senza documenti, senza mezzi, in attesa di identificazione e di una destinazione ed anche molti ebrei.
C’erano molti stranieri: slavi, ucraini, tedeschi, greci, che rifiutavano il rimpatrio e che creavano grandi problemi alla Questura locale, alla Pubblica sicurezza e alla popolazione di Fossoli. Don Venturelli potrebbe aver contattato o essere stato contattato da qualcuno. Un contatto ritenuto pericoloso per il gruppo o per il singolo e
 fu quindi deciso di eliminarlo.

Per il campo di Fossati passarono 2844 ebrei, di cui ben 2802 furono deportati.
Nel campo furono uccisi alcuni ebrei..
-        Un uomo, in principio di ribellione, venne ucciso in un convoglio di camion che si dirigeva a Fossoli, e arrivò al campo già morto. Si chiamava Leone di Consiglio.
-        Giulia Consolo, di Alessandria d'Egitto, trasferitasi a Roma per il matrimonio, morì il 5 febbraio 1944 all'ospedale di Carpi.
-        Giulio Ravenna, ferrarese, era di un'ex-famiglia ebraica, divenuta cattolica; già di salute malferma prima di giungere al campo, si aggravò il 17 febbraio, Don Venturelli, parroco della frazione Fossoli, lo assistette sino alle 17 del giorno dopo, quando morì. Aveva 71 anni.
-        Carolina Iesi, ferrarese, di 85 anni, morì, per quanto dichiarato, di "senilità", a Fossoli.
-        Giovanni Schembri, sessantunenne, proveniente da Bagni di Lucca, nato a Tripoli, morì il 13 marzo.
-        Rosa Doczi, slovena, vissuta a Fiume, doveva essere deportata ad Auschwitz con il convoglio RSHA 9, ma morì quattro giorni prima, il 1º aprile. Il nipote, invece, venne deportato, e lì morì.
-        Il 7 giugno morì Teodoro Sacerdote, di Torino, di 95 anni.
-        Il 12 giugno morì Magenta Nissim di Firenze. Lei e Sacerdote andavano deportati il 26 giugno ed erano i più vecchi del campo.
-        Pacifico di Castro doveva essere assegnato ad una squadra di lavoro. Non capiva il tedesco e, secondo alcune fonti, era anche parzialmente sordo; Rieckhoff, un ufficiale, gli sparò il 1º maggio.

Tra i politici…
-        Leopoldo Gasparotto, comandante delle Brigate partigiane Giustizia e Libertà, venne
arrestato a Milano, e si recò a Fossoli nei primi mesi del suo funzionamento. Riuscì a
contattare i partigiani, ai quali forniva documenti, e iniziò a predisporre un piano di fuga
generale, dopo aver fatto fuggire diversi altri prigionieri. Le SS, notata la sua pericolosità, il
22 giugno 1944 lo portarono in un camion nel circondario di Carpi, e, quando la ruota del
camion si bucò, gli ordinarono di scendere e lo uccisero sul posto. Tornarono al campo in
bicicletta, e poco dopo vennero, con un altro mezzo che prelevò il cadavere di Gasparotto,
dal luogo dell'esecuzione. Il suo corpo venne sepolto in una tomba anonima,
successivamente è stato recuperato.
-        Un cinquantanovenne, Arturo Morello, di Casale Monferrato, morì il 12 marzo di morte
naturale.
-        L'Eccidio di Cibeno: il 12 luglio 1944, 67 internati politici del Campo di concentramento
di Fossoli furono fucilati dalle SS al poligono di tiro di Cibeno (Carpi).
………………………..

Gli i ebrei «tripolini» di Fossoli - tra i quali si trovavano anche coloro che provenivano
dall’internamento di Camugnano, località dell’appenino bolognese - furono trasferiti nel
novembre 1944 da Bergen Belsen al campo di Vittel, in Francia, in attesa di eventuale
scambio. Qui gli anglo-libici trovarono un altro gruppo di ebrei libici che - caso particolare 
era stato inizialmente imprigionato nel campo di concentramento di Reichenau, presso
Innsbruck, provenienti dall’internamento a Bazzano.
Altri ebrei anglo-libici furono internati invece nel campo abruzzese di Civitella del Tronto,
da dove più tardi partiranno per il campo di Fossoli, che raggiungeranno il 6 aprile 1944.
Vi rimarranno fino al 16 maggio 1944, data in cui saranno messi in partenza per Bergen
Belsen, dove arrivano il 20. Il 16 novembre 1944 infine furono inviati nel campo di
Biberach, in Baviera, dove saranno liberati dalle truppe francesi il 23 aprile 1945.
Alla fine della guerra, dopo varie vicissitudini, molti dei quasi 400 ebrei anglo-libici
riusciranno a ritornare nella loro terra d'origine, in parte passando dal Portogallo. Ma
potranno rimanervi solo pochi anni, poiché a causa delle persecuzioni anti ebraiche messe in
atto dai nazionalisti arabi, che sfoceranno anche in alcuni violenti pogrom, la maggior parte
sceglierà l’emigrazione verso il nuovo stato di Israele. Un totale di 36.730 ebrei libici
faranno Aliyah verso Israele, di cui 30.972 tra il 1948 e il 1951. La guerra dei Sei giorni, nel
1967, costringerà alla emigrazione l’ultimo gruppo rimasto.

Civitella del Tronto – Campo di prigionia nella fortezza

Panorama sulla fortezza ed il paese di Civitella del Tronto (Teramo)

2.  Una casa privata di proprietà della sig.ra Vinca Migliorati;
 3.      Convento di Santa Maria dei Lumi.

Per un totale di 230 posti.
Nel luglio 1940 fu completato l’allestimento del campo e i primi prigionieri arrivarono nel
settembre dello stesso anno. Era in massima parte  tedeschi ebrei.
Il 9 aprile 1941 due internati, Bernard G. Battista fu Adolfo, zingaro, con il figlio Michele,
riuscirono ad evadere.
 primi internati ebrei, provenienti dalla Libia e di nazionalità inglese, arrivarono nel
gennaio 1942. Erano in 107 e in gran parte anziani, donne e bambini.
Gli internati denunciarono in una lettera il divieto di rimanere all’aria aperta, come potevano
fare in Libia.  Nella lettera evidenziarono anche le difficoltà di poter rimanere in 50 – 70 mq,
soprattutto per i bambini.
Il 27 ottobre 1943 121 internati vennero inviati verso Nord dai tedeschi al campo di Fossoli
di Carpi (Modena), per poi essere, il 16 maggio 1944, deportati in quello di Auschwitz. Tra la
fine del 1943 e l’inizio del 1944 60 internati, tutti libici di nazionalità inglese e di religione
ebraica vennero trasferiti a Fossoli di Carpi, per poi essere deportati nel campo di Bergen
Belsen in Germania.
Nell’aprile 1944, il Ministero dell’Interno inviò varie circolari, alla Prefettura di Teramo, che
sollecitavano il trasferimento degli internati, presenti in provincia, verso Nord. In seguito a
queste disposizioni, il 18 aprile 23 internati tutti ebrei tedeschi vennero prima trasferiti a
Fossoli, dalla polizia tedesca, e poi, il 16 maggio 1944, ad Auschwitz. Stessa sorte, il 4
maggio, toccò ai 134 ebrei inglesi provenienti dalla Libia, i quali, dopo essere stati inviati a
Fossoli, vennero deportati, il 16 maggio, a Bergen Belsen e ad Auschwitz.
Il campo di Civitella venne chiuso il 22 maggio 1944.
 
………………………..

L'internamento a Camugnano

Gli ebrei anglo-libici che furono sottoposti a «internamento libero» a Camugnano, giunsero
nella località appenninica bolognese nel marzo 1942, dopo uno sbarco avvenuto a Palermo.
All’arrivo in Italia la maggior parte degli uomini furono separati per essere internati nel
campo di Bagno a Ripoli.
Furono trasferiti a Camugnano 44 ebrei inglesi dopo aver pernottato a Bologna la sera
precedente.
A Bologna furono alloggiati in un dormitorio posto in via Cirene (una strada del quartiere
detto della “cirenaica” ) che oggi porta il nome di via Francesco Sabatucci.
A Camugnano giunsero il 14 marzo 1942 per mezzo di tre torpedoni. Lungo il tragitto si
fermarono nei pressi della stazione ferroviaria e nel ristorante   del Dopolavoro ferroviario
furono rifocillati con  un panino, del formaggio e una arancia, oltre a un bicchiere di latte per
i bambini. Dopo il pasto proseguirono  fino a Camugnano.
Donne ebree libiche in costumi tradizionali.

Una famiglia ebrea libica.

Il trasferimento dei deportati fu inserito nel rapporto del Commissariato aggiunto di P.S.
Gerbino, che riferì anche dei primi gravi problemi che subito si presentarono all’arrivo.
Alle ore 13,30 assieme all’Avv. Prati della Prefettura ci siamo avviati [da Bologna] per
Camugnano e ci siamo trovati subito di fronte ad impreviste difficoltà, giacché i 40 posti che
il Municipio aveva a suo tempo fatto conoscere di avere a disposizione, erano tutti presso
famiglie privati ed alberghi, e data la sporcizia degli internanti, di cui parte indigeni, non
era possibile consentire tale forma di alloggiamento, anche perché si è presto venuto a
conoscere come la popolazione (che forse si attendeva ricchi ebrei inglesi!), ne ricusasse la
ospitalità.
(Archivio di Stato di Bologna - Fondo Prefettura di Bologna. Ufficio A.B.E. (Asportazione
Beni Ebraici) 1938-1945, fascicolo Ebrei sudditi inglesi internati a Camugnano (d'ora in
avanti ASBO), relazione del comm. Gerbino, 15 marzo 1942).
La situazione non era facile da gestire.
L’amministrazione del Comune scartò un primo edificio di emergenza perché inadatto a
causa dei suoi muri pericolanti e decise di ospitare  provvisoriamente internati in un salone
del palazzo municipale.
Un salone che fu munito di una stufa per il riscaldamento e il pavimento fu cosparso di
paglia dato che mancavano i letti.
La locale sezione del Fascio femminile distribuì agli  internati una cena composta da
latte, surrogato, pane, ulive e formaggi, che  ha dato adito a spontanee manifestazioni di
gratitudine da parte degli assistiti, che hanno potuto accorgersi come noi italiani con sudditi
di stati nemici, non sappiamo allontanarci da quei principi di umanità che hanno sempre fatto
onore alla nostra Patria.
Una descrizione del momento piena d’orgoglio per poi aggiungere
Gli internati sono in uno stato pietoso: alcuni sono veri e propri indigeni e indossano,
secondo il costume locale, il baracano. Altri sono europeizzati e parlano quasi bene
l’italiano. Tutti hanno manifestato simpatia per l’Italia, asserendo di essere sudditi inglesi
soltanto per origine, perché tali erano i loro antenati.
Lo stesso Gerbino, in un secondo rapporto del 19 marzo, rilevò come
il giorno dopo l’arrivo è predisposta una visita medica e una «bonifica sanitaria» degli
internati, in preparazione del trasferimento in un alloggio definitivo.
Le loro condizioni furono definite soddisfacenti tranne qualche caso di tracoma mentre una
dona era incinta.
Nella relazione si mise in risalto come gli ebrei
hanno vivo desiderio di essere riuniti ai propri congiunti, internati in provincia di Firenze, o
per lo meno di poterli vedere per qualche giorno, data la loro assenza da circa due anni da
Bengasi….. Tutte le famiglie (…) hanno sollecitato l’invio dei bagagli lasciati a Palermo,
facendo presente che non hanno come cambiare gli indumenti; per ovviare provvisoriamente
in ogni modo a tale inconveniente, il Comune di Camugnano provvederà a distribuire il
necessario
come in realtà avvenne.
Nel frattempo proseguirono le ricerche per trovare un alloggio definitivo per gli internati..
nonostante alcuni colloqui infruttuosi con proprietari della zona, dopo alcuni giorni sarà
individuato in una casa colonica disabitata situata appena fuori il paese, in via Roma n. 57,
in località descritta come «Pontegatti» (in realtà Pontegazzi), presa in affitto, dopo aver
vinto certe resistenze dalla madre del locale ufficiale sanitario, per la cifra di lire 550,
composto da 6 vani tra piano terreno e primo piano, da «riattarsi» ad inizio e fine della
locazione, con lavori previsti di durata settimanale. Lì vengono fatte giungere per ciascun
internato una branda pieghevole e due coperte di lana (provenienti dai depositi bolognesi
del «P.N.F. - Gioventù Italiana del Littorio, Ufficio Tendopoli - Logistico e delle
Manifestazioni»), oltre a «N. 63 colli di indumenti e generi vari appartenenti ai 44 sudditi
inglesi internati dalla Libia.
La sorveglianza è affidata a visite periodiche dei carabinieri in servizio nel comune,
facilitate dal fatto che il fabbricato si trovava a metà strada tra la loro stazione e il
Municipio. Per il mantenimento, come da disposizioni ministeriali comunicate dalla
prefettura bolognese attraverso un telegramma, viene corrisposta la somma di «lire otto al
giorno ai capi famiglia et rispettivamente lire quattro e tre al giorno mogli e figli minorenni
nonché indennità alloggio lire cinquanta mensili capifamiglia.
Il contingente di 44 internati risulta inizialmente composto da ben 11 diversi nuclei familiari,
variabili da un minimo di due ad un massimo di otto persone. Complessivamente sono 30 i
minori di 18 anni, solo due gli uomini, di 50 e 70 anni, per il resto donne.
Altri 9 internati anglo-libici raggiungeranno Camugnano successivamente, portando il
totale degli internati in quella località fino a 53.
Le condizioni di vita in una vecchia casa colonica prevista per circa otto persone, che deve
invece ospitarne 44 e più, non sono certo ideali, stante il grave sovraffollamento.

