“ L’ITINERARIUM ROSALIE” - UN VIAGGIO SUI LUOGHI DI SANTA ROSALIA
Indice
1.
“L’Itinerarium
Rosalie”; Le Mappe e l'esperienza di alcuni Pellegrini che hanno percorso la Via sacra si trovano nel blog:https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2019/10/itinerarium-rosalie-le-mappe.html;
2. I Normanni a Santo Stefano Quisquina;
2. I Normanni a Santo Stefano Quisquina;
3.
La
Vita di Santa Rosalia a Palermo – Leggenda – Rifiutò il matrimonio – Monaca nel
Monastero Basiliano del SS. Salvatore;
4.
Santa
Rosalia a Palazzo Adriano – Il Monte
delle Rose – Il canto degli Arbereshe;
5.
Santa
Rosalia a Santo Stefano Quisquina - Il Monastero di Santo Stefano di Melia;
6.
Palermo,
La Casa Natale di Santa Rosalia – L’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria –
La Chiesa di Sant’Ignazio;
7.
La
Peste a Palermonel 1624 – Le apparizioni di Santa Rosalia - Il ritrovamento delle sue spoglie sul Monte
Pellegrino e di un epigrafe a Santo Stefano Quisquina – Santa Rosalia patrona
della città al posto delle sante: Agata, Oliva, Ninfa e Cristina – I “Quattro Canti” – L’apparizione a Vincenzo
Bonelli – La Casa di V. Bonelli in Via Panneria;
8.
La
Terra di Santa Rosalia;
9.
Il
Ritrovamento del “Diple”;
10. L’Eremo di Santa
Rosalia a Santo Stefano Quisquina;
11. Il Santuario dell’Eremo
– La Statua di Santa Rosalia realizzata con un blocco di marmo ibrido;
12. La Grotta di Santo
Stefano Quisquina;
13. Santa Rosalia sul
Monte Pellegrino – L’edicola della dea “Tanit”;
14. Il Santuario sul
Monte Pellegrino – Il Crocifisso della Santa con un particolare;
15. La grotta di Santa
Rosalia sul Monte Pellegrino - La breve descrizione di alcuni archeologi e di
W. Goethe – Il Gorgo – Il Rosario di Santa Rosalia;
16. Il Naufragio dei
Ruteni - Alcune navi raffigurate
nei graffiti della Grotta Niscemi furono
opera dei Ruteni ?
17. Wolfang Goethe nel
1787 rimase affascinato dalla bellezza del luogo e della Santa;
18. Le strade per il
Santuario – Le “Acchianate”
19. Gli Ex-voto – La Storia
dell’Ancora;
20. Il Tesoro di Santa
Rosalia;
21. Palermo: La Chiesa
e il Monastero di S. Rosalia allo Stazzone – Il Quartiere dello Stazzone – La Chiesa
e il Monastero furono demoliti per la costruzione delle via Roma – L’affresco
di “San Benedetto in gloria” ritrovato…. Se ne erano perse le tracce;
22. I Documenti sulle
Spoglie di Santa Rosalia;
23. Il Santuario della
Madonna di Tagliavia (Maria SS. del Rosario di Tagliavia – 5 Pietre) – Il prezioso
dipinto su ardesia;
24. I terreni del
Monastero di Tagliavia erano un feudo della mafia. Oggi appartengono alla “Missione
Speranza e Carità” di Biagio Conte.. un importante affidamento per i suoi
risvolti sociali verso i più deboli – La prima Fattoria Solidale in Sicilia –
La Festa del Grano;
25. Monastero di Tagliavia - Nel 1940 un frate uccise due confrati – I drammatici risvolti delle indagini;
26. Una grande opera.. Il Quadro della “ PROCESSIONE DI SANTA ROSALIA DEL 1624” - Opera di un ignoto Artista Siciliano – Si trova a Siviglia .. proprietà dei Duchi d’Alba.
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1.
“L’Itinerarium
Rosalie”;
La Regione Sicilia ha creato “L’Itinerarium Rosalie” che
collega l’Eremo di Santo Stefano di Quisquina con il Santuario di Monte
Pellegrino.
Un affascinante cammino nell’entroterra siciliano fra le
province di Agrigento e di Palermo e
percorribile a piedi, in bici e a cavallo.
Un itinerario lontano dalle grande vie di comunicazione che
si snoda su una rete di sentieri, regie trazzere, mulattiere e strade sferrate
dismesse e lungo circa 185 km.
Si attraversano il Parco dei Monti Sicani, riserve a aree
naturali di 14 comuni con i loro vari paesaggi,
culture, tradizioni, arte e sapori tipici dei vari luoghi.
Il Percorso, costituito da una serie di mappe, e l'esperienza di alcuni Pellegrini che hanno percorso la Via sacra, sono riportati nel blog:
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2. I Normanni a Santo Stefano di Quisquina
Con i Normanni la Sicilia fu liberata dagli arabi che
avevano dominato sull’isola dall’827 al 1072.
I normanni furono artefici di un rinnovamento sociale e
cristiano-cattolico favorendo la diffusione di monasteri Basiliani nella
Sicilia orientale e Benedettini in quella occidentale, apprezzando inoltre
l’opera religiosa e monastica del certosino S. Brunone e del cistercense S.
Bernardo di Chiaravalle.
Il centro di Quisquina nel periodo normanno aveva un suo
feudatario appartenente alla famiglia Sinibaldi, proprietaria da tempo, ancora
prima dell’arrivo degli stessi Normanni, del Monte delle Rose (tra Bivona,
Prizzi e Palazzo Adriano) e dei Monti di Quisquina.
Il Duca Sinibaldo dei Sinibaldi, feudatario e signore di
Quisquina e delle Rose, e la moglie Maria Guiscarda, cugina del re Ruggero II
da parte del padre Ruggero I (fratello di Roberto il Guiscardo), ebbero nel
1128/30 una figlia a cui diedero il nome di Rosalia.
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3. LA VITA DI SANTA
ROSALIA
La casa paterna di Palermo – La
Leggenda – Rifiutò il matrimonio –
Monaca Nel
Monastero Basiliano del SS Salvatore.
La vita di Santa Rosalia è un continuo intrecciarsi di
storia e leggenda arricchite dalla fede. Apparteneva ad una nobile famiglia e
la sua breve esperienza di vita fu contraddistinta da momenti vissuti in
palazzi principeschi e in piccole grotte, spesso introvabili, sperdute tra i
monti. Alla fine si dedicò alla fede
rinunciando ai lussi, alle agiatezze. Le
prove certe sono la grotta di Santo Stefano di Quisquina dove trascorse dodici
anni e un’altra cavità in cui morì
all’età di 32/37 anni sul Monte Pellegrino (Palermo) .
Rosalia nacque a Palermo nel 1128, figlia del Conte (Ruggero
? o Sinibaldo), appartenente alla nobile famiglia toscana dei Sinibaldi,
discendente da Carlo Magno e dai Conti Marsi, e di Maria Guiscarda, discendente
da Roberto il Guiscardo, fratello di Ruggero I (Il Gran Conte). Maria Guiscarda
era quindi cugina di Ruggero II, figlio di Ruggero I, e quindi imparentata
anche con il successivo re Guglielmo I “Il Malo”.
Santa Rosalia
(Luca Giordano –
Napoli1634; Napoli, 1705)
Olio su tela; (81 x
64) cm; data: verso il 1697
Museo Del Prado –
Madrid
Stemma Famiglia
Sinibaldi (?)
Una tradizione narra che mentre il re Guglielmo I osservava
il tramonto con la moglie Margherita, gli apparve una figura che esclamò: “Guglielmo, io ti annuncio che, per volere
di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo tuo congiunto, una rosa senza spine”
(sembra che per questo motivo gli venne assegnato il nome di Rosalia).
In realtà si tratta solo di una leggenda dato che manca un
riscontro storico. Margherita di Navarra nacque nel 1128, lo stesso anno di
Santa Rosalia, e Guglielmo, figlio di Ruggero II, all’epoca aveva solo 8 anni.
Le nozze tra Guglielmo I e Margherita di Navarra furono celebrate probabilmente
tra il 1149, quando lo stesso Guglielmo fu investito del titolo di Dica di
Puglia, e il 1151 in cui divenne coreggente. All’epoca del loro matrimonio
Rosalia aveva 21/23 anni.
Una tradizione orale che dovrebbe essere rivista: “ mentre osserva il tramonto dal Palazzo
Reale con sua moglie, la contessa Elvira, una figura apparve al signore
normanno di Sicilia Ruggero d’Altavilla dicendogli: Ruggero, io ti annuncio
che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo , tuo congiunto, una
rosa senza spine”.
(Re Ruggero II era stato incoronato da appena due anni)
Rosalia in realtà, da un etimologia latina, sarebbe composto
da due termini “rosa e lilium” cioè
“rosa e giglio”.
Santa Rosalia
Opera di Anthony van
Dyck (1599 – 1641)
Olio su tela – (106 x 81 ) cm
Data: 1625 circa – Museo del Padro (Madrid)
Nel 1624 Van Dyck si trasferì in Sicilia su invito del
vicerè Cardinale
Giannettino Doria, arcivescovo di Palermo.
Nel mese di luglio 1624 furono trovate le spoglie di
Santa Rosalia e Van Dyck ricevette
l’incarico di realizzare l’immagine della Santa.
La Santa si distingue per la sua bellezza, alza lo
sguardo al cielo e presenta la mano destra sul petto
mentre la sinistra è poggiata su un teschio, simbolo
della delusione del bello.
Un cherubino, nell’angolo in alto a sinistra, porge
una corona di rose sul capo della Santa
alludendo al nome Rosalia e alla sua virtù.
Il quadro è una composizione tipicamente barocca e si
sviluppa con una diagonale che va
da destra a sinistra mentre la verticalità
viene sottolineata dallo sguardo della stessa Santa
rivolto verso l’alto.
L’illuminazione proviene da sinistra e si concentra
sul volto di Rosalia e sulla mano,
lasciando il resto della composizione in penombra.
Il padre pianificò per la figlia un futuro degno delle sue nobili origini.
Visse da giovane nell’agiatezza presso la corte del re
Ruggero II e anche presso la villa paterna che doveva trovarsi nei pressi
dell’Olivella (dove oggi sorge l’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria).
Una ragazza educata e bella che nel 1149 divenne damigella
d’onore della regina Sibilla, seconda moglie di Ruggero II anche se un’altra
tradizione cita come nel 1150 divenne anche damigella di Margherita di Navarra,
moglie di Guglielmo I “Il Malo”.
Un giorno il Conte o principe Baldovino, erroneamente
identificato con il conte Baldovino III di Gerusalemme, salvò in un battuta di
caccia il re Ruggero II dall’attacco di un animale selvatico, secondo la
tradizione un “leone”. Il re decise di
premiare il grande coraggio del conte con un dono. Pronta fu la risposta
di Baldovino: “la mano di Rosalia”.
Il giorno precedente le nozze, mentre Rosalia si specchiava,
vide riflessa nello specchio l’immagine di Gesù Cristo. Il giorno successivo si
presentò a corte per lo sposalizio ma con le bellissime trecce bionde, che
impreziosivano il suo volto, tagliate. Rifiutò l’offerta di matrimonio
decidendo di abbracciare la fede che da
tempo l’accompagnava.
Aveva quindici anni e decise di abbandonare il Palazzo
Reale, il ruolo di damigella e la casa paterna per rifugiarsi presso il
monastero basiliano del SS. Salvatore di Palermo.
Chiesa del SS. Salvatore
La chiesa con annesso convento sembra che siano stati
fondati da Roberto il Guiscardo nel 1072.
La tradizione cita che la regina Costanza d’Altavilla
e Santa Rosalia furono monache nel convento basiliano.
Costanza d’Altavilla era figlia del Re Ruggero II e
successivamente venne ritirata dal convento per
diventare la moglie di Enrico IV e madre del futuro
Imperatore Federico II di Svevia.
Anche Santa Rosalia indossò l’abito basiliano per poi
abbandonare il convento e ritirarsi in solitudine
in un altro luogo.
Nel 1699 durante il rifacimento della chiesa ad opera
di Paolo Amato, venne rinvenuta una
piccola scatola con una croce e una pergamena in cui
era vergata in lingua greca
la seguente iscrizione:
“Ego
soror Rosolia Sinibalda pono hoc lignum Domini mei in hoc
monasterio,
quod semper secuta sum”.
(“Io Suor
Rosalia Sinibalda pongo questo Crocifisso in questo Monastero,
(Crocifisso) che mi ha sempre seguito “
Una lapide bilingue ricorda il rinvenimento della
preziosa pergamena e quindi
l’appartenenza di Rosalia all’ordine religioso
basiliano.
L’antica chiesa normanna nel 1528 fu totalmente
riedificata in proporzioni
più vaste e nel 1682 un ulteriore ampliamento, voluto
dalle suore, su progetto dell’architetto
Paolo Amato, gesuita ed architetto del Senato
palermitano.
Uno stupendo edificio a pianta ellittica inserito in
una struttura dodecagonale, un unicum
nel suo genere. Internamente consta di due cappelle,
un cupolino presbiteriale ed
esternamente presenta una loggetta, delle nicchie
sulla facciata e una maestosa cupola
con un camminamento che domina l’intera città
L’interno è decorato con stucchi, affreschi di Vito
D’Anna, risalenti al 1762, tra cui quello
della volta raffigurante “L’apoteosi di San Basilio”.
L’antico Monastero venne colpito dai bombardamenti
aerei del 1943.
Rimase solo una
parte del chiostro che è inglobato in un complesso scolastico.
Anche la chiesa subì dei danni perché si salvarono
solo gli affreschi del vestibolo e, in parte,
quelli della volta.
Nel 1959 la chiesa, su progetto dell’architetto Franco
Minissi, fu riattata ad auditorium
Fu eseguita una radicale trasformazione. Per risolvere
il problema dell’eco, si postò
l’asse prospettico della chiesa dal verso
longitudinale a quello trasversale.
Il problema della coda sonora fu così superato e nello
stesso tempo si
riuscì a ridurre la distanza tra il pubblico e
l’orchestra, creando un una
maggiore partecipazione e ascolto da parte dello
stesso pubblico.
un antica foto
Il Monastero del SS. Salvatore non rispondeva pienamente
alla sua fede a causa delle continue visite dei suoi genitori e anche del
promesso sposo che non si era arreso alla perdita della futura moglie e cercava
di convincerla a recedere dai suoi propositi.
Rosalia decise di scrivere una lettera in greco, accompagnata da una
croce di legno, e li consegnò alle
suore. Lasciò il convento e la tradizione cita che si sia rifugiata nei
bellissimi e fitti boschi di Palazzo Adriano per poi trasferirsi in una grotta
nel territorio di Santo Stefano Quisquina.
4. Santa Rosalia a
Palazzo Adriano – Monte delle Rose – Il
canto degli Abereshe;
Palazzo Adriano è un centro di circa 1980 abitanti
posto nel cuore della Sicania in provincia di Palermo.
È una colonia di origine albanese (arbèreshe) del XV
secolo e il nome in arberesh è “Pallaci”.
Appartiene all’Eparchia di Piana degli Albanese e
buona parte della sua popolazione conserva
il rito bizantino degli antichi esuli albanesi che la
fondarono.
Ai tempi di Santa Rosalia era
presente un piccolo Casale “Arianum”.di
questo casale si hanno notizie sin dal 1060 quando Gerlando (primo Vescovo di
Agrigento, sotto il regno del Gran Conte Ruggero il Normanno, fondò le prime 14
prebende canonicali della mensa arcivescovile di Agigento.
Tra le decime dovute dai
casali e dai borghi sono riportati Prizzi e il casale “Aranum”.
In un documento del 1160
viene ancora riportato il casale…”sibut
dividitur aqua inter Adranum et Peritium”..”Come si divide l’acqua tra Adrano e
Prizzi”.
Nel suo cammino verso Santo Stefano di Quisquina, una volta
giunta a Palazzo Adriano si narra che si sia fermata nel piccolo centro.
Da “Arianum” Santa Rosalia, secondo la leggenda, si sarebbe
recata nel Bosco delle Rose che conosceva benissimo.
Il padre della Santa, il nobile Sinibaldo, era infatti
proprietario e signore del Monte delle Rose e della Quisquina.
(L’”Itinerarium Rosalie” riporta invece come Santa Rosalia
da Palazzo Adriano si sia postata a
Prizzi per poi proseguire per Castronovo
di Sicilia e per S. Stefano Quisquina).
Monte delle Rose
Monte Rose o Monte delle Rose (“Muntagna di Rosi”, in
lingua siciliana) si trova tra i comuni di
Bivona e di Palazzo Adriano (al confine fra le
province di Agrigento e Palermo).
(in arberesche era chiamato “Mali i trendafilet”).
In un documento del 1171 viene riportato il nome che
gli Arabi imposero al monte:
“.. fino al monte delle Rose, in arabo chiamato Geneleungrad”.
La terminologia del
monte è legata alla presenza delle rose, peonie, che fioriscono a febbraio.
Piante senza
spine, con fiori di vari
colori,
che crescono sulla
montagna e secondo la tradizione legate al
passaggio di Santa
Rosalia.
In merito alla
terminologia araba, il termine “Geneleungrad (jebel el ghurab)”
significa “Monte del
Corvo”.
È una delle cime più
alte dei Monti Sicani (1436 m), si trova al confine
della Riserva
Naturale del Sosio in una zona incontaminata, poco antropizzata
e quindi di grande
suggestione.
Il monte ha anche una
sua storia perché fu citato da Aristotele e da Plinio il Vecchio, che
si occupava di
cosmologia e di rimedi naturali contro le malattie, per la presenza
di numerose piante
spontanee e medicamentose (origano, ruta, issopo, aneto, melissa,
timo, ecc.). La fauna
è composta da uccelli migratori come i falchi pellegrini e da istrici,
A “Piano della Fiera”, non molto distante da Monte
delle Rose, ricadente nel territorio di Bivona,
si trova una Croce in legno dove
gli arbereshe di Palazzo Adriano, ogni primo d’agosto,
si recano per esprimere il canto dei
loro avi..”O e
bukurà Morè” (“O bella Morea”), rivolto all’Albania loro terra natia.
In vicinanza della cima di Monte delle Rose, fu posta
una stazione ripetitrice che è
chiamata impropriamente, per la sua caratteristica
forma a palla, “palla metereologica”.
Monte delle Rose, ma penso tutta la zona che giunge
fino a Palazzo Adriano e non solo,
ha una sua importanza archeologica per la presenza di
antiche testimonianze (necropoli, villaggi).
“Dicono
esservi nel Cartaginese un monte detto Gonio, pieno di ogni sorta di materiali
di cose, principalmente di varie specie di fiori, del cui odore partecipano in
lungo tratto i luoghi vicini e gratissima ad aspirarsi rendono l’aria”
(Aristotele, De admirandis naturae)
La frase di Aristotele fu riportata nell’interno di un
trattato, risalente alla seconda metà
del XIX secolo di Luigi Tirrito e si riferisce al
Monte Rose.
Il monte era anticamente chiamato Jonio e poi Gonio.
Con una grande e meticolosa ricerca, lo storico Cesare
Sermenghi, arrivò alla conclusione
che il monte assunse il nome dalla popolazione greca
che lo colonizzò..
