Bronte – San Teodoro : Dalla Valle di Bolo al Borgo “S. Giuliano”

  –   Il Ponte Normanno di Serravalle e le Forre Laviche – I Castelli di Bolo e Torremuzza –
Il Borgo “S. Giuliano”













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Indice
1.      Il Ponte Normanno di Serravalle –
L’epigrafe del Conte Ruggero II alla madre Adelasia.
2.      Le Forre Laviche – La Caratterizzazione della RNI “Forre Laviche del Simeto”-
La Memoria: Le Vittime del Fiume : I due ragazzi di Centuripe,                  e Gabriele Salatiello figlio di Bice Mortillaro Salatiello  importante figura nel Sociale di Palermo
3.      La Chiesa della Placa di Serravalle
4.      Il Castello di Bolo – Le testimonianze Sicule, Greche devastate e cancellate dai tombaroli – I nomi dei Cavalieri del Casale che parteciparono al Vespro – Archeologia – Le monete rinvenute tra cui alcuni Tetradramma – La Leggenda del Re Boly – La mia Sicilia devastata dai tombaroli (le mie esperienze nel viaggio lungo la Loira e la visita al sito di Rocchicella) – Il Busto Bronzeo rinvenuto a Bronte si trova al British Museum di Londra.
5.      Il Castello di Torremuzza
I Feudatari: Manna, Crisaffi, Sant’Angelo, Tornabene, Blasco Lancia;…. Coppola, Ugo delle Favare, Pietro Ugo e Ruffo delle Favare, Caterina delle Favare –  La Villa delle Favare di Palermo ai Romagnoli –
Il Feudo delle Favare (vicino Caltagirone ?)
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6.      Borgo “S. Giuliano” (San Teodoro – Me).
            Indice
            Il Borgo Salvatore Giuliano – La dedica del Borgo –
            I Separatisti – Canepa e la compagna Clelia Rosati – La Nascita del Borgo –
            I suoi momenti di vita – Citato nel Lunario Sicilia con disegni di Renato Guttuso   
            Architettura – Il Degrado – Video

           Altri file su Borghi di Sicilia:
           Viaggio lungo le Ferrovie Dismesse della Sicilia
            La Ferrovia Alcantara – Randazzo  (Francavilla di Sicilia – I sette Borghi   
            Schisina della Riforma Agraria)

           Rometta (Me) – Borgo Pantano

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1.      Il  Ponte Normanno di Serravalle


Nella valle di Bolo si snodava la vecchia strada percorsa da eserciti, pellegrini, commercianti, corrieri postali che da Troina, capitale normanna, o da Palermo permetteva di raggiungere la costa di Catania e di Messina. Transitavano per l’antico ponte Normanno di Serravalle mentre più a valle sul Simeto c’era il Ponte dei Saraceni ancora oggi esistente..






Il ponte di Serravalle fu costruito dal Conte Normanno Ruggero II  nel 1121 per mettere in comunicazione le varie “masse” sulla sponda sinistra del fiume Simeto (Maniaci, Rotolo, Corvo, S. Venera, Bronte) e le “masse” sulla sponda destra (Bolo, Cesarò, Carbone, Placa Baiana,) con Troina, Messina, Palermo

Gli Arabi diedero alla contrada il nome di “Càntera” forse collegato alla parola latina “cantharus” e al greco κάνϑαρος” cioè “coppa” o “camera” dalla particolare conformazione della valle erosa dal fiume Simeto che  scorre tra pareti rocciose.



Forse gli arabi in quel punto crearono un ponte  che fu ricostruito da Ruggero II e dedicato alla madre Adelasia che morì a Patti (Messina) nel 1118.

Il ponte si trova  sulle “Forre Laviche” del Simeto e vicino ad un’antica masseria dove si trova l’ex Chiesa  della Placa Serravalle dedicata a San Francesco di Paola. Nel sito si trovano anche i resti di un antico mulino ad acqua.


L’origine del Ponte Normanno è attestata anche da un’epigrafe scolpita sulla pietra calcarea e posta sull’ala destra nord del manufatto.



“Fu costruito questo ponte per la serenità del gloriosissimo
Conte Ruggiero di Calabria e di Sicilia e dei Cristiani aiutatore per
l’assoluzione della defunta madre di lui Adelasia regina.
6629, ind.14 (1121)”.

La lapide misura (86 x 86) cm ed ha uno spessore di 22 cm. Fu lo storico Benedetto Radice a salvarla perché stava per essere spezzata durante il rifacimento dell’ala del ponte. “Fu a mia cura, e a spese del Municipio, portata al Collegio, ove da un ignorante rettore, venne adoperata come puntello a grosse travi per l’impalcatura del ponte nella fabbrica della chiesa…. La data del 1121 ora si legge benissimo, avendo io curato di farvi passare del nero fumo”.
Una leggenda narra che gli addetti alla costruzione del ponte furono degli operai saraceni. Un  saraceno ..” piantatosi colle gambe sulle rive opposte del fiume,  abbia indicato il sito, ove esso doveva sorgere”.
Nella fantasia popolare siciliana il saraceno era spesso sinonimo di “gigante”.
“Il Dio Termine però dava spesso occasione a litigi, ed odi feroci fervevano nei petti dei confinanti per l’eterna lotta del mio e del tuo. Di quest’odio un ricordo è rimasto nel detto tradizionale dei Brontesi: “ Sono come Maniaci e Rapiti” per dire: “sono due nemici acerrimi”. (Il Casale Rapiti sorgeva tra Bolo e Maniace).

La stessa data si legge in un piccolo “quadrello” di pietra lavica poste nella centinatura del ponte a sud.  Secondo la testimonianza di Benedetto Radice la medesima data si leggeva in un concio nella parete della Chiesa di San Giorgio che fu costruita dallo stesso Ruggero come testimoniano alcuni documenti conservati presso l’archivio del Comune.  Chiesa che fu distrutta per la costruzione del cimitero.
Un’opera composta da pile idrodinamiche che reggono le arcate medievali. La sua configurazione è a schiena d’asino ed è costruito con pietre basaltiche locali che sono alternate a conci di tufo bianco. L’alternarsi di pietre basaltiche e di conci di tufo fa assumere al ponte un particolare effetto cromatico.
Proprio sul ponte passava la vecchia strada che univa la parte interna della Sicilia, Nicosia, Cerami, Troina, passando per Cesarò con i centri commerciali e portuali di Messina e Catania.
L’altro ponte della Placa fu rifatto dove passa il fiume di Troina nell’anno 1769, come testimoniano i documenti della Real Segreteria anno 1769 filza 2279. Dispacci e Aziende 22 Aprile, fog. 206 N. 27”.

Ponte che si trova a poca distanza dal ponte Normanno.















2. LE “FORRE LAVICHE”

Interessante à la descrizione di Benedetto Radice che risale ai primi anni del 1900 e quindi distante ben un secolo dai nostri giorni.
“Il congiungimento dei due fiumi Troina e Simeto, presso il ponte di Serravalle, forma confine fra i massi vulcanici e sedimentari. Tutto questo tratto è un profondo e selvaggio burrone, nominato i balzi della Camera, ove il fiume, uscendo dal ponte, si precipita schiumante sulla lava e sui blocchi di pietra arenaria. E una cascata fortissima ed è facile comprendere, come possono essere orribili gli effetti corrosivi del fiume, quando esso si ingrossa, e si precipita attraverso quella cascata, bellissima e ricca di rarissimi e particolari panorama, fra scogli di lava da ottanta a cento metri di altezza ripidi e impraticabili. Un attento esame presso il ponte di Cantera; al mezzogiorno fa supporre invece che cataclismi spaventevoli avessero deviato il primitivo corso, come si scorge dal combaciamento delle due rive opposte”.










Le “Forre Laviche” costituiscono la Riserva Naturale Integrale (RNI) “Forre Laviche del Simeto”.

L’area interessa una fascia di territorio di particolare valore geologico-ambientale per le sue morfologie, gli ecosistemi e i  microclimi che vi si sono stabilizzati. È dal punto di vista geologico una profonda incisione che il fiume Simeto ha scavato nel corso dei secoli sulle più antiche lave dell’area Etnea.
Si sono creati, grazie a questa forte erosione delle gole con pareti di altezza variabile tra i 5 metri e i 50 metri (all’altezza del ponte di Serravalle – “u bazu ‘a càntira”), anse, cascate e laghetti che, incastonati nel nero basalto lavico dell’eruzione del 1603, hanno creato degli ambienti di rara bellezza e suggestione.

Basalto lavico che ha la caratteristica geometria dei prismi basaltici perché costituiscono il contatto tra le rocce sedimentarie e le lave etnee
C’è da dire che le forre nei basalti non vanno confuse con gli ingrottati lavici che presentano una genesi del tutto differente.

Basalti colonnari
I basalti colonnari sono rocce magmatiche originate dal raffreddamento di masse (colate) magmatiche durante il loro movimento.
Questo raffreddamento genera delle fratture che sono perpendicolari e parallele
al fronte della colata in movimento che separano delle colonne a base esagonale e in
alcuni casi quadrata.

Basalti colonnari vicino al Ponte dei Saraceni (più a sud verso Adrano)

Basalti Colonnari

A Serravalle il letto del fiume si restringe notevolmente scorrendo proprio tra anguste e profonde gole soprattutto in contrada Barili, sempre nel territorio di Bronte, dove sono presenti dei basalti colonnari di straordinaria bellezza.

Bronte – Contrada Barrili

Basalti Colonnari , “a canne d’organo”

 Nell’area assediata da insediamenti agricoli, da un fitto reticolo viario, un tempo da discariche abusive (non so se la situazione sia migliorata o meno) poste accanto alle coltivazione ed ai frutteti, proprio in prossimità delle Forre si è sviluppata una tipica vegetazione ripariale. Una vegetazione  che ospita un interessante componente faunistica specializzata e legata anche agli ecosistemi acquatici.

