Bronte – San Teodoro : Dalla Valle di Bolo al Borgo “S. Giuliano”
– Il Ponte Normanno di Serravalle e le Forre Laviche – I Castelli di Bolo e Torremuzza –
Il Borgo “S. Giuliano”
Nell’area
assediata da insediamenti agricoli, da un fitto reticolo viario, un tempo da
discariche abusive (non so se la situazione sia migliorata o meno) poste
accanto alle coltivazione ed ai frutteti, proprio in prossimità delle Forre si
è sviluppata una tipica vegetazione ripariale. Una vegetazione che ospita un interessante componente
faunistica specializzata e legata anche agli ecosistemi acquatici.
Il Borgo “S. Giuliano”
---------------------------------
----------------------------
Indice
1.
Il
Ponte Normanno di Serravalle –
L’epigrafe del Conte Ruggero II alla madre
Adelasia.
2.
Le
Forre Laviche – La Caratterizzazione della RNI “Forre Laviche del Simeto”-
La Memoria: Le Vittime del Fiume : I due
ragazzi di Centuripe, e
Gabriele Salatiello figlio di Bice Mortillaro Salatiello importante figura nel Sociale di Palermo
3.
La
Chiesa della Placa di Serravalle
4.
Il
Castello di Bolo – Le testimonianze Sicule, Greche devastate e cancellate dai
tombaroli – I nomi dei Cavalieri del Casale che parteciparono al Vespro –
Archeologia – Le monete rinvenute tra cui alcuni Tetradramma – La Leggenda del
Re Boly – La mia Sicilia devastata dai tombaroli (le mie esperienze nel viaggio
lungo la Loira e la visita al sito di Rocchicella) – Il Busto Bronzeo rinvenuto
a Bronte si trova al British Museum di Londra.
5.
Il
Castello di Torremuzza
I Feudatari: Manna, Crisaffi, Sant’Angelo,
Tornabene, Blasco Lancia;…. Coppola, Ugo delle Favare, Pietro Ugo e Ruffo delle
Favare, Caterina delle Favare – La Villa
delle Favare di Palermo ai Romagnoli –
Il Feudo delle Favare (vicino Caltagirone
?)
---------------------------------
6.
Borgo
“S. Giuliano” (San Teodoro – Me).
Indice
Il Borgo Salvatore Giuliano – La dedica
del Borgo –
I Separatisti – Canepa e la
compagna Clelia Rosati – La Nascita del Borgo –
I suoi momenti di vita – Citato nel
Lunario Sicilia con disegni di Renato Guttuso
Architettura – Il Degrado – Video
Altri file su Borghi di Sicilia:
Viaggio lungo le Ferrovie Dismesse
della Sicilia
La Ferrovia Alcantara – Randazzo (Francavilla di Sicilia – I sette Borghi
Schisina della Riforma Agraria)
Rometta (Me) – Borgo Pantano
----------------------------
1.
Il Ponte Normanno
di Serravalle
Nella
valle di Bolo si snodava la vecchia strada percorsa da eserciti, pellegrini,
commercianti, corrieri postali che da Troina, capitale normanna, o da Palermo
permetteva di raggiungere la costa di Catania e di Messina. Transitavano per
l’antico ponte Normanno di Serravalle mentre più a valle sul Simeto c’era il
Ponte dei Saraceni ancora oggi esistente..
Il
ponte di Serravalle fu costruito dal Conte Normanno Ruggero II nel 1121 per mettere in comunicazione le varie
“masse” sulla sponda sinistra del fiume Simeto (Maniaci, Rotolo, Corvo, S.
Venera, Bronte) e le “masse” sulla sponda destra (Bolo, Cesarò, Carbone, Placa
Baiana,) con Troina, Messina, Palermo
Gli
Arabi diedero alla contrada il nome di “Càntera” forse collegato alla
parola latina “cantharus” e al greco “κάνϑαρος” cioè “coppa” o “camera” dalla particolare conformazione della
valle erosa dal fiume Simeto che scorre
tra pareti rocciose.
Forse gli arabi in quel punto crearono un ponte che fu ricostruito da Ruggero II e dedicato alla madre
Adelasia che morì a Patti (Messina) nel 1118.
Il
ponte si trova sulle “Forre Laviche” del
Simeto e vicino ad un’antica masseria dove si trova l’ex Chiesa della Placa Serravalle dedicata a San
Francesco di Paola. Nel sito si trovano anche i resti di un antico mulino ad
acqua.
L’origine
del Ponte Normanno è attestata anche da un’epigrafe scolpita sulla pietra
calcarea e posta sull’ala destra nord del manufatto.
“Fu costruito
questo ponte per la serenità del gloriosissimo
Conte Ruggiero di Calabria
e di Sicilia e dei Cristiani aiutatore per
l’assoluzione della
defunta madre di lui Adelasia regina.
6629, ind.14 (1121)”.
La
lapide misura (86 x 86) cm ed ha uno spessore di 22 cm. Fu lo storico Benedetto
Radice a salvarla perché stava per essere spezzata durante il rifacimento
dell’ala del ponte. “Fu a mia cura, e a spese del Municipio, portata al
Collegio, ove da un ignorante rettore, venne adoperata come puntello a grosse
travi per l’impalcatura del ponte nella fabbrica della chiesa…. La data del
1121 ora si legge benissimo, avendo io curato di farvi passare del nero fumo”.
Una
leggenda narra che gli addetti alla costruzione del ponte furono degli operai
saraceni. Un saraceno ..” piantatosi
colle gambe sulle rive opposte del fiume, abbia indicato il sito, ove esso doveva
sorgere”.
Nella
fantasia popolare siciliana il saraceno era spesso sinonimo di “gigante”.
“Il
Dio Termine però dava spesso occasione a litigi, ed odi feroci fervevano nei
petti dei confinanti per l’eterna lotta del mio e del tuo. Di quest’odio un
ricordo è rimasto nel detto tradizionale dei Brontesi: “ Sono come Maniaci e
Rapiti” per dire: “sono due nemici acerrimi”. (Il Casale Rapiti
sorgeva tra Bolo e Maniace).
La
stessa data si legge in un piccolo “quadrello” di pietra lavica poste nella
centinatura del ponte a sud. Secondo la
testimonianza di Benedetto Radice la medesima data si leggeva in un concio
nella parete della Chiesa di San Giorgio che fu costruita dallo stesso Ruggero
come testimoniano alcuni documenti conservati presso l’archivio del
Comune. Chiesa che fu distrutta per la
costruzione del cimitero.
Un’opera
composta da pile idrodinamiche che reggono le arcate medievali. La sua
configurazione è a schiena d’asino ed è costruito con pietre basaltiche locali
che sono alternate a conci di tufo bianco. L’alternarsi di pietre basaltiche e
di conci di tufo fa assumere al ponte un particolare effetto cromatico.
Proprio
sul ponte passava la vecchia strada che univa la parte interna della Sicilia,
Nicosia, Cerami, Troina, passando per Cesarò con i centri commerciali e
portuali di Messina e Catania.
“L’altro
ponte della Placa fu rifatto dove passa il fiume di Troina nell’anno 1769, come
testimoniano i documenti della Real Segreteria anno 1769 filza 2279. Dispacci e
Aziende 22 Aprile, fog. 206 N. 27”.
Ponte
che si trova a poca distanza dal ponte Normanno.
2. LE “FORRE LAVICHE”
Interessante
à la descrizione di Benedetto Radice che risale ai primi anni del 1900 e quindi
distante ben un secolo dai nostri giorni.
“Il
congiungimento dei due fiumi Troina e Simeto, presso il ponte di Serravalle,
forma confine fra i massi vulcanici e sedimentari. Tutto questo tratto è un
profondo e selvaggio burrone, nominato i balzi della Camera, ove il fiume,
uscendo dal ponte, si precipita schiumante sulla lava e sui blocchi di pietra
arenaria. E una cascata fortissima ed è facile comprendere, come possono essere
orribili gli effetti corrosivi del fiume, quando esso si ingrossa, e si
precipita attraverso quella cascata, bellissima e ricca di rarissimi e
particolari panorama, fra scogli di lava da ottanta a cento metri di altezza
ripidi e impraticabili. Un attento esame presso il ponte di Cantera; al mezzogiorno
fa supporre invece che cataclismi spaventevoli avessero deviato il primitivo
corso, come si scorge dal combaciamento delle due rive opposte”.
Le
“Forre Laviche” costituiscono la Riserva Naturale Integrale (RNI) “Forre
Laviche del Simeto”.
L’area
interessa una fascia di territorio di particolare valore geologico-ambientale
per le sue morfologie, gli ecosistemi e i
microclimi che vi si sono stabilizzati. È dal punto di vista geologico
una profonda incisione che il fiume Simeto ha scavato nel corso dei secoli
sulle più antiche lave dell’area Etnea.
Si
sono creati, grazie a questa forte erosione delle gole con pareti di altezza
variabile tra i 5 metri e i 50 metri (all’altezza del ponte di Serravalle – “u
bazu ‘a càntira”), anse, cascate e laghetti che, incastonati nel nero
basalto lavico dell’eruzione del 1603, hanno creato degli ambienti di rara
bellezza e suggestione.
Basalto
lavico che ha la caratteristica geometria dei prismi basaltici perché costituiscono
il contatto tra le rocce sedimentarie e le lave etnee
C’è
da dire che le forre nei basalti non vanno confuse con gli ingrottati lavici
che presentano una genesi del tutto differente.
Basalti colonnari
I basalti
colonnari sono rocce magmatiche originate dal raffreddamento di masse (colate)
magmatiche durante il loro movimento.
Questo
raffreddamento genera delle fratture che sono perpendicolari e parallele
al fronte della
colata in movimento che separano delle colonne a base esagonale e in
alcuni casi
quadrata.
Basalti colonnari
vicino al Ponte dei Saraceni (più a sud verso Adrano)
Basalti Colonnari
A
Serravalle il letto del fiume si restringe notevolmente scorrendo proprio tra
anguste e profonde gole soprattutto in contrada Barili, sempre nel territorio
di Bronte, dove sono presenti dei basalti colonnari di straordinaria bellezza.
Bronte – Contrada Barrili
Basalti Colonnari
, “a canne d’organo”
Il
Sic (Sito d’Importanza Comunitaria) si snoda lungo il corso del fiume Simeto
che si divide i due tipologie di suolo che di conseguenza creano due diversi
tipi di habitat (ambientali e culturali). Nel lato orientale i terreni
vulcanici creano un ambiente adatto alla coltivazione di alberi da frutto
mentre sul lato occidentale c’è una predominanza di aree a vegetazione brulla e
cespugliosa.
Nel
mezzo, ai margini del letto del fiume, si trovano lembi di vegetazione ripariale
o nudi basalti colonnari.
Sui
costoni lavici che costituiscono le sponde del fiume si osservano varie specie
tipiche dei boschi e della macchia mediterranea come l’Olivastro, il leccio, il
bagolaro e anche il tamarice gallica e l’oleandro, ecc.