Una sede quindi colonizzata dai Greci ed infatti fu
rinvenuta nella parte più alta del monte una necropoli.
Il rinvenimento in un “piano di modeste proporzioni”
dove le sporadiche e rare ricerche
hanno portato alla luce delle ceramiche e altro
materiale fittile. Reperti che testimoniano
l’esistenza di un piccolo villaggio, di “eccezionale
suggestione” per la sua
singolare posizione topografica. Un villaggio sito a
circa 1000 metri d’altezza che
delineò l’incontro tra una civiltà arcaica di
pastori e quella dei greci, in un
periodo vicino all’VIII secolo a.C.
I boschi di Palazzo
Adriano
La valle del fiume
Sosio - Riserva Naturale
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Da Monte delle Rose si sarebbe recata a Santo Stefano di
Quisquina per ritirarsi in eremitaggio nella Grotta (dove fu successivamente
costruito l’Eremo).
Montagna Delle Rose –
Eremo di Santa Rosalia: 18,2 Km – 4 h,28 m
5 5. Santa Rosalia a Santo Stefano Quisquina – Il Monastero
di S. Stefano di Melia
Sul Monte Quisquina, proprietà del padre, c’era una grotta
che Rosalia conosceva da bambina e qui visse per ben 12 anni. La grotta era meta di pellegrinaggi e
Rosalia decise di abbandonarla per
tornare a Palermo ed andare a vivere in una grotta sul Monte Pellegrino. La
regina Margherita di Navarra, moglie di Guglielmo I “Il Malo”, fu colpita dalla
fede della fanciulla e le consentì di ritirarsi nella spelonca del Monte. Anche
qui ben presto diventò per lei difficile sfuggire alla curiosità e
all’invadenza dei pellegrini che vi si
recavano per farle visita. Sembra che fu un gruppo di pellegrini che il 4
settembre 1165 la trovò priva di vita, colpita nel corpo dalle penitenze e
dalla dura vita che aveva scelto per fede di seguire.
Grotta di Santa
Rosalia (Santo Stefano Quisquina) – Ingresso
Grotta di Santa
Rosalia (Santo Stefano Quisquina)
Grotta di Santa Rosalia – Santo Stefano di Quisquina
Una vita in solitudine ?
È un periodo in cui l’eretismo non era una scelta di vita
rara. Si rinunciava agli agi ed alle
ricchezze per cercare nella solitudine e nella preghiera la parola di Dio.
Molti eremiti si isolavano in grotte che comunque erano per la maggior parte
dei casi vicine ad una chiesa o ad un convento. Una scelta per avere un minimo
d’assistenza e anche per seguire le funzioni liturgiche.
In quel periodo era presente vicino alla grotta della
Quisquina un antico convento di monaci basiliani, il monastero di Santo Stefano
di Melia.
Monastero di Santo
Stefano di Melia
Eremo di Santa
Rosalia – Monastero Basiliano di Melia :
6,4 km – 1 h 22m
Monastero basiliano di Melia – Lago Fanaco : 2,6 km - 30 m
Monastero Santo
Stefano di Melia
Monastero Bizantino Santo Stefano di Melia
A metà strada tra Castronovo di Sicilia e Santo Stefano
Quisquina sorge l’antico Monastero di Santo Stefano di Melia. Un monastero
probabilmente di rito bizantino. Si tratta di un antico casale posto ai piedi del
Monte Stagnataro, e il nome richiama a
termini come Melin, Mell, Melita”,
abbreviazione di “Monotheus” cioè “Un Solo Dio”.
Dall’Epistola XXX di papa San Gregorio Magno si hanno delle
notizie in merito ad otto monasteri, fondati dallo stesso papa, lungo la strada
che collegava Palermo ad Agrigento. Tra questo monasteri era citato il
Monastero di Santo Stefano di Melia.
Un monastero forse inizialmente d’ordine benedettino?
Con la bolla del 13 dicembre 1188, papa Clemente diede alla
Chiesa di Santo Stefano il carattere di parrocchia per la presenza nel
territorio di un numero consistente di abitanti. Alla scuola dei cenobi di
Santo Stefano furono avviati alle pratiche religiose San Vitale, Patrono di
Castronovo e suo nipote Elia.
Il casale restò in vita fino al 1347 e successivamente venne
utilizzato come masseria. Nell’atrio è ancora presente l’antica fontana del
monastero. La struttura monastica sembra che sia crollata intorno al 1492 e del
suo ricco patrimonio artistico è rimasto un Crocifisso dipinto su tavola,
risalente al 1300, che fu trasferito nella chiesa Madre di San Vitale.
Bosco di Refalzali e
Lago Fanaco
Bosco di Refalzali e
Lago Fanaco
È un bacino
artificiale che ricade nel territorio di Castronovo di Sicilia.
Fu realizzato tra il
1951 ed il 1953 grazie allo sbarramento del fiume Platani.
È posto a sud di
un’ampia vallata, al centro di una grande concavità naturale posta
tra due catene
montuose che si fronteggiano parallelamente.
Il lago è lungo circa
3,5 km e largo1 km (nel suo punto di maggiore ampiezza) , con una
profondità massima di
circa 50 m ed una capacità d’invaso massima di 20,7 milioni di mc.
La diga raccoglie le
acque delle montagne Serra Leone, Pizzo Stagnataro , Gemini e
Pizzo Lungo e la sua
realizzazione ha modificato il clima nella valle rendendolo meno torrido.
Sul lago si possono
ammirare numerose specie migratorie mentre la vegetazione,
che sovrasta il lago,
è costituita da lecci, pioppi, frassini, ecc.
L’invaso è utilizzato
anche per la pesca sportiva per la presenza di trote, anguille, carpe e
numerose specie di Persico. Acque del lago che sono rese potabili con
l’immissione
nell’omonimo impianto
ed immesse nell’acquedotto regionale.
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6. Palermo - La Casa
Natale di Santa Rosalia
Oratorio
di Santa Caterina d’Alessandria – La Chiesa di Sant’Ignazio
La casa patrizia del principe Sinibaldo, padre di Rosalia,
si trovava nel quartiere dell’Olivella, all’angolo tra Piazza Olivella e la Via
Monteleone (via che dalla piazza conduce in Via Roma). Una vasto fabbricato
principesco con ampio giardino e nella parte nord della proprietà, prospiciente
sull’odierna Piazza Olivella, fu realizzata nel 1415 una chiesa dedicata a
Santa Rosalia. Chiesa che fu concessa dal cardinale Ubertino de Marinis alla
Confraternita di Santa Caterina.
Negli ultimi decenni del XVI secolo la Confraternita di
Santa Caterina creò un oratorio mantenendo l’antica chiesa di Santa Rosalia.
Fino al 1620 era documentata la chiesa e il pozzo di Santa
Rosalia cioè di casa Sinibaldi o Sinibaldo. Secondo l’alcamese Pietro Antonio
Tornamira, frate dell’Ordine benedettino, e il canonico Antonino Ignazio
Mancuso, il Senato palermitano immediatamente dopo la morte di Santa Rosalia,
in virtù dei miracoli compiuti, in ricordo della sua nascita e della sua casa,
fece erigere una chiesa in suo onore databile intorno al 1160. Chiesa che
risulta documentata in atti testamentari del 18 aprile 1257.
Nel
1622 tutto venne sconvolto. Sul sito della vecchia di Santa Rosalia e del nuovo
oratorio di Santa Caterina d’Alessandria fu costruita la chiesa di S. Ignazio
della Congregazione di S. Filippo Neri.
I Padri Filippini, per compensare i confratelli di Santa Caterina della perdita
sia della chiesa che dell’oratorio, s’impegnarono a costruire nella nuova
chiesa una cappella dedicata a Santa Rosalia e a ricostruire l’oratorio in un
altro sito. L’oratorio fu costruito, tra il XVII ed il XVIII secolo, all’inizio
della Via Monteleone, quindi non molto distante dalla nuova chiesa di
Sant’Ignazio (circa 40 m) e sempre sul terreno che era appartenuto ai genitori
di Santa Rosalia.
Infatti
nel cortile dell’oratorio, come già accennato, si trova il pozzo (interrato)
dell’antica casa dei Sinibaldi.
Purtroppo degli antichi edifici, chiesa e casa paterna di
Santa Rosalia rimane il pozzo che è
interrato nel pavimento del cortile del seicentesco Oratorio di Santa Caterina.
Dal 1946 l’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria è la sede dell’Ordine dei Cavalieri
Gerosolimitani del Santo Sepolcro.
Palermo – Oratorio di
Santa Caterina
Oratorio di Caterina
d’Alessandria
Chiesa di
Sant’Ignazio costruita dove sorgeva la Chiesa di Santa Rosalia
La costruzione della chiesa di Sant’Ignazio risale al 1622
su progetto di Antonio Muttone e nel
1711 venne consacrata con una cerimonia presieduta da Bartolomeo Castelli,
vescovo di Mazara del Vallo, con dedicazione da parte dei padri Oratoriani a
Sant’Ignazio Martire.
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7. LA PESTE A
PALERMO NEL 1624
Le Apparizioni della Santa – Il
ritrovamento delle spoglie di Santa Rosalia –
Nella Grotta di S.S. Quisquina fu scoperta
un’Epigrafe.
l Il 7 maggio 1624 giunse al porto di Palermo un vascello che
proveniva da Trapani dove non aveva avuto il permesso per l’attracco. Il porto
d’origine del vascello era quello di Tunisi.
I Il Senato palermitano, anche per le vicende vissute dal
naviglio a Trapani, sospettò che a bordo fosse presente “il morbo” della peste
e non diede il consenso allo sbarco. Il segretario del vicerè Emanuele
Filiberto di Savoia, Antonio Navarro, diede ordine categorico di procedere allo
sbarco. Perché un ordine così perentorio e senza alcuna precauzione ?
La risposta è semplice.
Il galeone tunisino era comandato dal moro Maometto Cavalà e
le sue stive era stracolme di oggetti preziosi, doni e ricche mercanzie che il re di Tunisi aveva
mandato in dono al Vicerè.
Scesero naturalmente anche i marinai e ben presto il
contagio si diffuse rapidamente .. in modo così repentino che i cittadini non
si resero nemmeno conto di quello che stava succedendo.
La scienza aveva i suoi limiti.. si fece il possibile per
ostacolare la diffusione dell’epidemia tanto che un celebre medico del tempo,
Marco Antonio Alajmo, pubblicò un trattato dal titolo ““Discorso intorno alla preservazione del morbo contagioso e mortale,
che regna alla presente in Palermo e in altre città e terre del regno di Sicilia”.
I Bandi, le ordinanze… non servirono a nulla… il 26 giugno
1624 la città di Palermo venne ufficialmente dichiarata infetta dalla peste.
Una città colpita durante… ridotta allo stremo con migliaia
di decessi. La disperazione e la fantasia popolare scatenarono disordini legate
a false considerazioni come quella di “pacchetti
contenenti materiale infetto disseminati per le strade da fantomatici
personaggi.. novelli untori… per spargere l’epidemia”.
Lo stesso Emanuele Filiberto di Savoia fu colpito dal morbo
e morì.
I cittadini, le autorità si rivolsero ai Santi con le
preghiere per debellare l’epidemia.
Il Senato palermitano aveva costruito una cappella nella
grotta in cui morì Santa Rosalia sul Monte Pellegrino circa vent’anni dopo la
sua morte. Un monte che era conosciuto per la sua forte vocazione sacrale e
mistica fin dall’antichità. Davanti al santuario, costruito successivamente,
furono trovati degli altari punici e una chiesetta bizantina dedicata alla
Madonna. Durante l’epidemia del 1574 lo stesso Senato decise di restaurare la
chiesetta edificata nel 1180 e che risultava diroccata a dimostrazione che il
culto verso la Santa si era nel tempo sopito.
All’inizio del 1600 probabilmente il culto era talmente
scaduto che la Santa non veniva più invocata nelle litanie dei santi patroni
della città anche se non si può escludere l’ipotesi di un culto ancora vivo sia
pure in tono minore dal 1160 per ben quattro secoli e mezzo.
Santa Rosalia intervenne in aiuto del popolo palermitano apparendo in
sogno ad una donna, Girolama (Geronima) Gatto, detta la “Gattuta”.
Nell’ottobre 1623, la donna si trovava ricoverata
all’Ospedale Grande di Palermo colpita da una grave febbre maligna. Si rivolse
ad una suora infermiera che “attirava i
lampi dietro di sé” e le chiese da bere. La suora avvicinò la mano alla
bocca della donna che “se la sente piena
d’acqua” e le disse “sei guarita e devi fare voto sul Monte
Pellegrino”. Geronima capì in quel momento di aver parlato a Santa Rosalia.
La donna guarì ma non si recò sul Monte Pellegrino. Alcuni giorni dopo fu
nuovamente colpita dalla febbre (febbre quartana) ed in una maniera ancora più
grave. La malattia le durò circa un anno.
Il 26 maggio 1624, la città era colpita dalla peste e la
donna seguì l’invito di una cugina a recarsi sul Monte Pallegrino.. Decisero
quindi si salire sul Monte per sciogliere il voto. Si dissetò con l’acqua che gocciolava dalle pareti della
grotta, si sentì bene e s’addormentò. In sogno le appare la Vergine Maria
vestita d’azzurro con il bambino Gesù in braccio, una collana di coralli al
collo, e le disse “sei guarita perché hai
adempiuto al voto”. Poi la Madonna l’invitò a scavare all’interno della
grotta, dove avrebbe trovato un tesoro; una Santa. Geronima vide apparire in
sogno una giovane in preghiera che le indicò anche il punto dove scavare “dove
era lei e che avrebbe trovato le ossa di Santa Rosalia”. La giovane le
disse anche che ci “sarà un segno a forma
di V in alto sulla roccia”.
Geronima si risvegliò e
si recò al convento di Santa Maria
di Gesù dei frati eremiti francescani.
Riferì il suo sogno ai frati che nel Cinquecento con il loro
superiore, S. Benedetto il Moro (1526 – 1589) avevano tentato invano di trovare
le reliquie di Santa Rosalia.
(Convento di Santa
Maria di Gesù )
I francescani ascoltarono il sogno di Geromina e decisero di
darle ascolto. Aiutati da tre fedeli scavarono nel punto loro indicato dalla
donna e il 15 luglio 1624, a ben quattro metri di profondità, trovarono un
masso “lungo sei palmi e largo tre”,
a cui aderivano delle ossa.
L’arcivescovo di Palermo era Giannettino Doria che subito
diede ordine di portare il masso in città nella sua cappella privata. Il masso e i resti furono esaminati da
teologi e medici e il risultato delle analisi fu alquanto deludente…”i resti appartenevano a più corpi e nessuno
dei tre teschi trovati, sembrava appartenere ad una donna”.
I Il cardinale, non convinto delle risultanze delle analisi,
nominò una seconda commissione.
Lo stesso cardinale radunò nelle chiese i fedeli per chiedere
aiuto alla Madonna.. erano dei momenti
di forte contrasti nella Chiesa di Roma.. e il cardinale fece voto di difendere
il privilegio dell’Immacolata Concezione di Maria che era un argomento molto
dibattuto e contrastante nella chiesa di quel tempo e dichiarò Santa Rosalia
Patrona principale della città di Palermo “venerando
le sue reliquie quando si sarebbero riconosciute”.
Il 27 luglio 1624 Santa Rosalia fu eletta patrona della
città al posto delle Sante: Agata,
Cristina, Ninfa ed Oliva.
Palermo – I “Quattro Canti” o “Piazza Villena” oppure “Ottagono del Sole”/”Teatro del Sole”
È una piazza ottagonale posta all’incrocio di due assi
viari principali: la via Maqueda e Via F. Emanuele (ex “il Cassaro”). Il nome
della piazza fa riferimento al Vicerè don Juan Fernadez Pacheco de Villena y
Ascalon.
È generalmente ricordata come “Ottagono o Teatro del
Sole” perché durante le ore del giorno
almeno uno
dei “canti” è colpito dai raggi del sole. Fu
realizzata tra il 1609 ed il 1620 e i
quattro prospetti
presentano una decorazione , quattro inserimenti
figurativi, che dal basso verso l’alto,
creano un virtuale
cammino dal mondo reale al cielo.
Ogni “canto” presenta al piano inferiore una fontana
che richiama i fiumi dell’antica città
(Papireto, Kemonia,
Oreto e Pannaria) con
sovrastante allegoria marmorea legata alle quattro
stagioni tramite la raffigurazione di una divinità;
segue un successivo ordine con le statue dei sovrani e
nell’ordine superiore le statue delle Sante
Patrone della città prima che Santa Rosalia venisse
dichiara Patrona di Palermo.
Ogni “canto” rappresenta un quartiere ed un mandamento
che si sviluppa posteriormente.
“Canto” Est
Quartiere : Kalsa – Mandamento: Tribunali
Stagione: Inverno (Eolo) – Sovrano: Filippo IV
Patrona: Sant’Agata
“Canto” Nord
Quartiere : La Loggia – Mandamento: Castellammare
Stagione: Autunno (Bacco) – Sovrano: Filippo III
Patrona: Sant’Oliva.
“Canto” Ovest
Quartiere : Seralcadio/Capo – Mandamento: Monte di
Pietà
Stagione: Estate (Cerere) – Sovrano: Filippo II
Patrona: Santa Ninfa.
“Canto” Sud
Quartiere : Albergheria – Mandamento: Palazzo Reale
Stagione: Primavera (Venere) – Sovrano: Carlo V
Patrona: Santa Cristina.
La devozione per queste sante, ripeto un tempo patrone
della città, si è affievolita nei tempi.
Oggi, come riportano alcuni studiosi, pochi cittadini
ne sono a conoscenza mentre in passato
la cittadinanza riponeva su di esse le speranze per
buoni raccolti e la
salvezza da pesti, carestie, ecc.
In ogni caso le raffigurazione delle sante si trovano
in molte chiese della città
e nella Cattedrale dove sono collocate nel posto
d’onore della balaustra.
Nel frattempo a circa 100 km di distanza, nel centro della
Sicilia a Santo Stefano Quisquina posta
nella provincia di Agrigento, due muratori palermitani che stavano lavorando
nel convento dei Domenicani di S. Stefano, trovarono in una grotta sul Monte Quisquina, il 24
agosto 1624, un’iscrizione latina che era a tutti ignota. Si disse subito che l’iscrizione risaliva a
Santa Rosalia quando abitava la grotta.. “Io
Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose,
per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”.
In basso all’iscrizione c’era anche un numero, “12”, che
indicava gli anni trascorsi nella grotta.
Era la conferma della sua vita da eremita trascorsa per 12
anni in quella grotta e anche dell’aver vissuto, fino alla sua morte, nella
grotta del Monte Pellegrino dove, a conferma, erano state trovate le reliquie
anche se non ancora accertare dalle analisi.
In questo susseguirsi d’eventi si verificò un altro
prodigio. Un “saponaro” di Palermo,
Vincenzo Bonelli abitante nel quartiere della “Panneria”, che viveva anche
barattando mobili antichi”, perse la giovane moglie e forse anche la figlia,
colpite dalla peste. Il racconto si fa confuso. Il Bonelli si recò sul Monte
Pellegrino con il proposito di suicidarsi
gettandosi nel precipizio prospiciente il mare (zona Addaura). Un altro
racconto cita invece come il Bonelli si sia recato sul Monte per sfuggire alla
giustizia non avendo denunziato, era un obbligo, la morte della moglie per
peste.
