Il Feudo di Canicarao (Comiso) nella storia della viticoltura italiana

 


I documenti presenti nella ricerca erano parte integrante dell’Archivio Storico della “Torre di Canicarao” che andò distrutto. Documenti che rilevano i nomi di antichi agricoltori che con la loro dedizione al lavoro, sempre nella speranza di un domani migliore,  scrissero delle pagine importanti nella storia del Feudo di Canicarao. Un feudo dimenticato dalla storia ma che presenta una voce ricca di molteplici aspetti  storici, religiosi, archeologici, naturalistici, agricoli e industriali. Forse nessun feudo della Sicilia ha una storia così lunga e ricca che va dalla preistoria sino ai nostri giorni. Questo anche per merito della nobile famiglia Trigona, marchesi di Canicarao e di Noto. Ho vissuto circa16 anni nel castello, nominato negli atti con l’appellativo di “Casina”, e gli antichi massari mi rilevarono tante di quelle storie, leggende che sono ancora vive nel mio animo. Non so oggi in che stato si trovi l’antico castello ma in quel luogo, così solitario e nello stesso tempo pieno di voci, ho lasciato la mia anima.
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Indice
Cenni sulla Famiglia Trigona – L’Archivio Storico distrutto: il valore della Cultura non rispettato;
Quando iniziò nel Feudo di Canicarao la coltivazione e la vendita di barbatelle?
Le lapidi.
La contabilità dell’amministratore Gioacchino Lastrucci;
La produzione e le varietà delle barbatelle – I nomi dei coloni;
Le ricevute delle ordinazioni tra cui quella del barone Ricasoli e dell’”Ente  per lo Sviluppo dell’irrigazione e le trasformazioni fondiarie in Puglia, Lucania e Molise;
Misura dei vivai nel 1967 da parte del sig. Lastrucci;
La vigna “Donnadolce” o “Donna Dolce”;
Gesualdo Bufalino nella Torre (cenni)
la Barbatella “Monticolo”;
La Vigna sperimentale dei Marchesi;
La tecnica di coltivazione delle barbatelle nel 1897;
2003 – 2004, La vigna sperimentale del CORERAS;
Lo studio del CNR di Firenze sui due secolari cipressi della Torre.
Nota: Il Cav. Emanuele trigona

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Cenni sulla Famiglia Trigona – L’Archivio distrutto: Il Valore della Cultura non rispettato.
L’Azienda “Marchesi Fratelli Trigona” era una delle più importanti aziende agricole nella produzione delle Barbatelle. Le barbatelle venivano coltivate nel vasto Feudo Canicarao, ricadente nei territori di Comiso e di Ragusa, di proprietà dei Trigona, Marchesi di Canicarao e di Noto.
I Trigona erano anche Marchesi di Dainammare; baroni di Frigintini e di Salina (Pantano di Roveto); signori di Bauli, Ursitto, Campoli con Stafenda, Imbaccari e Misilini. Decreto Ministeriale di riconoscimento del 16 ottobre 1891.
Nel Decreto Ministeriale era presente anche il legame tra il Marchese, Barone e Signore Vincenzo Maria Trigona (Noto, 19 dicembre 1829; Catania, 1912) (IX Marchese di Canicarao e di Dainammare) e la famiglia Ponente dal Belgio.
Il Decreto Ministeriale del 16 ottobre 1891 stabiliva il
riconoscimento dei titoli di nobiltà di Marchese di Canicarao e Dainammare,
di Barone di Frigentini e Salina (Pantano del Rovetto), e di Signore di Bauli, Ursitto,
Grampoli con Stafenda, Imbaccari e Misilini.
Concessioni nobiliari concesse da Casa Borbone e riconosciuti da Casa Savoia.
 a Giuseppe (Maria Salvatore) Trigona Scammacca, Marchese di Canicarao.
Il Decreto Ministeriale di riconoscimento della nobiltà fu citato nell’”Enciclopedia storico nobiliare italiana”  (volume 6, di Vittorio SPRETI, Bologna : Forni, 1981, pp. 713-714). 
La Residenza era il Palazzo trigona di Canicarao, Dainammare e Demani, in Via Camillo Benso Conte di Cavour, 15 in Piazza Armerina (Enna).
La famiglia TRIGONA è inscritta nel 
Libro d’Oro della nobiltà italiana
e negli elenchi ufficiali del Corpo Della Nobiltà Italiana (C.N.I.) (Volume III, parte III, sezione C.N.I.,
dell’Annuario della Nobiltà Italiana,
edizione XXXI, pubblicato dalla Società Araldica Genealogica Internazionale). Presso l’Archivio di Stato di Enna, sono conservati gli archivi della dinastia Trigona di Canicarao, la dinastia a cui apparteneva Vincenzo TRIGONA (sezione XV – XIX, bb. E volume. 208. Inventario A. 1986). 




Il Libro D’Oro della Nobiltà Italiana,
creato con  Regio Decreto, 5 luglio 1896, n. 314, art. 68.
(Quale fonte  probatoria dei riconoscimenti nobiliari da parte dello Stato.
Il Libro è custodito presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma, non è più aggiornato.
In merito alla famiglia Ponente, pretendente per i titoli di Marchese, Barone e Signore, è riconosciuta come ramo della Casa nobiliare ufficiale italiana TRIGONA.
Vincenzo Maria TRIGONA era il nonno del notevole industriale belga Angelo PONENTE (figlio di Luigi / 1928-2001). Angelo PONENTE essendo il nonno della personalità di Liegi S. E. Monsignore Timothée PONENTE, il Rappresentante in Capo del ramo PONENTE (figlio di Beniamino / nato in Belgio nel giugno 1998). I membri della rinomata famiglia PONENTE sono quindi discendenti diretti della Casa nobiliare influente TRIGONA (attestato dall’analisi delle corrispondenze irrefutabili del DNA). 
Questa famiglia, con un industriale belga di nome Angelo Ponente, e il suo nonno Vincenzo Trigona, avrebbe  quindi dei collegamenti con la nobiltà italiana e attività in Belgio, a Liegi. 

Piazza Armerina (Enna) – Palazzo Trigona  - Piazza Cattedrale.

Piazza Armerina (Enna) – Palazzo Trigona  - Piazza Cattedrale.

Piazza Armerina (Enna) – Palazzo Trigona  - Piazza Cattedrale.


Piazza Armerina (Enna) – Palazzo Trigona  - Piazza Cattedrale.

Nel 1890 erano operative nel territorio due importanti aziende produttrici di barbatelle:  l’azienda del Barone di Sant’Antonino, G. B. Melfi, nell’ex Feudo Pedalino ed il “Comizio” Agrario di Modica.
Nella Torre di Canicarao (la sede operativa dell’immenso feudo,), in un grande stanzone posto sopra la cappella, lungo una parete erano custodite centinaia di carpette,  importanti documenti  di vita dell’azienda cioè l’Archivio Storico della Torre.  Contratti, planimetrie, foto ed altro che documentavano la vita secolare del Feudo. Una mano “sapiente”, allora la Torre era adibita ad agriturismo, decise di buttare nei contenitori dell’immondizia quel patrimonio storico. Ricordo il suo volto sorridente nel prendere quelle carpette per scagliarle contro un ragazzo,  con problematiche psichiche, che aveva il compito di buttarle a rifiuto nei tre cassonetti dell’immondizia posti lungo la strada.
 Il patrimonio culturale è un concetto ampio che include l’ambiente naturale così come quello culturale. Comprende paesaggi, luoghi storici, siti e ambienti costruiti dall’uomo, così come la biodiversità, le collezioni, le pratiche culturali del passato e del presente, le esperienze di vita e la conoscenza. Esso registra ed esprime i lunghi processi di sviluppo storico, che formano l’essenza delle diverse identità nazionali, regionali, indigene e locali ed è parte integrante della vita moderna. E’ un punto di riferimento dinamico e uno strumento positivo per la crescita e il cambiamento. Il patrimonio culturale specifico e la memoria collettiva di ciascuna località o comunità non è sostituibile ed è una base importante per lo sviluppo presente e futuro.
L’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites – Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti), un'organizzazione non governativa globale fondata nel 1965, associata all'UNESCO e consulente del Comitato del Patrimonio Mondiale, dedicata alla conservazione, protezione e valorizzazione del patrimonio culturale mondiale, in occasione della 12esima Assemblea Generale tenutasi in Messico nell’Ottobre 1999,  pose una domanda specifica:
Ma perché le società definiscono un proprio patrimonio culturale?
Tale processo nasce dalla necessità di dare risposte ai bisogni identitari del presente. “L’interpretazione del passato nella storia, i manufatti e gli edifici sopravvissuti, le memorie individuali e collettive vengono tutti utilizzati per rispondere a bisogni attuali sia sociali-identitari che economici. Così il patrimonio culturale da una parte è il materiale indispensabile per costruire e definire l’identità sociale, etnica e territoriale degli individui dall’altra è una risorsa economica che può essere utilizzata all’interno degli schemi di produzione e commercializzazione delle industrie creative”.
Dal momento in cui tutti i beni diventano portatori di significato, un significato che trae origine dalla relazione con tutti gli altri beni (così come la musica non sta in una singola nota ma nelle relazioni fra le note), la conservazione della memoria dei luoghi richiede di proteggere e tramandare anche manufatti e ambientazioni che un secolo prima non avrebbero attirato l’attenzione di nessuno.
Ritengo necessaria questa breve considerazione, tanto per fare capire a chi di dovere il misfatto compiuto perché non si trattavano di semplici fogli di carta privi di alcun significato.
Riuscii a malapena a scannerizzare solo una minima parte di quei documenti ed altri, presi a caso, li affidai a Padre Tidona. Testamenti, relazioni di ritrovamenti archeologici, ecc. tutto andò distrutto.
Uno strano destino quello della Torre di Canicarao che
Per volere della Marchesa Margherita Pandolfini Trigona fu acquistata (o donata)
alla Diocesi Ragusa.
Una lapide posta nella corte della Torre ricorda  il trasferimento di proprietà.

Sulla sinistra si nota la lapide che ricorda il passaggio della struttura
alla Diocesi di Ragusa e gli importanti obbiettivi d’uso.


LA CHIESA DI RAGUSA
ESPRIME AL SUO PASTORE
SER.  MONS.  ANGELO  RIZZO
NEL XXV ANNIVERSARIO
DELL’ORDINAZIONE EPISCOPALE
FILIALE  RICONOSCENZA
PER  QUESTA  GIA’   SECOLARE  DIMORA  FEUDALE
CHE  EGLI  IL  24 FEBBRAIO  1978  ACQUISI’
A  SERVIZIO DDELLA  DIOCESI
E  L’11  APRILE  1994  ISTITUI’
CENTRO DI  FORMAZIONE
CULTURALE  E  SPIRITUALE
CANICARAO  TORRE,  19  MARZO  1999

Quando iniziò  nel Feudo di Canicarao la coltivazione e la vendita delle barbatelle americane?


Fu il marchese Vincenzo Maria Trigona (IX Marchese di Canicarao e di Dainammare) (Noto, 19 dicembre 1829 – Catania 1912) a creare nel feudo il vivaio di barbatelle americane?
Il figlio, Giuseppe Maria Salvatore Trigona (X Marchese di Canicarao e di Dainammare) (Catania, 24 dicembre 1851 – Firenze, 29 maggio 1925) continuò l’attività iniziata dal padre o fu lui ad impiantare il vivaio di barbatelle americane?
Il figlio del marchese Giuseppe, Vincenzo Maria Trigona (XI marchese di Canicarao e di Dainammare) ( (Firenze, 7 giugno 1877 - ?, 12 novembre 1937) continuò l’attività di vivaista inserendo l’azienda, denominata “F.lli Trigona”, in un contesto nazionale. 



Nel portico d’ingresso al grande cortile della Torre, nella parete di sinistra, si trovano quattro lapidi che ricordano la grande attività imprenditoriale agricola  dei vari marchesi.

Canicarao – Le lapidi nel portico d’ingresso della Torre
La prima lapide, in alto a destra, ricorda Vincenzo Maria Trigona (1877 – 1937 – XI Marchese di Canicarao, ecc.) e l’altra, posta a fianco, il fratello Emanuele Trigona (1878 -).  Lapidi che furono collocate da Giuseppe Trigona (figlio di Vincenzo Maria Trigona), XIII Marchese di Canicarao, ecc., e nipote di Emanuele Trigona. Le due lapidi portano una data errata: MDCCCCI. Una prima lettura potrebbe essere interpretata con la data “1901” ma è errata.
Nei numeri romani la lettera “C” (100) non può essere ripetuta più di tre volte e lo stesso marchese Giuseppe, probabile commissionario delle lapidi, nacque nel 1907 a Roma.
Forse si voleva indicare la data “1931” (MCMXXXI) o  “1941” (MCMXLI)?

(La lapide è un ricordo rivolto al padre del Marchese Giuseppe, Vincenzo Maria Trigona,
XI marchese di Canicarao, nato nel 1877 e deceduto nel 1937).
 
