Nel Regno degli Elimi – San Giuseppe Jato e San Cipirello (Palermo) - Un mondo tutto da scoprire con tanti misteri.....









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Indice:
1.      Gli Elimi (cenni)
2.      Il Santuario (Eremo) dei Santi Cosma e Damiano ; La Storia del Convento – La Chiesa – Gli Affreschi – L’Affresco  dell’Arcangelo Raffaele e Tobia  - L’episodio dell’Arcangelo Raffaele e di Tobia nell’Antico Testamento – L’Acqua Miracolosa  - Le Citazioni – Il Degrado
3.      Il Santuario di Maria SS. Della Provvidenza (Dammusi);
4.      Il Casale del Principe; Famiglia Galletti, Firmatura, Gesuti, Beccadelli
5.      Monte della Fiera  - Mulino del Principe
6.      Casale Pietralunga – Un Feudo dei Gesuiti
7.      “U Campanaru” – Monte Arcivocalotto  - Un Calendario Astronomico ?



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1.      Gli  Elimi (cenni)
L’origine degli Elimi è ancora oggi un argomento di difficile soluzione malgrado le grandi conoscenze raggiunte nella storiografia attraverso vari ed importanti ritrovamenti archeologici.
Sin dal V secolo a.C  gli storici hanno lasciato importanti citazioni su questa popolazione che abitò la parte occidentale ( e non solo) della Sicilia.
Ellanico di Mitilene, citato da Dionigi di Alicarnasso, nella descrizione della terza generazione di Greci, precedente alla Guerra di Troia, raccontò che due spedizioni di italici ripararono in Sicilia. Una era formata da Elimi, cacciati dagli Enotri (l’Enotria comprendeva il Cilento, parte della Basilicata e la Calabria) e l’altra arrivò nell’isola cinque anni dopo, formata dagli Ausoni che fuggivano dagli Iapigi (la Japigia comprendeva buona parte della Puglia).
L’altra fonte fu quella di Tucidide  che “mentre avveniva la conquista di Ilio, alcuni troiani sfuggiti agli Achei (quando Ilio fu incendiata) ripararono in Sicilia e si stabilirono in un territorio ai confini con i Sicani ( che secondo lo storico Timeo erano stati i primi abitatori del posto) formando, successivamente, la popolazione degli Elimi, e fondando la città di Erice e Segesta. In seguito un gruppo di Focesi, approdato sulle coste siciliane, mentre fuggiva da Troia, si unì ad essi””.
Certamente la tesi di Tucidide è affascinate dato che cita l’arrivo degli Elimi dall’Oriente.
Tuttavia gli studi del compianto prof. Sebastiano Tusa, basati anche sui reperti trovati nelle varie campagne di scavo, hanno ipotizzato una “enucleazione dell’elemento elimo, dall’elemento sicano avvenuta nel corso dell’VIII secolo a.C”.
Il professore mise in relazione l’arrivo degli Elimi con una delle numerose onde migratorie provenienti dalla penisola che, a partire dal XII secolo a.C., investirono la cultura sicana.
Pure Virgilio citò la fondazione della città  Elima di Segesta nel V libro dell’Eneide dove descriveva l’incendio della navi troiane, durante lo svolgimento dei ludi funebri in onore di Anchise, padre di Enea, e del responso di Naute all’eroe giunto in Sicilia dopo l’incendio di Troia. Il poeta scrisse infatti che il vecchio profeta ordinò ad Enea di proseguire il suo viaggio, lasciando nell’isola i più anziani e stanchi delle lunghe peregrinazioni e permettendo, in questo modo, di fondare una città che sarebbe stata chiamata “Acesta” dal re Aceste,  suo fondatore.
Le tipologie monetali coniate da Segesta a partire dai primi decenni del V secolo a.C sembrano  dimostrare le origini non - troiane degli Elimi.
L’immagine ricorrente è quella della testa della ninfa eponima, una delle ninfe Egestee ristoratrici di Eracle e nello stesso contesto dovrebbe intendersi anche la raffigurazione del cane. Un motivo che è spesso associato a quello della testa della ninfa e che da Segesta venne trasmesso successivamente alle città anelleniche di Erice, Mozia e Panormo.














Nella mitica fondazione di Segesta si narra che il re troiano Laomedonte aveva scatenato le ire del dio Poseidone che non era stato ripagato dell’aiuto dato al re per la costruzione delle mura della città di Troia.
Poseidone per vendetta ordinò a Laomedonte di dare in pasto la propria figlia Esione ad un mostro marino. Eracle per caso si trovò a passare sul luogo del sacrificio e salvò la giovane principessa.
Fu imposto quindi ai troiani di sacrificare ogni anno al mostro marino una giovinetta.
Il principe troiano Ippoteo volle salvare la giovane e bellissima Egesta da quell’atroce destino e decise di affidarla alle onde del mare, si alzò una leggera brezza proveniente dai Dardanelli che sospinse la piccola imbarcazione nei pressi della foce del fiume Krimissos (oggi San Bartolomeo). Qui il dio fluviale vide la bella fanciulla e decise di tramutarsi in un cane. Andò verso la ragazza, che amando gli animali, lo accarezzò dolcemente. Poi stanca del viaggio si addormentò appoggiata ad un albero con accanto la divinità tramutata. Nel sonno ebbe delle strane visioni e nove mesi dopo diede alla luce due bambini, Eolo ( non il dio dei venti) ed Aceste.
Fu Aceste che costruì sulle rive del fiume, che gli era stato padre, una città e la chiamò Egesta dal nome della madre.  Aceste successivamente accolse Enea che era giunto fuggendo dalla città di Troia in fiamme e lo stesso Enea fu felice di essere ospitato da gente della sua stessa stirpe e lingua.

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2.  L’Eremo (Santuario) dei Santi Cosma e Damiano, sorge non molto lontano da San Cipiriello da cui dista 3,5 km verso Est.







L’edificio religioso sorge su un pianoro sostenuto a valle da un robusto muro di contenimento.





Il santuario è in completo abbandono nonostante la Sovrintendenza abbia effettuato dei restauri conservativi. Purtroppo della vecchia struttura e soprattutto degli affreschi resta ben poco considerando che gli ultimi interventi, di una certa importanza, furono effettuati addirittura nel 2011.

Tommaso Fazello nel XVI secolo diede una descrizione del sito mettendone in risalto la funzione religiosa come luogo di pellegrinaggio da parte di fedeli provenienti dal palermitano e dai centri vicini.
Presenta un orientamento Est- Ovest e la chiesa fu ricavata in un anfratto naturale.




La stessa chiesa fu inquadrata ad est da una serie di ambienti, disposti su due piani, e con ambienti destinati al piano terra a stalla, dormitorio, forno e sacrestia. Sul lato opposto si trovava una modesta costruzione, anch’essa a due piani,  che si affacciava sulla chiesa tramite la cantoria che era posta in direzione dell’altare.





L’ingresso, posto a Sud,   presenta cinque gradini in pietra ed era completato da una porta a due battenti, naturalmente non più esistente, e decorata a quadri….



Il vano era diviso in due navate grazie ad una fila di cinque colonne di cui due, quelle poste all’estremità, erano addossate ai muri.

Colonnato dorico


Le colonne erano sormontate da quattro archi a tutto sesto e sostenevano un tetto che era costituito da travi in legno che, con una modesta pendenza, dalla roccia scendeva verso il prospetto della chiesa cioè dov’era ubicato l’ingresso.
L’altare, piccolo gioiello artistico, si trova nella navata posta a nord e addossato alla parete della roccia. La sua base è sopraelevata rispetto alla sala grazie a tre gradini semicircolari in pietra.

l'altare


La base dell’altare presenta degli affreschi che sono riconducibili a due diversi periodi.
Lo strato più recente è caratterizzato da strisce verticali di colore azzurro con i bordi segnati in rosso che coprono un decoro precedente costituito da tracce di colore rosso e verde.

Decorazione recente


Decorazione antica

Senza nulla togliere a queste decorazioni presenti alla base dell’altare, in ogni caso testimonianze di “antiche genti”, l’affresco più importante era quello posto sull’altare che raffigurava l’incoronazione della Vergine Maria da parte del Cristo e del Padre tra i due santi Cosma e Damiano. Il tutto inquadrato in una cornice di stucco.







