Nel Regno degli Elimi – San Giuseppe Jato e San Cipirello (Palermo) - Un mondo tutto da scoprire con tanti misteri.....
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Indice:
1.
Gli
Elimi (cenni)
2.
Il
Santuario (Eremo) dei Santi Cosma e Damiano ; La Storia del Convento – La Chiesa
– Gli Affreschi – L’Affresco dell’Arcangelo
Raffaele e Tobia - L’episodio dell’Arcangelo
Raffaele e di Tobia nell’Antico Testamento – L’Acqua Miracolosa - Le Citazioni – Il Degrado
3.
Il
Santuario di Maria SS. Della Provvidenza (Dammusi);
4.
Il
Casale del Principe; Famiglia Galletti, Firmatura, Gesuti, Beccadelli
5.
Monte
della Fiera - Mulino del Principe
6.
Casale
Pietralunga – Un Feudo dei Gesuiti
7.
“U
Campanaru” – Monte Arcivocalotto - Un
Calendario Astronomico ?
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1.
Gli Elimi
(cenni)
L’origine
degli Elimi è ancora oggi un argomento di difficile soluzione malgrado le
grandi conoscenze raggiunte nella storiografia attraverso vari ed importanti ritrovamenti
archeologici.
Sin
dal V secolo a.C gli storici hanno
lasciato importanti citazioni su questa popolazione che abitò la parte
occidentale ( e non solo) della Sicilia.
Ellanico
di Mitilene, citato da Dionigi di Alicarnasso, nella descrizione della terza
generazione di Greci, precedente alla Guerra di Troia, raccontò che due
spedizioni di italici ripararono in Sicilia. Una era formata da Elimi, cacciati
dagli Enotri (l’Enotria comprendeva il Cilento, parte della Basilicata e la
Calabria) e l’altra arrivò nell’isola cinque anni dopo, formata dagli Ausoni
che fuggivano dagli Iapigi (la Japigia comprendeva buona parte della Puglia).
L’altra
fonte fu quella di Tucidide che “mentre
avveniva la conquista di Ilio, alcuni troiani sfuggiti agli Achei (quando Ilio
fu incendiata) ripararono in Sicilia e si stabilirono in un territorio ai
confini con i Sicani ( che secondo lo storico Timeo erano stati i primi
abitatori del posto) formando, successivamente, la popolazione degli Elimi, e
fondando la città di Erice e Segesta. In seguito un gruppo di Focesi, approdato
sulle coste siciliane, mentre fuggiva da Troia, si unì ad essi””.
Certamente
la tesi di Tucidide è affascinate dato che cita l’arrivo degli Elimi dall’Oriente.
Tuttavia
gli studi del compianto prof. Sebastiano Tusa, basati anche sui reperti trovati
nelle varie campagne di scavo, hanno ipotizzato una “enucleazione
dell’elemento elimo, dall’elemento sicano avvenuta nel corso dell’VIII secolo a.C”.
Il
professore mise in relazione l’arrivo degli Elimi con una delle numerose onde
migratorie provenienti dalla penisola che, a partire dal XII secolo a.C.,
investirono la cultura sicana.
Pure
Virgilio citò la fondazione della città Elima
di Segesta nel V libro dell’Eneide dove descriveva l’incendio della navi
troiane, durante lo svolgimento dei ludi funebri in onore di Anchise, padre di
Enea, e del responso di Naute all’eroe giunto in Sicilia dopo l’incendio di
Troia. Il poeta scrisse infatti che il vecchio profeta ordinò ad Enea di
proseguire il suo viaggio, lasciando nell’isola i più anziani e stanchi delle
lunghe peregrinazioni e permettendo, in questo modo, di fondare una città che
sarebbe stata chiamata “Acesta” dal re Aceste,
suo fondatore.
Le
tipologie monetali coniate da Segesta a partire dai primi decenni del V secolo
a.C sembrano dimostrare le origini non -
troiane degli Elimi.
L’immagine
ricorrente è quella della testa della ninfa eponima, una delle ninfe Egestee
ristoratrici di Eracle e nello stesso contesto dovrebbe intendersi anche la
raffigurazione del cane. Un motivo che è spesso associato a quello della testa
della ninfa e che da Segesta venne trasmesso successivamente alle città
anelleniche di Erice, Mozia e Panormo.
Nella
mitica fondazione di Segesta si narra che il re troiano Laomedonte aveva
scatenato le ire del dio Poseidone che non era stato ripagato dell’aiuto dato
al re per la costruzione delle mura della città di Troia.
Poseidone
per vendetta ordinò a Laomedonte di dare in pasto la propria figlia Esione ad
un mostro marino. Eracle per caso si trovò a passare sul luogo del sacrificio e
salvò la giovane principessa.
Fu
imposto quindi ai troiani di sacrificare ogni anno al mostro marino una
giovinetta.
Il
principe troiano Ippoteo volle salvare la giovane e bellissima Egesta da
quell’atroce destino e decise di affidarla alle onde del mare, si alzò una
leggera brezza proveniente dai Dardanelli che sospinse la piccola imbarcazione
nei pressi della foce del fiume Krimissos (oggi San Bartolomeo). Qui il dio
fluviale vide la bella fanciulla e decise di tramutarsi in un cane. Andò verso
la ragazza, che amando gli animali, lo accarezzò dolcemente. Poi stanca del
viaggio si addormentò appoggiata ad un albero con accanto la divinità
tramutata. Nel sonno ebbe delle strane visioni e nove mesi dopo diede alla luce
due bambini, Eolo ( non il dio dei venti) ed Aceste.
Fu
Aceste che costruì sulle rive del fiume, che gli era stato padre, una città e
la chiamò Egesta dal nome della madre.
Aceste successivamente accolse Enea che era giunto fuggendo dalla città
di Troia in fiamme e lo stesso Enea fu felice di essere ospitato da gente della
sua stessa stirpe e lingua.
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2. L’Eremo (Santuario) dei Santi Cosma e Damiano,
sorge non molto lontano da San Cipiriello da cui dista 3,5 km verso Est.
L’edificio
religioso sorge su un pianoro sostenuto a valle da un robusto muro di
contenimento.
Il
santuario è in completo abbandono nonostante la Sovrintendenza abbia effettuato
dei restauri conservativi. Purtroppo della vecchia struttura e soprattutto
degli affreschi resta ben poco considerando che gli ultimi interventi, di una
certa importanza, furono effettuati addirittura nel 2011.
Tommaso
Fazello nel XVI secolo diede una descrizione del sito mettendone in risalto la
funzione religiosa come luogo di pellegrinaggio da parte di fedeli provenienti
dal palermitano e dai centri vicini.
Presenta
un orientamento Est- Ovest e la chiesa fu ricavata in un anfratto naturale.
La
stessa chiesa fu inquadrata ad est da una serie di ambienti, disposti su due
piani, e con ambienti destinati al piano terra a stalla, dormitorio, forno e
sacrestia. Sul lato opposto si trovava una modesta costruzione, anch’essa a due
piani, che si affacciava sulla chiesa
tramite la cantoria che era posta in direzione dell’altare.
L’ingresso,
posto a Sud, presenta cinque gradini in
pietra ed era completato da una porta a due battenti, naturalmente non più
esistente, e decorata a quadri….
Il
vano era diviso in due navate grazie ad una fila di cinque colonne di cui due,
quelle poste all’estremità, erano addossate ai muri.
Colonnato dorico
Le
colonne erano sormontate da quattro archi a tutto sesto e sostenevano un tetto
che era costituito da travi in legno che, con una modesta pendenza, dalla
roccia scendeva verso il prospetto della chiesa cioè dov’era ubicato
l’ingresso.
L’altare,
piccolo gioiello artistico, si trova nella navata posta a nord e addossato alla
parete della roccia. La sua base è sopraelevata rispetto alla sala grazie a tre
gradini semicircolari in pietra.
l'altare
La
base dell’altare presenta degli affreschi che sono riconducibili a due diversi
periodi.
Lo
strato più recente è caratterizzato da strisce verticali di colore azzurro con
i bordi segnati in rosso che coprono un decoro precedente costituito da tracce
di colore rosso e verde.
Decorazione
recente
Decorazione antica
Senza
nulla togliere a queste decorazioni presenti alla base dell’altare, in ogni
caso testimonianze di “antiche genti”, l’affresco più importante era quello
posto sull’altare che raffigurava l’incoronazione della Vergine Maria da parte
del Cristo e del Padre tra i due santi Cosma e Damiano. Il tutto inquadrato in
una cornice di stucco.
