LA SICILIA DEI SICANI...Terza Parte....il Castello di Battalari o Patellaro ...Un castello dimenticato.



Il complesso fortificato di Battalari (Battellaro), nel territorio del  Comune di Bisacquino, sorge su un colle alto 561 m s.l.m. ed è raggiungibile dalla “Regia Trazzera Patellaro” (oggi SP 44 bis) che collega Bisacquino con Contessa Entellina.
Il castello-villaggio è chiamato dagli arbereshe di Contessa con il termine di “Patiliari di sipre” (Patellaro di Sopra)






INDICE
1.      Storia:  Citazioni – Il “De Resignandis Privilegis” di Ruggero II – Al Idrisi – La Costruzione dell’Abbazia di Santa Maria Nuova (Cattedrale) di Monreale ed Istituzione della Diocesi –  La costruzione dell’Abbazia grazie ad un sogno del Re Guglielmo II – L’Abbazia venne popolata dai monaci Benedettini del Monastero della “SS. Trinità” di Cava dei Tirreni – Il feudo di Battalari donato alla Diocesi di Monreale – Il feudo usurpato dai fratelli Camerana – Federico III d’Aragona ordina la restituzione del feudo alla Diocesi di Monreale – Il castello ristrutturato dalla famiglia Calandrini  - Nel 1812  il castello passa al Demanio dello Stato -  Acquisto del feudo da parte del barone Orazio Fatta della Fratta (I fratelli Orazio e Corrado)
2.      Struttura – Il Castello è in abbandono – Forse i resti di una cappella
3.      Video sul Castello
4.      Vicino al Castello passa la linea Ferroviaria (dismessa) Palermo – Corleone – San Carlo;
5.      Percorso : Abbazia Santa Maria del Bosco – Castello di Battalari (Patellaro)
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1.      Storia
Le notizie sul castello sono scarse e la prima citazione  è da attribuire ad Idrisi (1154) che definì “Battalari, castello (hisn) primitivo, (unisce) all’antichità della costruzione, bellezza e validità alla difesa”.
Uomo di doti eccezionali, Ruggero II, nel 1144, con la legge "De resignandis Privilegiis", volle che lo Stato fosse scrupolosamente edotto del suo patrimonio feudale alienato , e si ebbe così il famoso catasto (defeudatarii), uno dei monumenti amministrativi più insigni del Regno di Ruggero, oggi in gran parte perduto.
Il “De Resignandis Privilegis” si potrebbe definire come il primo catasto del Regno di Sicilia.
I Normanni avevano il progetto di evitare la concentrazione di feudi, molti dei quali importanti anche dal punto di vista militare, nelle casate nobiliari e sui quali gli stessi nobili esercitavano un potere esclusivo sugli uomini a prescindere dall’autorità della Corona.
Un provvedimento che fu ripreso ed ampliato da Federico II di Svevia e che era fortemente contrastato dai baroni.
Baroni che schermivano quel fanciullo che pretendeva d’imporre una regola a chi rivendicava con i fatti “di essere padrone di se stesso”.
Per Federico II erano proprio i feudali gli obiettivi precipui da colpire, in quanto usurpatori di una cospicua parte dei territori regi.
Un intervento per mettere ordine nei titoli feudali, per porre quindi fine ai soprusi che si erano compiuti nel tempo in merito alla gestione del potere feudale in termini di: abuso di potere e sottrazione di entrare erariali dai parte dei Signori Feudali nell’ambito delle loro prerogative regie e fiscali.
Il provvedimento “De Resignandis Privilegis”, di Ruggero II  fu quindi la base dei provvedimenti futuri di Enrico VI nel 1194 e di Federico II nel 122.
La norma di Ruggero II prevedeva anche disposizioni punitive nei confronti di questi feudatari che avevano agito al di fuori della legalità.
La norma per essere più valida doveva naturalmente essere accompagna da una mappa dei feudi, castelli e Ruggero II nel 1138 chiamò il famoso studioso arabo di scienze naturali ed illustre geografo, Al Idrisi, al quale affidò il compito di descrivergli esattamente le condizioni del Regno e di tutte le terre allora conosciute.



Abū ‘Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn Idrīs al-Ṣabti
أبو عبد الله محمد بن محمد ابن عبد الله بن إدريس الصقلي‎; in latino Dreses;
(Ceuta, 1099; Sicilia, 1165)



Il sovrano gli fece tracciare una carta geografica del mondo intero, incisa su un'enorme lastra di argento del peso di 150 kg e di illustrarla in un libro che fu intitolato "Nurhat al-mushtaq iktiraq al-afag" (Lo svago per chi brama di percorrere le regioni). L'opera fu portata a termine l'anno 1154, ossia quell'anno stesso in cui Ruggero II morì. Al Idrisi o solamente chiamato Idrisi o Edrisi, descrivendo la Sicilia, citò i castelli, i casali, i luoghi di Sicilia collegandoli ai loro aspetti storici, agricoli o economici. Tra i castelli citò il fortilizio di Battalari presso Bisacquino.
Del castello di Battalari diede la seguente descrizione: "da Corleone a Battalari verso Sud vi sono quattro miglia franche. Battalari castello di antica costruzione, bello e inaccessibile, ha intorno una corona di monti e vi abbondano le acque. Il castello di Calatamauro dista da Battalari sei miglia in direzione Est".