In
base a questa suddivisione ambientale è possibile distinguere altrettanti tre
assemblaggi di specie avicole che utilizzano annualmente, o per brevi periodi,
il territorio del SIC.
Nelle
zone aride si osserva la presenza del Lanario (Falco biarmicus feldeggii)
e della Coturnice (Alectoris graeca whitakeri) e di altre specie specie
maggiormente diffuse in queste tipologie ambientali come la Cappellaccia (Galerida
cristata) e dello Zigolo nero (Emberiza cirlus). Tra i mammiferi
oltre a quelli più comuni come la Volpe, a quelli più vulnerabili come la
Lepre, è presente anche l’Istrice. Sui suoli lavici si trovano le specie legate
a frutteti e frutteti consociati come Columbidi e Corvidi, mentre nelle zone
ripariali è stato osservato il Martin pescatore (Alcedo atthis) e
numerose altre specie di passo come la Garzetta, il Corriere Piccolo e la
Ballerina Gialla.
In
merito agli Anfibi sono presenti specie che si trovano comunemente lungo il corso del fiume come il
Discoglosso dipinto, il Rospo comune e quello smeraldino, la Rana Verde. Anche
i rettili presenti in questa zona del Sic si ritrovano lungo tutto il corso del
fiume e nelle zone antistanti come il
Greco, la Lucertola campestre, la Luscengola, il Biacco e la Natrice dal
collare. È anche presente una specie che
è molto vulnerabile come la Testuggine d’acqua.
La Sicilia vanta nel
suo patrimonio naturalistico delle particolarità come
la Testuggine
palustre che è equiparata alla Testuggine peninsulare
(Emys
orbicularis) fino al 2005 quando un
gruppo di ricercatori analizzò
il DNA delle due specie.
Fu riscontrato nelle relative analisi delle differenze
genetiche che
permisero di classificare la Testuggine palustre siciliana come
una specie a sé,
una specie nuova, denominandola Emys Trinacris
Il
SIC dal punto di vista del suolo è caratterizzato da aree naturali o
seminaturali che si estendono per oltre il 61% della superficie complessiva. I
boschi di latifoglie (26%) si riscontrano in formazioni lineari lungo il corso
del fiume e con popolamenti più consistenti in località “Contrada Bolo”. Spesso
si tratta di formazioni rade di alberi adulti con un sottobosco caratterizzato
da una notevole presenza di arbusti e di alberi giovani. Nelle aree con
vegetazione erbacea e/o arbustiva (26%) sono stati inclusi i pascoli , gariga e
macchie in fase di evoluzione.
Le
aree con vegetazione rada o assente occupano circa il 6% del territorio e sono
rappresentate principalmente da aree del greto del fiume Simeto e di qualche
area calanchiva presente nella zona centrale del sito.
Le
superfici ad uso agricolo sono destinate soprattutto alle colture permanenti
(20%) coltivate per oltre 95 ettari a frutteti, sui seguono i vigneti con 76 ha
e presenti per lo più a nord, gli agrumeti con circa 61 ha presenti in maniera
diffusa nella zona centro-meridionale (anche se la superficie ha subito negli
ultimi anni un progresso decremento) e gli oliveti con circa 10 ha.
I
seminativi di tipo estensivo e le aree agricole eterogenee, (porzioni di
terreno nelle quali la destinazione colturale è molto frammentata e variegata,
non cartografabili singolarmente a causa della loro esigua estensione) occupano
complessivamente il 18% del sito e sono diffuse su tutto il territorio.
Altre
classi di uso del suolo sono poco rappresentate con l’urbano agro-residenziale
e l’insediamento artigianale. Il corso del fiume occupa circa il 3% della
superficie.
Carta del Suolo –
Ripartizione in percentuale
Caratterizzazione
della Riserva
Codice
Riserva: CT2
Denominazione:
RNI – Forre Laviche del Simeto
Province
: Catania – Enna
Comuni
: Adrano (Ct) – Centuripe (En) - Bronte (Ct) – Randazzo (Ct) – Cesarò (Me)
Estensione:
Area
Riserva : 282,50 Ha
Area
Preriserva: 8,75 Ha
Totale
Area : 291,25 Ha
Carattere
della Riserva : Af (Aste Fluviali)
Ente
Gestore : Azienda Foreste Demaniali della Regione Sicilia (?)
SIC
ITA 070026
ZCS - Zona Speciale di Conservazione – sì
ZPS
– Zona di Protezione Speciale per
l’avifauna - no
Normativa di
Riferimento
-
Decreto
3 Aprile 2000 – Ministero dell’Ambiente – Inserimento del Territorio “Forre
laviche del Simeto” nell’elenco dei Siti di Interesse Comunitario (SIC) (79/409
CEE), siti Natura 2000 ..”Conservazione degli Habitat naturali e
seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche del luogo”
-
Sicilia
– Il piano Regionale dei Parchi e delle Riserve Naturali, istituito dalle leggi
regionali n. 98/81 e n. 14/88 ed approvato con Decreto dell’Assessorato del
Territorio e dell’Ambiente del 10 giugno 1991, prevede inoltre l’istituzione
della Riserva Naturale Integrale Forre Laviche del Simeto” nell’area compresa
tra Monte Passopaglia, in territorio di Bronte, e contrada Santa Domenica nel
Comune di Adrano interessando anche i territori comunali di Randazzo e
Centuripe.
-
Decreto
21 febbraio 2005 – Regione Sicilia – Assessorato del Territorio e
dell’Ambiente..”Elenco dei siti di importanza comunitaria e delle zone di
protezione speciale ricadenti nel territorio della Regione, individuati ai
sensi delle direttive n. 79/409/CEE e 92/43/CEE
-
Decreto
5 maggio 2006 – Regione Sicilia – Assessorato del Territorio e dell’Ambiente ..”Approvazione
delle cartografie delle aree di interesse naturalistico SCI e ZPS e delle
schede aggiornate dei siti Natura 2000 ricadenti nel territorio della Regione “
- GURS . 35 del 21 luglio 2006
Geosito : Scheda n. 35
Interesse
scientifico Primario: Geomorfologico – Paesaggistico
Interesse
scientifico secondario: Idrogeologico - Didattico
Grado
Interesse scientifico primario: Europeo
Elementi
caratterizzanti del geosito: Basalti alcalini
Tipologia
geosito : Forre
Fruizione
dell’Area
Accessibilità:
Emerso e sommerso
Difficoltà
accesso: Abbastanza difficile
Modalità
d’accesso: a piedi
Suolo
e Fondale
Uso
suolo: Roccia affiorante
Vincolo
Territoriale: DL 42/2004 art. 142 (Ex Legge Galasso 431/85)
Stato
di Conservazione: Buono
Rischio
di Degrado: Medio antropico
Descrizione
del rischio di degrado: Discariche abusive
La Planimetria nel file:
---------------------------
Il
fiume Simeto con una sua storia millenaria, menzionato anche da Virgilio nel IX
libro dell’Eneide dove scrisse: “Faceva la guardia
all'accampamento il figlio di Arcente, egregiamente armato con il mantello
ricamato e splendente di porpora iberica, bello di aspetto, che il padre
Arcente aveva inviato dopo averlo sottratto al bosco della madre nei pressi del
Simeto, dove c'è l'aria pingue e placabile di Palico».
Un fiume anche divinizzato come appare nelle monete
dell’antica Adranon dove l’immagine del
culto di Adranòs, descritto da Plutarco con una lancia in mano, è forse una
divinità legata al fiume.
Nel
visitare il sito il cuore dei naturalisti e degli ambientalisti siciliani corre
al ricordo di Gabriele Salatiello, giovane ricercatore, speleologo ed
appassionato naturalista.
Scomparve
proprio nel corso di importanti campionature sul fiume, travolto dalla furia di
una natura spesso violenta e dura anche con chi l’ama e tenta di difenderla.
Il
fiume con i suoi meravigliosi aspetti non deve indurre in tentazione e non
bisogna quindi sottovalutare le insidie che nasconde. Il suo corso è spesso stretto, tortuoso e le
acque nella stagione di piena creano dei pericolosi gorghi. Le acque del fiume
hanno fatto delle vittime negli anni
passati. Undici anni fa due giovani di Centuripe, Annamaria Cardiano e
Francesco Saraniti furono travolti dalle acque mentre cercavano di
attraversarlo ( 1 maggio 2004).
Originari
di Centuripe durante una gita lungo il fiume avevano deciso di attraversarlo nei pressi del Ponte dei Saraceni in un punto
in cui era presente una strettoia dove l’acqua aveva tagliato un antica colata
lavica. Mentre camminavano sugli spuntoni di roccia Annamaria e un giovane della comitiva caddero
in acqua. Francesco Saraniti con coraggio si tuffò per salvarli. Riuscì a portare in salvo il ragazzo e cercò
disperatamente di salvare anche Annamaria ma il destino fu crudele…
probabilmente anche a causa della stanchezza non riuscì nell’impresa e fu
trascinato assieme ad Annamaria dalla corrente.
I soccorsi furono tempestivi ma fu tutto vano. I loro corpi furono
successivamente ritrovati.
L’8 gennaio 1989 il giovane
Gabriele Salatiello, speleologo, ambientalista e grande studioso della natura
morì sul fiume , nei pressi del ponte di Serravalle, per salvare una sua
compagna che era caduta nel fiume. Rimase incastrato fra le rocce.. si spense
un grande cuore generoso che si occupava della salvaguardia dei fiumi, dei
boschi della sua amata Sicilia.
Era figlio di Bice Mortillaro Salatiello, una figura
sempre in prima linea per difendere i diritti delle donne e di quanti vivono ai
margini della società.
Si è spenta il 20 novembre 2018 dopo una vita di
grandi e prestigiosi traguardi ottenuti con il suo coraggio e le sue importanti
iniziative.
Fu lei a fondare l’associazione “Laboratorio Zen
Insieme” e fu sempre vicino alle donne, ai bambini e alle bambine… a chi vive
nelle periferie e nei quartieri popolari,
tenuto ai margini del vivere civile. Fu protagonista, con le donne del
digiuno, della rivolta delle donne palermitane contro la violenza mafiosa. Una
figura importante nella storia sociale della Sicilia e in particolare di
Palermo. Una figura che si allontana dai stereotipi degli uomini politici o di quei “predicatori” che parlano tanto di
“famiglia” ma solo per i loro egoistici interessi economici dando di sé una
impressione che non corrisponde alla realtà.
Speriamo che non venga
dimenticata perché la società di oggi ama tanto i crocifissori, falsi
predicatori, e non il Crocifisso cioè chi fa del bene.
------------------------------------
3. La
Chiesa della Placa di Serravalle.
L’edificio
si trova in una zona agricola molto fertile e nei pressi del punto in cui il
fiume Troina confluisce nel Simeto.
Una
chiesa inglobata in un angolo di un antica masseria che fa rivivere momenti
perduti.