La lapide posta a fianco è rivolta al cavaliere Emanuele Trigona, fratello del marchese Vincenzo Maria Trigona e zio del marchese Giuseppe.
Alla memoria
Del cavaliere Emanuele Trigona
Di Canicarao
Che a maggior lustro e decoro
Della famiglia
Questo ex feudo tramandò
Al nipote Giuseppe
MDCCCCI
Nella fila in basso, altre due lapidi.
Quella, posta a destra, è un ricordo del Marchese Vincenzo (Maria) Trigona (1877 – 1937).

Alla Cara Memoria
Di Vincenzo Trigona
Marchese di Canicarao
Che insieme a questo ex feudo
Egli dedicò
Opera affettuosa e sapiente
Tramandando ai suoi il retaggio
Delle più nobili
Tradizioni familiari.
I figli con afferro ricordo
MCMXXXVIII

Una lapide scritta nel 1938, il Marchese mori nel 1937, dai figli/e: Maria Carolina, Giuseppe (marchese per successione), Giovanni, Margherita Maria, Emanuela.
La lapide, posta a fianco, è la più antica perché ricorda il marchese Giuseppe (Maria Salvatore) Trigona (1851 – 1925), X Marchese di Canicarao, ecc.,  padre di Vincenzo Maria Trigona.

In memoria
Di Giuseppe Trigona Marchese di Canicarao
Che seguendo degnamente
L’esempio dei maggiori
La saggia opera sua a questo ex feudo dedicò
Tracciando ai discendenti
La dritta via.
Il figlio Vincenzo
Con riverendo affetto
MCMXXVI
La lapide fu scritta nel 1926, il marchese Giuseppe morì nel 1925.
È quindi probabile che fu il marchese Giuseppe Maria Salvatore Trigona a creare nell’ex feudo il vivaio di barbatelle americane e il figlio, Vincenzo Maria Trigona, incrementò questa attività agricola dando un ulteriore importanza all’azienda.
Quell’archivio storico avrebbe potuto dare una conferma a questa ipotesi.
Il marchese Vincenzo Maria Trigona diresse l’azienda agricola avvalendosi della collaborazione del fratello Emanuele Trigona .
Il cavaliere Emanuela Trigona  de Grasset, cognome della madre, nacque a Firenze il 16 luglio 1878 e morì, sempre a Firenze, l’uno gennaio 1953).
Collaborò con il fratello Vincenzo Maria Trigona nella conduzione del vasto e feudo e, con la morte di quest’ultimo avvenuta nel 1936, si adoperò ancora nella  conduzione dell’azienda a fianco del nipote Giuseppe , marchese di Canicarao per discendenza.
Il Marchese Vincenzo Maria Trigona e il cavaliere Emanuele Trigona si affidavano, nella conduzione amministrativa del feudo, ad un procuratore appartenente all’importante famiglia Labisi di Comiso.  Uno dei primi procuratori fu Don Luca Labisi e successivamente Francesco Labisi, figlio di Luca.

Il cavaliere Emanuele Trigona.
Il cavaliere  Emanuele Trigona (nota) fu non solo un importante dirigente della “La Magona d’Italia”,  una società famosa nel campo siderurgico, ma anche un politico in diverse legislature nell’epoca fascista.
Ricoprì anche diversi ruoli  governativi.
Malgrado i suoi impegni lo tenevano lontano dalla Sicilia s’interessò sempre all’amministrazione del feudo, prima con il fratello Vicenzo Maria e successivamente con il nipote Giuseppe.
 La coltivazione delle barbatelle fu una caratteristica peculiare dell’azienda sino al 1978, quando la marchesa Margherita Trigona, con il marito Conte Filippo Pandolfini di Firenze, decisero di vendere i terreni. ( Un giorno racconterò la storia della Marchesa Margherita Trigona, una bellissima figura d’altri tempi). Il Castello, con parte di terreno retrostante, malgrado i numerosi acquirenti,  fu venduto (o ceduto) al Vescovo della Diocesi di Ragusa. Una struttura della Diocesi di Ragusa ma di proprietà della Fondazione “San Giovanni Battista” come si evince dal contratto di comodato d’uso dell’immobile, datato 24 maggio 1995, in favore della Cooperativa Sociale “San Giovani Battista”.
In realtà i Trigona, prima del 1978, avevano già iniziato a vendere alcune aziende del feudo tra cui: Le Sugarelle, i Carciofi, la Stella, e forse altre.

L’importanza agricola del Feudo nacque nel 1890 quando i vigneti furono colpiti dalla fillossera. La devastante malattia determinò la distruzione dei vigneti e il reimpianto dei vigneti colpiti.
Una delle prime presenze dell’insetto in Europa fu registrata nel Sud-Ovest della Francia nel 1868. Per l’Italia l’anno zero fu il 1879, quando venne accertato un primo focolaio in Lombardia nella provincia di Lecco (vedi Note). In brevissimo tempo si propagò ovunque, isole comprese e in Sicilia fu devastante. In Toscana la prima rilevazione certa fu nel 1888 e nel 1931, a distanza di quasi cinquant’anni, la fillossera era ancora presente in 89 province italiane (sulle 92 di allora).
La produzione di vino inesorabilmente crollò, in alcune zone sparirà per sempre. La strage dei vigneti proseguì inarrestabile, almeno fino a quando non si scoprì in Francia la possibilità di innestare la parte aerea delle viti europee con l’apparato radicale dei ceppi americani, immuni dall’aggressione. Servirà tuttavia molto tempo per una piena ripresa del comparto vitivinicolo.

Migliaia di ettolitri di vino partivano dal porto di Messina
Il marchese Giuseppe Maria Salvatore Trigona, il figlio Vincenzo Maria e i suoi discendenti decisero di importare i vitigni selvatici americani, che erano resistenti alla malattia e presentavano un buon adattamento alle diverse condizioni climatiche e podologiche.
L’azienda era conosciuta per il suo ottimo prodotto vegetale, non solo in Sicilia, ma anche nel resto d’Italia centrale e meridionale.
Diventò quindi un punto di riferimento per tutti coloro che volevano impiantare nuovi vigneti o sostituire quelle esistenti colpiti dalla devastante malattia.
Il marchese Vincenzo Trigona risiedeva a Noto, Palazzo Trigona in via Camillo Benso Conte di Cavour e spesso a Firenze in un palazzo sito in Via Santo Spirito n.23. L’amministrazione del feudo era affidata ai procuratori: Don Francesco Labisi e l’avv. Luca Labisi (fu Luca Labisi) (?), come detto appartenenti ad una nobile famiglia di Comiso.

Noto (Siracusa) – Palazzo Trigona.

Noto (Siracusa) – Palazzo Trigona.

Noto (Siracusa) – Palazzo Trigona.

Comiso (Ragusa) – Palazzo Labisi.

Firenze, Via Santo Spirito 23
Residenza del Marchese Vincenzo Maria Trigona

Firenze, Via Santo Spirito 23
Residenza del Marchese Vincenzo Maria Trigona

Firenze, Via Santo Spirito 23
Residenza del Marchese Vincenzo Maria Trigona

Firenze, Via Santo Spirito 23
Residenza del Marchese Vincenzo Maria Trigona

Un locale, posto nella Torre di Canicarao,  era adibito alla lavorazione delle barbatelle che era di competenza delle donne. I tralci, una volta estirpati, venivano ripuliti, cimati e riuniti in fascine per essere venduti.
La corte lastricata, in pietra di Comiso, con la sua antica fontana ricordata anche da Gesualdo Bufalino, era teatro di incontri tra i coloni del feudo, l’amministratore ed i vari compratori che giungevano da tutte le parti della Sicilia.

Corte della Torre di Canicarao
Un’antica foto con i coloni.


Già ai tempi del marchese Giuseppe Maria Salvatore Trigona (1851 - 1925; X marchese di Canicarao e di Dainammare) l’azienda era famosa nella sua attività agricola anche per la produzione delle barbatelle americane. Un’azienda che vedeva la compartecipazione dei fratelli e sorelle del marchese: Luigi, Guglielmo, Maria Stella Concetta Antonia Francesca e Emilia Maria Anna Antonia). L’azienda aveva la denominazione di “Azienda Trigona e F.lli Trigona”.
Il 25 maggio 1925 morì a Firenze il marchese Giuseppe Maria Salvatore e il titolo nobiliare passò al figlio Vincenzo Maria Trigona (XI marchese di Canicarao e di Dianammare ( gli altri figli erano Emanuele e Maria Dorotea). L’azienda continuò nella sua attività produttiva di barbatelle e di affitto  delle dodici tenute che costituivano il vasto feudo. Emanuele Trigona (negli atti spesso citato come Emmanuele”) seguì l’amministrazione dell’azienda agricola pur ricoprendo in Italia importanti cariche dirigenziali che lo tenevano lontano dalla Sicilia.
Con il marchese Vincenzo Maria Trigona, l’azienda raggiunse dei livelli produttivi di barbatelle molto alti.  
Il marchese morì a Firenze (?) il 12 novembre 1937 lasciando come eredi:
- La moglie Paolina Farina Cini;


e i figli/e:
-        Maria Carolina, nata a Roma il 2 febbraio 1904;
-        Giuseppe, nato a Roma il 15 gennaio 1907,  XII Marchese di Canicarao;
-        Giovanni, nato a Firenze l’11 aprile 1909;
-        Margherita, nata a Firenze il 3 febbraio 1911;
-        Maria Emanuela, nata a Firenze il 29 maggio 1918.
Nel 1937 il titolo nobiliare era di pertinenza di Giuseppe e l’azienda continuò la produzione delle barbatelle con la dicitura “M.se Trigona di Canicarao & F.lli”.
Il marchese risiedeva a Firenze e nell’azienda era presente, come procuratore, il rag. Gioacchino Lastrucci di Firenze, che il marchese aveva conosciuto in Eritrea nel 1935. Giovanni Trigona risiedeva a Firenze sempre in Via Santo Spirito 23.
L’amministratore si avvaleva dell’opera di amministratori esterni, (tra cui Don Polito), che controllavano giornalmente l’andamento dei lavori.
Il mercato delle barbatelle era in continua evoluzione perché dopo gli anni ’50 numerosi imprenditori agricoli impiantarono nei loro terreni dei vigneti. Vigneti che ancora oggi danno dei vini di grande qualità che ormai hanno conquistato il mercato italiano ed estero.
In questa radicale trasformazione agraria l’Azienda Trigona assume un ruolo di fondamentale importanza.
Comiso – Contrada Canicarao – L’ingresso della Torre di Canicarao.

L’antica fontana, posta al centro della grande corte,
successivamente oggetto di un’errata ristrutturazione.
Da una lettera inviata dall’Amministratore Gioacchino Lastrucci, il 9/ottobre/1954, ad un suo amico di Arezzo, Dott. Pilade Bracciali (una figura importante perché era stato un esponente del Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale di Arezzo), si legge:
“……….. Noi siamo forti produttori di barbatelle di viti americane (circa 2milioni) non innestate, perché nella nostra piazza s’impianta con il selvatico, si lascia affermare e dopo si procede all’innesto a dimora.- detta pratica a mio avviso corrisponde e la trovo tecnicamente apprezzabile-
Le nostre barbatelle sono differenti di quelli che si producono in Toscana, hanno il legno vecchio della lunghezza di cm 18-22 ed uno sviluppo vegetativo da cm. 40 ad oltre m. 1 – 1,50 a seconda della varietà e specie. – Noi preferiamo la talea corta perché ci permette di avere gli internodi molto ravvicinati sia nella talea che nel nuovo legno e così ci permette di avere un apparato radicale abbondante e forte.-
Io ho spedito in Toscana (Bolgheri e nel Chiantigrano) le nostre barbatelle ed hanno dato ottimi risultati.-
Le varietà che produciamo nei nostri vivai sono le seguenti:- (siamo nel 1954)
Rupestris du Lot. Da cm. 50 in sù (vecchio e nuovo compreso) a £. 5.000,- il migliaio posto partenza stazione Comiso;
140 Ruggeri (Berlandieri – Rupestris) vitigno ottimo resiste fino al 70 – 80 di calcare, ha sostituito molto bene la varietà du Lot ed è consigliabilissima per la sua affinità a tutti i vitigni europei, da cm. 60 in su a £. 11.000, - il migliaio posto partenza;
225 Ruggeri (Berlandieri – Riparia) ha sostituito per i suoi pregi quasi totalmente il 420/A, da cm. 60 in su a £. 11.000, - il migliaio posto partenza;
420/A (Berlandieri – Riparia) da cm 60 i su a £. 10.000, - il migliaio posto partenza;
775 Paulsen (Berlandieri – Rupestris) da cm. 60 in su a £. 11.000, - il migliaio posto partenza;
779 Paulsen (Berlandieri, - Rupestris) da cm. 60 in su a £. 11.000, - il migliaio posto partenza;
1045 Paulsen (Berlandieri – Rupestris) da cm 60 in sopra a £. 11.000, - il migliaio posto partenza”
La lettera conclude con:
“ Per il pagamento in via del tutto eccezionale dato che vendiamo per contanti, ma trattandosi della tua persona e della possibilità di introdursi su detta piazza potremo attendere fino al maggio prossimo anno. - Speriamo che si possa concludere qualcosa in vista di fare sempre maggiori e più importanti affari, le nostre barbatelle ed hanno un nome su tutte le piazze dove sono conosciute. Se vorrai posso inviarti dei campioni a fine di Novembre ovvero verso la metà di detto mese. Ho appreso con vivo dolore la morte del Conte Massimo di Frassineto, verso di me aveva dimostrato dell’affetto ed io ero affezionato a lui.”
La lettera si chiude con i cordiali saluti e con una parola, scritta in basso, che dimostra la grande malinconia di questo uomo per Firenze, la sua città natale:
“credimi” e con “tanti saluti ai comuni amici e conoscenti”.