Sotto il regno di Guglielmo il Buono (1153-1189), nipote di Ruggero II, nell'anno 1183 il territorio di Bisacquino venne assegnato alla Chiesa di Monreale,.
Il diploma guglielmino, tratto dai Libri del Monastero di Monreale, fu trascritto dal notaro Alessandro nella città di Palermo, con atto stipulato nel 1183, con le seguenti firme: Rev.mo Gualtieri, Arcivescovo di Palermo; Di Matteo, regio cancelliere; Rev.mo Riccardo, Arcivescovo di Messina, familiari del Regno.
Nell 'Archivio di Monreale risulta inoltre che nel 1183 Bartolomeo, Vescovo di Girgenti, donò alla chiesa di Monreale “tutte le sue regioni (terre), che aveva ancora egli nel Castello di Battallaro,
e i suoi casali (...)”.
Il nome del feudo sembra legato al feudatario Goffridus Battalarius o Goffredo de Battallerio.
Alla sua morte le terre tornarono al Regio Demanio.
Probabilmente era presente un presidio militare, forse di origine araba o bizantina, in base ai riferimenti lasciati da Idrisi che citò il castello come “primitivo” e quindi esistente nel territorio e forse non in perfette condizioni strutturali.

Conquistata la Sicilia, i Normanni avviarono un processo di latinizzazione dell’isola creando numerose abbazie, monasteri e ripristinando anche quelli di culto greco preesistenti.
Guglielmo II, nell’attuazione del suo disegno politico e religioso, fece costruire un monastero con annessa chiesa dove più forte era la presenza musulmana. Una costruzione nell’entroterra palermitano, nella località detta “Super Sanctam Kyriacam”.
I lavori iniziarono nel 1172  e furono ultimati nel 1176 con la creazione di un gioiello d’arte.
La nascita della Cattedrale e della Diocesi Monreale sarebbe legata ad un sogno del re Guglielmo II (detto “Il Buono).


Figlio di re Guglielmo I (detto “Il Malo”) e di Margherita di Navarra
nacque a Palermo nel dicembre 1153  e mori, sempre a Palermo, il 18 novembre 1189.
Fu re di Sicilia dal 1166 sino alla sua morte.
Fu ricordato da Dante nella sua Divina Commedia, nel Paradiso, Canto XX).

«E quel che vedi ne l'arco declivo,
Guglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s'innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.»



Re Guglielmo II era molto devoto alla Vergine e durante una battuta di caccia, nei pressi di Monreale, s’addormentò sotto la chioma di un grande albero di carrubo. Un albero che da sempre, forse a causa delle sue infiorescenze, determina una stato di sonnolenza a chi si riposa sotto le sue larghe fronde. Nel sogno gli apparve la Vergine che gli indicò un tesoro con il quale avrebbe dovuto costruire una grande Chiesa, intorno alla quale sarebbe sorta l’attuale Monreale..
Nel luogo dove stai dormendo è nascosto il più grande tesoro del mondo: dissotterralo e costruisci un tempio in mio onore”.
Fiducioso nella rivelazione del sogno, ordinò di scavare vicino l’albero e con grande stupore venne scoperto un tesoro di monete d’oro. Tesoro che fu subito utilizzato per la costruzione del Duomo, cui furono chiamati  per i mosaici dei maestri greco-bizantini (“i mastri di l’oru”) provenienti dall’interno dell’isola.
La leggenda servì a mettere in risalto il grande sforzo economico per la costruzione del Duomo. Somme di denaro che erano state accumulate da Guglielmo I (Il Malo), padre di Guglielmo II, un re avarissimo e depredatore delle ricchezze del suo Regno.
La bellezza del Duomo di Monreale fu anche descritta da Giorgio Vasari nella “Vita di Lapo Architetto Fiorentino”.
Guglielmo II fu  promotore e patrocinatore dell’edificazione di tutto il complesso benedettino di Monreale e al tempo stesso, come sovrano, appoggiò e sostenne, quindi anche economicamente, il vescovo Gualtiero Offamilio nella costruzione di un altro gioiello del Regno di Sicilia, la Cattedrale di Palermo. Due grandi cantieri che si devono intendere anche come grandi sfide di grandezza e di autocelebrazione, ognuna condotta con l’obiettivo di superare l’altra nella magnificenza artistica.
Il sovrano si dedicò alla costruzione del Duomo di Monreale avendo cura dell’aspetto interno arricchito da splendidi mosaici morati.. “ il suo intento era quello di accostare l’edificio all’animo dell’essere umano, come aspetto fondamentale dell’essere piuttosto che l’aspetto esteriore”.
L’arcivescovo Offamilio invece curò maggiormente l’aspetto esterno della Cattedrale di Palermo poichè “per lui la bellezza esteriore era quella che colpiva di più l’attenzione delle persone”.
In base a queste considerazioni, il sovrano “favorì la diffusione del messaggio evangelico tra i ceti meno abbienti attraverso i cicli figurati tratti dalle Sacre Scritture” mentre il vescovo Offamilio “esaltò la potenza delle spirito mediante le ardite strutture architettoniche”.
“A termine dei lavori entrambi visitarono la cattedrale edificata dal concorrente, constatando quello che mancava alla propria che l’altro aveva posto in essere”.