Un
vero peccato…..
Dietro
l’altare è presente un vano interamente ricavato nella roccia ed accessibile da
un anfratto a destra. In questo locale si trovavano ancora resti di una
condotta in terracotta che convogliava l’acqua in una piccola fonte e da qui in chiesa dov'era raccolta in un
piccolo pozzetto addossato alla parete rocciosa.
La sorgente che
scaturisce della roccia
La fonte posta
dietro l’altare
Un’acqua che era
considerata miracolosa dai pellegrini
All’interno
del vano, in alto, sono visibili tracce di colore e nella navata adiacente
all’ingresso, in una nicchia, è presente un altro affresco.
Un
affresco con una cornice dipinta che raffigura l’arcangelo Raffaele che tiene
in mano Tobia nell’atto di indicargli il quadro della Madonna della Provvidenza
sospeso in alto.
Alla
scena assiste Dio Padre benedicente mentre la presenza di un gabbiano in volo
suggerisce l’episodio avvenuto in prossimità del mare.
L’affresco dell’Arcangelo
Gabriele e Tobia
La
raffigurazione dell’arcangelo Raffaele non è causale perché si collegherebbe ai
due santi anargiri (Cosma e Damiano). Raffaele in ebraico significa “medicina
di Dio” o “Dio guarisce” e come i due santi viene raffigurato con un vaso
contenente dei medicamenti.
L’affresco
dell’arcangelo Raffaele e di Tobia
quando fu dipinto ?
Prima di datare l’affresco è opportuno narrare
l’episodio bilico dell’arcangelo Raffaele e di
Tobia (citato anche come Tobiolo per differenziarlo dal padre che aveva
lo stesso nome).
Tobiolo
è un quindi un personaggio biblico che la chiesa festeggia il 13 settembre
mentre Raffaele è il terzo Angelo ( dopo Michele e Gabriele) attestato dalla Bibbia.
L’Arcangelo
Raffaele è noto da un breve scritto
dell’Antico Testamento, il Libro di Tobia,
che secondo gli esegeti, aveva il compito d’insegnare, sotto forma
divertente, oltre che delle verità morali, l’angelologia ebraica. Per questo
motivo il racconto si presenta come un piccolo romanzo.
Tobia,
appartenente alla tribù di Neftali, è l’unico che abbia rifiuto il culto degli
idoli che erano stato introdotto in Israele dal re Geroboamo. Sfidando le
direttive reali, aveva continuato a professare la religione dei suoi padri
compiendo continui pellegrinaggi a Gerusalemme , “lasciando la decima,
soccorrendo i poveri e temendo Dio”.
Quando
gli Israeliti furono deportati a Ninive anche Tobia fu esiliato. Da esiliato
ebbe “ una bella fortuna e una famiglia felice”.
Alla
morte del sovrano i “suoi affari commerciali con l’estero fino allora
prosperi, declinano quando il nuovo re Sennacherib dichiara le ostilità con la
Media, chiudendo le strade delle carovaniere.
Il
perfido e crudele Ninivita si mette a massacrare gli Ebrei di cui fa gettare i
cadaveri dall’alto degli spalti nella pianura, con l’interdizione a chiunque,
sotto pena di morte, di dare loro una sepoltura. Ma il pio Tobia, sull’esempio
di Antigone, disprezza le leggi degli uomini quando esse vanno contro quelle di
Dio. Sfidando le minacce del tiranno, ogni notte, egli ruba le spoglie alle
carogne e le interra. Tobia finisce per essere denunciato e trova la sua salvezza in una fuga
precipitosa. Tutto quello che gli rimaneva della sua fortuna è allora
confiscato.”
Sennacherib
venne assassinato.
“Alla
preghiera dei suoi parenti, Tobia è autorizzato a rientrare in Ninive. Egli
ritrova la sua casa, sua moglie Anna ed il loro figlio adolescente Tobiolo. E
ricomincia la sua vita esemplare, non rinunciando neanche al bisogno di
scavafossa clandestino. … Tobia è raggiunto da cataratta e perde la vista”.
“Incapace
di lavorare, egli deve sopportare che la sua sposa lavori presso gli altri per
guadagnare il loro pane. Colmo d’ingiustizia, il vicinato lo schermisce: a che
gli è dunque servito di rispettare Dio ed i Suoi Comandamenti? Yahvè ha
apertamente distolto il Suo Volto dal Suo Servitore, poiché, nella società
ebraica dell’Antichità, la riuscita sociale e finanziaria è la nota visibile
dei meriti di un uomo, ricompensa immediata delle sue buone opere. Ben presto, Anna stessa angoscia
suo marito coi suoi rimproveri. Colpito nella sua dignità, Tobia chiama la
morte”.
“Durante
questo tempo, in Media (nella città di Ecbatana, molto distante da Ninive), la
giovane, dolce e bella Sara, figlia unica del ricco Ebreo Raguele (e di Edna),
è in balia degli insulti del vicinato e delle sue proprie serve. Sette volte,
suo padre le ha dato uno sposo; sette volte, il nuovo marito è morto nel
momento in cui entrava nella camera nuziale e si avvicinava al letto coniugale.
Sara ha perduto i cugini coi quali,
secondo la Legge, essa poteva convolare (sposarsi). Ella è condannata al
nubilato ed alla sterilità, infami assoluta per una Ebrea. Disperata, Sara sale
in camera sua, decisa ad impiccarsi. Ella non sa che compirebbe, suicidandosi,
i neri disegni del demone Asmodeo. (Nome preso da uno spirito maligno della
Persia, che significa “io dono la morte – io uccido – io distruggo).
Asmodeo
presiede ai peccati della carne e si accanisce nel dannare la ragazza.
Sara
rinuncia ad uccidersi e si limita ad implorare la morte.
“Davanti
alla disperazione del vecchio Tobia e dell’innocente Sara, Dio si commuove e
spedisce sulla Terra uno dei Sette arcangeli che stanno sempre davanti a Lui,
Raffaele, l’Angelo della castità e dell’amore coniugale, avversario dichiarato
di Asmodeo, quel maestro ipocrita che spinge gli uomini e le donne a degli atti
che lui stesso, da puro spirito che è, giudica ridicoli, osceni e ripugnanti.
Raffaele
prende l’aspetto di un giovane e si presenta a casa di Tobia sotto il nome di
Azaria, figlio di Anania. Egli capita a proposito. Il vecchio Tobia,
ossessionato da pensieri morbidi, ha deciso di mandare suo figlio di Media, a
fine di recuperarvi delle piccole risorse che egli aveva fatto laggiù; grosso
modo di che offrirgli esequie decenti…”
Tobia, Tobiolo e l’Arcangelo
Raffaele
Dipinto di Ricci
Sebastiano (1659 – 1734)
Altra attribuzione:
Francesco Albani
1680/1690
Dipinto:
tela/pittura ad olio – (107,50 x 88,50) cm
Rimini – Museo della
Città
Tiziano
L’Arcangelo
Raffaele e Tobiolo
( 1511 – olio su tela ) (170 x 146)cm
Galleria Accademia di Venezia
“Il
giovane Tobiolo, inesperto, ha bisogno di una guida sicura; il presunto Azaria
si propone per compiere questa missione,
mai guida sarà stata così ben scelta.
Attraversando
un fiume, Raffaele aiuta Tobia a prendere un grosso pesce di cui il fegato, il
cuore ed il fiele hanno straordinarie proprietà terapeutiche.
Egli
lo conduce poi a casa di Raguele, rilevando ai due uomini quello che essi
ignoravano, a causa dell’esilio; essi sono parenti prossimi e Tobiolo è lo
sposo promesso a Sara. Malgrado i timori del padre e del fidanzato, Raffaele
(Azaria) spinge alle nozze e mostra a Tobiolo come, gettando le viscere del
pesce nel fuoco, egli compirà un esorcismo abbastanza potente per cacciare
Asmodeo dalla camera di Sara”.
“Tobiolo
obbedisce; Asmodeo, violentemente turbato dall’odore, se ne fugge fino in
Egitto dove Raffaele lo prende e gli amministra una correzione nel dissuaderlo
ad importunare la giovane coppia. Poi
Raffaele regola gli affari commerciali di Tobia, recuperando molto più del
previsto, somma che viene ad aggiungersi alla grossa dote di Sara ed all’enorme
eredità che aspetta questa figlia unica.