Arezzo – Vivaio della  Savia
Via Alessandro del Borro, 69

Già nel 1956, in seguito alla notevole richiesta di barbatelle, il Marchese Giuseppe Trigona decise di ampliare e modificare alcuni fabbricati del Feudo. Tra i vari interventi fu previsto un intervento nel “Centro Aziendale” o “Torre di Canicarao”.
La relazione tecnica fu affidata al Dott. Agr.mo Rosario Pirrè di Vittoria.


Nella relazione tecnica il Dott. Ag.mo Pirrè, dopo avere descritto il fondo Canicarao ed evidenziato i relativi Decreti dell’Ispettorato Agrario Regionale per il Piano Particolare dello stesso fondo, relazionò sulle modifiche da apportare ad alcuni fabbricati dell’azienda.
Al punto 1°) – AL CENTRO AZIENDALE (Comune di Comiso. Fog. 69 part.9),:
“ Sarà costruita ex novo una tettoia entro la corte, da adibirsi alla lavorazione delle barbatelle; questa è prevista delle dimensioni di m.  3,40 x 26,00, con N° 6 pilastri e 2 pareti opposte.
Il tetto sarà fatto in travi, tegole comuni di argilla e travi di abete; le strutture saranno fatte tutte in muratura, tranne la trave di collegamento dei pilastri e non è previsto la costruzione del pavimento in quanto sarà utilizzato il lastricato che attualmente forma il marciapiede lungo la facciata.
E’ previsto l’intonaco delle pareti”.





I vecchi magazzini, poi adibiti successivamente a sala ristorazione (attività agrituristica), continuarono a svolgere la loro funzione di deposito dei prodotti aziendali provenienti dalle diverse tenute.


Il Feudo aveva un’estensione di circa 1000 ettari ed era suddiviso in 12 tenute. Ogni tenuta era contraddistinta da un numero, una denominazione ed era dotata di case, stalle, fienili, magazzini, impianti d’irrigazione.
Nel 1958-59 i terreni erano dati in colonia per varie colture agrarie ed anche a vivai di barbatelle. In questo rapporto di colonia figuravano il concedente cioè l’amministratore Lastrucci, per conto del  M.se Trigona, e il colono,
“ si associavano per la coltivazione del fondo e per l’esercizio delle attività connesse,
al fine di dividerne i prodotti e gli utili”
e la ripartizione degli utili e dei prodotti  era stabilita in base ad una convenzione o agli usi (consuetudini locali). La quota spettante al colone era del 50%. 
Il colono coltivava le barbatelle e l’amministratore, una volta venduto il prodotto, gli versava il 50% del ricavato.
Da un Conteggio definitivo a saldo Vivai 1958-58”, trascritto dall’Amministratore Gioacchino Lastrucci, risultarono vendute ben 981.230 barbatelle per un importo totale di 13.963.270 lire di cui 6.981.634 da suddividere ai coloni (1/2 colonica).
Nell’elenco figuravano i nomi dei “Parascolari” ovvero i coloni, il conteggio delle Barbatelle ( il numero di barbatelle coltivate da ciascun colono, l’importo corrispettivo e la quota spettante al colono), le detrazioni (saldo anticipazioni spese, barbatelle prese per proprio conto, acconto in denaro,  totale detrazioni) e il “Resto Netto Avere”. Il prospetto finiva  con la “Firma per Quietanza” del colono.

Uno dei maggiori produttori fu il sig. Mallia Nunzio con ben 76.600 barbatelle prodotte, seguito dai F.lli Ferlante con 64.010 e dal sig. Vona Antonino con 63.490.
Un altro prospetto riportava  la quantità di barbatelle prodotte da ciascun colono, suddivise per ” specie e per scelta”.


Lo schema successivo riporta anche le diverse varietà di barbatelle che venivano coltivate nei terreni del Feudo:
- 225 - 140 Ruggeri (di prima - seconda- terza scelta)
- Ibridi Paulsen (di prima – seconda – terza scelta)
- 157/11 – 420/A – 41/B ( di prima – seconda scelta)
- Monticolo ( di prima – seconda scelta)
Dal prospetto risulta chiaro come la maggiore quantità di barbatelle prodotte e vendute appartenevano alla varietà 225 – 140 Ruggeri e il mercato era orientato verso del materiale genetico di prima scelta.
Una menzione particolare merita la varietà Monticolo. Era una barbatella locale, oggi completamente scomparsa?


Un altro appunto di contabilità riguardava la “Nota Acconti Vivai 1958 – 59”.
Al momento di iniziare l’annata agraria i vari “Pascolari”  avevano diritto a un “Acconto Previsto a £ 5 cadauna”. Avevano la possibilità di prendere barbatelle per conto proprio “ Barbatelle Riprese in conto  proprio N.  – media £ 15” ( venivano pagate a lire 15 cadauna)”.  Veniva poi riportato  il primo acconto in denaro ricevuto  con relativa data e firma per quietanza e un secondo acconto sempre con relativa data, importo e firma.


Un successivo elenco, suddiviso per varietà e per scelta, indicava il numero di barbatelle vendute con la relativa data e l’importo. Erano riportate a matita alcune annotazioni:
- “Passati ad altro conto per media” e “Tare e mediazione”. Per tare si intendeva le piante inadatte ad essere vendute per particolari aspetti vegetativi; per “passati ad altro conto” probabili quantitativi di barbatelle date come merce di scambio per prestazioni o altri prodotti ricevuti dall’azienda;
- “mediazione”, determinati quantitativi che erano stati dati a persone per avere svolto attività di mediazione nella vendita delle barbatelle.
Le voci su riportate erano infatti portate in detrazione sugli importi come spese sostenute dall’azienda. Il prospetto finiva con l’indicare il prezzo medio per ciascuna barbatella.



Nel 1959 l’azienda del Marchese Trigona riceveva ordinazioni di barbatelle provenienti da tutta Italia.
Il 19/01/59 l’amministratore Lastrucci riceveva un ordine di barbatelle  da parte
dell’”Ente per lo Sviluppo dell’Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia, Lucania e Molise –  SEZIONE SPECIALE PER LA RIFORMA FONDIARIA” di Bari
( Servizio Amministrativo – Via  Sonnino 177, Bari).
La richiesta era stata redatta dal rag. Biagio Panza che nell’Ente ricopriva l’incarico di Capo Ufficio Piante.
(L'Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia, Lucania e Molise fu istituito nel 1947, istituito tramite il Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato 18 marzo 1947, n. 281. Questo decreto affidò all'Ente il compito di promuovere e realizzare opere di irrigazione e trasformazione fondiaria nelle aree interessate). 


Il Sig. Lastrucci rispose all’ordine, grazie ad un telegramma, comunicando che la produzione era esaurita.  

Rag. Biagio Panza
Dedeo, 195 – Bari
Impossibilitato comunicare telefono stop.
Avverto che tutta la produzione di barbatelle nostre è esaurita stop.
Piazza Comiso attuale non offre qualità e quantità da voi desiderata et prezzi praticati
molto superiore a quelli offerti stop. Non resta che prendere preventivi desiderati accordi
per l’anno venturo.
Lastrucci – Azienda Trigona
Lastrucci Gioacchino - Comiso.
L’ordine recava la data del 19 gennaio 1959 e l’esaurimento delle barbatelle dimostrava la grande richiesta di ordinazioni. Il telegramma dimostrava anche come nel territorio di Comiso erano presenti delle attività produttive di barbatelle che però non erano in grado di produrre materiale vegetativo di qualità e presentavano dei prezzi di vendita più elevati.

Nel 1960 l’azienda era ancora impegnata nella produzione di barbatelle. Una produzione che si manteneva su alti livelli di qualità con ordinazioni provenienti sempre da ogni parte d’Italia.
Azienda che era sempre retta dal Marchese Giuseppe probabilmente in compartecipazione con il fratello Giovanni e con le sorelle: Maria Carolina, Margherita e Maria Emanuela.
Dal 15/09/60 al 19/01/61 l’azienda ricevette ben 40 commissioni per via telefonica come si evidenziava dal bollettario “Telegrammi Azienda Trigona – Comiso”.
Queste commissioni portarono alla vendita di 1.232.400 barbatelle per un totale di Lire 12.313.450.
Tra i clienti figuravano delle Aziende famose:
- Barone Bettino Ricasoli – Casa Vinicola – Firenze;
- Barone Giuseppe Arone di Valentino – Sciacca;
- Barone La Lomia – Canicattì;
- Ispettorato Ag. Comp. per la Toscana;
- Vivai Gitto – Palermo;
- Molte aziende della provincia di Agrigento e Trapani.

Ordine: Barone Bettino Ricasoli - Firenze

Ordine: Isgrò Carmelo – Campobello di Mazara (Trapani)

Ordine: Di Salvo Michele e Figli – Castellammare del Golfo.

Nel 1967, il Sig. Lastrucci, sempre nella qualità di amministratore, effettuò una misurazione dei vivai dati in mezzadria e gabella. Erano  dei piccoli disegni che dimostravano la grande meticolosità dell’amministratore che da solo aveva sulle spalle un incarico gravoso come quello di amministrare un esteso feudo.
I terreni erano descritti non solo con l’estensione dei vivai ma anche con le altre colture presenti come ortaggi (melenzane, zucchine, pomodori, ecc.) ed anche arachidi.  Una coltura, quella degli arachidi, molto presente nel feudo di Canicarao che dava un prodotto di alta qualità sia per la fertilità dei terreni che per la notevole disponibilità d’acqua grazie alle sorgenti tra cui quella di Canicarao. È importante sottolineare come i rapporti di lavoro vedevano coinvolte persone umili, legate alla terra e al duro lavoro, alla necessità di trarre dal terreno un minimo reddito per le quotidiane necessità familiari.


Accanto alla pianta del vivavio condotto a mezzadria dal Sig. Baglieri c’è una nota:
Accanto al vivavio ci sono un appezzamento di m 8x7 e della est (estensione) mmq 56  un altro appezzamento di arachidi di ml 8x4 e della est (estensione) di mq 32, un terzo app. di zucchime pomodoro melenzane di m 7x9 e della est (estensione) di mq 63

La nota in alto:
Terreno in gabella coltivato a vivaio di Guastella Giovanni
Accanto al vivaio ci sono due saie  di cipolla della lunghezza di m 73 e
della larghezza di m 1,50 e della est (estensione) di mq 109 da
conteggiare come terreno a cipolle in gabella.
La nota in basso
Terreno a mezzadria coltivato a vivaio da Giovanni Guastella
Accanto al vivaio ci sono due saie
di cipolle della lungh. Di m 76, della largh. di m 2,10 della estensione
di mq 152. Devono essere conteggiate come terreno
a mezzadria coltivato a cipolle.

Nelle tre piante dei vivai il termine “carrata” sta ad indicare una stradella.
Nel vivaio a mezzadria coltivato a vivaio dal Sig. Agosta Francesco sono presenti
tre appezzamenti coltivati a fagiolini , peperoni e pomodori, zucchine ed arachidi.


L’Azienda F.lli Trigona  coltivava barbatelle non solo in terreni condotti a mezzadria e  colonia ma anche per conto proprio avvalendosi di personale salariato e giornaliero. Uno dei vivai aziendali era posto nel giardino accanto alla Torre,  successivamente  trasformato in parco. In questo giardino si trovava una folta vegetazione di canne di bambù che furono portate  dal Brasile dal marchese Giovanni (?). Queste canne di bambù erano adoperate come sostegno nello sviluppo vegetativo delle barbatelle. Lentamente, sotto l’incuria di chi avrebbe dovuto proteggerle,  si sono rovinate e forse oggi sparite.  Questo piccolo vivaio era separato da un alto muro, in pietra di Comiso, dalla restante proprietà che circondava la Torre ed ancora oggi, anche se in parte, esistente.
In questo giardino erano presenti delle piccole rasole, una piccola vasca con fontana,  una condotta in pietra che scorreva sotto le rasole, due grandi cipressi secolari e due, anche  loro secolari, palme Washingtonia.
Cipressi che furono studiati dal CNR di Firenze in tempi recenti quando la Torre  era già in possesso della Diocesi di Ragusa. (Vedi Note).

I due cipressi secolari.
Il cipresso, posto a destra della foto, negli anni ‘90  seccò anche a causa di una condotta fognaria
costruita in tempi recenti. Durante una giornata di forte vento s’abbattè sul parco.