Un avvenimento della vita di Re Guglielmo II che è narrato nel libro di Francesco Testa, Arcivescovo di Monreale dal 1754 al 1773, (“De vita et rebus gestis Guillelmi II Siciliae Regis”, stampato a Monreale nel 1769.



Il Duomo di Monreale






Guglielmo II dedica la Cattedrale alla Vergine

Cristo Incorona Guglielmo II

Mosaico – Duomo di Monreale – XII Secolo

Il papa Alessandro III nel 1174 con due bolle “Attendentes quomodo” e “Ex debito suscepti regiminis”, accordò alla nuova abbazia molti privilegi e la legò alla diretta dipendenza della Sede Apostolica.
Ad ultimazione dei lavori, nell’anno 1176, Guglielmo II chiese ed ottenne dall’abate Benincasa di Cava dei Tirreni un folto numero di monaci benedettini che giunti a Monreale presero possesso della abbazia. Fu eletto come primo abate Teobaldo che, oltre a portare le insegne vescovili, godeva in un gran numero di privilegi.

Frate Benincasa fu nominato abate dell’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Terreni
il 30 gennaio 1171. Restò in carica per 23 anni fino alla sua morte.
Il suo priorato coincise con la reggenza di Guglielmo II a cui fu molto legato.
Si narra che nel 1172 Guglielmo II si ammalò a Salernodove la “Schola Salernitana” di medicina
era già famosa e fu assistito, con grande carità, proprio da frate Benincasa.
Il sovrano guarì dalla grave malattia e fu riconoscente ai frati cavensi e offrendo loro
il monastero di Monreale che era stato appena ultimato.
Il Benincasa fu lieto di mandare un folto gruppo di monaci che, come già citato, era
guidato da frate Teobaldo. L’Abbazia di Monreale pur popolata da frati cavensi,
per volontà di papa Lucio III, non fece mai parte dell’”ordo cavensis”.
Nel 1183 il sovrano richiamò lo stratigoto di Salerno che molestava
l’Abbazia di Cava per il possesso del porto di Vietri.
Durante il priorato di Benincasa ( morì il 10 gennaio 1194) l’antipapa Innocenzo III fu
rinchiuso nell’Abbazia per fare penitenza.
Il suo motto era: “prudens et pastor opimus”


Il fondatore dell’Abbazia della SS Trinità “dè La Cava” fu Sant’Alferio Pappacarbone.
Un nobile salernitano di origine longobarda che aveva studiato a Cluny.
Nel 1101 si ritirò come eremita in una grotta “Arsicia” alle falde del monte Finestra.
Non rimase solo perché fu subito circondato da numerosi discepoli per la sua
santità. La Comunità costruì una piccola chiesa sul piano scosceso tra
la grotta ed il fiume Selano e, utilizzando delle vecchie e vicine fabbriche, anche un
piccolo monastero (posto ad ovest della chiesa).
Prima di Alferio la grotta era stata frequentata nel 988 da un monaco di Montecassino,
Liuzio (Leone da Ostia) che, di ritorno da un pellegrinaggio in Palestina, 
vi si  fermò per diverso tempo.
Nel 1025 la comunità di Alferio aveva da poco terminato la chiesa e il principe
Guaimario III di Salerno con il figlio Guaimario IV emisero un diploma con il quale
donavano alla nuova chiesa la zona boschiva e le terre coltivate intorno alla grotta,
tra il fiume Selano e i suoi due affluenti “Sassovivo e Giungolo”.
Con lo stesso diploma furono concessi ai monaci altri privilegi tra cui
l’esenzione  dalle imposte e la libera disegnazione degli abati da parte del predecessore
o per elezione diretta da parte della stessa comunità
Nell’Abbazia sono visibili  nei sotterranei delle fabbriche romaniche risalenti al I secolo d.C.