Un vero peccato…..
Dietro l’altare è presente un vano interamente ricavato nella roccia ed accessibile da un anfratto a destra. In questo locale si trovavano ancora resti di una condotta in terracotta che convogliava l’acqua in una piccola fonte   e da qui in chiesa dov'era raccolta in un piccolo pozzetto addossato alla parete rocciosa.





La sorgente che scaturisce della roccia

La fonte posta dietro l’altare
Un’acqua che era considerata miracolosa dai pellegrini


All’interno del vano, in alto, sono visibili tracce di colore e nella navata adiacente all’ingresso, in una nicchia, è presente un altro affresco.
Un affresco con una cornice dipinta che raffigura l’arcangelo Raffaele che tiene in mano Tobia nell’atto di indicargli il quadro della Madonna della Provvidenza sospeso in alto.
Alla scena assiste Dio Padre benedicente mentre la presenza di un gabbiano in volo suggerisce l’episodio avvenuto in prossimità del mare.

L’affresco dell’Arcangelo Gabriele e Tobia

La raffigurazione dell’arcangelo Raffaele non è causale perché si collegherebbe ai due santi anargiri (Cosma e Damiano). Raffaele in ebraico significa “medicina di Dio” o “Dio guarisce” e come i due santi viene raffigurato con un vaso contenente dei medicamenti.





L’affresco dell’arcangelo Raffaele e di Tobia  quando fu  dipinto ? 
 Prima di datare l’affresco è opportuno narrare l’episodio bilico dell’arcangelo Raffaele e di  Tobia (citato anche come Tobiolo per differenziarlo dal padre che aveva lo stesso nome).

Tobiolo è un quindi un personaggio biblico che la chiesa festeggia il 13 settembre mentre Raffaele è il terzo Angelo ( dopo Michele e Gabriele)  attestato dalla Bibbia.
L’Arcangelo Raffaele    è noto da un breve scritto dell’Antico Testamento, il Libro di Tobia,   che secondo gli esegeti, aveva il compito d’insegnare, sotto forma divertente, oltre che delle verità morali, l’angelologia ebraica. Per questo motivo il racconto si presenta come un piccolo romanzo.
Tobia, appartenente alla tribù di Neftali, è l’unico che abbia rifiuto il culto degli idoli che erano stato introdotto in Israele dal re Geroboamo. Sfidando le direttive reali, aveva continuato a professare la religione dei suoi padri compiendo continui pellegrinaggi a Gerusalemme , “lasciando la decima, soccorrendo i poveri e temendo Dio”.
Quando gli Israeliti furono deportati a Ninive anche Tobia fu esiliato. Da esiliato ebbe “ una bella fortuna e una famiglia felice”.
Alla morte del sovrano i “suoi affari commerciali con l’estero fino allora prosperi, declinano quando il nuovo re Sennacherib dichiara le ostilità con la Media, chiudendo le strade delle carovaniere.
Il perfido e crudele Ninivita si mette a massacrare gli Ebrei di cui fa gettare i cadaveri dall’alto degli spalti nella pianura, con l’interdizione a chiunque, sotto pena di morte, di dare loro una sepoltura. Ma il pio Tobia, sull’esempio di Antigone, disprezza le leggi degli uomini quando esse vanno contro quelle di Dio. Sfidando le minacce del tiranno, ogni notte, egli ruba le spoglie alle carogne e le interra. Tobia finisce per essere denunciato e  trova la sua salvezza in una fuga precipitosa. Tutto quello che gli rimaneva della sua fortuna è allora confiscato.”
Sennacherib venne assassinato.
“Alla preghiera dei suoi parenti, Tobia è autorizzato a rientrare in Ninive. Egli ritrova la sua casa, sua moglie Anna ed il loro figlio adolescente Tobiolo. E ricomincia la sua vita esemplare, non rinunciando neanche al bisogno di scavafossa clandestino. … Tobia è raggiunto da cataratta e perde la vista”.
“Incapace di lavorare, egli deve sopportare che la sua sposa lavori presso gli altri per guadagnare il loro pane. Colmo d’ingiustizia, il vicinato lo schermisce: a che gli è dunque servito di rispettare Dio ed i Suoi Comandamenti? Yahvè ha apertamente distolto il Suo Volto dal Suo Servitore, poiché, nella società ebraica dell’Antichità, la riuscita sociale e finanziaria è la nota visibile dei meriti di un uomo, ricompensa immediata delle sue  buone opere. Ben presto, Anna stessa angoscia suo marito coi suoi rimproveri. Colpito nella sua dignità, Tobia chiama la morte”.

“Durante questo tempo, in Media (nella città di Ecbatana, molto distante da Ninive), la giovane, dolce e bella Sara, figlia unica del ricco Ebreo Raguele (e di Edna), è in balia degli insulti del vicinato e delle sue proprie serve. Sette volte, suo padre le ha dato uno sposo; sette volte, il nuovo marito è morto nel momento in cui entrava nella camera nuziale e si avvicinava al letto coniugale. Sara ha perduto  i cugini coi quali, secondo la Legge, essa poteva convolare (sposarsi). Ella è condannata al nubilato ed alla sterilità, infami assoluta per una Ebrea. Disperata, Sara sale in camera sua, decisa ad impiccarsi. Ella non sa che compirebbe, suicidandosi, i neri disegni del demone Asmodeo. (Nome preso da uno spirito maligno della Persia, che significa “io dono la morte – io uccido – io distruggo).
Asmodeo presiede ai peccati della carne e si accanisce nel dannare la ragazza.
Sara rinuncia ad uccidersi e si limita ad implorare la morte.
“Davanti alla disperazione del vecchio Tobia e dell’innocente Sara, Dio si commuove e spedisce sulla Terra uno dei Sette arcangeli che stanno sempre davanti a Lui, Raffaele, l’Angelo della castità e dell’amore coniugale, avversario dichiarato di Asmodeo, quel maestro ipocrita che spinge gli uomini e le donne a degli atti che lui stesso, da puro spirito che è, giudica ridicoli, osceni e ripugnanti.
Raffaele prende l’aspetto di un giovane e si presenta a casa di Tobia sotto il nome di Azaria, figlio di Anania. Egli capita a proposito. Il vecchio Tobia, ossessionato da pensieri morbidi, ha deciso di mandare suo figlio di Media, a fine di recuperarvi delle piccole risorse che egli aveva fatto laggiù; grosso modo di che offrirgli esequie decenti…”

Tobia, Tobiolo e l’Arcangelo Raffaele
Dipinto di Ricci Sebastiano (1659 – 1734)
Altra attribuzione: Francesco Albani
1680/1690
Dipinto: tela/pittura ad olio – (107,50 x 88,50) cm
Rimini – Museo della Città

Tiziano
L’Arcangelo Raffaele e Tobiolo
( 1511 – olio su tela ) (170 x 146)cm
Galleria Accademia di Venezia

“Il giovane Tobiolo, inesperto, ha bisogno di una guida sicura; il presunto Azaria si propone  per compiere questa missione, mai guida sarà stata così ben scelta.
Attraversando un fiume, Raffaele aiuta Tobia a prendere un grosso pesce di cui il fegato, il cuore ed il fiele hanno straordinarie proprietà terapeutiche.