Anche
l’importante storico Benedetto Radice, nativo di Bronte; la citò con una
piccola frase esaltandone la solitaria ubicazione come a dare conforto agli antichi agricoltori che popolavano la
zona…”la chiesetta solitaria, al cui piè rumoreggia il Simeto”.
La chiesetta non è molto antica anche se
la sua ubicazione, e forse anche la sua struttura, farebbero pensare ad una
datazione più remota.
Fu costruita dal Barone Francesco Grimaldi di Serravalle verso la metà del XIX
secolo dedicandola a San Francesco di Paola.
La chiesa in origine aveva una pianta
ottagonale con archi a sesto acuto sotto ai quali, ai quattro angoli, sorgevano
altri controarchietti che erano separati da colonne.
Quattro colonne in pietra lavica e con la
base in pietra arenaria (alcuni elementi sono ancora visibili all’interno della
chiesa) e con capitelli con foglie d’acanto che sostenevano i quattro archi
principali.
La chiesa fu modificata ed è oggi a pianta
longitudinale e con una piccola cella campanaria a fianco.
La
facciata è caratterizzata nella sua semplicità da un timpano tricuspidato
mentre la facciata nord presenta invece tre archi a sesto acuto.
Nell’ordine
inferiore, sotto la rotonda finestra del timpano, si trova il portale in pietra
arenaria con il timpano.
L’esterno
si presenta in discreto stato conservativo mentre l’interno è in decadimento.
La
chiesa è stata infatti sconsacrata ed è oggi adibita a magazzino da parte
dell’azienda agricola che ne è proprietaria.
La
cella campanaria, costituita da quattro robusti conci in pietra lavica, è stata
privata della campana che è stata rubata da qualche “amante” dell’arte.
Nella
chiesa si trovavano la copia del quadro di Carlo Dolci, (Firenze, 25 maggio
1616; Firenze, 17 gennaio 1686), che
raffigurava la Madonna del Velo. Una
bellissima raffigurazione, come riporta B. Radice, “con il Bambino che dorme colla guancia
poggiata su di un cuscino di seta verde mentre la Madre è nell’atteggiamento di
guardarlo amorosamente e di distendere un velo. S’ignora l’autore della copia”.
L’altro
quadro raffigurava San Francesco di Paola ed era del barone Francesco
Serravalle.
Bronte (?)
La Madonna con il
Velo
Di Carlo Dolci
---------------------------------------------
4. Il Castello di Bolo
Il
Castello di Bolo, indicato nelle cartine dell’IGM come “punto geodetico”, si
trova quasi al centro di un ipotetico triangolo che unisce i Comuni di Bronte,
Maniace e Cesarò.
Il
castello di Bolo, ubicato a 923 metri di altitudine in posizione
spettacolarmente dominante e strategica, si raggiunge per una mulattiera che si
diparte dalla bretella più breve che porta da Bronte alla statale 120 per
Cesarò.
Bolo è una
montagna posta tra l'Etna e le Caronie, a strapiombo sull'alto corso del Simeto
e del suo affluente Troina, in territorio di Bronte.
L’etimologia del
nome è forse legata alla natura della terra argillosa.
(Il “bolo” è un
minerale argilloso contenente ossido di ferro di colore rossastro, untuoso al
tatto. Veniva adoperato come strato adesivo per applicare la doratura su
oggetti non metallici ed era anche detto “bolo d’Armenia”).
Sotto ed intorno
alle sue due ultime povere mura, che oggi resistono perche' ancora ci sia
parvenza dell'antico e famoso "Castello di Bolo", giacciono ancora
molti segreti. Segreti forse ancora in parte nascosti malgrado le ruspe dei
"tombaroli" abbiano negli ultimi anni assaltato l'intera collina su
cui ancora le mura malamente ancora sorgono e sembrano sfidare il tempo.
I tombaroli,
profanando tombe e distruggendo vestigia poco importanti per loro, hanno trovato ricchi tesori, giare piene di
monete.
Oltre mezzo secolo
è passato da quando Benedetto Radice, storico brontese che per primo si
interessò delle scoperte archeologiche di questi luoghi, lamentava il
disinteresse assoluto degli archeologi e degli storici per queste testimonianze
ritenute, forse, banali o, comunque, non importanti.
La montagna
tricuspidata di Bolo ebbe sempre una funzione di primo piano, nell'antichità
come luogo ideale di insediamenti fortificati, sicuri in tempi non troppo
tranquilli. Funzione che continuò ad avere per tutto il Medio Evo, epoca in cui
l'insediamento umano si fece più consistente per la presenza di una vedetta
fortificata in funzione di difesa e di avvistamento.
I pochi
appassionati che ebbero la fortuna di visitare Bolo quando ancora i fianchi
della montagna non erano stati sventrati dalle ruspe e quando ancora del suo
Castello restava molto più che qualche muro, ebbero a parlare di remoti
insediamenti umani.
Insediamenti
legati forse ad una presenza sicula spiegabile con le numerose grotte naturali e
artificiali in cui fu rinvenuta ceramica non ancora influenzata
dall'artigianato greco.
In tempi moderni
ci sono stati i ritrovamenti di monete, di "tesori" addirittura, che
mostrarono una monetazione di marca siracusana, greca, romana ed anche
macedonica tanto da fare parlare qualche studioso di Bolo come di una delle
stazioni mamertine poste, nel III sec. a.C. a nord dell'Etna.
Certo importante e
duratura vi dovette essere la presenza greca, a giudicare dai numerosi resti
lasciati distrutti in superficie dalle
recenti razzie.
Sepolcri, anfore e
"rottami di colonne costruite con grossi mattoni rotondi appartenenti a
qualche tempio" (B. Radice), sarebbero la testimonianza di un importante
insediamento greco. Purtroppo niente è
visibile di essi se non la miriade di cocci lasciati in superficie dai ladri e
le tombe scavate (il mio sopralluogo fu verso il 1975- 80).
Il primo documento
che cita il “Casale di Bolo” è un atto di vendita del 1139 in cui
Nicola, fratello del notaio Arcadio di Traina, “col suo figlio Leone”
vende per il prezzo di 200 tarì d’oro alcuni fondi siti nel Casale di Bolo al
notaio Costantino del Castello.
Nel gennaio 1282 a
Bolo era in carica un maestro giurato, Pietro Casso, che fu riconfermato da re
Pietro il 2 gennaio 1283 (“Casalis Boly”).
Il Feudatario di
Bolo partecipò alla Guerra del Vespro dando il suo appoggio alla giusta causa
aragonese il 23 gennaio 1283, in merito c’è l’esistenza di una lettera
inviata al re Pietro d’Aragona.
“Il Casale di
Bolo”, come altri casali, inviò al “Campo del Re” presso Randazzo, dove si
dovevano radunare i rinforzi militari forniti dai siciliani in aiuto degli
Aragonesi, sei fra arcieri e fanti.
Dal “Campo del Re”
l’armata si sarebbe mossa verso Messina per fronteggiare l’esercito di Carlo
D’Angiò.
Ci sono stati
tramandati i nomi di quattro dei sei cavalieri mandati dal “Casale di Bolo”:
Simone
Ostingano
G.
Tornitore
Giovanni
Spavaldo
Simone
Campione
Nel novembre,
sempre del 1283, il “casale di Bolo” inviò a Messina dei rifornimenti
alimentari costituiti da:
-
Venti
salme di grano;
-
40
salme d’orzo;
-
5
vacche, 50 montoni e 40 porci.
La fiorente
Universitas di Randazzo inviò nello stesso periodo i seguenti rifornimenti:
2000 montoni, 100
vacche e 200 porci.
Maniace inviò lo
stesso quantitativo del Casale di Bolo e per il ritardo della spedizione ebbe
con Randazzo il rimprovero del re.
Per l’esecuzione
di questi ordini il re aveva nominato Roberto da Adernò come Commissario regio
per Bolo e per altre dieci Università.
In un documento
del 29 giugno 1335, indizione terza, si rileva che Bolo apparteneva alla curia
del giustiziere di Castrogiovanni e Demenna.
Nello stesso
documento si legge che “Costa Russo e Brancato Crasso da Frazanò, abitatori
del Casale di Bolo, ad istanza di Anichio, abate del Monastero di S. Filippo di
Fragalà, confessarono alla curia di dovere ognuno al detto monastero tarì
quattro d’oro, all’anno, come dritti ascrittizii per ragioni di villanaggio”.
Questo documento
dimostra come Bolo non era sottoposto alla curia di Randazzo, infatti i due
accusati furono processati dalla curia di Castrogiovanni.
Lo stesso casale
con altri undici casali fu soggetto “al mero e misto impero di Randazzo” con
privilegio di re Federico III d’Aragona emanato nel 1348.
In epoca più tarda
anche l’abate Vito Amico, nel suo dizionario topografico, citò il casale di Bolo
sotto la dipendenza del Vescovo di Messina.
Nel 1392 un
Diploma reale prescriveva che i suoi abitanti dovevano rivolgersi per le
loro cause al Capitano Giustiziere di Randazzo.
Nel 1408 si ha
notizia di un'altra questione sempre con il monastero di San Filippo di
Fragalà in cui figura, come castellano
di Bolo, Nicolò Milito.
Il documento è un
atto giuridico che riguardava i feudi di Gullia e l’eterna controversia fra
l’Abbazia di Maniace e quella di San Filippo di Fragalà.
Un documento importante perché testimonia l’esistenza del
castello, ancora in efficienza, e del casale che difendeva.
Il documento è un
atto giudiziario del 19 aprile 1408 in cui si ha un giudizio d’integrazione di
possesso dell’importante Feudo della Gullia e di un pezzo di terra detto “Lu
cugnu di lu cuntrastu e la manica di lu chiprisi” contro Giovanni
Ventimiglia, detentore del monastero di Maniace e in favore di Aganato, abate
del monastero di S. Filippo di Demenna.
Nell’atto appare
come testimone nella controversia un certo Nicolò Milito, castellano di Bolo (“Castri
Boli”).
Dalla data del
1408 non figura nessun altro documento sul castello di Bolo e non si sa nulla
sul motivo del suo silenzio.
Forse il terremoto
del 1444 distrusse il casale e il castello ma non si hanno riferimenti in
merito.
Nel 1535 (1537 ?) Carlo
V, nella sua breve visita siciliana, percorrendo la "Regia Trazzera"
che si snodava lungo i versanti dell'Etna, vide sulle sponde dell'alto corso
dei fiumi Simeto ed Alcantara, molti floridi casali anche di origine remota
(Maniace, S. Leone, Corvo, Rotolo, Santa venera, Bolo, Cattaino, Cuto, Carbone,
Spanò, Placa Bianca, Rapiti). L'imperatore decise il raggruppamento dei
numerosi casali, per una maggiore comodità fiscale e giudiziaria, a Randazzo che
era il luogo più importante della vallata, (“sotto il cui mero e misto
impero dovevano riunirsi i casali”). Il decreto fu emanato a Bronte nel
1537 e Bolo fu citato perché era un casale ancora abitato e perciò capace di
corrispondere censi.