Il Sic (Sito d’Importanza Comunitaria) si snoda lungo il corso del fiume Simeto che si divide i due tipologie di suolo che di conseguenza creano due diversi tipi di habitat (ambientali e culturali). Nel lato orientale i terreni vulcanici creano un ambiente adatto alla coltivazione di alberi da frutto mentre sul lato occidentale c’è una predominanza di aree a vegetazione brulla e cespugliosa.
Nel mezzo, ai margini del letto del fiume, si trovano lembi di vegetazione ripariale o nudi basalti colonnari.
Sui costoni lavici che costituiscono le sponde del fiume si osservano varie specie tipiche dei boschi e della macchia mediterranea come l’Olivastro, il leccio, il bagolaro e anche il tamarice gallica e l’oleandro, ecc.
In base a questa suddivisione ambientale è possibile distinguere altrettanti tre assemblaggi di specie avicole che utilizzano annualmente, o per brevi periodi, il territorio del SIC.
Nelle zone aride si osserva la presenza del Lanario (Falco biarmicus feldeggii) e della Coturnice (Alectoris graeca whitakeri) e di altre specie specie maggiormente diffuse in queste tipologie ambientali come la Cappellaccia (Galerida cristata) e dello Zigolo nero (Emberiza cirlus). Tra i mammiferi oltre a quelli più comuni come la Volpe, a quelli più vulnerabili come la Lepre, è presente anche l’Istrice. Sui suoli lavici si trovano le specie legate a frutteti e frutteti consociati come Columbidi e Corvidi, mentre nelle zone ripariali è stato osservato il Martin pescatore (Alcedo atthis) e numerose altre specie di passo come la Garzetta, il Corriere Piccolo e la Ballerina Gialla.
In merito agli Anfibi sono presenti specie che si trovano  comunemente lungo il corso del fiume come il Discoglosso dipinto, il Rospo comune e quello smeraldino, la Rana Verde. Anche i rettili presenti in questa zona del Sic si ritrovano lungo tutto il corso del fiume  e nelle zone antistanti come il Greco, la Lucertola campestre, la Luscengola, il Biacco e la Natrice dal collare.  È anche presente una specie che è molto vulnerabile come la Testuggine d’acqua.

La Sicilia vanta nel suo patrimonio naturalistico delle particolarità come
la Testuggine palustre che è equiparata alla Testuggine peninsulare
(Emys orbicularis)  fino al 2005 quando un gruppo di ricercatori analizzò
il DNA delle due specie. Fu riscontrato nelle relative analisi delle differenze
genetiche che permisero di classificare la Testuggine palustre siciliana come
una specie a sé, una specie nuova, denominandola Emys Trinacris



Il SIC dal punto di vista del suolo è caratterizzato da aree naturali o seminaturali che si estendono per oltre il 61% della superficie complessiva. I boschi di latifoglie (26%) si riscontrano in formazioni lineari lungo il corso del fiume e con popolamenti più consistenti in località “Contrada Bolo”. Spesso si tratta di formazioni rade di alberi adulti con un sottobosco caratterizzato da una notevole presenza di arbusti e di alberi giovani. Nelle aree con vegetazione erbacea e/o arbustiva (26%) sono stati inclusi i pascoli , gariga e macchie in fase di evoluzione.
Le aree con vegetazione rada o assente occupano circa il 6% del territorio e sono rappresentate principalmente da aree del greto del fiume Simeto e di qualche area calanchiva presente nella zona centrale del sito.
Le superfici ad uso agricolo sono destinate soprattutto alle colture permanenti (20%) coltivate per oltre 95 ettari a frutteti, sui seguono i vigneti con 76 ha e presenti per lo più a nord, gli agrumeti con circa 61 ha presenti in maniera diffusa nella zona centro-meridionale (anche se la superficie ha subito negli ultimi anni un progresso decremento) e gli oliveti con circa 10 ha.
I seminativi di tipo estensivo e le aree agricole eterogenee, (porzioni di terreno nelle quali la destinazione colturale è molto frammentata e variegata, non cartografabili singolarmente a causa della loro esigua estensione) occupano complessivamente il 18% del sito e sono diffuse su tutto il territorio.
Altre classi di uso del suolo sono poco rappresentate con l’urbano agro-residenziale e l’insediamento artigianale. Il corso del fiume occupa circa il 3% della superficie.



Carta del Suolo – Ripartizione in percentuale


Caratterizzazione della Riserva
Codice Riserva: CT2
Denominazione: RNI – Forre Laviche del Simeto
Province : Catania – Enna
Comuni : Adrano  (Ct) – Centuripe (En)  - Bronte (Ct) – Randazzo  (Ct) – Cesarò (Me)
Estensione:
Area Riserva : 282,50 Ha
Area Preriserva:  8,75 Ha
Totale Area : 291,25 Ha
Carattere della Riserva : Af (Aste Fluviali)
Ente Gestore : Azienda Foreste Demaniali della Regione Sicilia (?)
SIC ITA 070026
ZCS  - Zona Speciale di Conservazione – sì
ZPS – Zona di Protezione Speciale  per l’avifauna - no

Normativa  di  Riferimento
-          Decreto 3 Aprile 2000 – Ministero dell’Ambiente – Inserimento del Territorio “Forre laviche del Simeto” nell’elenco dei Siti di Interesse Comunitario (SIC) (79/409 CEE), siti Natura 2000 ..”Conservazione degli Habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche del luogo”

-          Sicilia – Il piano Regionale dei Parchi e delle Riserve Naturali, istituito dalle leggi regionali n. 98/81 e n. 14/88 ed approvato con Decreto dell’Assessorato del Territorio e dell’Ambiente del 10 giugno 1991, prevede inoltre l’istituzione della Riserva Naturale Integrale Forre Laviche del Simeto” nell’area compresa tra Monte Passopaglia, in territorio di Bronte, e contrada Santa Domenica nel Comune di Adrano interessando anche i territori comunali di Randazzo e Centuripe.

-          Decreto 21 febbraio 2005 – Regione Sicilia – Assessorato del Territorio e dell’Ambiente..”Elenco dei siti di importanza comunitaria e delle zone di protezione speciale ricadenti nel territorio della Regione, individuati ai sensi delle direttive n. 79/409/CEE e 92/43/CEE

-          Decreto 5 maggio 2006 – Regione Sicilia – Assessorato del Territorio e dell’Ambiente ..”Approvazione delle cartografie delle aree di interesse naturalistico SCI e ZPS e delle schede aggiornate dei siti Natura 2000 ricadenti nel territorio della Regione “ -  GURS . 35 del 21 luglio 2006

Geosito : Scheda n. 35
Interesse scientifico Primario: Geomorfologico – Paesaggistico
Interesse scientifico secondario: Idrogeologico - Didattico
Grado Interesse scientifico primario: Europeo
Elementi caratterizzanti del geosito: Basalti alcalini
Tipologia geosito : Forre
Fruizione dell’Area
Accessibilità: Emerso  e sommerso
Difficoltà accesso: Abbastanza difficile
Modalità d’accesso: a piedi
Suolo e Fondale
Uso suolo: Roccia affiorante
Vincolo Territoriale: DL 42/2004 art. 142 (Ex Legge Galasso 431/85)
Stato di Conservazione: Buono
Rischio di Degrado: Medio antropico
Descrizione del rischio di degrado: Discariche abusive


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Il fiume Simeto con una sua storia millenaria, menzionato anche da Virgilio nel IX libro dell’Eneide dove scrisse: “Faceva la guardia all'accampamento il figlio di Arcente, egregiamente armato con il mantello ricamato e splendente di porpora iberica, bello di aspetto, che il padre Arcente aveva inviato dopo averlo sottratto al bosco della madre nei pressi del Simeto, dove c'è l'aria pingue e placabile di Palico».
Un fiume anche divinizzato come appare nelle monete dell’antica Adranon dove  l’immagine del culto di Adranòs, descritto da Plutarco con una lancia in mano, è forse una divinità legata al fiume.


Nel visitare il sito il cuore dei naturalisti e degli ambientalisti siciliani corre al ricordo di Gabriele Salatiello, giovane ricercatore, speleologo ed appassionato naturalista.

Scomparve proprio nel corso di importanti campionature sul fiume, travolto dalla furia di una natura spesso violenta e dura anche con chi l’ama e tenta di difenderla.

Il fiume con i suoi meravigliosi aspetti non deve indurre in tentazione e non bisogna quindi sottovalutare le insidie che nasconde.  Il suo corso è spesso stretto, tortuoso e le acque nella stagione di piena creano dei pericolosi gorghi. Le acque del fiume hanno fatto  delle vittime negli anni passati. Undici anni fa due giovani di Centuripe, Annamaria Cardiano e Francesco Saraniti furono travolti dalle acque mentre cercavano di attraversarlo ( 1 maggio 2004).
Originari di Centuripe durante una gita lungo il fiume avevano deciso di attraversarlo  nei pressi del Ponte dei Saraceni in un punto in cui era presente una strettoia dove l’acqua aveva tagliato un antica colata lavica. Mentre camminavano sugli spuntoni di roccia  Annamaria e un giovane della comitiva caddero in acqua. Francesco Saraniti con coraggio si tuffò per salvarli.  Riuscì a portare in salvo il ragazzo e cercò disperatamente di salvare anche Annamaria ma il destino fu crudele… probabilmente anche a causa della stanchezza non riuscì nell’impresa e fu trascinato assieme ad Annamaria dalla corrente.  I soccorsi furono tempestivi ma fu tutto vano. I loro corpi furono successivamente ritrovati.
L’8 gennaio 1989 il giovane Gabriele Salatiello, speleologo, ambientalista e grande studioso della natura morì sul fiume , nei pressi del ponte di Serravalle, per salvare una sua compagna che era caduta nel fiume. Rimase incastrato fra le rocce.. si spense un grande cuore generoso che si occupava della salvaguardia dei fiumi, dei boschi della sua amata Sicilia.

Era figlio di Bice Mortillaro Salatiello, una figura sempre in prima linea per difendere i diritti delle donne e di quanti vivono ai margini della società.
Si è spenta il 20 novembre 2018 dopo una vita di grandi e prestigiosi traguardi ottenuti con il suo coraggio e le sue importanti iniziative.
Fu lei a fondare l’associazione “Laboratorio Zen Insieme” e fu sempre vicino alle donne, ai bambini e alle bambine… a chi vive nelle periferie e nei quartieri popolari,  tenuto ai margini del vivere civile. Fu protagonista, con le donne del digiuno, della rivolta delle donne palermitane contro la violenza mafiosa. Una figura importante nella storia sociale della Sicilia e in particolare di Palermo. Una figura che si allontana dai stereotipi degli uomini politici  o di quei “predicatori” che parlano tanto di “famiglia” ma solo per i loro egoistici interessi economici dando di sé una impressione che non corrisponde  alla realtà.

Speriamo che non venga  dimenticata perché la società di oggi ama tanto i crocifissori, falsi predicatori, e non il Crocifisso cioè chi fa del bene.

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   3. La Chiesa della Placa di Serravalle.