Un aspetto quest’ultimo che venne rilevato durante la visita del 14 – 15 dicembre 1942 da
parte dei Sign.ri  Steffen e Braunn, ispettori della Legazione Svizzera -  Servizio Interessi
Stranieri.
Un organismo incaricato di sorvegliare gli interessi britannici in Italia anche in tema di
prigionieri di guerra e internamenti (rifornendoli di beni di prima necessità), accompagnati
dall'Ispettore generale di P.S. Comm. Dr. Carlo Rosati.
L’ispezione avviene in tutti i luoghi di internamento di «stranieri sudditi di Stati nemici»
delle province di Firenze e Bologna, incluse entrambe le sedi di internamento bolognesi di
Bazzano e Camugnano, e portò alla redazione di un rapporto piuttosto severo.
Un rapporto che fu inoltrato anche al ministero degli Affari Esteri a fine gennaio 1943, che
porterà i rappresentanti del Governo Britannico a lamentare il ritardo nella messa in opera
dei miglioramenti promessi dalle autorità comunali delle due località emiliane già in
occasione della ispezione.
Sul luogo di internamento di Camugnano, un estratto del rapporto, di compilazione italiana,
riportò le seguenti informazioni…..
Camugnano. Clima: in estate fresco e piacevole, freddo nell’inverno, ma secco e
salubre. Abitazione: Come Bazzano. I 50 anglo-maltesi [sic!], di razza ebraica provenienti
dalla Libia, sono tutti alloggiati in modo molto primitivo in una vecchia casa di campagna
vicino al villaggio. Vi sono solamente quattro stanze che sono troppo piccole, anche per
contenere i letti necessari. In tutta la casa vi sono solamente due stufe che devono servire
anche per la cucina di 9 famiglie, Vi sono solamente le necessarie brande pieghevoli con due
coperte, senza materasso di paglia, né altra mobilia. Le stanze sono sovraffollate e non vi è
qualsiasi possibilità di separazione fra bambini, adolescenti e adulti, genitori e figli
cresciuti. Noi fummo impressionati di questa povera sistemazione e insistemmo fortemente
perché fossi provveduto immediatamente per pagliericci, tavole, sedie e panche e perché
alcuni degli internati fossero trasferiti altrove. Installazioni sanitarie:  Vi sono due Wc. In
buone condizioni ed acqua sufficiente. Però vi è solamente un piccolo lavandino per l’uso
personale di tutti gli internati e per la lavanderia. Benchè non si sia rilevato alle autorità
locali che questo era assolutamente insufficiente ci è sembrato che esse non erano al
momento disposte ad apportare migliorie. Noi abbiamo fatto premure per una immediata
soddisfacente soluzione e finalmente abbiamo ottenuto la promessa che sarà costruita una
lavanderia provvisoria. Rifornimento viveri: Gl internati si sono lamentati sull’impossibilità
di ottenere la loro razione di latte specialmente per i bambini e per gli anziani. Inoltre la
fornitura di verdura è molto scarsa. Questo fatto è molto deplorevole perché gli internati
hanno rinunziato alla carne essendo essi di religione ebraica. Essi trovano una grande
difficoltà per ottenere formaggio al posto della carne. Dalle indagini da noi fatte
immediatamente sul posto ci risulta che sarà fatta una fornitura regolare di latte e patate e
che in futuro gli internati avranno almeno la loro minima razione di cibo prescritto. E’
strano che questo ordine venne dato lo stesso giorno della nostra ispezione. Impressione
generale: Siccome la casa è sovraffollata, noi abbiamo suggerito il trasferimento di una
famiglia numerosa in altro luogo in modo che vi sia spazio sufficiente per quelli che
rimangono. Abbiamo ricevuto promesse precise al riguardo dalle competenti autorità. Il
morale degli internati non è molto buono, essi preferirebbero vivere in gruppi famigliari
separati come in Libia, ma ciò non è possibile nelle presenti circostanze. Essi soffrono
realmente per il clima freddo, ma avendoci le autorità detto non è il caso di pensare al
trasferimento in località più bassa di tutti quanti questi internati in epoca vicina, essi
dovranno passare l’inverno a Camugnano; il che significa per essi un grave disagio.

La relazione degli ispettori creò un vivace dibattito tra le autorità italiane (ministero,
prefettura, polizia locale e autorità comunali).
Il Commissario prefettizio di Camugnano informò il 16 febbraio 1943 il Prefetto di Bologna
di aver provveduto intanto (quindi solo allora) alla distribuzione della paglia, di avere
disposto per la sostituzione di cinque brande resesi inservibili e di aver fatto aggiustare la
tubazione dell’acqua potabile, danneggiata, a suo dire, dagli stessi internati. Per il lavatoio
nuovo era stata richiesto per ora solo un preventivo di spesa.
In un nuovo rapporto, datato 5 marzo 1943, redatto dal Commissario aggiunto di P.S. Stefano
De Stefano  e consegnato al Prefetto, si fece riferimento ad una visita effettuata al  centro
isolamento insieme al Ragioniere Capo della Prefettura e al Medico provinciale aggiunto.
la sistemazione degli internati è effettivamente alquanto deficiente e che nel complesso le
loro condizioni non appaiono completamente soddisfacenti… Il lavatoio non è stato ancora
costruito e mancano  sedie, tavoli e ogni altra suppellettile…
La casa è composta di quattro piccoli ambienti e da due cameroni. In uno di questi vi
abitano N. 15 persone e nell’altro 17, componenti vari nuclei familiari, di modo ché si
verifica effettivamente un eccessivo affollamento ed una certa promiscuità. Però è da
rilevare in detti cameroni alloggiano solo donne e bambini, questi in maggior numero,
essendovene ventidue di età inferiore ai quindici anni, mentre gli uomini con le loro famiglie
occupano le camere separate. Anche le condizioni sanitarie degli internati sono alquanto
precarie, una gran parte dei bambini ha la tosse, ciò in dipendenza dell’attuale stagione ed
anche perché le porte d’accesso alla casa sono lasciate aperte per i continuo andirivieni
degli alloggiati. Vi sono inoltre numerosi casi di tracoma e di scabbia che però vengono
curati con i mezzi a disposizione (alcuni degli ammalati sono autorizzati a recarsi
settimanalmente presso la locale Clinica Oculistica).
Nel rapporto si suggerì di provvedere ad una diminuzione degli internati cercando altri
alloggi nella zona, una ricerca difficile considerando i tempi, o di trasferirli in altri Comuni.
Il 2 luglio 1943 ancora una lamentela da parte del Questore di Bologna rivolta al Prefetto in
merito all’alloggio degli internati sempre a Camugnano…
a Camugnano né il divisorio destinato a separare gli spazi abitativi di uno dei cameroni
dall’accesso all’unica ritirata, né la promessa imbiancatura, né la costruzione di un lavatoio
(la cui spesa era stata già autorizzata) erano ancora state realizzate dall’autorità locale, che
si suggeriva venisse energicamente richiamata ad adempiere quanto disposto.
Il 7 aprile 1943 furono finalmente trasferiti 15 degli internati “ebrei inglesi” (quattro nuclei
familiari) da Camugnano al “Campo di Concentramento Internati Civili ‘Villa Oliveto’
(Civitella della Chiana)”, mentre altri 3, in date diverse,  furono trasferiti a Bazzano, dove
avevano dei famigliari, riducendo quindi a 35 persone il contingente internato a Camugnano
alla fine dell'estate 1943.

Campi di Internamento per ebrei libici

Internamento Civitella della Chiana (Villa Oliveto)


Villa Oliveto negli anni ‘40

Il Campo di “Villa Oliveto”, nel Comune di Civitella Val di Chiana (Arezzo), fu allestito nel
1940 e “accolse” in massima parte ebrei stranieri. Era inserito nell’elenco dei campi di
concentramento italiani durante la guerra. Un elenco fornito dal Ministero dell’Interno
all’Unione Comunità Israelitiche Italiane.
Era un campo di Internamento ad Amministrazione Civile con il N. 4 e da altri indicato con il
N. 115. La numerazione era un elemento essenziale per i campi di internamento per la
precisa individuazione dei luoghi di prigionia. Nelle corrispondenze  doveva infatti essere
indicato solo il numero del campo ed era assolutamente vietato indicare il nome e la località.
Fu trovata una lettera spedita dal Campo di Concentramento di Villa Oliveto, pubblicata sul
libro di Luciano Previato (L’Altra Italia), contenente tutti i timbri di censura.

La cartolina fu spedita il 17 luglio 1941 dal Campo di Concentramento di
Civitella della Chiana – Badia al Pino

La cartolina  era diretta a Firenze e riportava un unico bollo (RR.PP – Regie Lettere)) oltre
alla dicitura
Villa Oliveto Badia al Pino Arezzo
Sono presenti anche i timbri che furono utilizzati dalla Direzione del Campo, compresi quelli
relativi alla Censura.

Timbri per la censura sulla corrispondenza in uso presso il
Campo di Concentramento di Civitella in Val di Chiana (Arezzo)
Negli Stati Uniti fu trovata una busta spedita proprio dal Campo di “Villa Oliveto” e
indirizzata alla sede della Croce Rossa Internazionale di Ginevra.
Nella busta sarebbero presenti tutti i timbri che contraddistinguono il Campo di “Villa
Oliveto”.

Il bollo di partenza della lettera apparteneva all’ufficio postale di Badia al Pino,
distante circa 6 km dal Campo.

Sulla lettera anche il seguente timbro:

Timbro a giustificazione dell'esenzione da tasse postali, il richiamo era alla Circ. 588605-944104/IPS del 25 Settembre 1940-XVIII che disponeva:

Internati Civili
1.     Internatici civili a causa della guerra (sudditi di Stati nemici):
Possono usufruire della esenzione di tassa al pari dei prigionieri
e internati di guerra (militari).
La corrispondenza da e per detti internati vengono verificate come quelle
dei prigionieri e internati di guerra.
2.     Internati civili per altre cause:
non usufruiscono della esenzione di tassa.
Le corrispondenze da e per detti internati vengono verificate come
sopra, ma seguono l’avviamento normale delle corrispondenze affrancate.

L’autore della lettera non era un prigioniero di guerra ma un internato civile di guerra
appartenente ad una nazione nemica.
Bollo di verifica di censura della Direzione del Campo

 Al verso della busta i bolli e la fascetta di censura dell'Ufficio Censura Posta Estera a Roma:

In alto: Bollo dell'ufficio di censura di Roma
Sotto: Bolli del censore, quello di destra non era leggibile

La fascetta chiudi lettera.

Chi era il mittente?
Era, come  già detto, un internato civile di guerra appartenente ad una nazione nemica.
Il suo nome era: Joseph Brennan di..., nato a Malta il 28-08-1942 (data improbabile e non si
spiega come non si sia accorto dell’errore).
La lettera ha senza dubbio un suo valore storico per visualizzare i momenti di vita  dei
prigionieri nei campi ma anche per i bolli collegati  alle censure in atto.
Nel sito:
sono riportati dei documenti che farebbero luce sulla figura di  Joseph Brennan.





"Anche l’assistenza sanitaria non era soddisfacente, poiché per mancanza di spazio non si
trovava sul posto un’infermeria, e un medico veniva al campo da Arezzo tre volte la
settimana."
Proseguendo: “Il dottor Gambassini, insieme al giovane medico maltese Joseph Brennan, ad
alcuni medici libici e al già citato cipriota Homer Habibis, che sostituì Brennan qualche
mese dopo, riuscì a migliorare di molto la situazione...
Ancora nel giugno del 1942: “Tuttavia la situazione sanitaria ebbe un nuovo peggioramento,
dopo la partenza di un medico internato nel campo. Dalla Relazione sulla visita della
Legazione Svizzera in Provincia di Arezzo, notizie circa l'aggressione di Giuseppe Brennan e
proposta di trasferimento a Montechiarugolo

La lettera era quindi indirizzata alla Legazione Svizzera della Croce Rossa e
conteneva la segnalazione dell'aggressione subita. La lettera fu spedita il 20 maggio 1942 e
in questa informativa al Capo della Polizia si leggeva: 
Costui confermando la segnalazione giunta alla Legazione Svizzera, ha informato che pochi
giorni orsono. mentre rincasava, è stato aggredito percosso ed anche ferito con un colpo di
pistola da quattro sconosciuti...
Il motivo dell’aggressione?
Forse legata al carattere arrogante del giovane studente che forse, a modo suo, manifestava
collaborazione con la direzione del Campo di Concentramento.
Joseph Brennan fu poi trasferito al Campo di concentramento di Montechiarugolo e sostituito
dall’ungherese Grumbaum.
Il nome di Giuseppe Brennan riapparve nella sintesi di un documento che purtroppo non fu
scansionato:

"Il campo di Villa Oliveto fu quindi installato nel giugno del 1940 in un edificio che era stato
utilizzato nel 1934 come campo di addestramento per gli ustascia.
(Gli ùstascia o ustàscia fu un movimento nazionalista e clerico-fascista croato di estrema
destra guidato da Ante Pavelić e creato nel 1929, alleato dei nazisti tedeschi e fascisti italiani
nella seconda guerra mondiale, che si opponeva al Regno di Jugoslavia a predominio serbo).
Gli Ustascia Croati in Barbagia

Ustascia a Villa Oliveto 
 foto fornita da due ricercatori croati sulle tracce degli Ustascia in Italia.

Villa Oliveto – Provincia di Arezzo ; Detenuti Tipo: Internati Ebrei stranieri – Ebrei Libici 
Capienza: 70 persone - Tempi: giugno 1940 -  giugno 1944 – 
Amministrazione: Ministero dell’Interno.

Gli internati erano ebrei tedeschi, sudditi francesi, inglesi e polacchi.
Direttori del Campo di Internamento rilevati dalle carte dell’ACS (Archivio Centrale dello
Stato):

Con l’arrivo dell’estate del 1942 le condizioni del campo iniziarono a peggiorare, a causa
della mancanza cronica di acqua con gravi conseguenze, facilmente intuibili, sia per l’igiene
personale che dell’ambiente.
Nei letti furono trovati degli insetti e gli internati protestarono più volte per la scarsa quantità
e qualità del vitto.
Le proteste furono inutili. L’assistenza sanitaria era carente. L’infermeria non aveva un suo
locale a causa della mancanza di spazio. Un medico  giungeva nel campo da Arezzo tre volte
la settimana.
Villa Oliveto fu uno dei campi in cui furono smistati gli ebrei di nazionalità inglese
provenienti dalla Libia; vi giunsero alcuni gruppi di famiglie, con molti bambini, donne e
anziani. L’arrivo dei libici, in condizioni di salute assai precarie, aggravò la situazione sotto
molti aspetti. Un rapporto della Legazione Svizzera riportò le impressioni di una visita
effettuata nel mese di gennaio del 1942.  …..
pessime le condizioni sanitarie ed igieniche di Villa Oliveto:
i servizi igienici erano del tutto inadeguati alle esigenze degli internati, poiché per circa ottanta persone vi era una sola doccia con acqua fredda e quattro lavandini; gli internati dovevano pagare una somma abbastanza consistente – la metà della diaria giornaliera -, per fare il bagno con acqua calda. Essendo permesso fare il bagno tre volte alla settimana, per tre volte al giorno, la proporzione non era adeguata al numero degli internati. Il vitto era scarso e scadente, e gli internati riuscivano a sopravvivere solo con i pacchi inviati loro dalla Croce Rossa. […]
La Legazione Svizzera riferì, in una relazione dell’aprile del 1942, che
l’edificio era troppo esiguo per contenere il gran numero di internati presente in quel momento, tra i quali 25 bambini e alcune donne in stato di gravidanza.
Durante il periodo in cui il campo restò in funzione nacquero sette bambini. Una famiglia di
15 persone, ad esempio, doveva vivere in un unico vano, con solo sette letti; il rapporto
rilevò che a più di due mesi dall’arrivo dei libici non era stata apportata nessuna modifica o
miglioramento sostanziale. Molti di loro, poiché avevano perduto i bagagli durante il
viaggio, erano senza indumenti adatti alle nuove condizioni climatiche.