In questo periodo
i casali tra cui Bolo furono abbandonati e gli abitanti si trasferirono non solo
a Randazzo ma anche a Bronte che era più vicina ai preesistenti casali.
In epoca sveva,
particolarmente, il castello di Bolo fu una delle più importanti stazioni per
le comunicazioni a distanza in una catena di fortilizi che serpeggiava per
tutta l'isola e che nella zona aveva altri punti di riferimento precisi.
Spesso, dunque,
appaiono, qua e là, nei documenti medievali, i nomi dei vari castellani e dei
coloni di Bolo e riferimenti al casale e alla fortezza: in concessioni feudali,
in vendite, in obbligazioni, in testimonianze.
La funzione che il
castello svolse in periodo angioino-aragonese fu importante per la sua
posizione di sentinella a ridosso di una delle vie di comunicazione più
frequentate e più sicure di allora, la "Regia Trazzera".
Regia Trazzera che
dalla costa jonica, svolgendosi in questi versanti per Randazzo, Maniace e
Troina, Nicosia, raggiungeva Palermo attraverso un tortuoso tracciato, evitando
le coste poco sicure.
Sin dalla
dominazione araba “Manyag”, l’odierna Maniace, era stata inserita nella “via
montana” che comprendeva sette “marhalah”, cioè la distanza tra una stazione di
posta e la successiva, per complessive 180 miglia
“La “4°
maralah” (da Nicosia a Maniace) secondo la descrizione del geografo arabo El
Edrisi, attraversava Niqusin (Nicosia), Garami (Cerami), Qual’at-at-Targinis
(Troina) per giungere a Manyag (Maniace). Da Manyag partiva la “5° marhalah”
che congiungeva Randag (Randazzo), al’Mudd (Mojo) e Qastallun (Castiglione)”.
«Secondo
testimonianze notarili, partendo da Palermo, si passava da Petralia e da Gangi
e, dopo altre 24 miglia, sempre a dorso di mulo, passando da Troina si raggiungeva
Bronte. Da qui, in 12 miglia, di cammino particolarmente difficoltoso per le
pietre laviche che affioravano dal terreno, si transitava da Francavilla e,
dopo aver attraversato Taormina, Sant'Alessio e La Scaletta, si poteva
arrivare agevolmente a Messina».
Gesualdo
De Luca nella sua "Storia della città di Bronte" (1883) parla
che della Rocca di Bolo "non avanzano che due solitari muri
crollanti" e che "… più volte sono state, anche di fresco trovate
grandi monete d’oro e di argento ove sorgeva il Casale, e lucerne e vasi di
creta".
Dopo Carlo V il
casale non sarà più citato così come altri casali. Tutti spariti nel nulla come
Maniace. S. Leone, Corvo, Rotolo, S. Venera, Cutò, Carbone, Spanò, Placa
Baiana. Casali che erano sparsi lungo il corso dell’Alto Simeto fra l’Etna e le
Montagne delle Caronie, per ordine dell’Imperatore Carlo V.
La loro
identificazione sul terreno oggi non è facile. Ci sono i resti di qualche
castello, come Bolo e Spanò, ma per gli
altri non è rimasto altro che una flebile e non sempre ricordata toponomastica.
In realtà intorno
alla metà del XVIII secolo di Bolo restava solo il castello che probabilmente
non era ancora allo stato di rudere.
I
cerchietti gialli sono i castelli (alcuni ruderi)
La
linea gialla continua dovrebbe essere la Via Francigena
ARCHITETTURA
Il
castello di Bolo, costruito con pietre locali malamente squadrate e legate da
una malta di discreta qualità, aveva una pianta stretta ed allungata ed
occupava tutto lo spazio posto sulla sommità del colle.
L’equilibrio
statico della costruzione fu compromessa a causa dei frequenti crolli,
soprattutto lungo il fianco meridionale della collina particolarmente scosceso
e difficilmente accessibile.
La
tipologia delle fortificazione ricorda a grandi linee quella di una fortezza a
presidio di un passo.
Sono
presenti anche alcune cisterne.
Del
gruppo di case (il Casale di Bolo) che sorgeva attorno al Castello, i cui
abitanti su ordine di Carlo V si trasferirono nel 1535 nei Casali di Randazzo e
Bronte, non resta nessuna traccia.
Cisterna – Bolo
ARCHEOLOGIA
La montagna di Bolo ha una sua storia che risale
probabilmente al periodo Siculo e con una presenza umana continua fino a Carlo
V.
Lungo le pendici
del monte, agli inizi del XX secolo furono trovate numerose monete siracusane
appartenenti ad Agatoche, Ierone e Lisimaco (III secolo a.C.).
Lo
storico Benedetto Radice nelle “Memorie Storiche di Bronte” citò i ritrovamenti
di “vari ripostigli di monete siracusane, greche e romane, rinvenute nel
1901, 1902 e 1915" lamentando che la zona "non sia
stata visitata mai dagli archeologi".
Lo stesso storico
affermò che alcune monete furono conservate dal cav. Gennaro Baratta, tra cui
una “Porcia Romana”.
(L’autore si
riferiva ad una moneta che raffigurava la “gens Porcia”.
Il personaggio più
noto della famiglia fu Marco Porcio Catone, noto anche come Catone il Vecchio o
il Censore, che fu console nel 195 a.C.)
Moneta "Porcia Romana"
Importanti furono
i cinque tetradrammi di Lisimaco risalenti al III secolo a.C., anche questi spariti.
Tetradramma
di Lisimaco (297 – 281 a.C.)
Emissione:
Zecca di Pergamo
I
tetradrammi di Lisimaco si rassomigliano per i seguenti aspetti:
nel
diritto presentano la testa diademata di un re con la chioma
disordinata,
disposta in modo assai pittoresco, e con due corna d’ariete;
nel
rovescio presenta Minerva vincitrice, armata, sedente e che ha
nella
destra il piccolo simulacro della vittoria.
L’unica
differenza è in parte nel volto a seconda dell’età di Lisimaco.
Le
corna erano il simbolo di Carlo Magno che si considerava di figlio di Giove.
Lisimaco
si vantava d’essere disceso da Bacco, un dio che era spesso effigiato
dai
Greci con le corna d’ariete. Fu così che Lisimaco copiò il simbolo anche
perché
lo stesso Lisimaco si credeva destinato a rinnovare la memoria
del
famoso vincitore d’Oriente.
La presenza di
queste monete sull’altipiano di Bolo potrebbero proporre l’ipotesi che Pirro
nel 273 per lanciare l’assalto al territorio presidiato dai Mamertini,
s’insediò a Bolo per sferrare successivamente l’attacco a Maniace e a Bronte.
Bolo potrebbe essere stata una postazione Mamertina a nord-ovest del perimetro etneo. Una
postazione che gli stessi mamertini utilizzarono contro i Siracusani nel III
secolo a.C.
Ma ancora prima dei
Mamertini sul monte ci sarebbe stato un villaggio Siculo.
E qui è necessario
citare la fatidica leggenda legata alle antiche tradizioni orali dei
pastori.
Pastori che
ricordano la favola del re Bolo e che asseriscono di aver trovato monete con la
scritta “Rex Boly”. Raccontano anche storie di tesori che erano nascosti nelle
spelonche del castello ove si trovano grotte naturali ed artificiali, cisterne.
Le grotte artificiali, secondo il Radice, sarebbero opere preelleniche forse
dei Siculi.
Sempre “ai
piedi delle rovine del castello” furono rinvenuti sepolcri di fine ceramica
e anfore del V secolo a.C. e “rottami di colonne costruite con grossi
mattoni rotondi appartenenti a qualche tempio”.
Bolo
così come altri territori di Bronte sono stati depredati di reperti
archeologici di valore inestimabile. Pagine di storia cancellate. Ma questo è
uno strano destino della mia Terra , il cui traffico di reperti archeologici è
stato spesso nelle mani della mafia.
Ricordo
in una mia visita in un castello della Loria, al di fuori dei soliti itinerari
proposti, di aver visto nel corridoio del vetusto fabbricato un bellissimo
bassorilievo che la proprietaria mi confidò “portato da suo nonno in valigia e tagliato in
pezzi dalla Sicilia”. Una via visita nell’antica Palike a Rocchicella…. Un
terreno passato a setaccio da squadre di zappatori… ovunque frantumi di reperti,
cocci, ecc… mi trovavo sul luogo per fare delle foto sul lago di Palike… un
signore sempre a debita distanza.. mi seguì
durante la mia visita al sito. Un uomo probabilmente pagato dai
tombaroli per presidiare il luogo… un avvenimento risalente agli anni settanta
che non dimenticherò mai come la figura di quest’uomo anziano e robusto che
viveva in un piccolo casolare nei pressi del sito. Scene di ordinaria follia….
Foto risalente
agli anni settanta con gli scavi clandestini…
Il terreno è
devastato….
Foto risalente
agli anni settanta
Un muro dell’antico
Casale
Benedetto
Radice citò i reperti trafugati negli anni ’90 e mise in risalto anche un
bellissimo reperto trafugato nel 1870 in contrada Margio Grande, sempre nel
territorio di Bronte. In questa contrada fu scoperto un bellissimo busto in
bronzo “d’imperatore o filosofo, con occhi di platino, barba e capelli ricci, ritrovato nel mio podere al
Margiogrande nel 1870… Il busto trovasi ora al Museo di Londra nella sala dei
bronzi, e come cosa pregevole è custodito sotto una campana di cristallo, dove
io lo vidi nel 1900. Il Direttore del Museo non seppe dirmi chi fosse
l’effigiato”.
A
dimostrazione della grande ricchezza storica del territorio di Bronte è da
citare un piccolo, ma importante, rinvenimento grazie all’attività delle
Guardie Forestali. Infatti il Corpo Forestale nel contesto di un’operazione
organizzata per individuare i numerosi tombaroli presenti nel territorio hanno
rinvenuto un bellissimo “Askos a colomba” cioè un piccolo contenitore di
unguenti di ceramica fine decorata.
Un
vasetto configurato a forma di anatra della fine del V secolo a.C. e che doveva
contenere unguenti profumati spesso, ma non esclusivamente, come arredo
funerario. Al reperto manca solo il piccolo manico che solitamente unisce la
testa con la bocca.
La
contrada Bolo non racchiude solo la sommità del Monte ma un’area molto vasta
compresa tra il Simeto, un tratto della SS 120 (Bolo Fiorentino) e anche di un
ponte sul Simeto che attraversa la strada statale tra Maniace e Cesarò cioè il
Ponte di Bolo che si trova alla confluenza dei due corsi d’acqua: il torrente
Cutò/Martello e la Saracena, cioè all’origine del Simeto.
Nel
1991 si parlava di una diga sul fiume Troina /Serravalle che si sarebbe dovuta
chiamare Diga di Bolo.
---------------------------
5. Il Castello di Torremuzza
Il castello di
Torremuzza o Cattaino sorge a strapiombo sul fiume Troina.