L’edificio si trova in una zona agricola molto fertile e nei pressi del punto in cui il fiume Troina confluisce nel Simeto.
Una chiesa inglobata in un angolo di un antica masseria che fa rivivere momenti perduti.
Anche l’importante storico Benedetto Radice, nativo di Bronte; la citò con una piccola frase esaltandone la solitaria ubicazione come a dare conforto  agli antichi agricoltori che popolavano la zona…”la chiesetta solitaria, al cui piè rumoreggia il Simeto”.
La chiesetta non è molto antica anche se la sua ubicazione, e forse anche la sua struttura, farebbero pensare ad una datazione più remota.
Fu costruita dal Barone Francesco  Grimaldi di Serravalle verso la metà del XIX secolo dedicandola a San Francesco di Paola.

La chiesa in origine aveva una pianta ottagonale con archi a sesto acuto sotto ai quali, ai quattro angoli, sorgevano altri controarchietti che erano separati da colonne.
Quattro colonne in pietra lavica e con la base in pietra arenaria (alcuni elementi sono ancora visibili all’interno della chiesa) e con capitelli con foglie d’acanto che sostenevano i quattro archi principali.

La chiesa fu modificata ed è oggi a pianta longitudinale e con una piccola cella campanaria a fianco.


La facciata è caratterizzata nella sua semplicità da un timpano tricuspidato mentre la facciata nord presenta invece tre archi a sesto acuto.


Nell’ordine inferiore, sotto la rotonda finestra del timpano, si trova il portale in pietra arenaria con il timpano.

L’esterno si presenta in discreto stato conservativo mentre l’interno è in decadimento.
La chiesa è stata infatti sconsacrata ed è oggi adibita a magazzino da parte dell’azienda agricola che ne è proprietaria.
La cella campanaria, costituita da quattro robusti conci in pietra lavica, è stata privata della campana che è stata rubata da qualche “amante” dell’arte.




Nella chiesa si trovavano la copia del quadro di Carlo Dolci, (Firenze, 25 maggio 1616; Firenze, 17 gennaio 1686),  che raffigurava la Madonna del Velo.  Una bellissima raffigurazione, come riporta B. Radice,  “con il Bambino che dorme colla guancia poggiata su di un cuscino di seta verde mentre la Madre è nell’atteggiamento di guardarlo amorosamente e di distendere un velo. S’ignora l’autore della copia”.
L’altro quadro raffigurava San Francesco di Paola ed era del barone Francesco Serravalle.

Bronte (?)
La Madonna con il Velo
Di Carlo Dolci


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4.  Il Castello di Bolo







Il Castello di Bolo, indicato nelle cartine dell’IGM come “punto geodetico”, si trova quasi al centro di un ipotetico triangolo che unisce i Comuni di Bronte, Maniace e Cesarò.




Il castello di Bolo, ubicato a 923 metri di altitudine in posizione spettacolarmente dominante e strategica, si raggiunge per una mulattiera che si diparte dalla bretella più breve che porta da Bronte alla statale 120 per Cesarò.
Bolo è una montagna posta tra l'Etna e le Caronie, a strapiombo sull'alto corso del Simeto e del suo affluente Troina, in territorio di Bronte.
L’etimologia del nome è forse legata alla natura della terra argillosa.
(Il “bolo” è un minerale argilloso contenente ossido di ferro di colore rossastro, untuoso al tatto. Veniva adoperato come strato adesivo per applicare la doratura su oggetti non metallici ed era anche detto “bolo d’Armenia”).








Sotto ed intorno alle sue due ultime povere mura, che oggi resistono perche' ancora ci sia parvenza dell'antico e famoso "Castello di Bolo", giacciono ancora molti segreti. Segreti forse ancora in parte nascosti malgrado le ruspe dei "tombaroli" abbiano negli ultimi anni assaltato l'intera collina su cui ancora le mura malamente ancora sorgono e sembrano sfidare il tempo.
I tombaroli, profanando tombe e distruggendo vestigia poco importanti per loro,  hanno trovato ricchi tesori, giare piene di monete.
Oltre mezzo secolo è passato da quando Benedetto Radice, storico brontese che per primo si interessò delle scoperte archeologiche di questi luoghi, lamentava il disinteresse assoluto degli archeologi e degli storici per queste testimonianze ritenute, forse, banali o, comunque, non importanti.
La montagna tricuspidata di Bolo ebbe sempre una funzione di primo piano, nell'antichità come luogo ideale di insediamenti fortificati, sicuri in tempi non troppo tranquilli. Funzione che continuò ad avere per tutto il Medio Evo, epoca in cui l'insediamento umano si fece più consistente per la presenza di una vedetta fortificata in funzione di difesa e di avvistamento.
I pochi appassionati che ebbero la fortuna di visitare Bolo quando ancora i fianchi della montagna non erano stati sventrati dalle ruspe e quando ancora del suo Castello restava molto più che qualche muro, ebbero a parlare di remoti insediamenti umani.
Insediamenti legati forse ad una presenza sicula spiegabile con le numerose grotte naturali e artificiali in cui fu rinvenuta ceramica non ancora influenzata dall'artigianato greco.
In tempi moderni ci sono stati i ritrovamenti di monete, di "tesori" addirittura, che mostrarono una monetazione di marca siracusana, greca, romana ed anche macedonica tanto da fare parlare qualche studioso di Bolo come di una delle stazioni mamertine poste, nel III sec. a.C. a nord dell'Etna.
Certo importante e duratura vi dovette essere la presenza greca, a giudicare dai numerosi resti lasciati distrutti in superficie  dalle recenti razzie.
Sepolcri, anfore e "rottami di colonne costruite con grossi mattoni rotondi appartenenti a qualche tempio" (B. Radice), sarebbero la testimonianza di un importante insediamento greco. Purtroppo  niente è visibile di essi se non la miriade di cocci lasciati in superficie dai ladri e le tombe scavate (il mio sopralluogo fu verso il 1975- 80).



Il primo documento che cita il “Casale di Bolo” è un atto di vendita del 1139 in cui Nicola, fratello del notaio Arcadio di Traina, “col suo figlio Leone” vende per il prezzo di 200 tarì d’oro alcuni fondi siti nel Casale di Bolo al notaio Costantino del Castello.
Nel gennaio 1282 a Bolo era in carica un maestro giurato, Pietro Casso, che fu riconfermato da re Pietro il 2 gennaio 1283 (“Casalis Boly”).
Il Feudatario di Bolo partecipò alla Guerra del Vespro dando il suo appoggio alla giusta causa aragonese il 23 gennaio 1283, in merito c’è l’esistenza di una lettera inviata al re Pietro d’Aragona.
“Il Casale di Bolo”, come altri casali, inviò al “Campo del Re” presso Randazzo, dove si dovevano radunare i rinforzi militari forniti dai siciliani in aiuto degli Aragonesi, sei fra arcieri e fanti.
Dal “Campo del Re” l’armata si sarebbe mossa verso Messina per fronteggiare l’esercito di Carlo D’Angiò.
Ci sono stati tramandati i nomi di quattro dei sei cavalieri mandati dal “Casale di Bolo”:
Simone Ostingano
G. Tornitore
Giovanni Spavaldo
Simone Campione
Nel novembre, sempre del 1283, il “casale di Bolo” inviò a Messina dei rifornimenti alimentari costituiti da:
-          Venti salme di grano;
-          40 salme d’orzo;
-          5 vacche, 50 montoni e 40 porci.
La fiorente Universitas di Randazzo inviò nello stesso periodo i seguenti rifornimenti:
2000 montoni, 100 vacche e 200 porci.
Maniace inviò lo stesso quantitativo del Casale di Bolo e per il ritardo della spedizione ebbe con Randazzo il rimprovero del re.
Per l’esecuzione di questi ordini il re aveva nominato Roberto da Adernò come Commissario regio per Bolo e per altre dieci Università.
In un documento del 29 giugno 1335, indizione terza, si rileva che Bolo apparteneva alla curia del giustiziere di Castrogiovanni e Demenna.
Nello stesso documento si legge che “Costa Russo e Brancato Crasso da Frazanò, abitatori del Casale di Bolo, ad istanza di Anichio, abate del Monastero di S. Filippo di Fragalà, confessarono alla curia di dovere ognuno al detto monastero tarì quattro d’oro, all’anno, come dritti ascrittizii per ragioni di villanaggio”.
Questo documento dimostra come Bolo non era sottoposto alla curia di Randazzo, infatti i due accusati furono processati dalla curia di Castrogiovanni.
Lo stesso casale con altri undici casali fu soggetto “al mero e misto impero di Randazzo” con privilegio di re Federico III d’Aragona emanato nel 1348.
In epoca più tarda anche l’abate Vito Amico, nel suo dizionario topografico, citò il casale di Bolo sotto la dipendenza del Vescovo di Messina.
Nel 1392 un Diploma reale  prescriveva che i suoi abitanti dovevano rivolgersi per le loro cause al Capitano Giustiziere di Randazzo.



Nel 1408 si ha notizia di un'altra questione sempre con il monastero di San Filippo di Fragalà  in cui figura, come castellano di Bolo, Nicolò Milito.
Il documento è un atto giuridico che riguardava i feudi di Gullia e l’eterna controversia fra l’Abbazia di Maniace e quella di San Filippo di Fragalà.
Un documento  importante perché testimonia l’esistenza del castello, ancora in efficienza, e del casale che difendeva.
Il documento è un atto giudiziario del 19 aprile 1408 in cui si ha un giudizio d’integrazione di possesso dell’importante Feudo della Gullia e di un pezzo di terra detto “Lu cugnu di lu cuntrastu e la manica di lu chiprisi” contro Giovanni Ventimiglia, detentore del monastero di Maniace e in favore di Aganato, abate del monastero di S. Filippo di Demenna.
Nell’atto appare come testimone nella controversia un certo Nicolò Milito, castellano di Bolo (“Castri Boli”).


Dalla data del 1408 non figura nessun altro documento sul castello di Bolo e non si sa nulla sul motivo del suo silenzio.
Forse il terremoto del 1444 distrusse il casale e il castello ma non si hanno riferimenti in merito.
Nel 1535 (1537 ?) Carlo V, nella sua breve visita siciliana, percorrendo la "Regia Trazzera" che si snodava lungo i versanti dell'Etna, vide sulle sponde dell'alto corso dei fiumi Simeto ed Alcantara, molti floridi casali anche di origine remota (Maniace, S. Leone, Corvo, Rotolo, Santa venera, Bolo, Cattaino, Cuto, Carbone, Spanò, Placa Bianca, Rapiti). L'imperatore decise il raggruppamento dei numerosi casali, per una maggiore comodità fiscale e giudiziaria, a Randazzo che era il luogo più importante della vallata, (“sotto il cui mero e misto impero dovevano riunirsi i casali”). Il decreto fu emanato a Bronte nel 1537 e Bolo fu citato perché era un casale ancora abitato e perciò capace di corrispondere censi.
In questo periodo i casali tra cui Bolo furono abbandonati e gli abitanti si trasferirono non solo a Randazzo ma anche a Bronte che era più vicina ai preesistenti casali.
In epoca sveva, particolarmente, il castello di Bolo fu una delle più importanti stazioni per le comunicazioni a distanza in una catena di fortilizi che serpeggiava per tutta l'isola e che nella zona aveva altri punti di riferimento precisi.
Spesso, dunque, appaiono, qua e là, nei documenti medievali, i nomi dei vari castellani e dei coloni di Bolo e riferimenti al casale e alla fortezza: in concessioni feudali, in vendite, in obbligazioni, in testimonianze.