È
dunque con una fortuna interamente ristabilita che il giovane rientra a casa
sua assieme alla moglie ed Azaria. Grazie al fiele del pesce, egli potrà
guarire la cecità di suo padre Tobia.
I
giusti sono stati ricompensati. Ma Azaria, la guida che ha permesso tutti
questi prodigi, come ringraziarlo in proporzione ai servizi resi?
Generosamente,
Tobia e Tobiolo gli offrono la metà dei loro ritrovati beni.
L’Angelo
si decide allora, dopo alcuni consigli di morale, a rilevare loro la verità:
Voglio dirvi tutta
la verità, senza nulla nascondervi;
vi ho già
insegnato che conviene custodire il segreto del Re,
mentre che
conviene rilevare degnamente le opere di Dio.
Voi saprete dunque
che, quando eravate in preghiera, tu e Sara,
ero io che
presentavo le vostre suppliche alla gloria del Signore
e che le leggevo;
e così quando seppellivi i morti.
Quando tu non hai
esitato ad alzarti, ed a lasciare la tavola per
andare a seppellire
un morto.
(In mezzo ad un
pranzo dato per celebrare il ritorno di Tobia dall’esilio,
lo stesso Tobia
apprese che il corpo di un condannato a
morte veniva
dall’essere
gettato nella piana. A rischio della sua vita, egli lasciò i suoi
ospiti per andare
a seppellire quel morto sconosciuto.)
Io sono stato
inviato per provare la tua, fede, e Dio mi inviò nello
stesso tempo per
guarirti, così come a tua nuora, Sara.
Io sono Raffaele,
uno dei Sette Angeli che stanno sempre pronti a
penetrare presso
la Gloria del Signore”.
“Essi
furono presi da spavento tutti e due e si prosternarono, ed ebbero grande
paura.
Ma
egli disse loro:
“Non temete nulla,
la pace sia con voi.
Benedite Dio
sempre.
Per me, quanto io
ero con voi, non è a me che dovete la mia presenza,
ma alla volontà di
Dio.
È Lui che bisogna
benedire per tutta la vita.
Lui che bisogna
cantare.
Voi avete creduto
vedermi mangiare, non era che un’apparenza.
Allora, benedite
il Signore sulla terra e rendete grazie a Dio.
Io risalgo a Colui
che mi ha inviato.
Scrivete tutto
quello che è accaduto”.
“Quando
si risollevarono, egli non era più visibile”.
A
differenza del misterioso personaggio nel libro della Genesi, che rifiuta di
svelare il suo nome a Giacobbe, qui invece manifesta la sua essenza cioè quella
di un angelo inviato da Dio per svolgere la sua funzione di accompagnatore,
curatore e guaritore.
Nell’affresco
infatti appare nel suo aspetto canonico di Arcangelo.
Ma
c’è un altro aspetto che appare dalle parole dell’Arcangelo in riferimento alla sua missione: “Dio
guarisce”…… “cioè “medicina farmaco di Dio”.
Una
medicina spirituale in contrapposizione alla medicina dei Santi Cosma e Damiano
anch’essi venerati nel santuario.
Quando
fu eseguito l’affresco ?
Il
riferimento alla presenza del quadro della Madonna della Provvidenza, che fu
trovato nel 1784 si potrebbe datare
intorno a quel periodo. L’arcangelo Raffaele indica a Tobia il quadro della Madonna
come se avesse agito per sua intercessione…
Oppure
l’affresco fu ritoccato inserendo il quadro della Madonna su una preesistente
figura..
Ma
c’è un altro aspetto…. Il figlio di
Tobia, Tobiolo, è il patrono dei becchini.
La
navata del santuario a partire dal 1876 fu utilizzata come cimitero da parte
degli abitanti di San Cipiriello e questa fu probabilmente una strana
coincidenza.
Tra
l’affresco principale e quello dell’Arcangelo, il crollo di una parte del muro
mise in evidenza, a circa 50 cm dall’attuale piano di calpestio, delle tracce
di colore ocra su intonaco che sembrerebbero richiamare il disegno di una testa
di un angelo.
Probabilmente
il disegno continuava nella parte sottostante cioè ad un piano di calpestio
sottostante a quello attuale. Un livello sottostante, che a partire dal 1876,
venne utilizzato come cimitero del Comune di San Cipiriello.
Le
colonne che si trovano nell’eremo dovrebbero provenire dall’antica e vicina
città posta sul monte Jato e che furono reimpiegate come elementi di sostegno.
Alcuni
storici, tra cui il locale prof. Calogero Elio Di Maggio, avanzarono l’ipotesi
che le stesse colonne si trovassero sul sito perchè attinenti ad un antico
edificio di culto preesistente quindi all’eremo. Ma le fonti non
confermerebbero questa ipotesi anche
se
il culto dei santi Cosma e Damiano deriva da un antico culto a Castore e
Polluce. Culto dei Dioscuri che giunse in Sicilia con i naviganti dall’Argolide
attraverso l’isola di Rodi. I due
gemelli furono considerati i protettori
dei naviganti e dei pescatori e i
Santi
Cosma e Damiano sono venerati in Sicilia come santi protettori dei pescatori
(Tonnara San Cusumano a Trapani).
Lo
stesso nome Damiano deriva dal verbo
greco “damazein” ossia soggiogare, domare, e l’antico Castore era un abile domatore.
L’origine
del santuario sarebbe collegabile a due successive migrazioni di religiosi
provenienti dall’Oriente.
La
prima risalente a circa ottant’anni dopo la conquista dell’isola da parte dei
bizantini quando giunsero in Sicilia (nel VII secolo) ortodossi, calcedonesi,
monofisti, melchiti, provenienti dalla Siria e dall’Egitto. Una migrazione dal 611 al 618 quando i Persiani di Cosroe II
s’impadronirono della Siria. Circa cent’anni dopo un'altra migrazione sotto
l’imperatore bizantino Leone III Isaurico che inaugurò una persecuzione che fu
portata avanti dal figlio Costantino V contro gli iconoduli (la politica
iconoclasta). In questa occasione furono i monaci basiliani che in Sicilia e
nell’Italia meridionale crearono dei veri e propri cenobi di preghiera. Costretti
a nascondersi nelle grotte o in luoghi inaccessibili dove diedero vita a delle
grandi espressioni religiose, culturali ed architettoniche.
Il
sito possiede tutte quelle caratteristiche pedologiche che potrebbero farlo
rientrare tra gli eremitaggi.
Una
tradizione popolare narra della presenza fisica dei Santi Cosma e Damiano
presso Monte Jato. Sul sito doveva essere presente qualche eremita al tempo
dell’arrivo di Ruggero il Normanno che conquistò Jato nel 1079 anche se nelle
cronache del tempo, descritte da Goffredo Malaterra, non si fa alcuna citazione
di eremiti e tanto meno di eremi preseti nella zona.
Qualche
ritrovamento, anche se sporadico, di monete con l’effige di Leone III,
Costantino V e di Leone IV, rinvenute nell’antica città di Jato potrebbero fare
propendere la tesi sulla presenza bizantina nel sito.
Un
culto davvero singolare perché come riporta la storica, Giovanna Parrino, il culto dei due santi è generalmente legato a
zone vicino al mare e non poste in montagna.
Dopo
la conquista di Giato da parte di Ruggero il Normanno la città fu donata nel
1093 alla Diocesi di Mazzara per passare successivamente, sotto Guglielmo I “Il
Malo”, ai monaci cistercensi di San Nicolò di Gurgurro.
(San
Nicolò “Lo Gurgo” o “Al Borgo” di
Palermo sarebbe una chiesa posta nel quartiere dell’Amalfitania” che era il
cuore della comunità amalfitana adiacente alla Chiesa di Sant’Andrea degli
Amalfitani o “Aromatari”, santo protettore della città di Amalfi. La chiesa fu
affiliata alla casa madre di Fossanova, linea cistercense di Clairvaux.
L’ordine cistercense fu attestato fino al XV secolo. L’edificio fu ingrandito
nel 1306 a servizio del borgo o “gurgo” degli Amalfitani e ristrutturato dopo
il 1628 dalla Maestranza dei Calzettai).
Palermo - San Nicolò Lo Gurgo
Il
15 agosto 1176 il castello e la terra di Jato furono donati da Guglielmo II “Il
Buono” alla chiesa di Monreale (Santa Maria
Nova - Cattedrale).
Il
castello di Jato insieme a quelli di Corleone e di Calatrasi, con tutti i loro
possedimenti, costituirono quella che fu definita la “Spina dorsale della
dotazione del Monastero”.