La piccola fontana posta nel parco della torre.
Nella foto si nota, a sinistra, il pino cupressuss appassito.


Nel 1971 l’azienda era ancora in primo piano nella produzione di barbatelle.
Nel libro “ Settimanale opere”, che racchiudeva un periodo che andava dall’8/marzo/ 71 al 13/giugno/72 furono  trascritti ben 465 giorni di lavori culturali vari nei “Vivai Barbatelle 1971/72 c/diretto”.
In questo breve periodo risultarono ingaggiati 14 operai come braccianti agricoli e un trattorista, il sig. Gulino Angelo. Le giornate lavorative includevano spesso anche la domenica e la paga del bracciante agricolo variava dalle 3.300 lire alle 3.000 lire/giornata mentre la paga del trattorista era di 3.400 lire/giornata. In  questi  mesi, considerando una  paga media di 3.100 lire/giorno, il vivaio di barbatelle richiedeva una spesa di Lire 1.441.500 in termini di mano d’opera.  Una spesa che fa intendere la vastità della cultura e la sua importanza nella gestione dell’azienda.
(il Sig. Gulino Angelo, ricordato da tutti come “Don Angelo”, era stato alle dipendenza del marchese Giuseppe e della Marchesa Margherita Trigona Pandolfini come custode, trattorista e addetto alla distribuzione delle acque irrigue. Una vita passata nella Torre di cui conosceva tanti segreti. In tempi recenti fu vittima di una rapina da parte di manigoldi che lo segnarono profondamente. Nell’atmosfera silenziosa delle notti amava dialogare e raccontare la vita di quell’antico castello  teatro della sua vita).

L’ISPETTORATO PROVINCIALE DELL’AGRICOLTURA di Ragusa vigilava sull’attività vivaistica, sia sugli impianti preesistenti che sui nuovi, con visite periodiche per le relative autorizzazioni.
L’avviso dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura
Sezione Ragusa, Corso Italia n.88
Datato: 6 novembre 1952
Spedito al Sig. Marchese G. (Giuseppe ) Trigona e Fratelli
Presso  R (ragioniere) Lastrucci
Azienda Canicarao - Comiso

Oggetto dell’avviso: Visita Vivai
Con riferimento alla domanda relativa all’impianto dei vivai in contrada Canicarao
si comunica che il giorno 10 c.m. un funzionario di questo Ispettorato effettuerà il
prescritto sopralluogo.
Si prega quindi farsi trovare sul posto.
Nell’eventuale caso che, per il cattivo tempo, non fosse possibile effettuare la visita,
sarà cura di questo Ufficio fissare il successivo appuntamento.
Il Capo dell’Ispettorato: Dott. L. santacroce
Firmato: V. Mancini(?)
Il mercato richiedeva barbatelle provenienti da talee ricavate da tralci ben costituiti di vigneti di piante madre selezionati, che dovevano avere i seguenti requisiti o caratteristiche:
a) lunghezza del fusto, o legno vecchio, “ doveva essere contenuta entro i limiti di cm 50/60 e misurata dal nodo basilare del palco radicale al nodo apicale che ha dato luogo al germoglio dell’annata, con tolleranza del 5% di barbatelle di lunghezza 45/50 cm”;
b) il diametro del fusto, “misurato al primo internodo partendo dalla base, dev’essere contenuto nei limiti di mm 6/11”;
c) le lunghezze degli internodi sul fusto “devono essere eguali tra loro e non inferiori a 5 cm”;
d) le radici, “commercialmente definite “carnose”, del diametro di 2 mm non devono essere inferiori a 3 intorno al nodo basilare”;
e) il germoglio “ del nodo apicale, dell’annata, dev’essere ben lignificato e deve avere una lunghezza non inferiore a cm 20”;
f) le barbatelle, “con il loro apparato radicale, devono essere assolutamente immuni da “Roncet” e da qualsiasi altra malattia o parassiti vegetali ed animali”.
Una tradizione produttiva che ancora oggi annovera nel territorio comisano un gran numero di aziende che si scontrano con altri ambiti competitivi sparsi nel territorio siciliano e nazionale.
La ricerca della conquista di una fetta di mercato è per le attività produttive aziendali la storia di tutti i tempi ed anche l’AZIENDA “TRIGONA, MARCHESE DI CANICARAO E NOTO” non sfuggiva alle regole di mercato.

Nel 1898 erano presenti in Sicilia altre Aziende specializzate nella coltivazione di Barbatelle:
( L’Azienda “ Zirilli Lucifero di Milazzo” era una delle più importanti della Sicilia).



Il Feudo di  Canicarao, con la sua vasta superficie, confinava con:
-         il Feudo “San Marco”, in territorio di Chiaromonte Gulfi;
-        con le proprietà del Barone Pace; con
-         il Feudo del Marchese Ferreri;
-        il Feudo “Pedalino” del Barone di S. Antonino, G.B. Melfi.
Proprio nelle proprietà del Barone Melfi , sin dal 1880, c’era un grande vivaio di Barbatelle.  Il
Barone Melfi era proprietario del Palazzo “Zacco” , a Ragusa Ibla, situato all’angolo con via San
Vito.

Ragusa Ibla – Palazzo Zacco
Quando iniziò nel feudo dei Trigona la coltivazione e vendita delle barbatelle?
Nel 1880 G.B. Melfi, barone di Sant’Antonio, reclamizzava le viti americane coltivate nell’ex feudo Pedalino confinante con il Feudo Trigona. Un’attività, quella del barone Melfi, forse una delle più antiche della provincia di Ragusa.
Nel 1895 era presente, sempre nel territorio di Ragusa, un Vivaio Sperimentale di viti americane gestito dal Comizio Agrario di Modica.
Guardando nell’albero genealogico dei Marchesi Trigona di Canicarao e di Noto si potrebbe avanzare l’ipotesi, considerando la data del 1880 – 1890, della piantagione delle barbatelle nel feudo Canicarao ad opera del Marchese Vincenzo Maria Trigona. Nel feudo era d’altra parte presente una vigna detta di “Donnadolce” o “Donna Dolce” già presente nel 1880.

Con l’XI marchese (Vincenzo Maria) e con il figlio Giuseppe (XII Marchese) l’azienda raggiunse la sua massima notorietà nella coltivazione delle barbatelle.
Con la morte del marchese Giuseppe, avvenuta il 10 ottobre 1971, e del fratello (secondogenito) Giovanni deceduto a Firenze l’11 giugno 1978, la produzione delle barbatelle subì il definitivo arresto.
Quest’ultimo risiedeva a Firenze in via Santo Spirito, 23 ed era sposato con Alaide dei marchesi Braghini Nagliati (importante a Ferrara, il palazzo famiglia Braghini Nagliati Rossetti in corso Giovecca 59). La Contessa Margherita Trigona con il marito Conte Filippo Pandolfini, la coppia viveva a Firenze nel Palazzo Pandolfini di via San Gallo n.74, continuarono la conduzione dell’azienda grazie anche alla collaborazione dell’amministratore Gioacchino Lastrucci che ormai da tempo risiedeva a Comiso. Probabilmente l’azienda non produceva più barbatelle (forse una produzione ridotta) e l’amministrazione si basava esclusivamente sulla conduzione delle varie aziende tramite affitti o altro.
La contessa ed il Conte Pandolfini decisero di vendere quindi il vasto feudo. Le varie aziende finirono in gran parte per essere cedute agli antichi mezzadri mentre la torre ed un parte di terreno limitrofo furono acquistati ( o donati) alla Diocesi di Ragusa. I mezzadri mi rilevarono la  cifra  d’acquisto ma non posso rilevarla perché potrebbe essere errata.
Fini così la storica vita del Feudo Trigona che ancora conserva segreti che successivamente svelerò. Attimi di vita importanti e dimenticati.
I vecchi mezzadri, vissuti ai tempi della marchesa Margherita e dei marchesi Giuseppe e Giovanni, mi svelarono momenti di vita importanti della Torre che si svolsero nel feudo e nella grande corte della “Casina” come veniva chiamata negli atti d’affitto.
La Torre, che per tragico destino, fu legata alla morte di Gesualdo Bufalino che amava tanto per il suo profondo significato di vita.
La frase suggerisce un profondo amore per la vita che il famoso poeta aveva, non solo come espressione di affetto, ma come un sentimento che lo conduceva a vivere la vita pienamente, riconoscendone le sfumature positive e negative e trovandovi uno scopo. Accettava la vita nella sua interezza, con le sue  complessità e la considerava come un'occasione di crescita e significato. 

Gesualdo Bufalino
Scrittore, poeta e aforista.
(Comiso, 15 novembre 1920 – Vittoria, 14 giugno 1996)

Nella corte, spesso teatro di miserie umane, Gesualdo Bufalino percepiva l’atmosfera di quelle antiche mura interrotte dall’ingresso e dal portico che presentava delle lapidi in memoria dei marchesi.
Degli aspetti particolari lo attraevano ed erano per lui ulteriori fonti d’ispirazioni:
- lo zampillare dell’acqua nella piccola fontana, posta al centro della corte. Al centro della fontana una piccola colonna di pietra (lavica) ricoperta da una stupenda e rigogliosa capelvenere (tanto odiata successivamente dalla famosa “mano paziente” fino a decretarne, con le continue estirpazioni, la sua morte);
- i pesci che si muovevano delicatamente nell’acqua (anche questi odiati successivamente da un’altra mano sapiente che vi versò della candeggina);
- due gelsi bianchi che malgrado le malattie e le ferite del tempo sembravano sfidare qualsiasi avversità perché sempre rigogliosi e capaci di dare dei frutti dolcissimi;
- un secolare ficus benjamin, che ricopriva quasi metà della corte sfiorando i muri dei fabbricati prospicienti. Un ficus che sembrava il palcoscenico di una stupenda orchestra per la presenza di centinaia di stornelli che con i loro continui canti rendevano l’atmosfera magica;
- il parco adiacente.
In questa atmosfera lo scrittore riviveva i momenti di quegli uomini che con grande fatica e fiducia verso il prossimo, speravano sempre in un domani migliore. Il triste obiettivo mai raggiunto di gente umile.
Il silenzio avvolgeva tutto e l’unica voce era quella del custode, l’indimenticabile Don Angelo Gulino che aveva lavorato alle dipendenze dei marchesi.



Sulle barbatelle, tutte certificate e di origine americana, resta da svelare il segreto di una barbatella chiamata “Monticolo”.
Come mai una barbatella  denominata “Monticolo?
Una barbatella legata ad un termine dialettale siciliano?
“Monticolo” è un termine di origine latina, dal tardo latino “monticulu” che significa “monticello” o piccolo rilievo di terreno.
Nel feudo sono presenti delle colline come Colle Tabuto, la costa dell’Ucciardo, Colle delle Ciavole ma  il loro strato agrario, secondo il mio parere, non era adatto all’impianto di vivai di barbatelle.
Nel Nord Italia è presente il Lago di Monticolo (in tedesco, Montiggler See), in realtà formato da due piccoli laghi alpini (Lago Grande e Lago Piccolo). I due laghi si trovano nel Trentino Alto Adige,  nella provincia di Bolzano (a circa 16 km da Bolzano)  sul Monte di Mezzo, una collina che sovrasta Valdena e Lavies.

Monticolo


La zona è famosa per la sua grande valenza naturalistica ed archeologica. Infatti a sud del Lago Grande sono presenti i resti di un importante sito archeologico. Un sito preistorico molto importante, rialente all’Età del Bronzo e denominato: il castelliere dell’Età del Bronzo di Colle Jobn (in tedesco, Jobenbühel). Fu indagato all’inizio del Novecento e fu considerato come il primo osservatorio astronomico della preistoria. 

Monticolo: il castelliere dell’Età del Bronzo di Colle Jobn.



Un aspetto che dovrebbe fare rflettere è legato al fatto che i laghi di Monticolo si  trovano lungo la Strada del Vino dell’Ato Adige. Il territorio è rinomato per la coltivazione della frutta e per la produzione di vini di alta qualità. E’ anche vero che la zona circostante è più nota per i boschi e i frutteti, come le mele, piuttosto che per i vigneti posti attorno ai laghi. Vicino ai laghi, si trovano vaste aree coltivate a vite e una rinomata città vinicola come Appiano sulla Strada del Vino conferma l'importanza della viticoltura nell'area circostante. 