Egli lo conduce poi a casa di Raguele, rilevando ai due uomini quello che essi ignoravano, a causa dell’esilio; essi sono parenti prossimi e Tobiolo è lo sposo promesso a Sara. Malgrado i timori del padre e del fidanzato, Raffaele (Azaria) spinge alle nozze e mostra a Tobiolo come, gettando le viscere del pesce nel fuoco, egli compirà un esorcismo abbastanza potente per cacciare Asmodeo dalla camera di Sara”.
“Tobiolo obbedisce; Asmodeo, violentemente turbato dall’odore, se ne fugge fino in Egitto dove Raffaele lo prende e gli amministra una correzione nel dissuaderlo ad importunare la giovane coppia. Poi  Raffaele regola gli affari commerciali di Tobia, recuperando molto più del previsto, somma che viene ad aggiungersi alla grossa dote di Sara ed all’enorme eredità che aspetta questa figlia unica.
È dunque con una fortuna interamente ristabilita che il giovane rientra a casa sua assieme alla moglie ed Azaria. Grazie al fiele del pesce, egli potrà guarire la cecità di suo padre Tobia.
I giusti sono stati ricompensati. Ma Azaria, la guida che ha permesso tutti questi prodigi, come ringraziarlo in proporzione ai servizi resi?
Generosamente, Tobia e Tobiolo gli offrono la metà dei loro ritrovati beni.
L’Angelo si decide allora, dopo alcuni consigli di morale, a rilevare loro la verità:

Voglio dirvi tutta la verità, senza nulla nascondervi;
vi ho già insegnato che conviene custodire il segreto del Re,
mentre che conviene rilevare degnamente le opere di Dio.
Voi saprete dunque che, quando eravate in preghiera, tu e Sara,
ero io che presentavo le vostre suppliche alla gloria del Signore
e che le leggevo; e così quando seppellivi i morti.
Quando tu non hai esitato ad alzarti, ed a lasciare la tavola per
andare a seppellire un morto.
(In mezzo ad un pranzo dato per celebrare il ritorno di Tobia dall’esilio,
lo stesso Tobia apprese che il corpo  di un condannato a morte veniva
dall’essere gettato nella piana. A rischio della sua vita, egli lasciò i suoi
ospiti per andare a seppellire quel morto sconosciuto.)
Io sono stato inviato per provare la tua, fede, e Dio mi inviò nello
stesso tempo per guarirti, così come a tua nuora, Sara.
Io sono Raffaele, uno dei Sette Angeli che stanno sempre pronti a
penetrare presso la Gloria del Signore”.

“Essi furono presi da spavento tutti e due e si prosternarono, ed ebbero grande paura.
Ma egli disse loro:
“Non temete nulla, la pace sia con voi.
Benedite Dio sempre.
Per me, quanto io ero con voi, non è a me che dovete la mia presenza,
ma alla volontà di Dio.
È Lui che bisogna benedire per tutta la vita.
Lui che bisogna cantare.
Voi avete creduto vedermi mangiare, non era che un’apparenza.
Allora, benedite il Signore sulla terra e rendete grazie a Dio.
Io risalgo a Colui che mi ha inviato.
Scrivete tutto quello che è accaduto”.

“Quando si risollevarono, egli non era più visibile”.

A differenza del misterioso personaggio nel libro della Genesi, che rifiuta di svelare il suo nome a Giacobbe, qui invece manifesta la sua essenza cioè quella di un angelo inviato da Dio per svolgere la sua funzione di accompagnatore, curatore e guaritore.
Nell’affresco infatti appare nel suo aspetto canonico di Arcangelo.
Ma c’è un altro aspetto che appare dalle parole dell’Arcangelo  in riferimento alla sua missione: “Dio guarisce”…… “cioè “medicina farmaco di Dio”.
Una medicina spirituale in contrapposizione alla medicina dei Santi Cosma e Damiano anch’essi venerati nel santuario.
Quando fu eseguito l’affresco ?
Il riferimento alla presenza del quadro della Madonna della Provvidenza, che fu trovato nel 1784  si potrebbe datare intorno a quel periodo. L’arcangelo Raffaele indica a Tobia il quadro della Madonna come se avesse agito per sua intercessione…
Oppure l’affresco fu ritoccato inserendo il quadro della Madonna su una preesistente figura..
Ma c’è un altro aspetto….  Il figlio di Tobia, Tobiolo, è il patrono dei becchini.
La navata del santuario a partire dal 1876 fu utilizzata come cimitero da parte degli abitanti di San Cipiriello e questa fu probabilmente una strana coincidenza.

Tra l’affresco principale e quello dell’Arcangelo, il crollo di una parte del muro mise in evidenza, a circa 50 cm dall’attuale piano di calpestio, delle tracce di colore ocra su intonaco che sembrerebbero richiamare il disegno di una testa  di un angelo.



Probabilmente il disegno continuava nella parte sottostante cioè ad un piano di calpestio sottostante a quello attuale. Un livello sottostante, che a partire dal 1876, venne utilizzato come cimitero del Comune di San Cipiriello.


Le colonne che si trovano nell’eremo dovrebbero provenire dall’antica e vicina città posta sul monte Jato e che furono reimpiegate come elementi di sostegno.

Alcuni storici, tra cui il locale prof. Calogero Elio Di Maggio, avanzarono l’ipotesi che le stesse colonne si trovassero sul sito perchè attinenti ad un antico edificio di culto preesistente quindi all’eremo. Ma le fonti non confermerebbero questa ipotesi anche
se il culto dei santi Cosma e Damiano deriva da un antico culto a Castore e Polluce. Culto dei Dioscuri che giunse in Sicilia con i naviganti dall’Argolide attraverso l’isola di Rodi.  I due gemelli furono considerati i  protettori dei naviganti e dei pescatori e i
Santi Cosma e Damiano sono venerati in Sicilia come santi protettori dei pescatori (Tonnara San Cusumano a Trapani).
Lo stesso nome Damiano  deriva dal verbo greco “damazein” ossia soggiogare, domare, e  l’antico Castore era un abile domatore.







L’origine del santuario sarebbe collegabile a due successive migrazioni di religiosi provenienti dall’Oriente.
La prima risalente a circa ottant’anni dopo la conquista dell’isola da parte dei bizantini quando giunsero in Sicilia (nel VII secolo) ortodossi, calcedonesi, monofisti, melchiti, provenienti dalla Siria e dall’Egitto. Una migrazione  dal 611 al 618 quando i Persiani di Cosroe II s’impadronirono della Siria. Circa cent’anni dopo un'altra migrazione sotto l’imperatore bizantino Leone III Isaurico che inaugurò una persecuzione che fu portata avanti dal figlio Costantino V contro gli iconoduli (la politica iconoclasta). In questa occasione furono i monaci basiliani che in Sicilia e nell’Italia meridionale crearono dei veri e propri cenobi di preghiera. Costretti a nascondersi nelle grotte o in luoghi inaccessibili dove diedero vita a delle grandi espressioni religiose, culturali ed architettoniche.
Il sito possiede tutte quelle caratteristiche pedologiche che potrebbero farlo rientrare tra gli eremitaggi.
Una tradizione popolare narra della presenza fisica dei Santi Cosma e Damiano presso Monte Jato. Sul sito doveva essere presente qualche eremita al tempo dell’arrivo di Ruggero il Normanno che conquistò Jato nel 1079 anche se nelle cronache del tempo, descritte da Goffredo Malaterra, non si fa alcuna citazione di eremiti e tanto meno di eremi preseti nella zona.
Qualche ritrovamento, anche se sporadico, di monete con l’effige di Leone III, Costantino V e di Leone IV, rinvenute nell’antica città di Jato potrebbero fare propendere la tesi sulla presenza bizantina nel sito.
Un culto davvero singolare perché come riporta la storica, Giovanna Parrino,  il culto dei due santi è generalmente legato a zone vicino al mare e non poste in montagna.

Dopo la conquista di Giato da parte di Ruggero il Normanno la città fu donata nel 1093 alla Diocesi di Mazzara per passare successivamente, sotto Guglielmo I “Il Malo”, ai monaci cistercensi di San Nicolò di Gurgurro.
(San Nicolò “Lo Gurgo” o “Al Borgo”  di Palermo sarebbe una chiesa posta nel quartiere dell’Amalfitania” che era il cuore della comunità amalfitana adiacente alla Chiesa di Sant’Andrea degli Amalfitani o “Aromatari”, santo protettore della città di Amalfi. La chiesa fu affiliata alla casa madre di Fossanova, linea cistercense di Clairvaux. L’ordine cistercense fu attestato fino al XV secolo. L’edificio fu ingrandito nel 1306 a servizio del borgo o “gurgo” degli Amalfitani e ristrutturato dopo il 1628 dalla Maestranza dei Calzettai).