La
città di Jato cessò di esistere nel 1246 quando fu distrutta da Federico II di
Svevia per essere stata un importante presidio dei musulmani rivoltosi che
avevano anche in Entella i loro forti baluardi militari. I saraceni furono
quindi deportati a Lucera in Puglia e la città fu abbandonata.
Il
santuario fu menzionato in un atto del 1341 in relazione all’annuale tributo di
“
“Unze
tre de cera in una candela” a favore della Chiesa di S, Maria Nuova di Monreale.
Dal
1443 al 1493 fu custode del santuario il beato Filippo Bosco la cui tomba fu
ritrovata agli inizi del secolo scorso nella cattedrale di Monreale.
Era esistente un “Priorato dei SS. Cosma e
Damiano” che nel 1532, in seguito alla rinuncia del monrealese frate Ambrogio
Rincione della dignità di priore benedettino del santuario, fu incorporato,
dietro espressa volontà dell’arcivescovo , alla cappella del SS Sacramento
della Cattedrale di Monreale. Fu assegnata alla cappella del SS Sacramento
anche la vigna adiacente allo stesso santuario,
Il
cardinale Ludovico II Torres istituì nel 1599 la dignità di arciprete,
conferendola al più anziano di sei canonici parroci il cui compito era l’assistenza
spirituale dei fedeli. Sia l’arciprete, e probabilmente anche gli altri cinque
parroci si fregiavano del titolo di “Priori del Santuario dei Santi Cosma e
Damiano”.
Solo nel XVI secolo con Tommaso Fazello si
avrà una citazione sul santuario:
“… nel Monte verso
mezzogiorno è una piccola chiesa cavata nella rupe
dedicata a san
Cosmano, la quale con gran
divozione è
visitata ogni anno dagli abitatori vicini, ed anche dai Palermitani,
i quali vengono
discosto quindici miglia per visitarla”.
Frequentatori del
santuario era probabilmente anche gli abitanti della comunità di rito orientale
di Piana degli Albanesi fondata nel XV secolo.
Anche Gian Luigi Lello,
nel Sommario dei privilegi dell’Arcivescovato di Monreale del 1596”, includeva
il santuario nell’elenco delle chiese che pagavano l’otto settembre di ogni
anno, giorno della Natività della Madonna, il censo al duomo di Monreale… “La
Chiesa di San Cosmano una torcia di once sei”.
A
partire dal settecento l’omonimo Monte Jato fu affiancato, nella sua
denominazione, da Monte San Cosmano o San Cosimo, a dimostrazione
dell’importanza che il santuario assunse come meta di pellegrinaggio .
Ne
è un esempio la carta topografica del barone Samuel von Schmettau datata 1720 o
l’atto d’acquisto, delle terre confiscate ai Gesutiti, del 1778 del principe
Giuseppe Beccadelli di Bologna dove si parla della “Cresta di san Cosimo”.
Anche
alcuni storici dell’ottocento, da Giovanni Evangelista di Blasi a Nicolò
Palmeri, nel raccontare le vicende del Monte Jato lo citarono spesso con il
toponimo di Monte San Cosmano.
Belli
citò come nel 1834 i lavori di costruzione della chiesetta “con annesso
casamento” furono iniziati dal sig. paolo Terranova, sindaco del Comune di San
Giuseppe Iato ( 1846 – 1852) e successivamente completati da altri benefattori.
A
partire dal 1876 fino al 1897 il santuario venne utilizzato dal comune di San
Cipiriello come cimitero. Numerose sono le lapidi di questo periodo rinvenute
nella cripta al di sotto dell’attuale piano di calpestio.
L’ingresso alla
cripta coperto, un tempo, da tavole.
Lastre tombali
Dal
Dizionario Topografico dell’Amico s’apprende che la festa dei due Santi aveva
luogo nei giorni di Pentecoste ovvero il secondo lunedì dopo questa festività.
Belli
e Scarpaci lasciarono una bella descrizione folcloristica della festività.
Il
percorso devozionale dei pellegrini ebbe fine negli anni ’60 momento in cui la struttura si
trovava in pessime condizioni strutturali che si aggravarono con il terremoto della Valle del Belice del 15
gennaio1968.
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Tommaso
Fazello “Storia di Sicilia” 1558
“…. Nel monte
verso mezzogiorno è una piccola chiesa cavata nella
rupe dedicata a
San Cosmano, la quale con gran divozione è visitata
ogni anno dagli
abitatori vicini ed anche dai Palermitano i quali vengono
discosto quindici
miglia per visitarla”.
Gian
Luigi Lello “Sommario dei privilegi dell’Arcivescovado di Monreale” 1596
La Chiesa di San
Cosmano una torcia di once sei.
… Dirò per hopra,
che non v’è in quel monte altra fabbrica,
che una piccola
chiesa col titolo di San Cosmano, cioè, come s’è detto,
dedicata sotto
nome di San Cosmano e Damiano, dove concorre ogni anno
gran frequenza de
popoli nelle feste della Pentecoste”
Giovanni
Di Blasi, “Storia del Regno di Sicilia dell’epoca oscura e favolosa sino al
1774”
“….Dopo la presa
di Taormina, narra il Malaterra quella di Jato e Cinisi.
Erano questi due
castelli nella Valle di Mazzara. Il primo fabbricato
sulla cima di un
monte alpestre che oggi è chiamato Monte di San Cosmano,
per una chiesetta
che vi sta sulla pendice dedicata 2 SS Cosma e Damiano”.
Nicolò
Palmeri, “Somma della Storia di Sicilia”, 1850;
“ Era Jato posto
sulla vetta di un arduo monte sull’altipiano detto
San Cosmano di là
da Monreale”.
Vito
D’Amico, “Dizionario Topografico della Sicilia, 1855;
“Jato. Monte e
piccola terra oggi ruinata [..]
Appellasi oggi
volgarmente S. Cosmo dalla chiesa nel vertice del monte
dedicata ai SS.
Martiri Cosmo e Damiano […]
raccolgonsi
nondimeno nei giorni della Pentecoste le circonvicine
genti, e con somma
frequenza visitano la chiesa e venerano
i SS. Martiri, si
appartiene quella ai parrochi
della chiesa di
Monreale, ai quali si competono i diritti dei territorio
ed i censi”.
-------------------
Francesco
Belli “Ricordi storici e statistici dei Comuni di san Giuseppe Jato e San
Cipirello”, 1934
“ L’altro
santuario dedicato a San Cosma e Damiano è antichissimo.
Sorge a circa tre
km dal paese a mezza costa sul versante meridionale del monte.
È tradizione che
quivi si rifugiassero i Santi Martiri nella loro vita peregrina.
Vi si accede per
un agevole viottolo.
Vi ha una
chiesetta in parte incavata nel monte, e annesso casamento.
Queste costruzioni
furono iniziate dal signor Terranova Paolo, sindaco dell’epoca, e poi
completate da altri benefattori. Recentemente le riparazioni occorrenti
Sono state
provvedute dal signor Abate Giuseppe e particolarmente
dal signor Riela
Andrea fu Vincenzo. Sul davanti del santuario si allarga una
vasta terrazza,
sorretta da un alto bastione dal quale si gode un incantevole
panorama. La
chiesetta era un tempo adibita come cimitero. Il secondo lunedì
dopo la Pentecoste
vi si celebra un pellegrinaggio.
Festa di San
Cosmo: ricorre sempre il primo lunedì di Pentecoste; si celebra
nel santuario del
Monte Jato. Nelle prime ore del mattino vi
accorrono
i numerosi fedeli
anche dei paesi circonvicini. Sulla spianata dinanzi alla
chiesetta si
raccolgono oltre i fedeli numerosi venditori ambulanti con
baracche pieni di
dolciumi, ceci e semi di zucche abbrustoliti,
giocattoli e
ninnoli diversi, carne, pane, vino, frutta e altro.
I presenti dopo
aver fatto le loro offerte ai santi e assistito alle funzioni religiose
si sparpagliano
per la spianata e su per le pendici del monte, seduti
a gruppi sul nudo
suolo, e dopo avere dato all’assalto al mangime portato da
casa o acquistato
sul posto, annaffiato di generosi vini o con acqua fresca dal fonte,
si abbandonano in
animate coppie a deliziose danze al suono di tamburelli,
armoniche,
violini, chitarre e mandolini.
Frattanto il sole
comincia a levarsi a ridosso del monte e l’aria a
Riscaldarsi e la
gente mogia piglia per diverse vie il ritorno.