Le due versioni si uniscono nel proseguo del racconto.
Sul Monte Pellegrino gli apparve la “Santuzza”. Una
splendida figura di giovane donna pellegrina dal bellissimo aspetto, che lo
dissuase dal suo proposito suicida. Lo portò giù con lei fino a mostrargli la
sua grotta, da lei chiamata “cella pellegrina” dove visse, nei pressi
dell’antica chiesa di “S. Rosolea” allora già esistente. Insieme proseguirono
il cammino scendendo nella “Valle del Porco verso la città” e nel frattempo lo
esortava a pentirsi.
La Santa invitò il Bonelli a informare il cardinale
Gianettino Doria che “non si facessero
più dispute e dubbi sulle sue ossa e che venissero portate in processione per
Palermo perché aveva già ottenuto la certezza, dalla gloriosa Vergine Madre di
Dio, che, al passaggio delle mie ossa e al momenti preciso del canto del Te
Deum Laudamus, la peste si sarebbe fermata”.
Rosalia completò il suo discorso rilevando al Bonello..”E
per segno della verità, tu, in arrivare a Palermo, cascherai ammalato di
questa infermità [la peste] e ne morrai, dopo aver riferito tutto ciò al
Cardinale: da ciò egli trarrà fede a quanto gli riferirai".
Bonelli raccontò l’incontro con Rosalia al suo confessore,
padre Don Pietro Lo Monaco, parroco della Chiesa monumentale di Sant'Ippolito
Martire al Capo, che riferì subito il tutto al Cardinale di Palermo. Il
cardinale constatò come il Bonelli si fosse improvvisamente ammalato di peste
ed era in fin di vita, per cui diede credito al racconto.
Vincenzo Bonelli, in punto di morte, testimoniò a don Pietro
Lo Monaco gli avvenimenti che furono riportati nel manoscritto: “originali delli testimonij di Santa
Rosalia” del 1624:
« Saliva il monte per
arrivar alla cima che era vicino alla torre, ove vi era un grandissimo
precipitio che dava alla parte del mare con animo di precipitarme. In quello
istanti mi venne innanti una donna come una peregrina giovana, di faccia
d'angelo, bella e con uno splendore grande, mi accostò una mano al petto
e mi disse: "Non andar più innanti nè timer
più. Vien con me che io ti voglio dimostrare il mio luogo e la mia cella".
Mi portò vicino alla chiesa in una grotta
dove dove si dicèa che era stato ritrovato il corpo di Santa Rosalia, et
arrivata che fu mi disse: "Questa è stata la mia grotta, e
questa è stata la mia cella peregrina, sono stata qui tanti e tanti anni, e
molti cacciatori mi vanno cercando per questo Monte e per questa grotta, però
invano perchè io non sono più qui”. Io prese animo e li disse: "E
chi sete voi, o donna peregrina, che sete così bella come un angelo?".
Detta donna mi rispose con la bocca
risolente: "Io sono Rosalia, quella stessa
Rosalia che cercano in questo monte"».
L’11 o 18 febbraio 1626 la nuova commissione istituita dall’arcivescovo
e incaricata di esaminare i reperti ossei, certificò che: “le ossa erano di una sola persona chiaramente femminile.. dei tre
crani due erano un orciolo di terracotta e un ciottolone, mentre il terzo che
sembrava molto grande, era invece ingrossato da depositi calcarei, che una
volta tolti rilevarono un cranio femminile”. Anche la prima commissione
riesaminò i reperti e concordò con il risultato della seconda commissione.
La relazione della commissione specificò inoltre che “ quelle ossa odoravano di un buon profumo e
tra i reperti vennero ritrovate anche due croci, una ciotola e un conta
preghiere”.
Le reliquie furono ripulite dalle incrostazioni e riposte in
un’urna d’argento e cristalli e il 9 giugno del 1625 furono portate in solenne
processione. L’ulteriore contagio della peste si arrestò e il Senato, già il
giorno seguente, dispose la ripresa della libera circolazione di uomini e
mezzi. La città di Palermo innalzò un perenne grido di Gloria a Santa Rosalia.
Santa Rosalia
intercede per la salvezza della città di Palermo dalla peste
Anton van Dyck
Data del Dipinto:
1624 – Palermo
Olio su tela – (99,7 x 73,7) cm
Metropolitan Museum of Art – New York
Le reliquie furono quindi trovate in un blocco di pietra
calcarea che si era formato con il continuo gocciolio dell’acqua.
8 - La Terra di Santa Rosalia
Il popolo iniziò a venerare anche il blocco calcareo che,
ridotto in polvere, veniva venduto con il nome di “Terra della Santa”. Una
Terra usata per curare malattie, fabbricare amuleti , ecc. una venerazione che
finì con il confondersi con la magia. Si esaurì il materiale roccioso della
grotta e si iniziò ad usare quello proveniente dalla montagna. Opportunamente
bagnati, i piccoli frammenti di roccia venivano posti sulle finestre per
scongiurare fulmini e temporali.
Il definitivo patrocinio di Santa Rosalia fu ratificato a
Roma sotto il pontificato di Papa Urbano VIII Barberini.
Ogni anno si celebra a Palermo il 15 luglio il festino cioè
la rievocazione storica dell’evento miracoloso.
9. IL RITROVAMENTO
DEL “DIPLE”
Il 7 maggio 2015 all’interno della Grotta di Santa Rosalia,
sopra la grande urna di vetro che contiene la statua della santa in estasi, fu
ritrovato un “Diple”. Si tratta di un segno che veniva inciso, in epoca
medievale, sulle tombe dei santi eremiti o comunque vicino ad esse per
identificare e riconoscere il luogo di sepoltura. Un segno che veniva cercato
da tempo e che fu trovato dal paleografo Girolamo Mazzola. Il paleografo
cercava all’interno della grotta il simbolo da almeno dieci anni. Simbolo che
veniva citato in diversi documenti storici e che scoperto sopra il baldacchino
barocco e sopra il luogo dove vennero ritrovate le spoglie della santa.
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10. EREMO DI SANTO
STEFANO QUISQUINA
La grotta di Santa Rosalia a Santo Stefano di Quisquina, si trova
in un querceto secolare, oggi Riserva di Monte Cammarata, inglobata in un
seicentesco convento. Un convento posto a circa 1000 m s.l.m. che per il suo stile architettonico e la sua
ubicazione si riconduce ad uno stile di vita eremitica.
La struttura ha subito nel corso dei secoli diversi
interventi fino alla configurazione attuale costituita dalla Grotta, dal
Santuario e dal Convento.
L’eremo fu addirittura abbandonato, quindi facile preda di
vandali, e dopo molto tempo fu assegnato
ai volontari dell’Associazione Pro Loco.
Nel 1624, come già accennato, fu ritrovata la grotta della
Quisquina con l’epigrafe che indicava la presenza nell’antichità della Santa.
Iniziò un solenne pellegrinaggio in visita alla grotta e alla fine dell’anno
1625 la Curia di Agrigento autorizzò la costruzione di una cappella
prospiciente l’ingresso della cavità.
Un mercante genovese, Francesco Scassi, saputo delle vicende
di santità della Santa e colpito da una grande fede, decise di venire in
Sicilia e investire tutti i suoi averi nella costruzione di un Eremo da
dedicare a Santa Rosalia..
Una struttura che comprendeva una chiesa, delle piccole
stanze rivolte a Nord che furono utilizzate in seguito come dimora dei frati,
una cucina ed una stalla.
Ultimati i valori lo Scassi si ritirò a vivere nell’eremo
con altri tre uomini: due genovesi e un abitante di Santo Stefano di Quisquina.
I quattro fondarono il nucleo iniziale di una congregazione indipendente di
frati devoti a Santa Rosalia.
L’eremo viveva grazie alle offerte ed alle elemosine degli
abitanti di Quisquina e diventò autosufficiente cioè in grado di soddisfare
tutte le esigenze dei frati che vi dimoravano.
Furono realizzati altri corpi: il granaio, il frantoio, la
falegnameria, una calzoleria, un piccolo vigneto, un’orto che addirittura aveva
un ingegnoso sistema di concimazione collegato alle latrine del convento.
Durante il XVII secolo l’Eremo fu visitato da vescovi,
personaggi illustri, cardinali diventando un centro di ricche donazioni. La
congregazione riuscì ad acquisire una forte solidità economica che, legata
all’attività produttiva dei monaci, permise all’eremo di riuscire ad avere
tutto ciò di cui avevano bisogno, dagli ortaggi, al vino al grano.
Un convento che diventò subito famoso per le sue ricchezze e
che vide molti nuovi adepti. I Ventimiglia, famosi baroni di quei territori,
intervennero sulla struttura con ampliamenti e arricchimenti con donazioni.
Ampliamenti che consentirono all’eremo di ospitare fino ad un centinaio di
frati. In realtà il convento non superò quasi mai il numero di 10 frati perché
gli altri erano novizi che, prima di diventare membri della congregazione,
dovevano superare un periodo di prova.
Il richiamo alla “prova” forse contraddice un percorso di
fede ma le richieste di affiliazione erano così numerose che era
necessario verificare se la stessa
richiesta fosse motivata da vera fede o vocazione religiosa. Infatti mentre
alcuni novizi erano animati da fede
altri invece vedevano nella vita nell’eremo la possibilità di fuggire dalla
fame e dalla miseria.
C’erano anche richieste da parte di banditi, delinquenti che
vedevano nella vita in convento la possibilità di sfuggire alla legge godendo
dell’asilo religioso e quindi evitare la cattura e la conseguente prigionia.
Queste presenza inquietanti sconvolsero la vita religiosa
nell’eremo modificando in modo sostanziale le attività e le finalità della
congregazione.
Dalla fine del XIX secolo l’integrità spirituale dei frati
non è così evidente. Numerosi episodi contribuirono a minare le regole della congregazione e i
pochi frati, quelli veri, furono oggetto di continue vessazioni e minacce.
Questo triste periodo si conclude nel 1828 quando la
congregazione si sciolse e i fratti dovettero abbandonare la struttura.
In realtà i frati restarono nell’eremo. L’ultimo frate, Frà
Vicè (Vincenzo) visse in solitudine gli ultimi anni della sua vita vivendo
della compassione e dell’aiuto economico
con elemosine degli abitanti di Santo Stefano
Quisquina. Morì nel 1985, 34 anni fa,, all’età di 92 anni.
Oggi l’eremo è affidato, almeno a quanto risulta, ad un
Commissario nominato dall’Assessorato regionale agli Enti Locali che a sua
volta ha dato in gestione, in modo opportuno, il sito all’Associazione Pro Loco
di S.S. di Quisquina ed è custodito.
È stato creato con cura un percorso museale con visita agli
ambienti conventuali e cioè:
-
Il frantoio, ambiente in cui si accede dal cortile
interno dove si trova l’ingresso, e conserva la macina per il grano e la grande
vasca in cui veniva pigiata l’uva;
-
La Dispensa fondamentale per conservare gli alimenti,
nel periodo invernale. Il convento era irraggiungibile per la neve. Nella
stessa dispensa si trovano le botti per il vino, i contenitori usati per la
misurazione dei cereali e la raccolta dell’olio che non veniva però prodotto
nel convento e che era oggetto di elemosina; il tutto sovrastato da una grande
trave in legno in cui veniva appesa la carne seccata o salata;
-
Le latrine con un ingegnoso sistema di scarico che utilizzava tubature ad imbuto in terracotta
(catusi) per fare defluire i materiali organici nei terreni coltivati dove
svolgevano un azione concimante;
-
Le Cellette dei frati limitate al numero dei religiosi
effettivi, tutte rivolte a Nord e di uguale grandezza; arredate in modo povero;
-
La Cucina rivestita di maiolica bianca e blu, con due
forni, quello giornaliero e quello grande, utilizzato per fare il pane; il
“camino perpetuo” cioè una brace che veniva mantenuta sempre accesa come fonte
di luce e di calore;
-
Il refettorio arredato con tavoli originali, da poco
restaurati, comprende anche il braciere attorno alla quale i frati si
riscaldavano nelle gelide giornate invernali. È
separato dalla cucina da un’apertura che un tempo permetteva la raccolta
dell’acqua piovana in modo che i commensali si lavassero le mani prima di
entrare nel refettorio per la cena.
-
La stanza del principe che il principe Ventimiglia fece costruire per sé durante i
lavori d’ampliamento dell’eremo. Al mobilio fa da sfondo un affresco
dell’ottocento che raffigura il porto di Palermo e il Monte Pellegrino;
-
La legnaia anche se gravemente danneggiata da un
incendio, lo scorso secolo fu ricostruita ed ora ospita un Museo
Etno-antropologico che espone diversi utensili: aratri, strumenti di misura,
oggetti d’arredo della casa. Il museo occupa anche un’altra piccola stanza,
attigua alla legnaia, direttamente collegata alla chiesa da un lungo corridoio
che si affaccia sul sagrato.
-
La cripta è la stanza che conclude la visita e vi si
accede da una botola posta di fronte all’altare centrale della chiesa. In
questo ambiente, in origine senza aperture, venivano collocati i cadaveri dei
frati per essere mummificati e poi riposti nelle nicchie scavate nelle pareti.
Refrettorio
Stanza del principe Ventimiglia
Statua di Santa
Rosalia a poca distanza dall’Eremo
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10. IL SANTUARIO DELL’EREMO
La
Statua di Santa Rosalia fu scolpita con un blocco ibrido.
Fu costruito alla fine del 1600 accanto alla grotta, in
stile barocco, e fu abbellito un secolo dopo grazie all’intervento
dall’architetto e frate superiore Ignazio Traina di Santo Stefano. Fu frate
superiore del convento per molti anni e grazie ai finanziamenti dei principi
Ventimiglia, furono innalzati gli altari in marmo opere dei fratelli Musca.
Furono chiamati i fratelli Manno per eseguire affreschi e tele, e lo scultore
Filippo Pennino per realizzare la Statua di Santa Rosalia, posta dietro
l’altare e realizzata da un unico blocco di marmo nel 1774.
Fu realizzata con un blocco di marmo “ibrido” cioè che
presentava due tipi di venature. Nell’arte scultoria questi tipi di marmi
venivano scartati perché, non essendo omogenei, sono più difficili da lavorare.
In questo caso l’artista riuscì ad esprimere la sua grande arte legando la
parte bianca, con cui ha creò l’abito, e la parte striata in grigio che diede
origine al mantello. Una statua risalente al 1775 e raffigura la santa nel
momento in cui sta scolpendo l’epigrafe ritrovata nella grotta. Di valore un “paliotto”, un intarsio
realizzato interamente con piccoli pezzi di marmo, dai fratelli Musca e
risalente al 1700.
Purtroppo molti dei quadri dell’epoca eseguiti dai fratelli
Manno furono rubati nel 1982 ed oggi sono stati sostituiti da altri quadri
realizzati da artisti del luogo quali Francesco Chillura, Alfonso
Leto, Giuseppe Rizzo, Nino Giafaglione e Francesco Sarullo.
12. L'Eremo: La
Grotta
L'anfratto, buio ed umido, scelto per ritirarsi in preghiera e castità è poco più di un cunicolo, al quale si può accedere solo se inchinati. All'interno la grotta è piccola e buia e formava alcune cellette anguste collegate tra loro da stretti corridoi. In questa grotta remota, protetta da una fitta vegetazione e nascosta nel cavo della roccia, nessuno poteva accorgersi della sua presenza. Cosî Rosalia poté trascorrere in assoluta solitudine lunghi anni di esilio volontario, dedicandosi esclusivamente alla preghiera e all'ascetismo.
I successivi
studi sull'iscrizione rinvenuta nella grotta, portarono a ritenere che S.
Rosalia visse nella grotta del Monte Quisquina per circa 12 anni, dal 1150 al
1162.
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13. Santa
Rosalia Sul Monte
Pellegrino (Palermo)
L’edicola della dea Tanit
Santa Rosalia visse gli ultimi anni della sua vita in una
cavità sul Monte Pellegrino.
Molti non sanno come il Monte abbia una sua storia
millenaria perchè crocevia di antichi religioni.
Fu chiamato “Peregrinos”
dai romani e “Bulkrin” dagli
arabi.
Il monte ha accolto queste manifestazioni religiose e nel
tempo è diventato un teatro di pietra dove i culti, le tracce religiose hanno
lascato un segno. Ma non solo…. Monte Pellegrino è anche una stazione
archeologica di primaria importanza proprie per le sue innumerevoli e forse non
pienamente valorizzate aspetti archeologici e storici.
Fu la sede dell’antico culto di “Tanit”, dea punica della fertilità e di altri culti che furono
assorbiti nell’ambito cristiano-eremitico.
Del culto dedicato a Tanit esiste all’interno del Santuario
un edicola.
Un edicola di derivazione egizia, dalla tipica forma a
“naos”, cioè della cella tempio nel quale veniva posizionata la statua della
divinità, e scavata nella parete rocciosa, sulla destra dell’ingresso nel
santuario.
Quest’ingresso è adesso libero, praticabile ma un tempo era
costituito da uno stretto cunicolo che era difficile attraversare e percorrere. Una grotta che era chiusa ed
era servita nei secoli per seppellire i propri defunti come era abitudine anche
per gli edifici di culto fino a circa il 1700.
Davanti all’edicola punica
la presenza di una falda acquifera, di derivazione meteoriche, che
infiltrandosi nelle rocce sgorgava più a valle della grotta dando origine al
“Gorgo di Santa Rosalia”.
Questi aspetti crearono i presupposti per dare ospitalità
agli eremiti che costruirono una cappella e successivamente in epoche a noi più
vicine con la costruzione del Santuario.
La presenza della stessa acqua, fonte indispensabile di
vita, diede sviluppo ad un culto per un antica ninfa delle acque,
successivamente accostato ad una divinità ellenica, quindi a Tanit,
successivamente alla Madonna ed infine a Santa Rosalia.
La fuoriuscita dell’acqua dalla rocca è stata sempre
considerato un aspetto divino ed ancora oggi
esiste la tradizione dell’Incubatio, cioè dormire davanti alla grotta
dove è presente un pozzo o sorgenti sacri nei santuari della salute.
Nell’edicola dedicata alla dea Tanit sono presenti dei buchi
ricavati nella roccia. In questi buchi probabilmente erano inserite delle travi
di legno con funzione di sostegno. Sopra l’edicola c’è uno scavo sovrastante di
appoggio che denota la presenta di un soffitto o di una volta che copriva la cappella.
Aspetti che dimostrano l’esistenza in epoca successiva di una chiesetta che
ospitò un antico culto della Madonna e successivamente diventato culto di Santa
Rosalia.
14. IL SANTUARIO
Il Crocifisso di Santa Rosalia con un
piccolo particolare…
Nel 1180, a circa 15/20 anni dalla morte di Santa Rosalia, i
Giurati della città di Palermo, con un atto del Senato, costruirono una
cappella sul Monte presso l’ingresso della grotta. Il termine “presso” è importante perchè l’edicola, che subì degli interventi
architettonici, precede di alcuni metri l’ingresso vero e proprio della grotta.