È meno rovinato e
forse meno conosciuto del castello di Bolo con il quale costituiva un
importante presidio della valle di Bolo nella quale si snodava la vecchia Regia
Trazzera che dall’interno della Sicilia permetteva di raggiungere la costa
Ionica.
Posto sul costone
roccioso, al centro di un paesaggio impervio e brullo sul quale spiccano le
balze di Cesarò, desta all’osservatore
un po' di paura soprattutto dal lato del fiume.
Si raggiunge
lasciando l’auto sulla strada tra Bronte e Cesarò per poi prendere un sentiero
di campagna, da percorrere a piedi per alcuni chilometri passando per una
passerella non so se ancora esistente.
La salita verso il
castello ha un suo fascino.
Etimologia
Il termine
“Cattaino” secondo Benedetto radice deriverebbe dalla voce araba “Kalat” cioè
castello, fortezza o rocca “munita da
natura” anziché dall’opera dell’uomo.
Al termine
“Calat” si aggiunse un altro termine
legato alla presenza dell’acqua, “ayn”, del vicino fiume Troina.
In merito al
termine “Torremuzza” ci sono due versioni. Una versione è legata alla torre
originaria, di probabile epoca bizantina, che venne spaccata in due da un fulmine
e rimase solo la metà.
L’altra versione,
forse più veritiera, è legata al termine
volgare di “turris mucte” cioè “ torre della motta” o “torre della
rocca”.
Un termine
presente in alcune roccaforti della Sicilia e secondo lo storico e architetto
Rodo Santoro il termine “Motta” sta ad indicare una collina, naturale o
artificiale, sulla quale insiste una fortificazione del tipo a torrione.
Lo stato di
conservazione delle strutture è precario ed è un vero peccato perché il
castello rappresenta un bellissimo modello di architettura militare diffuso
nell’interno della Sicilia nei secoli XII e XIII.
Il castello
dominava il sottostante Casale del “Cattaino” dove furono rinvenuti reperti
risalenti al IV – III secolo a.C.. e in particolare deposizioni funerarie e
sarcofagi datati verso il III secolo
a.C., collegati ai ritrovamenti del vicino sito archeologico del castello di
Bolo.
Citazioni
Il Casale del
Cattaino fu citato da vari storici tra cui il Vito Amico, il Plumari, De Luca e
Benedetto Radice. Tutti confermano l’esistenza del casale nel XIII secolo.
Era sottoposto al
“mero e misto Impero” di Randazzo, cioè alla giurisdizione civile e penale, con
altri undici casali in virtù di un privilegio del 1348 del re Federico III
d’Aragona.
I Casali erano:
Carcarci, Spanò, Bolo, Cutò, Pulicello, Santa Lucia, Floresta, S. Teodoro,
Cesarò, Maniace e Bronte.
Durante la Guerra
del Vespro, a seguito della richiesta del re Pietro d’Aragona, anche il Casale
di Cattaino come il vicino casale di Bolo, soggetti alla servitù militare,
inviò nel mese di settembre 1282
arcieri, fanti e vettovaglie agli aragonesi per la guerra contro gli Angioni
che avevano assediato Messina.
Come feudo
appartenne a diverse famiglie:
1296 – nella
recensione dei feudi sotto Federico III d’Aragona appaiono baroni dei Cattaino
gli eredi del giudice Giovanni de Manna che erano baroni di S. Lucia, di San
Pietro sopra Patti e di altri casali. Re Giacomo con privilegio del 13 agosto
1299 concedeva al “dominus miles Pietro d’Antiochia” di cedere con il
consenso del figlio primogenito Federico, la terza parte della terra di Cerami
“per dote della figlia Bettuccia data in sposa a Luigi la Manna”. Nella “Descriptio
feudorum” del 1335 “il milite Pietro d’Antiochia possedeva due parti
della Terra di Cerami e una terza parte spettava agli eredi del Giudice
Giovanni de Manna”.
“Giovanni Manna,
giudice, fu signore dei casali Rapani, S.Andrea, Pardizi (feudo pardo) o
Roccavaldina), Rasinachi, Rocca, Maurojanni (oggi Roccavaldina), Rasinachi,
Cattaino, S. Lucia, S. Pietro sopra Patti, Bavuso (Bauso) e di un terzo della
Terra di Cerami).
Famiglia Magna o
Manna (?)
Forse originaria
del Piemonte
Un
nipote del giudice Giovanni Manna, anche lui giudice e con lo stesso nome, nel
1342 con il fratello Odoardo e con il padre Gualtiero, parteciparono alla
rivolta di Messina che fu stroncata con l’intervento delle truppe regie. Giovanni venne condannato con il fratello
Odoardo alla decapitazione mentre il padre Gualtiero fu condannato all’esilio.
Il
18 marzo 1342 vennero devoluti al fisco i beni e le rendite posseduti “a
certis messinensibus delinquentibus” che avevano partecipato alla rivolta e fra
essi anche le 20 onze di censi sulla secrezia di Messina che costituivano i
beni feudali di Gualtiero de Manna senior,
l’erede e padre del giustiziato giudice Giovanni di Manna.
Federico
IV nel 1367, sulla base di un testamento di Gualtiero de Manna del 1340, restituì
a Nicolia Manna, figlia del giudice giustiziato Giovanni e nipote dello stesso
Gualtiero, il reddito di 20 onze censuali che erano state assegnate in base
alla confisca dei beni al giudice Gregorio de Gregorio. Per questo motivo il
sovrano il 6 novembre 1637 assegnò in cambio ad Orlando de Gregorio, figlio di
Bartolomeo, a sua volta figlio del giudice Gregorio de Gregorio, 20 onze di
reddito sulla gabella della stadera della secrezia di Messina.
Nicolia
de Manna sposò Filippo de Mauro nel gennaio 1375 e alla sua morte gli successe
nelle 20 onze censuali la figlia Violante de Mauro moglie di Giovanni de Griso
(Crisafi ?) “alias de Serafinis”. Violante ottenne l’investitura reale il 17
marzo 1417.
1408 - Nel censimento feudale del 1408, ordinato dal
re Martino “Il Giovane” era barone di Cattaino don Nicolò Crisaffi.
Don Nicolò
dovrebbe essere il notaio Nicoloso Crisafi, figlio del notaio Giovanni.
Successe al padre
nella carica di maestro notaio della tesoreria dal 1371. Il 29 settembre 1392
il re Martino gli concesse il feudo e il casale di Linguaglossa che era
appartenuto al ribelle Nicolò Lamia e nel 1394 anche il feudo di Ramasole che
era stato avocato alla Regia Curia per insolvenza del canone da parte di
Maddalena Alagona.
Lo stesso sovrano
il 23 settembre 1394 assegno a Nicoloso Crisafi di Messina, maestro notaro
dell’ufficio dei razionali, tutti i beni burgensatici appartenuti ai
Chiaramonte e siti nella città e territorio di Messina, compresa la baiulazione
del casale Aptilia (Duptilia, Actilia nel territorio di Messina).
“La
si vuole originaria dalla Grecia, e le si da a capostipite un tal
Crisafo
figlio di Giorgio Maniace esarca di Sicilia. Godette nobiltà in Messina
e
possedette un gran numero di feudi e baronie… un Nicolò (Nicoloso), maggiore
spenditore
di re Martino a 8 aprile 1400 ottenne conferma del feudo di Lando
(Casale nel Piano
di Milazzo) e a 15 dicembre 1420 ebbe conferma a nuova
investitura
del feudo di Vigilatore e Cartolano….”
1453 – Giovan Luca
barbero scriveva nel suo “Capibrevi” che il re Alfonso nel 1453 confermava al
giureconsulto Blasco da Sant’Angelo la vendita e il possesso del feudo di
Cattaino e della metà del feudo detto la “Floresta della Porta di Randazzo”.
Il feudo la “Floresta
della Porta di Randazzo” era stato donato dal re Martino il 4 aprile 1407 al
medico Blasco Scammacca. Metà del feudo
fu venduta dallo stesso Scammacca a Blasco Sant’Angelo mentre la restante metà
fu donata a Giovanni Bonacosi, “mantovano,
che a sua volta la vendette ai coniugi Nicola ed Alvira di Paternò”.
Non si sa come mai
il feudo Cattaino passò dal barone Crisafi al barone Sant’Angelo
Il 10 luglio 1443
il feudo Cattaino era in possesso del figlio Giacobbe Sant’Angelo che il 28
agosto 1463 ne ricevette l’investitura da Simone Beccadelli di Bologna,
arcivescovo di Palermo e Presidente del Regno.
“Godette
nobiltà in Augusta, in Catania e in Palermo…
Un
Giacomo fu senatore in Catania nel 1452 . 53; un Blasco fu
Senatore
in detta città nel 14785 – 76….”
A Giacobbe nel
1493 successe il nipote Amico Sant’Angelo che “con facoltà di redimerlo lo
diede in pegno anticretico a Guglielmo Bonina”.
(L’Anticresi è un
contratto giuridico con cui il debitore
si obbliga a consegnare al creditore un immobile a garanzia della realizzazione
del sui credito. In questo modo il creditore percepisce i frutti del bene
concesso (per un massimo di dieci anni)
imputandoli dapprima agli interessi, se dovuti, ed infine al capitale. È
quindi un contratto consensuale con effetti obbligatori, che fonda in capo al creditore
anticretico un diritto personale di godimento):
Il feudo di
Cattaino passò quindi alla sorella di Amico, Margherita che aveva sposato
Tommaso Tornabene e successivamente al figlio Nicolò Tornabene.
“
Vanta discendenze dai Tornabuoni di Firenze, fu nota in Sicilia fin dal secolo
XV, godendo nobiltà in Catania e Messina… Un Tommaso, come marito di Grazia (Margherita) Paternò, possedette Castania di cui,
insieme con la metà della
Foresta
di Randazzo
e con le saline di Nicosia, ottenne investitura a
7
luglio 1483 il figlio Nicolò…..”
Quindi al figlio
Blasco di Lancia ..”sposo di Laura di lei
sorella nel 10 ottobre 1507”.
In questo momento
storico s’inserisce una figura storica nella politica sociale dell’isola molto
enigmatica e di cui non si sa molto.
Si tratta di
Blasco Lancia Castania che raggiunse un certo prestigio professionale e
patrimoniale. Un prestigio economico legato all’acquisizione di fondi e
soprattutto con i matrimoni con ricche ereditiere.
Il 29 agosto 1496
acquistò da Pietro Cardona, conte di Golisano, il diritto di riscattare dalle
mani di Lattanzio Perdicaro, che lo deteneva, il feudo di Casal Giordano nel
territorio di Petralia.
Il 23 aprile 1505
da Girolamo Vitellino acquisì il diritto di percepire “un grano sopra ogni
salma di vettovaglie esportata dai porti di Girgenti, Siculiana, Montechiaro,
Licata e Catania”.
Ingenti patrimoni
acquisì grazie ai suoi due matrimoni che costellarono la sua lunga vita.