Nel 1176 Guglielmo II con la “Bolla d’Oro” concedeva all’abate Teobaldo dell’Abbazia di Monreale (Santa Maria Nova) i castelli e feudi di Giato, Corleone, Calatrasi, il casale di Bulchar(dove oggi sorge Monreale) e altri possedimenti a Palermo, Messina ed anche a Catania. Altri possedimenti in Calabria, Puglia e Basilicata. In tutti questi territori l’Abate esercitava anche la signoria feudale con piena giurisdizione civile e penale.
Il 5 febbraio 1182 papa Lucio III, con la bolla “Licet Dominus” conferiva  all’Abate del monastero (Santa Maria Nova di Monreale) la dignità di Arcivescovo Metropolita, dando come sede suffraganea Catania; qualche anno dopo, nel 1188, Clemente III aggiungeva anche Siracusa. Il primo abate ad essere insignito del titolo di Arcivescovo Metropolita (di santa Maria Nuova di fu fra’ Guglielmo, successore di Teobaldo, che ebbe “l’uso e la dignità del palio, la giurisdizione sulla Chiesa di Catania riconfermandone al tempo stesso la Diocesi con tutti i suoi possedimenti”.
Nel 1183 venne concesso all’Arcivescovado anche il casale di Bisacquino.
Alcune fonti citano la concessione del castello di Battalario nel 1183 altre invece nel 1178 in un diploma nel  “giorno dell’Assunzione di Maria, al Monastero di S. Maria Nuova di Monreale (odierna Cattedrale)  con tutte le terre appartenenti a Goffredo di Battalario”.
Alcune fonti citano la concessione del castello di Battalario nel 1183 altre invece nel 1178 in un diploma nel  “giorno dell’Assunzione di Maria, al Monastero di S. Maria Nuova di Monreale (odierna Cattedrale)  con tutte le terre appartenenti a Goffredo di Battalario”.
La donazione venne approvata da Lucio III, Clemente III e Innocenzo III. Negli anni successivi risultano “castellum” e casali con abitanti musulmani.
Nel 1234 Gregorio IX avocò a se l’elezione dell’Arcivescovo, sino ad allora riservata ai monaci e secolarizzò “in capite” l’Arcidiocesi. Una serie di nomi prestigiosi, membri di famiglie nobili appartenenti alle varie dominazioni che si succederanno in Sicilia, saranno i titolari di uno dei più grandi vescovati di Sicilia ed anche d’Europa.

Nel XIII secolo il sito era in abbandono e quindi la struttura in piena decadenza.
Si ha notizia di una controversia insorta tra Monreale e i fratelli Camerana sul possesso del castello nel novembre 1305.
Castello e feudo usurparti dalla famiglia Camerana o Camarana ?
Un azione intrapresa da Bonifacio de Camerana (o Camarano) (XIII secolo; Sicilia, XIII secolo), “miles”, giustiziere della Val di Noto, Capitano del Popolo della città di Corleone o dai suoi due fratelli ?

Famiglia Camerana
(Castigliole d’Asti- Torino)
Motto: Serva Fidem
L’Imperatore Federico II di Svevia, nel 1237 circa, diede il permesso al “miles” lombardo
Oddone di Camerana di immigrare in Sicilia con un piccolo gruppo di lombardi per
sottrarsi ai disagi provocati nell’Italia del Nord dalle frequenti guerre.
Lo stesso imperatore gli assegnò all’inizio la “Terra di Scupello”, che
si dimostrò inadatta, e successivamente quella di Corleone in Val di Mazara.
Nel gennaio 1264 la curia di Corleone affidava al “nobilis vir”
Corrado di Camerana, figlio di Ottone (Oddone), l’incarico
“super donandis et distribuendis casalinis pro faciendis domibus
hominibus venientibus habitare Corilionem»

Bonifacio di Camerana era figlio del miles Oddone. Venne citato per la prima volta nel 1249 quando il 20 novembre gli venne concessa la “terra” di Militello in Val di Noto, in cambio dei feudi in Val di Mazara e che erano stati recuperati da Federico II per esigenze militari legati alla loro posizione strategica. I documenti negli anni successivi non citarono il Bonifacio anche se sembra che abbia continuato a risiedere nel castello di Corleone del quale, dopo la morte del padre Oddone, assunse probabilmente la direzione.
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Durante il regno di Carlo I d’Angiò, poco prima della rivolta del Vespro, Bonifacio de Camerano ricopriva la carica di “magister aratiarum” cioè di maestro delle famose scuderie reali della Val di Noto e questo malgrado i De Camerana fossero ghibellini e filosvevi.