Il 18 aprile 1257 in un testamento redatto dal notaio
Benedetto Puderico, una donna palermitana di nome Teofonia assegnò “il legato di un tarì alla chiesa di S.
Rosalia”.
Sul termine di “Chiesa” di Santa Rosalia la critica storica
si è divisa perché alcuni la collegano alla cappella presente sul Monte
Pellegrino mentre altri alla piccola chiesa all’Olivella (già citata).
Nella pestilenza del 1474 il Senato palermitano si rivolse
per intercessione alla Santa e decise di restaurare la vecchia cappella sul
Monte che doveva essere ormai in cattive condizioni dato che anche il culto per
la santa si era quasi perduto.
Questa vecchia cappella era stata edificata sul vecchio altare
punico e sulla vecchia chiesa bizantina e che quasi a trecento anni di distanza
doveva essere in cattive condizioni strutturali..
In occasione della peste del 1624, cioè durante la peste già
trattata, lo stesso Senato decise di abbellire il luogo sacro con la creazione
di un altare in marmo, quattro colonne in “pietra misca”, una statua in marmo
di Carrara che fu commissionata a Giacomo Tedeschi; quattro pilastri, quattro
porte in rame e una pittura di Pietro Novelli.
Il 15 luglio 1625, cioè un anno dopo il ritrovamento delle
reliquie di Rosalia, il Senato stabilì di erigere un Santuario. Furono
abbattuti le ultime querce, furono demoliti con i picconi gli ultimi diaframmi
di roccia che impedivano un comodo ingresso alla grotta; lo stesso ingresso
venne allargato e anche livellato; allargato anche il pianoro prospiciente alla
chiesa.
Nel dicembre 1625 il Senato nominò alcuni deputati per
soprintendere ai lavori del santuario.
La costruzione del Santuario iniziò nel 1626 ed inglobò
anche l’edicola cappella. Fu ultimato
nel 1629 cioè nell’anno in cui Urbano VIII confermò ufficialmente la santità di
Santa Rosalia.
Nel 1644 iniziarono i lavori per la costruzione di un
piccolo convento di frati francescani che si occupavano di dare assistenza e
conforto a tutti i fedeli che per voto
intraprendevano la lunga e faticosa salita a pedi nudi, molti anche in
ginocchio o ancora “tormentandosi con
discipline e cilici spinosi” per raggiungere la dimora della “Santuzza”.
Come si nota dalle foto, la facciata seicentesca del
santuario è addossata alla roccia.
Entrando ci troviamo in presenza di un vestibolo finemente
lavorato a tre arcate su colonne tortili
di alabastro. In questo vestibolo si trovano due altari a tarsie marmoree con
una statua di S. Atanasio. A destra è presente un Crocifisso ligneo del’ 400. A
sinistra oltre al confessionale, varie lapidi di cui una ricorda la visita di
Goethe.
Al vestibolo segue una spazio, illuminato dalla volta
scoperta della grotta, che ospita una notevole quantità di ex voto ed una
statua di Santa Rosalia a cui segue una cupola ”aperta” sul cielo.
Da un cancello in ferro si accede alla grotta. Il Santuario
dal 1946 è sotto la cura dei Religiosi di Don Orione (Piccola Opera della
Divina Provvidenza).
Subito dopo aver varcato il
cancello si nota in fondo alla grotta un altare semplice ed essenziale alle cui
spalle si trova una statua marmorea dell’Immacolata del’ 700.
Alzando gli occhi si vede la
volta della grotta coperta da lamine metalliche che incanalano l’acqua che
trasuda dalle fenditure della roccia. Guardando l’altare e volgendosi a
sinistra, in alto ed incastonata nella fenditura
della roccia, si trova la testa marmorea della Santa. A dieci metri a sinistra
sotto un baldacchino vi è l’altare con il simulacro della “Santa Rosalia
giacente”. È inserita in una teca di vetro immersa negli ex-voto dei devoti.
Una raffigurazione di Gregorio Tedeschi e successivamente coperta da una lamina
d’oro donata da re Carlo III di Borbone.
Il bassorilievo è invece
opera di Nunzio La Mattina nel 1636.
“Il Senato Palermitano poi,
oltre al manto dorato, dono del Re Carlo III di Borbone, adornava quel giaciglio
col crocefisso, teschio, libro e giglio (per l’angelo), impiegandovi cinque
mila onze” (ibidem p. 162).
Santa Rosalia è spesso raffigurata con il Crocifisso in
mano, o poggiato sul petto o ancora alzato per mostralo a tutti.
Nella statua che fu fatta dal tedeschi nel 1625, il
Crocifisso si trova nella mano destra della santa ed è poggiato sul petto come
segno d’amore.
Nel costato del Crocifisso, che Santa Rosalia tiene in mano,
c’è un particolare molto importante.
Una piccola pietra rossa che è incastrata nel costato, nel
punto in cui Cristo fu colpito dalla lancia del soldato romano subito dopo la
sua morte.
“Venuti da Gesù, vedendo che era già morto,
non gli spezzarono le gambe;
ma uno dei soldati con una lancia gli trafisse il costato e subito uscì sangue e acqua”. (Gv 19, 33-34)
ma uno dei soldati con una lancia gli trafisse il costato e subito uscì sangue e acqua”. (Gv 19, 33-34)
L’autore del crocifisso, poteva
benissimo evidenziare la ferita del costato semplicemente con una incisione nel
petto ma invece ha pensato bene di porre questo piccolo rubino rosso affinchè
fosse ben messo il evidenza il valore del “sangue di Cristo” che, secondo la
Lettera agli Ebrei (Eb9,11-14), ci ha procurato la salvezza eterna”.
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15. La Grotta di
Santa Rosalia sul Monte Pellegrino
Le brevi descrizioni di alcuni archeologi
e di di W. Goethe – Il Gorgo
Il Rosario di Santa Rosalia
La Grotta di Santa
Rosalia è diversa rispetto alla sua origine o quando fu abitata dalla Santa.
.. ”và dentro il Monte da 100 piedi in lungo è larga da principio da
28, allargandosi nel mezzo fino a 40… Erano in alcune parti della volta si
basse le rupi e sì alto il suolo, che
hormai si univano, nel rimanente varia l’altezza fra 8 e 12 palmi,,, Era questo
uscio della spelonca, all’hora sì stretto, che non capiva un’huomo, s’ei non si
ponea di lato, e così di lato lì bisognava andare…” (Cascini 1651).
La pianta disegnata dal
Cascini mostra la grotta ancora integra prima della demolizione della massa
rocciosa che nella stessa pianta è tratteggiata. Fu anche abbassato il suolo con la
conseguente distruzione del deposito antropico. La massa rocciosa fu sostituita
dall’ampia cancellata attuale.
Si entrava nella grotta
atttraverso uno stretto cunicolo e sulla destra sono visibili i resti
della cappella bizantina
costruita sull’antico altare punico.
Rosalia visse qui gli ultimi
anni della sua vita.
Una vita in solitudine o con frequenti contatti di preghiera e
assistenza con altri frati (probabilmente anche basiliani) che vivevano in
altre grotte del Monte Pellegrino ?
Frati che percorrevano la
Valle del Porco per scendere a Valle e forse anche un sentiero che si snodava
lungo l’attuale Scala Vecchia.
C’è da dire che l’ambiente
carsico non ammette l’esistenza di una sorgente. L’acqua, che cita lo stesso
Giustolisi, era l’acqua meteorica che
penetrava attraverso le fessure della roccia e per mezzo di numerose lamiere
viene convogliata in una cisterna sulla cui vera è poggiata la statua di Santa
Rosalia. Non esiste nessuna connessione tra il Gorgo e la grotta. Gorgo la cui
sistemazione è di epoca borbonica e forse anche punica.
Gorgo di Santa Rosalia
Si è spesso citata la grotta
di Santa Rosalia come necropoli rupestre. In realtà non sono molti gli scritti
che parlano di questa ipotesi perché la documentazione è scarsa e probabilmente
anche per altri motivi facilmente intuibili. (Che quel piccolo gruppo di ossa
possa effettivamente appartenere a Santa Rosalia o meno).
C’è da dire che un reperto
importante è costituito dai grani di calcite che sono racchiusi nel reliquario
di Santa Rosalia e riconducibili a vaghi (sferette) di una collana, molto
diffusa in epoca o Età Eneolitica, probabile corredo di un inumato.
Rosario di Santa Rosalia
Il
6 aprile 1787 Johann Wolfgang von Goethe, visitò il Santuario e riportò sul suo
diario che:
“… la grotta è stata lasciata intatta, ma poiché, dalle rocce
stilla continuamente acqua, era necessario tenere il luogo asciutto. Lo si è
fatto posando lungo gli spigoli delle rocce, delle grondaie di piombo collegate
fra loro da vari raccordi; larghe in alto e strette in alto come cono, e tinte
di un colore verde sporco, fanno apparire la grotta come tappezzata all’interno
di grandi cactus. L’acqua viene immessa, parte lateralmente e parte da dietro,
in un limpido bacino, al quale i fedeli attingono per combattere ogni male.”
Lo
spettacolo che vide Goethe è a distanza di secoli lo stesso. L’acqua “stilla”
tra le rocce ed emana un suono dolce, riflessivo nel silenzio della sacra
grotta.
È
la stessa acqua che guarì miracolosamente
Gerolama e come dice Don Gaetano Ceravolo, superiore del santuario,
Santa Rosalia si rivolge a ciascuno di noi …“Tu che sei scoraggiato e sofferente, tu che sei carico di ferite nel
corpo e nello spirito, tu che sei carico di insicurezze e
paure, vieni da Gesù, dissetati a Lui, non avrai più sete!”
Le grondaie o “canalette” (in lingua
siciliana) sono tutte diverse sia per la dimensione che per la forma e tutte
create artigianalmente a mano.
Alcune canalette sono nuove ma nella parte
alta già presentano incrostazioni di calcare; altre sono rovinate sia nei bordi
come al centro con presenza di buchi e pezzi staccati.
Tutte queste canalette, anche quelle rovinate,
raccolgono le “gocce d’acqua che distillano dalle rocce della grotta” e
scorrendo sulle stesse canalette arrivano in un grande bacile di pietra e nei
tre antichi pozzi sotterranei che si trovano sotto il pavimento della grotta.
Don Ceravolo
… come le “canalette” raccolgono le gocce d’acqua così ciascuno di
noi è chiamato ad accogliere la grazia di Dio che, goccia dopo goccia, ci viene
donata . . . in abbondanza.
E ognuno di noi deve “incanalare” questa grazia affinchè
non vada perduta e possa così servire per noi e per gli altri”.
All’interno della grotta sono ancora visibili i segni dei
tagli operati nel luglio 1625 per allargare l’ingresso ma il resto della grotta
è come la vide Rosalia.
La parete della grotta posta dietro il tempietto dedicato a
Santa Rosalia ha assunto nel tempo un suo aspetto storico-devozionale molto
importante.
Oggi chi si reca
in un santuario trova generalmente all’ingresso un libro su cui riportare una
preghiera, un ringraziamento per una grazia ricevuta o ancora semplicemente la
provenienza con il proprio nome.
Un tempo tutto
ciò veniva scritto su dei piccoli pezzetti di carta, detti “pizzini” e inseriti
nei buchi della roccia dietro il luogo del ritrovamento del corpo della Santa.
Quella roccia da
secoli ricorda che “Cristo è la
vera Roccia di Salvezza sulla quale appoggiare le fondamenta della nostra vita!”
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16. Il Naufragio dei
Ruteni
Alcune navi raffigurate nei graffiti
della vicina Grotta Niscemi, furono opera dei Ruteni?
Sopra l’altare punico c’è una lapide che ricorda un miracolo
operato da Santa Rosalia a favore di una nave di Ruteni schiavizzati dai
Turchi. I Ruteni pregarono l’intervento della santa e il 7 dicembre 1627
riuscirono a fuggire con la loro nave dall’armata navale Turca che li scortava.
Riuscirono ad allontanarsi senza subire alcun danno. Si narra che l’ammiraglio
turco, una volta accortosi della fuga, non riuscì a virare per inseguirli. Un
violento e miracoloso vento contrario impedì l’esecuzione della manovra. I
Ruteni in segno di riconoscenza, per l’intervento della Santa, innalzarono sul
monte la bandiera turca, per fare dispetto ai nemici e celebrare la loro
salvezza.
Gli stessi Ruteni in seguito aiutarono le maestranze nella
costruzione del santuario nel 1626/1629 e offrirono parte dei loro beni per completare
la costruzione del tempio.
I Ruteni era un gruppo etnico di slavi orientali abitanti in
un territorio molto vasto che confinava ad ovest con l’Ungheria, Slovacchia e
Polonia e verso oriente con la Russia.
In seguito il gruppo etnico fu ristretto e oggi sono
concentrati nella Polonia meridionale, nella Slovacchia nord-orientale e
nell’oblast’ di Transcarpazia (in Ucraina) e nella regione di Vojvodina in
Serbia. In queste zone il gruppo etnico parla in ruteno cioè in un idioma
appartenete alle lingue slave orientali.
Velamin Rutskyi
(Ruta, 1574 – Derman, 5 febbraio 1637)
Riformatore della vita monastica della chiesa
Rutena-Ucraina
Arcivescovo cattolico di Kyiv
In merito alla vicenda dei
Ruteni, ritengo interessante avanzare un
ipotesi.
Sulle pendici occidentali del
Monte Pellegrino è presente la Grotta Niscemi che è stata descritto nel blog “
Il Monte Pellegrino… il promontorio più bello al monto- terza parte”.
La grotta presenta dei
graffiti che risalgono a circa 14.000 anni fa e testimonianza di arte parietale
del Paleolitico Superiore. Grotte di grande valore archeologico come quelle
dell’Addaura, sempre sul monte Pellegrino. I graffiti sono costituiti da figure
di animali, come equini e bovini disegnato con uno stile e un tratto che esprimono
una grande realisticità.
Nella parte inferiore della
parete dei graffiti sono disegnato delle imbarcazioni puniche e medievali con
vele ed altri equipaggiamenti.. I disegni delle imbarcazioni medievali
sembrerebbero risalire al 1500.
Ma le sorprese non sono finite. Vicino alla
figure zoomorfe ci sono graffiti di vascelli punici e medievali
A prescindere dalla
datazione, che potrebbe anche essere non
sicura, la rappresentazione perfetta delle imbarcazioni potrebbe fare
avanzare l’ipotesi che furono proprio i Ruterni, salvati per intercessione
della Santa Rosalia, a lasciare quei disegni in quella parete che potremmo
definire storica.
Ricordiamoci che i Ruteni
parteciparono attivamente alla costruzione del Santuario anche dal punto di
vista finanziario. Un ipotesi affascinante che naturalmente dovrebbe essere
discussa dal punto di vista storico e anche archeologico per avanzare una
precisa datazione dei graffiti.
Grotta Niscemi
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17. Wolfang Goethe nel 1787 rimase affascinato dalla
bellezza del luogo e della Santa
Monte Pellegrino con i suoi
ripidi fianchi segnati da grotte e
fratture millenarie fu definito dai viaggiatori del passato come il “promontorio più bello al mondo”.
Perché questo “canto” di
bellezza ? Forse perché sul Monte rivive, come per incanto, quel contrasto tra maestosità e dolcezza che
erano aspetti seguiti nel Settecento e nell’età del Romanticismo
Wolfang Goethe nel 1787
scrisse del Monte Pellegrino: «Giunti alla vetta del monte, dove questo forma come una nicchia nella
roccia, ci troviamo di fronte ad una parete a picco alla quale la chiesa ed il
convento sembrano appesi. L’esterno della chiesa non ha nulla di attraente; si
apre la porta con indifferenza, ma già all’entrata si rimane colpiti dalla più
grande meraviglia. Attraverso le aperture di un gran cancello di ottone a
fogliami vidi sotto l’altare luccicar delle lampade; m’inginocchiai proprio
accosto e guardai per gli spiragli. Dentro c’era ancora una graticola fatta di
fili di ottone intrecciati fra di loro, in modo che l’oggetto quivi racchiuso
appariva come attraverso ad un velo. Al chiarore di alcune quiete lampade mi
apparve una bellissima fanciulla. Giaceva come rapita in una specie di estasi.
Col capo mollemente reclinato nella mano destra adorna di numerosi anelli. Non
potevo saziarmi di contemplare quella figura da cui mi pareva emanasse un
fascino del tutto singolare. La veste fatta di lamina dorata, simulava alla
perfezione un ricco broccato d’oro. La testa e le mani di marmo bianco erano non
dirò di uno stile eccellente, ma pure lavorate cosi al naturale e con tal garbo
da credere che ella dovesse respirare e fosse lì lì per muoversi. Le stava
accanto un angioletto che sembrava ventilarla con uno stelo di giglio.
Frattanto i Sacerdoti erano entrati nello speco, s’eran seduti nei loro stalli
e cantavano i vespri. Io mi sedetti su di una panca e mi posi alcun tempo ad
ascoltarli; quindi mi recai di nuovo all’altare, m’inginocchiai un’altra volta
e cercai di scrutare ancora meglio la dolce immagine della Santa. Totalmente mi
abbandonai all’affascinante visione della figura e del luogo. Il canto dei
Sacerdoti svaniva ormai sotto le volte della Grotta, l’acqua scolava raccolta
nel bacino accanto all’altare e le rupi sporgenti dell’atrio, e altresì quelle
della navata, chiudevano ancor meglio la scena. Un gran silenzio regnava in
questo luogo deserto che ora pareva restituito alla morte, una gran lindura era
in questa grotta selvaggia. L’esterno splendore del culto cattolico, e
specialmente siciliano, appariva qui in tutta la sua naturale ingenuità.
L’illusione che produceva la figura della bella addormentata era piena
d’incanto, anche per un occhio esercitato; insomma, io non potei staccarmi che
a fatica da questo luogo e ritornai a Palermo solo ed a notte inoltrata».
La grotta nel 1700
Da Chatelet “
Voyage pittoresque de Napoli et de Sicilie” – Parigi 1786
Grotta di Santa
Rosalia nel 1800
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18. LE STRADE
PER IL SANTUARIO - LE “ACCHIANATE”
a)“LA VALLE DEL PORCO”
Probabilmente era
nell’antichità il principale ingresso sul Monte Pellegrino ed anche la via più
breve per giungere alla grotta di Santa Rosalia.
A metà circa del percorso è incisa sulla
roccia un’antica ode al Signore ed una
Croce.
Un ode scritta da qualche
monaco basiliano che visse nelle cavità del Monte:
“Sii glorificato dovunque sempre, o Dio
“
Un sentiero battuto quindi
sia nella preistoria che dai monaci bizantini per poi giungere anche in epoca
moderna quando era percorso dai pastori con i loro greggi.
b) LA SCALA VECCHIA –
LA SECONDA “ACCHIANATA”.
La “Scala Vecchia” è
evidenziata in giallo
Fu costruita tra il 1638 e il 1650 attraversando la località
che era chiamata “Prima Cupola” o “Lu Rimitu”. Si tratta di un percorso
esistente in antico e che nella parte meridionale presentava un varo o ingresso
chiamato proprio “della Scala Vecchia”.