A mezzo giorno
tutto è finito e nell’incantevole sito ritorna il silenzio.
Per la verità
della cronistica debbo dire che oggi il santuario è quasi abbandonato;
non esiste più il
fervore e l’affluenza dei tempi andati; financo i parroci di
Monreale non
vengono più a celebrare le funzioni religiose; quel po' di verde
che esisteva
attorno al santuario è scomparso per via degli animali al pascolo;
il baluardo è un
po' diruto. Oggi gli abitanti dei due comuni in quel giorno,
preferiscono recarsi
in comitiva nei propri poderi per una allegra
scampagnata con
una scorpacciata di carne ovina. Mutati i tempi, mutati i costumi”.
Giuseppe
Scarpace, “Da Jato antica a San Cipirello” 1958
“ Vogliamo qui far
cenno di un’altra chiesetta quella dedicata
ai
SS. Martiri Cosmo
e Damiano, sebbene essa non sia soggetta alla
giurisdizione di San Cipirello. Sorge sul costone sud-est
del
Monte Jato (quota
461) in località Picciana a circa tre km dall’abitato
di San Cipirello e
presenta un’incantevole posizione. È un piccolo,
vetusto santuario “sotto la cura dei parroci della
Metropolitana
Chiesa di
Monreale. È scavato per metà nella roccia e vi scaturisce
sia pure in maniera quasi trascurabile,, fresca acqua
che, raccolta
in piccola fonte,
è refrigerio ai pellegrini o viandanti e più sovente
ai pastori che
nelle vicinanze fanno pascolare i greggi.
Adiacente alla
chiesetta è un fabbricato anch’esso vetusto in pessimo stato
di manutenzione,
composto da pochi vani, sede degli eremiti che un tempo
vi soggiornavano.
Nel giorno dedicato ai SS Cosmo e Damiano che ricade nel
secondo lunedì dopo la Pentecoste è usanza praticata dai
fedeli dei
paesi circonvicini
di recarvisi in pellegrinaggio per scopi votivi o
penitenziali e
ascoltarvi la santa Messa, o semplicemente per trascorrere
una giornata
d’allegria e fare la scampagnata, in comitive, con rituali
fisarmoniche,
canti, balli, “schiticchi” e sbornie essendo inevitabile l’effetto
dei generosi vini
di queste contrade. Il Complesso del casale, che, visto dalla valle,
sembra quasi
appollaiato su quella altura, essendo l’unico in tutta la zona montagnosa
di Jato, serve spesso quale rifugio
alpino per chi, trovandosi a vagare sul
monte, viene colto
dalla bufera o dalla canicola. Chi scrive ne sa qualcosa per
averne fatto
esperienza.
Si trovò in una
giornata di agosto di qualche anno fa a compiere, con alcuni
amici amatori una
delle solite gite escursionistiche sul monte Jato per
visitare i ruderi
dell’antica città che si sorgeva. La mattina non
sembrava davvero
però di agosto. Di balza in balza la comitiva aveva
appena raggiunta
la cresta che sta a cavaliere dei due comuni di
San Giuseppe Jato
e San Cipirello. Le nubi sospinte dai forti venti, si
addensavano nel
cielo diventato cupo ad un tratto e una sottile pioggia non
tardava a cadere,
mentre scintillanti saette fendevano a zig-zag l’aria subito
seguite dal sordo,
sempre crescente tuonare che riempiva l’animo di paura.
La comitiva doveva
purtroppo rinunziare allo scopo della gita e cercare
Riparo dirigendosi
verso il santuario. Il tratto da percorrere era lungo;
la pioggia cadeva
sempre più fitta, più insistente l’umidità già penetrava
le ossa tanto
inzuppati d’acqua erano i vestiti degli escursionisti.
Anche lo scopo
secondario della gita era frustato: quello di una buona
caccia di pernici
da passare allo spiedo all’ora della colazione.
Una di esse fu
vista volare da un cumulo di rovine; fu inseguita e si
sperdette fra i
cespugli, né fu possibile stanarla.
Al rifugio si
pervenne dopo un’ora di marcia faticosa sotto la pioggia.
Ivi la comitiva
aveva preso appuntamento con il custode
Don Nenè Riela, un
vecchio arzillo di San Giuseppe Jato, che,
malgrado la sua
età avanzata e i suoi acciacchi fisici, non mancò di presentarsi
all’ora convenuta.
Fu meraviglia e fu conforto insieme.
Provvide subito ad
attizzare un fuoco ristoratore dopo avere avuto il
primo pensiero ai
SS. Martiri accendendo i ceri dell’altare. Passò più
tardi la
improvvisa bufera e la comitiva, rifocillatasi alla meglio, prese
la via del ritorno
con un po' di cocci di terracotta (avanzi saraceni)
nel sacco a
ricordo della infruttuosa gita, e con in gola il mancato gusto
della pernice allo
spiedo.
Chiediamo venia
alla disgressione e rientriamo nel tema. La chiesetta è vetusta.
Certo parecchi e
svariati secoli roteano intorno ad essa. Ma non siamo
in grado di
stabilire l’epoca in cui sorse non avendo potuto rintracciare
elementi
probatori. In altra parte del presente lavoro abbiamo accennato
ad un capitello
corinzio proveniente dall’antica città di Jato collocato
all’interno del
santuario, ma questo è più intimamente legato all’affetto
dei
Sancipirrellesi, ed è per ciò che ne parliamo,. Perché per decenni e fino
al 1897, epoca in
cui entrò in funzione il nuovo cimitero comunale
vi erano
seppelliti i loro morti”.
Calogero
Elio Di Maggio “Jato Antica”, 1975
“…A Sud, sopra uno
spazio molto ristretto, all’orlo di un
dirupo di alcune
centinaia di metri, rinforzato da un contrafforte,
v’è il famoso
santuario di S. Cosma e Damiano, meta un tempo di
numerose folle di
fedeli e pellegrini. Le colonne che dividevano la
chiesetta in due
navate avendo perduto in parte uno strato di malta,
hanno fatto la
gradita sorpresa di scoprire uno stile dorico […].
Facevano parte di
una costruzione preesistente al santuario cristiano
o provengono dalla
città ?... Non è improbabile
il caso di una
sovrapposizione di nuovi ad antichi culti, come per
esempio possiamo
vedere ad Alessandria d’Egitto, dove il culto di San Cosma e
Damiano presenta
analogie con precedenti credenze pagane
riguardanti la
medicina”.
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Chissà
quante volte i monaci pregavano seduti su queste antiche pietre prelevate
dall’antica città di Jato.
Una
preghiera intensa che spaziava sul vasto panorama dando la vera essenza del concetto
di Creato. Il tutto avvolto in un silenzio che accompagnava la riflessione sul
senso della vita.
Questi
monaci insegnavano l’amore verso Dio e verso il prossimo nella pratica della
giustizia, dell’elemosina, dell’amicizia e della fratellanza così come i
santi raffigurati nella Chiesetta.
Monaci
che erano chiamati a rendere visibile la missione angelica di curare e guarire
e di rendersi tramite di salute e di salvezza per gli altri.
È triste vedere il santuario ridotto in questo stato
anche se la Sovrintendenza sembra che abbia eseguito dei lavori per la messa in
sicurezza dell’edificio e per renderlo visitabile.
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3, Il Santuario Maria SS. Della Provvidenza
- (Dammusi)
Il Santuario fu edificato verso la metà del 1800 per
volere di Niccolo Lucido, Gaetano Traina e dei suoi nipoti Sirchia e
Piediscalzi. Sorse sul luogo dove il 21 luglio 1784 fu rinvenuto un quadro in
ardesia sul quale era raffigurata la Madonna della Provvidenza. Sul luogo del
ritrovamento, nell’ex feudo “Dammusi”, venne in origine edificata un edicola
votiva a ricordo del miracoloso evento.
Il
21 luglio 1784 un contadino di Borgetto, Onofrio Zorba, dormiva nell’aia dopo aver sostenuto la dura
fatica di mietitura del grano, assieme ai suoi compaesani e contadini di San
Giuseppe dei Mortilli. (Antico nome di
San Giuseppe Jato perché il centro sorgeva nell’ex feudo Mortilli che fino al
1776 appartenne alla Compagnia dei Gesuiti di Palermo. Il contadino fu
svegliato dalla Madonna che gli indicò il luogo dove era sepolta una sua
immagine. Dopo una dura giornata di lavoro, il contadino credette di aver
sognato e si riaddormentò.