La funzione che il castello svolse in periodo angioino-aragonese fu importante per la sua posizione di sentinella a ridosso di una delle vie di comunicazione più frequentate e più sicure di allora, la "Regia Trazzera".
Regia Trazzera che dalla costa jonica, svolgendosi in questi versanti per Randazzo, Maniace e Troina, Nicosia, raggiungeva Palermo attraverso un tortuoso tracciato, evitando le coste poco sicure.
Sin dalla dominazione araba “Manyag”, l’odierna Maniace, era stata inserita nella “via montana” che comprendeva sette “marhalah”, cioè la distanza tra una stazione di posta e la successiva, per complessive 180 miglia
La “4° maralah” (da Nicosia a Maniace) secondo la descrizione del geografo arabo El Edrisi, attraversava Niqusin (Nicosia), Garami (Cerami), Qual’at-at-Targinis (Troina) per giungere a Manyag (Maniace). Da Manyag partiva la “5° marhalah” che congiungeva Randag (Randazzo), al’Mudd (Mojo) e Qastallun (Castiglione)”.

«Secondo testimonianze notarili, partendo da Palermo, si passava da Petralia e da Gangi e, dopo altre 24 miglia, sempre a dor­so di mulo, passando da Troina si rag­giungeva Bronte. Da qui, in 12 miglia, di cam­mino partico­larmente difficoltoso per le pietre laviche che affioravano dal terreno, si transitava da Francavilla e, dopo aver at­traversato Taor­mi­na, Sant'Alessio e La Sca­letta, si pote­va arrivare agevol­mente a Messina».
Gesualdo De Luca nella sua "Storia della città di Bronte" (1883) parla che della Rocca di Bolo "non avanzano che due solitari muri crollanti" e che "… più volte sono state, anche di fresco trovate grandi monete d’oro e di argento ove sorgeva il Casale, e lucerne e vasi di creta".
Dopo Carlo V il casale non sarà più citato così come altri casali. Tutti spariti nel nulla come Maniace. S. Leone, Corvo, Rotolo, S. Venera, Cutò, Carbone, Spanò, Placa Baiana. Casali che erano sparsi lungo il corso dell’Alto Simeto fra l’Etna e le Montagne delle Caronie, per ordine dell’Imperatore Carlo V.
La loro identificazione sul terreno oggi non è facile. Ci sono i resti di qualche castello, come Bolo e Spanò,  ma per gli altri non è rimasto altro che una flebile e non sempre ricordata toponomastica.

In realtà intorno alla metà del XVIII secolo di Bolo restava solo il castello che probabilmente non era ancora allo stato di rudere.

I cerchietti gialli sono i castelli (alcuni ruderi)
La linea gialla continua dovrebbe essere la Via Francigena

ARCHITETTURA

Il castello di Bolo, costruito con pietre locali mala­mente squadrate e legate da una malta di discreta qualità, aveva una pianta stretta ed allungata ed occupava tutto lo spazio posto sulla sommità del colle.
L’equilibrio statico della costruzione fu compromessa a causa dei frequenti crolli, soprattutto lungo il fianco meridionale della collina particolarmente scosceso e difficilmente accessibile.
La tipologia delle fortificazione ricorda a grandi linee quella di una fortezza a presidio di un passo.
Sono presenti anche alcune cisterne.
Del gruppo di case (il Casale di Bolo) che sorgeva at­torno al Castello, i cui abitanti su ordine di Carlo V si trasferirono nel 1535 nei Casali di Randazzo e Bron­te, non resta nessuna traccia.




Cisterna – Bolo



ARCHEOLOGIA

La  montagna di Bolo ha una sua storia che risale probabilmente al periodo Siculo e con una presenza umana continua fino a Carlo V.
Lungo le pendici del monte, agli inizi del XX secolo furono trovate numerose monete siracusane appartenenti ad Agatoche, Ierone e Lisimaco (III secolo a.C.).
Lo storico Benedetto Radice nelle “Memorie Storiche di Bronte” citò i ritrovamenti di “vari ripostigli di monete siracusane, greche e romane, rinvenute nel 1901, 1902 e 1915" lamentando che la zona "non sia stata visitata mai dagli archeologi".
Lo stesso storico affermò che alcune monete furono conservate dal cav. Gennaro Baratta, tra cui una “Porcia Romana”.
(L’autore si riferiva ad una moneta che raffigurava la “gens Porcia”.
Il personaggio più noto della famiglia fu Marco Porcio Catone, noto anche come Catone il Vecchio o il Censore, che fu console nel 195 a.C.)

Moneta "Porcia Romana"

Importanti furono i cinque tetradrammi di Lisimaco risalenti al III secolo a.C., anche questi spariti.

Tetradramma di Lisimaco (297 – 281 a.C.)
Emissione: Zecca di Pergamo
I tetradrammi di Lisimaco si rassomigliano per i seguenti aspetti:
nel diritto presentano la testa diademata di un re con la chioma
disordinata, disposta in modo assai pittoresco, e con due corna d’ariete;
nel rovescio presenta Minerva vincitrice, armata, sedente e che ha
nella destra il piccolo simulacro della vittoria.
L’unica differenza è in parte nel volto a seconda dell’età di Lisimaco.
Le corna erano il simbolo di Carlo Magno che si considerava di figlio di Giove.
Lisimaco si vantava d’essere disceso da Bacco, un dio che era spesso effigiato
dai Greci con le corna d’ariete. Fu così che Lisimaco copiò il simbolo anche
perché lo stesso Lisimaco si credeva destinato a rinnovare la memoria
del famoso vincitore d’Oriente.

La presenza di queste monete sull’altipiano di Bolo potrebbero proporre l’ipotesi che Pirro nel 273 per lanciare l’assalto al territorio presidiato dai Mamertini, s’insediò a Bolo per sferrare successivamente l’attacco a Maniace e a Bronte. Bolo potrebbe essere stata una postazione Mamertina  a nord-ovest del perimetro etneo. Una postazione che gli stessi mamertini utilizzarono contro i Siracusani nel III secolo a.C.
Ma ancora prima dei Mamertini sul monte ci sarebbe stato un villaggio Siculo.
E qui è necessario citare la fatidica leggenda legata alle antiche tradizioni orali dei pastori.
Pastori che ricordano la favola del re Bolo e che asseriscono di aver trovato monete con la scritta “Rex Boly”. Raccontano anche storie di tesori che erano nascosti nelle spelonche del castello ove si trovano grotte naturali ed artificiali, cisterne. Le grotte artificiali, secondo il Radice, sarebbero opere preelleniche forse dei Siculi.
Sempre “ai piedi delle rovine del castello” furono rinvenuti sepolcri di fine ceramica e anfore del V secolo a.C. e “rottami di colonne costruite con grossi mattoni rotondi appartenenti a qualche tempio”.


Bolo così come altri territori di Bronte sono stati depredati di reperti archeologici di valore inestimabile. Pagine di storia cancellate. Ma questo è uno strano destino della mia Terra , il cui traffico di reperti archeologici è stato spesso nelle mani della mafia.
Ricordo in una mia visita in un castello della Loria, al di fuori dei soliti itinerari proposti, di aver visto nel corridoio del vetusto fabbricato un bellissimo bassorilievo che la proprietaria mi confidò  “portato da suo nonno in valigia e tagliato in pezzi dalla Sicilia”. Una via visita nell’antica Palike a Rocchicella…. Un terreno passato a setaccio da squadre di zappatori… ovunque frantumi di reperti, cocci, ecc… mi trovavo sul luogo per fare delle foto sul lago di Palike… un signore sempre a debita distanza.. mi seguì  durante la mia visita al sito. Un uomo probabilmente pagato dai tombaroli per presidiare il luogo… un avvenimento risalente agli anni settanta che non dimenticherò mai come la figura di quest’uomo anziano e robusto che viveva in un piccolo casolare nei pressi del sito. Scene di ordinaria follia….

Foto risalente agli anni settanta con gli scavi clandestini…
Il terreno è devastato….

Foto risalente agli anni settanta
Un muro dell’antico Casale


Benedetto Radice citò i reperti trafugati negli anni ’90 e mise in risalto anche un bellissimo reperto trafugato nel 1870 in contrada Margio Grande, sempre nel territorio di Bronte. In questa contrada fu scoperto un bellissimo busto in bronzo “d’imperatore o filosofo, con occhi di platino, barba e  capelli ricci, ritrovato nel mio podere al Margiogrande nel 1870… Il busto trovasi ora al Museo di Londra nella sala dei bronzi, e come cosa pregevole è custodito sotto una campana di cristallo, dove io lo vidi nel 1900. Il Direttore del Museo non seppe dirmi chi fosse l’effigiato”.

A dimostrazione della grande ricchezza storica del territorio di Bronte è da citare un piccolo, ma importante, rinvenimento grazie all’attività delle Guardie Forestali. Infatti il Corpo Forestale nel contesto di un’operazione organizzata per individuare i numerosi tombaroli presenti nel territorio hanno rinvenuto un bellissimo “Askos a colomba” cioè un piccolo contenitore di unguenti di ceramica fine decorata.
Un vasetto configurato a forma di anatra della fine del V secolo a.C. e che doveva contenere unguenti profumati spesso, ma non esclusivamente, come arredo funerario. Al reperto manca solo il piccolo manico che solitamente unisce la testa con la bocca.


La contrada Bolo non racchiude solo la sommità del Monte ma un’area molto vasta compresa tra il Simeto, un tratto della SS 120 (Bolo Fiorentino) e anche di un ponte sul Simeto che attraversa la strada statale tra Maniace e Cesarò cioè il Ponte di Bolo che si trova alla confluenza dei due corsi d’acqua: il torrente Cutò/Martello e la Saracena, cioè all’origine del Simeto.
Nel 1991 si parlava di una diga sul fiume Troina /Serravalle che si sarebbe dovuta chiamare Diga di Bolo.