Dopo i primi mesi assai difficili, nel giugno del 1942, fu deciso di trasferire tutti gli internati
soli e di lasciare nel campo soltanto i gruppi familiari libici. Il vitto migliorò dopo che le
famiglie di religione ebraica si accordarono con il fornitore degli alimenti.
Cominciarono ad acquistare i prodotti da quest’ultimo, per poi provvedere a cucinarli
secondo le loro regole alimentari. Un rabbino giungeva ogni sabato per la macellazione.
Tuttavia la situazione sanitaria ebbe un nuovo peggioramento, dopo la partenza di un medico
internato nel campo.
Il 26 maggio 1940 il sottosegretario per l'Interno Guido Buffarini comunica che "il Duce
desidera che si preparino dei campi di concentramento anche per ebrei, in caso di guerra".
In Toscana vengono allestiti durante la guerra quattro campi per l'internamento di civili; i
due di questi, Bagno a Ripoli e Oliveto, vengono ospitati ebrei stranieri.
II campo di Villa Oliveto, posto a 16 chilometri da Arezzo e 4 da Badia al Pino, viene
allestito in un edificio composto da un piano terra e due piani superiori, di proprietà di
Pasquale Mazzi. La villa era stata usata già nel 1934 come campo di addestramento per gli
Ustascia di Ante Pavelic.
II Mazzi, al momento del contratto di affitto con il Prefetto di Arezzo, si impegna anche
come fornitore del campo, a gestire cioè l'alimentazione degli internati. secondo una tabella
sottoscritta da lui stesso, dal Prefetto, dal Questore di Arezzo e 
dal­l'Ispettore di Pubblica Sicurezza.
L'amministrazione del campo verrà poi varie volte richiamata dall'ispettore Generale di PS
perché sospettata di praticare prezzi troppo alti nello spaccio e per l'insufficiente
somministrazione degli alimenti.

Relazione su Villa Oliveto come località adatta per essere un campo di concentramento, maggio 1940 (ACS, Roma)
https://www.ilpostalista.it/arezzo/imm/9413.jpg

Contratto di appalto tra la Prefettura e il fornitore Pasquale Mazzi
5 giugno 1940 (ACS – Roma)

Villa Oliveto – Elenco degli Internati – 17 settembre 1940 (ACS – Roma)

Il primo gruppo di ebrei libici giunto ad Oliveto era composto da 51 internati, di cui 27 tra
donne e bambini, componenti 9 gruppi familiari. I capifamiglia erano tre commercianti, 2
osti, un ebanista, un sarto, un possidente non vedente e una casalinga. Molti dei bambini
erano in età scolare e alcuni molto piccoli (1 o 2 anni).
Gli ebrei arrivarono al campo in condizioni miserevoli. Erano quasi tutti laceri, scalzi ed
affetti da malattie e parassiti. Molti di loro avevano perso i bagagli nel viaggio ed erano
vestiti con abiti molto leggeri, adatti al clima libico.
Alcuni internati furono  ricoverati in ospedale perché affetti da tracoma e da scabbia.
Le condizioni igieniche e sanitarie del campo, con l'arrivo dei libici, subirono un
peggioramento. . Un rapporto della Legazione svizzera del gennaio 1942 riportò le
condizioni del campo come "pessime".
Era presente una sola doccia con acqua fredda e 4 lavandini per tutti gli internati, che
teoricamente dovrebbero usufruire di tali servizi per tre volte alla settimana (doccia) e tre
volte al giorno (lavandini).
La Legazione svizzera lamentò come il campo era troppo piccolo rispetto al numero degli
internati, tra cui vi erano 25 bambini e diverse donne incinte. Una famiglia di 15 persone 
dovette alloggiare in un unico vano con solo quattro letti.

Lista degli ebrei libici arrivati a Oliveto il 28 gennaio 1942 (ACS Roma)

"Così ricorda quei momenti Gabriele Burbea che all'epoca aveva solo cinque anni:
Nel campo vivevano circa 30 bambini e io ricordo che insieme a molti di loro mi mettevo di
fronte al cancello del campo e vedevamo gli agricoltori sui carri pieni di frutta, legumi e
verdura fresca che portavano ai mercati in città. Noi mettevamo le braccia fuori dal cancello
e chiedevamo qualche grappolo d'uva o qualche altra frutta. Per convincerli a darci
qualcosa dicevamo che la frutta l'avremmo data a nostra madre che era incinta.
Tra il 25 luglio e 1'8 settembre 1943 Badoglio mantenne in vigore l'intera legislazione
persecutoria, anche se furono prese misure per la liberazione degli internati. L'ordine per la
liberazione degli ebrei stranieri giunse solo 1'11 settembre. Mentre il campo di Bagno a
Ripoli continuò a mantenere la detenzione degli ebrei là internati dietro intervento del
Questore di Firenze Mormino, ad Oliveto all'arrivo della circolare vennero aperte le porte
del campo. Molti ebrei rimasero però nella struttura credendo di potervi continuare a vivere
tranquilli e protetti e avendo paura di andare incontro a pericolose incognite avventurandosi
nel mondo esterno. Gli internati di Oliveto erano molto meno consci del pericolo incombente
di quelli di Bagno a Ripoli, 50 dei quali si dettero alla fuga il 22 settembre nonostante la
sorveglianza fosse stata rafforzata. La difficoltà a mettersi in salvo era maggiore al campo
di Oliveto per la presenza di donne e bambini, che invece erano assenti a Bagno a Ripoli.
Dopo l'armistizio rimasero a Villa Mazzi una settantina di persone, per la maggior parte
donne e bambini.
Il 23 novembre 1943 il Ministero dell'Interno revocò la circolare dell'11 settembre e ordinò
che i cittadini di Stati nemici già internati fossero nuovamente sottoposti ad internamento. I
campi di internamento per ebrei ancora in funzione in Italia divennero di fatto delle
anticamere per i campi di sterminio.
A Bagno a Ripoli a metà dell'aprile 1944 quasi tutti gli internati ebrei vennero prelevati dai
tedeschi.
"Così il 10 febbraio 1944 il direttore del campo di concentramento di "Villa Oliveto" informò
ufficialmente la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza e il questore che
«Il 5 corrente si presentò a questo Campo un reparto di SS Germanici, i quali rilevarono con
un autocarro gli internati ebrei, sudditi Britannici di cui all'unito elenco, avviandoli per
ignota destinazione».
Tra i 62 ebrei libici prelevati vi erano anche cinque bambine nate nel campo: Loris Labi di 5
mesi, Grazia Reginiano di 4 mesi, Lina Reginiano di 4 mesi, Anna Labi (nata nel precedente
campo di Camugnano) di un anno e mezzo, Vittoria Reginiano di quasi 10 mesi.
Solo 8 persone rimasero al campo. In realtà gli ebrei libici di Villa Mazzi furono dapprima
portati alle carceri di Firenze, per poi essere trasferiti con un carro bestiame al campo di
Fossoli. Da li, dopo sette mesi, furono deportati a Bergen Belsen, il campo in cui sarebbe
morta, nell'inverno 1945, Anna Frank. Qui rimasero 4 mesi, dopodiché furono finalmente
liberati.
Gli ebrei di Oliveto non vennero eliminati nel campo di sterminio solo perché
rappresentavano oggetto di scambio con tedeschi prigionieri degli alleati.
II campo di Oliveto fu chiuso nel maggio 1944.

Prelevamento di internati ebrei da parte di truppe SS tedesche, con elenco dei nominativi, 10 febbraio 1944. (ACS, Roma)
https://www.ilpostalista.it/arezzo/imm/9407.jpg
https://www.ilpostalista.it/arezzo/arezzo_0208.htm



L'internamento a Bazzano

A Bazzano (Valsamoggia – Bologna) è tutt’ora presente un’antica casa colonica, denominata
“Bagantona”,   che un tempo era isolata nella campagna.

Qui furono internati a più riprese, tra l’aprile 1942 e la fine di settembre del 1943, 58 ebrei
(appartenenti a 9 diversi gruppi familiari) di nazionalità inglese di età compresa tra 1 e 72
anni (ai quali si aggiungeranno due bambini nati durante l’internamento).
Furono deportati dalla Libia e cioè da Bengasi, Barca e Tripoli.
Alcuni di loro provenivano da diversi campi:  Civitella del Tronto (TE),  Bagno a Ripoli
(FI),  Castelnuovo ne’ Monti (RE) e Camugnano (BO).
Numerose le testimonianze degli abitanti di Bozzano che vissero quei momenti legati
all’arrivo dei deportati..
“quelle persone” avevano degli strani vestiti, dei “sottanoni” e che non venivano mai in
piazza. La gente diceva di loro che erano “ebrei”, ma per un bambino questa parola non
poteva significare molto ed era semmai assimilabile a quella di straniero.
 
Ricordo che c’erano almeno due famiglie con molti ragazzi e ragazze. Era d’estate e questi
giovani facevano un gioco piuttosto pericoloso: dal ponte sul Samoggia, facevano gare di
tuffi: erano robusti, di buon aspetto fisico. Passavano così i pomeriggi e noi che eravamo più
piccoli di  loro, li guardavamo. Certo che il fiume non era come adesso, c’era acqua
abbondante anche d’estate. Poi ricordo che c’erano delle ragazze e che giravano sempre
insieme: erano molto belle e appariscenti e tutti in paese commentavano le loro grazie …
 i nostri ragazzi cercavano di conoscerle, di avvicinarle.
Una ragazza di Bazzano, allora sedicenne e stava imparando a fare la camiciaia in casa della
Sig.ra Desdemona…
Le loro ragazze venivano spesso da noi per farsi ricamare la biancheria. Portavano i tessuti,
di ottima qualità e poi tornavano a riprenderli quando il nostro lavoro era finito…..
Erano delle ragazze bellissime, con lineamenti molto affascinanti. Usavano un trucco molto
marcato che metteva in risalto i loro occhi. (Verosimilmente usavano la polvere di Khol, che
si ricava da un minerale e, una volta raffinato si mescola a polvere d’aglio che protegge gli
occhi da infezioni. E’ tuttora usato in molto paesi del Nordafrica). Si, erano molto truccate e
appariscenti … tipo Moira Orfei. Con bei capelli neri, ben curati. Vestivano con abiti lunghi,
del tipo di quelli usati dagli arabi (Jalabiia: abiti in uso nel Mascrek e nel Magreb) ed
avevano un’eleganza naturale. Posso capire che i ragazzi del paese fossero attratti dalla
loro bellezza esotica … Dalla qualità dei loro tessuti e dai loro abiti di ottima qualità, si
capiva che erano di famiglie facoltose.
 
dei signori, molto eleganti, che non avevano vestiti da paesani. Erano molto distinti. Però
giravano radenti i muri, con fare molto guardingo e preoccupato. Quando domandavo ai più
grandi chi fossero, mi veniva risposto con molta circospezione e a mezza voce: “sono
ebrei…”. Dal tono e dal modo delle risposte intuivo che quelle persone avevano dei
problemi o che potevano darne. Ma io non avevo l’età per capire di più, né mi furono mai
date altre spiegazioni.
 
Di gran valore storio anche la testimonianza del Sig. Remo che all’epoca aveva 18 anni e che
era molto attivo nella Resistenza.
Tra l’altro partecipò con la sua squadra al tentativo di raggiungere Bologna per promuovere
il progetto di insurrezione che culminò con la battaglia di Porta Lame. Anche lui e i suoi
compagni, come la squadra di Corrado Masetti (Bolero) che fu poi sterminata a Casteldebole,
furono impediti nell’intento dalla piena del fiume e dovettero riparare in un casolare di
campagna.
Ricordava bene gli sfortunati ebrei della “Bagantona”..
In quella grande casa, che allora era in mezzo alla campagna, vivevano delle famiglie
ebree: almeno due. Io ero giovane ed ero attirato dalle ragazze che risiedevano lì. Erano
bellissime e tutti noi giovani eravamo attratti da loro. Gli uomini erano vestiti in modo
diverso da noi: portavano abiti lunghi e larghi. Certo, stavano in campagna, eravamo
nella bella stagione e forse così erano più comodi… Quella casa stava in mezzo ad un
podere che veniva lavorato da Francesco C. Egli aveva altri fratelli con cui aveva lavorato
in un podere più grande che si chiamava “Acqua Salata”. Poi lui si era trasferito alla
“Bagantona” e si era messo in proprio. Poi, una notte, gli ebrei sparirono. Ricordo che
Francesco era disperato e continuava a dire che il suo grande bene se ne era andato ... Il
“suo grande bene”, così diceva. Credo che fosse innamorato di una delle donne che
risiedevano lì. Io lo potevo ben capire, a tutti noi era capitato di sognare un amore con
quelle ragazze. Si era giovani, la vita era piena di pericoli e per reazione si pensava con
maggior intensità a far l’amore… Ma per gli ebrei la situazione, dopo l’armistizio, si era
fatta davvero pericolosa. Cesare Parini, (partigiano e futuro Sindaco di Bazzano) che era
il nostro comandante ce lo diceva sempre: “È meglio che questa gente trovi il modo di
andare via perché altrimenti va a finire male”…