Il 30 marzo 1282 ( Lunedì dell’Angelo) scoppiò a Palermo la rivolta del Vespro contro il dominio angioino. Corleone era molto legata alla dominazione sveva e fu una delle prime città e terre di Sicilia a ribellarsi.
Partecipò subito e attivamente alla rivolta del Vespro grazie all’azione del Camerano che fu eletto “capitano della città” e si adoperò attivamente per dirigere le azioni militari contro  gli Angioini.
Il 3 aprile 1282 i delegati di Corleone conclusero un patto di alleanza con quelli di Palermo.
La delegazione di Corleone, tra cui anche un Guglielmo Curto di origine lombarda, si recò a Palermo “per offrire fedeltà e fraternità”. Il Camerano, secondo il cronista Saba Malaspina, sarebbe stato uno degli artifici dell’alleanza e avrebbe presenziato personalmente al Parlamento di Palermo, pronunciandosi a favore di una rapida conclusione dell’accordo con i Corleonesi e incitando alla più spietata persecuzione degli Angioini.
Sempre secondo il Malaspina, il Camerano  avrebbe organizzato una vera e propria caccia agli Angioini con  una “efferata ferocia”.
Bonifacio Camerano alla testa di ben tremila lombardi ghibellini di Corleone, fece una strage di Angioini e guelfi…”infierendo su di loro come se ognuno dovesse vendicare la morte del padre, del fratello o del figlio…” iungunt se simul Lombardi de Corillione cum Panormitanis, ad quod etiam illa tota contrata una eodemque spiritus furia concitata concurrit, conflunt omnes sanguinem gallicum sitientes” (Saba Malaspina, Rerum Sicularum historia).
L’occupazione del castello di Battilaro, da parte di Bonifacio e dei Corleonesi, avvenne durante le concitate fasi del Vespro.. sembra che alcuni musulmani siano stati inseguiti sin dentro il castello per poi essere trucidati.. musulmani che si erano schierati a favore delle truppe angioine e papali.

Sotto la sua guida il popolo si rivolse con particolare accanimento anche contro le numerose scuderie e masserie reali poste nell’interno dell’isola che, considerate i centri principali dello sfruttamento della popolazione, furono assalite e saccheggiate.
Poco dopo il suo arrivo in Sicilia, il 7 ottobre 1282, il nuovo re Pietro d’Aragona, nominò il Camerano giustiziere della Val di Noto. Questa nomina sembrerebbe collegata ad un prestito di 50 once concesso alla Camera Reale. Il primo compito che il nuovo re gli affidò riguardava proprio quelle scuderie e “masserie” reali che erano state saccheggiate con il consenso dello stesso Camerano al tempo delle “Communitas tra Palermo e Corleone”.

Il 13 ottobre 1282, Pietro d’Aragona lo incaricò di condurre nel territorio, soggetto al suo giustizierato, un’accurata indagine sui cavalli e gli altri animali, già sottoposti alle sue cure in qualità “magister aratiarum”, e dispersi in seguito alla rivolta del Vespro e che il re intendeva recuperare al demanio reale.
L’azione di recupero degli animali si presentò naturalmente molto difficile. Il 20 febbraio 1283 lo stesso re Pietro intimava al Camerano di provvedere a mandargli, con la massima urgenza, i cavalli già appartenenti alle scuderie di Carlo I d’Angiò.
Per espresso desidero del re, che dal Camerano esigeva il rifornimento dei cavalli, il milite non partecipò alla campagna militare calabrese del marzo del 1283.
Anche quando re Pietro partì dalla Sicilia, il Camerano continuò a svolgere le funzioni di giustiziere della Val di Noto e l’uno giugno 1283, grazie alla sua funzione pubblica, diede il consenso a una concessione fatta dall’arcivescovo di Monreale, Giovanni Boccamazza, in favore di Guglielmo de Carbonito, giudice di Palermo.
Il 6 maggio 1286 riottenne l’investitura del casale di Militello (Val di Catania) che era stato confiscato al traditore Alaimo da Lentini. Casale che fu assegnato in dote alla figlia Maria di Camerana quale sposa di Don Giovanni Barresi ( Barone di “Pietraperzia, Capizzi e Orlando”) .
Bonifacio da Camerana aveva quindi tre figli: Maria, Oberto e Giovanni.

Nel 1287 fu mandato, insieme al figlio Oberto e ad alcuni contingenti corleonesi, a Marsala per sostenere il nobile Berardo de Ferro nella difesa della città dagli attacchi della flotta angioina.
Nel maggio del 1298 esercitava le funzioni anche di vice-giustiziere nella Val di Mazara e nello stesso periodo la documentazione regia ed ecclesiastica riportò l’azione, nella zona di pertinenza della Diocesi di Monreale, dei fratelli Oberto e Giovanni de Camerana.