La
Madonna lo svegliò una seconda volta ma il contadino, ancora una volta, si
riaddormentò.
Al
terzo tentativo la Madonna lo scosse in modo energico e anche se l’uomo era in dormiveglia, gli
ricordò di andare a scavare nel luogo che gli aveva indicato e di preoccuparsi
del grano appena tagliato dato che i muli stavano mangiando i “gregni”, cioè i
fasci di spighe che erano accatastati nell’aia.
Questa
volta il contadino si svegliò e resosi conto di quello che stava accadendo si
preoccupò con i compagni di lavoro di legare i muli. Poi raccontò del sogno e
invitò i compagni a scavare nel luogo indicato dalla Madonna.
Riuscì
a convincerli e giunti nel luogo indicato, cominciarono a scavare.
Trovarono
un quadro in ardesia raffigurante la Madonna e appena lo sollevarono cominciò a
sgorgare dell’acqua dal suolo.
Sorse
una diatriba su chi doveva custodire il prezioso quadro. I “Murtiddara” ne
rivendicavano la proprietà dato che era stato trovato nelle terre del principe
di San Giuseppe dei Mortilli mentre Onofrio ed i suoi compagni di lavoro
volevano portarlo a Borgetto.
La
voce sul prezioso ritrovamento si diffuse nel territorio e accorsero subito il
principe Giuseppe Beccadelli di Bologna, il parroco, le autorità civili e
militari e una gran folla di curiosi
Come
per altri ritrovamenti, di cui è ricca la storia religiosa della Sicilia, si
decise di seguire il consiglio di
Onofrio Zorba e cioè di mettere la sacra Immagine su di un carro trainato da
buoi e lasciarlo libero di procedere ..”sarebbe stata la Madonna stessa a scegliere dove andare e fermarsi”,
“Al
Vespro, il carro trainato dai buoi si mise in movimento. I Burgitani tentarono
diverse volte di farlo deviare per andare verso Borgetto ma inutilmente. I buoi
si diressero a San Giuseppe dei Mortilli e qui si fermarono davanti alla
Cappella del SS.mo Cuore di Gesù, presso il palazzo del Principe Giuseppe
Beccadelli di Bologna (e di San Giuseppe dei Mortilli).
Palazzo Beccadelli – Corso Umberto
Il
principe decretò che quello doveva essere il luogo dove doveva essere custodita
la sacra Immagine. Ci fu una grande affluenza di devoti e la Madonna fu eletta
Patrona di San Giuseppe dei Mortilli. Si stabilì che ogni anno il quadro doveva
essere portato in processione sul luogo del ritrovamento e ritornare, al termine delle funzioni
ecclesiastiche, nel luogo di custodia.
Dietro la richiesta dei Borgetani il principe Giuseppe
Beccadelli decretò che a fine mietitura (15 agosto “festa ri menz’austu”)
alla Madonna venisse dedicato un ciclo di festeggiamenti dove non dovevano
mancare: messe solenni, processioni per i corsi principali del paese,
l’accompagnamento di una banda musicale e i fuochi d’artificio.
Qualora una di queste disposizioni non fosse stata
rispettata, il quadro sarebbe stato affidato ai “Borgetani” che per
“l’occasione” edificarono nel loro centro una chiesa dedicata alla Madonna
della Provvidenza… un patto ancora valido.
La Chiesa fu dichiarata Santuario
Mariano il 21 luglio 2006.
Una struttura molto semplice con l’interno ad unica
navata. Un tempo custodiva le tele del XVIII secolo provenienti dalla Chiesa di
Pietralunga dei Gesuiti. Tele di un certo
valore come “Maria Bambina al tempio”,
posta a sinistra dell’altare mentre a destra si trovava un’altra tela che
raffigurava un angelo nell’atto di donare le palme del martirio a due santi
raffigurati con le corazze romane. Erano presenti anche due quadri su pergamena
raffiguranti il Sacro Cuore di Gesù e il Sacro Cuore di Maria, un quadro di San
Francesco nell’atto di ricevere le stimmate (tutti posti nella parete di
destra) mentre sulla sinistra una grande
tela narrava la costruzione della chiesa con i ritratti dei vari benefattori..
tutte tele che sono misteriosamente scomparse.
L’altare centrale è dominato dal quadro in ardesia
della Madonna della Provvidenza e presenta degli ornamenti in argento che vi
sono stati applicati posteriormente al suo ritrovamento.
Ai lati dell’altare due quadri ricordano il ritrovamento del quadro e nelle
navati laterali delle statue moderne di San Giovanni Bosco e Maria
Ausiliatrice.
La copertura è a volta e si estende per tutta la
navata mentre il pavimento è policromo. In sacrestia è presente un “Ecce Homo”
ligneo di autore ed epoca ignota ed una copia su tela del quadro della Madonna
della Provvidenza.
La porta bronzea del Santuario narra in sei riquadri
la storia della sacra Immagine e della frana del 1838 ed è opera dello scultore
Governali.
“Alla fine del 1880, visto il pregio del quadro in ardesia,
di pregiata fattura e delicatissimo, venne commissionato un quadro che
riproducesse quello in ardesia, e da quel momento le processioni del 21 luglio
ebbero come simulacro la nuova pittura ad olio.
Il profano, come sempre, si fa strada e si affianca al
sacro, e spesso lo sovrasta.
I pellegrini giunti il mattino del 21luglio in
processione a Dammusi, avevano offerto alla Vergine gli ex voto per grazia
ricevuta, “i purmisioni”, il “viaggiu a peri”, il “viaggiu a peri
scavusi”,quello “addinucchiuni”,che consisteva nel percorrere in ginocchio
dall’inizio del sagrato all’altare, quello a “lingua a strascinuni”, che
consisteva nel leccare con la lingua il percorso che va dalla soglia della
cappella all’altare. Celebrate le funzioni, tutt’attorno mille fuochi per
arrostire l’agnello, bancarelle con i bruscolini, venditori di palloncini,
chitarre, mandolini, voci soliste e cori, balli e danze e “vinu a tinchitè” e,
ad ogni bicchiere: “Viva a Maronna i Prurenzia!”, di seguito: tric-trac,
carrittigghi e ghiocu di focu. Al vespero, un’ulteriore funzione e la
processione di ritorno per riaccompagnare la Vergine in paese”.
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4, Il Casale
del Principe
Una lettera
di Papa Gregorio Magno risalente al 599
attesta l’esistenza di una masseria
Jatina. Una menzione legata alla risoluzione di una controversia tra il “miles”
Laurenzio e la Chiesa “Panormitana” …”massa Getina”.
Una
struttura legata all’attività agricola in un territorio molto fertile e ricco
d’acqua e con locali ricavati anche nella roccia , tuttora esistenti ed adibiti
a magazzini.
Con la
dominazione araba si ha la costruzione di un locale, dammuso, scavato nella
roccia e con una copertura a volta. Un locale ancora esistente e in base alla
sua planimetria si potrebbero rintracciare i locali destinati alla sala e
all’alcova che erano collegati da un grande arco. La presenza di queste
strutture diede il nome alla contrada.
1093… il
conte Ruggero il Normanno concesse Jato al Vescovo di Mazzara e Guglielmo I “Il
Malo” “vollene soggeti gli uomini (saraceni che vi erano residenti)
ai monaci cistercensi di S. Niccolò di Gurguro” (Gli stessi Monaci che
avevano l’Eremo dei Santi Cosma e Damiano).
Nel 1176 la
città di Jato (costituita dai feudi di Chiusa, Fegotto, Dammusi e Signora) ed
il suo vasto territorio vennero donati da Guglielmo II “Il Buono” alla Diocesi
di Monreale:
“La corrispondenza di Jatina con i
feudi sopraddetti è assicurata dalla descrizione dei confini, in arabo e in
latino, riportata nella Donazione di Guglielmo II all'Arcivescovado di Monreale
del 1182: il fiume che aveva origine dalle sorgenti della Cannavera (Ayn
al-kabira, magnus fons) costituiva il confine orientale mentre il fiume Jato
(flumen quod descendit a Jatina) costituiva il confine meridionale; a nord il
confine partiva dall'attuale contrada Marzuso (al-Marsuss) sino alla trazzera
della Cannavera (via quae ducit ad Panormum) corrispondente ad un braccio dell'antica
Via Mazariae.”