Dai rapporti redatti dalle autorità italiane a seguito delle ispezioni della legazione Svizzera
emergerebbe una condizione abitativa leggermente migliore rispetto  agli altri centri
d’internamento. Le condizioni sanitarie erano però critiche almeno nel primo anno del loro
internamento.
La relazione nel dicembre 1942…
Bazzano. Clima: dolce in estate, ma molto umido e nebbioso nell’inverno. Abitazione: Le
stanze sono pulite e tutte equipaggiate con stufe dove gli internati preparano anche il loro
cibo però, oltre ai letti, non vi è mobilia. Abbiamo insistito perché ogni stanza sia
immediatamente ammobiliata con un tavolo e qualche seggiola, o almeno
panche. Installazioni sanitarie: Assolutamente insufficienti. Vi è solamente una ritirata che è
usata da tutti gli internati di ambo i sessi e di ogni età. Detta ritirata dista 25 metri dal
fabbricato. Questa situazione è intollerabile per donne e bambini come anche per gli anziani
specialmente di notte e con cattivo tempo. Vi è una ritirata nella casa; ma, dato il pericolo di
infiltrazione nel vicino pozzo dell’acqua da bere, non può essere usata. Per essere sicuri che
l’acqua potabile è assolutamente incontaminata, come le autorità dichiararono, abbiamo
ordinato un’analisi da eseguirsi da un ufficiale sanitario. Inoltre vi è solamente un piccolo
lavandino dove gli internati devono anche lavare i loro indumenti. Noi abbiamo richiamato
l’attenzione delle competenti autorità, su queste condizioni impossibili. Abbastanza vicino
alla casa noi abbiamo trovato una capanna che potrebbe essere facilmente trasformata in
lavanderia.
Una relazione del Prefetto di Bologna, dott. Salerno, inviata al Ministero dell’Interno
(Ministro era ancora Benito Mussolini) e alla Direzione generale di P.S. del 12 marzo 1943, a
seguito della ispezione della Legazione Svizzera, per rimediare ai problemi da quella
denunciati, fu istituita dal Prefetto una piccola commissione composta dal Medico
provinciale, da un funzionario di P.S. e dal Ragioniere capo della prefettura, incaricata di
accertare quali fossero le effettive condizioni di detti internati e quindi attuare le provvidenze
ritenute necessarie per una più conveniente sistemazione di quelle comunità …..
e inoltre:
Per quanto riferiscesi a Bazzano detta commissione ha rilevato che pur esistendo  un certo
affollamento determinato dal fatto che in appena nove camere alloggiano 50 persone, le
condizioni sono nel complesso soddisfacenti, in quanto ogni famiglia dispone di una propria
camera, oltre ai servizi in comune; la pulizia è assicurata e nel complesso gli internati si
sono mostrati soddisfatti, anche perché, trattandosi di persone di ceto molto modesto, le
condizioni di vita attuale non sono affatto differenti da quelle in cui vivevano abitualmente.
Nello stesso rapporto si comunicò …
di aver provveduto a far riattivare la latrina interna, e «alla messa in opera di una vasca per
il bucato e sono state impartite disposizioni perché sia costruita una lavanderia in un locale
attiguo al fabbricato, che possa eventualmente servire anche come gabinetto da bagno….
Era stata disposto per l’imbiancatura di tutti gli ambienti, la verifica dei pagliericci e delle
brande e «per la consegna immediata di tavoli e panche nel numero ritenuto necessario.
In merito alla vita quotidiana degli internati la studiosa Aurelia Casagrande fece delle
ricerche in merito..
Nonostante i rigorosi controlli e i numerosi divieti, le autorità locali assecondarono sempre
le richieste degli internati, quando si trattava di agevolarne le pratiche religiose. E infatti
quando fu necessario provvedere alla circoncisione dei due bambini nati in loco, il podestà
permise l’arrivo a Bazzano del rabbino di Bologna. Allo stesso modo, in occasione della
Pasqua ebraica, vennero forniti agli internati gli ovini da macellare secondo la loro usanza.
Agli ebrei fu inoltre permesso di allontanarsi dalla «Bagantona» per andare a lavorare in
paese. Alcuni di loro, infatti, debitamente segnalati alla Questura e sorvegliati, vennero
autorizzati a lavorare chi presso la segheria di Bazzano, chi presso un elettricista, chi nello
stabilimento per la lavorazione della frutta, mentre il Comune, per conto del Ministero
dell’Interno, corrispondeva a ciascuna famiglia un modestissimo sussidio giornaliero per
garantirne la sopravvivenza.
A Bazzano come a Camugnano, ed anche negli altri centri, ci furono dei frequenti richiami
alle autorità locali, anche da parte della popolazione, per un più stretto controllo degli
internati.
Internati che erano speso accusati di piccoli furti che si verificavano nelle campagne.
A Camugnano fu avanzata anche la proposta per
Impedire agli internati di allontanarsi per più di 50 metri dall’abitazione per tutta la durata
della stagione di maturazione delle castagne per impedirne una raccolta abusiva da parte
loro.
Non si sa se la disposizione fu adottata.

Dopo l’8 settembre 1943, proclamazione dell’Armistizio di Cassibile e la conseguente
occupazione nazista, la posizione degli internati si fece molto pericolosa.
A novembre furono prelevati di notte dai tedeschi e di loro non si seppe più nulla.
Forse furono prima condotti a Fossoli, il campo di internamento più grande del Nord Italia e
posto vicino a Bazzano. Una cosa fu certa…. Furono condotti in Germania…
Le vicende furono raccontante dagli stessi ebrei che a distanza di tempi si ripresentarono.
Le testimonianza sarebbero legate ai documenti dell’Archivio Storico del Comune di
Bazzano.
Carteggio amministrativo, 1945, cat. XV, cl. 8, b. 670. 
-        Lettera del Commissario Prefettizio del Comune di Bazzano alla Questura di Bologna (Bazzano, 21 marzo 1945): “Nel dubbio di poter recuperare tutti gli atti rimasti sotto le macerie della sede municipale semicrollata in seguito al bombardamento aereo del 26 febbraio u.s., Vi prego trasmettere copia della pratica medesima (ebrei inglesi già internati a Bazzano) onde poterne dare sollecita evasione”.
-        2) Lettera di Giohra R. al Comune di Bazzano (La Bourboule, 15 settembre 1945): “La sottoscritta Giohra R. di nazionalità inglese, internata in Italia dal maggio fino all’ottobre 1943 [La signora parla di maggio, ma sappiamo che gli ebrei erano qui da almeno tre mesi prima, come attestano i certificati di nascita già citati dei due bimbi], chiedo cortesemente di volermi inviare il mio passaporto.
-        3) Lettera di Isacco B. al Comune di Bazzano (La Bourboule, Hotel Continental, n. 39, 20 settembre 1945) [Chi scrive è la stessa persona della lettera n. 11]: “Il sottoscritto Isacco B. di H. di nazionalità inglese, fa sapere di quanto segue. Io e la mia famiglia eravamo internati al suddetto Comune; dopo l’armistizio del maresciallo Badoglio i tedeschi ci hanno trasferito in Germania e ci ha confiscato la nostra roba e i nostri soldi e i nostri gioielli e dopo lunghe sofferenze siamo liberare dagli americani e ci hanno trasferito in Francia ma però siamo senza nessun documento personale; prego alla spett. Comune di mandarmi il mio passaporto il più presto possibile per il fatto che non posso partire per nessun posto se io non ho il mio passaporto e di fatti sono già 11 mesi che siamo liberati, ma non ci fanno partire per il fatto del mio passaporto e prego anche di mandarmi un certificato di nascita del mio figlio Moris che nato ha Bazzano in tempo del nostro internamento, e di farci sapere se ancora esiste la rimanenza della nostra roba che abiamo lasciato alla villa Bagnatone. Prego di rispondermi e di inviarmi il mio passaporto e le carte di ricunuscimento anche quella di mia moglie. Vi ringrazio di tutto. Vi firmo con tutta la mia stima.”
-        4) Lettera del Sindaco di Bazzano, Lelio Benetti, al Questore di Bologna (Bazzano 30 ottobre 1945): “Alcuni ebrei inglesi, già internati in questo Comune, poi deportati in Germania, scrivono a questo ufficio dalla Francia richiedendo i loro passaporti depositati presso questo ufficio all’atto dell’internamento. Si chiede a codesta Questura se nulla osta a che sia aderito alla richiesta”.
-        5) Lettera di Salomone C. al Comune di Bazzano (Marsiglia, 8 novembre 1945): “Sapete che noi siamo in Francia dopo 5 annes de prigioniere [Perché cinque anni? Forse che le restrizioni delle loro libertà cominciarono in Libia?] vi prego che una sola cosa di mandare il nostro passaporto di Salomone C. vi ringrazio di tutto mio cuore”.
-        6) Lettera di V. L. al Comune di Bazzano (Marsiglia, Centre d’Etrangers n. 2, Marsaques Campagne Colgate, 8 novembre 1945): “Io sottoscritto V. L. di U. e A. L. nato nel 1924 a Bendasi (Pirenaica) prego la S. V. di inviarle il certificato di matrimonio sposato il 14 aprile 1943 a Bazzano provincia di Bologna con la signora P. L. nata a Bendasi nel 1918. Prego vivamente la S. V. di inviarlo con sollecitudine essendo fra poco tempo rientrerà a Bendasi e avrà bisogno di presentare al Console britannico della Pirenaica il certificato di matrimonio per ottenere un passaporto. Trovandosi sprovvisto di documenti essendo stati confischiate dai Tedeschi quando ci trasportarono da Bazzano in Germana. Vivi ringraziamenti e distinti saluti”.
-        7) Lettera al Consolato Generale d’Italia al Comune di Bazzano (Marsiglia, 19 novembre 1945): “Si sono presentati a questo Consolato generale i sudditi inglesi menzionati nel foglio annesso, i quali affermano che i loro passaporti e carte d’identità si troverebbero depositati presso codesto Comune. Poiché questi documenti sono necessari per permettere il ritorno dei titolari a Tripoli, si prega di voler trasmettere a questo Consolato Generale con tutta la possibile cortese urgenza”.
-        8) Lettera della Questura di Bologna al Sindaco di Bazzano (Bologna, 26 novembre 1945): “Di seguito alla mia lettera del 14 corr. Per corrispondere ad analoga richiesta del Consolato Generale Inglese di Milano, pregasi trasmettere, con tutta urgenza, i passaporti inglesi richiesti dagli interessati a codesto ufficio.”
-        9) Lettera del Sindaco di Bazzano, Lelio Benetti, alla Questura di Bologna (Bazzano, 6 dicembre 1945): “Con riferimento alla nota sopraindicata di codesto ufficio, trasmetto i passaporti dei seguenti ebrei già internati in questo Comune, i quali hanno fatto richiesta del documento stesso: Scialon R., Grazia R., Isacco B. Questi ex internati hanno dichiarato di risiedere attualmente all’Hotel Continental – La Bourboule – P.d. D. Francia. Allego inoltre i passaporti di altri ex internati depositati presso questo ufficio e precisamente: Oscar S., Salomon R. Isacco B. di A., David L., Ester B., nonché le carte d’identità di: Oscar S., Delly S., Scialon R., Isacco B., Zachia M., Vittorio R. di S., Vittorio R. di N., Giohra R., Beniamino R., Rina R., Lisa R., Diamantina A., Nina L. vedova S., Arbib M. in B. Pur non avendone questi fatta richiesta e non conoscendosi il loro indirizzo. Una richiesta telegrafica generica non firmata proveniente da Marzaques – Marseille fu inviata a questo ufficio di trasmettere i documenti a mezzo Console Inglese Alleato a Marsiglia al Centre d’Etrangers n. 2 – Marzaques – Campagne Colgate – Marseille”.
-        10) Lettera del Consolato Generale d’Italia al Comune di Bazzano (Marsiglia, 18 dicembre 1945): “Si prega di voler dare un cortese sollecito riscontro alla lettera di questo Consolato Generale del 19 novembre u.s. con la quale si richiedeva l’inoltro di passaporti e carte d’identità appartenenti a sudditi inglesi qui in attesa di rimpatrio in Africa”.
-        11) Lettera di Isacco B. al Sindaco di Bazzano (Marsiglia, Centre Languedoc n. 2 Colgate – Marzaques, 4 aprile 1946) [Chi scrive è la stessa persona della lettera n. 3]: “Io sottoscritto Isacco B. di H., di nazionalità inglese, ex internato civile di Bazzano provincia di Bologna, fa sapere quanto segue. Dopo la capitolazione d’Italia circa un mese i Tedeschi sono venuti a prenderci per trasferirci in Austria e ci hanno dato cinque minuti di tempo. Abbiamo portato con noi solamente i bagagli a mano che ci sono stati confiscati e che non ci ha restato solo quello che abbiamo lasciato alla villa Pagantone che spero che l’avete salvato. Prego a codesta autorità del Comune di Bazzano di farmi sapere qualche cosa al merito. Faccio sapere la distinta della roba che ho lasciato al Vostro Comune: - Una cassa contenente roba biancheria, ecc. - Tre materassi di lana - Uno comodo cassa contenente una macchina da cucire, due catene d’oro e uno scaffale. 

In quale  campo di concentramento furono deportati i 22 ebrei?
Probabilmente, data la loro buona salute e costituzione furono mandati in campi di lavoro
forzato e che quindi siano stati in grado di superare i 15 mesi di detenzione prima di essere
liberati.
L’unico interrogativo, il più drammatico, sarebbe legato alla fine  dei due neonati, Moris e
Sasi, che nacquero nel campo di Bazzano.
I campi di concentramento nazisti centellinavano la morte secondo un calcolo strumentale,
inumano e crudele…. Un calcolo che eliminava subito i bambini inadatti al lavoro..
Riuscirono i due neonati ad avere la protezione delle loro madri?
Furono assistiti dalla “Delasen, un’associazione ebraica particolarmente attiva nella tutela dei
bambini internati per salvarli da un destino crudele?
Nel campo di Camugnano fu internata una bambina…il suo nome,, Giulia Cohen..
Quando il 30 novembre 1943 fu diramato l’Ordine di Polizia N. 5, con cui il governo della
Repubblica di Salò ordinò
l’invio in campo di concentramento di tutti gli ebrei abitanti in Italia.
Una piccola parte degli internati stranieri - tra i quali anche alcuni ebrei anglo-libici - riuscirà
comunque a nascondersi o a trovare provvisoria protezione presso civili italiani e a
raggiungere la Svizzera o gli Alleati.