Il centro di Appiano sulla Strada del Vino è anche denominato come  la "Terra dei castelli, laghi e vini" (in tedesco Eppan – Burgen, Seen, Wein) ed è situato a pochi chilometri da Bolzano.  Una vasta area a vigneti, la più estesa dell’Alto Adige nella quale s’inseriscono ben nove paesi vinicoli.
Era presente qualche vivaio nei pressi del Lago Monticolo? Un vivaio che era a conoscenza del Marchese Giuseppe Trigona e dei suoi predecessori?
 La denominazione delle barbatelle con il nome di “Monticolo”  lascia aperte tante ipotesi.
Nei pressi del Lago Monticolo, ad appena  10 km, si trova il centro di Termeno dove un piccolo vivaio di barbatelle fu messo a dimora nel 1906. Un impianto molto limitato e creato da Josef Thaler che aveva seguito dei corsi sull’innesto delle viti americane nella famosa scuola Agraria di Agraria di San Michele all’Adige (all’epoca “St. Michael an der Etsch” Austria).
Conseguì un diploma e subito mise in atto le sue conoscenze innestando le proprie viti e quelle dei suoi amici. Solo dopo la seconda guerra mondiale, l’agricoltura e la viticultura nel Sud Tirolo ebbero un grande sviluppo. Josef Thaler (figlio) e il cugino Josef Matzneller intrapresero l’importante attività creando un vivaio professionale.
Le barbatelle venivano innestate nella  casa di Josef Thaler e nelle cantine affiliate. Gli innesti venivano poi impiantati nei vivai. Un’attività importante per decenni.
Le barbatelle Thaler furono contraddistinte da una grande richiesta sul mercato, non solo nel Sud Tirolo ma anche in tutto il Trentino e all’estero.
L’attività di produzione di barbatelle raggiunse livelli produttivi così alti che la vecchia casa, posta nella via O.v. Wolkenstein (2) di Termeno, non era più adeguata per le esigenze aziendali. Nel 1984 fu acquistato un capannone e nell’azienda furono introdotti  nuovi macchinari per rendere ancora più efficiente l’attività produttiva. Ma questo solo in tempi recenti quando l’Azienda “F.lli Trigona” non era più in attività.

Vivaio Thaler

Le foto sono state tratte del sito:


I Thaler oltre alle barbatelle americane avevano in azienda una barbatella locale o un tipo di barbatella americana che i  Marchesi Trigona consideravano ottima per il territorio siciliano e non solo?
Le barbatelle americane erano sicuramente brevettate dal locale Ispettoarato Agrario e i Marchesi per non violare i diritti di produzione, la denominaro con il termine di Monticolo anche per indicare la loro provenienza e  la diversità varietale rispetto alle altre barbatelle presenti nel feudo.. Un termine legato alla bellezza naturalistica del sito che i Marchsi avevano sicuramente visitato restandone affascinati.
Ricordo di aver estirpato una barbatella dal Feudo di Canicarao per piantarla nel frutteto antico che avevo creato sulle pendici di Costa dell’Ucciardo. La feci vedere all’anziano trattorista del marchese  trovando una conferma sulla varietà: Monticolo. Purtroppo con la mia partenza dalla Torre di Canicarao tutto andò distrutto.

La Vigna del Feudo
Nella tenuta “Donnadolce”, una delle dodici aziende del feudo Canicarao, era presente un vigneto denominato  negli atti anche come “Vigne del Marchese”.


In un atto datato 14 maggio 1871, regnando Vittorio Emanuele II, stipulato dal notaio Lorenzo Labisi (di D. Luca, con studio notarile in Comiso in via Circolari) erano presenti:
- Marchese Vincenzo Trigona, fu Marchese Giuseppe, proprietario, nato a Noto e domiciliato a Firenze, strada Cavour;
- I testimoni, entrambi possidenti di Cosimo: Don Filippo Donzelli, fu Sig. Innocenzo; e Don Concetto Demartino, fu Don Giuseppe;
- Il massaro Filippo Fava, fu Carmelo, possidente e domiciliato a Comiso. Non sa firmare.
Il comparente Signor Marchese di Canicarao, per quest’atto a minuta e con ogni garentia di dritto e di fatto, come per legge, concede in affitto a Fava che accetta, una tenuta di terre, esistente nell’Exfeudo Canicarao, territorio di Ragusa, denominata Donnadolce nella quale vanno comprese le terre cosiddette di Don Rosario Guastella, che fanno parte della tenuta medesima, della estensione in tutto di Ettari trentasei, ari ventiquattro, centiari ventisette della misura legale decimale, pari a salme tredici della misura abolita di Ragusa,
La tenuta comprende :
- Case;
- Atrio;
- Pozzo;
- Una piccola casa;
- Mandra;
- Altre comodità.
Dal contratto restavano escluse la dispensa ed il palmento mentre l’atrio ed il pozzo restavano in comune con il Marchese.
La tenuta confinava:
- Ex feudo Cifali (eredi del Marchese Don Clemente Ferreri);
- Tenuta Cascalana (Dottor Filippo Pancari di Vittoria);
- Antica via di Chiaramonte;
- Terre dell’ex feudo di Canicarao del Marchese Trigona.
La durata del contratto era di sei anni per un canone annuo (estaglio) di 1912,50 lire da pagare in due rate semestrali l’1 aprile e l’1 luglio.
L’atto conteneva anche degli obblighi da parte dell’affittuario e il diritto di usufruire di ½ giornata d’acqua per settimana di “tutta l’acqua dell’ex feudo”. (in modo alterno di giorno e di notte).
Nella tenuta “Donnadolce” era quindi presente un vigneto che restava però escluso dal contratto d’affitto. Infatti il Marchese escluse dall’atto l’’uso della dispensa e del palmento. Mentre restava in comune sia l’atro che il pozzo necessari per le procedure culturali del vigneto e della vinificazione delle uve.
La tenuta “Donnadolce” data in affitto.
Stabilire i limiti della Tenuta “Donnadolce” e l’ubicazione della “Vigna del Marchese” non è facile.
Il terreno circostante le “Case Donnaldolce”, con una superficie di circa 36 ha, costituivano una parte della tenuta. La “Vigna del Marchese” doveva essere ubicata dove oggi insiste la zona industriale di Comiso che, secondo me, poteva essere costruita altrove. La Tenuta Donnadolce costituiva il limite Nord del vasto Feudo di Canicarao.
Limite costituito  anche dalla strada Comunale “Annunziata Cifali” per continuare, ad est, lungo la regia Trazzera “Comiso – Chiaramonte” che costeggia la Tenuta “Don Pietro”.
A detta di molti antichi “massari” il confine del Feudo era costituito dai cipressi (“Filari di Cipressi”) lungo la Regia Trazzera.
Il confine ad Ovest era rappresentato, nel primo tratto adiacente alla Tenuta “Donnaldolce”, dal torrente Canicarao per poi proseguire lungo la Regia Trazzera “Comiso Chiaramonte” in direzione di Comiso.

I puntini rossi rappresentano il confine Nord del Feudo.


Il primo caso di filossera in Italia fu registrato nel 1879 nella provincia di Lecco e in Toscana nel 1888. Probabilmente i vigneti del Marchese Trigona erano ancora in ottimo stato come dimostra  l’esclusione del palmento dal contratto per suo uso esclusivo. Dire con certezza dove si trovava la vigna del Marchese non è facile. Forse anche il palmento, che doveva essere salvaguardato, andò distrutto. Una struttura, dal grande valore artistico e storico, risalente ad oltre un secolo e mezzo fa.
La vigna nel contratto d’affitto, in merito  all’indicazione dei confini,  era inclusa nella frase:
Terre dell’ex feudo di Canicarao del Marchese Trigona.

La tenuta “Donnadolce” fu oggetto di un nuovo contratto l’11 luglio 1885, regnante Umberto I.
L’atto fu stipulato dal notaio Salvatore Pelligra, fu Don Gaetano, iscritto al Consiglio Notarile del Distretto di Modica, residente in Comiso, Via Pannieri n. 50.
Erano presenti:
- Testimoni (entrambi civili di Comiso): D. Carmelo Barone, fu Rosario e D. Giovanni Salerno, fu Emanuele;
- Don Francesco Labisi, fu Don Luca, nato a Noto e residente in Comiso, Via Liria (casa propria). Nell’atto nella qualità di “commissionato” del Marchese Vincenzo Trigona. Marchese che nell’atto elegge domicilio nella casa di Don Labisi;
- Gabelloto : “Massaro” Giuseppe Incremona, fu Biagio, “arbitriante”, di Comiso, Via Cucuzzella. (L’Incremona non “ sa sottoscrivere”).
(“Arbitriante” è un termine siciliano ed esattamente della provincia di Catania. Indicava il gabellotto cioè l’agricoltore che non era proprietario del fondo ma lo prendeva in affitto ovvero il gabella).
La tenuta venne indicata con il termine “Donna Dolce” e contraddistinta anche dal numero 6 del registro delle tenute dell’ex feudo.
La superficie oggetto del contratto era di 31 ha contro i 36 ha del contratto precedente. Non comprendeva la chiusa dei “30 tumuli” e la stessa tenuta era circondata da muri a secco e formata da 4 chiuse.
Confini:
- Terre di Cascalana ( del Signor Pancari);
- Vigne del Marchese, dette di “Donna Dolce”;
- Chiusa dei “30 tumuli”;
- Trazzera che conduce a Chiaramonte.
La Tenuta era composta da:
- N. 4 case;
- N. 2 stalle;
- una corte che era comune con altri corpi di proprietà del Marchese di Canicarao;
- un pozzo;
- Mandre con “muri in fabbrica”;
- loggiato, con mangiatoie, per bovini.
La durata del contratto era di sei anni: dall’1 settembre 1885 al 31 agosto 1891
Il canone annuo (estaglio) di 1785 lire, pagabile di in due rate con scadenza 1 aprile e 1 luglio.
Fra i doveri dell’affittuario: diritto di passaggio per andare alla chiusa dei “30 tumuli”. Passaggio sia per pascolo che per coltivazione. L’accesso era posto sopra le vigne del Marchese.


Nel 1880 la vigna del Marchese presentava i primi attacchi di filossera. Infatti nel 1880 era già presente nell’ex feudo Pedalino del barone di Sant’Antonino, G.B. Melfi, un vivaio di barbatelle americane così come a Modica con il Comizio Agrario.
Il vecchio vigneto fu estirpato e furono messe a dimora le barbatelle americane che successivamente furono innestate con vitigni europei.
La tenuta di “Donnadolce o Donna Dolce”  fu probabilmente data in dote alla sorella del Marchese Vincenzo Maria (XI Marchese di Canicarao e di Dainammare), Maria Dorotea nata a Firenze il 27 giugno 1880 (deceduta a Noto il 3 luglio 1945(?). Maria Dorotea (figlia di Giuseppe Maria Salvatore Trigona – X Marchese di Canicarao e di Dainammare e di Maria Carolina de Grasset) sposò Giovanni Felice Modica di San Giovanni, nato ad Avola il 29 luglio 1888 e  deceduto ?) (figlio di Antonino Modica e di Giovanna Modica, figlia di Michele Modica e Itria Munifà). Dal matrimonio nacque una figlia, Giovanna Modica.
Giovanna Modica nacque a Firenze il 23 giugno 1922 e morì a Catania il 30 agosto 1977. Sposò Luigi Bonaccorsi, nato a Catania il 6 aprile 1910 e deceduto il 31 maggio 1953 a (?), figlio di Francesco Paolo Bonaccorsi di Casalotto e di Silvia Maria Mercedes Paternò Sperlinga Manganelli, figlia del Principe di Sperlinga, Giuseppe Maria Alvaro Paternò e di Angela Maria Torresi.
La tenuta di Donnadolce verrà scorporata dall’ex feudo, come raccontato dai vecchi mezzadri,  ed amministrata da Don Politto che era spesso in disaccordo con  il rag. Lastrucci amministratore del restante feudo.

Secondo alcuni appunti, trovati nell’archivio che andò distrutto, figuravano alcuni vitigni, ben diciassette. disposti secondo precisi filari:

1)     Italia …………. 3 Filari
2)     Regina…… 1  Filare;
3)     Baresana………2 Filari;
4)     Panes. Precoce (Pansè Precoce?) …. 1 Filare
5)      Delizia di Vaprio …. 1 filare;
6)     Regina Vigneto…… 1 filare;
7)     Sultanina….. 1 filare;
8)     I. P. 75 .. (Angelo Provano)… 1 filare;
9)     Regina …… 2 filari;
10) Italia …… 2 filari;


11)     Grosso Nero…. 1 filare;
12)     Minnella…..1 filare;
13)     Corniola……1 filare;
14)     Moscadella…..1 filare;
15)     Gugnettisa…. 1 filare;

Nel vigneto furono introdotte delle varietà antiche come la “Baresana”, la “Pansè Precoce”, la Belosia/Malvasia di Lipari” la “Sultanina” e l’”Una Angelo Pirovano"”. 
Fu anche creata una vigna sperimentale come citava un altro appunto, con innesti operati su “140 Ruggeri”.
Vennero indicati tutti i filari con i rispettivi innesti
Dal 1° filare di 140 Ruggeri a incominciare dal Muro della Saia..





Un altro disegno riportava
L’Impianto Barbatelle – Podere Carciofi 1°  Colono Corallo Salvatore

L’impianto era in prevalenza destinato a barbatelle “140 Ruggeri” (ben 24 file);
5 file per le barbatelle Monticolo ed altrettante per la Berlandieri.