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5. Il Castello di Torremuzza










Il castello di Torremuzza o Cattaino sorge a strapiombo sul fiume Troina.
È meno rovinato e forse meno conosciuto del castello di Bolo con il quale costituiva un importante presidio della valle di Bolo nella quale si snodava la vecchia Regia Trazzera che dall’interno della Sicilia permetteva di raggiungere la costa Ionica.
Posto sul costone roccioso, al centro di un paesaggio impervio e brullo sul quale spiccano le balze di Cesarò,  desta all’osservatore un po' di paura soprattutto dal lato del fiume.
Si raggiunge lasciando l’auto sulla strada tra Bronte e Cesarò per poi prendere un sentiero di campagna, da percorrere a piedi per alcuni chilometri passando per una passerella non so se ancora esistente.




La salita verso il castello ha un suo fascino.
  
Etimologia
Il termine “Cattaino” secondo Benedetto radice deriverebbe dalla voce araba “Kalat” cioè castello, fortezza o rocca  “munita da natura” anziché dall’opera dell’uomo.
Al termine “Calat”  si aggiunse un altro termine legato alla presenza dell’acqua, “ayn”, del vicino fiume Troina.
In merito al termine “Torremuzza” ci sono due versioni. Una versione è legata alla torre originaria, di probabile epoca bizantina, che venne spaccata in due da un fulmine e rimase solo la metà.
L’altra versione, forse più veritiera,  è legata al termine volgare di “turris mucte” cioè “ torre della motta” o “torre della rocca”.
Un termine presente in alcune roccaforti della Sicilia e secondo lo storico e architetto Rodo Santoro il termine “Motta” sta ad indicare una collina, naturale o artificiale, sulla quale insiste una fortificazione del tipo a torrione.


Lo stato di conservazione delle strutture è precario ed è un vero peccato perché il castello rappresenta un bellissimo modello di architettura militare diffuso nell’interno della Sicilia nei secoli XII e XIII.
Il castello dominava il sottostante Casale del “Cattaino” dove furono rinvenuti reperti risalenti al IV – III secolo a.C.. e in particolare deposizioni funerarie e sarcofagi  datati verso il III secolo a.C., collegati ai ritrovamenti del vicino sito archeologico del castello di Bolo.

Citazioni
Il Casale del Cattaino fu citato da vari storici tra cui il Vito Amico, il Plumari, De Luca e Benedetto Radice. Tutti confermano l’esistenza del casale nel XIII secolo.

 Era sottoposto al “mero e misto Impero” di Randazzo, cioè alla giurisdizione civile e penale, con altri undici casali in virtù di un privilegio del 1348 del re Federico III d’Aragona.
I Casali erano: Carcarci, Spanò, Bolo, Cutò, Pulicello, Santa Lucia, Floresta, S. Teodoro, Cesarò, Maniace e Bronte.

Durante la Guerra del Vespro, a seguito della richiesta del re Pietro d’Aragona, anche il Casale di Cattaino come il vicino casale di Bolo, soggetti alla servitù militare, inviò  nel mese di settembre 1282 arcieri, fanti e vettovaglie agli aragonesi per la guerra contro gli Angioni che avevano assediato Messina.
Come feudo appartenne a diverse famiglie:
1296 – nella recensione dei feudi sotto Federico III d’Aragona appaiono baroni dei Cattaino gli eredi del giudice Giovanni de Manna che erano baroni di S. Lucia, di San Pietro sopra Patti e di altri casali. Re Giacomo con privilegio del 13 agosto 1299 concedeva al “dominus miles Pietro d’Antiochia” di cedere con il consenso del figlio primogenito Federico, la terza parte della terra di Cerami “per dote della figlia Bettuccia data in sposa a  Luigi la Manna”. Nella “Descriptio feudorum” del 1335 “il milite Pietro d’Antiochia possedeva due parti della Terra di Cerami e una terza parte spettava agli eredi del Giudice Giovanni de Manna”.

“Giovanni Manna, giudice, fu signore dei casali Rapani, S.Andrea, Pardizi (feudo pardo) o Roccavaldina), Rasinachi, Rocca, Maurojanni (oggi Roccavaldina), Rasinachi, Cattaino, S. Lucia, S. Pietro sopra Patti, Bavuso (Bauso) e di un terzo della Terra di Cerami).

Famiglia Magna o Manna (?)
Forse originaria del Piemonte

Un nipote del giudice Giovanni Manna, anche lui giudice e con lo stesso nome, nel 1342 con il fratello Odoardo e con il padre Gualtiero, parteciparono alla rivolta di Messina che fu stroncata con l’intervento delle truppe regie.  Giovanni venne condannato con il fratello Odoardo alla decapitazione mentre il padre Gualtiero fu condannato all’esilio.
Il 18 marzo 1342 vennero devoluti al fisco i beni e le rendite posseduti “a certis messinensibus delinquentibus”  che avevano partecipato alla rivolta e fra essi anche le 20 onze di censi sulla secrezia di Messina che costituivano i beni feudali di Gualtiero de Manna senior,  l’erede e padre del giustiziato giudice Giovanni di Manna.
Federico IV nel 1367, sulla base di un testamento di Gualtiero de Manna del 1340, restituì a Nicolia Manna, figlia del giudice giustiziato Giovanni e nipote dello stesso Gualtiero, il reddito di 20 onze censuali che erano state assegnate in base alla confisca dei beni al giudice Gregorio de Gregorio. Per questo motivo il sovrano il 6 novembre 1637 assegnò in cambio ad Orlando de Gregorio, figlio di Bartolomeo, a sua volta figlio del giudice Gregorio de Gregorio, 20 onze di reddito sulla gabella della stadera della secrezia di Messina.
Nicolia de Manna sposò Filippo de Mauro nel gennaio 1375 e alla sua morte gli successe nelle 20 onze censuali la figlia Violante de Mauro moglie di Giovanni de Griso (Crisafi ?) “alias de Serafinis”. Violante ottenne l’investitura reale il 17 marzo 1417.


1408 -  Nel censimento feudale del 1408, ordinato dal re Martino “Il Giovane” era barone di Cattaino don Nicolò Crisaffi.
Don Nicolò dovrebbe essere il notaio Nicoloso Crisafi, figlio del notaio Giovanni.
Successe al padre nella carica di maestro notaio della tesoreria dal 1371. Il 29 settembre 1392 il re Martino gli concesse il feudo e il casale di Linguaglossa che era appartenuto al ribelle Nicolò Lamia e nel 1394 anche il feudo di Ramasole che era stato avocato alla Regia Curia per insolvenza del canone da parte di Maddalena Alagona.
Lo stesso sovrano il 23 settembre 1394 assegno a Nicoloso Crisafi di Messina, maestro notaro dell’ufficio dei razionali, tutti i beni burgensatici appartenuti ai Chiaramonte e siti nella città e territorio di Messina, compresa la baiulazione del casale Aptilia (Duptilia, Actilia nel territorio di Messina).

La si vuole originaria dalla Grecia, e le si da a capostipite un tal
Crisafo figlio di Giorgio Maniace esarca di Sicilia. Godette nobiltà in Messina
e possedette un gran numero di feudi e baronie… un Nicolò (Nicoloso), maggiore
spenditore di re Martino a 8 aprile 1400 ottenne conferma del feudo di Lando
(Casale nel Piano di Milazzo) e a 15 dicembre 1420 ebbe conferma a nuova
investitura del feudo di Vigilatore e  Cartolano….”

1453 – Giovan Luca barbero scriveva nel suo “Capibrevi” che il re Alfonso nel 1453 confermava al giureconsulto Blasco da Sant’Angelo la vendita e il possesso del feudo di Cattaino e della metà del feudo detto la “Floresta della Porta di Randazzo”.
Il feudo la “Floresta della Porta di Randazzo” era stato donato dal re Martino il 4 aprile 1407 al medico Blasco Scammacca.  Metà del feudo fu venduta dallo stesso Scammacca a Blasco Sant’Angelo mentre la restante metà fu donata a Giovanni Bonacosi,  “mantovano, che a sua volta la vendette ai coniugi Nicola ed Alvira di Paternò”.
Non si sa come mai il feudo Cattaino passò dal barone Crisafi al barone Sant’Angelo
Il 10 luglio 1443 il feudo Cattaino era in possesso del figlio Giacobbe Sant’Angelo che il 28 agosto 1463 ne ricevette l’investitura da Simone Beccadelli di Bologna, arcivescovo di Palermo e Presidente del Regno.

“Godette nobiltà in Augusta, in Catania e in Palermo…
Un Giacomo fu senatore in Catania nel 1452 . 53; un Blasco fu
Senatore in detta città nel 14785 – 76….”

A Giacobbe nel 1493 successe il nipote Amico Sant’Angelo che “con facoltà di redimerlo lo diede in pegno anticretico a Guglielmo Bonina”.
(L’Anticresi è un contratto giuridico  con cui il debitore si obbliga a consegnare al creditore un immobile a garanzia della realizzazione del sui credito. In questo modo il creditore percepisce i frutti del bene concesso (per un massimo di dieci anni)  imputandoli dapprima agli interessi, se dovuti, ed infine al capitale. È quindi un contratto consensuale con effetti obbligatori, che fonda in capo al creditore anticretico un diritto personale di godimento):
Il feudo di Cattaino passò quindi alla sorella di Amico, Margherita che aveva sposato Tommaso Tornabene e successivamente al figlio Nicolò Tornabene.

“ Vanta discendenze dai Tornabuoni di Firenze, fu nota in Sicilia fin dal secolo XV, godendo nobiltà in Catania e Messina… Un Tommaso, come marito di Grazia (Margherita)  Paternò, possedette Castania di cui, insieme con la metà della
Foresta di Randazzo e con le saline di Nicosia, ottenne investitura a
7 luglio 1483 il figlio Nicolò…..”

Quindi al figlio Blasco di Lancia ..”sposo di Laura di lei  sorella nel 10 ottobre 1507”.
In questo momento storico s’inserisce una figura storica nella politica sociale dell’isola molto enigmatica e di cui non si sa molto.
Si tratta di Blasco Lancia Castania che raggiunse un certo prestigio professionale e patrimoniale. Un prestigio economico legato all’acquisizione di fondi e soprattutto con i matrimoni con ricche ereditiere.