Palermo - San Nicolò Lo Gurgo

Il 15 agosto 1176 il castello e la terra di Jato furono donati da Guglielmo II “Il Buono” alla chiesa di Monreale (Santa Maria  Nova - Cattedrale).
Il castello di Jato insieme a quelli di Corleone e di Calatrasi, con tutti i loro possedimenti, costituirono quella che fu definita la “Spina dorsale della dotazione del Monastero”.
La città di Jato cessò di esistere nel 1246 quando fu distrutta da Federico II di Svevia per essere stata un importante presidio dei musulmani rivoltosi che avevano anche in Entella i loro forti baluardi militari. I saraceni furono quindi deportati a Lucera in Puglia e la città fu abbandonata.
Il santuario fu menzionato in un atto del 1341 in relazione all’annuale tributo di “
“Unze tre de cera in una candela” a favore della Chiesa di S, Maria Nuova di Monreale.
Dal 1443 al 1493 fu custode del santuario il beato Filippo Bosco la cui tomba fu ritrovata agli inizi del secolo scorso nella cattedrale di Monreale.
 Era esistente un “Priorato dei SS. Cosma e Damiano” che nel 1532, in seguito alla rinuncia del monrealese frate Ambrogio Rincione della dignità di priore benedettino del santuario, fu incorporato, dietro espressa volontà dell’arcivescovo , alla cappella del SS Sacramento della Cattedrale di Monreale. Fu assegnata alla cappella del SS Sacramento anche la vigna adiacente allo stesso santuario,
Il cardinale Ludovico II Torres istituì nel 1599 la dignità di arciprete, conferendola al più anziano di sei canonici parroci il cui compito era l’assistenza spirituale dei fedeli. Sia l’arciprete, e probabilmente anche gli altri cinque parroci si fregiavano del titolo di “Priori del Santuario dei Santi Cosma e Damiano”.

 Solo nel XVI secolo con Tommaso Fazello si avrà una citazione sul santuario:
“… nel Monte verso mezzogiorno è una piccola chiesa cavata nella rupe
dedicata a san Cosmano, la quale con gran
divozione è visitata ogni anno dagli abitatori vicini, ed anche dai Palermitani,
i quali vengono discosto quindici miglia per visitarla”.
Frequentatori del santuario era probabilmente anche gli abitanti della comunità di rito orientale di Piana degli Albanesi fondata nel XV secolo.
Anche Gian Luigi Lello, nel Sommario dei privilegi dell’Arcivescovato di Monreale del 1596”, includeva il santuario nell’elenco delle chiese che pagavano l’otto settembre di ogni anno, giorno della Natività della Madonna, il censo al duomo di Monreale… “La Chiesa di San Cosmano una torcia di once sei”.
A partire dal settecento l’omonimo Monte Jato fu affiancato, nella sua denominazione, da Monte San Cosmano o San Cosimo, a dimostrazione dell’importanza che il santuario assunse come meta di pellegrinaggio .
Ne è un esempio la carta topografica del barone Samuel von Schmettau datata 1720 o l’atto d’acquisto, delle terre confiscate ai Gesutiti, del 1778 del principe Giuseppe Beccadelli di Bologna dove si parla della “Cresta di san Cosimo”.
Anche alcuni storici dell’ottocento, da Giovanni Evangelista di Blasi a Nicolò Palmeri, nel raccontare le vicende del Monte Jato lo citarono spesso con il toponimo di Monte San Cosmano.
Belli citò come nel 1834 i lavori di costruzione della chiesetta “con annesso casamento” furono iniziati dal sig. paolo Terranova, sindaco del Comune di San Giuseppe Iato ( 1846 – 1852) e successivamente completati da altri benefattori.
A partire dal 1876 fino al 1897 il santuario venne utilizzato dal comune di San Cipiriello come cimitero. Numerose sono le lapidi di questo periodo rinvenute nella cripta al di sotto dell’attuale piano di calpestio.

L’ingresso alla cripta coperto, un tempo, da tavole.




Lastre tombali

Dal Dizionario Topografico dell’Amico s’apprende che la festa dei due Santi aveva luogo nei giorni di Pentecoste ovvero il secondo lunedì dopo questa festività.
Belli e Scarpaci lasciarono una bella descrizione folcloristica della festività.
Il percorso devozionale dei pellegrini ebbe fine negli anni ’60  momento in cui la struttura si trovava in pessime condizioni strutturali che si aggravarono  con il terremoto della Valle del Belice del 15 gennaio1968.
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Tommaso Fazello “Storia di Sicilia” 1558
“…. Nel monte verso mezzogiorno è una piccola chiesa cavata nella
rupe dedicata a San Cosmano, la quale con gran divozione è visitata
ogni anno dagli abitatori vicini ed anche dai Palermitano i quali vengono
discosto quindici miglia per visitarla”.

Gian Luigi Lello “Sommario dei privilegi dell’Arcivescovado di Monreale” 1596
La Chiesa di San Cosmano una torcia di once sei.
… Dirò per hopra, che non v’è in quel monte altra fabbrica,
che una piccola chiesa col titolo di San Cosmano, cioè, come s’è detto,
dedicata sotto nome di San Cosmano e Damiano, dove concorre ogni anno
gran frequenza de popoli nelle feste della Pentecoste”

Giovanni Di Blasi, “Storia del Regno di Sicilia dell’epoca oscura e favolosa sino al 1774”
“….Dopo la presa di Taormina, narra il Malaterra quella di Jato e Cinisi.
Erano questi due castelli nella Valle di Mazzara. Il primo fabbricato
sulla cima di un monte alpestre che oggi è chiamato Monte di San Cosmano,
per una chiesetta che vi sta sulla pendice dedicata 2 SS Cosma e Damiano”.

Nicolò Palmeri, “Somma della Storia di Sicilia”, 1850;
“ Era Jato posto sulla vetta di un arduo monte sull’altipiano detto
San Cosmano di là da Monreale”.

Vito D’Amico, “Dizionario Topografico della Sicilia, 1855;
“Jato. Monte e piccola terra oggi ruinata [..]
Appellasi oggi volgarmente S. Cosmo dalla chiesa nel vertice del monte
dedicata ai SS. Martiri Cosmo e Damiano […]
raccolgonsi nondimeno nei giorni della Pentecoste le circonvicine
genti, e con somma frequenza visitano la chiesa e venerano
i SS. Martiri, si appartiene quella ai parrochi
della chiesa di Monreale, ai quali si competono i diritti dei territorio
ed i censi”.

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Francesco Belli “Ricordi storici e statistici dei Comuni di san Giuseppe Jato e San Cipirello”, 1934
“ L’altro santuario dedicato a San Cosma e Damiano è antichissimo.
Sorge a circa tre km dal paese a mezza costa sul versante meridionale del monte.
È tradizione che quivi si rifugiassero i Santi Martiri nella loro vita peregrina.
Vi si accede per un agevole viottolo.
Vi ha una chiesetta in parte incavata nel monte, e annesso casamento.
Queste costruzioni furono iniziate dal signor Terranova Paolo, sindaco dell’epoca, e poi completate da altri benefattori. Recentemente le riparazioni occorrenti
Sono state provvedute dal signor Abate Giuseppe e particolarmente
dal signor Riela Andrea fu Vincenzo. Sul davanti del santuario si allarga una
vasta terrazza, sorretta da un alto bastione dal quale si gode un incantevole
panorama. La chiesetta era un tempo adibita come cimitero. Il secondo lunedì
dopo la Pentecoste vi si celebra un pellegrinaggio.
Festa di San Cosmo: ricorre sempre il primo lunedì di Pentecoste; si celebra
nel santuario del Monte Jato. Nelle prime ore del mattino vi  accorrono
i numerosi fedeli anche dei paesi circonvicini. Sulla spianata dinanzi alla
chiesetta si raccolgono oltre i fedeli numerosi venditori ambulanti con
baracche pieni di dolciumi, ceci e semi di zucche abbrustoliti,
giocattoli e ninnoli diversi, carne, pane, vino, frutta e altro.
I presenti dopo aver fatto le loro offerte ai santi e assistito alle funzioni religiose
si sparpagliano per la spianata e su per le pendici del monte, seduti
a gruppi sul nudo suolo, e dopo avere dato all’assalto al mangime portato da
casa o acquistato sul posto, annaffiato di generosi vini o con acqua fresca dal fonte,
si abbandonano in animate coppie a deliziose danze al suono di tamburelli,
armoniche, violini, chitarre e mandolini.
Frattanto il sole comincia a levarsi a ridosso del monte e l’aria a
Riscaldarsi e la gente mogia piglia per diverse vie il ritorno.
A mezzo giorno tutto è finito e nell’incantevole sito ritorna il silenzio.
Per la verità della cronistica debbo dire che oggi il santuario è quasi abbandonato;
non esiste più il fervore e l’affluenza dei tempi andati; financo i parroci di
Monreale non vengono più a celebrare le funzioni religiose; quel po' di verde
che esisteva attorno al santuario è scomparso per via degli animali al pascolo;
il baluardo è un po' diruto. Oggi gli abitanti dei due comuni in quel giorno,
preferiscono recarsi in comitiva nei propri poderi per una allegra
scampagnata con una scorpacciata di carne ovina. Mutati i tempi, mutati i costumi”.