“Quasi
certamente il principale centro di aggregazione dell'intero territorio era
costituito dall'attuale casale di Dammusi il cui toponimo è documentato almeno
dall'anno 1183 'ayn ad-damùs (sorgente di Dammusi) in un riferimento al
casale di cui viene riportato il numero dei villani (servi della gleba) fatto
sotto Guglielmo II… Il toponimo Dammusi è marcatamente di origine araba.
Dammus, in arabo, è la volta - naturale o artificiale - che ricopre le
abitazioni. Il termine ha lasciato le sue reminiscenze anche nel dialetto
siciliano: il dammuso, nell’accezione comune è, ancora oggi, la volta che
ricopre gli ambienti di una abitazione. Il collegamento tra il toponimo e
l’attuale Dammusi è da mettere in relazione con alcuni ambienti degli edifici:
a sinistra dell’ingresso principale del baglio si rileva la presenza di alcuni
ambienti scavati nella roccia viva ricoperti appunto da un dammuso anch’esso in
roccia. In funzione della presenza del dammuso gli arabi denominarono la vicina
sorgente ayn ad-dammus ossia sorgente del dammuso.”
1246 -Jato,
roccaforte dei musulmani ribelli dal 1243, viene distrutta da Federico II.
1258 - “In una concessione del
1258 l’Arcivescovo di Monreale Benvenuto concede a Omodeo
Latineri, Tommaso d’Armenia e ai loro consoci il casale di Jatina. Analizzando
il contenuto della concessione si rileva, innanzitutto, che si tratta di un
tipo di concessione diversa dalle altre dello stesso periodo: non vengono
riportate solamente le condizioni economiche ma viene anche sottolineata una
serie di clausole proprie di un contratto tra un signore (l’Arcivescovo) e una
comunità straniera.”
Per questo motivo è ipotizzabile che
fosse stata una comunità di Armeni (guidata da Tommaso d’Armenia) a
chiedere i locali della masseria Dammusi per sé. Si potrebbe attribuire a questa comunità armena, un primo
ampliamento dell’attuale masseria (verso sud).
1350 -1500- Torre d’avvistamento. Non si può
attribuire a questa torre una data precisa per mancanza di fonti.
1593 - “Nel 1593 il feudo Dammusi con baglio, torre,
magazzini e case apparteneva a Lanzo Galletti…Proprietario risultava un certo
Lanzo Galletti di Piana degli Albanesi la cui famiglia, per altri versi,
sappiamo essere originaria della città di Pisa.”
“Nobile famiglia originaria di Pisa, passata in Palermo
verso il 1500. Godette nobiltà in
Messina e in Palermo;
possedette i principati di Fiumesalato, di Sori già Roccapalumba,
i marchesati di S. Cataldo e di S. Marina, la contea di Gagliano,
le baronie di Castania, di Rincione, di Rosignolo,
della terza parte della Scannatura, dell’ufficio di Portunalotto di Licata,
di Verbumcaudo, ecc.
Un Alessandro fu senatore di Palermo negli anni 1502-3……”
(Dott. A. Mango di Casalgerardo)
1596 – Della situazione patrimoniale
dell’arcivescovato di Monreale, G. L. Lello, dà una minuta descrizione nella
sua Historia della Chiesa di Monreale in cui afferma che la Magna Divisa viene
identificata in feudi.
1702 – Dal testo dell’Abbate Michele Del
Giudice si apprende che la Chiesa possedeva 72 feudi. Dal punto di vista
giurisdizionale la Chiesa di Monreale raggruppava i suoi feudi in 6 camperie.
Le sei camperie avevano sede a Monreale, Piana dei
Greci, Balletto, Alcamo, Calatrasi, Busacchino.
Sotto la camperia di Monreale era, fra gli altri, il
feudo Dammusi .
Nel territorio era presente la famiglia Firmatura. Una
famiglia citata raramente ma che ebbe dal quattrocento al settecento un ascesa
sociale ed economica continua e costante.
Un
ascesa sociale lungo l’asse Madrid, Roma
e Regno di Sicilia conquistata con strategie individuali e parentali,
frequentazioni delle corti, familiaritas con i sovrano, letterati e giuridici
studi, reti di protezione istituzionali, alleanze matrimoniali e anche forti
speculazioni economiche soprattutto legate al commercio dei cereali.
Il
legame con i Bologna di Palermo e con la famiglia Diana di Corleone, titolari
dal 1447 al 1531 della castellania e della secrezia della città di Corleone,
rafforzarono la loro posizione a Corleone e anche con Palermo e la corte regia.
Acquisirono vasti feudi ed è probabile che anche
“Dammusi” rientri nella loro giurisdizione.
Un
revelo del 1615, in merito alla condizioni economica di don Mariano Firmatura
rileva tra i suoi possedimenti anche la gabella di “Dammusi con fattoria”.
Dopo
vari matrimoni il patrimonio cittadino di Corleone, compreso quello della famiglia
Firmaturi, venne ripartito tra Francesca Scarlata e Firmaturi e Giovanna
Scarlata e Spataro.
Le
due sorelle venderanno i beni immobili derivanti dall’hereditas di Gio Battista
Scarlata alla COMPAGNIA DI GESU’.
Nel
1656 Francesca cederà ai gesuiti il feudo di Chiosi conservandone il titolo di
marchesa e Giovanna pochi anni dopo venderà, sempre ai Gesuiti, per 8100
onze anche i feudi di Sparacia, Sparaciotta e le masserie di Mazzullo e
Pinzarruni nell’arcivescovado di Monreale.
Probabilmente
nello stesso periodo anche il feudo “Dammusi” passerà in possesso dei Gesuiti.
La
data non è accertata:
“La Masseria Dammusi, nel feudo omonimo, appartenne alla Casa S. Francesco
Saverio di Palermo, unitamente al feudo Signora. La proprietà della casa del Noviziato
comprendeva complessivamente
834 ettari, ubicati in una zona ricchissima d’acqua
nella vallata formata dallo Jato, delimitata a Nord dai monti Signora (1131
m.), Dammusi (936 m.) , Mirto (1036 m.), a sud dal Monte Jato (852 m.)”.
“Vanta discendere dalla real casa di Scozia, passata in Catalogna, donde,
per
un Blasco, passò in Sicilia sotto re Martino, stabilendosi in Corleone,
dove tenne le cariche di pretore, di capitano ecc.
Un Cosimo fu proconservatore di detta città nel 1655; un Vincenzo tenne la
stessa carica nel 1664
e per la moglie, Francesca Scarlata, fu primo marchese di Chiosi in sua
famiglia….
Dal XVII seco il feudo Dammusi e il relativo
fabbricato, in cui era presente la torre, entrò in possesso della Compagnia di
Gesù che mantenne la proprietà, con altri feudi, per circa un secolo.
Non fu un possesso semplice perché sin dall’inizio
dovettero affrontare delle complicate e lunghe vertenze giudiziarie per il
riconoscimento del titolo giuridico di proprietà.
Nel 1741 Carlo III
(Carlo Sebastiano di Borbone, re di Spagna), su consiglio del suo primo
ministro Bernardo Tanucci, stipulò con la Santa Sede un concordato con il quale
le tradizionali esenzioni fiscali delle proprietà ecclesiastiche venivano
ridotte della metà o completamente abolite.
Un avvenimento che preludeva alla
futura espulsione dei Gesuiti.
Carlos Sebastian de Borbòn y Farnesio
(Madrid, 20 gennaio 1716 – Madrid, 14 dicembre
1788)
Bernardo Tanucci, primo Ministro di Carlo III
(Stia- Arezzo, 20 febbraio 1698; San Giorgio a Cremano – Napoli, 29 aprile
1783)
Nel 1767 Ferdinando IV (Ferdinando I di Borbone),
ancora minorenne, diventò re delle due Sicilie e sempre su consiglio del
ministro Tanucci, decise di seguire l’esempio del padre. Ordinò l’espulsione
dal suo regno della Compagnia di Gesù. Il loro beni vennero incamerati dalla
corte e dati in affido ad una Giunta speciale detta degli “Abusi” che
nell’estete del 1768 diede in affitto tra gli altri, il feudo Dammusi e Signora
a Vincenzo Ragusa per 950 onze. Vincenzo Ragusa che era un prestanome del
principe di Camporeale Giuseppe Beccadelli.
Ferdinando I di
Borbone
(Ferdinando
Antonio Pasquale Giovanni Nepomuceno Serafino Gennaro Benedetto
(Napoli, 12
gennaio 1751; Napoli, 4 gennaio 1825)
1776-77 – nell’ottobre del 1776 il ministro
Tanucci fu allontanato dal governo borbonico e il suo incarico di ministro fu
rilevato da Giuseppe
Beccadelli di Bologna Marchese della Sambuca e Principe di Camporeale.