Il 29 agosto 1496 acquistò da Pietro Cardona, conte di Golisano, il diritto di riscattare dalle mani di Lattanzio Perdicaro, che lo deteneva, il feudo di Casal Giordano nel territorio di Petralia.
Il 23 aprile 1505 da Girolamo Vitellino acquisì il diritto di percepire “un grano sopra ogni salma di vettovaglie esportata dai porti di Girgenti, Siculiana, Montechiaro, Licata e Catania”.
Ingenti patrimoni acquisì grazie ai suoi due matrimoni che costellarono la sua lunga vita.
Il primo matrimonio fu con Aloisia di Bartolomeo, nipote del famoso giurista e Protonotaro del regno, Leonardo. Il contratto nuziale gli fruttò in data 16 dicembre 1498, oltre ad un palazzo in Palermo che divento la residenza sua e dei suoi discendenti, il territorio di Trabia in prossimità del Comune demaniale di Termini Imerese che era privo di popolazione e di villaggio ma ricco d’acque e dotato di una torre, fondaco, due mulini ed una tonnara. Una tonnara perfettamente funzionante ed attrezzata per la pesca dei tonni e palamidi e che  rendeva, secondo la stima del Barbieri nel 1506, un reddito  di 100 onze annue.
L’abbondanza di acque, legata ad una ricca sorgente, permise al Castania di impiantare una piantagione di canna da zucchero e di creare un trappeto (zuccherificio) che diventò più redditizio della tonnara.
Tutto il territorio era stato concesso in enfiteusi dalla Comunità di Termini nel 1444 a Leonardo di Bartolomeo, il quale  in virtù dei suoi ottimi rapporti con la corte ottenne facilmente, nel 1445, il riscatto del censo dal re Alfonso d’Aragona e questo con grande risentimento da parte dei Terminesi.
I Terminesi che si erano visti privare dei loro diritti sul ricco territorio di Trabia, intentarono una lite giudiziaria che si prolungò per secoli e che ebbe anche azioni di violenze da una parte e dall’altra.
Con le rivendicazioni dei Terminesi, il Castania ottenne con privilegio di Ferdinando il Cattolico del 14 novembre 1509, l’erezione in baronia di tutto il comprensorio, con la facoltà di costruirvi il castello ed eventualmente anche il villaggio . nel decreto c’era anche una precisa intimazione alla Comunità di Termini di desistere da ogni azione di rivendicazione e di molestia.
Questo fu solo uno degli ultimi sigilli ad una ascesa finanziaria e sociale che era iniziata da tempo. Un ascesa legata spesso ad aule giudiziarie con sottilissime argomentazioni giuridiche.
Instaurò un’azione legale contro Nicolò Tornabene per rivendicare la baronia di Castania, antico feudo dei Lancia ma che era stato venduto dalla nobile famiglia nel lontano 1322 e passato poi per atti giudiziari legittimi ai Tornabene.
In realtà in questa azione giudiziaria contro i Tornabene c’era ancora una volta la forte ricerca nel dimostrare la sua appartenenza al nobile casato dei lancia una delle più nobili ed antiche famiglie di Sicilia.
Nicolò Tornabene, messo alle strette dalla forti azioni del Castania, si trovò a malpartito e pensò di venire a patti.
Nello stesso periodo al Castania morì la moglie e il triste avvenimento fu preludio, secondo un antico costume nobiliare, al raggiungimento di un accordo anche grazie ad un concordato matrimonio.
Il Castania sposò quindi in seconde nozze Laura Tornabene, sorella di Nicolò, che gli portò in dote, con contratto nuziale del 21 luglio 1507, la baronia, terra e castello di Castania nella Valdemone ed inoltre la metà della Foresta di Porta di Randazzo, i feudi di Lactaino, Triairì, Li Buti, Foresta Vecchia, Margraniti e le saline di Nicosia.
Alla morte di Niccolò, la sorella ereditò e portò al C. anche la seconda metà della foresta di Porta Randazzo. Il Castania stesso per suo conto acquistò i tre feudi limitrofi di Camilari, Vacrila ed Acquasanta, costituendo un imponente complesso immobiliare.

Le esigenze della professione lo portarono a risiedere a Palermo dove si svolgevano importanti processi presso i supremi tribunali del Regno.  Non si sa se il Lanza abbia ricoperto la carica di giudice della Regia Gran Corte. È certo che come barone di Castania partecipò alle riunioni del Parlamento e per due volte,  nel 1508 e nel 1514, fu eletto rappresentante del bracco baronale. Nel 1516 è uno dei più stretti consiglieri del vicerà Ugo de Moncada uno dei più stretti consiglieri del vicerà Ugo de Moncada e in un momento contraddistinto dalla more del re cattolico che costarono la carica allo stesso vicerè.
Il vicerè Moncada in una lettera inviata da Messina, il 22 marzo 1516, al reggente spagnolo cardinale Xiimenes de Cisnerros,  citò il Blasco Lancia come colui che portò all’inquisitore Cervera la richiesta dei nobili palermitani in rivolta. Una richiesta perentoria, di liberare subito i prigionieri che erano rinchiusi nelle carceri del Sant’Uffizio e adi abbandonare l’isola.
La mediazione del Blasco Lancia era solo un inganno. Quando ritornò dall’Inquisitore mostrò la risposta… una riposta suggerita in verità dal vicerè….”che presentassero una richiesta per iscritto”.
La risposta aumentà la tensione sociale e i nobili risposero che avrebbero presentato non una richiesta per iscritto ma “puntas de lanzas y espadas”.
Sembrò quasi una parola d’ordine ed iniziò subito la ribellione.
Fu convocato il Consiglio generale del Comune di Palermo e il Blasco Lanza ebbe il coraggio, in un clima di tensione così alto, di presentarsi scortato da un nugolo di seguaci…. Ad aggravare ulteriormente la situazione c’era alla base un non rispetto delle regole perché il Blasco, essendo cittadino catanese, non poteva partecipare al Consiglio.
Fu infatti cacciato via al grido  di “fuori dalla città” per rifugiarsi nel palazzo Chiaramonte (Lo Steri) che era la residenza del vicerè.
La folla pose in stato d’assedio il palazzo e reclamava la sua immediata espulsione da Palermo.
Il vicerè Moncada cercò di clamare la folla agitata parlando dalle finestre del palazzo e alla fine promise che il Lanza avrebbe abbandonato la città il giorno successivo.
Malgrado le rassicurazioni del vicerè la folla decise di dare fuoco alla casa del Lanza. Guidati da Federico Imperatore, uno dei nobili più in vista nella rivolta, stavano per dare fuoco alla casa del Lanza….”Federigo Emperador fue la casa del dicho Micer Blasco para la poner fuègo y saquear muger e hijos y roba” (scrisse il Moncada nella lettera) se non fossero stati fermati da alcuni nobili, “ben accetti al popolo che interposero i loro buoni uffici”.
La situazione non si calmò perché la sera la gente si accalcò nuovamente davanti al palazzo Chiaramonte reclamando, con armi e a suon di bombarde, lo sfratto immediato del vicerè. La tensione era al massimo e il vicerè Moncada riuscì ad uscire dal palazzo grazie ad una uscita di servizio e seguito da pochi seguaci, per non dare all’occio, s’imbracò alla volta di Milazzo.
Nel gruppetto del vicerè c’era naturalmente anche Blasco Lanza che si separò dal gruppo che proseguì per Messina. Blasco Lanza invece s’imbarcò sul brigantino del Barone di Raddusa che faceva rotta verso Catania.
Il suo obiettivo era quello di raggiungere la città etnea dove, grazie alla sua forte ingerenza sulla popolazione, gli avrebbe permesso si mantenere la città fedele al vicerè.
Ai catanesi raccontò di essere stato espulso da Palermo al grido di “fora cathanisi”.
Un grido che risultava molto offensivo per i catanesi in un momento in cui le rivalità campanilistiche tra Catania, Palermo e Messina era molto forti.
Riuscì ad ottenere la nomina di un ambasciatore al Moncada per rinnovargli l’obbedienza della città.
I Palermitani si preoccuparono subito di avvisare i Catanesi che l’espulsione del Blasco Lanza riguardava solo la sua persona e non colpiva i buoni rapporti fra le due città.
 Alla fine anche i Catanesi si ribellarono al mal governo del Moncada ed annullarono i precedenti deliberati in suo favore ed i poteri dell’ambasciatore  a lui destinato.
Il Lanza, con la sua abilità di oratore, cercò di contrastare la politica di solidarietà tra i nobili delle due città e alla fine fu espulso da Catania.
La folla in tumulto lo cercò e il Lanza riuscì a rifugiarsi nel castello di Aci per poi raggiungere a Messina il vicerè Moncada.

La situazione sociale e politica siciliana fu attenzionata dall’imperatore Carlo V.
Il Lanza ed il vicerè partirono da Messina il 21 agosto 1516 per dirigersi a Bruxelles alla corte di Carlo V per giustificarsi dalle accuse dei siciliani.
Alla corte imperiale il Lanza diede sfoggio delle sue abilità oratorie riuscendo a convincere addirittura il re sulle buone ragioni del Moncada.
Il Moncada in ogni caso fu destinato ad un altro incarico e come vicerè di Sicilia fu nominato Ettore Pignatelli duca di Monteleone.
Il Lanza rientrò a Palermo ed aveva con sé un importante dispaccio del re Carlo che in data 20 febbraio 1517 lo nominava consigliere soprannumero. Una noia che gli dava la possibilità di partecipare a tutti i consigli patrimoniali e fiscali del Regno.
I rivoltosi furono puniti ma la rivolta riprese nei primi di settembre del 1517.
La città si sollevò di nuovo. Alcuni degli esponenti politici del tempo pagarono con la vita e il Blasco Lanza riuscì, ancora una volta, a trovare rifugio in un nascondiglio ben sicuro. Fu cercato dalla folla inferocita che era decisa ad ammazzarlo ma fu tutto vano…. Fu anche cercato nelle tombe della cripta sotterranea del convento di San Domenico del quale “ lo sapeva assai devoto”.
Non fu trovato e questa volta la folla diede a fuoco il suo palazzo con tutto gli arredi e la preziosa biblioteca.
Le conseguenze di queste sollevazioni si fecero sentire anche nel feudo di Trabia. Appresa la notizia del saccheggio palermitano della casa di Blasco Lanza, i cittadini di Termini si precipitarono in armi a Trabia devastando la piantagione da zucchero e danneggiando il trappeto e la torre. La rivolta di Palermo fu stroncata poco dopo con l’uccisione dell’uomo più importante, Gian Luca Squarcialupo.  Un uccisione avvenuta durante una funzione religiosa nel convento domenicano di S. Cita per mano di alcuni nobili ai quali il Blasco aveva assicurato la sua assistenza.
Finita la ribellione il Lanza non riuscì ad avere le posizioni di prestigio del passato anche perché il vicerè Pignatelli lo tenne in disparte.
Non si sa se fu risarcito dai danni della rivolta e gli fu promessa una carica pubblica mai ricevuta. Il vicerè lo tenne in disparte e questo motivo il Lanza gli si schierò contro legandosi alla fazione baronale dei conti di Adernò e Cammarata.