La “Vigna del Marchese” si trovava nella Tenuta Donnadolce ma stabilire la sua esatta ubicazione e la sua estensione non è facile.
In merito alla sua ubicazione, doveva trovarsi nell’area oggi occupata dalla zona industriale e confinante con la Regia Trazzzera.
In quest’area i vecchi mezzadri mi parlarono di aver sempre visto continui cespugli, spesso molto folti, di ricacci di barbatelle; dell’esistenza di pali in legno di una certa dimensione e di antichi pilastrini in pietra per il sostegno dei filari di viti. Caratteristici pilastrini in pietra che con il tempo furono trafugati.
Il vigneto, dopo l’attacco della filossera, non solo fu ripristinato ma anche ampliato con l’acquisto di viti, già innestate, provenienti da Palermo.
Un aspetto importante fu l’introduzione nel vigneto di alcune varietà che potremo definire antiche e quindi di grande importanza.
L’estensione del vigneto doveva essere importante  per giustificare la presenza nelle case di Donnadolce di un palmento con cantina e dispensa. Accanto al “vigneto del Marchese” fu anche creata una vigna sperimentale. Nella tenuta detta “Carciofi”, adiacente alla tenuta di “Donnadolce”, fu messo a dimora un vivaio di barbatelle da utilizzare anche  per un allargamento del vigneto esistente.



Tanti interrogativi, le planimetrie potrebbero essere inesatte, ho cercato d’interpretare i dati in mio possesso e le antiche voci  dei mezzadri ormai scomparsi.
Le risposte a questi interrogativi erano contenute in quell’immenso archivio andato purtroppo distrutto.


LA COLTIVAZIONE DELLE VITI AMERICANE
( SECONDO LE TECNICHE AGRARIE DEL 1897)
 
La coltivazione e, quindi, la diffusione delle viti americane tende a generalizzarsi in tutti quei paesi che sono stati colpiti dalla fillossera.  L’uso da diversi anni ha permesso di mettere a frutto esperienze, anche negative, che hanno permesso di ridurre gli insuccessi dei primi periodi. La vite americana  esige al momento dell’impianto lo scasso del terreno. Lo scasso favorisce, infatti, lo sviluppo della pianta e  la possibilità di potere resistere a varie cause nemiche, soprattutto, ambientali.
La tecnica ha infatti portato in evidenza che durante lo scasso non si portano in superficie gli strati sottostanti quando questi sono più ricchi di calcare di quelli superiori.
La concimazione (con letame, sovescio e concimi chimici)  è necessaria e si può eseguire al momento dello scasso, o della piantagione.
Quando i terreni sono troppo ricchi in calcare si elimineranno dall’uso i concimi ricchi in calce, specialmente quelli provenienti dalla spazzatura delle strade inghiaiate con breccia calcarea (pietrisco bianco). Il loro uso favorirebbe la clorosi.
Al momento della messa a dimora delle “barbatelle” si rinnova il taglio delle radici (breve accorciamento) e successivamente si mette a dimora nella buca che è stata preparata. Si ricopre con terra fine e quindi si somministra il concime.
Questa tecnica permette di avere nella barbatella un buon  e rapido sviluppo .
Nei terreni umidi la barbatella innestata dovrà avere l’innesto a 3-5 cm sopra terra per impedire l’affrancamento dell’innesto. In quelli asciutti l’innesto dovrà essere a fior di terra o anche un poco al disotto per impedire il  disseccamento del punto innestato.
La piantagione si esegue da dicembre a marzo, rincalzando con energia le barbatelle innestate. La rincalzatura si fa rimanere sino a giugno-luglio. Successivamente si disfà, si tolgono le radici nate dalla marza e i nuovi getti venuti dal soggetto si ricalzano debolmente. In agosto si scalza tutto per mettere a nudo la saldatura.
Nelle barbatelle non innestate le tecniche culturali, tipiche delle barbatelle innestate, sono sostituite da quelle ordinarie nell’impianto delle talee.
Appena sradicate le viti, colpite dalla filossera, si possono piantare le barbatelle selvagge e quelle innestate. Qualora i ceppi manifestassero i segni dei funghi del marciume è necessario operare una disinfezione del terreno. Se il terreno (per le particolari condizioni geologiche) agevola il propagarsi della filossera si consiglia di mettere a dimora dei vitigni resistenti; nel caso opposto si potranno anche adoperare vitigni dotati di una resistenza relativa.
La distanza da darsi alle nuove piante, a parità di condizioni deve essere sempre maggiore di quella usata per le viti nostrane, specialmente negli impianti di riparie in terreni pingui.
Ogni piantina riceve una canna od altro sostegno, al quale si affideranno i teneri germogli.
I lavori culturali annuali, necessari per distruggere le cattive erbe e per mantenere fresco il terreno, non devono essere mai molto profondi dalla primavera all’autunno, specialmente nei terreni calcari. Operando diversamente si lederebbero molte radici superficiali e la pianta sarebbe obbligata a vivere solo con quelle degli strati più profondi, d’ordinario  più ricchi in carbonato di calcio, e risentire intensamente gli attacchi della clorosi.
Le viti americane, non solo sono esigenti in fatto di terreno e lavori, ma desiderano anche tante concimazioni.
La concimazione può farsi a biennio o triennio a base di letame, al quale si uniranno sarmenti ben tritati, vinacce, cenere, spazzatura di cortile, ecc.; oppure con sovesci di leguminose concimate con sali minerali. Il sovescio è specialmente additato per la collina  dove una spesa relativamente piccola sostituisce il letame e gli altri concimi.
Le migliori leguminose da sovescio sono: la fava e la veccia nei terreni argillosi calcari e il lupino in quelli di natura silicea e sciolti. La semina si potrebbe fare alla volta appena terminata la vendemmia (alla fine di settembre o ai primi di ottobre); il sovescio in marzo-aprile.
Contemporaneamente alla semina si somministreranno q.li 4 di perfosfato al 16% di anidride fosforica per ettaro, oppure 6-8 q.li di scorie Thomas di sicura provenienza e allo stesso titolo. Nei terreni calcarei e silicei è indicata una quota di sali potassici, possibilmente allo stato di solfati.
Durante l’annata si eseguiranno le scacchiature, per togliere i getti provenienti dal selvaggio, nel caso di viti innestate, e successivamente tutte le altre operazioni di potatura verde, confacenti alla natura del vitigno e al sistema di allevamento.
Le solforazioni e i trattamenti cuprici entreranno nelle pratiche usuali e si applicheranno con sollecitudine, prima che i germi crittogamici abbiano invaso la pianta.
Nella plaga, ove è febbrile l’entusiasmo per la coltivazione delle viti americane, la vigna forma già oggetto di speciali cure e i proprietari vanno a poco a poco persuadendosi che abbandonando o modificando, a seconda dei casi, i vecchi sistemi di viticoltura si mettono nella via del progresso che viene additata dagli esempi di coloro che, più arditi ed intelligenti, si sono messi volenterosi all’opera.

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Nel 2003 – 2004 l’ex fedo di Canicarao ritornò alla ribalta con un progetto legato ad una ricerca scientifica importante sia dal punto di vista regionale che nazionale.
Il Vigneto Sperimentale del CORERAS nella Tenuta “Don Pietro” di Canicarao.

Regione Sicilia – Assessorato alla Risorse Agricole e Alimentari.
Dipartimento Regionale degli Interventi Infrastrutturali per l’Agricoltura.


Il CORERAS nella piana della Tenuta detta “Don Pietro”, sita nell’ex Feudo di Canicarao dei Marchesi Trigona, avviò la creazione, nel 2003 – 2044, di campi sperimentali e di ricerca che avevano diversi obiettivi.
Una delle principali attività era legata al progetto
“Valorizzazione dei Vitigni autoctoni siciliani”,
con:
- l’innovazione e ricerca della filiera vitivinicola;
- il recupero e valorizzazione dei vitigni autoctoni siciliani in termini di utilizzazione viticola, enologica e commerciale;
- lo studio e la valutazione della risposta agronomica, enologica e qualitativa dei vitigni in relazione al territorio;
- l’ottenimento di cloni di vitigni autoctoni omologati ed iscrizione degli stessi nelle liste delle varietà autorizzate;
- la diffusione di metodi di produzione ecocompatibili e riduzione dei costi di produzione e la qualificazione del settore vitivinicolo;
- innovazione aziendale mediante la diffusione e la divulgazione di aspetti tecnici e normativi in collaborazione con il DI.PRO.VE. (Dipartimento di Produzione Vegetale) della Facoltà di Agraria di Milano.
Il CORERAS creò quindi un campo sperimentale di Vitigni Autoctoni nell’Azienda “Don Pietro” di Canicarao.
Gli obiettivi del progetto erano tutti importanti ma uno in particolare era di grande rilevanza
campo sperimentale di raccolta germoplasma
presso l’azienda sperimentale Don Pietro CORERAS Contrada Canicarao – Progetto Valorizzazione Vitigni Autoctoni Siciliani in collaborazione con il DI.PRO.VE della Facoltà di Agraria di Milano.
Una ricerca sotto il patronato della Regione Siciliana – Assessorato Agricoltura e Foreste.
Il 5 (?) luglio 2007  ci fu l’inaugurazione dell’Azienda Agricola Sperimentale Don Pietro” con l’intervento del Presidente della Provincia di Ragusa  dott. Franco Antoci.
"Polo d’avanguardia”.
Un’azienda che per il comparto zootecnico e dell’agricoltura a pieno campo ha scelto la strada dell’innovazione tecnologica col supporto tecnico e scientifico del Coreras, di cui è presidente il professor Antonio Bacarella.
“Si tratta d’ un’azienda d’eccellenza che sarà sicuramente punto di riferimento nel campo dell’innovazione in agricoltura. Puntando sulla tecnologia e sulla ricerca la nostra agricoltura potrà uscire dagli stretti confini provinciali per proporsi a livello nazionale ed europeo. Questo azienda che avrà uno specifico compito nel campo della sperimentazione della zootecnia e dell’agricoltura a pieno campo potrà fare il paio con il centro di ricerca ibleo di contrada Perciata che inaugureremo nei prossimi mesi. Il presidente del Coreras prof. Bacarella mi ha rappresentato la volontà di sottoscrivere un accordo di programma con lo stesso Coreras, l’assessorato regionale all’Agricoltura e la Provincia Regionale di Ragusa per avviare una collaborazione nel campo dell’innovazione e della ricerca in agricoltura. Un progetto ambizioso che potrebbe portare il nostro territorio ad elevarsi a punto di riferimento nazionale nella ricerca relativa alla sperimentazione in agricoltura per assicurare a questo settore grande impulso, progresso e sviluppo”.Anche l’assessore allo Sviluppo Economico Enzo Cavallo esprime soddisfazione per la realizzazione di un’azienda agricola all’avanguardia: “Per l’agricoltura la ricerca è fondamentale perchè mira all’ampliamento delle conoscenze scientifiche e tecniche non connesse ad obiettivi industriali e commerciali e credo che in questo particolare momento di crisi del settore ci sia l’esigenza di battere nuove strade innovative e alternative per restare competitivi nel mercato globale”.
Ricordo questo bellissimo vigneto sperimentale con viti allevate a spalliera. Un elevato numero di filari con centinaia e centinaia di viti autoctone della Sicilia ed etichettate. Una ricerca importante svolta con grande professionalità da tre agronomi che con grande amore svilupparono gli obiettivi del progetto. Ricordo ancora, a distanza di circa trent’anni, i nomi di questi tecnici che spesso soggiornavano nella Torre allora adibita ad agriturismo.
Mi confrontavo con loro per le mie ricerche agronomiche e per la valorizzazione dell’ambiente attorno alla Torre.
Nel campo di Don Pietro svilupparono non solo il Vigneto Sperimentale ma misero al centro della ricerca altre colture:
- zafferano;
- cardo;
- grani antichi;
- asparago selvatico.
In merito alla cultura dello zafferano ricordo la richiesta di bulbi da un’azienda della Sardegna che non riuscì a fare fronte al suo impegno di fornitura a causa della devastazione dei terreni da parte dei cinghiali. Furono ordinati dei bulbi se non ricordo male dall’Abruzzo.
Mi confrontati con loro per la coltivazione dell’asparago selvatico. Misi a confronto le mie competenze con le loro ricerche. Mi dissero che prelevano i semi degli asparagi selvatici e li mettevano in frigorifero per favorirne la germinazione. Avevo creato una piccola asparagiaia, con ottimi risultati, nella Costa dell’Ucciardo adiacente alla Torre. Gli comunicai che con una piccola paletta prelevavo le piantine nel Bosco di Canicarao. Le piantine crescevano ai piedi dei pini, tra gli aghi appassiti, e con la piccola paletta riuscivo a prelevarle con il loro piccolo apparato radicale costituito da piccole zampe. Più piccole erano le piantine maggiori gli esiti positivi del trapianto.
Purtroppo quel grande gioiello del CORERAS andò distrutto. Diedi le dimissioni dall’Azienda Agrituristica, pur essendo con contratto a tempo indeterminato, perché non condividevo il modo di gestore l’attività. Ritornai dopo anni nella Torre trasformata in CDA per rifugiati politici richiedenti asilo politico. Il terreno gestito dal CORERAS era ormai in completo abbandono e colpito anche da un incendio. Restavano, ancora in parte, i pali degli antichi filari di viti e qualche misera vite. Tutto era stato distrutto anche a causa del pascolo degli ovini. Un vero delitto.. Un patrimonio culturale e di biodiversità creato da mani sapienti che avevano accompagnato con il cuore la sua realizzazione….tutto distrutto….