Giulia Cohen rilasciò una intervista nel dopoguerra…
Cohen Giulia
Nata il 27 giugno 1928 a Bengasi (Libia)
Località di internamento: Camugnano
Deportata a Fossoli, Bergen Belsen, Vittel
È sopravvissuta
Testimonianza di Giulia Cohen.
Sintesi da: Anna Pizzuti, Giulia Cohen racconta.
Da Bengasi a Bergen Belsen, passando per l’Italia (1942 – 1945):
la testimonianza, la storia. L'intervista è stata raccolta dal nipote, Haim Varda.

R: Io mi chiamo Giulia Cohen, figlia di Aron Cohen e Misa Rubin Sono nata a Bengasi
nel 1928. Ho vissuto a Bengasi fino alla guerra, fino al 1942.
D: Zia Giulia, vogliamo sapere del fascismo e del tempo prima della guerra.
R: I fascisti hanno obbligato gli ebrei ad aprire i magazzini e i negozi nel giorno del sabato
e noi eravamo molto religiosi. E hanno detto che tutti gli ebrei dovevano aprire i negozi,
per legge. Se non li aprivano avrebbero avuto molte punizioni.
D: E un’altra cosa: le scuole?
R: Nelle scuole bisognava andare ogni giorno, anche il sabato. Era nel tempo di Italo
Balbo sì che hanno fatto queste leggi? Sì.
D: Adesso vogliamo sapere come voi avete [reagito] a questi ordini. Prima c’era
amicizia con gli italiani e poi è cambiato così. La famiglia come ne ha parlato?
R: Era molto, come si dice triste, molto triste, preoccupata, per noi lavorare il sabato è
molto male, per la nostra religione, sì.
D: Ma voi come avete fatto?
R: Mio padre ha messo nel negozio uno di noi, bambini, non poteva vendere, lavorare,
solo stare così: non vendere, non toccare.
D: Zia Giulia, ora sul periodo quando i fascisti cominciarono a fare le leggi contro gli 
ebrei, che cosa è [accaduto], cosa erano?
R: Nel 1938 hanno detto che gli ebrei non potevano andare a scuola.
D: Che cosa avete capito, perché prima avete molto amici con gli italiani e con arabi,
come avete [reagito a] questo?
R: Noi non abbiamo saputo perché, cosa successe. In questo tempo [avevamo] molta
paura.
D: Avete, dal 1938 fino al 1941, vissuto con [queste leggi dei] fascisti: come avete
vissuto, in questo tempo?
R: Questi tre anni prima di tutto erano anni molto difficili perchè è cominciata la guerra e
tutte le notti [venivano] degli aeroplani per bombardare e noi abbiamo avuto paura.
Volevamo andare nei rifugi ma non era possibile con tutta la famiglia, piccoli, grandi,
vecchi. [Finalmente] vengono gli inglesi e noi abbiamo molto piacere, siamo contenti che
sia finita la guerra . Dopo che gli inglesi sono andati via da Bengasi, come si dice, [in]
ritirata, mio padre è partito con loro, è andato in India. Molta gente da Bengasi è scappata
con gli inglesi.
D: E non aveva paura per la famiglia?
R: Lui credeva che, forse, prendevano solo gli uomini.
D: E come come vi hanno detto che bisognava andare [in Italia]?
R: Una persona che era responsabile per la Comunità è venuta e ha detto: “Domani
mattina dovete essere preparati tutti”
D: Allora un giorno all’altro dovevate essere pronti.
R: Mia sorella era molto malata, l’hanno presa dal letto e noi eravamo otto bambini e la
mamma, senza il padre.
D: Dove siete arrivati prima?
R: Due giorni siamo stati nella strada, in camion, una notte abbiamo dormito nel camion.
Siamo arrivati a Tripoli. A Tripoli hanno messo tutta la famiglia in carcere. Circa per tre
mesi siamo stati a Tripoli. In questo carcere c’erano molti ladri, criminali, era molto
sporco, non avevamo il mangiare, vestiti, niente eravamo in situazione minimale.
D: E dopo tre mesi a Tripoli?
R: Dopo tre mesi siamo partiti in nave, sì.
D: Chi vi ha detto che bisogna partire, chi è venuto a dire, italiani?
R: Sì italiani.
D: E siete partiti da Tripoli per …?
R: La Sicilia e dopo in treno fino a Bologna.
D: E a Bologna cosa è successo?
R: Niente a Bologna. Da Bologna [siamo andati a] Camugnano, piccolo villaggio.
D: Siete arrivati la notte o la mattina? Siamo arrivati alla notte e loro: chi arriva, chi
arriva? Loro non sapevano niente di noi.
D:E quando siete arrivati dove avete dormito?
R: Noi eravamo in una casa a Camugnano, una piccola casa era e noi eravamo 44
persone (44 persone!!!) 20 bambini, siamo stati tutti insieme.
D: Quante camere?
R: Questa casa era molto piccola, noi eravamo la famiglia più grande e noi abbiamo avuto
una grande stanza.
D: Gli abitanti vi hanno ricevuto bene?
R: Loro non sapevano da quale parte noi venivamo, credevano che noi eravamo africani.
Ma dopo un giorno, due giorni sono venuti da noi con la musica, hanno fatto come una
grande – come si dice – gioia. Erano molto felici con noi. Uno aveva un acordion
[organetto]e ha fatto musica e abbiamo ballato con i cittadini.
D: Giulia, adesso tu mi racconti un po’ come è finito Camugnano, come è successo.
R: Eravamo a Camugnano da quasi due anni, un giorno sono venute due automobili.
Loro hanno detto: adesso tutti andiamo, venite tutti e hanno preso pistole e hanno detto:
nessuno farà niente, venite fuori. Io e mia mamma siamo andate nella camera di bagno
per cambiare i vestiti. Lui era un uomo un soldato con la pistola: andate fuori non fate
niente. Io ho [messo i miei ] vestiti uno [sull’]altro e anche la mia mamma. Noi abbiamo
avuto due vestiti, siamo molto ricchi. Gli altri hanno solo un vestito. Siamo andati con loro
con due automobili piccole [camion?], non grandi, eravamo 44 persone, tutti insieme,
come sardine. Siamo andati da Camugnano a carcere a Bologna.
D: E come era questo carcere?
R: In ogni camera eravamo quasi 10, 12 persone.
D: Che cosa era prima questo carcere, un convento?
R: Credo che [si chiamasse] San Donato [in realtà era il carcere giudiziario di San
Giovanni in Monte]. C’era una camera, c’erano suore. Suore, sì, suore ci hanno chiuso
dentro una camera.
L'intervista si interrompe a questo punto della storia. Giulia non se l'è sentita di
raccontare il successivo trasporto a Fossoli e al lager di Bergen Belsen, da dove fu infine
trasferita al campo di internamento di Vittel, in Francia, e lì liberata nell'estate del 1944.



A sinistra – Rachel Messika, assassinata nel campo di concentramento di Giado all'età di 50 anni. Dagli archivi fotografici e cinematografici di Yad Vashem

Campo di concentramento di Renicci 
(Frazione di Motina) Anghiari (Arezzo)
Roberto Monticini

Anghiari (Arezzo)


Casa natale  (Museo) di Michelangelo Buonarroti
Caprese Michelangelo, comune confinante con Anghiari

Il campo di Internamento di Renicci (“Campo Internamento fascista e badogliano n. 97”)
era posto nella frazione di Motina (Comune di Anghiari). Con il numero 97 era gestito
dall’Amministrazione Militare, numero 3200 di Posta Militare, e da quella Civile con il
numero 54.

Nell’estate del 1941 la costruzione del campo fu affidata all’impresa dell’architetto G. Berni
I prigionieri giunsero a Renicci dai campi di Arbe (Rab ), un'isola a sud di Fiume nel golfo
del Quarnaro (Carnaro), di Gonars (Udine) e di Chiesanuova (Caserma Romagnoli)
(Padova). Il campo di Gonars (vicino a Gorizia) era uno dei campi italiani più feroci e
terribili, dove, per le pessime condizioni del lager, morirono più di quattromila e cinquecento
persone, con una media di dodici decessi al giorno, soprattutto tra vecchi e bambini. Altro
campo terribile era quello di Arbe. I prigionieri, giunti alla stazione di Anghiari, venivano
incolonnati e dopo un percorso di 4 km (a piedi) raggiungevano il campo di Renicci.


Il 10 ottobre 1942 arrivarono i primi deportati a Renicci ma i lavori nel campo non erano
ancora stati ultimati. Molti prigionieri dormirono nelle tende montate dagli stessi prigionieri.
scarso il vitto e molti si nutrirono di ghiande.
A metà dicembre gli internati erano 3.884, sorvegliati  da 450 militari e carabinieri.
Il campo era una prigione ed i prigionieri erano in gran parte sloveni, della provincia di
Lubiana, in attesa di “sentenza”.
Non erano prigionieri di guerra ma in gran parte antifascisti o presunti tali.
Oltre agli sloveni c’erano anche dei croati, qualche serbo e montenegrino, alcuni albanesi e
greci.
A questi, come vedremo, si aggiungeranno molti anarchici.
C’erano anche una trentina di ragazzi compresi fra i 14 e i 17 anni.
Circa centocinquanta persone morirono durante la loro permanenza a Renicci. Basterebbe il
drammatico appello giunto da Renicci nel novembre del 1942:
Ora che siamo qui da sei settimane, dunque quasi quaranta notti sotto le tende, col tempo
piovoso e freddo per coloro che non hanno abiti, la situazione è piú grave. Le baracche per
ora non sono abitabili, soltanto due verranno assegnate ai bambini e agli ammalati. Sono
pavimentate in cemento, non abbiamo uno spaccio, tutto ciò può ben illustrare le dolorose
conseguenze che lasceranno il freddo e la fame.
La gente letteralmente muore al cospetto di tutti, gli internati si spengono 
come lumicini senza olio.
I morti nel campo erano messi sotto una tenda, fuori dal reticolato, nell'attesa che un militare
del posto sistemasse le casse, costruite con le assi in legno delle cassette di frutta. Lo stesso
podestà di Anghiari, Talete Bartolomei, lamentò, in una lettera al comando territoriale di
Firenze, che
il cimitero di Anghiari non riesce a ospitare tanti morti.
Malgrado i pochi mesi d'esistenza, in questo campo la mortalità fu molto alta; centinaia di
slavi furono sepolti nel cimitero di Micciano d'Anghiari che divenne ben presto insufficiente
a contenere tutte le salme che vennero quindi inumate nel cimitero comunale di Anghiari.

Anche attraverso attente ricerche da parte di studiosi, non fu possibile accertare quando
detenuti passarono da Renicci. Una stima parlerebbe di circa 10.000 internati in appena 11
mesi di vita del campo.
Era un grosso campo recintato da filo spinato e torrette di sorveglianza, suddiviso in tre
distinti settori, separati gli uni dagli altri da reti metalliche: due sezioni erano per gli slavi,
la terza per gli italiani. La guarnigione di guardia era composta da cinquecento armati
comandati dal tenente colonnello di fanteria Giuseppe Pistone, coadiuvato dal comandante
dei carabinieri Tronci.
 Tra luglio e l’agosto del 1943,  con la caduta del fascismo e l’avvicinarsi delle truppe alleate,
a Renicci vennero trasferiti 234 confinati politici provenienti dalla colonia di Ustica ed altre
centinaia di confinati ed anarchici dalle colonie di Ventotene e Ponza.

Elenco di internati politici provenienti da Ustica. (ACS)
nel campo di Renicci

Erano in gran parte anarchici e comunisti che il governo Badoglio decise di non liberare
come invece aveva proceduto con tutti gli antifascisti.
I detenuti presenti nel campo salirono a 3.620  e il corpo di guardia a 500 uomini.
Con l’arrivo dei prigionieri politici, l’atmosfera nel campo muto ed iniziarono delle forti
proteste, scioperi della fame e dimostrazioni.
Dopo l’8 settembre l’atmosfera si fece sempre più tesa. Molti militari di guardia fuggirono ed
altri sbandati giunsero nel campo.
Gli internati si rifiutarono di presentarsi all'appello quotidiano. 
La sera del 9 settembre ci fu una sparatoria  con quattro feriti ed un detenuto ucciso e gli
internati ed i confinati politici cominciarono ad essere rilasciati.
Tutti temevano l’arrivo dei tedeschi con il rischio di essere, compresi i militari, deportati in
Germania.
Il sabato pomeriggio del 14 settembre 943 giunsero nel campo, forse casualmente, tre
autoblindo tedesche.
I militari di presidio del campo si diedero alla fuga e gli internati, rendendosi conto che non
c’era alcuna vigilanza, fecero crollare il cancello e fuggirono verso le montagne che separano
la Valtiberina dall’Adriatico.
Un internato fu ucciso da una guardia mentre tentava di scavalcare il reticolato; un ragazzo
che aveva tentato la fuga fu ripreso e picchiato duramente.
Fuggì un notevole numero di prigionieri, all'incirca quattromila. Dopo l'allontanamento dei
tedeschi (nel tardo pomeriggio del 14 settembre 1943) il campo fu assalito e saccheggiato da
alcuni militari e da persone del posto. Portarono via tutto: viveri, coperte, lenzuola, carte,
fotografie, quasi a voler cancellare tutto.
Numerosi ex-prigionieri del campo di Renicci entrarono nelle file partigiane operando
soprattutto nell’Appennino Tosco-Marchigiano.
Perché i tedeschi non deportarono i prigionieri? Perché permisero che i detenuti fuggissero?
Al contrario di Urbisaglia, Civitella del Tronto, Alatri, dove gli internati furono portati verso
campi di concentramento tedeschi. Tutto restò avvolto nel mistero. Renicci fu, con Le
Fraschette, tra i campi dove la vita fu più dura e terribile.
In novembre il campo fu riaperto e messo a disposizione della questura di Arezzo. Vi erano
internati civili fermati per motivi politici e il centro venne gestito dalla milizia fascista.
Successivamente diventò un centro di raccolta di residuati bellici. Il 27 luglio del 1946
avvenne un'esplosione che causò la morte di due uomini. Entro la fine del '46 gran parte delle
munizioni furono fatte brillare vicino al Tevere.
Nel 1973 fu costruito a San Sepolcro un museo della Resistenza anche a ricordo delle
vittime. Episodi di violenza, di uccisione sono finiti nel dimenticatoio.