Il 23 ottobre 1292, il figlio di Bonifacio, Giovanni di Camerana, anche lui “miles” ebbe da re Giacomo l’assegnazione di 30 onze annue per “sub militari servicio de morticiis et excadenciis curie nostre” e il 25 ottobre, dopo la destituzione del milite Palmerio Abate, fu nominato custode del bosco di Partinico, «sub magistratu Mathei de Thermis militis regni Sicilie senescalchi» e regio forestario nell’ottobre 1294.
Nel 1298 Giovanni de Camerana risultava proprietario di un giardino “extra portam Sancti Geogii” a Palermo, di un terreno fuori porta Carini, di una bottega presso la Porta Patitellorum e di un “hospicium” sito nel Cassaro.
In pochi anni la famiglia de Camerana, con una presenza molto limitata nel territorio della Chiesa di Monreale,  passò ad una vera e proprio occupazione di feudi e quindi alla detenzione di beni mobili e immobili che appartenevano all’Abbazia di Santa Maria Nuova (Cattedrale) di Monreale.
Per svolgere un azione d’occupazione dei feudi  la famiglia de Camerana avrebbe dovuto avere l’appoggio della monarchia aragonese e cioè di Federico III d’Aragona.
Infatti Giovanni de Camerana fu citato come maggiordomo della regina Eleonora d’Angiò nell’agosto del 1306 e anche custode del bosco di Partinico (con un nuovo privilegio dopo quello emesso nel 1292 dal fratello di Federico III d’Aragona, Giovanni)..
Tra i beni usurpato alla Diocesi di Monreale c’era anche il castello di Battalario che era stato occupato dal padre Bonifacio all’epoca del Vespro e su cui la famiglia Camerana (con i fratelli Oberto e Giovanni) avrebbe mantenuto un possesso continuato nel tempo.
Giovanni Camerana era signore di tre tenimenti di terre (Tava, Gargalusu e Ambayda) e di due mulini (Casena e Passo di Favara) tutti nel territorio di Caltabellotta. Possedimenti che furono lasciati per disposizione testamentaria al nipote (figlio della sorella Maria e di Giovanni Barresi) Abbo Barresi, assieme al casale di Militello.
Dal punto di vista politico era uno dei personaggi più influenti del Regno nel 1314 e risultava deceduto il 2 aprile 1318.
Nelle famiglia risulta anche un Oddo de Camerana che fu citato per la prima volta, come “dominus” l’8 maggio 1299, fra gli stipendiari abitanti a Palermo che il 4 settembre 1336 ricevettero l’ordine di mobilitazione in relazione all’imminente spedizione sull’isola di Gerbe “a cui doveva partecipare con un cavallo armato”.
Giovanni de Camerana, su ordine del sovrano Federico III d’Aragona, dovette lasciare il bosco di Partinico nel 1306 quando fu nominato maggiordomo della regina Eleonora d’Angiò. Bosco  che fu concesso alla neonata abbazia di Santa Maria di Altofonte. Malgrado i soprusi il de Camerana  continuò a mantenere nell’ambito della curia, una posizione di rilievo politico che si era consolidata grazie alle vicende belliche degli ultimi cinquant’anni di storia dell’isola.

Con diplomi
-          Misilcurto 1305, novembre, IV ind. “i Casali di Bisacquino e Misilcurti e il castello di Battallario, vengono restituiti alla chiesa di Monreale, a seguito della Sentenza contro i fratelli Oberto e Giovanni di Camerana, che detenevano illecitalmente questi possedimenti”.
Federico III, il 27 novembre 1305, aveva informato Bartolomeo d’Isola, giudice della Regia Gran Corte, che il Gran Giustiziere del regno, relativamente alla lite intercorsa tra Fra’ Parisio di Catania, monaco e procuratore della chiesa di Monreale, e il notaio Pietro di Crastono, procuratore dei cavalieri Oberto e Giovanni di Camerana, in merito alla restituzione dei casali di Bisaquino, Raia, Misilcurti, Terrusio, e del castello e tenuta di Battallario, aveva sentenziato in favore della chiesa, comandandone l’immediata restituzione a questa. L’ordine viene eseguito da Bartolomeo d’Isola, che ne affida il possesso a Fra’ Simone e Fra’ Giordano, procuratori di Santa Maria Nova.

-          Palermo 1306, 28 ottobre, V ind. Federico III ordina agli ufficiali del Val di Mazara di prendere le difese della chiesa di Santa Maria Nova in relazione al casale Terrusio, illecitamente posseduto da Giovanni di Camerana, condannato a restituirlo alla diocesi di Monreale
-          Casale Terrusio 1306, 30 ottobre, V ind. Il casale Terrusio viene restituito a Matteo di Gentile di Palermo, Fra’ Parisio di Catania e Fra’ Nicolò di Randazzo, monaci e procuratori di Monreale, a seguito della sentenza contro Giovanni di Camerana, allora detentore del predetto.