Una strada quindi esistente nel medioevo e documentata in un
testamento del 1137 (P. Collura) e confermata dai ritrovamenti durante la
costruzione della moderna Via P. Bonanno. Ritrovamenti che di fatto univano le
falde meridionali del Monte con il santuario.
Il primo tratto è costituito da un sentiero scavato nella
roccia; gradinato in più punti,e in alcuni tratti in comune o in parallelo o
adiacente alla Scala Nuova. Una volta giunti nella zona della Prima Cupola si
perde ogni traccia dell’antico percorso sia per l’accumulo di terra sia anche
per danni causati dalla costruzione della nuova strada (Scala Nuova). Il
tracciato si riprende all’incrocio dell’attuale via Bonanno con la deviazione
che porta alò castello Utveggio, fino al Piano di Bernardo. La strada sala con
un paio di piccoli tornanti per poi accostarsi alla Scala Nuova fino ad
incrociarla nel punto in cui si perviene al santuario, da questo punto forse la
strada proseguiva attraverso la località Croce per scendere fino al versante
opposto del monte.
c) LA SCALA NUOVA
- LA TERZA “ACCHIANATA”
Nel XVII secolo il senato palermitano decise di migliorare
il vecchio percorso della “Scala Vecchia” mediante la realizzazione della
“Scala Nuova”. Questo permette ad un maggior numero di pellegrini di giungere
fino alla grotta della Santa. La zona più adatta era quella della Scala vecchia
ed infatti il nuovo percorso corre spesso parallelo o si affianca alla vecchia
strada. Un architettura piuttosto ardita che con una sequenza di ben 34
rampe, in parte su volte e su archi, s’inserisce in modo armonico
nell’ambiente. Forse un risultato per quei tempi non voluto ma ottenuto fra
strada e paesaggio.
La prima rampa va dalla Piazza del Campo in località Piede
della Scala su un terrapieno per poi seguire sui primi otto archi. La seconda
rampa poggia sui nove archi successivi; la terza ancora su dieci e la quarta su
altri cinque. Le ultime e successive due rampe sono scavate nella roccia.
Il percorso rimanente sale con piccoli terrapieni e entra
fra i boschetti, quasi in piano, per giungere fino alla cima. Nella planimetria
si nota perché costeggia la “Scala Vecchia”.
Una costruzione iniziata nel 1674 e inaugurata il 13 maggio
1725 e continuamente soggetta a provvedimenti di manutenzione e consolidamento
a causa dell’usura del tempo e degli eventi naturali.
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19. GLI EX VOTO
– La drammatica storia dell’Ancora
Nella grotta sono
presenti numerosi ex voto dal latino “ex
voto suscepto” cioè “secondo la promessa fatta”. Uno degli ex voto più
particolare è un ancora.
Un’ancora che è detta “ancora di Santa Rosalia” ed è legata
ad una storia di dolore che, dopo molto, tempo, fu raccontata al priore del
convento da Salvatore Pillitteri.
Il protagonista della triste storia fu il nonno paterno del
Pillitteri. Una storia che copio integralmente così come è stata raccontata al
priore. Omettere anche una parola o una frase significa togliere quella grande
umanità che traspare dal racconto.
Quella che sto per raccontare è una storia di dolore, di
sacrificio, di onore, ma soprattutto di grande fede e di gioia.
Il sottoscritto, le
mie sorelle e due mie cugine, siamo gli ultimi ad avere conosciuto dal vivo il
protagonista di questa storia sconosciuta ai più, che poi è entrata nella
leggenda.
Mi piacerebbe però che
i nostri eredi, entrando nell’antro della grotta di Santa Rosalia a Monte Pellegrino
a Palermo e guardando la grande ancora appoggiata sulla parte destra della
parete rocciosa, ricordassero: “Questa ancora è parte della
storia della nostra famiglia”.
Io ero l’unico figlio maschio della famiglia, composta da mio
padre, mia madre, le mie sorelle ed i miei nonni materni, Filippo Davì e “Marietta” che
vivevano con noi. Ero il gingillo di mio nonno che mi amava profondamente e
passava con me tutto il suo tempo libero e quando non costruiva i suoi
modellini di navi ricavati da legno pieno con gli alberi e le sartie al posto
giusto e i fumaioli ricavati dai rotoli di cartone delle “spagnolette”
debitamente pitturate, mi prendeva sulle gambe e mi raccontava le sue avventure
vissute sui mari di tutto il mondo con tale enfasi e dovizia di particolari,
che io li vivevo come in un film, e nella mia mente di bambino mi ritrovavo
protagonista di tali storie.
Una in particolare
attirava la mia fantasia e lui con tanta pazienza, ma anche perché non gli
dispiaceva, me l’ha raccontata centinaia di volte.
Eravamo già alla fine
della prima guerra mondiale e l’Italia era parte dell’asse che vedeva Francia
ed Inghilterra avversari dei tedeschi. Mio nonno Filippo era nostromo su una
nave mercantile che però si occupava di portare truppe e materiali per i nostri
soldati al fronte tra le coste francesi e quelle italiane.
Il mare era
tranquillo, e tranquilla sembrava la navigazione. A bordo ognuno era impegnato
nei loro lavori di routine, mentre alcuni marinai di guardia scrutavano
l’orizzonte per segnalare in tempo altre presenze di navi in quel tratto di
mare.
All’improvviso il
silenzio fu squarciato da un boato assordante. Lo scoppio fece tremare la nave
da prua a poppa. Era stata colpita in pieno la sala macchina, che prese fuoco.
I macchinisti rimasero uccisi all’istante e i pochi superstiti uscirono in
coperta feriti ed ustionati gravemente.
Mio nonno, nostromo di
coperta, mentre li aiutava si guardava intorno cercando di capire chi avesse
sparato sulla nave, quando a dritta, a circa mezzo miglio, emerse la figura
sinistra di un sommergibile tedesco che, una volta rimessosi in assetto di
tiro, lanciò un secondo siluro sotto la linea di galleggiamento verso poppa. Fu
centrata la cassa della nafta, che prese fuoco subito.
La nave era perduta,
cominciò ad inclinarsi sul lato sinistro. I morti si contavano ormai a decine,
e il caos era generale. Si cercava di calare le scialuppe di salvataggio, ma su
quattro, solo una poté essere messa in mare.
Ci si buttava in
un’acqua piena già di gasolio infiammato per raggiungerla, e aiutando i feriti
più gravi si trassero sulla piccola imbarcazione compreso mio nonno che era
quello più alto in grado.
La nave affondò nel
giro di pochi minuti, l’U-Boot tedesco si inabissò dopo avere compiuto la sua
missione di morte e tutto tornò tranquillo lasciando quella ventina di uomini,
tra cui molti feriti gravemente, al loro destino.
La scialuppa era
troppo piccola per tutte quelle persone ed il mare arrivava al suo bordo.
Le razioni di gallette
e di acqua vennero centellinate tra tutti, ma finirono presto. Alcuni uomini
morirono per le ferite riportate e furono sepolti in mare, zavorrati, con una
breve preghiera.
La disperazione si
fece tangibile, i giorni passavano senza che si vedesse un’imbarcazione che
potesse aiutarli.
Il sole caldo di
giorno, il freddo della notte e la mancanza di acqua potabile portarono gli
uomini in uno stato di semicoscienza, preludio di una morte per inedia.
Dopo molti giorni, una
mattina, mio nonno emerse dalla sua apatia gridando alla ciurma che aveva avuto
in visione Santa Rosalia, la Patrona di Palermo, cui era devotissimo, che con
voce dolcissima e rassicurante gli diceva di avere forza e fede perché in
giornata sarebbero stati salvati.
L’ottimismo fece presa
su quei pochi malconci superstiti. Pregarono tanto e giurarono solennemente che
se la visione si fosse tramutata in realtà avrebbero portato in processione
un’ancora di bronzo sino alla grotta di Santa Rosalia, a Monte Pellegrino, come
ex voto.
La nave arrivò e, tra
grida e pianti di gioia, furono salvati.
La “promessa” si
concretizzò, ma non subito. Passarono infatti sedici anni e il perché è storia.
Subito dopo la guerra
la strada che, dalle falde portava alla grotta, era una: quella ciottolata costruita tra il 1674 e il 1725, dopo il ritrovamento delle ossa della Santa,
dai galeotti mandati ai lavori forzati per scontare le loro malefatte, però
troppo ripida, stretta e con curve a gomito che impediva l’accesso di uno
“strascino” trainato da cavalli normanni con su un’ancora di diverse
tonnellate.
Si dovette aspettare
il 1924 che si ultimasse la nuova strada carrabile, che in certi punti si
interseca con la vecchia, e poi che si riunissero tutti i reduci, si
raccogliessero i fondi e si costruisse l’ancora.
Era il 1934 quando
finalmente giunse col carro dentro la grotta. Si costruì un traliccio di legno
e con un sistema di verricelli e corde di canapa fu sollevata e appoggiata alla
parete, la dove si trova ancora oggi.
Una disattenzione però
provocò un urto ed una punta dell’ancora si ruppe e gli fu
appoggiata accanto.
La grande fede ancora
una volta aveva trionfato su quei miracoli che arrivano forse perché dovuti e
poi inesorabilmente entrano poi nel dimenticatoio.
Ho scritto questa
breve storia con gli occhi umidi per la commozione perché, mentre la scrivevo,
mi rivedevo bambino sulle ginocchia di mio nonno che me la raccontava.
Dico io “a futura
memoria” poiché, i discendenti ed i miei eredi, non la dimentichino.
Mio nonno Filippo
Davì, nostromo, morì il 25 luglio 1958 giorno del mio settimo compleanno.
14 ottobre 2011
Salvatore Pillitteri, detto “Totò”
(P.S.: Avrei voluto essere più
preciso circa i dettagli della vicenda riguardanti soprattutto l’affondamento,
come il nome della nave o la data precisa, ma purtroppo non li ho mai saputi, e
ogni mia ricerca è stata vana. Tutto è stato affidato, come ogni leggenda
che si rispetti, alla memoria: prima quella di mio nonno e poi alla
mia. Di queste lacune chiedo scusa!)
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20. Il Tesoro di Santa Rosalia
Le “Stanze del tesoro di Santa Rosalia” costituiscono un
ricchissimo Museo dal punto di vista
storico.
Vi si trovano reperti di gran valore e potremo definire
unici come una Galea d’argento di lega purissima. Una nave ex-voto di circa 20
kg di peso e della misura di (1,30 x 1.00) m.
Fu donata al santuario nel 1667 dal principe di Resuttana
don Pietro Napoli e Barresi.
Il Museo è allestito in una stanza che faceva parte degli
ambienti, quarto senatorio, del Senato di Palermo e si possono ammirare dei
reperti di gran valore come gli smalti policromi dei Cavalieri di malta, dei
calici di cui uno in filigrana d’argento e anche dei gruppi di vasi con le “foglie di Paradiso” donati dal vicerè
Duca d’Uzeda alla fine del Seicento.
Durante i lavori di restauro fu anche trova una piccola stanza “segreta”
contenenti moltissimi oggetti, anche loro ex-voto, meno pregiati ma comunque di
grande importanza storica. Tra i reperti trovati in questa piccola stanza anche
un pavimento in maiolica seicentesco in ottimo stato.
La Statua di Santa Rosalia di Giovanni Antonio
Gherardi del 1676
I reperti furono restaurati dal restauratore Gaetano
Correnti e dal maestro argentiere Benedetto Gelardi.
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21. Chiesa e
Monastero di Santa Rosalia delle Benedettine allo Stazzone
Il Quartiere dello “Stazzzone” - La Chiesa fu demolita per la costruzione
della Via Roma
L’Affresco di “San Benedetto in gloria “
ritrovato e di cui si erano perdute le tracce,
Dopo i ritrovamenti dei resti di Santa Rosalia nel 1624,
molti fedeli per devozione diedero sfogo a delle importanti iniziative. Il
sacerdote don Giuseppe Bonfante, miracolato dalla peste per intercessione di
Santa Rosalia, decise di fondare un conservatorio di fanciulle. Conservatorio
che decise di intitolare alla Patrona. Nel 1625 scelse il luogo dove fondare il
conservatorio…”presso il cortile chiamato
di “Vita”, vicino e dirimpetto la Parrocchiale Chiesa di San Giovanni Li
Tartari e pigliate prima a pigione, e poi a censo alcune case, vi eresse il
Conservatorio per refugio delle povere donzelle”.
L’anno successivo fu fondata una cappella, con licenza del
14 marzo 1626 emessa dall’Arcivescovo, “per
comodo delle convittrici”.
Il conservatorio andava avanti grazie alle elemosine; alle
risorse finanziarie del Bonfante, piuttosto limitate, e con quello che lo stesso Bonfante riusciva a
raccogliere nella città e nel regno.
Il numero delle fanciulle che frequentavano il conservatorio
diventò così numeroso che si rese necessario chiedere un contributo al re
Filippo IV.
Il re ascoltò le richieste di carità da parte del Bonfante e
con lettera datata “Madrid, 5 maggio
1630” ordinò “darsi al Conservatorio cinquemila scudi, da pagarsi dagli spogli de’
Vescovi, e frutti di chiese vacanti in anni cinque, e scudi mille all’anno,
colla condizione di doversi ogn’anno celebrare la festa dell’Immacolata
Concezione”.
Alcune dame della nobiltà palermitana fondarono dopo pochi
anni un monastero di benedettine.
Il Monastero fu “promosso
da cinque Dame Palermitane della Famiglia Del
Carretto, figlie di D. Girolamo Conte di Regalmuto”.
La prima Dama che diede l’aiuto economico per la costruzione
del Monastero fu Donna Aldonsa che nel
suo testamento istituì “suoi eredi
universali in una porzione D. Diana, D. Ippolita, D. Giovanna, e D. Margherita
sue sorelle..” e “morendo senza figli, ordinò di fondarsi in Palermo un
Monistero con i suoi beni”.
L’esempio di Donna Aldonsa fu seguito dalle sorelle.. “di maniera che si divenne alla fondazione
del Monistero di S. Rosalia nello stesso cortile di “Vita”, ove era il
conservatorio, e vennero allo stesso assegnati i beni delle sopraddette
sorelle…”.
Fu eletta “padrona del
Monistero Donna Anna Gaetano, Marchesa di Sortino, Principessa di Cassaro, e
Don Francesco Valguarnera, Principe di Valguarnera, ed in appresso tutti i
successori ne’ Principati di Cassaro, e di Valguarnera”.
Procuratore Generale del Monastero ed esecutore della fondazione fu nominato Don
Giuseppe Bonfante.
Fu concessa al Bonfante la facoltà di poter scegliere “dodici donzelle vergini del Conservatorio
per monacarsi senza dote nel nuovo Monistero”.
Don Aleramo del Carretto, conte di Gagliano, fratello delle
donatrici, chiese la licenza
dell’Arcivescovo e l’approvazione del Pontefice Urbano VIII.
Il papa nel settembre del 1634 spedì la Bolla d’approvazione
ordinando che “il Monistero seguisse la
regola di S. Benedetto, e che le religiose portasssero sopra l’abito una Croce
di tela bianca, secondo sia da antichissimi tempi solea dipingersi S. Rosalia”.
La Croce di tela bianca riproduceva la venerata reliquia
della croce argentea ritrovata tra le ossa di santa Rosalia e che era attaccata
al suo torace.
Nell’anno 1637 iniziarono i lavori del Monastero e
l’arcivescovo Doria ordinò al Bonfante che entro due anni la struttura doveva
essere completata.. ”altrimenti avrebbe
dato egli le necessarie provvidenze”.
Il Bonfante..”prima
dei due anni, vale a dire nel 1639 l’avea già ridotto a buon segno, e a 12
Gennaro 1640, per la facoltà datagli da D. Aleramo del Carretto, e da D. Ponzio
Valguarnera, elesse per monache da entrare nel novello Monistero alcune
donzelle, parenti delle fondatrici, ed alcune gentildonne commoranti nel di lui
Conservatorio”.
Il nuovo Monastero non fu
sufficiente ad accogliere le fanciule e “si
accordò dal Bonfante un altro ritiro, che aveva egli istituito vicino al primo,
per le donne levate dal peccato, e le fece passare al Fattojo, detto
“Trapetazzo”(Ritiro San Pietro), nel
Monastero che aveano abbandonato le monache Teresiane scalze”.
L’Arcivescovo D. Giovanni Lozano il 21 novembre 1675
trasferì la Madre Suor Maria della Croce Sitajolo
dal Monastero della Concezione al Monastero di S. Rosalia eleggendola Badessa.
L’Arcivescovo “pubblicò lqa clausura, ed
elesse dodici religiose gentildonne delle più antiche di quelle, che allora si
trovavano nel monistero, per monache, senza obbligo di portare dote, secondo la
disposizione dell’ultima testatrice, e secondo prescriveva la Bolla.”…”Ebbero
queste dodici l’abito Benedettino dalla Badessa Sitajolo a 27 Novembre 1675,
ammettendole al Noviziato, coll’assistenza del P. D. Pietro Tornamira
Benedettino, eletto dall’Arivescovo per loro Confessore, Padre Spirituale, e
Ditettore della qual funzione se ne legge la iscrizione nel parlatorio”.
Le cronache citano come siano
state numerose lefanciulle entrate nel Monastero “per consacrarsi a Dio.. e colle doti delle medesime si aumentò il
patrimonio del monastero”.
Dopo molti anni si pensò alla
costruzione di una “nuova e più magnifica
chiesa nel sito stesso dell’antica”.
I lavori per la costruzione
della nuova chiesa iniziarono il 18 maggio 1700 e a posare la prima pietra fu
l’Arcivescovo D. Ferdinando Bazan…”vi
s’incastrarono diverse reliquie, e una iscrizione scolpita in rame, che si
legge nel parlatorio, e di più due medaglie, l’una d’argento, e l’altra di
rame, che aveano ugualmente da una parte l’imagine di S. Rosalia colla
iscrizione intorno “Sancta Rosalia Virgo Panormitana”; nel rovescio l’effigie
dell’Arcivescovo colla iscrizione: “ Ferdinandus de Bazan Archiepiscopus
Panormitanus”.
La chiesa fu ultimata in nove
anni ed il 25 agosto 1709 fu benedetta da D. Giuseppe Lo Restivo, Parroco di
Santa Margherita alla Conceria, Deputato del Monastero e “nel giorno 31 si aprì con applauso universale”.
In memoria della
consacrazione c’era un’iscrizione sulla porta della chiesa “dalla parte interna, ed altre due a’ fianchi
se ne leggono in memoria della consacrazione fatta a 16 Dicembre 1713 da D.
Bartolomeo Castelli Palermitano, Vescovo di Mazzara”.
“ Il prospetto della chiesa è di pietra d’intaglio, la
pianta è della figura di un paralellogrammo con quattro cappelle di piccolo
sfondo, e coro all’ingresso, sostenuto da due colonne e tre archi (con gelosia in ferro battuto).
L’architettura è un misto dell’ordine corintio, e del
composto con basi, pilastri parietini, capitelli, e travature.
L’architetto fu Fra Giacomo Amato Crocifero. Nel
cappellone di forma semicircolare è P altar maggiore.