Nel 1522 il vicerè convocò a Palermo il Parlamento per la conferma del donativo ordinario. Il Lanza fu tra coloro che si opposero mettendo in risalto le gravi condizioni economiche del Regno per chiedere sgravi fiscali e la diminuzione del donativo. Una presa di posizione che lo mise in evidenza come esponente di una nuova dissidenza baronale. Il vicerè preoccupato fece sospendere il parlamento e lo trasferì a Messina.
Anche il Lanza vi si trasferì assieme al conte d’Adernò e di Cammarata per continuare la ferma opposizione.
Il 4 luglio 1522 fu però arrestato dallo stratigoto di Messsina Bartolomeo Tagliavia e rinchiuso nel carcere di Matagrifone.
Il giorno seguente anche il conte d’Adenò e di Cammarata seguirono la stessa sorte
Fu inviato a Tripoli in esilio ma fu ricondotto  in Sicilia nel 1523 quando si scoprì una pericolosa congiura che era diretta a consegnare il Regno di Sicilia al re di Francia Francesco I.
Alla congiura parteciparono i fratelli Imperatore, i Colonna e i rappresentanti del re di Francia che si riunivano a Roma per redigere le rime del complotto. Alle riunioni partecipava il conte di Cammarata. Il conte di Cammarata, già sotto sorveglianza per i fatti del 1522 fu arrestato, torturato e costretto a confessare. Nella confessione fece anche il nome di Blasco Lanza dichiarando che durante le riunioni del Parlamento era incaricato  di trattare con i rappresentanti delle città di Palermo, Catania e Messina per la creazione di una “lega” o “unione”.
Una “unione” che  sarebbe nata con il pretesto di sgravi fiscali ma che in realtà doveva appoggiare l’esercito francese che sarebbe giunto in Sicilia.
Un accusa grave  e a rischio di pena capitale.
Fu portato nel castello di Milazzo per essere sottoposto a vari interrogatori nel corso dei quali si difese con la solita eloquenza a tal punto che riuscì a farsi scagionare.
Non si sa se sia stato ricondotto a Tripoli o se rimase in Sicilia.
Nel 1525 era di  nuovo in libertà dato che dettò il suo testamento il 7 febbraio di quell’anno al notaio Antonino Merlino di Catania.
Visse gli ultimi anni della sua vita a Palermo, ritirato dalla vita pubblica, e qui morì l’8 ottobre 1535.
Seppellito nel convento domenicano di Santa Cita in un sarcofago creato da Antonello Gagini.
Lasciò per testamento tre legati pro anima; 100 onze alla Badia del Soccorso di Catania; 25 onze al convento di S. Domenico e alla Chiesa domenicana di S. Cita entrambi a Palermo.
Erede delle baronie di Castania e di Trabia fu l’unico figlio maschio Cesare nato dal secondo matrimonio con la Tornabene.
Dal primo matrimonio aveva avuto due figlie: Antonia che sposò Salvatore Mastrontonio, barone di Aci e che ebbe in dote il feudo di Casalgiordano) e Giovanna che sposò Ercole Statella.
Dal secondo matrimonio oltre a Cesare ebbe una figlia di nome Agata che sposò Giovanni Antonio Squillace.

Nel XX secolo il Feudo Cattaino e la metà di Forestavecchia erano di proprietà della marchesa Caterina Ugo delle Favare.

1779
Giuseppe Ugo e Gagliardo (Palermo, 1740 circa; Palermo, 2 dicembre 1809) (figlio di Pietro Ugo e Maria Gagliardo), marchese Ugo e barone delle Favare o Menelao, per investitura del 4 settembre 1786, come primogenito ed erede universale del padre Pietro (morto a Palermo l’11 maggio 1782 come risulta negli atti della Cattedrale), grazie al testamento redatto presso il notaio Giuseppe Fontana di Palermo, aperto e pubblicato il 16 maggio 1783.
Sposò Maria Teresa Coppola (Palermo, 1750 circa; Palermo, 18 maggio 1788 ?) (figlia di Scipione Coppola e Ninfa Settimo). Il padre Scipione morì a Palermo il 23 ottobre 1776 e come figlia unica diventò erede  universale per testamento pubblicato dal notaio Giuseppe Tinnove e Mattula di Palermo il 28 ottobre 1776.
Maria Teresa Coppola e Settimo s’investì quindi della baronia di “Gattaino” e “Foresta Vecchia” il 22 ottobre 1779 e con lei anche il marito Giuseppe Ugo e Gagliardo (marchese anche di Mascalucia), in forza dei loro dotali, stipulati dal notaio Giuseppe Fontana di Palermo il 31 gennaio 1779.
Il marchese Giuseppe Ugo fu governatore del Monte di Pietà di Palermo nel 1786-87, senatore della stessa città dal 1788 al 1790, “maestro di zecca e maestro razionale soprannumerario di cappa corta del tribunale del Real Patrimonio nell’anno 1801”.
Dal matrimonio nacque un solo figlio, Pietro.

1789
Pietro Ugo e Coppola  (Palermo, 1780 circa, ?)
S’investì della baronia e del feudo delle Favare o Menelao e di Mascalucia il 22 giugno 1810 come figlio primogenito  del  marchese Giuseppe.
S’investì dei feudi di “Gattaino” e “Foresta Vecchia” il 4 maggio 1789 come figlio primogenito della madre Maria Teresa Coppola, “quale chiamato e sostituito nei fedecommessi dei suoi predecessori ed in virtù del testamento materno pubblicato dal notaio Giuseppe Fontana di Palermo il 18 novembre 1788. Detta Maria morì a 18 maggio 1788 come risulta da fede rilasciata dalla Cattedrale di Palermo- conservatoria. Vol 1178, foglio 92”.
Il marchese Pietro fu senatore nel 1811; brigadiere degli eserciti reali; gentiluomo di camera; cavaliere degli ordini di San Gennaro, di San Ferdinando, di Malta e del Constantiniano; luogotenente generale in Sicilia, ecc.
Sposò Agata del Bosco (Palermo, 1773 circa; ?) (figlia di Vincenzo del Bosco, VI Principe di Belvedere, e di  Caterina Branciforte, figlia di Ercole Branciforte, IV Principe di Scordia e di Beatrice Branciforte, principessa di Leonforte)
Dal matrimonio nacque l’unico erede, Giuseppe Mariano Raffaele Paolo Antonino Ugo.

Giuseppe Mariano Raffaele Paolo Antonino Ugo (Palermo, 1800; ?)
“fu gentiluomo di camera con esercizio; cavaliere dell’ordine di San Gennaro, Gran Croce dell’Ordine Costantiniano, ecc.”
Sposò Rosalia Maria Carolina Francesca di Paola Camilla Anna Agata Ruffo (Napoli, 8 marco 1805; Napoli, 30 aprile 1834), figlia del marchese Girolamo Ruffo e di Carmela Ruffo.
Dal matrimonio:
-          Agata Ugo (Palermo, 1824; Palermo, 20 gennaio 1825 circa)  morì a pochi anni d’età
-          Pietro Ugo (Palermo, 28 gennaio 1827; Palermo, 11 gennaio 1898)

Pietro Ugo e Ruffo
Marchese di Mascalucia e delle Favare; Barone di Santa Maria delle Grazie, “Gattaino” e “Foresta Vecchia”.
Fu antiborbonico e sostenne Garibaldi nell’impresa dei Mille. Nel 1882 in occasione delle celebrazioni per il sesto centenario del Vespro, ospitò Garibaldi dal 28 marzo al 16 aprile nella sua villa di Palermo, ai “Romagnoli” come si legge nella lapide del muro di cinta di Villa Ugo delle Favare in via Messina Marina, 195.
Nel 1868 fu eletto deputato del Regno nelle file della sinistra storica fino al 1870.
Altre elezioni alla Camera  dal 1874 al 1882 quando fu nominato senatore.
Fu più volte sindaco di Palermo  e anche presidente del Consiglio Provinciale di Palermo dal 1886 al 1898


Tre volte sindaco di Palermo (dal 26 febbraio 1882 al 12 gennaio '85, dal 12 gennaio 1892 al 30 dicembre '93 e dal 25 luglio 1895 al 28 agosto '96) e per numerosi  incarichi istituzionali. Nei suoi sei anni di sindacatura non lasciò grandi ricordi se non per la progettazione e costruzione, iniziata nel 1904, della strada per il Monte Pellegrino e per aver portato la luce elettrica in molte borgate.
Nell’aprile 1874 s’era costituita a Palermo la “Società Sicula Tramways e Omnibus (SSTO)” con l’obiettivo di costituire alcune linee di Tram e di omnibus a cavalli.
Nel 1882 il sindaco Pietro Ugo inaugurò il servizio di omnibus dalla Stazione Centrale al Politeama.



Nel giugno 1882 inaugurò il servizio di omnibus dalla stazione centrale al Politeama.
Solo il 16 aprile del 1888 venne autorizzato l’esercizio di tranvie a trazione elettrica a corrente continua.
Sempre nel 1282 il marchese Pietro Ugo ospitò nella sua villa  posta ai “Romagnoli”, dal 29 marzo al 16 aprile, Giuseppe Garibaldi. Il generale dei Mille giunse in Sicilia per assistere alle celebrazioni del sesto anniversario del vespro siciliano.
Le cronache citano come il generale fu ben accolto dai palermitani ed era “commosso e piangente” probabilmente perché memore delle tante promesse non mantenute ai siciliani  dal nuovo stato.
Lo stesso sindaco Pietro Ugo per evitare che si perdesse il ricordo di quel breve soggiorno dell’illustre ospite nella sua casa, fece collocare, a spese del municipio, una lapide rievocativa posta nel muro di cinta ed ancora oggi in buono stato.


Palermo
Arrivo di Garibaldi alla Stazione di Porta S. Antonino e la villa
dove fu ospitato Garibaldi (sopra)

Villa Delle Favare

Lo stesso sindaco Pietro Ugo per alcuni episodi significativi del tempo mostrò un atteggiamento silente, quasi distratto. Durante il suo primo incarico, il 15 aprile 1882, venne sequestrato dalla mafia Emanuele Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia. Come riporta lo storico Lino Buscemi, dal Comune arrivarono solo poche parole di solidarietà e nient’altro.
Nell’agosto del 1893 ci fu lo sciopero dei cocchieri contro il proliferare degli omnibus.  Il sindaco mostrò  una totale indifferenza. Nel luglio 1895 altro grosso problema di natura politica ed anche sociale… il caso della vendita dei voti nei mandamenti Castellammare e Palazzo Reale. Rimase ancora una volta indifferente quando nella notte del 13 settembre 1895 furono arrestati una ventina di giovani dirigenti socialisti intellettuali per “gravi motivi d’ordine pubblico”.
Tutti comportamenti discutibili. Il come nel dopoguerra gli dedicò un’importante via che per ironia della sorte si congiunge con la via dedicata al martire Notarbartolo, ucciso dalla mafia. Anche lui aveva ricoperto la carica di sindaco e nella vita non avevano mai avuto grandi rapporti.