Il Mongitore riportò un documento del 1302 con cui alla chiesa di Palermo furono restituiti i casali di Platano, Platanello, e di Bruccato e il Del Giudice riportò un altro documento in cui erano ritornati in possesso della chiesa di Monreale, i villaggi di Bisacquino, Patillaro, Raya, Misilcurto, e Terrufa.

La cronaca di Michele da Piazza (un frate minore osservante) citò la costruzione di una “nuova arx” (“focolare”, cioè nuova costruzione sul colle) a Battellaro nel 1353.
Una costruzione da parte di chi?
Non è facile trovare riferimenti anche perché il sito doveva essere di pertinenza della Diocesi di Monreale o forse della regia Curia.
Lo storico Villabianca affermò che sotto il regno di Ludovico un Perribono (Calandrini o Calandrino) da Corleone fu fondatore della fortezza di “Patitari”.
Ludovico (Luigi) d’Aragona (figlio di Pietro II d’Aragona e di Elisabetta di Carinzia)  fu sovrano di Sicilia dal 1342 al 1355.
 Un altro Perribono fu riportato nel ruolo dei feudatari sotto re Martino per il feudo di Cellaro e un Luca fu tesoriere di Corleone nel 1431 – 32 e giurato nel 1462.


Il “Nobiliario Siciliano” non cita la provenienza o l’origine della famiglia.
Altre fonti citano la famiglia come “proveniente dalla Francia, giusta il Savasta,
questa ricca e nobile famiglia passò in Sciacca sotto il comando del
Conte Ruggiero il Normanno. Vanta de’ generali di guerra, ed altri
                                             nobili personaggi, ricchi di feudi e territori”.          
Nell’Enciclopedia Treccani la Famiglia è originaria di Luni (La Spezia) ed
emigrata a Sarzana..”Ebbe il suo capostipite in un  Buongiovanni, vissuto nella
prima metà del secolo XIII. Il figlio di Buongiovanni, Calandrino, si
segnalò in Sarzana per la partecipazione alla vita pubblica, come membro del
Parlamento del Comune nel 1278 e del Consiglio generale nel 1288 all’epoca
del dissidio con Enrico vescovo di Luni che aveva colpito i sarzanesi con
l’interdetto e la scomunica. Calandrino di Buongiovanni ricoprì
inoltre la carica di podestà a Castelnuovo di Magra a partire dal novembre 1296.
Rimasto vedovo di Iacopina di Mercadante di Rolandino di Pezamezana, s'imparentò
 in seconde nozze con i Mascardi de' Nobili di Trebbiano sposando,
ignoriamo quando, Beatrice di Azzolino, che i documenti danno
come vedova nel gennaio 1306.
Ebbe sei tra figli e figlie; Federico, che aveva avuto dal matrimonio con Iacopina,
continuò la discendenza (che prese nel sec. XIV a denominarsi da Calandrino) e
gettò le basi del cospicuo patrimonio della casa.



La famiglia Calandrino era già presente in Sicilia il 2 settembre 1313, durante la reggenza di Federico III d’Aragona, e il nobile domino (signore o padrone) milite Corrado Calandrino risultava incaricato dalla Regia Curia di “imporre, tassare e raccogliere la sovvenzione regia in Val di Mazara”.

Il 15 giugno 1324 una certa Rocca, vedova di don Vitale Calandrino, vendette per 120 onze ad Adelicia, vedova di Filippo di Ebdimonia “miles” di Sciacca, “tre pezzi di terra con giardino e mulino siti in Corleone siti in Corleone in Contrada Batticano.
“Andreotto Calandrino di Corleone che è testimoniato il 15 giugno 1324 come procuratore della nobile Adelicia, vedova di Filippo Ebdemonia abitante a Sciacca, possedeva nel 1344 in Corleone due mulini, due vigne e il feudo Batticano attualmente in territorio di Bisacquino.
Non compare nell’adoa del 1345 (cfr. Bono Calandrino)”.
(l’Adoa o Adoha, era la tassa versata da un vassallo al feudatario in cambio del servizio militare a cui era tenuto in termini di uomini e cavalli. Era stata istituita nel 1307 da Corrado II ed era presente nel regno di Sicilia).
“Una sentenza della Curia di Sciacca del 26  settembre 1343 (transuntata a richiesta di Federico Calandrino)  ordinò la restituzione ad Antonio Calandrino, abitante a Sciacca “di tutti i beni, siti nel territorio di Corleone, appartenenti al padre, il nobile Androtta, assente da oltre 15 anni perché catturato in guerra e trattenuto fuori della Sicilia, ed amministrati dal defunto procuratore Manfredi da…, il quale secondo la disposizione dei suoi eredi Guillotta e Nicolò de Traina per la cattiva gestione risultava non solo debitore di una non ben definita quantità di denaro ma di avere anche alienato una vigna a Pietro Simone”.
“Federico Calandrino è attestato vivente il 4 marzo 1373.
Tra la famiglia Calandrino, figura un Pietro Bono Calandrino che si dovrebbe identificare con il corleonese “Perbono (Peri Bono) Calandrino”  (architetto, con gran rapporti d’amicizia nei confronti della famiglia Grifeo di cui abbellì, con giardini e torri, il castello di Partanna).
Perbono Calandrino fu fedele al re Ludovico e nel 1353 costruì il Castello “ Patillaro o Battalari” presso Bisacquino come riferirono  il cronista Michele da Piazza e lo storico Fazello.
Una costruzione  su precedenti strutture ?. Probabilmente la risposta dovrebbe essere affermativa dato che era presente una “struttura primitiva”,  ridotta in rovina a distanza di circa due secoli dalla citazione.
Lo stesso Perbono il 28 marzo 1356 fu convocato da Federico IV verso il quale mostrò una grande fedeltà. Infatti il 15 settembre 1361 figurava come capitano di Corleone.