Giuseppe Scarpace, “Da Jato antica a San Cipirello” 1958
“ Vogliamo qui far cenno di un’altra chiesetta  quella dedicata ai
SS. Martiri Cosmo e Damiano, sebbene essa non sia soggetta alla
giurisdizione  di San Cipirello. Sorge sul costone sud-est del
Monte Jato (quota 461) in località Picciana a circa tre km dall’abitato
di San Cipirello e presenta un’incantevole posizione. È un piccolo,
vetusto  santuario “sotto la cura dei parroci della Metropolitana
Chiesa di Monreale. È scavato per metà nella roccia e vi scaturisce
sia pure  in maniera quasi trascurabile,, fresca acqua che, raccolta
in piccola fonte, è refrigerio ai pellegrini o viandanti e più sovente
ai pastori che nelle vicinanze fanno pascolare i greggi.
Adiacente alla chiesetta è un fabbricato anch’esso vetusto in pessimo stato
di manutenzione, composto da pochi vani, sede degli eremiti che un tempo
vi soggiornavano. Nel giorno dedicato ai SS Cosmo e Damiano che ricade nel
secondo lunedì  dopo la Pentecoste è usanza praticata dai fedeli dei
paesi circonvicini di recarvisi in pellegrinaggio per scopi votivi o
penitenziali e ascoltarvi la santa Messa, o semplicemente per trascorrere
una giornata d’allegria e fare la scampagnata, in comitive, con rituali
fisarmoniche, canti, balli, “schiticchi” e sbornie essendo inevitabile l’effetto
dei generosi vini di queste contrade. Il Complesso del casale, che, visto dalla valle,
sembra quasi appollaiato su quella altura, essendo l’unico in tutta la zona montagnosa di  Jato, serve spesso quale rifugio alpino per chi, trovandosi a vagare sul
monte, viene colto dalla bufera o dalla canicola. Chi scrive ne sa qualcosa per
averne fatto esperienza.
Si trovò in una giornata di agosto di qualche anno fa a compiere, con alcuni
amici amatori una delle solite gite escursionistiche sul monte Jato per
visitare i ruderi dell’antica città che si sorgeva. La mattina non
sembrava davvero però di agosto. Di balza in balza la comitiva aveva
appena raggiunta la cresta che sta a cavaliere dei due comuni di
San Giuseppe Jato e San Cipirello. Le nubi sospinte dai forti venti, si
addensavano nel cielo diventato cupo ad un tratto e una sottile pioggia non
tardava a cadere, mentre scintillanti saette fendevano a zig-zag l’aria subito
seguite dal sordo, sempre crescente tuonare che riempiva l’animo di paura.
La comitiva doveva purtroppo rinunziare allo scopo della gita e cercare
Riparo dirigendosi verso il santuario. Il tratto da percorrere era lungo;
la pioggia cadeva sempre più fitta, più insistente l’umidità già penetrava
le ossa tanto inzuppati d’acqua erano i vestiti degli escursionisti.
Anche lo scopo secondario della gita era frustato: quello di una buona
caccia di pernici da passare allo spiedo all’ora della colazione.
Una di esse fu vista volare da un cumulo di rovine; fu inseguita e si
sperdette fra i cespugli, né fu possibile stanarla.
Al rifugio si pervenne dopo un’ora di marcia faticosa sotto la pioggia.
Ivi la comitiva aveva preso appuntamento con il custode
Don Nenè Riela, un vecchio arzillo di San Giuseppe Jato, che,
malgrado la sua età avanzata e i suoi acciacchi fisici, non mancò di presentarsi
all’ora convenuta. Fu meraviglia e fu conforto insieme.
Provvide subito ad attizzare un fuoco ristoratore dopo avere avuto il
primo pensiero ai SS. Martiri accendendo i ceri dell’altare. Passò più
tardi la improvvisa bufera e la comitiva, rifocillatasi alla meglio, prese
la via del ritorno con un po' di cocci di terracotta (avanzi saraceni)
nel sacco a ricordo della infruttuosa gita, e con in gola il mancato gusto
della pernice allo spiedo.
Chiediamo venia alla disgressione e rientriamo nel tema. La chiesetta è vetusta.
Certo parecchi e svariati secoli roteano intorno ad essa. Ma non siamo
in grado di stabilire l’epoca in cui sorse non avendo potuto rintracciare
elementi probatori. In altra parte del presente lavoro abbiamo accennato
ad un capitello corinzio proveniente dall’antica città di Jato collocato
all’interno del santuario, ma questo è più intimamente legato all’affetto
dei Sancipirrellesi, ed è per ciò che ne parliamo,. Perché per decenni e fino
al 1897, epoca in cui entrò in funzione il nuovo cimitero comunale
vi erano seppelliti i loro morti”.

Calogero Elio Di Maggio “Jato Antica”, 1975
“…A Sud, sopra uno spazio molto ristretto, all’orlo di un
dirupo di alcune centinaia di metri, rinforzato da un contrafforte,
v’è il famoso santuario di S. Cosma e Damiano, meta un tempo di
numerose folle di fedeli e pellegrini. Le colonne che dividevano la
chiesetta in due navate avendo perduto in parte uno strato di malta,
hanno fatto la gradita sorpresa di scoprire uno stile dorico […].
Facevano parte di una costruzione preesistente al santuario cristiano
o provengono dalla città ?... Non è improbabile
il caso di una sovrapposizione di nuovi ad antichi culti, come per
esempio possiamo vedere ad Alessandria d’Egitto, dove il culto di San Cosma e
Damiano presenta analogie con precedenti credenze pagane
riguardanti la medicina”.

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Chissà quante volte i monaci pregavano seduti su queste antiche pietre prelevate dall’antica città di Jato.
Una preghiera intensa che spaziava sul vasto panorama dando la vera essenza del concetto di Creato. Il tutto avvolto in un silenzio che accompagnava la riflessione sul senso della vita.
Questi monaci insegnavano l’amore verso Dio e verso il prossimo nella pratica della giustizia, dell’elemosina, dell’amicizia e della fratellanza così come i santi  raffigurati nella Chiesetta.
Monaci che erano chiamati a rendere visibile la missione angelica di curare e guarire e di rendersi tramite di salute e di salvezza per gli altri.
È triste vedere il santuario ridotto in questo stato anche se la Sovrintendenza sembra che abbia eseguito dei lavori per la messa in sicurezza dell’edificio e per renderlo visitabile.











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3, Il Santuario Maria SS. Della Provvidenza -  (Dammusi)







Il Santuario fu edificato verso la metà del 1800 per volere di Niccolo Lucido, Gaetano Traina e dei suoi nipoti Sirchia e Piediscalzi. Sorse sul luogo dove il 21 luglio 1784 fu rinvenuto un quadro in ardesia sul quale era raffigurata la Madonna della Provvidenza. Sul luogo del ritrovamento, nell’ex feudo “Dammusi”, venne in origine edificata un edicola votiva a ricordo del miracoloso evento.