Nella prima cappella del fianco destro è il quadro di
S. Rosalia dipinto in Roma, e collocatovi a 12 agosto 1725. Sotto P altare sta
a giacere una statua di marmo della detta Santa. Il quadro di S. Benedetto
nella seconda cappella, e l’altro di S. Nicolò di Bari nella seconda cappella
del lato sinistro sono del cavalier Serenario Palermitano (Gaspare Serenario autore del “S. Benedetto che
abbatte gli idoli” e “San Nicola da Bari”).
Si conserva in questo monistero una
croce di lamina d’argento: dicono, che fu ritrovata col corpo di S. Rosalia.
Nello esame delle reliquie della santa, che si fece nel palazzo Arcivescovale,
questa croce restò a P. Giordano Cascini Gesuita, che nel venire a morte, con
licenza del Cardinal. Doria Arcivescovo, ordinò di consegnarsi a D. Giuseppe
Bonfante protettore di questo monistero, che nel suo testamento la legò a
questa chiesa, colla proibizione di uscire fuori di essa”.
“Il parlatorio è uno dei migliori, grande ed ornato di
stucchi ed oro. Il monistero è di sufficiente grandezza e capacità, provveduto
di tutti i necessari comodi per servizio delle religiose.”
“ Incamminandoci nella strada accanto della parte
occidentale del monistero, ecco a pochi passi la Chiesa parrocchiale di San
Giovanni Li Tartari…. Forse la denominazione di Tartari deriva da’ Saraceni che
abitavano in questa contrada……”.
Chiesa di Santa Rosalia allo Stazzone - Primi anni del
1900
Chiesa di Santa Rosalia allo Stazzone con il
bellissimo loggiato (nei primi anni del 1900)
Vicolo del Giglio ripreso da Piazza S. Rosalia.
Sulla sinistra s’intravede il profilo della facciata
della Chiesa di S, Rosalia e il relativo
Monastero.
La Stazione Centrale vista dal loggiato della chiesa
Monaca professa di Santa Rosalia
con la croce bianca sul petto
Monaca conversa di Santa Rosalia
La fastosa chiesa, a navata unica, si
affacciava su una caratteristica piazzetta alberata con una bella facciata con
intagli, sovrastata dalla loggia-belvedere.
Nel presbiterio l’altare in marmo e pietre semipreziose con
fregi e statuette in bronzo dorato. Sull’altare maggiore “Immacolata” di
Mariano Rossi.
Nelle successive a destra Crocifisso ligneo barocco inserito
fra tele raffiguranti i Dolenti opere di Gioacchno Martorana, a sinistra
“L’Incoronazione di S. Rosalia” del Cedri ma forse di Gioacchino Martorana che
dipinse insieme al padre Pietro le piccole tele laterali dell’aula con “Storie
di S. Benedetto”. Nella volta affresco di Pietro Martorana fra stucchi
raffigurante la “Gloria di S. Benedetto”.
Altare Maggiore con
quadro dell’Immacolata
Altare di San Nicola e del SS. Crocifisso
Altare di San Benedetto e di Santa Rosalia
Volta affrescata con San Benedetto
Coro barocco
Reliquia della Croce in una foto del 1924
Reliquia della Croce in una incisione del 1600
Reliquia della Croce nell’attuale reliquario
Nel 1866 venne approvato il piano di risanamento detto
Giarrusso che prevedeva la realizzazione di una nuova arteria per collegare la
Stazione ferroviaria con il porto e il taglio della nuova strada (attuale via
Roma) venne realizzato con un semplice righello sulla pianta della città
distruggendo ciò che incontrava al suo passaggio. La chiesa di S. Rosalia era
proprio sulla riga per cui nel 1922 venne sacrificata insieme al monastero: la
vittima più illustre della nuova arteria.
La Chiesa di Santa
Rosalia allo Stazzone vista dalla stazione centrale in una foto dei primi del
1900.
Si nota il loggiato e
sulla sinistra la Chiesa di San Giovanni dei Tartari.
La Chiesa di santa
Rosalia era decentrata rispetto alla Stazione e poteva essere salvata.
Chiesa di S. Rosalia
allo Stazzone in fase di demolizione
Tuttavia alcune irregolarità nel 1907 portarono ad una
commissione di inchiesta dapprima comunale, e successivamente, dato che il
Governo italiano aveva tutto l’interesse a chiudere subito questa vicenda,
anche parlamentare. E infatti il
Governo assolse tutti…ma solo dopo averli sgridati! Il Giornale
di Sicilia non le mandò a dire e denunciò i brogli: .. non mancarono casi
evidenti di favoritismo nell'assegnazione delle aree e negli atti, legittimati
dalla mancanza del tempo necessario alla redazione completa degli stessi,
dall'incalzare dei lavori, da sopravvenute necessità e dalla volontà di dare
lavoro alle masse operaie. Dall'inchiesta emersero supervisioni troppo
affrettate da parte dei funzionari di controllo, mancati inoltri a organismi
competenti, intese e ordini verbali, giustificati
da “assoluta buonafede” dei funzionari pubblici. [..]
concessioni edilizie rilasciate senza opportuni controlli sull'adempimento
degli obblighi assunti dagli imprenditori con il Comune.
Decine di miglia di persone restarono senza casa, perché le
promesse di risistemare gli sfrattati andarono in larghissima parte a vuoto….e
fu cosi che i palermitani ebbero una ragione in più per emigrare in America, ed
infatti il 1908-1909 furono gli anni
di maggiore fuga in America da Palermo! La differenza tra
risanamento e piano regolatore era molto semplice: le opere espropriate per
risanamento venivano pagate pochi soldi, quelle per piano regolatore molto di
più E così alcuni si arricchirono e tanti restarono senza casa….
Unico ricordo: la via S. Rosalia all’inizio di via Roma che
ricorda questo monumento.
Quasi tutte le opere d’arte furono salvate. Il portale
smontato venne portato allo Spasimo, il sontuoso altare maggiore si trova nella
chiesa di Regina Pacis al quartiere Matteotti. Le tele del Serenario al Museo
Diocesano come anche l’Immacolata dell’altare maggiore, le piccole tele delle
pareti e i Dolenti del Crocifisso del Martorana. Il grande Crocifisso ligneo
invece si trova nella chiesa di S. Giovanni apostolo al Cep. Resti
dell’affresco della volta sono custoditi a palazzo Abatellis. La tela con
l’Incoronazione della Santa oggi si trova esposta nella chiesa del SS.
Salvatore in corso Vittorio Emanuele. La statua di marmo della Santuzza si
trova invece nella nuova chiesa di S. Rosalia in via Marchese Ugo edificata
quale espiazione per la distruzione dell’unica chiesa dedicata alla Patrona
della città. Due splendidi paliotti ricamati con coralli sono oggi al Museo Diocesano,
uno di essi in esposizione permanente.
Un ultimo particolare su quest’antica chiesa distrutta.
Perché era detta “Santa Rosalia allo Stazzone “?
“Stazzone” era il termine che indicava il quartiere famoso
anche per la presenza di antiche mura che furono distrutte.
Il termine “stazzone”
indicava il luogo dove si lavorava la creta per la produzione di tegole, vasi,
tubi (detti “catusi”) per le acque meteoriche.
Gli “stazzunari” erano una maestranza molto attiva a Palermo
tanto da dare nome a diverse strade e vicoli della città.
Un mestiere artigianale con origini molti antiche. La
testimonianza più antica sulla presenza nel territorio dei “stazzunari”
risalirebbe al 20 febbraio 1374 quando il notaio palermitano Antonio Cappa
acquistò dal “magister Manfredi” una
quantità di tegole “in stazone flumen
Admirato (Oreto)”.
Ad una di queste aziende artigianali, il 27 marzo 1789, si
rivolse anche il famoso architetto Dufourny impegnato nella costruzione
dell’Orto Botanico.
Commissionò mattoni e successivamente, soddisfatto sulla
fornitura del materiale, ordinò dei vasi in stile etrusco.
L’antichissimo quartiere si estendeva da Porta Sant’Agata a Porta Termini
(distrutta nel 1852) e il cui asse principale doveva essere quello delle
attuali vie Torino e Milano.
Un quartiere che cessò di esistere con il “taglio” di Via
Roma e la conseguente costruzione di palazzi lungo i prospetti della nuova via.
La via Stazzone, tra via Guadagna e Via Oreto, che si trova in prossimità del ponte di Via
Oreto, non so se abbia qualche attinenza
con il quartiere omonimo.
D’altra parte per la presenza di queste attività artigianali
lungo il fiume Oreto, i Palermitani chiamarono quest’area, a partire dalla
seconda metà del Quattrocento, “la
contrada de li critari”.
Fabbriche che rimasero attive fino alla fine del 1700/1777,
anno in cui iniziarono i lavori per la costruzione del nuovo ponte sul fiume
Oreto.
Un fiume Oreto che un tempo era famoso per le sue acque
medicamentose… come riporta sul finire del XVIII secolo l’abate Francesco
Ambrogio Maja nel suo libro “L’Isola di
Sicilia Passeggiata..”….”l’Oreto vicino alla foce, dietro lo stazzone, forma un
piccolo pantano delizioso, per la caccia e pesca; e passato il suo gran ponte
si prendono gli bagni freschi contra l’infermità che procedono da saldezza; e
ci si bagna per delizia…”
Con il termine “Stazzone”, come riporta lo storico Mario Di
Liberto, nel suo stradario di Palermo, s’intendevano anche “le acque che stagnavano in un luogo con poca pendenza verso il mare”.
Foto risalente agli
inizi del XX secolo.
È un tratto della Via
Lincoln compreso tra Piazza Giulio Cesare (Stazione) e
Porta di Vicari. in
secondo piano, si notano un tratto delle antiche
mura dello Stazzone.
Quartiere dello
Stazzone
Cortile “Mura allo
Stazzone” – foto risalente al 1905
Nel 2013 fu restaurato l’affresco di Pietro Martorana
(Palerno 1705; 1759) che si trovava nella distrutta Chiesa di Santa Rosalia e
di cui si erano perdute le tracce…
L’opera era stata dedicata alla Santa e raffigura un gruppo
di angeli che porta in gloria San Benedetto.
Gloria di San
Benedetto
Un capolavoro che si riteneva distrutto.. fu invece
ritrovato nei depositi di Palazzo Abatellis.
L’affresco è purtroppo tratto dalla parte centrale della
volta della distrutta chiesa di Santa
Rosalia..
L’annesso Monastero aderiva infatti, come già citato,
secondo la tradizione seicentesca all’Ordine delle Benedettine.
Fu restaurato anche una tele che il figlio di Carlo
Martorana, Gioacchino, eseguì per la navata sempre della Chiesa di Santa
Rosalia.
Santa Rosalia al cospetto della Trinità
Via Stazzone e Via Santa Rosalia
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22. Documenti
Il DOCUMENTO DELLE SPOGLIE DI SANTA
ROSALIA RICONSEGNATE ALLA CURIA
“ Nel documento in
esame (parte A), è descritto, dopo il parere di autenticità espresso dalla
Commissione, il momento della restituzione dei resti della Santa effettuata dal
cardinale Doria alle autorità della città, con la precisa e puntigliosa
descrizione delle ossa e la conferma, per la stragrande parte, della loro
condizione di ossa inglobate in concrezioni calcaree.
Nella prima carta
(c.293), lungo i margini laterali e superiori si rilevano le annotazioni
notarili e si trova l’esempio di un certo malvezzo, in uso fino a tempi
recenti: quello della donazione, per motivi devozionali, di particelle di ossa
di santi, da mettere in reliquiari appositamente realizzati.
Nel caso in esame
alcune parti delle ossa furono donate alle autorità presenti al momento della
riconsegna e in seguito (ASCP, Atti del Senato, 1625, v.239/61, cc.549 e ss.) anche
inviate al re Filippo IV di Spagna (III di Sicilia) e al conte-duca di
Olivares, Gaspar de Guzman, suo braccio destro”.
ASCP, Atti del Senato, vol.239/61,
cc. 293r – 294r
(Parte
A)
Eodem 22 februarii VIII
indictionis 1625
Consignatio reliquiarum S.Rosolie
Illustrissimus
dominus don Joannettinus Doria cardinalis sancte Romane/ecclesie et
Archiepiscopus panhormitanus ad presens locum/tenens in hoc Sicilie regno per
Sua Catholica Majestate presens in/ eius palacio archiepiscopali coram
magistratibus/ tam magne regie curie quam tribunalis regii patrimonii,/
illustribus presidibus huius regni et nonnullis aliis consiliariis/ eiusdem
regni, traddidit et consignavit illustri senatui/ panhormitano et pro eo
illustri don Nicolao Placito Branci/forti comiti Raccudie Pretori, spectabili
Didaco Blaschi/ priori, don Mariano Agliata et Spatafora, Thome/ de
Accaxina, don Francisco Ricchisens baroni sancti Iacobi/ et don Petro de
Septimo Iuratis, et don Jacobo Agliata/ Sindaco eiusdem urbis, presentibus et recipientibus
re/liquias et ossa infrascripta gloriose Sancte Rosolie, civis/ et patrone
huius civitatis panormitane, noviter reperta/ in antro montis Pellegrini, huius
predicte urbis, dum/ pestis atrocissima hanc urbem depascebat. Videlicet: pars/
maior cranii superioris, fragmentum partis superioris/ cranii, pars cranii
inferior sive basis cum/ foramine occipitii seu nuche et partibus ossium/
digitorum, duo frustula ossis cranii. Pars destera/ mandibule inferioris cum
quinque dentibus et molis/ apparentibus et cum parte mandibule superioris cum/
dente. Dimidia pars capitis humeri cui alligatum/ est fragmentum ossis. Pars
ossis spatule cum duabus/ portionibus ossis humeris et quatuor fragmentis
ossium/ in eodem lapide conglobatis. Pars ossis spatule cum/ parte ossis humeri
cum aliquibus fragmentis ossium/ in eodem lapide affixis; fragmentum spatule
cum/ multis ossium fragmentis eidem lapidis insertis; fragmentum/ ossis
spatule, pars spatule et fragmentum/ ulne, parum fragmentum spatule cum
fragmento/ ulne et fragmento ossis palme et parvo ossis/ fragmentulo. Pars
ossis brachii cum ossis frustulo./ Plurium ossium fragmenta cum portionibus
ossium/ ulne et radii et duorum capitulorum. Pars ulne brachii/ cum frustris
radii cum ossis capitulo spongioso/ et aliorum ossium fragmentis in eadem
massa. Fragmenta/ digitorum, costarum et ulne, ossa vole manus et/ digitorum in
qua inventus est globulus precarius./ Multa ossium capita eidem lapidi commixta
cum/ quinque globulis precariis apparentibus. Multa fragmenta/ costarum eidem
lapidi conglomerata, fragmentum coste/ et eius capitulum, fragmenta plurium
costarum. Nota/bilis pars coste, fragmentum coste cum alio fragmento/ ossis
alterius, fragmentum vertebre cum alio fragmento/ parvulo coste in duabus
lapidi bus; undecim fragmenta/ costarum in totidem lapidibus indita, decem
alia/ frustula earumdem costarum. Pars
maxima ossis clunis/ divisas in duas partes. Pars capitis femoris cum/
porcione ossis femoris. Pars capitis femoris et alia/ ossium frustra in eodem
lapide. Pars ossis femoris/ cum fragmentis ossium eidem lapidi affixis. Pars
ossis/ femoris. Quatuor fragmenta ossium femoris eodem/ lapide conglutinata.
Pars ultima femoris cum multis/ fragmentis radiorum. Pars ultima ossis sacri
cum/ aliquibus spondilibus. Pars ossiis pubis. Pars ossis tibie/ sine lapide.
Tria fragmenta tibie, caput tibie/ cum fragmento alterius ossis. Notabile
fragmentum/ ossis cruris. Segmenta duo tali fragmenta ossis di/gitorum;
fragmenta plura ossiculorum digitorum/ fragmentum capituli; fragmentum
capituli et alterius/ ossis in tribus lapidibus; varia ossium fragmenta in/
eodem lapide coniuncta. Plura ossium fragmenta in/ uno lapide; varia ossium
fragmenta parvula./ Quequidem reliquie et ossa, dicte sancte Rosolie, fue/runt
posita et clausa in quodam baullum intus fode/ratum serice cremisine, copertum
villuti/ cremisini et positum in quadam arca/ et deforis tela argentea
arca/ cum rosea corona et lilio de super dictam arcam. Que arca/ cum dictis
reliquiis intus fuit humeris delata a canonici/ mayoris panormitane ecclesie
associata in processione a capitulo/ et clero et nonnullis aliis sacerdotibus
et clericis/ huius urbis cum pluribus facibus et luminibus accensis et/ populi
magno applausu et devotione in dicta mayore/ panormitana ecclesia et intus sacellum
dive Crispine in eadem/ mayori panormitane ecclesie existentem unde, ad futuram
rei memoriam,/ factus est presens actus de mandato dicti illustrissimi Domini
Archiepiscopi/ vive vocis, oraculo spectabili Francisco Mutio, regio magistro
notario,/ factus est presens actus.
Die 25 februarii VIII
indictionis 1625.
(Parte
B)
Die 4 maii 8 Indictionis / 1625
Fuerunt per illustrissimum et Panhormitanum/
dominum Cardinalem Ab Aurea,/ Archiepiscopum panhormitanum et locum/tenentem
huius Sicilie regni,/ sumpta de reliquis cor/poris sancte Rosalie
exsistentibus/ in arca dicte sancte Rosalie/ conservati in Maiori/ panormitane
Ecclesie, nominatis et de/scriptis in proximo collate/rali actu infrascripta
fragmenta/ tenoris sequentis videlicet: fragmentum/ lapidis cui sunt indita/
septem fragmenta ossium/ sancte Rosalie sancte panor/mitane videlicet: tria ex
fe/more unum ex costis legi/timis, unum ex costis mo/vielosis dua parva
frag/menta ex costis, item/ fragmentum ossis femo/ris lapide circumvolutum/
sancte Rosalie panormitane. Item:/
pars ossis femoris, frag/mentum coste et capituli/ fragmentum capituli./ Pars
ossis bracchii cum/ ossis. Qua fuerunt/ traddita et presentata/ per dictum
illustrissimum archie/piscopum illustri don/ Nicolao Placito Bran/ciforti
comiti Raccu/die pretori, et spectabili/ Don Mariano Agliata et Spatafora, don
Ludovico Spatafora, Didaco de/ Blaschis, Thome de Accassini, don Francisco
Requisens baroni sancti Jacobi et/ et don Petro de / Septimo, iuratis et/ hoc
pro devocione/ Ipsorum illustri et spectabilis/ pretoris et iuratorum/ senatus
huius urbis ra/precintantium anni/ presentis unde.
(Parte C)
Consignatio/
arce argenti et/ vitrie dive Ro/solie apparet in/ albi quondam notarius
Nun/tii Panitteri, detti/ notarius illustris senatus,/ sub die 27 iunii VIII
Indictionis 1625.
Il medesimo [giorno dell’atto precedente] 22 febbraio VIII
indizione 1625
Documento delle reliquie di S.Rosalia
(Parte A
– c.293r e ss.).