Campo di Renicci, estate 1943, internati al lavatoio (fonte www.cnj.it )

Angela Crociani e Beppone Livi,
partigiani  che organizzarono il soccorso agli internati fuggiaschi di Renicci.
(Foto archivio privato famiglia Draghi, Anghiari)

Il colonello Pistone, comandante del Campo di Renicci
(Fonte: www.storiememorie.it)
https://www.toscananovecento.it/wp-content/uploads/2015/12/foto-5.jpg

https://www.toscananovecento.it/wp-content/uploads/2015/12/foto-1.jpg

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Nota
Ma quando iniziò formalmente la colonizzazione?
La colonizzazione iniziò formalmente nel 1913 con l'istituzione dell'Ufficio Fondiario ,
che aveva il compito di assegnare terreni ai potenziali coloni italiani.
Inizialmente, l'Ufficio Fondiario diede per scontato che tutti i terreni incolti fossero proprietà
privata e assegnò ai coloni solo terreni pubblici. Tuttavia, il 18 luglio 1922, il governatore
italiano della Libia, Giuseppe Volpi (che in seguito avrebbe ordinato la Riconquista della
Libia), emanò un decreto che dichiarava
tutti i terreni incolti di pubblico dominio, aumentando di dieci volte la quantità di terra
disponibile per i coloni italiani.
Ulteriori decreti emessi causarono la confisca di terreni di proprietà dei ribelli o di coloro che
li aiutavano, nel tentativo di reprimere il dissenso.
Nel 1928, de Bono (successore di Volpi) emanò sussidi e crediti aggiuntivi per aiutare ad
attrarre più coloni. Nonostante queste misure, i tassi di immigrazione italiana furono molto
più bassi di quanto il governo si aspettasse, con poco capitale investito in terre libiche.
Quando  Omar Mukhtar fu giustiziato e i ribelli sconfitti, molte idee di progetti di opere
pubbliche e infrastrutturali poterono finalmente essere intraprese, oltre ai progetti di
reinsediamento. In effetti, tutti questi progetti richiedevano manodopera. Era la regione
perfetta per il tipico povero patriota italiano.
Nel 1934, la Tripolitania e la Cirenaica furono unite per formare una provincia con sede a
Tripoli. Quattro anni dopo, Mussolini avrebbe dichiarato la Libia parte integrante del Regno
d'Italia, formando la diciannovesima regione del paese, soprannominandola 
La Quarta Sponda d'Italia .

Mussolini, che fu imprigionato nel 1911 per le sue critiche all'invasione italiana iniziale,
aveva visitato la Libia tre volte: nel 1926, nel 1937 e nel 1942. La sua visita del 1937 fu per
inaugurare quello che fu descritto come il più grande progetto di lavori pubblici in Libia,
la strada litoranea (autostrada costiera) lunga 1.132 miglia, che correva dal confine tunisino a quello egiziano.
Sebbene gli italiani insistessero sul fatto che servisse solo a migliorare il turismo nella
regione, i contemporanei videro il valore militare strategico di tale strada. In effetti, questa
strada si rivelò cruciale per la vittoria sul fronte nordafricano della seconda guerra mondiale
(e più di recente, della guerra civile libica). La stampa in Italia la salutò come un'impresa di
ingegneria italiana, nonostante fosse stata costruita sulle spalle dei lavoratori libici.
Due grandi ondate di immigrazione si verificarono negli anni '30; una nell'ottobre 1938 e
l'altra nel 1939. Entrambe furono organizzate dal governatore italiano Balbo, che guidò un
convoglio di circa 10.000 italiani in Libia nel 1938 e altri 10.000 l'anno successivo. Il suo
piano era di insediare 20.000 coloni all'anno per cinque anni, con l'obiettivo finale di
raggiungere i 500.000 coloni entro il 1950.
In quello che potrebbe essere visto come un precursore delle reazioni contro l'immigrazione
ebraica nella Palestina britannica, l'immigrazione italiana suscitò risentimento e proteste nel
mondo musulmano, con agitazioni contro di essa che apparvero fino a Baghdad.
Un maggiore sostegno ai coloni emerse sotto forma della corporazione agricola Ente, che
avrebbe dovuto attrarre gli agricoltori. Utilizzando terreni confiscati, i coloni (che alla fine
degli anni '30 erano 50.000) lavorarono in 2.000 fattorie. Entro il 1939, gli italiani
costruirono 400 chilometri di nuove ferrovie e 4.000 chilometri di nuove strade. Fino al
1940, fu persino organizzato annualmente un Gran Premio di Tripoli, mentre gli archeologi
italiani riportarono in luce l'insediamento fenicio in rovina di Leptis Magna e inviarono
reperti ai musei della terraferma.

Gran Premio di Tripoli 1937. Fonte: Rossana Bianchi

Molti dei coloni erano poveri, ma in genere stavano economicamente meglio della
popolazione nativa libica. I libici, per lo più poveri, erano risentiti per lo sviluppo italiano,
ricordando ancora il genocidio virtuale da loro commesso. Fu solo nel settembre del 1933
che i campi di concentramento furono finalmente chiusi, e lasciarono un tributo orribile.
40.000 dei 100.000 internati totali morirono nei campi. Sebbene i libici fossero risentiti per
gli stranieri, la propaganda italiana ritrasse una storia molto diversa. Nella visita di Mussolini
del 1937, dichiarò che la Libia era
"moralmente e profondamente italiana",
e i musulmani di Tripoli lo accolsero chiamandolo
"il più grande uomo del secolo e un sincero amico dell'Islam".
Gli fu persino conferita la "Spada dell'Islam" (una spada fiorentina con una storia inventata)
e fu dichiarato "Protettore dell'Islam".
Per i libici nativi, la vita non era facile. Tutti i libici, di qualsiasi fede, dovevano fare il saluto
fascista. La maggior parte dovevano indossare  camicie nere durante la visita di Mussolini a
Tripoli nel 1937. E nel tentativo di diffondere le meraviglie del fascismo, il governo italiano
ordinò la formazione di un gruppo fascista per i giovani libici, la Gioventù Araba (Gioventù
araba), modellata sull'Opera Nazionale Balilla italiana .
Nel 1939, gli italiani permisero ai libici di richiedere la Cittadinanza Italiana Speciale,
relegando di fatto i libici a cittadini di seconda classe. All'epoca, ai libici non era consentito
lavorare professionalmente in lavori che coinvolgessero subordinati italiani. Detto questo,
sembrava improbabile che si trattasse comunque di un grosso problema, dato che ben presto
nel paese c'erano solo 16 laureati universitari libici. Tutto sommato, anche se l'occupazione
italiana portò a significativi miglioramenti nelle infrastrutture e nella produzione agricola,
lasciò dietro di sé una popolazione libica nativa che non era qualificata e in gran parte
ignorante, mentre il paese era privo di istituzioni politiche efficaci. Gli effetti di ciò
sarebbero stati evidenti nei decenni successivi.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, il piano di Balbo andò in frantumi. La
maggior parte dei combattimenti avvenne nelle fattorie assegnate ai coloni. Nel 1941, erano
rimasti solo 8.426 coloni. Nel giro di un anno, questo numero si dimezzò. Dopo la fine dei
sussidi e del sostegno governativo, i coloni abbandonarono la Libia. Le forze alleate
occuparono la Libia nel 1943. La Libia avrebbe dichiarato la sua indipendenza nel dicembre
1951.

La resistenza libica portò ad un genocidio. Si parlò della morte di 83.000 libici ma fu un
cifra largamente sottostimata. Circa 70.000 civili delle aree rurali (per lo più donne,
bambini
ed anziani) morirono di fame e di malattie.
Questa deliberata politica di uccisioni di massa e carestia organizzata cercò di
annientare un
intero popolo e una cultura. Fu seguita da una campagna di successo contro la memoria
storica: una campagna sistematica per cancellare qualsiasi documento storico , poiché il
governo fascista italiano soppresse le notizie sul genocidio e distrusse prove materiali e
storiche.
Questa amnesia collettiva orchestrata sarebbe continuata ben dopo la fine dell'Italia
fascista nel 1943 e forse ancora oggi.
Una verità nascosta anche nei libri di storia dove per il genocidio in Libia si dovrebbe
creare un collegamento con l’Olocausto.
Ci sarebbero delle testimonianze in merito che dovrebbero fare riflettere.
Le pubblicazioni in lingua, sponsorizzate dall’Italia nel periodo coloniale, rilevarono
diverse visite in Libia da parte di funzionari nazisti tedeschi che
percepivano e studiavano i metodi di insediamento dei fascisti italiani come "riusciti".

Il cancelliere nazista tedesco Adolf Hitler (a sinistra) riceve il governatore italiano della Libia Italo Balbo (al centro) al Berghof vicino 
a Berchtesgaden il 13 agosto 1938 (AFP)

In una visita ufficiale a Tripoli nell'aprile del 1939, il feldmaresciallo nazista Herman
Goring incontrò il governatore generale coloniale italiano della Libia, Italo Balbo,
succeduto a Pietro Badoglio.
Secondo Ahmida…
Badoglio fu l'architetto dietro il piano originale di mettere le persone nei campi di
concentramento con lo sterminio in mente". 
Il capo delle SS Heinrich Himmler fece una visita ufficiale in Libia nel 1939 per vedere di
persona i risultati sui campi di concentramento.
Continuò tristemente a istituire i campi di sterminio nazisti e concepì l'idea della Soluzione
Finale: l'Olocausto. 

Lo stesso Ahmeda mise in evidenza la mancanza di studi storici sull'argomento
dell'imperialismo italiano e l'estrema violenza da esso messa in atto per sottomettere le
popolazioni locali nelle colonie. 
L'estrema violenza perpetrata contro i libici dai fascisti italiani divenne un modello per ciò
che i nazisti tedeschi avrebbero finito per fare sul suolo europeo
Lo stesso autore mise in evidenza il netto contrasto con l'abbondanza di studi sul fascismo.
Un aspetto  spiegato attraverso il concetto del mito popolare della “brava gente”….”gli
italiani sono essenzialmente brave persone e quindi incapaci di commettere atrocità come
altre potenze imperiali, o persino altre forme di fascismo. 
È come se i fascisti italiani non potessero essere presi sul serio come il partito nazista in
Germania. Persino Mussolini è spesso raffigurato come un buffone , un pagliaccio o un
banale dittatore, piuttosto che come una manifestazione di una pericolosa minaccia
ideologica da parte di un movimento politico basato sul primato della violenza e della
conquista. 
Tuttavia, i nazisti tedeschi erano lungimiranti sulla natura del fascismo italiano fin
dall'inizio. L'estrema violenza perpetrata contro i libici divenne un modello per ciò che
avrebbero finito per fare sul suolo europeo. Le loro visite sul campo in Libia furono
seguite da libri, conferenze e seminari sull'esperienza coloniale italiana sia in Libia che in
Abissinia (Etiopia), dove gli italiani portarono avanti una campagna simile di estrema
violenza .
Questi fatti storici furono significativi per stabilire una connessione tra il genocidio
coloniale e l'Olocausto. Gli studiosi del genocidio e i lettori furono costretti ad affrontare
l'Olocausto da una nuova prospettiva: la storia genocida della Germania nazista era
fortemente correlata a quella dell'Italia fascista: le due erano inestricabilmente legate e
non potevano essere pienamente comprese senza l'altra.  
In effetti, prima di Auschwitz e di altri campi di sterminio, c'erano i campi di
concentramento fascisti italiani di El Agheila , Slug, Braiga e Magrun (i campi di
concentramento erano 19).

Ahmida sostenne che
"l'intera teoria costruita del genocidio in Europa è miope e falsa".
L'idea di un fascismo moderato italiano è ancora una narrazione ampiamente accettata
dell'eredità di Mussolini , e il caso della Libia rimane assente anche dai libri più recenti
sul genocidio dimenticato.
Tuttavia, la storia orale e le testimonianze dei sopravvissuti dei campi riuscirono a colmare
questa lacuna storica. 
Questa parte della storia della Libia, scoperta solo di recente, è stata sistematicamente
messa a tacere dai colonizzatori fascisti, i cui effetti persistono ancora oggi attraverso
l'amnesia autoinflitta e gli approcci orientalisti che hanno permeato la conservazione degli
archivi storici. 
https://www.middleeasteye.net/opinion/libya-italy-fascism-colonial-past-forgotten-genocide

Nota N. 2
Badoglio implicato nell’uccisione dell’aviere ed ex segretario del PNF?

Ettore Muti, nato Muty
(Ravenna, 22 maggio 1902 – Fregene, Fiumicino, Roma, 24 agosto 1943)
Ettore Muti con l'uniforme da Luogotenente generale della MVSN
(Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale)

Il 24 agosto del 1943 Ettore Muti, ex segretario del Pnf (Partito Nazionale Fascista), fu
prelevato dalla sua abitazione dai Carabinieri.
Il Motivo dell’arresto?
Carmine Senise, capo della polizia (dal 20 novembre 1940 al 14 aprile 1943 e dal 26 luglio
1943 al 23 settembre 1943), riportò  nelle sue memorie gli avvenimenti.
Il generale Giacomo Carboni, ex direttore del Servizio informazioni Militari (SIM) (dal
novembre 1939 al settembre 1940), dopo la ceduta del fascismo (25 luglio 1943) rilevò al
maresciallo Pietro Badoglio un complotto di fascisti e di tedeschi per effettuare un attacco su
Roma programmato per il 28 agosto.
Fu dato l’ordine di arrestare alcune importanti personalità del passato regime fascista…



I Carabinieri si presentarono perciò a Fregene dove Muti, rientrato dalla Spagna dopo il 25
luglio, abitava in un villino insieme a un'amica. Secondo la versione ufficiale dei Carabinieri
Muti cercò di fuggire e fu colpito a morte.
A seguito dell'accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale, nelle
quali risultava implicato l'ex segretario del P. N. F., Ettore Muti, l'Arma dei Carabinieri
procedeva nella notte dal 23 al 24 corrente [agosto] al fermo del Muti a Fregene. Mentre lo
si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco alcuni colpi di fucile contro la scorta.
Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga ma,
inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai carabinieri, decedeva.
I particolari della vicenda non furono mai chiariti.
Il Muti fu condotto nella vicina pineta di Fregene e lì brutalmente assassinato.
Chi furono i mandanti dell’omicidio?
Soltanto quattro giorni (19/20 agosto) prima il maresciallo Pietro Badoglio aveva inviato al
capo della Polizia Carmine Senise un biglietto dal tono inquietante..:
Muti è sempre una minaccia. Il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di
preparazione. Vostra eccellenza mi ha perfettamente compreso.
Un caso? Ma pochi giorni dopo lo stesso Badoglio annunciò la firma dell’Armistizio di
Cassibile con gli angloamericani.