Il 21 luglio 1784 un contadino di Borgetto, Onofrio Zorba,  dormiva nell’aia dopo aver sostenuto la dura fatica di mietitura del grano, assieme ai suoi compaesani e contadini di San Giuseppe dei Mortilli.  (Antico nome di San Giuseppe Jato perché il centro sorgeva nell’ex feudo Mortilli che fino al 1776 appartenne alla Compagnia dei Gesuiti di Palermo. Il contadino fu svegliato dalla Madonna che gli indicò il luogo dove era sepolta una sua immagine. Dopo una dura giornata di lavoro, il contadino credette di aver sognato e si riaddormentò.
La Madonna lo svegliò una seconda volta ma il contadino, ancora una volta, si riaddormentò.
Al terzo tentativo la Madonna lo scosse in modo energico  e anche se l’uomo era in dormiveglia, gli ricordò di andare a scavare nel luogo che gli aveva indicato e di preoccuparsi del grano appena tagliato dato che i muli stavano mangiando i “gregni”, cioè i fasci di spighe che erano accatastati nell’aia.
Questa volta il contadino si svegliò e resosi conto di quello che stava accadendo si preoccupò con i compagni di lavoro di legare i muli. Poi raccontò del sogno e invitò i compagni a scavare nel luogo indicato dalla Madonna.
Riuscì a convincerli e giunti nel luogo indicato, cominciarono a scavare.
Trovarono un quadro in ardesia raffigurante la Madonna e appena lo sollevarono cominciò a sgorgare dell’acqua dal suolo.
Sorse una diatriba su chi doveva custodire il prezioso quadro. I “Murtiddara” ne rivendicavano la proprietà dato che era stato trovato nelle terre del principe di San Giuseppe dei Mortilli mentre Onofrio ed i suoi compagni di lavoro volevano portarlo a Borgetto.
La voce sul prezioso ritrovamento si diffuse nel territorio e accorsero subito il principe Giuseppe Beccadelli di Bologna, il parroco, le autorità civili e militari e una gran folla di curiosi
Come per altri ritrovamenti, di cui è ricca la storia religiosa della Sicilia, si decise di seguire  il consiglio di Onofrio Zorba e cioè di mettere la sacra Immagine su di un carro trainato da buoi e lasciarlo libero di procedere ..”sarebbe stata la Madonna  stessa a scegliere dove andare e fermarsi”,
“Al Vespro, il carro trainato dai buoi si mise in movimento. I Burgitani tentarono diverse volte di farlo deviare per andare verso Borgetto ma inutilmente. I buoi si diressero a San Giuseppe dei Mortilli e qui si fermarono davanti alla Cappella del SS.mo Cuore di Gesù, presso il palazzo del Principe Giuseppe Beccadelli di Bologna (e di San Giuseppe dei Mortilli).



Palazzo Beccadelli – Corso Umberto
Il principe decretò che quello doveva essere il luogo dove doveva essere custodita la sacra Immagine. Ci fu una grande affluenza di devoti e la Madonna fu eletta Patrona di San Giuseppe dei Mortilli. Si stabilì che ogni anno il quadro doveva essere portato in processione sul luogo del ritrovamento  e ritornare, al termine delle funzioni ecclesiastiche,  nel luogo di custodia.
Dietro la richiesta dei Borgetani il principe Giuseppe Beccadelli decretò che a fine mietitura (15 agosto “festa ri menz’austu”) alla Madonna venisse dedicato un ciclo di festeggiamenti dove non dovevano mancare: messe solenni, processioni per i corsi principali del paese, l’accompagnamento di una banda musicale e i fuochi d’artificio.
Qualora una di queste disposizioni non fosse stata rispettata, il quadro sarebbe stato affidato ai “Borgetani” che per “l’occasione” edificarono nel loro centro una chiesa dedicata alla Madonna della Provvidenza… un patto ancora valido.
La Chiesa fu dichiarata Santuario Mariano il 21 luglio 2006.
Una struttura molto semplice con l’interno ad unica navata. Un tempo custodiva le tele del XVIII secolo provenienti dalla Chiesa di Pietralunga  dei Gesuiti. Tele di un certo valore come  “Maria Bambina al tempio”, posta a sinistra dell’altare mentre a destra si trovava un’altra tela che raffigurava un angelo nell’atto di donare le palme del martirio a due santi raffigurati con le corazze romane. Erano presenti anche due quadri su pergamena raffiguranti il Sacro Cuore di Gesù e il Sacro Cuore di Maria, un quadro di San Francesco nell’atto di ricevere le stimmate (tutti posti nella parete di destra)  mentre sulla sinistra una grande tela narrava la costruzione della chiesa con i ritratti dei vari benefattori.. tutte tele che sono misteriosamente scomparse.
L’altare centrale è dominato dal quadro in ardesia della Madonna della Provvidenza e presenta degli ornamenti in argento che vi sono stati applicati posteriormente al suo ritrovamento.
Ai lati dell’altare due quadri  ricordano il ritrovamento del quadro e nelle navati laterali delle statue moderne di San Giovanni Bosco e Maria Ausiliatrice.
La copertura è a volta e si estende per tutta la navata mentre il pavimento è policromo. In sacrestia è presente un “Ecce Homo” ligneo di autore ed epoca ignota ed una copia su tela del quadro della Madonna della Provvidenza.
La porta bronzea del Santuario narra in sei riquadri la storia della sacra Immagine e della frana del 1838 ed è opera dello scultore Governali.

“Alla fine del 1880, visto il pregio del quadro in ardesia, di pregiata fattura e delicatissimo, venne commissionato un quadro che riproducesse quello in ardesia, e da quel momento le processioni del 21 luglio ebbero come simulacro la nuova pittura ad olio.
Il profano, come sempre, si fa strada e si affianca al sacro, e spesso lo sovrasta.
I pellegrini giunti il mattino del 21luglio in processione a Dammusi, avevano offerto alla Vergine gli ex voto per grazia ricevuta, “i purmisioni”, il “viaggiu a peri”, il “viaggiu a peri scavusi”,quello “addinucchiuni”,che consisteva nel percorrere in ginocchio dall’inizio del sagrato all’altare, quello a “lingua a strascinuni”, che consisteva nel leccare con la lingua il percorso che va dalla soglia della cappella all’altare. Celebrate le funzioni, tutt’attorno mille fuochi per arrostire l’agnello, bancarelle con i bruscolini, venditori di palloncini, chitarre, mandolini, voci soliste e cori, balli e danze e “vinu a tinchitè” e, ad ogni bicchiere: “Viva a Maronna i Prurenzia!”, di seguito: tric-trac, carrittigghi e ghiocu di focu. Al vespero, un’ulteriore funzione e la processione di ritorno per riaccompagnare la Vergine in paese”. 

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4, Il Casale del  Principe







Una lettera di  Papa Gregorio Magno risalente al 599 attesta  l’esistenza di una masseria Jatina. Una menzione legata alla risoluzione di una controversia tra il “miles” Laurenzio e la Chiesa “Panormitana” …”massa Getina”.
Una struttura legata all’attività agricola in un territorio molto fertile e ricco d’acqua e con locali ricavati anche nella roccia , tuttora esistenti ed adibiti a magazzini.
Con la dominazione araba si ha la costruzione di un locale, dammuso, scavato nella roccia e con una copertura a volta. Un locale ancora esistente e in base alla sua planimetria si potrebbero rintracciare i locali destinati alla sala e all’alcova che erano collegati da un grande arco. La presenza di queste strutture diede il nome alla contrada.




1093… il conte Ruggero il Normanno concesse Jato al Vescovo di Mazzara e Guglielmo I “Il Malo” “vollene soggeti gli uomini (saraceni che vi erano residenti) ai monaci cistercensi di S. Niccolò di Gurguro” (Gli stessi Monaci che avevano l’Eremo dei Santi Cosma e Damiano).

Nel 1176 la città di Jato (costituita dai feudi di Chiusa, Fegotto, Dammusi e Signora) ed il suo vasto territorio vennero donati da Guglielmo II “Il Buono” alla Diocesi di Monreale:
 “La corrispondenza di Jatina con i feudi sopraddetti è assicurata dalla descrizione dei confini, in arabo e in latino, riportata nella Donazione di Guglielmo II all'Arcivescovado di Monreale del 1182: il fiume che aveva origine dalle sorgenti della Cannavera (Ayn al-kabira, magnus fons) costituiva il confine orientale mentre il fiume Jato (flumen quod descendit a Jatina) costituiva il confine meridionale; a nord il confine partiva dall'attuale contrada Marzuso (al-Marsuss) sino alla trazzera della Cannavera (via quae ducit ad Panormum) corrispondente ad un braccio dell'antica Via Mazariae.”