Il primo matrimonio
fu con Aloisia di Bartolomeo, nipote del famoso giurista e Protonotaro del
regno, Leonardo. Il contratto nuziale gli fruttò in data 16 dicembre 1498,
oltre ad un palazzo in Palermo che divento la residenza sua e dei suoi
discendenti, il territorio di Trabia in prossimità del Comune demaniale di
Termini Imerese che era privo di popolazione e di villaggio ma ricco d’acque e
dotato di una torre, fondaco, due mulini ed una tonnara. Una tonnara
perfettamente funzionante ed attrezzata per la pesca dei tonni e palamidi e
che rendeva, secondo la stima del
Barbieri nel 1506, un reddito di 100
onze annue.
L’abbondanza di
acque, legata ad una ricca sorgente, permise al Castania di impiantare una
piantagione di canna da zucchero e di creare un trappeto (zuccherificio) che
diventò più redditizio della tonnara.
Tutto il
territorio era stato concesso in enfiteusi dalla Comunità di Termini nel 1444 a
Leonardo di Bartolomeo, il quale in
virtù dei suoi ottimi rapporti con la corte ottenne facilmente, nel 1445, il riscatto
del censo dal re Alfonso d’Aragona e questo con grande risentimento da parte
dei Terminesi.
I Terminesi che si
erano visti privare dei loro diritti sul ricco territorio di Trabia,
intentarono una lite giudiziaria che si prolungò per secoli e che ebbe anche
azioni di violenze da una parte e dall’altra.
Con le
rivendicazioni dei Terminesi, il Castania ottenne con privilegio di Ferdinando
il Cattolico del 14 novembre 1509, l’erezione in baronia di tutto il
comprensorio, con la facoltà di costruirvi il castello ed eventualmente anche
il villaggio . nel decreto c’era anche una precisa intimazione alla Comunità di
Termini di desistere da ogni azione di rivendicazione e di molestia.
Questo fu solo uno
degli ultimi sigilli ad una ascesa finanziaria e sociale che era iniziata da
tempo. Un ascesa legata spesso ad aule giudiziarie con sottilissime
argomentazioni giuridiche.
Instaurò un’azione
legale contro Nicolò Tornabene per rivendicare la baronia di Castania, antico
feudo dei Lancia ma che era stato venduto dalla nobile famiglia nel lontano
1322 e passato poi per atti giudiziari legittimi ai Tornabene.
In realtà in
questa azione giudiziaria contro i Tornabene c’era ancora una volta la forte
ricerca nel dimostrare la sua appartenenza al nobile casato dei lancia una
delle più nobili ed antiche famiglie di Sicilia.
Nicolò Tornabene,
messo alle strette dalla forti azioni del Castania, si trovò a malpartito e
pensò di venire a patti.
Nello stesso
periodo al Castania morì la moglie e il triste avvenimento fu preludio, secondo
un antico costume nobiliare, al raggiungimento di un accordo anche grazie ad un
concordato matrimonio.
Il Castania sposò
quindi in seconde nozze Laura Tornabene, sorella di Nicolò, che gli portò in
dote, con contratto nuziale del 21 luglio 1507, la baronia, terra e castello di
Castania nella Valdemone ed inoltre la metà della Foresta di Porta di Randazzo,
i feudi di Lactaino, Triairì, Li Buti, Foresta Vecchia, Margraniti e le saline di
Nicosia.
Alla morte di Niccolò, la sorella ereditò e portò al
C. anche la seconda metà della foresta di Porta Randazzo. Il Castania stesso
per suo conto acquistò i tre feudi limitrofi di Camilari, Vacrila ed Acquasanta,
costituendo un imponente complesso immobiliare.
Le esigenze della professione lo portarono a risiedere
a Palermo dove si svolgevano importanti processi presso i supremi tribunali del
Regno. Non si sa se il Lanza abbia
ricoperto la carica di giudice della Regia Gran Corte. È certo che come barone
di Castania partecipò alle riunioni del Parlamento e per due volte, nel 1508 e nel 1514, fu eletto rappresentante
del bracco baronale. Nel 1516 è uno dei più stretti consiglieri del vicerà Ugo
de Moncada uno dei più stretti consiglieri del vicerà Ugo de Moncada e in un
momento contraddistinto dalla more del re cattolico che costarono la carica
allo stesso vicerè.
Il
vicerè Moncada in una lettera inviata da Messina, il 22 marzo 1516, al reggente
spagnolo cardinale Xiimenes de Cisnerros, citò il Blasco Lancia come colui che portò
all’inquisitore Cervera la richiesta dei nobili palermitani in rivolta. Una
richiesta perentoria, di liberare subito i prigionieri che erano rinchiusi
nelle carceri del Sant’Uffizio e adi abbandonare l’isola.
La
mediazione del Blasco Lancia era solo un inganno. Quando ritornò
dall’Inquisitore mostrò la risposta… una riposta suggerita in verità dal
vicerè….”che presentassero una richiesta per iscritto”.
La
risposta aumentà la tensione sociale e i nobili risposero che avrebbero
presentato non una richiesta per iscritto ma “puntas de lanzas y espadas”.
Sembrò
quasi una parola d’ordine ed iniziò subito la ribellione.
Fu
convocato il Consiglio generale del Comune di Palermo e il Blasco Lanza ebbe il
coraggio, in un clima di tensione così alto, di presentarsi scortato da un
nugolo di seguaci…. Ad aggravare ulteriormente la situazione c’era alla base un
non rispetto delle regole perché il Blasco, essendo cittadino catanese, non
poteva partecipare al Consiglio.
Fu
infatti cacciato via al grido di “fuori
dalla città” per rifugiarsi nel palazzo Chiaramonte (Lo Steri) che era la
residenza del vicerè.
La
folla pose in stato d’assedio il palazzo e reclamava la sua immediata
espulsione da Palermo.
Il
vicerè Moncada cercò di clamare la folla agitata parlando dalle finestre del
palazzo e alla fine promise che il Lanza avrebbe abbandonato la città il giorno
successivo.
Malgrado
le rassicurazioni del vicerè la folla decise di dare fuoco alla casa del Lanza.
Guidati da Federico Imperatore, uno dei nobili più in vista nella rivolta,
stavano per dare fuoco alla casa del Lanza….”Federigo Emperador fue la casa
del dicho Micer Blasco para la poner fuègo y saquear muger e hijos y roba” (scrisse
il Moncada nella lettera) se non fossero stati fermati da alcuni nobili, “ben
accetti al popolo che interposero i loro buoni uffici”.
La situazione non si calmò perché la sera la gente si
accalcò nuovamente davanti al palazzo Chiaramonte reclamando, con armi e a suon
di bombarde, lo sfratto immediato del vicerè. La tensione era al massimo e il
vicerè Moncada riuscì ad uscire dal palazzo grazie ad una uscita di servizio e
seguito da pochi seguaci, per non dare all’occio, s’imbracò alla volta di
Milazzo.
Nel gruppetto del vicerè c’era naturalmente anche
Blasco Lanza che si separò dal gruppo che proseguì per Messina. Blasco Lanza
invece s’imbarcò sul brigantino del Barone di Raddusa che faceva rotta verso
Catania.
Il suo obiettivo era quello di raggiungere la città
etnea dove, grazie alla sua forte ingerenza sulla popolazione, gli avrebbe
permesso si mantenere la città fedele al vicerè.
Ai catanesi raccontò di essere stato espulso da
Palermo al grido di “fora cathanisi”.
Un grido che risultava molto offensivo per i catanesi
in un momento in cui le rivalità campanilistiche tra Catania, Palermo e Messina
era molto forti.
Riuscì ad ottenere la nomina di un ambasciatore al
Moncada per rinnovargli l’obbedienza della città.
I Palermitani si preoccuparono subito di avvisare i
Catanesi che l’espulsione del Blasco Lanza riguardava solo la sua persona e non
colpiva i buoni rapporti fra le due città.
Alla fine anche
i Catanesi si ribellarono al mal governo del Moncada ed annullarono i precedenti
deliberati in suo favore ed i poteri dell’ambasciatore a lui destinato.
Il Lanza, con la sua abilità di oratore, cercò di
contrastare la politica di solidarietà tra i nobili delle due città e alla fine
fu espulso da Catania.
La folla in tumulto lo cercò e il Lanza riuscì a
rifugiarsi nel castello di Aci per poi raggiungere a Messina il vicerè Moncada.
La situazione sociale e politica siciliana fu
attenzionata dall’imperatore Carlo V.
Il Lanza ed il vicerè partirono da Messina il 21
agosto 1516 per dirigersi a Bruxelles alla corte di Carlo V per giustificarsi
dalle accuse dei siciliani.
Alla corte imperiale il Lanza diede sfoggio delle sue
abilità oratorie riuscendo a convincere addirittura il re sulle buone ragioni
del Moncada.
Il Moncada in ogni caso fu destinato ad un altro
incarico e come vicerè di Sicilia fu nominato Ettore Pignatelli duca di
Monteleone.
Il Lanza rientrò a Palermo ed aveva con sé un
importante dispaccio del re Carlo che in data 20 febbraio 1517 lo nominava consigliere
soprannumero. Una noia che gli dava la possibilità di partecipare a tutti i
consigli patrimoniali e fiscali del Regno.
I rivoltosi furono puniti ma la rivolta riprese nei
primi di settembre del 1517.
La città si sollevò di nuovo. Alcuni degli esponenti
politici del tempo pagarono con la vita e il Blasco Lanza riuscì, ancora una
volta, a trovare rifugio in un nascondiglio ben sicuro. Fu cercato dalla folla
inferocita che era decisa ad ammazzarlo ma fu tutto vano…. Fu anche cercato
nelle tombe della cripta sotterranea del convento di San Domenico del quale “ lo
sapeva assai devoto”.
Non fu trovato e questa volta la folla diede a fuoco
il suo palazzo con tutto gli arredi e la preziosa biblioteca.
Le conseguenze di queste sollevazioni si fecero
sentire anche nel feudo di Trabia. Appresa la notizia del saccheggio
palermitano della casa di Blasco Lanza, i cittadini di Termini si precipitarono
in armi a Trabia devastando la piantagione da zucchero e danneggiando il
trappeto e la torre. La rivolta di Palermo fu stroncata poco dopo con
l’uccisione dell’uomo più importante, Gian Luca Squarcialupo. Un uccisione avvenuta durante una funzione
religiosa nel convento domenicano di S. Cita per mano di alcuni nobili ai quali
il Blasco aveva assicurato la sua assistenza.
Finita la ribellione il Lanza non riuscì ad avere le
posizioni di prestigio del passato anche perché il vicerè Pignatelli lo tenne
in disparte.
Non si sa se fu risarcito dai danni della rivolta e gli
fu promessa una carica pubblica mai ricevuta. Il vicerè lo tenne in disparte e
questo motivo il Lanza gli si schierò contro legandosi alla fazione baronale
dei conti di Adernò e Cammarata.