La linea gialla indica i confini della Tenuta “Don Pietro”
(Con la linea tratteggiata gialla, i confini di cui non sono certo).
La linea rossa indica i confini della tenuta adiacente “Molesina”
(Con la linea tratteggiata rossa, i confini di cui non sono certo).

Un immagine che fa piangere…….
La vigna sperimentale del CORERAS, … distrutta.



Le foto risalgono al 2008  circa.
La Regione Sicilia  con la  Legge Regionale 5 agosto 1982 n. 88 decretava..
Costituzione del Consorzio interregionale per la formazione dei divulgatori agricoli in attuazione del regolamento CEE n. 279 del 6 febbraio 1979 e [...]
Materia: 3. Sviluppo economico;
Capitolo: 3.1 Agricoltura: Organizzazione
Data: 05/08/1982;
Numero: 88.
 
Art. 4
 L'Amministrazione regionale è autorizzata a procedere all'acquisto a corpo dell'azienda agraria denominata «Don Pietro» sita in comune di Ragusa, località Molesina, Casa Don Pietro e Canicarao, di proprietà dell'Istituto sperimentale per la zootecnia in Roma, sulla base del valore venale determinato dal competente Ufficio tecnico erariale e previo parere del Comitato tecnico amministrativo di cui alla L.R. 30 luglio 1969, n. 26, e successive aggiunte e modificazioni.
 L'importo anzidetto su proposta del competente ispettore provinciale dell'agricoltura può essere aumentato dal predetto Comitato tecnico amministrativo, e la relativa determinazione approvata dall'Assessore per l'agricoltura e le foreste, fino al 30 per cento, in rapporto alla sussistenza di particolari requisiti non presi in considerazione, a norma delle vigenti disposizioni di legge, ai fini delle determinazioni dell'importo.
L'azienda di cui al comma precedente dovrà essere destinata e utilizzata per le finalità previste dall'art. 16 della L.R. 3 giugno 1975, n 24, dal terzo comma dell'art. 3 della L.R. 20 aprile 1976, n. 36, dall'art. 4, lett. a, della L.R. 1 agosto 1977, n. 73 e dall'art. 6 della L.R. 11 aprile 1981, n. 57 e successive aggiunte ed integrazioni.
Per la finalità di cui al comma precedente l'Amministrazione regionale è altresì autorizzata a procedere all'acquisto, con le procedure previste dal primo e secondo comma del presente articolo, di terreni agricoli di proprietà di enti pubblici.
L'Assessore per l'agricoltura e le foreste è altresì autorizzato a sostenere le spese occorrenti per assicurare la dotazione di mobili ed immobili occorrenti per l'attivazione ed il funzionamento delle basi territoriali acquisite o da acquisire a norma del presente articolo.
A tal fine si applicano le procedure previste al primo e secondo comma dell'art. 17 della L.R. n. 23 del 28 luglio 1978 e successive aggiunte e modificazioni.
Per le spese relative all'acquisizione dei beni di cui ai primi quattro commi del presente articolo e per la gestione dei medesimi, è autorizzata, per il triennio 1982-1984, la spesa complessiva di lire 2.700 milioni, di cui lire 1.700 milioni per l'esercizio finanziario 1982, da iscriversi nella rubrica «Presidenza della Regione».
Per le spese relative alle finalità di cui al quinto comma del presente articolo è autorizzata, per il triennio 1982-1984, la spesa complessiva di lire 300 milioni di cui lire 200 milioni per l'esercizio finanziario 1982 da iscriversi nella rubrica «Assessorato regionale agricoltura e foreste».
 
…………………………………………….

Canicarao fu al centro di un’altra ricerca da parte del CNR di Firenze con il prof. Marcello Intini e la sua equipe.
Una ricerca sul
Il Cipresso in Sicilia.
I risultati della ricerca furono pubblicati in un opuscolo che fu stampato in tutte le lingue dei Paesi che si affacciano sul Bacino del Mediterraneo.

Per l’ex feudo di Canicarao era un ritorno al passato. Si rinsaldava un antico legame con la città di Firenze. La marchesa Margherita Trigona era la moglie del Conte Filippo Pandolfini di Firenze.
Lo studio del “Cipresso in Sicilia” aveva la sua base su una legge regionale del 6 aprile 1996 (n. 16) che definiva che
"la Regione promuove la valorizzazione delle risorse del settore agro-silvo-pastorale, il
miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di montagna, l'incremento della
superficie boscata, della selvicoltura e delle attività connesse a questa, la prevenzione delle cause
di dissesto idrogeologico, la tutela degli ambienti naturali, la ricostituzione e il miglioramento
della copertura vegetale dei terreni marginali, la fruizione sociale dei boschi anche a fini
ricreativi".
A partire dagli anni ’50 in Sicilia furono realizzati diversi rimboschimenti di natura artificiale che avevano soprattutto intenti sistematori.
Molti di questi rimboschimenti andarono distrutti a causa degli incendi tutti dolosi.
Le specie maggiormente impiegate, in ordine di frequenza, furono:
- il pino d’Aleppo (Pinus halepensis);
- il pino domestico (Pinus pinea);
- il cipresso comune (Cupressus sempervirens);
- il cipresso argentato (Cupressus arizonica spp.);
- il cipresso macrocarpa Cupressus macrocarpa).
Tutte specie associate tra loro o in purezza.
La superficie occupata da questi boschi artificiali era di circa 45.000 ettari con una maggiore diffusione nelle provincie di: Palermo, Agrigento, Caltanissetta e Ragusa.
L’uso del cipresso risultò importante sia per la sua funzione paesaggistica ma anche per il suo adattamento ai vari terreni e alle diverse condizioni climatiche.
Proprio per queste sue particolari caratteristiche risultava il più adatto per i terreni marginali dell’ambiente mediterraneo e siciliano in particolare.
Purtroppo una grave malattia, causata dal fungo “Seridium cardinale”, colpì numerosi cipresseti in Sicilia destando una grande preoccupazione.
Nel 2004 la malattia sembrava in fase di arresto tuttavia non mancavano nuovi attacchi del fungo.
Partendo da queste considerazioni il Dipartimento delle Foreste della Regione Sicilia, decise di partecipare al progetto:
CypMed
“Les cyprès et leur polyvalence dans la réhabilitation de l’environnement et du
paysage méditerranéen”.
(I cipressi e la loro versatilità nel recupero dell’ambiente e del paesaggio mediterraneo).
INTERREG III B MEDOCC.
Programma di Cooperazione Territoriale Interreg III B per il Mediterraneo Occidentale (Medocc) finanziato dall'Unione Europea per il periodo 2000-2006, con l'obiettivo di promuovere la collaborazione tra regioni periferiche e insulari di diversi Paesi, tra cui Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Malta e Gibilterra.
Gli obiettivi, presenti e futuri, che la Regione Sicilia intendeva raggiungere erano:
- prevenire e contrastare l'erosione e la desertificazione dei suoli con l’uso di idonee essenze arboree;
- rimboschire le aree fortemente degradate con specie adatte;
- valorizzare il patrimonio forestale regionale esistente.
Il progetto “CypMed” voleva dimostrare il grande valore ecologico, ambientale, economico e sociale del cipresso - geneticamente migliorato per la resistenza al cancro - per risolvere i problemi collegati con la protezione del suolo, la produzione di legno di qualità, l'aumento qualitativo e quantitativo dei prodotti protetti da frangivento.
Tutti questi aspetti erano importanti nella visione di una seria politica forestale regionale.
Gli obiettivi che il progetto “CypMed” assegnava alla Sicilia erano: 
1. la costituzione di aree dimostrative per l'impianto di specie forestali per la protezione del suolo;
2. l'inventario di aree potenziali che potrebbero essere occupate dal cipresso in Sicilia.
Fu scelta la provincia di Ragusa, per la realizzazione della prima azione, per una discreta diffusione di cipressete su suoli superficiali ricchi di scheletro. Per la realizzazione del campo sperimentale fu chiamato a collaborare con il Dipartimento delle Foreste della Regione Siciliana il CORERAS.
Il CORERAS doveva quindi realizzare un importante campo di valutazione clonale di cipresso (Cupressus sempervirens L.) presso l’azienda agricola sperimentale Don Pietro, facente parte dell’ex Feudo Canicarao dei Marchesi Trigona, sita in agro di Ragusa (vicina al comune di Comiso). Il CORERAS doveva garantire i rilievi previsti e le attività connesse per tutta la durata del progetto CypMed. Fu subito messa in atto la messa a dimora del cloni in una superficie di circa 3 ha. Il terreno presentava le condizioni pedologiche tipiche dell’area ragusana.
Per l’attuazione della seconda azione, il Dipartimento delle Foreste della Regione Sicilia stipulò con
il Dipartimento di Botanica dell'Università di Catania un accordo per l’effettuazione di indagini ambientali finalizzate alla individuazione di "aree tipo" idonee all’insediamento e alla diffusione di Cupressus sempervirens in Sicilia.
Il programma operativo prevedeva, fra l'altro:
1. le osservazioni in pieno campo per una determinazione di caratteri ambientali e bio-ecologici delle stazioni potenziali per impianti di cipresso e individuazione in queste delle piante specifiche e comunità vegetali da usare come bioindicatori;
2. L'individuazione tra le stazioni potenziali delle aree più idonee all’impianto di una varietà multiclonale costituita da almeno 30 cloni di Cupressus sempervirens, per la riabilitazione dell’ambiente e del paesaggio mediterraneo e per la lotta contro la desertificazione;
3. individuare i cloni di cipresso comune più adatti alle condizioni pedoclimatiche siciliane, scelti tra quelli già selezionati per la resistenza al cancro;
4. diffondere, negli ambienti pubblici e privati interessati dalla problematica, i risultati che siprefigge il progetto CypMed.
L’indagine doveva essere ultimata entro il giugno 2004.

Nel giardino, adiacente alla Torre, erano presenti due maestosi esemplari di cipresso comune (varietà stricta) che erano stati piantati nel 1800.

Nella foto si vedono i due maestosi esemplari di cipressi.
Il cipresso, a destra della foto, morì nel 1989 circa  e nel 2004, a causa del vento si schiantò al suolo sul giardino.
Ricordo di aver ricavato dal grande albero della legna per le stufe, per il camino posto nella stanza del marchese e per il forno. 

Nella foto, a sinistra, il cipresso secco.
A destra, il cipresso ancora in discrete condizioni vegetative.

Il cipresso che nel 2004 era ancora in discrete condizioni vegetative.


Tagliai il fusto a fette che racchiudevano il diametro della pianta e quando fu indagato erano ancora presenti delle sezioni di fusto.



Il prof. Intini e la sua equipe analizzando la sezione trasversale del fusto del cipresso morto riuscirono a determinare per la pianta un’età di circa 130 anni. Considerando la morte avvenuta circa 15 anni fa, rispetto al 2204, si stabilì la sua messa a dimora tra il 1850 ed il 1860.
Stabilire nel cipresso la sua età attraverso il conteggio degli anelli di accrescimento legnosi non è facile.
Questo perché il cipresso ha un accrescimento continuo se le condizioni climatiche sono favorevoli.
Infatti può generare ogni anno anche due anelli di accrescimento.:
- uno è il vero è proprio anello dove si riconosce il legno di chiusura invernale ed il successivo legno primaverile,
- un altro può essere dovuto ad una stasi dell’accrescimento diametrale in corrispondenza del periodo arido.
Le due piante presentavano delle notevoli analogie per l’età, struttura e dimensioni con i cipressi costituenti il celebre “viale di Bolgheri” (Livorno) impiantato anch’esso nella prima metà dell’800.
In questo studio ebbi il grande onore di collaborare con il prof. Intini..
Da indagini eseguite in collaborazione con il sig. Antonio Barrasso tra gli archivi, poi distrutti da una mano “sapiente”, dell’agriturismo “Torre di Canicarao”, fu ipotizzato che i cipressi di Canicarao e quelli di Bolgheri abbiano la stessa provenienza e che quindi, possano essere considerati, per così dire parenti. È probabile infatti che questi cipressi fossero stati importati da Firenze da Giuseppe Salvatore Trigona oppure da suo figlio Vincenzo. Esistono infatti dei collegamenti ben precisi tra la famiglia Trigona, originaria proprietaria della Torre di Canicarao e la Toscana.
È un dato storico che nel 1800 Giuseppe Salvatore Trigona, marchese di Canicarao e di Noto, risiedeva a Firenze. Il figlio, il marchese Vincenzo Trigona, ebbe cinque discendenti, tra cui Emilia, che nacque a Firenze il 30 maggio 1867. A partire da questa data la maggior parte dei discendenti Trigona nacque a Firenze e risiedette nella casa nobiliare di via Santo Spirito (n. 23).

Viale dei Cipressi.
Strada Provinciale 16d – SP39 – Bolgheri
Comune: Castagneto Carducci (Toscana, zona della Maremma).
Provincia di Livorno
Inizio: Oratorio di San Guido – Fine: Bolghieri -  Lunghezza: 4,7 km
Un viale delimitato da oltre 2.500 cipressi, piantati nel XIX secolo disposti
in due fittissimi filari lungo tutto il rettilineo.