 1182 - Il territorio di Jato è una “Magna Divisa” costituita da circa 40 “Divise” e 50 casali sparsi nel territorio. Uno di questi casali potrebbe verosimilmente essere  “Dammusi”.
“Quasi certamente il principale centro di aggregazione dell'intero territorio era costituito dall'attuale casale di Dammusi il cui toponimo è documentato almeno dall'anno 1183  'ayn ad-damùs (sorgente di Dammusi) in un riferimento al casale di cui viene riportato il numero dei villani (servi della gleba) fatto sotto Guglielmo II… Il toponimo Dammusi è marcatamente di origine araba. Dammus, in arabo, è la volta - naturale o artificiale - che ricopre le abitazioni. Il termine ha lasciato le sue reminiscenze anche nel dialetto siciliano: il dammuso, nell’accezione comune è, ancora oggi, la volta che ricopre gli ambienti di una abitazione. Il collegamento tra il toponimo e l’attuale Dammusi è da mettere in relazione con alcuni ambienti degli edifici: a sinistra dell’ingresso principale del baglio si rileva la presenza di alcuni ambienti scavati nella roccia viva ricoperti appunto da un dammuso anch’esso in roccia. In funzione della presenza del dammuso gli arabi denominarono la vicina sorgente ayn ad-dammus ossia sorgente del dammuso.”

1246  -Jato, roccaforte dei musulmani ribelli dal 1243, viene distrutta da Federico II.
1258 - In una concessione del 1258 l’Arcivescovo di Monreale Benvenuto concede a Omodeo Latineri, Tommaso d’Armenia e ai loro consoci il casale di Jatina. Analizzando il contenuto della concessione si rileva, innanzitutto, che si tratta di un tipo di concessione diversa dalle altre dello stesso periodo: non vengono riportate solamente le condizioni economiche ma viene anche sottolineata una serie di clausole proprie di un contratto tra un signore (l’Arcivescovo) e una comunità straniera.”
Per questo motivo è ipotizzabile che fosse stata una comunità di Armeni (guidata da Tommaso d’Armenia) a chiedere  i locali della masseria Dammusi per sé. Si potrebbe  attribuire a questa comunità armena, un primo ampliamento dell’attuale masseria (verso sud).

1350 -1500- Torre d’avvistamento. Non si può attribuire a questa torre una data precisa per mancanza di fonti.

1593 - “Nel 1593 il feudo Dammusi con baglio, torre, magazzini e case apparteneva a Lanzo Galletti…Proprietario risultava un certo Lanzo Galletti di Piana degli Albanesi la cui famiglia, per altri versi, sappiamo essere originaria della città di Pisa.”


Nobile famiglia originaria di Pisa, passata in Palermo
verso il 1500. Godette  nobiltà in Messina e in Palermo;
possedette i principati di Fiumesalato, di Sori già Roccapalumba,
i marchesati di S. Cataldo e di S. Marina, la contea di Gagliano,
le baronie di Castania, di Rincione, di Rosignolo,
della terza parte della Scannatura, dell’ufficio di Portunalotto di Licata,
di Verbumcaudo, ecc.
Un Alessandro fu senatore di Palermo negli anni 1502-3……”
(Dott. A. Mango di Casalgerardo)

1596 Della situazione patrimoniale dell’arcivescovato di Monreale, G. L. Lello, dà una minuta descrizione nella sua Historia della Chiesa di Monreale in cui afferma che la Magna Divisa viene identificata in feudi.

1702  Dal testo dell’Abbate Michele Del Giudice si apprende che la Chiesa possedeva 72 feudi. Dal punto di vista giurisdizionale la Chiesa di Monreale raggruppava i suoi feudi in 6 camperie. Le sei camperie avevano sede a  Monreale, Piana dei Greci, Balletto, Alcamo, Calatrasi, Busacchino.

Sotto la camperia di Monreale era, fra gli altri, il feudo Dammusi .
Nel territorio era presente la famiglia Firmatura. Una famiglia citata raramente ma che ebbe dal quattrocento al settecento un ascesa sociale ed economica continua e costante.
Un ascesa sociale  lungo l’asse Madrid, Roma e Regno di Sicilia conquistata con strategie individuali e parentali, frequentazioni delle corti, familiaritas con i sovrano, letterati e giuridici studi, reti di protezione istituzionali, alleanze matrimoniali e anche forti speculazioni economiche soprattutto legate al commercio dei cereali.
Il legame con i Bologna di Palermo e con la famiglia Diana di Corleone, titolari dal 1447 al 1531 della castellania e della secrezia della città di Corleone, rafforzarono la loro posizione a Corleone e anche con Palermo e la corte regia.
Acquisirono vasti feudi ed è probabile che anche “Dammusi” rientri nella loro giurisdizione.
Un revelo del 1615, in merito alla condizioni economica di don Mariano Firmatura rileva tra i suoi possedimenti anche la gabella di “Dammusi con fattoria”.
Dopo vari matrimoni il patrimonio cittadino di Corleone, compreso quello della famiglia Firmaturi, venne ripartito tra Francesca Scarlata e Firmaturi e Giovanna Scarlata e Spataro.
Le due sorelle venderanno i beni immobili derivanti dall’hereditas di Gio Battista Scarlata alla COMPAGNIA DI GESU’.
Nel 1656 Francesca cederà ai gesuiti il feudo di Chiosi conservandone il titolo di marchesa  e Giovanna pochi anni dopo venderà, sempre ai Gesuiti, per 8100 onze anche i feudi di Sparacia, Sparaciotta e le masserie di Mazzullo e Pinzarruni nell’arcivescovado di Monreale.
Probabilmente nello stesso periodo anche il feudo “Dammusi” passerà in possesso dei Gesuiti.
La data non è accertata:
“La Masseria Dammusi, nel feudo omonimo, appartenne alla Casa S. Francesco Saverio di Palermo, unitamente al feudo Signora. La proprietà della casa del Noviziato comprendeva complessivamente
834 ettari, ubicati in una zona ricchissima d’acqua nella vallata formata dallo Jato, delimitata a Nord dai monti Signora (1131 m.), Dammusi (936 m.) , Mirto (1036 m.), a sud dal Monte Jato (852 m.)”.

“Vanta discendere dalla real casa di Scozia, passata in Catalogna, donde, per
un Blasco, passò in Sicilia sotto re Martino, stabilendosi in Corleone,
dove tenne le cariche di pretore, di capitano ecc.
Un Cosimo fu proconservatore di detta città nel 1655; un Vincenzo tenne la stessa carica nel 1664
e per la moglie, Francesca Scarlata, fu primo marchese di Chiosi in sua famiglia….


Dal XVII seco il feudo Dammusi e il relativo fabbricato, in cui era presente la torre, entrò in possesso della Compagnia di Gesù che mantenne la proprietà, con altri feudi, per circa un secolo.
Non fu un possesso semplice perché sin dall’inizio dovettero affrontare delle complicate e lunghe vertenze giudiziarie per il riconoscimento del titolo giuridico di proprietà.
Nel 1741 Carlo III  (Carlo Sebastiano di Borbone, re di Spagna), su consiglio del suo primo ministro Bernardo Tanucci, stipulò con la Santa Sede un concordato con il quale le tradizionali esenzioni fiscali delle proprietà ecclesiastiche venivano ridotte della metà o completamente abolite.  Un  avvenimento che preludeva alla futura espulsione dei Gesuiti.

Carlos Sebastian de Borbòn y Farnesio
(Madrid, 20 gennaio 1716 – Madrid, 14 dicembre 1788)

Bernardo Tanucci, primo Ministro di Carlo III
(Stia- Arezzo, 20 febbraio 1698; San Giorgio a Cremano – Napoli, 29 aprile 1783)


Nel 1767 Ferdinando IV (Ferdinando I di Borbone), ancora minorenne,  diventò re  delle due Sicilie e sempre su consiglio del ministro Tanucci, decise di seguire l’esempio del padre. Ordinò l’espulsione dal suo regno della Compagnia di Gesù. Il loro beni vennero incamerati dalla corte e dati in affido ad una Giunta speciale detta degli “Abusi” che nell’estete del 1768 diede in affitto tra gli altri, il feudo Dammusi e Signora a Vincenzo Ragusa per 950 onze. Vincenzo Ragusa che era un prestanome del principe di Camporeale Giuseppe Beccadelli.

Ferdinando I di Borbone 
(Ferdinando Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto
(Napoli, 12 gennaio 1751; Napoli, 4 gennaio 1825)

 1776-77 nell’ottobre del 1776 il ministro Tanucci fu allontanato dal governo borbonico e il suo incarico di ministro fu rilevato da  Giuseppe Beccadelli di Bologna Marchese della Sambuca  e Principe di Camporeale.