Stemma della famiglia Beccadelli
1 agosto 1778 –
“Il governo napoletano con dispaccio del nuovo
ministro Beccadelli, Marchese della Sambuca , comunicava la soppressione
dell’azienda gesuitica: le chiese e le sedi dei collegi gesuitici
venivano restituite ai vescovi delle rispettive diocesi; i beni e le rendite
erano invece incorporati nel Real Patrimonio che li avrebbe amministrati
come un cespite a parte. Queste furono messe in vendita e lo stesso ministro Beccadelli
acquistò varie possessioni tra cui Dammusi e Signora (interamente
occupata dai moggisti) con i suoi aggregati.”
1779 – “Il principe Giuseppe Beccadelli fonda il paese di
San Giuseppe Jato (dal nome del fondatore) con licentia populandi attorno ad un
nucleo di costruzioni preesistenti (masseria e chiesa gesuitica) e sceglie
invece per sé , un insediamento ad un uso più personale: la lussureggiante
azienda agricola con il suo castelletto , dimora estiva della nobile
famiglia fino a pochi anni or sono , sorse nel feudo Dammusi sul versante
opposto della vallata esposta a sud ed in posizione
panoramica.”
“L’architettura e la distribuzione degli ambienti
sembrano caratterizzati notevolmente dalla presenza dell’ordine religioso:
lunghi corridoi con stanzette. Tale impostazione sembra non avere subito grandi
trasformazioni nella fase successiva quando proprietari del caseggiato nonché
dei territori circostanti diventano i Beccadelli Bologna, Principi di
Camporeale e Marchesi della Sambuca.”
1815
–
Il
consiglio Provinciale della finanza determinò di includere nel territorio
di San Giuseppe gli ex feudi di Dammusi, Signora,e Pietralonga secondo
l’assegnazione fattane dal marchese della Sambuca.
1845
– A
seguito di operazioni di catasto, nel 1845, gli ex feudi di Dammusi e Signora
furono aggregati a Monreale.
19/7/1883
– Dopo
varie dispute iniziate nel 1855 tra la Chiesa di Monreale e i paesi incamerati
nel suo territorio, San Giuseppe con un R.D. (n.1541) ottenne gli ex feudi
Chiusa, Feotto, Traversa e Jato. Dammusi rimase a Monreale.
Nell’antico
feudo Dammusi si trova il “Casale del Principe” ( a circa 1,5 km – 20 minuti
dal Santuario della Madonna della Provvidenza).
La
sua terminologie è legata al Principe di Camporeale, Giuseppe Beccadelli di Bologna, che trasformò l’antica masserie
fortificata in residenza estiva.
La
struttura conserva ancora oggi la torre, posta sopra la cappella, ed è stata
oggetto di vari interventi che si sono susseguiti nel tempo. La parte più
antica è l’ala occidentale costruita sopra la roccia.
In
una sala, le cui pareti sono ricavate nella roccia, i monaci ricavarono delle
piccole nicchie. Nel cortile antistante c’è invece l’ingresso della cappella
che conserva la riproduzione dell’immagine della Madonna della Provvidenza.
La
Torre
La Cappella del Casale
il quadro della Madonna della Provvidenza
(riproduzione)
Il quadro
conservato nella Cappella del Casale del Principe (fedele riproduzione, è
scritto, dell’originale) è costituito da una bruna tela che raffigura la
Vergine con il Bambino: sono entrambi incoronati e addobbati con particolari
dorati. La Madonna tiene nella mano sinistra il globo crucifero mentre Gesù
tiene con la manina destra uno scettro terminante con il triangolo trinitario
contenente l’occhio onniveggente di Dio, mentre nella mano sinistra regge una
grande croce. Sei stelle contornano il capo di Maria ed altre cinque sono
disseminate lungo la Sua figura (undici stelle e non dodici come da
tradizione?).
Stemma
dei Gesuiti sopra il portale d’ingresso della cappella
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5.Monte
della Fiera - Mulino del Principe
Una
leggenda narra di una fiera degli spiriti che ogni sette anni si svolgerebbe
sul pianoro erboso che caratterizza la sommità, molto panoramica, di questo
rilievo che si erge sulla valle dello Jato.
Una
leggenda forse legata alla frequentazione del luogo da parte dell’uomo in epoca
antica e poi abbandonato ?
Probabilmente
il nome potrebbe essere legato a qualche
antica fiera di bestiame che si svolgeva nei
pressi del monte, nelle fertili
campagne della Valle dello Jato o di contrada Marzuso, morbida di argille e
ricca di pascoli.
Un
ipotesi, a dire il vero “affascinante” e legata ad altri toponimi come “Fiera,
“Fieravecchia” che si trovano in altre zone della Sicilia.
Le
rocce del monte sono costituite da brecce dolomitiche del giurassico (circa 190
milioni d’anni fa). Il monte presenta una sola via agevole per la salita
che sarebbe un antica mulattiera che il
tempo ha ormai cancellato. Gli altri versanti sono ripidissimi e irti di rocce
aguzze. Della mulattiera rimangono solo delle evidenti tracce legati a degli
antichi muri a secco e a brevi trincee scavate nella roccia. Sul pianoro ci
sono tracce di frequentazione umana come cumuli di pietre, legate allo
spietramento del terreno per il miglioramento del suolo agrario, e un vecchio recinto, sempre in
pietra, abbandonato ormai da tempo. Una mulattiera costruita con grande perizia
e soprattutto fatica, dove conduceva ?
Dalla
sommità del monte una bellissima veduta con i monti a sud di Palermo, il Monte
Jato, i paesi di san Giuseppe Jato e di San Cipirello, il lago artificiale Poma
che fu voluto dal sociologo Danilo Dolci
e la costa di Partinico.
La
zona dovrebbe essere studiata anche per scoprire l’antica viabilità che
collegava la valle dello Jato con Palermo.
A poca distanza si trova il Mulino del Principe
che fu fatto costruire sempre dal principe di Camporeale, Giuseppe Beccadelli
nel XVIII secolo. Una struttura imponente con arcate ogivali che sembrano di
epoca medievale. Mulini molto numerosi nella zona e che furono utilizzati sino
al XX secolo alimentati dall’importante e notevole presenza dell’acqua del
fiume Iato.
La sua
struttura è a martello e fu costruito con pietra squadrata (ai lati) e pietra
informe mista a tufo nel resto dell’edificio.
Sono
visibili catene in ferro che hanno lo scopo di trattenere la struttura stessa.
All’intero erano ancora intatte le pulegge in ferro di dimensioni differenti
(due da macina ed una da pulitura). Un mulino che era adibito alla molitura di
cereali.
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6.
Il Casale di Pietralunga – Un ex feudo
dei Gesuiti
Nel
1575 (?) Andrea Firmaturi ebbe in gestione la “gran masseria” di Pietralonga
..”il feudo è chiuso quasi tutto in una sola masseria di 13 ararati, circa 700
salme, nell’arcivescovato di Monreale.
Nel
XVII le sorelle Francesca Scarlata e Firmaturi e Giavanna Scarlata e Spataro
vendettero i feudi di loro proprietà alla Compagnia Di Gesù di Palermo.
La
data esatta dovrebbe essere tra il 1656 ed il 1658.
Nel
1767 i Gesuiti persero il feudo a causa della confisca dei loro beni per
decreto regio (Ferdinando IV di Borbone).
L’importante
“masseria Pietralonga” dovrebbe essere quella posta lungo la Strada Provinciale
(SP 65 bis).
Un’azienda
che ha subito vari ampliamenti ma sono ben visibili delle antiche strutture
risalenti anche agli ampliamenti eseguiti dai Gesuiti. E’ presente anche la vecchia
chiesa ancora in discrete condizioni mentre altre strutture sono in cattive
condizioni.
In
questa chiesa si trovavano dei quadri che furono trasferiti in alcune chiese di
San Giovanni Jato. Dei quadri che furono portati nel Santuario di Dammusi della
Madonna della Provvidenza sembra che si sia perduta ogni traccia.
Nella
sacrestia della chiesa di san Francesco di Paola si trova una preziosa tela del
‘600, dipinta ad olio, raffigurante l’Addolorata e che proviene proprio dalla
Chiesa di Pietralonga dei Gesuiti. Chiesa che era dedicata a chi ?
7. “
U Campanaru” di Monte
Arcivocalotto
Un Preistorico Calendario Solare ?
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