Nel  settembre ’43, appena dopo un mese dalla morte del Muti, la propaganda
fascista lo presentò a Roma come un martire e gli fu dedicata una piazza.
 Nel dicembre 1944 fu diffusa la notizia dell'esistenza di un biglietto, di cui lo stesso
Carmine Senise (capo della polizia) non  escluse in assoluto che potesse davvero essere stato
scritto da Badoglio, ma riferì
di non ricordare di averlo ricevuto e che se lo avessi veramente era 
da intendersi in altro modo,
Un biglietto nel quale Muti era indicato come «una minaccia» e che avrebbe costituito
un'indicazione di ucciderlo. 

Nel 1950 il settimanale neofascista «Asso di bastoni» presentò una denuncia contro Badoglio
utilizzando lo stesso biglietto. 

risultò però trattarsi di un fotomontaggio realizzato sulla base di un altro messaggio di
Badoglio e l'accusa fu archiviata.





Il Muti era una figura pericolosa, ingombrante per vari motivi.
Per i suoi grandi meriti di soldato e di aviatore che gli avevano permesso di ottenete
grandi riconoscimenti al valore militare, rappresentava la figura del vero fascista e
cioè incorruttibile, ligio al dovere, per nulla propenso ai compromessi e alle soluzioni
di comodo.
Mussolini   si rese conto della forte personalità e valore del Muti e, si consiglio di
Ciano, gli affidò (nell’aprile 1939, subito dopo la campagna d’Albania), la presidenza
del PNF.
Il Muti affrontò il nuovo impegno politico con impegno a tal punto da proporre nuove
iniziative per un possibile rilancio del partito.
Un partito che doveva essere smantellato e ricostruito su basi nuove cercando di
eliminare le vecchie presenze del passato legati ad aspetti clientelari.
Per questo motivo si circondò di uomini fidati, soprattutto compagni d’armi e
militari.
La sua azione riformatrice ben presto si fermò e tornò sul campo di battaglia con il
solito grande entusiasmo.
Il 25 luglio 1943 ci fu la caduta del fascismo e il Muti, come altri gerarchi fascisti.
Giurarono fedeltà al Re e al muovo governo (Badoglio).
Il Badoglio, almeno all’inizio, ebbe dei buona rapporti con il Muti tanto da affidargli
delle missioni.
Questo fu un privilegio dato che almeno un migliaio di fascisti furono imprigionati.
Ma quali missioni il Badoglio affidò al Muti?
1)     Il Muti aveva dei buoni rapporti con gli ufficiali tedeschi e il Badoglio gli affidò
quindi il compito di capire le loro intenzioni militari specialmente dopo
l’allontanamento del Duce;
2)     La seconda missione fu quella di cercare di convincere la divisione corazzata
“Camice Nere”, di stanza a Bracciano, di eliminare dalle mostrine la lettera “M” (che
stava per Mussolini). Questo incarico, data anche  il suo passato fascista, fu rifiutato
dal Muti.

Come mai successivamente il Muti fu considerato un pericolo o una minaccia per il
suo governo nel periodo post fascista?
Dopo la caduta del fascismo e con la nascita del governo Badoglio, la situazione in
Italia era drammatica.  Gli alleati continuavano a bombardare le città (drammatici i
bombardamenti de 5 agosto a Napoli e del 15 a Milano) falciando migliaia di vittime
civili. La popolazione  cominciò a manifestare un grande senso d’insofferenza e di
grave preoccupazione. I civili si erano illusi che , con la caduta dal fascismo, la
situazione sarebbe migliorata con una cessazione delle ostilità.
Un pensiero del tutto sbagliato perché il nuovo governo era incapace di adottare
provvedimenti idonei. Il nuovo governo militare, con i suoi provvedimenti, aveva
finito con il fomentare gli animi.
Il Badoglio era in uno stato mentale di totale confusione perché
Da un lato riaffermava la fedeltà all’alleato tedesco,
mentre dall’altro tesseva una nascosta tela per cercare di
giungere ad un accordo con gli anglo-americani.
Uno stato di confusione totale che venivano pagato acaro prezzo dai civili. Ci furono
dei disordini a Milano, Torino, Reggio Emilia, Genova, La Spezia, a Trieste e a Bari.
La gente, un po' dappertutto manifestò la sua preoccupazione.
Le forze dell’ordine reagirono più volte nei disordini sparando sui manifestanti e
causando molte vittime.
I vertici militari pensarono di ripristinare il vecchio “status”.
Come? Riportando sulla scena politica Mussolini e il fascismo e quindi instaurare il
governo in grado di porre fine ai disordini, alle proteste ed anche alla confusione
ideologica.
Riproporre una “marcia su Roma” che avrebbe avuto la preziosa collaborazione dei
tedeschi.
Un’azione proposta e condivisa da persone fidate e di gran carattere e fedeltà
militare.
L’aviatore Ettore Muti, grande uomo di guerra e dal passato fascista, era uno dei
profili adatti nell’esecuzione del piano che naturalmente prevedeva la caduta del
governo Badoglio.
Il capo della polizia Senise lo aveva infatti inserito in una lista di militare che agivano
per un colpo Stato.
Un altro aspetto di grande importanza era legato alla considerazione che il Muti
conosceva molto bene l’ambiente spagnolo per aver svolto in Spagna numerose
azioni militari.
Dopo la caduta di Mussolini, gli emissari del governo Badoglio, nella seconda metà
del 1943, aveva avviato nella penisola Iberica, delle trattative con gli angli americani
per fare uscire l’Italia dal conflitto.
Il Muti, grazie alle sue forti amicizie spagnole e portoghesi, era riuscito ad avere dei
documenti importanti e compromettenti che rilevano il gioco ambiguo italiano?
Un aspetto inquietante e sufficiente nel decretare la soppressione dei Muti dato che ne
era a conoscenza.
Infatti un aspetto strano fu che il Muti, prima della sua uccisione, alcuni mesi prima
fu inviato dal SIA (Servizio Informazione dell’Aeronautica) in missione proprio in
Spagna.
La missione era legata al recupero del radar di un velivolo americano che era
precipitato nel territorio spagnolo. Un’apparecchiatura molto importante per la sua
funzione tecnica nelle operazioni navali ed aeree.
Fu questo il vero motivo della missione in Spagna del Muti?
Fu eliminato per il buon esisto delle trattative tra italiani ed anglo americani che
porteranno nella firma dell’Armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943?
Il 25 agosto 1943 l’agenzia Stefano fece un comunicato…
A seguito di accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale,
nel quale risultava implicato l’ex segretario del partito fascista Ettore Muti, l’arma
dei Carabinieri procedeva nella notte dal 23 al 24 agosto corrente al fermo del Muti
a Fregene. Mentre lo si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco colpi di
fucile contro la scorta. Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga ma
inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai Carabinieri, decedeva.
Questa versione fu riportata nel rapporto del tenente Taddei, cioè l’ufficiale che fu
incaricato dell’arresto dei Muti.
Perché l’arresto di un alto e valoroso ufficiale dell’Aeronautica con un così grande
spiegamento di forze militari e soprattutto in piena notte?
Un arresto sulla base di presunte irregolarità nella gestione di un ente parastatale.
Quella sera Ettore Muti indossava un berretto che entrò in possesso dei familiari. Nel
berretto si trovavano due fori provocati dai proiettili.
Un foro (d’entrata) si trovava in corrispondenza della nuca e il foro (d’uscita) si
trovava invece sulla visiera.

Tutto questo lascia supporre che il colpo sia stato sparato da una distanza
ravvicinata e non durante un tentativo di fuga, come recitava il rapporto. Si era
trattato, in parole povere, di una vera e propria esecuzione. Muti era stato
freddato con il classico colpo alla nuca.
Uno dei Carabinieri, che quella sera partecipò all’azione, tale Antonio Contiero,
interrogato in seguito da alcuni esponenti della Repubblica Sociale non ebbe
difficoltà ad ammettere che si trattò di un omicidio.
Le altre persone, che si trovavano all’interno della villa in quei tragici momenti, non
ebbero il coraggio di parlare e raccontare la verità dei fatti.
Uno di essi, tale Roberto Rivalta, vecchio amico di Ettore Muti, che quella sera
dormiva alla villa, raccontò di aver visto un uomo vestito con una tuta color kaki,
sulla quarantina, basso, stempiato, con una forte inflessione napoletana che, almeno
secondo l’inchiesta condotta dai giudici di Salò, sarebbe stato l’esecutore materiale
del delitto. Il Rivalta, però, venne subito messo in condizioni di non nuocere. Prima,
infatti, fu condotto a Regina Coeli e lì tenuto in carcere per qualche tempo.
Riacquistata la libertà se ne tornò a Ravenna dove, poco dopo, fu trovato cadavere
con il solito colpo alla nuca. Un altro omicidio, quindi, restò impunito.
Ma di lì a breve ciò diventò una prassi tristemente diffusa e consolidata. In Italia era
ormai iniziata la guerra civile.
 Dopo l’armistizio la figura di Muti, fu ampiamente celebrata nella Repubblica
Sociale Italiana che a lui intitolò:
La Squadra di Bombardamento Ettore Muti: reparto dell’Aviazione Nazionale
Repubblicana.
Il battaglione Ettore Muti della Brigata Nera Mobile Achille Corrao, nel ravennate.
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, costituitasi a Milano il 14 settembre 1943,
reparto che fu impegnato principalmente in brutali azioni di repressione della
resistenza partigiana.
Ettore Muti fu seppellito nella sua città di Ravenna e la sua tomba fu oggetto sempre
di commemorazione da parte di organizzazioni di destra e dell’Associazione degli
Arditi d’Italia per ricordare l’anniversario della sua morte. Queste cerimonie
provocarono le reazioni delle forze antifasciste e nel 2026 il sindaco di Ravenna
(Michele de Pascale) inviò una lettera al Prefetto chiedendo la soppressione della
manifestazione  in ricordo dell’anniversario. Altri sollecito in merito giunsero anche
da parte di vari parlamentari.
Il 12 giugno del 2017 l’Associazione Nazionale degli Arditi d’Italia denunciò un atto
di vandalismo alla tomba del Muti con la scomparsa della lapide.
Sfregiare la memoria di un combattente è l’atto più riprovevole che si possa
commettere, indigna non solamente noi giovani depositari della storia che fu, ma
soprattutto l’anima di chi, tra i combattenti della Repubblica Sociale, ancora oggi
vive di quei alti ideali a difesa della Patria.
Pochi giorni dopo, un’altra comunità di destra, il gruppo Fortezza Identità Tradizione,
depose una corona sulla tomba di Ettore Muti e poco dopo venne collocata anche una
nuova lapide. Nella corona  era scritto..
“La Luce degli Eroi splende sulla miseria dei Vili”.
La famiglia di Ettore Muti, chiamato “Gim dagli occhi verdi” decise di rimuovere i
resti del loro caro dal cimitero di Ravenna, facendolo probabilmente cremare per
trasportare poi le ceneri in una località rimasta segreta.
Oggi nel cimitero di Ravenna non ci sarebbe alcun riferimento per il valoroso Ettore
Muti ma il 26 agosto si svolge quasi sempre una commemorazione, in suo onore, nel
cimitero monumentale di Ravenna.

Si sposò con la ravennate Fernanda Mazzotti da cui ebbe una figlia, Diama.
Come riportarono alcune biografie, anche se separato di fatto,
amò intensamente la moglie fino alla sua morte violenta.
Su di lui tante storie d’amore e una delle più durature fu quella con la
soprano dilettante spagnola Araceli Ansaldo y Cabrera.
Lo storico Fabio Lambertucci, nel suo articolo “L’Orgasmo del Fascismo” riportò
come il Muti, secondo la maitresse Fedora Sandelli, fosse tra i più assidui
frequentatori del bordello di lusso sulla via Appia antica.
Un bordello che fu creato da Mussolini per i suoi gerarchi.
Quando diventò uno dei massimi gerarchi gli fu concesso, 
ad uso abitativo e di studio, il
il torrione di Porta San Sebastiano sulle Mura aureliane ed
 incaricò il celebre architetto Luigi Moretti di arredare la sua residenza.


Roma – Porta San Sebastiano - Foto anteriormente al 1900

Foto posteriormente al 1900

Interno di porta San Sebastiano arredato dall’architetto Luigi Moretti

Mosaico in stile romano (Anni Trenta del XX secolo), arredamento di porta San Sebastiano

Il giornalista e scrittore Corrado Augias, nel suo libro “I Segreti dfi Roma” del 2005
edito da Mondadori” riportò come..
Oggi le mura di porta San Sebastiano si presentano nude, ma per fortuna sono sopravvissute le fotografie custodite all’Archivio centrale dello Stato.
Dalle foto e dall’osservazione in loco emergono due caratteristiche del lavoro di Moretti. La prima è che l’architetto intervenne il meno possibile sulle strutture dei locali; il poco che aggiunse per permettere la vivibilità lo inserì in modo da non alterare troppo le mura del torrione. Seconda caratteristica, gli arredi veri e propri sembrano progettati per ricalcare, anche con una sottolineatura ironica, il temperamento avventuroso e fatuo di chi quei locali avrebbe abitato: sontuosi e pesanti drappeggi, grandi letti ricoperti di pelli tigrate, un certo fasto più da set cinematografico che da alloggio privato.
Il gerarca Giuseppe Bottai aveva definito sprezzantemente la dimora di porta San Sebastiano “una garconnière”. Non in modo sprezzante, anzi con eleganza e divertimento, Moretti sembra essere andato nella stessa direzione”.

Ettore Muti venne arrestato in una villa di   Fregene
Si trovava in compagnia di Dana Havolova, all’anagrafe Edith Fischerowa,
una bella soubrette cecoslovacca che lavorava nella compagnia
del cantautore Odordo Spadaro (1893 – 1965) nella rivista “Mani in tasca, naso al vento”.
La donna venne in seguito accusata di essere una spia tedesca.https://www.ponzaracconta.it/wp-content/uploads/2020/07/Ettore-Muti-con-Dana-Havlova.jpg




Il punto nella pineta dove esercito italiano ufficiale, aviatore e uomo politico fascista
Ettore Muti fu ucciso nel 1943

La villa di Fregene presenta una ricca vegetazione e si trova
tra via Rapallo e Via Palombina. Nel maggio 2015 il sito
https://www.fregeneonline.com/la-villa-dei-rifiuti/
riportò come la villa fosse in abbandono e che l’area fosse ricoperta
da rifiuti. Più volte ripulita, anche da volontari, e sempre ricoperta da nuovi rifiuti.