Nel 1522 il vicerè convocò a Palermo il Parlamento per
la conferma del donativo ordinario. Il Lanza fu tra coloro che si opposero
mettendo in risalto le gravi condizioni economiche del Regno per chiedere
sgravi fiscali e la diminuzione del donativo. Una presa di posizione che lo
mise in evidenza come esponente di una nuova dissidenza baronale. Il vicerè
preoccupato fece sospendere il parlamento e lo trasferì a Messina.
Anche il Lanza vi si trasferì assieme al conte
d’Adernò e di Cammarata per continuare la ferma opposizione.
Il 4 luglio 1522 fu però arrestato dallo stratigoto di
Messsina Bartolomeo Tagliavia e rinchiuso nel carcere di Matagrifone.
Il giorno seguente anche il conte d’Adenò e di
Cammarata seguirono la stessa sorte
Fu inviato a Tripoli in esilio ma fu ricondotto in Sicilia nel 1523 quando si scoprì una pericolosa
congiura che era diretta a consegnare il Regno di Sicilia al re di Francia
Francesco I.
Alla congiura parteciparono i fratelli Imperatore, i
Colonna e i rappresentanti del re di Francia che si riunivano a Roma per
redigere le rime del complotto. Alle riunioni partecipava il conte di
Cammarata. Il conte di Cammarata, già sotto sorveglianza per i fatti del 1522
fu arrestato, torturato e costretto a confessare. Nella confessione fece anche
il nome di Blasco Lanza dichiarando che durante le riunioni del Parlamento era
incaricato di trattare con i
rappresentanti delle città di Palermo, Catania e Messina per la creazione di
una “lega” o “unione”.
Una “unione” che
sarebbe nata con il pretesto di sgravi fiscali ma che in realtà doveva
appoggiare l’esercito francese che sarebbe giunto in Sicilia.
Un accusa grave
e a rischio di pena capitale.
Fu portato nel castello di Milazzo per essere
sottoposto a vari interrogatori nel corso dei quali si difese con la solita
eloquenza a tal punto che riuscì a farsi scagionare.
Non si sa se sia stato ricondotto a Tripoli o se
rimase in Sicilia.
Nel 1525 era di
nuovo in libertà dato che dettò il suo testamento il 7 febbraio di
quell’anno al notaio Antonino Merlino di Catania.
Visse gli ultimi anni della sua vita a Palermo,
ritirato dalla vita pubblica, e qui morì l’8 ottobre 1535.
Seppellito nel convento domenicano di Santa Cita in un
sarcofago creato da Antonello Gagini.
Lasciò per testamento tre legati pro anima; 100
onze alla Badia del Soccorso di Catania; 25 onze al convento di S. Domenico e
alla Chiesa domenicana di S. Cita entrambi a Palermo.
Erede delle baronie di Castania e di Trabia fu l’unico
figlio maschio Cesare nato dal secondo matrimonio con la Tornabene.
Dal primo matrimonio aveva avuto due figlie: Antonia
che sposò Salvatore Mastrontonio, barone di Aci e che ebbe in dote il feudo di Casalgiordano)
e Giovanna che sposò Ercole Statella.
Dal secondo matrimonio oltre a Cesare ebbe una figlia
di nome Agata che sposò Giovanni Antonio Squillace.
Nel XX secolo il
Feudo Cattaino e la metà di Forestavecchia erano di proprietà della marchesa
Caterina Ugo delle Favare.
1779
Giuseppe Ugo e
Gagliardo
(Palermo, 1740 circa; Palermo, 2 dicembre 1809) (figlio di Pietro Ugo e Maria
Gagliardo), marchese Ugo e barone delle Favare o Menelao, per investitura del 4
settembre 1786, come primogenito ed erede universale del padre Pietro (morto a
Palermo l’11 maggio 1782 come risulta negli atti della Cattedrale), grazie al
testamento redatto presso il notaio Giuseppe Fontana di Palermo, aperto e
pubblicato il 16 maggio 1783.
Sposò Maria
Teresa Coppola (Palermo, 1750 circa; Palermo, 18 maggio 1788 ?) (figlia di
Scipione Coppola e Ninfa Settimo). Il padre Scipione morì a Palermo il 23 ottobre
1776 e come figlia unica diventò erede
universale per testamento pubblicato dal notaio Giuseppe Tinnove e
Mattula di Palermo il 28 ottobre 1776.
Maria Teresa
Coppola e Settimo s’investì quindi della baronia di “Gattaino” e “Foresta
Vecchia” il 22 ottobre 1779 e con lei anche il marito Giuseppe Ugo e Gagliardo
(marchese anche di Mascalucia), in forza dei loro dotali, stipulati dal notaio
Giuseppe Fontana di Palermo il 31 gennaio 1779.
Il marchese
Giuseppe Ugo fu governatore del Monte di Pietà di Palermo nel 1786-87, senatore
della stessa città dal 1788 al 1790, “maestro di zecca e maestro razionale
soprannumerario di cappa corta del tribunale del Real Patrimonio nell’anno
1801”.
Dal matrimonio
nacque un solo figlio, Pietro.
1789
Pietro Ugo e
Coppola (Palermo, 1780 circa, ?)
S’investì della
baronia e del feudo delle Favare o Menelao e di Mascalucia il 22 giugno 1810
come figlio primogenito del marchese Giuseppe.
S’investì dei
feudi di “Gattaino” e “Foresta Vecchia” il 4 maggio 1789 come figlio primogenito
della madre Maria Teresa Coppola, “quale chiamato e sostituito nei
fedecommessi dei suoi predecessori ed in virtù del testamento materno
pubblicato dal notaio Giuseppe Fontana di Palermo il 18 novembre 1788. Detta
Maria morì a 18 maggio 1788 come risulta da fede rilasciata dalla Cattedrale di
Palermo- conservatoria. Vol 1178, foglio 92”.
Il marchese Pietro
fu senatore nel 1811; brigadiere degli eserciti reali; gentiluomo di camera;
cavaliere degli ordini di San Gennaro, di San Ferdinando, di Malta e del
Constantiniano; luogotenente generale in Sicilia, ecc.
Sposò Agata del
Bosco (Palermo, 1773 circa; ?) (figlia di Vincenzo del Bosco, VI Principe
di Belvedere, e di Caterina Branciforte,
figlia di Ercole Branciforte, IV Principe di Scordia e di Beatrice Branciforte,
principessa di Leonforte)
Dal matrimonio
nacque l’unico erede, Giuseppe Mariano Raffaele Paolo Antonino Ugo.
Giuseppe Mariano
Raffaele Paolo Antonino Ugo (Palermo, 1800; ?)
“fu gentiluomo di
camera con esercizio; cavaliere dell’ordine di San Gennaro, Gran Croce
dell’Ordine Costantiniano, ecc.”
Sposò Rosalia
Maria Carolina Francesca di Paola Camilla Anna Agata Ruffo (Napoli, 8 marco
1805; Napoli, 30 aprile 1834), figlia del marchese Girolamo Ruffo e di Carmela
Ruffo.
Dal matrimonio:
-
Agata
Ugo (Palermo, 1824; Palermo, 20 gennaio 1825 circa) morì a pochi anni d’età
-
Pietro
Ugo (Palermo, 28 gennaio 1827; Palermo, 11 gennaio 1898)
Pietro Ugo e Ruffo
Marchese di
Mascalucia e delle Favare; Barone di Santa Maria delle Grazie, “Gattaino” e
“Foresta Vecchia”.
Fu antiborbonico e
sostenne Garibaldi nell’impresa dei Mille. Nel 1882 in occasione delle
celebrazioni per il sesto centenario del Vespro, ospitò Garibaldi dal 28 marzo
al 16 aprile nella sua villa di Palermo, ai “Romagnoli” come si legge nella
lapide del muro di cinta di Villa Ugo delle Favare in via Messina Marina, 195.
Nel 1868 fu eletto
deputato del Regno nelle file della sinistra storica fino al 1870.
Altre elezioni
alla Camera dal 1874 al 1882 quando fu
nominato senatore.
Fu più volte sindaco di
Palermo e anche presidente del Consiglio
Provinciale di Palermo dal 1886 al 1898
Tre volte sindaco
di Palermo (dal 26 febbraio 1882 al 12 gennaio '85, dal 12 gennaio 1892
al 30 dicembre '93 e dal 25 luglio 1895 al 28 agosto '96) e per numerosi incarichi istituzionali. Nei suoi sei anni di
sindacatura non lasciò grandi ricordi se non per la progettazione e
costruzione, iniziata nel 1904, della strada per il Monte Pellegrino e per aver
portato la luce elettrica in molte borgate.
Nell’aprile 1874
s’era costituita a Palermo la “Società Sicula Tramways e Omnibus (SSTO)” con
l’obiettivo di costituire alcune linee di Tram e di omnibus a cavalli.
Nel 1882 il
sindaco Pietro Ugo inaugurò il servizio di omnibus dalla Stazione Centrale al
Politeama.
Nel giugno 1882 inaugurò il servizio di omnibus dalla
stazione centrale al Politeama.
Solo il 16 aprile del 1888 venne autorizzato l’esercizio
di tranvie a trazione elettrica a corrente continua.
Sempre nel 1282 il marchese Pietro Ugo ospitò nella
sua villa posta ai “Romagnoli”, dal 29
marzo al 16 aprile, Giuseppe Garibaldi. Il generale dei Mille giunse in Sicilia
per assistere alle celebrazioni del sesto anniversario del vespro siciliano.
Le cronache citano come il generale fu ben accolto dai
palermitani ed era “commosso e piangente” probabilmente perché memore delle
tante promesse non mantenute ai siciliani
dal nuovo stato.
Lo stesso sindaco Pietro Ugo per evitare che si
perdesse il ricordo di quel breve soggiorno dell’illustre ospite nella sua
casa, fece collocare, a spese del municipio, una lapide rievocativa posta nel
muro di cinta ed ancora oggi in buono stato.
Palermo
Arrivo di Garibaldi alla Stazione di Porta S. Antonino e la villa
dove fu ospitato Garibaldi (sopra)
Villa Delle Favare
Lo stesso sindaco Pietro Ugo per alcuni episodi
significativi del tempo mostrò un atteggiamento silente, quasi distratto.
Durante il suo primo incarico, il 15 aprile 1882, venne sequestrato dalla mafia
Emanuele Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia. Come riporta lo
storico Lino Buscemi, dal Comune arrivarono solo poche parole di solidarietà e
nient’altro.
Nell’agosto del 1893 ci fu lo sciopero dei cocchieri
contro il proliferare degli omnibus. Il
sindaco mostrò una totale indifferenza.
Nel luglio 1895 altro grosso problema di natura politica ed anche sociale… il
caso della vendita dei voti nei mandamenti Castellammare e Palazzo Reale.
Rimase ancora una volta indifferente quando nella notte del 13 settembre 1895
furono arrestati una ventina di giovani dirigenti socialisti intellettuali per “gravi
motivi d’ordine pubblico”.