Stemma della famiglia Beccadelli

1 agosto 1778 –
“Il governo napoletano  con dispaccio del nuovo ministro Beccadelli, Marchese della Sambuca , comunicava la soppressione dell’azienda gesuitica: le chiese e le sedi  dei collegi gesuitici venivano restituite ai vescovi delle rispettive diocesi; i beni e le rendite erano invece incorporati nel Real Patrimonio che li avrebbe amministrati  come un cespite a parte. Queste furono messe in vendita e lo stesso ministro Beccadelli acquistò varie possessioni tra cui Dammusi e Signora (interamente occupata dai moggisti) con i suoi aggregati.”

1779 – Il principe Giuseppe Beccadelli fonda il paese di San Giuseppe Jato (dal nome del fondatore) con licentia populandi attorno ad un nucleo di costruzioni preesistenti (masseria e chiesa gesuitica) e sceglie invece per sé , un insediamento ad un uso più personale: la lussureggiante azienda  agricola con il suo castelletto , dimora estiva della nobile famiglia fino a pochi anni or sono , sorse nel feudo Dammusi sul versante opposto  della vallata esposta  a sud  ed in posizione panoramica.”
“L’architettura e la distribuzione degli ambienti sembrano caratterizzati notevolmente dalla presenza dell’ordine religioso: lunghi corridoi con stanzette. Tale impostazione sembra non avere subito grandi trasformazioni nella fase successiva quando proprietari del caseggiato nonché dei territori circostanti diventano i Beccadelli Bologna, Principi di Camporeale e Marchesi della Sambuca.”

1815 –
Il consiglio Provinciale della finanza determinò di includere  nel territorio di San Giuseppe gli ex feudi  di Dammusi, Signora,e Pietralonga secondo l’assegnazione fattane dal marchese della Sambuca.

1845 – A seguito di operazioni di catasto, nel 1845, gli ex feudi di Dammusi e Signora furono aggregati a Monreale.

19/7/1883 – Dopo varie dispute iniziate nel 1855 tra la Chiesa di Monreale e i paesi incamerati nel suo territorio, San Giuseppe con un R.D. (n.1541) ottenne gli ex feudi Chiusa, Feotto, Traversa e Jato. Dammusi rimase a Monreale.

Nell’antico feudo Dammusi si trova il “Casale del Principe” ( a circa 1,5 km – 20 minuti dal Santuario della Madonna della Provvidenza).
La sua terminologie è legata al Principe di Camporeale, Giuseppe Beccadelli  di Bologna, che trasformò l’antica masserie fortificata in residenza estiva.
Una struttura circondata dalle mura di un monastero del XVII secolo costruito dai Gesuiti (?).
La struttura conserva ancora oggi la torre, posta sopra la cappella, ed è stata oggetto di vari interventi che si sono susseguiti nel tempo. La parte più antica è l’ala occidentale costruita sopra la roccia.
In una sala, le cui pareti sono ricavate nella roccia, i monaci ricavarono delle piccole nicchie. Nel cortile antistante c’è invece l’ingresso della cappella che conserva la riproduzione dell’immagine della Madonna della Provvidenza.


La Torre










La Cappella del Casale

il quadro della Madonna della Provvidenza (riproduzione)
Il quadro conservato nella Cappella del Casale del Principe (fedele riproduzione, è scritto, dell’originale) è costituito da una bruna tela che raffigura la Vergine con il Bambino: sono entrambi incoronati e addobbati con particolari dorati. La Madonna tiene nella mano sinistra il globo crucifero mentre Gesù tiene con la manina destra uno scettro terminante con il triangolo trinitario contenente l’occhio onniveggente di Dio, mentre nella mano sinistra regge una grande croce.  Sei stelle contornano il capo di Maria ed altre cinque sono disseminate lungo la Sua figura (undici stelle e non dodici come da tradizione?).

Stemma dei Gesuiti sopra il portale d’ingresso della cappella





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5.Monte della Fiera - Mulino del Principe









Monte della Fiera




Una leggenda narra di una fiera degli spiriti che ogni sette anni si svolgerebbe sul pianoro erboso che caratterizza la sommità, molto panoramica, di questo rilievo che si erge sulla valle dello Jato.
Una leggenda forse legata alla frequentazione del luogo da parte dell’uomo in epoca antica e poi abbandonato ?
Probabilmente il nome  potrebbe essere legato a qualche antica fiera di bestiame che si svolgeva nei  pressi del monte,  nelle fertili campagne della Valle dello Jato o di contrada Marzuso, morbida di argille e ricca di pascoli.
Un ipotesi, a dire il vero “affascinante” e legata ad altri toponimi come “Fiera, “Fieravecchia” che si trovano in altre zone della Sicilia.
Le rocce del monte sono costituite da brecce dolomitiche del giurassico (circa 190 milioni d’anni fa). Il monte presenta una sola via agevole per la salita che   sarebbe un antica mulattiera che il tempo ha ormai cancellato. Gli altri versanti sono ripidissimi e irti di rocce aguzze. Della mulattiera rimangono solo delle evidenti tracce legati a degli antichi muri a secco e a brevi trincee scavate nella roccia. Sul pianoro ci sono tracce di frequentazione umana come cumuli di pietre, legate allo spietramento del terreno per il miglioramento del suolo  agrario, e un vecchio recinto, sempre in pietra, abbandonato ormai da tempo. Una mulattiera costruita con grande perizia e soprattutto fatica, dove conduceva ?

Dalla sommità del monte una bellissima veduta con i monti a sud di Palermo, il Monte Jato, i paesi di san Giuseppe Jato e di San Cipirello, il lago artificiale Poma che fu voluto dal sociologo  Danilo Dolci e la costa di Partinico.
La zona dovrebbe essere studiata anche per scoprire l’antica viabilità che collegava la valle dello Jato con Palermo.

A poca distanza si trova il Mulino del Principe che fu fatto costruire sempre dal principe di Camporeale, Giuseppe Beccadelli nel XVIII secolo. Una struttura imponente con arcate ogivali che sembrano di epoca medievale. Mulini molto numerosi nella zona e che furono utilizzati sino al XX secolo alimentati dall’importante e notevole presenza dell’acqua del fiume Iato.






La sua struttura è a martello e fu costruito con pietra squadrata (ai lati) e pietra informe mista a tufo nel resto dell’edificio.
Sono visibili catene in ferro che hanno lo scopo di trattenere la struttura stessa. All’intero erano ancora intatte le pulegge in ferro di dimensioni differenti (due da macina ed una da pulitura). Un mulino che era adibito alla molitura di cereali.

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6. Il   Casale di Pietralunga – Un ex feudo dei Gesuiti

Nel 1575 (?) Andrea Firmaturi ebbe in gestione la “gran masseria” di Pietralonga ..”il feudo è chiuso quasi tutto in una sola masseria di 13 ararati, circa 700 salme, nell’arcivescovato di Monreale.
Nel XVII le sorelle Francesca Scarlata e Firmaturi e Giavanna Scarlata e Spataro vendettero i feudi di loro proprietà alla Compagnia Di Gesù di Palermo.
La data esatta dovrebbe essere tra il 1656 ed il 1658.
Nel 1767 i Gesuiti persero il feudo a causa della confisca dei loro beni per decreto regio (Ferdinando IV di Borbone).
L’importante “masseria Pietralonga” dovrebbe essere quella posta lungo la Strada Provinciale (SP 65 bis).
Un’azienda che ha subito vari ampliamenti ma sono ben visibili delle antiche strutture risalenti anche agli ampliamenti eseguiti dai Gesuiti. E’ presente anche la vecchia chiesa ancora in discrete condizioni mentre altre strutture sono in cattive condizioni.
In questa chiesa si trovavano dei quadri che furono trasferiti in alcune chiese di San Giovanni Jato. Dei quadri che furono portati nel Santuario di Dammusi della Madonna della Provvidenza sembra che si sia perduta ogni traccia.
Nella sacrestia della chiesa di san Francesco di Paola si trova una preziosa tela del ‘600, dipinta ad olio, raffigurante l’Addolorata e che proviene proprio dalla Chiesa di Pietralonga dei Gesuiti. Chiesa che era dedicata a chi ?



























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7. “ U Campanaru”  di  Monte  Arcivocalotto
           Un Preistorico Calendario Solare ?



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