L’illustrissimo signore don
Giannettino Doria, Cardinale di Santa Romana Chiesa e Arcivescovo di Palermo,
attuale Luogotenente in questo regno di Sicilia per conto di Sua Cattolica
Maestà, presente nel suo palazzo arcivescovile, davanti ai magistrati sia
della Magna Regia Curia che del Tribunale del Regio
Patrimonio, illustri tutele di questo regno, e di alcuni altri consiglieri
dello stesso regno, ha affidato e consegnato all’illustre Senato palermitano e
per conto di questi all’illustre don Nicolao Placito Branciforte conte di
Raccuglia pretore, allo spettabile Didaco Blasco priore, a don Mariano Agliata
e Spatafora, a Tommaso de Accascina, a don Francesco Ricchisens barone di san
Giacomo e don Pietro de Settimo Giurato e don Giacomo Agliata sindaco della
stessa città, presenti e riceventi, le reliquie e le ossa, di seguito
trascritte, della gloriosa Santa Rosalia, cittadina e patrona di questa città
di Palermo, da poco tempo trovate nella grotta di Monte Pellegrino, di questa
predetta città, mentre una peste atrocissima distruggeva la città. Vale a dire:
la maggior parte del cranio superiore, un frammento della parte superiore del
cranio, parte inferiore del cranio o della base con il foro dell’occipite o
nuca e parti delle ossa delle dita, due pezzetti di ossa del cranio. Parte
destra della mandibola inferiore con cinque denti e i molari in evidenza e con
parte della mandibola superiore con dente. La metà della testa dell’omero a cui
è attaccato un frammento d’osso. Parte dell’osso della spalla con due parti
dell’osso dell’omero e quattro frammenti di ossa agglomerati nella stessa pietra.
Parte dell’osso della spalla con parte dell’osso dell’omero con alcuni
frammenti di ossa attaccati nella stessa pietra; frammento di spalla con molti
frammenti di ossa infissi nella stessa pietra; frammento di osso della spalla,
parte della spalla e frammento di ulna; poco frammento di spalla con frammento
di ulna e frammento d’osso del palmo e piccolo frammentino d’osso. Parte
dell’osso del braccio con un pezzetto d’osso. Frammenti di più ossa con parti
di ossa di ulna e di radio e di due piccole estremità. Parte dell’ulna del
braccio con pezzetti di radio con testa di osso spugnoso e altri frammenti di
ossa nello stesso blocco. Frammenti di dita, di costola e di ulna, ossa del
palmo della mano e di dita ove si è trovato un grumolo effimero. Molte punte di
ossa frammischiate nella stessa pietra con cinque grumoli effimeri. Molti
frammenti di costole inglobati nella stessa pietra; frammento di costola e del
suo apice; parecchi frammenti di costole. Notevole parte di costola con altro
frammento di un altro osso; frammento di vertebra con altro frammento piccolo
di costola in due pietre; undici frammenti di costole all’interno di
altrettante pietre; altri dieci pezzetti delle stesse costole. La maggior parte
dell’osso della natica diviso in due parti. Parte della testa del femore con un
pezzo di osso del femore. Parte della testa di femore e altri pezzetti di osso
nella stessa pietra. Parte dell’osso del femore e altri pezzetti di osso nella
stessa pietra. Parte dell’osso del femore con frammenti di osso infissi nella
stessa pietra. Parte dell’osso del femore. Quattro frammenti di osso del femore
inglobati nella stessa pietra. Ultima parte del femore con molti frammenti di
radio. Ultima parte dell’osso sacro con alcune vertebre. Parte dell’osso del
pube. Parte dell’osso della tibia senza pietra. Tre frammenti di tibia, apice
di tibia con frammento di altro osso. Notevole frammento di osso della gamba.
Due segmenti di astragalo, frammenti di osso di dita, parecchi frammenti di
ossa di dita; frammento di piccola punta, frammento di piccola punta e di altro
osso in tre pietre; diversi frammenti di osso congiunti nella stessa pietra.
Parecchi frammenti di osso in una pietra; vari frammenti piccolini di ossa.
Tutti i resti mortali e le ossa della detta santa Rosalia furono posti e chiusi
in un’urna foderata all’interno di seta rossa, coperta di velluto rosso e posta
in una specie di arca e, di fuori l’arca, tela argentea con corona di rosa e
giglio al di sopra della detta arca. La quale arca, con dette reliquie all’interno,
fu portata a spalla dal clero regolare della Maggiore Chiesa palermitana
(Cattedrale), associati in processione al Capitolo e al clero e ad alcuni altri
sacerdoti e Clerici di questa città; con parecchie fiaccole e lumini accesi e
con grande applauso e devozione del popolo, nella detta Maggior Chiesa
palermitana, dentro la cappella della divina Cristina esistente nella stessa
Maggior palermitana Chiesa, donde a futura memoria della cosa, fu redatto il
presente atto su mandato, di viva voce del detto illustrissimo Signor
Arcivescovo, fu fatto il presente atto con parere dallo spettabile Francesco
Muzio, regio maestro notaio.
Addì 25
febbraio VIII indizione 1625
(Parte B –
c. 293r)
Nel giorno 4 maggio 8ª indizione 1625 furono, dall’illustrissimo e
palermitano Signor Cardinale D’Oria, Arcivescovo palermitano e luogotenente di
questo regno di Sicilia, scelte delle reliquie del corpo di santa Rosalia
esistenti nell’arca di detta santa Rosalia, conservate nella Maggior
palermitana Chiesa, nominate e descritte nel vicino adiacente atto. I frammenti
di seguito descritti del modo che segue, vale a dire: frammento della pietra in
cui sono inglobati sette frammenti di ossa di santa Rosalia santa palermitana,
cioè: tre dal femore, uno dalle costole fisse, uno dalle costole mobili, due
piccoli frammenti dalle costole. Parimenti, frammento dell’osso del femore
circondato dalla pietra di santa Rosalia palermitana. Ugualmente: parte
dell’osso del femore, frammento di costola e della parte apicale, frammento
della parte apicale, parte dell’osso del braccio con dell’osso. Queste furono
consegnate e presentate dal detto illustrissimo Arcivescovo all’illustre don
Nicolao Placito Branciforte, conte di Raccuglia pretore e allo spettabile don
Mariano Agliata e Spatafora, a don Ludovico Spatafora, a Didaco de Blaschis, a
Tommaso de Accascina, a don Francesco Requisens barone di San Giacomo e a don
Pietro de Septimo, giurati, e ciò per devozione degli stessi illustrissimi e
dello spettabile pretore e dei giurati del senato rappresentanti di questa
città dell’anno presente, ovunque.
( Parte C – c.293r,
margine centrale destro).
La prova scritta
dell’arca d’argento e di vetro della divina Rosalia, compare nell’albo un tempo
del notaio Nunzio Panitteri, del detto notaio dell’illustre Senato, nel giorno
27 giugno VIII indizione 1625.
http://www.santuariosantarosalia.it/l4/ )
(*Girolamo Mazzola:
già bibliotecario e paleografo presso l’Archivio Storico comunale di Palermo e
dal 2012 archivista volontario al Santuario di S. Rosalia)
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23. SANTUARIO
MARIA SS. DEL ROSARIO (MADONNA DI TAGLIAVIA - 5 PIETRE)
Giunti nei pressi
degli agriturismi “Sant’Agata” e “Masseria Rossella” si scende verso sud lungo
la Strada Provinciale n. 5. Giunti, dopo
2,50 km, ad un bivio si prende a sinistra la Strada Provinciale n. 104 per
raggiungere il Santuario della Madonna di Tagliavia (4,5 km). Un percorso che esula dall’”Itinerarium
Rosalie” ma che permette di visitare un centro importante non solo per i suoi
aspetti religiosi ma anche sociali, rivolti ai più deboli.
Il Santuario di Maria
Santisssima del Rosario di Tagliavia sorge nella località omonima e appartiene
alla Diocesi di Monreale. Si trova lungo la Magna Via Francigena che collegava
Palermo con Agrigento.
Nell’area confluiscono le
strade campestri provenienti da Marineo, Godrano, Mezzojuso, Piana degli
Albanesi, Santa Cristina di Gela, San Cipirello e Ficuzza.
Il santuario si trova nell’ex
feudo di “Rahalmia” che è documentato in un reale privilegio di Guglielmo II di
Sicilia risalente al 1182.
La storia del Santuario è
legata ad una leggenda.
Nell’area adibita a pascolo e colture di
cereali, i fratelli Lo Jacono, allevatori ed affittuari del feudo “Strasatto”,
nel rimuovere un cumulo di sassi per costruire un recinto, trovarono una lastra
d’ardesia, perfettamente levigata e squadrata.
Rivoltata la lastra
scoprirono che vi era disegnata l’immagine della Vergine del Rosario.
La Vergine è raffigurata
nell’atto di donare un Rosario a San
Domenico di Guzman. In braccio alla Madre c’è il piccolo Gesù nell’atto di
porgere una corona di spine a Santa Caterina da Siena in ginocchio.
Si creò un piccolo altare di
pietra per riporvi il quadro e successivamente un ricovero di fortuna dato che
iniziarono subite dei pellegrinaggi di
devoti e anche di romiti.
Il quadro di Maria SS. del Rosario di autore ignoto
L’immagine del quadro si
collega al tema trattato dal grande pittore fiammingo Van Dyck nel quadro che
fu commissionato dall’Oratorio del Rosario di San Domenico dal titolo “Madonna
del Rosario”. Un opera legata al ritrovamento delle spoglie della Santa Rosalia
e il consegunete miracolo della pesta debellata nel 1625 e ad un altro quadro,
con il medesimo soggetto, opera di Mario Miniiti. Tutti opere d’arte che
contribuirono alla diffusione del culto della Madonna del Rosario.
Il ritrovamento fu
accompagnato dall’affioramento di una sorgente d’acqua che fu ritenuta
miracolosa per i suoi effetti taumnaturgici. Alcuni animali gravemente ammati
guiarirono bevendo quell’acqua.
I romiti si adunarono
spontaneamente in contrada Tagliavia. Prima vissero in ambienti di fortuna,
piccole stanzette con l’intento di creare una piccola cappella per la preghiera
e l’adorazione, soprattutto nel periodo invernale particolarmente rigido nella
zona.
Sembra che un certo Perricone
Giuseppe realizzò una piccola cappella per ringraziare la Madonna per una
grazia ricevuta (la guarigione di un braccio paralizzato). Fino al secolo
scorso era abitudine dei pastori portare i loro animali al santuario per essere
benedetti “affinchè il prodotto del
bestiame fosse più redditizio”.
Ficuzza – (Pa) - “Casina” di caccia dei Borboni
Anche Ferdinando I di Borbone, dalla sua residenza di
caccia della Ficuzza di tanto in tanto si recava nella vicina contrada
Tagliavia per affidarsi ai poteri di
quell'acqua medicamentosa.
Colpito da un male indefinito ad un ginocchio, si dissetò
alla fonte e guarì. L'11 ottobre 1811 per riconoscenza alla Vergine, donò ai
romiti raccolti attorno al primitivo nucleo, che nel frattempo si stava
erigendo, oltre a svariate salme di terreno, concesse un assegno annuo, il
diritto a cento carri di legna da ardere ogni anno e numerose altre regalìe.
Inoltre il sovrano formulò la promessa che, se per intercessione
della Vergine fosse rientrato in possesso del trono di Napoli, avrebbe
assegnato al santuario la parte restante del feudo di Tagliavia. Il sovrano
esaudito nel possesso del trono del Regno delle Due Sicilie, mantenne la
promessa concedendo le restanti 35 salme, come testimoniato da atto presso
notaio Domenico Caruso, saggio di Monreale, approvato dal luogotenente generale
dei Reali Domini dei Borbone, Paolo Ruffo di Bagnara, principe di
Castelcicala e duca di Calvello.
Monsignor Gabriele Maria Gravina benedisse la prima pietra
del nuovo eremitaggio (1813 – 1816) con
chiesa annessa e ben presto con i primi proventi, alle stanzette degli eremiti
si aggiunse la primitiva chiesetta.
La struttura si rivelò insufficiente. Nell'anno 1841, col
proposito di ingrandire il luogo di culto, gli eremiti ottennero
dall'arcivescovo di Monreale, Domenico Benedetto Balsamo, il permesso di
edificare un nuovo tempio. Il cappellano Gaetano Alessi da Prizzi benedisse la
prima pietra, ovvero un santuario più grande inaugurato che fu inaugurato il 1
maggio 1845, giorno dell'Ascensione.
La primitiva chiesetta fu adibita a sacrestia, e lentamente
sorsero altre strutture attorno all'eremo.
In epoca contemporanea il santuario fu curato fino al 1965
dagli eremiti.
L'11 febbraio 2012 il tempio fu affidato dall'arcivescovo di
Monreale Salvatore Di Cristina alla comunità di frati e suore di
Maria della “Famiglia Mariana le Cinque Pietre”.
Risale al 12 febbraio 2012 l’affidamento del santuario
diocesano Maria Santissima del Rosario di Tagliavia alla cure pastorali della
comunità mariana “Cinque Pietre” proveniente dal santuario mariano Madonna del
Frassine, in provincia di Grosseto.
Fino a quel momento ad occuparsi della chiesa era stato
l’arciprete di Corleone che assicurava le celebrazioni domenicali e di
precetto.
I Il nome “Cinque Pietre” ricorda il numero di sassi che il
pastorello Davide, in seguito diventato re, raccolse per difendere il suo
popolo dal gigante Golia. Sul Crocifisso che portano al collo hanno incastonato
cinque pietre: l’Eucarestia, di colore azzurro; la Preghiera, bianca; la
Confessione, di colore rosso; la Bibbia, gialla: e il digiuno, di colore viola.
Cinque sarebbero anche le “armi” che la Madonna ha
raccomandato a Medjugorje (la comunità è molto legata al centro religioso):
l’Eucarestia, la Confessione, la Preghiera, il Digiuno e la Sacra Bibbia.
Si raggiunge il piano di
calpestio del piccolo pianerottolo antistante il portale principale mediante
due rampe di scale. La facciata è chiusa prospetticamente da due campanili
gemelli a base quadrata con cupolini, tra loro raccordati da muretto con croce
in ferro battuto centrale.
Realizzata in conci squadrati
di pietra arenaria, presenta lesene binate ai lati e una parte
centrale, compresa fa lesene sovrapposte, lievemente aggettante che include
il portale d'ingresso a livello inferiore, e un finestrone al secondo
ordine.
L'elaborato cornicione
include al centro un timpano triangolare contenente un altorilievo in marmo. Le
celle campanarie presentano quattro aperture e le cupolette un'originale
decorazione. I prospetti laterali presentano alti e poderosi contrafforti.
Impianto a navata unica con cantoria all'ingresso
sostenuta da due colonne e tre archi. A livello superiore un'arcata con
finestrone centrale.
Navata
destra
Prima arcata fittizia: sulla parete è collocato il dipinto
raffigurante Santa Maria Assunta, manufatto documentato e
patrocinato da Andrea Di Cristina.
Seconda arcata: sulla parete è collocato il dipinto
raffigurante i Santi Paolo e Antonio eremiti, manufatto
documentato e patrocinato da Vito Riolo.
Terza arcata: sulla parete è collocato il dipinto
raffigurante la Sacra Famiglia.
Navata
sinistra
Prima arcata fittizia: sulla parete è collocato il dipinto
raffigurante il Battesimo nel Giordano.
Seconda arcata: sulla parete è collocato il dipinto
raffigurante la Natività e i Magi.
Terza arcata: sulla parete è collocato un Crocifisso fra
altorilievi in stucco, ambiente patrocinato secondo documentazione da Francesco
Nacchetti.
Pulpito ligneo, manufatto addossato alla parete.
Nell'aula è documentato altresì il dipinto
raffigurante Santa Rosalia, manufatto patrocinato da Andrea Di
Cristina.
Altare
maggiore
L'area del presbiterio è delimitata
da balaustra, quattro pennacchi affrescati raccordano la cupola che
presenta un apparato decorativo in stucco realizzato da Giovanni Battista Noto
da Palermo. L'ambiente fu patrocinato da Vincenzo Schiavo da Monreale. Sulle
pareti laterali sono presenti affreschi raffiguranti il Ritrovamento
del dipinto e la Costruzione del tempio, ciascuno
delimitato dalle figure egli Evangelisti.
Nel grande nicchione absidale un timpano a
riccioli e volute sostenuto da colonne reca degli angeli sulle cimase.
All'interno è incluso un timpano similare, di proporzioni più contenute,
con lesene che costituiscono la sopraelevazione altare versus
Deum, Altri angeli sulle cimase reggono frange di un baldacchino che svela
il monogramma mariano contornato da teste di putti alati osannanti nella parte
intermedia. Al centro dell'edicola è incastonato il sacro dipinto.
24 -
I TERRENI DEL MONASTERO DI
TAGLIAVIA ERANO UN FEUDO DELLA
MAFIA - Oggi appartengono alla “MISSIONE
SPERANZA E CARITA’”
del Missionario BIAGIO CONTE…un importante affidamento per i suoi
risvolti
sociali verso i più deboli - La prima Fattoria Solidale in Sicilia
Il Santuario ha vissuto momenti di storia che nulla hanno a
che vedere con la sua anima religiosa.
Due pagine, di cui una che potremo definire “moderna” e legata alla mafia, ed una risalente al
1940.
Per circa trent’anni i terreni della Diocesi di Monreale,
posti attorno al Santuario della Madonna di Tagliavia furono un “feudo
personale” di Totò Reina…
Un feudo, come ai tempi delle investiture normanne, sveve ed
aragonesi, di potere e di rispetto arricchito, a differenza dei tempi storici,
da benevoli e cospicui fondi europei.
Le indagini della Procura e dei Ros portarono al
commissariamento per sei mesi
dell’Azienda Agricola “Santuario Maria SS del Rosaio di Tagliavia.
Nel luglio 2018 venne revocato dal Tribunale Misure di
Prevenzione, il provvedimento di commissariamento grazie anche alle azioni
intraprese dall’arcivescovo di Monreale, Mons. Michele Pennisi, per rompere
definitivamente qualsiasi pericolo d’infiltrazione mafiosa nell’azienda.
Fu infatti nominato non solo un nuovo rettore, con relativo
consiglio d’amministrazione, ma furono anche presi accordi con la “Missione
Speranza e Carità” di Biagio Conte per un affidamento dell’azienda.
I sei mesi di commissariamento furono importanti per
l’azienda perché si riuscì a fare luce su un mondo sommerso d’intrighi e
convivenze degne di un romanzo …
Si chiese in quel periodo il licenziamento dell’unico
dipendente, con contratto dal 2001 e sempre prorogato di anno in anno. Il dipendente,
Francesco Di Marco era figlio di Vicenzo, cioè il giardiniere ed autista della
famiglia Riina e nipote di Antonino, che i verbali definivano come l’ultimo
reggente del mandamento di Corleone.
Il licenziamento fu firmato dal presidente delle Misure di
Prevenzione dott. Raffaele Malizia.
Fu anche scoperto che in passato l’azienda agricola della
Curia di Monreale aveva concesso il diritto di pascolo sulle proprie terre
attorno al Monastero a due pastori.
Uno era il nipote della moglie di Giovanni Grizzaffi, il
nipote di Riina scarcerato all’inizio di luglio dopo trent’anni di carcere, il
“messia” come veniva chiamato nelle intercettazioni telefoniche. Comunque anche
i due pastori furono allontanati dall’azienda.