Il marchese Pietro Ugo e Ruffo sposò Elisabetta Valguarnera (Palermo, 4 agosto 1834; Palermo, 7 gennaio 1898) figlia di don Giuseppe Valguarnera, VI Principe di Niscemi, e di Caterina Tomasi dei Principi di Lampedusa, figlia di Giuseppe Maria Tomasi, VII principe di Lampedusa, e di Carolina Wochinger.
Dal matrimonio:
-          Caterina Ugo; (Palermo, 5 aprile 1860; ?)
-          Agata Ugo; (Palermo, 14 marzo 1862; ?)
-          Maria Antonietta Ugo;  (Palermo, 9 giugno 1867; Palermo; 7 gennaio 1943)
-          Rosalia Ugo; (Palermo, 7 giugno 1873; Palermo; 1941 circa)

Caterina Ugo, Marchesa di Mascalucia; baronessa delle Favare o Menelao, di Gattaino e Forestavecchia, sposò il 4 marzo 1878 a Palermo, Giuseppe Salvo (Palermo, 9 settembre 1851; ?) figlio di Vincenzo Giuseppe Salvatore Giacomo Salvo (1821-1895) e di Giovanna Sollima (1820 circa – 1895)
Dal matrimonio: Giovanna (1880), Vincenzo, Maria Elisabetta, Francesca Maria Pia; Maria Antonietta; Rosalia Maria Anna Lilly; Francesco, Maria Luisa (1895).


Con decreto ministeriale del 5 luglio 1910 la signora Caterina Ugo (di Pietro predetto) in Salvo ottenne riconoscimento dei titoli di marchese Ugo o Mascalucia, barone delle Favare o Menelao e barone di Gattaino e Forestavecchia.

“Si vuole originaria di Firenze e passata in Sicilia nella fine del
secolo XIV o nei principi del secolo XV..Un Pietro fu giurato di Termini
nell’anno 1497 e capitano di giustizia nel 1500; un Nicolò Antonio,
da Termini, fu capitano di cavalleria  in Fiandra al servizio di Carlo V e
portò la famiglia in Girgenti; un Giuseppe Ugo e Perremuto, con
privilegio dato a 25 ottobre 1730 esecutoriato a 17 giugno 1731, ottenne
concessione del titolo di marchese, fu governatore del Monte di Pietà di
Palermo nel 1757 e sposò Eleonora Grugno e Gregni, baronessa delle Favare….”

Il figlio primogenito di Caterina Ugo, Vicenzo Salvo Ugo (Palermo, 19 febbraio 1882; ?), marchese di Pietraganzilli, Barone delle Favare, Gattaino e Foresta Vecchia.
 sposò in Palermo il 26 dicembre 1920 Silvia Stefania Costanza Maria Concetta Lanza Filangeri (Palermo, 18 dicembre 1892; ?) figlia di Don Ignazio Lanza Filangeri (Palermo, 11maggio 1864; Palermo, 28 ottobre 1950) (II principe di Mirto, di S. Marco; barone di Frazzanà e Capri, di Amorosa; Signore di Mendoli, Villafrati, Claristella, Mirto, San marco e del castello di Pietra di Ruma dal 1902) e di Antonella (Antonia) Lanza Fardella (Monte San Giuliano, 17 dicembre 1866; Bologna, 10 novembre 1933) figlia di Stefano Fardella Barone di Moxharta e di Donna Maria Concetta Paternò Castello dei Duchi di Carcaci. Matrimonio da Don Ignazio e Donna Antonella avvenuto a  Palermo il 14 dicembre 1889.

In merito al più volte citato Feudo delle Favare, si trova vicino Caltagirone e come riporta il libro di Jean Levesque Deburigny (   era “ricco di scaturigini (sorgenti) e Marchesato della nobile famiglia Ugo”.


In merito all’ubicazione ho trovato un’antica pianta topografica risalente al 1761 che riporta il feudo di Granieri confinante con il Feudo delle Favare.
“Feudo di Granieri , appartenente ai Monasteri di Santa Maria di Licodia e San Nicolò l’Arena della citta di Catania. Feudo  che è situato nel territorio di Caltagirone e confinante per Tramontana col Feudo della Favara, col Feudo denominato Sciri per Mezzogiorno e Levante, e con Feudo nominato di Santo Pietro Fiume intermedio per Ponente”.







Il casale di Cattaino scomparve a causa dell’abbandono forzato voluto da Carlo V nel 1535/1537 che riuniva a Bronte i 24 casali presenti nel territorio.
Un abbandono forzato sotto pena della distruzione delle case o “capanne”.
C’è da dire che non tutti i casali obbedirono all’editto di Carlo V infatti benedetto radice elencando le borgate o masse obbligate a riunirsi nel casale di Bronte, non elencò il Casale Cattaino dato che apparteneva ad un barone feudale.
Il casale probabilmente scomparve per qualche evento naturale o per le mutate condizioni economiche e sociali avvenute nel corso dei secoli XV e XVI come si verificò per Maniace e per altri casali.
I baroni del Cattaino vivevano a Randazzo e spesso soggiornavano nel castello di Torremuzza per esigenze legate all’amministrazione e controllo del vasto feudo.

Il castello subì nel tempo varie modifiche e ristrutturazioni anche con ingrandimenti e la modifica delle fortificazioni.


Torre forse bizantina


Architettura
Lo sperone di roccia su cui è posto il castello è accessibile solo da meridione.

Agli altri punti cardinali corrispondono pareti a strapiombo difficilmente praticabili.
Le pareti rocciose verticali consentono l’accesso solo dal lato in cui è ubicato l’ingresso. Un ingresso protetto da una duplice cortina muraria munita di feritoie angolare per dirigere il tiro delle balestre in direzione della porta d’accesso.




La particolare conformazione rocciosa costringe la fortezza a distendersi su più livelli: in basso trovano posto recenti strutture, composte da ambienti probabilmente residenziali, forse adibiti in epoca recente a celle per i detenuti. Al livello superiore si accede attraverso piccoli gradini ricavati dalla roccia, terminanti in un ingresso angusto. La seconda elevazione ha l’aspetto di un’ampia terrazza, i cui bassi muri perimetrali sono caratterizzati da numerose feritoie quadrate o circolari. Trattasi di un ampio luogo di osservazione per il territorio circostante, una ampio terrazzo recintato in grado di trasformarsi, all’occorrenza, in un ridotto fortificato isolato dal resto dello sperone roccioso. Su questo terrazzo si distinguono, a nord-ovest, i resti di una torre, la quale si ritiene (tradizione locale) edificata in una imprecisata epoca della dominazione bizantina in Sicilia. La struttura poggia su di un affioramento di roccia ai margini occidentali della piccola rocca. Dai resti si può dedurre una pianta circolare; la tecnica edilizia si compone di pietre locali non squadrate, unite insieme da malta.


Sulla sommità si distingue quel che rimane del piccolo camminamento di ronda, accessibile probabilmente per mezzo di una scaletta (in legno?), secondo quanto lasciano intendere alcuni fori presenti lungo la parete interna superstite. Nell’insieme l’intero corpo di fabbrica presenta una tecnica costruttiva e un impianto edilizio relativamente recente. Non si posseggono al momento dati storici certi che permettano una sicura datazione, solo ipotizzabile tra il XVII e il XVIII sec. d.C. E’ comunque probabile che i ruderi della torre siano preesistenti, sebbene non vi sia prova alcuna che avvalori una datazione ad epoca bizantina.


Durante il periodo normanno-svevo – aragonese attorno alla torre fu costruita una prima cinta muraria munita di merlature e caditoie.
In questo periodo il castello era inserito in un sistema di fortificazioni interne della Sicilia che servivano non solo per il presidio del territorio, la regia Trazzera “Giardini – Termini”  passava nelle vicinanze , ma anche per permettere il collegamento visivo fra i vari presidi per le comunicazioni attraverso segnalazioni ottiche o fuochi.
In questa visione dovrebbero essere inseriti anche i castelli vicini di Bolo e la “Torre del Fano” di Maletto.
Con gli spagnoli il castello fu probabilmente trasformato in masseria fortificata con la costruzione di una seconda cinta muraria

LUOGO DI RECLUSIONE
Nel 1501 fu utilizzato come luogo di reclusione quando vi fu internato Antonio Spitaleri “rure Brontis” secondo una sentenza del capitano di Randazzo.
Il castello continuò ad essere usato come carcere fino ai moti rivoluzionari legati all’unità d’Italia.
Il castello fu usato dal Comune di Bronte come luogo di detenzione anche per prigionieri politici. Il Radice nel 1926 raccontava di “strane” leggende, forse di torture, morti e fantasmi.
Molti parlarono anche si sotterranei con camere di tortura per i prigionieri e i condannati a morte.
La funzione strategica non sfuggì ai nazisti come caposaldo strategico per il controllo della via che portava nel centro della Sicilia.
I nazisti utilizzarono quindi il castello sia come presidio militare sia come carcere.
A conferma del luogo come prigionia erano ancora presenti, almeno fino agli ’80,  dei messaggi disperati di aiuto lasciati dai prigionieri.
Il comando tedesco aveva anche il suo presidio a Borgo S. Giuliano dove aveva creato anche un ospedale da campo.





Oggi i resti del castello sono, purtroppo, completamente abbandonati ed il castello è un luogo di ricovero di mandrie ovine e bovine oltre ad essere usato spesso come luogo di postazione di cacciatori.
La torre anche se sbrecciata ha resistito tanti anni.. le feritoie e le caditoie, parlo degli anni ’80 erano ancora intatte… Una stanza mostrava segni di rifacimenti forse realizzati quando la fortezza fu adoperata per  carcere… intorno si notava ancora qualche piccola testimonianza di quello che doveva essere il Casale del Cattaino.
Un casale, riparato alle spalle dalle montagne e dal fiume a valle, protetto militarmente dal castello che poteva accogliere  in caso di pericolo gli abitanti del luogo.


Dal castello un panorama che spazia abbracciando un vasto territorio.



















Se nel medioevo il castello rivestì un importanza notevole per l’economia dell’intera zona sorvegliando l’antica strada consolare che da Troina giungeva  a Cesarò, per poi proseguire verso Randazzo e Bronte, oggi potrebbe rivestire un importante punto di sviluppo per l’economia turistica di un vasto comprensorio ricco di notevoli testimonianze culturali e naturalistiche.






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