Azienda “Don Pietro”.
La linea rossa delimita  l’area destinata alla piantagione di cloni di cipressi.

Foto del 2003 circa

la cipresseta dopo un paio d'anni.



La cipresseta nel 2014 circa.

La cipresseta nel 2020 circa


I  cloni di cipressi oggi (2025)








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Nota

Il cavaliere Emanuele Trigona.
Il cavaliere  Emanuele Trigona  fu non solo un importante dirigente della “La Magona d’Italia”,  una società famosa nel campo siderurgico, ma anche un politico in diverse legislature nell’epoca fascista.
Ricoprì anche diversi ruoli  governativi.
Malgrado i suoi impegni lo tenevano lontano dalla Sicilia s’interessò sempre all’amministrazione del feudo, prima con il fratello Vicenzo Maria e successivamente con il nipote Giuseppe.
Laureato in ingegneria  al Politecnico di Torino, dove strinse una grande amicizia con Arturo Bocciardo, un grande imprenditore dell’industria siderurgica italiana negli anni fra le due guerre mondiali.
Il cavaliere Trigona dimostrò subito delle alte capacità imprenditoriali nel campo industriale nella sua prima esperienza lavorativa nello stabilimento delle Ferriere Italiane di San Giovanni Valdarno  (Arezzo). Lasciò lo stabilimento nel 1907 per assumere la direzione amministrativa della società “La Magona d’Italia” a Piombino (Livorno) ma con sede amministrativa a Firenze).
La Società era nata grazie  all’iniziativa di un gruppo di imprenditori anglo-fiorentini e produceva solamente la latta o “banda stagnata” che era destinata all’industria conserviera. I macchinari per la realizzazione della latta erano di provenienza inglese.
Nel 1896 la Società cominciò ad importare delle barre d’acciaio, per poi sottoporle alla lavorazione con la realizzazione di forni e di un treno laminatoio.
Questo nuovo indirizzo produttivo determinò una crescita dell’azienda, nei primi anni del 1900, grazie anche alla presenza di una protezione doganale che era stata stabilita dalla tariffa del 1897.
Era d’altra parte una delle poche aziende presenti in Italia a produrre laminati zincati, piombati e di lamierino magnetico.
La grande capacità imprenditoriale del Trigona  fu premiata con la sua entrata nel consiglio di amministrazione della società.
Il cavaliere Emanuele Trigona diventò una figura importante nel campo industriale italiano e fu quindi inserito nel Comitato di Mobilitazione Industriale.
Nel 1918 Spranger Ramsay designò il cavaliere Trigona come suo successore nella carica di amministratore delegato della società.
Un incarico difficile e in un periodo in cui l’Italia usciva dal conflitto della prima guerra mondiale.
Un periodo di grave crisi economica resa ancora più difficile dalla concorrenza dell’IIVA Altiforni e Acciaierie Italiane, nata nel 1918 e guidata da Max Bondi,  sorta nell’area di Piombino.
Max (Massimo) Bondi (Roma, 13 ottobre 1881 – Berlino, 13 gennaio 19289) oltre ad un imprenditore fu anche un politico.
Il Bondi, grazie agli incentivi statali dei primi anni del Novecento, realizzò il primo impianto siderurgico a ciclo completo costituito da: altiforni a coke, acciaieria e laminatoio. L’impianto di Piombino entrò in funzione del 1908 – 1910 ma il programma industriale del Bondi era troppo ambizioso di fonte a quelle che erano le risorse disponibili. 
Ben presto si vide costretto, per fare fronte ad una enorme passività, a creare nel 1911, a tre anni quasi dall’inizio della sua attività, un Consorzio siderurgico.
La seconda guerra mondiale offrì delle nuove opportunità alla siderurgia italiana grazie alla domanda molto urgente di munizioni. Tra il 1920 ed il 1921  l’industria del Bondi fu colpita da una grave crisi, causata da una serie di errori speculativi operati dallo stesso Bondi. Egli infatti cercò di allargare il controllo industriale e finanziario della sua società a tutta una serie di imprese meccaniche, armatoriali, cantieristiche, minerarie ed anche elettriche.
"I proprietari fondiari Paolo Guicciardini e Peruzzi de’ Medici affiancarono Max Bondi e l’industria siderurgica e degli armamenti col pieno appoggio de “La Nazione”, che era di proprietà dello stesso Bondi, nel sostegno del primo movimento di reazione civile ai rossi, dal quale poi scaturì il fascismo come fenomeno reazionario".
Il suo ruolo nel finanziamento del nascente fascismo lo mise in contatto con le massime gerarchie del potere, anche in ragione del suo peso editoriale.
L’ulteriore, irreversibile, indebitamento dell’Ilva portò la società nelle mani delle creditrici Banca commerciale italiana e Credito italiano, mentre il Bondi venne sottoposto ad inchieste giudiziarie (si parlo anche di spionaggio) e fiscali.
A seguito di alterne vicende e di rovesci finanziari, nel novembre 1925 Bondi fu costretto a fuggire all’estero, facendo perdere le proprie tracce fino alla sua morte a Berlino.
Il Trigona fu anche nominato Sottosegretario di Stato al Ministero delle Corporazioni, dal 1929 al 1933, e successivamente fu nominato presidente dell’Alfa Romeo su incarico d’IRI nel 1933,
presidente della Società "Anonima Fondiaria" di Firenze, amministratore delegato della Società "Magona d'Italia", e presidente del Consiglio superiore delle miniere.
Il Trigona cercò di contenere le iniziative spregiudicate industriali e politiche del Bondi, con l’appoggio del direttore dello stabilimento Magona, Arturo Piccioli, favorendo la nascita del movimento fascista.
Superata la crisi del primo dopoguerra il ruolo del Trigona si rafforzò ulteriormente combinandosi con responsabilità politiche. Nel 1924 venne infatti eletto deputato in una lista nazionale bis per la Toscana legata al leader della Montecatini Guido Donegani (XXVII Legislatura).
Fu confermato nei due plebisciti del regime fascista nel 1929 (XXVIII Legislatura) e nel 1934 (XIX Legislatura) e senatore nel 1939 (XXX Legislatura).
Fu anche nominato sottosegretario al Ministero delle Corporazioni nel 1929 – 1932 nel ministero retto da Giuseppe Bottai.
Altri incarichi nel periodo fascista:
- Nel 1927, componente del consiglio di amministrazione di “Fondiaria Vita”. Il fascismo aveva come obiettivo l’abbattimento del settore assicurativo per favorire l’ordinamento economico corporativo. Fu presidente della società dal 1927 al 1935 e successivamente dal 1939 al 1944;
- Nel 1934 – 44 fu presidente della “Fondiaria Incendi”;
- Componente dei consigli di amministrazione delle società elettriche Maremmana e Alta Merse, della Terni Società per l’industria e l’elettricità, della Esercizio miniere del Valdarno e dello Stabilimento industriale toscano per la lavorazione della carta;
- Presidente dell’Unione industriale fascista della provincia di Firenze e del Consiglio superiore delle miniere;
- membro del direttivo della Confederazione fascista degli industriali meccanici e metallurgici;
- esponente della Corporazione metallurgica e meccanica – non si fa fatica a comprendere come un attento conoscitore della struttura socioeconomica del capoluogo toscano in quegli anni lo abbia ricordato come «personaggio influentissimo del mondo industriale fiorentino» (Palla, 1978, p. 81).
Alla fine del 1933 anche il neonato Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) trovò il modo di utilizzarne esperienza e competenze affidandogli la presidenza dell’Alfa Romeo, un’azienda di grande prestigio, ma in preoccupante declino industriale. In questo caso assunse la veste del garante per l’opera di risanamento e di rilancio avviata, nella seconda metà degli anni Trenta, dal nuovo direttore generale Ugo Gobbato. Un ruolo che l’IRI non mancò di apprezzare visto che fu uno dei due presentatori (l’altro fu il prefetto di Firenze Ruggiero Palmeri di Villalba) della sua candidatura alla nomina a senatore.
Nonostante i numerosi incarichi assolti in ambiti diversi, la siderurgia rimase il settore al quale si sentì più legato e all’impresa Magona d’Italia dedicò le sue migliori energie. Di quest’ultima divenne vicepresidente nel 1926 e presidente nel 1937, mantenendo in entrambi i casi la carica di amministratore delegato.
Fu quella una stagione nella quale la siderurgia italiana visse un momento di profonda modificazione del mercato interno, in un contesto internazionale caratterizzato da un eccesso di capacità produttiva e da una forte instabilità dei prezzi. Si ridusse sensibilmente in quegli anni la domanda delle amministrazioni statali (in particolare quella delle ferrovie) e dei cantieri navali, mentre aumentò la richiesta di profilati per l’edilizia, di laminati di largo uso commerciale, di acciai di qualità e speciali, nonché di getti per la meccanica leggera e per la produzione di beni strumentali. Era un tipo di domanda che un’impresa come l’Ilva, dotata di grandi impianti a ciclo integrale, o comunque basati sulla produzione di ghisa d’altoforno (Piombino, Bagnoli, Portoferraio) come materia prima per la realizzazione dell’acciaio, fronteggiò con crescente difficoltà, mentre da una situazione del genere trassero vantaggio sia una serie di acciaierie dell’area padana (prima fra tutte la Falck), basate sui rottami di ferro come materia prima, sia grandi aziende meccaniche come FIAT e Breda, divenute autoproduttrici di acciaio. All’origine del loro successo, in aggiunta a una più stretta aderenza alle nuove caratteristiche del mercato, vi fu la larga disponibilità di rottami determinata dalla doppia congiuntura bellica e della riconversione, con la conseguente forte caduta del prezzo di questa materia prima che per tutto il periodo tra le due guerre si mantenne sensibilmente inferiore a quello della ghisa. Per fronteggiare questa situazione all’Ilva non rimase che la strada incentrata sulla stipula di patti consortili per la spartizione delle quote di mercato, un percorso fortemente incoraggiato dal regime fascista, lasciato in un primo momento alla contrattazione tra le imprese interessate, ma destinato a divenire obbligatorio nel corso degli anni Trenta (Carparelli, 1982, pp. 42-68).
L’ingresso della Magona nella politica consortile fu preceduto da un’intesa con la Terni per la vendita in comune delle lamiere sottili, accordo che non ebbe carattere episodico, ma, al contrario, segnò l’avvio di una politica solidaristica tra le due aziende, favorita dalla presenza di Trigona e di Bocciardo in entrambi i consigli di amministrazione. Alla nascita di un vero e proprio consorzio tra i produttori di banda stagnata si arrivò nel marzo del 1928. La Magona trovò modo comunque di compensare le ristrettezze della politica consortile con l’avvio dell’esportazione sia in Europa (Austria, Spagna e Portogallo) sia verso i mercati del Medio e dell’Estremo Oriente e dell’America Latina (Argentina).
La combinazione di più fattori (economici, politici e giuridici) nella gestione dell’impresa si tradusse in ottimi risultati economici che consentirono alla Magona di ampliare nella realtà piombinese quegli interventi di natura sociale e assistenziale (abitazioni per i dipendenti, salari mediamente più elevati, tutela antinfortunistica prima ancora che la legge lo prevedesse) che l’avevano caratterizzata praticamente fin dalla fase di avvio. Nel 1933, per ricordare Spranger, il suo fondatore appena scomparso, l’azienda decise la costruzione di un asilo destinato ai figli del proprio personale, ma fu soprattutto con il pieno coinvolgimento dell’impresa nel progetto dell’Opera nazionale dopolavoro che la politica sociale si ampliò ulteriormente. Nel 1937, momento culminante di un complesso di iniziative incentrate soprattutto in ambito sportivo e ricreativo, l’azienda decise di contribuire al rilancio del calcio cittadino mediante la costruzione di uno stadio.
In una città-fabbrica come Piombino, peraltro non isolata nel contesto toscano dove altre imprese ebbero comportamenti analoghi – Solvay a Rosignano, Monte Amiata ad Abbadia San Salvatore, Società metallurgica italiana a Campo Tizzoro (Lungonelli, 2002, pp. 189 ss.) – queste provvidenze, come è stato opportunamente ricordato, sopperirono alla mancanza di politiche pubbliche in materia di welfare, sostenendo «un settore bisognoso della popolazione [contribuendo a] redistribuire verso il basso i vantaggi di una società consumistica di massa» (De Grazia, 1981, p. X).
Numerose furono le onorificenze e i riconoscimenti che Trigona ricevette nel corso della sua vita: cavaliere (1919), grande ufficiale (1922) e commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia (1932); il 19 aprile 1934 fu nominato cavaliere del lavoro.
Alla fine della guerra lasciò tutti gli incarichi nelle imprese che, a vario titolo, lo avevano visto presente nei loro consigli di amministrazione. Nel luglio del 1948 una sentenza della Corte di cassazione confermò la sua decadenza dalla carica di senatore.
Morì a Firenze il 1° gennaio 1953 senza lasciare eredi diretti.


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