Tutti comportamenti discutibili. Il come nel
dopoguerra gli dedicò un’importante via che per ironia della sorte si congiunge
con la via dedicata al martire Notarbartolo, ucciso dalla mafia. Anche lui
aveva ricoperto la carica di sindaco e nella vita non avevano mai avuto grandi
rapporti.
Il marchese Pietro Ugo e Ruffo sposò Elisabetta
Valguarnera (Palermo, 4 agosto 1834; Palermo, 7 gennaio 1898) figlia di don
Giuseppe Valguarnera, VI Principe di Niscemi, e di Caterina Tomasi dei Principi
di Lampedusa, figlia di Giuseppe Maria Tomasi, VII principe di Lampedusa, e di
Carolina Wochinger.
Dal matrimonio:
-
Caterina Ugo; (Palermo, 5 aprile 1860; ?)
-
Agata Ugo; (Palermo, 14 marzo 1862; ?)
-
Maria Antonietta Ugo;
(Palermo, 9 giugno 1867; Palermo; 7 gennaio 1943)
-
Rosalia Ugo; (Palermo, 7 giugno 1873; Palermo; 1941
circa)
Caterina Ugo, Marchesa di Mascalucia; baronessa delle Favare o Menelao, di Gattaino e
Forestavecchia, sposò il 4 marzo 1878 a Palermo, Giuseppe Salvo (Palermo, 9
settembre 1851; ?) figlio di Vincenzo Giuseppe Salvatore Giacomo Salvo
(1821-1895) e di Giovanna Sollima (1820 circa – 1895)
Dal matrimonio: Giovanna (1880), Vincenzo, Maria Elisabetta, Francesca
Maria Pia; Maria Antonietta; Rosalia Maria Anna Lilly; Francesco, Maria Luisa
(1895).
Con decreto ministeriale del 5 luglio 1910 la signora
Caterina Ugo (di Pietro predetto) in Salvo ottenne riconoscimento dei titoli di
marchese Ugo o Mascalucia, barone delle Favare o Menelao e barone di Gattaino e
Forestavecchia.
“Si vuole originaria di Firenze e passata in Sicilia nella fine del
secolo XIV o nei principi del secolo XV..Un Pietro fu giurato di Termini
nell’anno 1497 e capitano di giustizia nel 1500; un Nicolò Antonio,
da Termini, fu capitano di cavalleria
in Fiandra al servizio di Carlo V e
portò la famiglia in Girgenti; un Giuseppe Ugo e Perremuto, con
privilegio dato a 25 ottobre 1730 esecutoriato a 17 giugno 1731, ottenne
concessione del titolo di marchese, fu governatore del Monte di Pietà di
Palermo nel 1757 e sposò Eleonora Grugno e Gregni, baronessa delle
Favare….”
Il figlio
primogenito di Caterina Ugo, Vicenzo Salvo Ugo (Palermo, 19 febbraio 1882; ?),
marchese di Pietraganzilli, Barone delle Favare, Gattaino e Foresta Vecchia.
sposò in Palermo il 26 dicembre 1920 Silvia
Stefania Costanza Maria Concetta Lanza Filangeri (Palermo, 18 dicembre 1892; ?)
figlia di Don Ignazio Lanza Filangeri (Palermo, 11maggio 1864; Palermo, 28
ottobre 1950) (II principe di Mirto, di S. Marco; barone di Frazzanà e Capri,
di Amorosa; Signore di Mendoli, Villafrati, Claristella, Mirto, San marco e del
castello di Pietra di Ruma dal 1902) e di Antonella (Antonia) Lanza Fardella
(Monte San Giuliano, 17 dicembre 1866; Bologna, 10 novembre 1933) figlia di
Stefano Fardella Barone di Moxharta e di Donna Maria Concetta Paternò Castello
dei Duchi di Carcaci. Matrimonio da Don Ignazio e Donna Antonella avvenuto
a Palermo il 14 dicembre 1889.
In merito al più
volte citato Feudo delle Favare, si trova vicino Caltagirone e come
riporta il libro di Jean Levesque Deburigny (
era “ricco di scaturigini (sorgenti) e Marchesato della nobile
famiglia Ugo”.
In merito
all’ubicazione ho trovato un’antica pianta topografica risalente al 1761 che
riporta il feudo di Granieri confinante con il Feudo delle Favare.
“Feudo di Granieri
, appartenente ai Monasteri di Santa Maria di Licodia e San Nicolò l’Arena
della citta di Catania. Feudo che è
situato nel territorio di Caltagirone e confinante per Tramontana col Feudo
della Favara, col Feudo denominato Sciri per Mezzogiorno e Levante, e con Feudo
nominato di Santo Pietro Fiume intermedio per Ponente”.
Il casale di
Cattaino scomparve a causa dell’abbandono forzato voluto da Carlo V nel
1535/1537 che riuniva a Bronte i 24 casali presenti nel territorio.
Un abbandono
forzato sotto pena della distruzione delle case o “capanne”.
C’è da dire che
non tutti i casali obbedirono all’editto di Carlo V infatti benedetto radice
elencando le borgate o masse obbligate a riunirsi nel casale di Bronte, non
elencò il Casale Cattaino dato che apparteneva ad un barone feudale.
Il casale
probabilmente scomparve per qualche evento naturale o per le mutate condizioni
economiche e sociali avvenute nel corso dei secoli XV e XVI come si verificò
per Maniace e per altri casali.
I baroni del
Cattaino vivevano a Randazzo e spesso soggiornavano nel castello di Torremuzza
per esigenze legate all’amministrazione e controllo del vasto feudo.
Il castello subì
nel tempo varie modifiche e ristrutturazioni anche con ingrandimenti e la
modifica delle fortificazioni.
Torre forse bizantina
Architettura
Lo sperone di roccia su cui è posto il
castello è accessibile solo da meridione.
Agli altri punti cardinali corrispondono pareti a
strapiombo difficilmente praticabili.
Le pareti rocciose verticali consentono l’accesso solo
dal lato in cui è ubicato l’ingresso. Un ingresso protetto da una duplice
cortina muraria munita di feritoie angolare per dirigere il tiro delle balestre
in direzione della porta d’accesso.
La particolare conformazione rocciosa costringe la
fortezza a distendersi su più livelli: in basso trovano posto recenti
strutture, composte da ambienti probabilmente residenziali, forse adibiti in
epoca recente a celle per i detenuti. Al livello superiore si accede attraverso
piccoli gradini ricavati dalla roccia, terminanti in un ingresso angusto. La
seconda elevazione ha l’aspetto di un’ampia terrazza, i cui bassi muri
perimetrali sono caratterizzati da numerose feritoie quadrate o circolari.
Trattasi di un ampio luogo di osservazione per il territorio circostante, una
ampio terrazzo recintato in grado di trasformarsi, all’occorrenza, in un ridotto
fortificato isolato dal resto dello sperone roccioso. Su questo terrazzo si
distinguono, a nord-ovest, i resti di una torre, la quale si ritiene
(tradizione locale) edificata in una imprecisata epoca della dominazione
bizantina in Sicilia. La struttura poggia su di un affioramento di roccia ai
margini occidentali della piccola rocca. Dai resti si può dedurre una pianta
circolare; la tecnica edilizia si compone di pietre locali non squadrate, unite
insieme da malta.
Sulla sommità si distingue quel che rimane del piccolo
camminamento di ronda, accessibile probabilmente per mezzo di una scaletta (in
legno?), secondo quanto lasciano intendere alcuni fori presenti lungo la
parete interna superstite. Nell’insieme l’intero corpo di fabbrica presenta una
tecnica costruttiva e un impianto edilizio relativamente recente. Non si
posseggono al momento dati storici certi che permettano una sicura datazione,
solo ipotizzabile tra il XVII e il XVIII sec. d.C. E’ comunque probabile che i
ruderi della torre siano preesistenti, sebbene non vi sia prova alcuna che
avvalori una datazione ad epoca bizantina.
Durante
il periodo normanno-svevo – aragonese attorno alla torre fu costruita una prima
cinta muraria munita di merlature e caditoie.
In
questo periodo il castello era inserito in un sistema di fortificazioni interne
della Sicilia che servivano non solo per il presidio del territorio, la regia
Trazzera “Giardini – Termini” passava
nelle vicinanze , ma anche per permettere il collegamento visivo fra i vari
presidi per le comunicazioni attraverso segnalazioni ottiche o fuochi.
In
questa visione dovrebbero essere inseriti anche i castelli vicini di Bolo e la
“Torre del Fano” di Maletto.
Con gli spagnoli il
castello fu probabilmente trasformato in masseria fortificata con la costruzione
di una seconda cinta muraria
LUOGO DI RECLUSIONE
Nel 1501 fu utilizzato come luogo di
reclusione quando vi fu internato Antonio Spitaleri “rure Brontis” secondo
una sentenza del capitano di Randazzo.
Il castello continuò ad essere usato come
carcere fino ai moti rivoluzionari legati all’unità d’Italia.
Il castello fu usato dal Comune di Bronte
come luogo di detenzione anche per prigionieri politici. Il Radice nel 1926
raccontava di “strane” leggende, forse di torture, morti e fantasmi.
Molti parlarono anche si sotterranei con
camere di tortura per i prigionieri e i condannati a morte.
La funzione strategica non sfuggì ai
nazisti come caposaldo strategico per il controllo della via che portava nel
centro della Sicilia.
I nazisti utilizzarono quindi il castello
sia come presidio militare sia come carcere.
A conferma del luogo come prigionia erano
ancora presenti, almeno fino agli ’80,
dei messaggi disperati di aiuto lasciati dai prigionieri.
Il comando tedesco aveva anche il suo
presidio a Borgo S. Giuliano dove aveva creato anche un ospedale da campo.
Oggi
i resti del castello sono, purtroppo, completamente abbandonati ed il castello
è un luogo di ricovero di mandrie ovine e bovine oltre ad essere usato spesso
come luogo di postazione di cacciatori.
La
torre anche se sbrecciata ha resistito tanti anni.. le feritoie e le caditoie,
parlo degli anni ’80 erano ancora intatte… Una stanza mostrava segni di
rifacimenti forse realizzati quando la fortezza fu adoperata per carcere… intorno si notava ancora qualche
piccola testimonianza di quello che doveva essere il Casale del Cattaino.
Un
casale, riparato alle spalle dalle montagne e dal fiume a valle, protetto
militarmente dal castello che poteva accogliere
in caso di pericolo gli abitanti del luogo.
Dal
castello un panorama che spazia abbracciando un vasto territorio.
Se
nel medioevo il castello rivestì un importanza notevole per l’economia
dell’intera zona sorvegliando l’antica strada consolare che da Troina
giungeva a Cesarò, per poi proseguire
verso Randazzo e Bronte, oggi potrebbe rivestire un importante punto di sviluppo
per l’economia turistica di un vasto comprensorio ricco di notevoli
testimonianze culturali e naturalistiche.
Commenti
Posta un commento