Lo steso Corrado Augias riportò un suo  momento di vita in merito all’arredamento della
villa del Muti ..
In un pomeriggio d’autunno del 1943 stavo giocando, bambino, con alcuni coetanei nei
pressi di porta Latina. A un certo punto ci rendemmo conto che dalla vicina porta San
Sebastiano arrivava una fila di persone cariche degli oggetti più disparati: chi con un
tappeto arrotolato sulle spalle, chi con due sedie, chi con alcune pentole, due o tre
trasportavano faticosamente un tavolo. Incuriositi, risalimmo la corrente e giungemmo
rapidamente alla porta. Una piccola folla si assiepava davanti a un minuscolo ingresso che
si trovava (e tuttora si trova, anche se in disuso) nel bastione di sinistra per chi è all’interno
della cinta.
L’andirivieni era affannoso, ostacolato dal fatto che, nello stretto passaggio, chi cercava di
uscire carico di un qualche bottino era impedito da chi tentava furiosamente d’entrare per
rubare a sua volta qualcosa. Dopo un po’, prima che imbrunisse, l’arrivo di una pattuglia di
militari, forse tedeschi, mise fine al saccheggio. Due soldati si piazzarono ai lati della porta,
altri salirono. Il flusso dei predatori venne interrotto e soltanto una ragazza, dopo aver
parlottato con le sentinelle, venne lasciata passare. Molti nella folla si chiesero a mezza voce
perché si fosse permessa quell’eccezione e anche, con l’aggiunta di qualche sorriso
malizioso, che fine avrebbe fatto la ragazza”.

Una sua grande impresa fu il bombardamento, dopo 410 km di volo,
delle raffinerie del Bahrein. Un bombardamento compito con quattro velivoli
SM.81 il 5 settembre 1940.  Ancora detiene il record mondiale di ore di volo in guerra
e quello italiano di medaglie conquistate in azioni di guerra.



.............................................

La Libia italiana ovvero fattorie e capi di concentramento modello, espressioni del passato
coloniale italiano?

Il campo di concentramento di el Abiar in Cirenaica. 
Derna, cittadina sulla costa orientale della Libia, non distante dall’Egitto e da quel confine che le truppe italiane fasciste segnarono con un chilometrico reticolato di filo spinato per impedire ai ribelli libici di rifugiarsi dopo aver cercato di contrastare l’avanzata italiana.

https://www.youtube.com/watch?v=Y6fppI6ZjCU
Gli italiani crearono campi di concentramento e fattorie modello. Strutture, per quanto
riguardava i campi di concentramento che, nella loro semplicità ed efficacia, furono poi
copiate in altri luoghi, in altri paesi dove la repressione collettiva delle popolazioni, o di una
parte di esse, era o sarebbe stata all’ordine del giorno.
Nel 1979 usci, edito da “SugarCo”,  il libro “Genocidio in Libia” di Eric Salerno. Un testo
che pose gli italiani di fronte al proprio passato coloniale.

Nella nuova edizione (“Manifesto Libri”) del 2005 furono inserite nuove ricerche e questa
volta ci furono anche delle eclatanti dichiarazioni legate più alla convenienza,  per celare o
ridimensionare il passato, piuttosto che esprimere la triste realtà storica.

L’8 ottobre 2011 a Tripoli, durante le celebrazioni del centenario dell’assalto italiano alla
Libia, ci furono delle dichiarazioni da parte di Mustafa Abdel Jalil, allora presidente del
Consiglio Nazionale di Transizione (dopo la guerra della Nato e la morte di Gheddafi) e del
Ministro della Difesa Ignazio La Russa.
Jalil, come riportò nella cronaca “Il Manifesto” disse..
Quella del colonialismo italiano fu per la Libia un’era di sviluppo. Infatti, il colonialismo italiano portò strade e palazzi ancora oggi bellissimi a Tripoli, Derna, Bengasi; portò sviluppo agricolo, leggi giuste e processi giusti: i libici questo lo sanno benissimo.
Una dichiarazione che non poteva non rendere felice il Ministro La Russa che, a sua volta,
dichiarò..
La storia coloniale europea la conosciamo bene, anche con le sue ombre, però l’Italia ha
lasciato un segno di amicizia.

Che dire? Al lettore ogni commento e giudizio.
Certo furono dichiarazioni molto differenti da quelle che fece il leader libico Gheddafi il
7 ottobre 1975 in un suo discorso, un vero atto d’accusa nei confronti dell’Italia…
Mu'ammar Muhammad Abu Minyar 'Abd al-Salam al-Qadhdhafi,
semplificato come Mu'ammar Gheddafi

Ciò che l’Italia ha commesso nella località di el Agheila rappresenta oggi una lezione storica per l’umanità e un tragico esempio di aggressione, brutalità e barbarie. Esso rispecchia l’arroganza dei forti quando aggrediscono i popoli poveri e deboli.

La Libia ha una superficie di quasi 1,8 kmq ed è il quarto paese per superficie dell’Africa.
Tutto il territorio presenta le tristi ombre del colonialismo italiano. Da Derna a Soluch,
passando a Sud di Bengasi, ci sono quasi 400 km. Nella sabbia del deserto affioravano
spesso le tristi ossa dei libici morti nel campo di concentramento. Dopo tre ore di viaggio si
arriva sulla spiaggia, non lontano dai resti del campo di El-Aghelia, campo dove venivano
internati i ribelli libici più pericolosi e dove furono registrati il maggior numero di morti
libici.
Quanti furono i morti libici? Molte ricerche negli archivi dei ministeri italiani, che
certamente avevano delle cifre, furono vane… si stimarono almeno 80.000 vittime libiche
ma fu una cifra in difetto…
Perché Gheddafi (allora trentatreenne), presidente della neonata Repubblica Araba Libica,
fece quel discorso proprio il 7 ottobre (1975) ?
Già nel 1969, anno del colpo di Stato con la salita al potere di Gheddafi, la comunità italiana
si era dimezzata durante l’evacuazione dei cittadini e dei militari inglesi ed americani.
Nel 1970 gli italiani in Libia erano circa 20.000 a differenza dei 40.000 nel periodo
monarchico e degli oltre mezzo milione nel periodo coloniale.
Con obiettività sarebbe necessario precisare come nelle relazioni formali tra Libia ed Italia
non ci furono dei provvedimenti visto anche il peso dei finanziamenti italiani alla fragile
economia libica, e nei sui  frequenti discorsi il leader libico mise in evidenza sia il
comportamento degli italiani, nella conquista del territorio libico, ed anche dei piani di
esproprio dei beni italiani.
Proprio in un suo discorso a Misurata disse
ripulire la Libia dai rimasugli del passato coloniale” e che si trattasse “di un disegno di
legge sul riappropriamento dei beni che gli italiani hanno usurpato e confiscato agli arabi
durante 32 anni di colonialismo.

Alcune settimane dopo il suo discorso a Misurata, il 21 luglio 1970,
Il Consiglio del Comando della Rivoluzione (CCR) promulgò tre leggi che sancirono la
confisca dei beni alla comunità italiana e a quella ebraica.

Fu quindi ordinato alle comunità coinvolte di dichiarare i propri beni, con due anni di carcere
previsti per i trasgressori o i ritardatari. Alla confisca dei beni, seguì l’espulsione delle due
comunità, con gli ebrei che si diressero verso Israele e gli italiani verso l’Italia.
Gli italiani furono evacuati grazie all’intervento del ministero della Marina Mercantile che
mise a disposizione nove navi. Furono “ospitati” in centri di accoglienza dislocati in tutta la
penisola. Lasciati in tali soggiorni “temporanei” per anni,  i profughi italiani si trovarono a
far fronte a un lunghissimo processo di re-integrazione sociale ed economica in una nazione
che li aveva dimenticati. Inoltre, la comunità italiana espulsa dalla Libia chiese più volte 
giustizia e risarcimenti per le proprietà perse in Nord Africa. Risarcimenti che lo Stato
italiano  raramente garantì e quasi mai rispettando il valore reale delle proprietà.
Le operazioni di traghettamento di più di 17.000 italiani finirono il 15 ottobre 1970 (con il
vapore “Sicilia”), otto giorni dopo l’ultimatum inviato da Gheddafi il 7 ottobre, data che
segnò per 38 anni una festività nazionale libica molto sentita:
La “Giornata della Vendetta”
Nel 2008 questa ricorrenza cambiò nome in
Giornata dell’Amicizia
per celebrare la rinnovata collaborazione con l’Italia di Berlusconi. 
Il 30 agosto 2008 fu infatti stipulato a Bengasi un Trattato di Amicizia, Partenariato e
Cooperazione tra Libia ed Italia.
Trattato che fu approvato dal Parlamento Italiano nel 2010.
In base a questo trattato, la Libia venne risarcita con 5 miliardi di dollari/euro, in 25 anni, per il
periodo di occupazione sotto forma di progetti.  Anche le persone italiane e le aziende colpite dal
ripristino dei beni in Libia ottennero alcuni risarcimenti e fu istituito un fondo annuale di progetti
comuni per tre anni per 50 milioni di euro. 
"La firma di questo trattato di amicizia, parternariato e
cooperazione ha una portata storica e chiude definitivamente la pagina del passato".
Così si  espresse il premier Berlusconi dopo aver firmato il trattato con la Libia.

Appendice
Documenti pertinenti agli internati nei campi fascisti..
 
Jacobson Leo Lazar ex internato

Civitella del Tronto (Teramo)
Campo di concentramento.
https://campifascisti.it/documento_doc.php?n=318

Campi concentramento per P.G.
(entrata in funzione di O.A.R.E Bologna, Modena, Urbisaglia e Renicci)

Un ultimo appunto sul generale Rodolfo Graziani inserito nella lista dei criminali di guerra e mai processato. Con l’avanzata delle truppe anglo-americane, il 26 aprile 1945 firmò la delega al generale Karl Wolf per le trattative di resa a Caserta. La sera del 29 aprile si consegnò a Milano al IV Corpo d'armata statunitense, con la mediazione dell'OSS (Office of Strategic Service – servizio segreto statunitense). Passò il mese di maggio chiuso in un carcere di Roma e a giugno fu inviato in Algeria come prigioniero di guerra presso il  211 POW Camp di Cap Matifou. nei pressi del villaggio Rouïba. Venne quindi rimandato in Italia e il 16 febbraio 1946 rinchiuso nel carcere di Procida. Nel periodo di detenzione scrisse dei libri:  Ho difeso la patria, Africa settentrionale 1940-41 e Libia redenta. Nel frattempo c’erano delle continue richieste da parte delle autorità Etiopiche  per cimini di guerra ma gli Alleati non procedettero nell’incriminazione del Graziani. Eppure la documentazione presentata dalle autorità etiopiche era molto valida perché forniva una documentazione molto precisa facendo anche riferimento all’uso del gas di iprite e al continuo bombardamento degli ospedali della Croce Rossa. Il 4 marzo 1948 l'Etiopia presentò la propria documentazione alle Nazioni Unite in cui si accusava l'Italia di sistematico terrorismo in Etiopia e della intenzione ammessa da Graziani di uccidere tutte le autorità Amhara. Venne citato, per esempio, un telegramma inviato al generale Guglielmo  Nasi in cui Graziani esprimeva chiaramente questo proposito.

Il generale Guglielmo Nasi


Fossa, Nasi ed altre autorità militari e religiose a Dire Daua
data:  maggio 1936
https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL0600001903/8/fossa-nasi-ed-altre-autorita-militari-e-religiose-dire-daua.html?startPage=0&jsonVal={%22jsonVal%22:{%22query%22:[%22*:*%22],%22fieldDate%22:%22dataNormal%22,%22_perPage%22:20,%22persone%22:[%22\%22Nasi,%20Guglielmo\%22%22]}}

Il telegramma del Graziani inviato al generale Nasi..
Keep in mind also that I have already aimed at the total destruction of Abyssinian chiefs and notables and that this should be carried out completely in your territories»
(Tenga a mente, anche, che ho già mirato alla totale distruzione dei capi e notabili abissini e che questa azione dovrebbe essere compiuta fino in fondo nei territori sotto il vostro controllo).

La commissione delle Nazioni Unite constatò come vi fossero presenti  le basi per un processo
 preliminare a otto Italiani, incluso Graziani. Ma gli sforzi etiopici di portare Graziani a processo 
furono vanificati sia dall'Italia che dall'Inghilterra e furono di seguito abbandonati 
sotto la pressione  del Ministero degli Affari Esteri, il cui supporto era considerato 
essenziale dal governo etiopico per le proprie  pretese nei confronti dell'Eritrea.
Graziani venne invece processato in Italia relativamente al ruolo da lui svolto nella Repubblica Sociale Italiana. Il processo ebbe inizio l'11 ottobre 1948 presso la Corte d'assise straordinaria di Roma, ma venne sospeso nel febbraio successivo, quando la Corte si dichiarò incompetente a decidere su reati prevalentemente militari. Dopo un supplemento d'istruttoria, il processo si riaprì davanti a un tribunale militare, composto da cinque generali e un ammiraglio, che con sentenza del 3 maggio 1950 condannò Graziani a 19 anni di reclusione per collaborazionismo, 13 anni e 8 mesi dei quali condonati, e quattro mesi dopo il verdetto poté tornare in libertà.
Il generale Graziani al processo

Un processo farsa splendidamente descritto nel link..
https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0068570_1952_16-21_11.pdf

Nel processo si valutò come l’imputato Graziani non fosse in grado di incidere sulle decisioni del governo della RSI, anche se lo stesso Graziani durante la RSI fu ministro delle Forze Armate e responsabile del bando con cui erano condannati a morte i renitenti alla leva e i partigiani.
Nel 1952 si iscrisse al Movimento Sociale Italiano, di cui divenne presidente onorario nel 1953.
Nel 1953 avviò una causa legale, con richiesta di sequestro del film “Anni facili
, ritenendo che alcune scene della pellicola lo deridessero.








 




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