Tutti i terreni sono stati poi affidati in comodato d’uso
gratuito alla Missione Speranza e Carità di io Conte che già ne gestiva una
parte.
Il 29 ottobre 2018 grazie al “Progetto Tagliavia” la
Missione di Speranza e Carità di Biagio Conte ricevette in dono, nella sede di
via Decollati 21 a Palermo, delle sementi e attrezzatura per migliorare e
potenziare la produzione agricola e casearia del “Fondo Maria SS del Rosario”
che diventò la prima “Fattoria Solidale” in Sicilia.
“11.400 chili di
sementi scelte tra cereali, leguminose e piante ortive, di cui 8mila di
grano duro, 700 di orzo, 900 di piselli, 1000 di fave, 600 di veccia, 200 di
trifoglio; 15mila chili di concimi specifici per grano e
leguminose, 13 litri di diserbante per fave; una vasca
refrigerante per la conservazione del latte della capacità di 600 litri”.
Fu istituito anche un corso di caseificazione rivolto agli
ospiti della Missione per qualificare gli operatori e per permettere un
successivo inserimento dei corsisti nel mondo del lavoro-
“I prodotti derivati dalla coltivazione del
fondo e dall’allevamento di ovini e bovini – ha proseguito don Pino Vitrano, sacerdote della Missione – saranno utilizzati dalla mensa della Missione Speranza e Carità di
Biagio Conte per la preparazione dei pasti destinati ai ‘fratelli ultimi’ della
Missione”.
“Per il miglioramento delle produzioni
aziendali ed alleviare la Missione dei costi relativi – ha
sottolineato Giuseppe Miceli, agronomo, che da anni collabora
volontariamente con la Missione – abbiamo fornito loro 11.400 chili
di sementi certificate di cereali, leguminose, piante ortive, concimi e
diserbanti che, con la consulenza degli specialisti, verranno utilizzati con il
massimo rispetto dell’ambiente, allo scopo di ottenere le più alte rese
produttive”.
Il Progetto, promosso dal Rotary Club Palermo Agorà,
presieduto da Antonietta Matina, fu condiviso dai Rotary: Palermo Ovest
(presidente Michelangelo Gruttadauria), Palermo Nord (Presidente Girolamo
Sparti), Cefalù (presidente Salvatore Piscitello) e Baia dei Fenici (presidente
Francesco Dones). Importante per l’iniziativa fu il contributo della Rotary
Foundation e del Distretto 2110 Rotary International per l’area “Sviluppo
Economico e Comunitario”.
“La
Fondazione Rotary – ha aggiunto Giombattista Sallemi, governatore
del Distretto 2110 – è un’associazione senza fini di lucro ed è
il fiore all’occhiello del Rotary, è lo straordinario braccio operativo che
permette ai rotariani di fare del bene nel mondo con
progetti umanitari ed educativi nelle sei aree di intervento: la prevenzione e
la cura delle malattie, la pace e la prevenzione-risoluzione dei conflitti,
l’acqua e le strutture igienico-sanitarie, la salute materna e infantile,
l’istruzione e l’alfabetizzazione di base, lo sviluppo economico e
comunitario”.
Attualmente il fondo è coltivato dai volontari della
Missione che allevano anche un esiguo contingente di bovini e ovini, dono di
benefattori locali. Il terreno tende a produrre grano duro, che viene molito
presso i locali della Missione, a Palermo, per ricavare pane e pasta da utilizzare
nella preparazione delle vivande destinate ai disagiati. La produzione del
fondo, però, riesce a coprire solo in piccola parte la grande richiesta degli
utenti. Ma attraverso la consulenza gratuita
di specialisti e tecnici rotariani della Facoltà di Agraria di Palermo,
dell’assessorato all’Agricoltura, si favorirà la razionalizzazione della
tecnica colturale per aumentare la qualità e la quantità delle produzioni
aziendali, visto lo scopo umanitario cui sono destinate.
Intanto, in rotazione con il grano, per conservare e
aumentare la fertilità del terreno e anche per il fabbisogno di ceci e
lenticchie, si coltivano leguminose da granella, piante ortive (cipolle patate,
pomodoro) le cui produzioni vengono utilizzate sempre nella Missione; mentre alcune
leguminose (sulla, veccia, trifoglio alessandrino) si utilizzano per la
formazione di erbai o prati per il pascolo del bestiame.
Festa del Grano – Tagliavia
Il Missionario Biagio Conte
L’Arcivescovo Pennisi
benedice il frutto della Terra
Una frase che molti dovrebbero imparare.... come i falsi predicatori..
Padre Puglisi ucciso dalla mafia....
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25. Monastero di Tagliavia
Nel 1940 un frate uccise due confrati – I drammatici risvolti delle
indagini
Un triste episodio avvenuto il 20 marzo 1940 e ancora, a
quasi un secolo di distanza, con tanti lati oscuri.
Mercoledì mattina, i frati partecipavano alla consueta messa
quotidiana celebrata dal cappellano don Felice Giambrone.
Durante la funzione frà Giovanni, Tommaso Carnesi, uscì
dalla tonaca un fucila da caccia e sparò contro il vice superiore, frà
Antonino, (Carmelo Di Benedetto di 71 anni), e il cuciniere frà Francesco (
Filippo Bongiorno di 74 anni).
L’omicida si diede alla fuga nelle campagne circostanti. I
feriti furono subito soccorsi da alcuni frati mentre altri frati (frà Eugenio e
frà Rosario) inseguirono l’omicida in gufa. Un omicida in preda a vera follia
tanto che nella fuga si fermò più volte per fare fuoco sugli inseguitori (una
prima volta con due colpi e una seconda con un colpo, per fortuna non andati a
segno). Riuscì alla fine a dileguarsi nelle campagne.
Il superiore del monastero, frà Giovanni Battista ( Agostino
Tantillo), fece trasportare i feriti all’ospedale civico di Palermo. Ma per
entrambi non ci fu nulla da fare. Frate Francesco a causa dell’emorragia
causata dalla lacerazione di un’arteria femorale morì prima di giungere
all’ospedale; Frate Antonino, a causa delle gravi ferire riportate al volto,
alla trachea ed a una spalla, morì purtroppo il giorno dopo.
Frate Antonino prima di spirare di fronte al magistrato cercò di scagionare il confrate
omicida.. «Ha agito in un momento
di pazzia, sparando a casaccio e senza prendere di mira alcuno, perché
nessun motivo di rancore poteva avere contro i frati e specialmente contro di
me».
Fra Giovanni rimase latitante per circa un mese e alla fine il 24 aprile venne catturato in un casolare nelle campagne nei pressi di Partinico.
Fra Giovanni rimase latitante per circa un mese e alla fine il 24 aprile venne catturato in un casolare nelle campagne nei pressi di Partinico.
Prima di essere catturato si gettò da una finestra per
tentare l’ennesima fuga ma fu un tentativo inutile perché venne inseguito e
catturato.
Negli interrogatori si finse infermo di mente per poi cedere
alla fine quando fu messo alle strette per i continui e stressanti
interrogatori. Spiegò la motivazione del suo gesto criminale e confessò di aver
sottratto dalle cassetta delle elemosine circa 7000 lire per curarsi la
tubercolosi (Le 7000 lire di allora rapportati alla cifra di oggi
corrisponderebbero a circa 5000 euro.
I frati Francesco ed Antonino avevano scoperto il furto e
frate Giovanni, vistosi scoperto, si rivolse al superiore che gli consigliò
di…”“far fuori” i due confratelli e poi,
per sfuggire alla galera, di fingersi pazzo”.
La morte di frà Antonino avrebbe liberato il posto di
vice-superiore a cui l’omicida aspirava da tempo.
Il lavoro degli investigatori fu attento e preciso perchè
riuscirono a ricostruire tutti gli appoggi che fra Giovanni aveva avuto nella
sua latitanza.
Anche il superiore del convento alla fine finì sotto
indagine e accusato di essere l’istigatore del delitto.
Nell’istruttoria il superiore venne però alla fine
prosciolto.
Nel processo l’omicida si finse sempre pazzo senza però
riuscire a convincere i giudici che lo condannarono all’ergastolo.
Chi aveva aiutato il frate nella sua latitanza fu colpito
dalla legge con pene varianti fra i 9 ed
i 12 mesi di reclusione per “favoreggiamento e falsa testimonianza”.
Frà Giovanni restò in carcere per circa quarant’anni e poco
tempo dopo la sua scarcerazione morì.
Nel rapporto di Polizia e consegnato alla Magistratura nel
maggio del 1940 fu riportato che il quel periodo il Monastero di Tagliavia “era abitato da persone poco amanti del
lavoro, che, solo a scopo di lucro, avevano indossato l’abito monacale”.
Fece scalpore nel rapporto che anche il “superiore Tantillo Agostino era un noto capeggiatore della mafia, già
processato per associazione per delinquere e correità in duplice omicidio,
sebbene poi prosciolto per non aver commesso i fatti, data la sua astuzia e le
sue facoltà di simulazione e dissimulazione”.
Il fatto fu riportato con clamore dalla stampa e la gente
del luogo mise in risalto il comportamento, non proprio cristiano dei frati:
"Quando giravano nei
paesi, quei monaci, più che questuare, pretendevano
[…] Un giorno, un
frate grande e grosso se la prese col suo mulo stracarico del
grano della questua,
che non ce la faceva a muoversi. Al culmine dell’ira, gli
s ferrò un violento
pugno in testa, che lasciò il povero animale tramortito per
terra. La verità è
che, in quel periodo, la mafia di Corleone e dei paesi vicini,
attraverso la presenza
dei suoi “picciotti”, utilizzava il convento di Tagliavia
per controllare un
vastissimo territorio agricolo, strategico per i suoi affari.4
“Voce di popolo, voce
di Dio”.. dice il proverbio…
Tutto era purtroppo vero perché all’epoca, i malavitosi del
Corleonese si servivano del convento di Tagliavia per esercitare il controllo
su un esteso territorio, strategico per i loro loschi affari; e d’altro canto
risultava evidente che la protezione di cui l’omicida aveva goduto durante la
latitanza gli era stata assicurata dalla mafia, che aveva un profondo
radicamento nella zona. Peraltro, il superiore Tantillo già alcuni anni prima
era stato indicato come "uomo d’onore" dal medico-boss Melchiorre
Allegra (considerato da alcuni il primo pentito di mafia), che nell’estate del
1937 alle forze dell’ordine, senza usare mezzi termini, aveva rivelato: «Quel monaco è un affiliato».
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26.
Una grande opera.. Il Quadro della “ PROCESSIONE DI SANTA ROSALIA ”
Opera di un ignoto Artista Siciliano del 1600 – Si trova a Siviglia .. proprietà
Duchi d’Alba
L’affascinante storia di Santa Rosalia finisce con la
descrizione di quadro… un’opera unica che raffigura una processione di 700
fedeli lungo le vie di Palermo, con 24 palazzi, e 28 “macchine” processionali.
una descrizione minuziosa, quasi irreale nata dall’arte di un pittore siciliano
ignoto.
È “La Processione di
Santa Rosalia” che fa parte della collezione internazionale della “Fundaciòn
Casa de Alba” che si trova esposto al “Palacio de las Duenas” a Siviglia.
Un quadro che si dovrebbe collocare verso la fino del
Seicento e che rappresenta l’unica testimonianza della processione delle
reliquie di Santa Rosalia così come fu descritta nel resoconto del Festino di ringraziamento
del 1693 (per aver debellato la peste).
Un vero documento storico perché raffigura anche la città
di Palermo ai tempi con i prospetti di alcuni dei suoi palazzi più
rappresentativi (edifici religiosi, civili e anche privati).
Edifici che rendevano la città come una delle più importanti
d’Europa.
Altra testimonianza la presenza di un’argentea arca con le
reliquie della Santa.
Naturalmente gli edifici sono disposti casualmente senza
cioè alcuna corrispondenza con la realtà.
Sono raffigurati:
- l’ospedale di S. Bartolomeo, in corso Vittorio
Emanuele nei pressi di porta Felice, l’edificio
bombardato è stato sostituito con l’edificio scolastico dell’Istituto Nautico;
-
il Palazzo della Città, attuale Palazzo Pretorio, successivamente modificato;
-
la chiesa di Santa Teresa, attuale chiesa esistente
nella piazza Kalsa;
-
il Tribunale Sacro di Sicilia, esistente
con trasformazioni, presso i cortili del complesso dello Steri, sede del
Rettorato;
-
la Vicaria, l’antico carcere sul Cassaro di
fronte piazza Marina, sostituito con il neoclassico
Palazzo delle Finanze;
-
la chiesa della Pietà, esistente chiesa in via
Torremuzza alla Kalsa;
-
il palazzo del principe di Villafranca, esistente
Palazzo Alliata di Villafranca in piazza Bologni sul lato lungo;
-
la Badia del SS. Salvatore; esistente in corso Vittorio
Emanuele di fronte la Biblioteca regionale;
-
il Palazzo del Principe della Roccella esistente in
corso Vittorio Emanuele di fronte il Liceo classico Vittorio Emanuele;
-
la chiesa di S. Matteo, esistente in corso Vittorio
Emanuele tra la via Roma e la via Maqueda;
-
il Palazzo del Duca della Fabbrica, esistente (con trasformazioni) in corso Vittorio Emanuele di
fronte la cattedrale tra le Paoline e palazzo Asmundo;
-
il Collegio Novo ex S. Maria della Grotta annessa
all’ex Collegio Masssimo dei Gesuiti, esistente, che si trova in corso Vittorio
Emanuele dove oggi è l’ingresso della biblioteca regionale;
-
il Palazzo del conte di San Marco ancora esistente,
oggi Palazzo Mirto;
-
la Badia delli Virgini, ancora esistente, oggi chiesa
di Monte Oliveto in via dell’Incoronazione alle spalle della Cattedrale;
-
il Palazzo del duca di Branciforti attuale palazzo
Branciforte, sede della Fondazione Sicilia;
-
il Palazzo del principe della Cattolica ancora
esistente in via Paternostro, nei pressi della chiesa di S.Francesco d'Assisi;
-
la chiesa dell’Olivella esistente nella piazza omonima;
-
il Palazzo Tarallo, esistente nel quartiere
dell’Albergheria, in via delle Pergole;
-
il Palazzo Geraci in corso Vittorio Emanuele,
attuale Palazzo Riso, fortemente trasformato a fine
Settecento;
-
la Cattedrale senza le
trasformazioni progettate da Ferdinando Fuga (cupola, campanile del
1726);
-
il Palazzo arcivescovile attuale Palazzo arcivescovile.
-
Palazzo di Carini non più
esistente in quanto bombardato, si trovava in corso Vittorio Emanuele di
fronte la Cattedrale, dove attualmente è la libreria delle Paoline;
-
la Chiesa delle Stimmate,
non più esistente, distrutta insieme alla Badia di S.Giuliano per creare il
piano del Teatro Massimo.
L’artista sembra quasi proporre un dialogo surreale tra la
città artificiale e il lungo corteo silenzioso che arriva alla Cattedrale.
La città è rappresentata come una sorta di corteo di pietra,
con le quinte di edifici in alta uniforme e le emergenze delle facciate
chiesastiche scelte per la loro modernità. Rilevante è l’aspetto
devozionale dell’opera. L’opera, nonostante ricada nel periodo in cui il
terremoto colpì la Sicilia, rappresenta gli edifici integri. Nell’opera
agiografia sulla Santa di padre Giovanni da San Bernardo viene sottolineata,
infatti, come la sua protezione abbia salvato i palermitani anche dalla
distruzione della città.
L’opera è più di una descrizione minuziosa degli edifici
religiosi, civili e pubblici. Molto di più di un racconto sul culto devozionale
di Santa Rosalia in tutto il mondo. È la prova pittorica della magnificenza del
Regno di Sicilia e della sua capitale Palermo. L’arte si sostituisce alle
parole e comunica con la sua forza dirompente utilizzando il registro
linguistico della religione perché tutti possano “vedere, ascoltare e sentire”.
Come mai il quadro, come detto, di un ignoto artista
siciliano si trova a Siviglia ?
Il quadro finì nella “collezione
della Duchessa d’Alba poco prima del suo definitivo allontanamento dalla
Sicilia”.
Si trattava forse della duchessa Maria Teresa Cayetana de
Silva Alvarez de Toledo (Maria del Pilar Teresa Cayetana de Silva Alvarez de
Toledo y Silva – XIII duquesa de Alba de Tormes) (Madrid, 10 giugno 1762;
Madrid, 23 luglio 1802) ?
Figlia di Francisco de Paula de Silva y Alvarez de Toledo e
di Mariana de Silva-Bazàn y Sarmiento.
Maria Teresa sposò nel 1775 Josè Maria Alvarez de Toledo,
che tra i suoi titoli era anche duca di Bivona.
Una donna che amava ricevere personalità politiche, della
cultura e della scienza. Tra i suoi favoriti anche il pittore spagnolo
Francisco Goya con il quale ebbe una presunta relazione.
Fu una delle donne più discusse del suo tempo. Molte sono le
leggende legate al suo comportamento stravagante. Dall’attrazione per i toreri
agli esagerati capricci; dalla tenerezza per i bambini e gli animali alla sua
passione per i travestimenti notturni per scandalizzare “l’alta società”.
Il 9 giugno 1976 morì a Siviglia il marito e la vedova, che
si trovava a Madrid, partì per Siviglia. Trascorse i mesi estivi a Sanlùcar,
sulla costa Andalusa, probabilmente in compagnia del pittore Goya.
Morì nel 1802,
all’età di quarant’anni per una tubercolosi, o come secondo le antiche voci,
fatta assassinare da Godoy su ordine della regina.
Aveva una favolosa collezione d’arte che finì nelle mani
del politico spagnolo Godoy (Manuel Francisco Domingo Godoy Álvarez de Faria
Ríos Sánchez Zarzosa) e caduto
quest’ultimo in disgrazia, nelle mani del Re di Spagna. E' probabile che il quadro della "Processione di Santa Rosalia" era presente nella sua ricca collezione. Collezione che fu poi restituita ai Duchi
D’Alba de Toledo.
Il quadro è infatti di proprietà della “Fundacion Casa de Alba di
Madrid” ma si trova esposto nel “Palacio de las Duenas” a Siviglia.
( L’avo di Maria Teresa fu Fernando Alvarez de Toledo (Don
Fernando Alavrez de Toledo y Pimentel), terzo duca d’Alba. Era un generale spagnolo e fra i suoi
molteplici incarichi ebbe anche quello di vicerè di Napoli dal 1556.
Fu proprio agli inizi del XVI secolo che la famiglia Alvarez
de Toledo si trasferì a Napoli.
Tra i numerosi titoli concessi alla famiglia sono da
elencare anche dei titoli siciliani che legano quindi la casata alla Sicilia:
Conte di Adernò, di Caltabellotta, di Collesano, di Sclafani.
Federico Alvarez de Toledo y Osorio, fu vicerè di Napoli nel
1671; Antonuio Alvarez Osorio, anche lui vicerè di Napoli dal 1672 al 1675.
Giuseppe Federico Alvarez de Toledo nel 1683 si trasferì in Sicilia e sposò
Caterina Moncada, figlia di Ferdinando principe di Paternò.
Come si vede la famiglia era quindi presente in Sicilia
ancora prima di Maria Teresa).
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