L’omonimo figlio di “Perbono” Calandrino, Pietro Bono (II),  nel suo testamento del 26 novembre 1404 nominò “erede universale il cugino Guglielmo de Graciano e dispose di edificare nella Chiesa di Santa Maria del Bosco di Calatamauro un cappella intitolata a San Nicola dove  intendeva essere seppellito”.
“Dispose anche che nella stessa tomba venissero trasferite le ossa del padre che era sepolto nel “Patellaro” e di un suo fratello, sepolto nel castello di Calatamauro”.
Il testamento mise in rilievo due aspetti importanti:
1.      L’esistenza nell’Abbazia di Santa Maria del Bosco di una cappella della famiglia Calandrino dedicata a San Nicola;
2.       Nel castello di Calatamauro era presente una piccola chiesa dove era sepolto il fratello di Pietro Bono II. Una cappella di cui non c’è traccia e che probabilmente era posta sopra la grande cisterna dell’”edificio superiore” del fortilizio.
Pietro Bono (II) , abitante a Corleone, era anche titolare del feudo “Salangruppu” nel territorio di Corleone di cui subì la confisca per la rivolta contro re Martino.
Il feudo confiscato fu concesso da re Martino, con privilegio del 25 ottobre 1393 a Bernardo Caret “sotto il consueto servizio militare in cambio di onze 30 delle 60 che costituivano il suo salario”
(Figura nel ruolo feudale del 1408 come titolare del feudo Chillaro per conto della moglie).

La costruzione del castello o masseria fortificata nel 1353 favorì l’insediamento di alcuni nuclei che costituirono un piccolo villaggio. Tra il 1374 ed il 1413 “un abitato di 48 fuochi è attestato nei dintorni del castello”.
Si trattava di umili contadini, di discendenza saracena, e “privi di diritti”.
Un Calogero Calandrino si schierò con la famiglia De Luna nella disputa contro la famiglia “Perollo” nel “Caso Sciacca” e uccise il conte Giacomo Perollo.
I Calandrino che detennero il possesso del feudo costruendo o ricostruendo il castello che assumerà l’aspetto di una masseria fortificata, effettuarono sul sito un “domino”  cioè fino a quando il re Martino decise di restituire il feudo alla Diocesi di Monreale ?
Cioè, secondo il linguaggio medievale, esercitarono un titolo (dominio utile) che, senza essere vera proprietà secondo il diritto civile, veniva protetto come proprietà privata.
Nel 1382 -1392 il re Martino Il Giovane ordinò al Conte Guglielmo Peralta di restituire il castello all’Abbazia di Monreale.
Sotto la camperia di Bisacquino erano compresi nove feudi: Bruca,Tarucco che comprendeva anche il territorio di Patellaro, Rosselle, Montagna Cervi, Calvagno,  Gulfo,Raia, San Blasi o Terrusio.  
Il castello era pervenuto ai Parlata in seguito ad un matrimonio con un’esponente della famiglia Calnadrino?
Il castello tornò all’abbazia di Monreale che ne detenne il possesso fino al 1812 quando fu promulgata la Costituzione Siciliana.
Dopo la morte del Vescovo di Monreale Francesco Testa (22 aprile 1754 – 17 maggio 1773) cominciò il tramonto feudale del famoso Arcivescovado.
Uno dei più grandi ed importanti vescovadi di Sicilia e d’Europa cominciò a perdere la sua importanza. Erano ormai lontani i tempi in cui sotto l’arcivescovo Giovanni Ventimiglia (1418 – 1449) fu acquistato il feudo Monchilebi in cui sorgevano i centri di Montelepre e il borgo di Giardinello o ancora quando nel 1448 il cardinale Giovanni Borgia accolse un gruppo di profughi Albanesi concedendo loro la Piana e che fu appellata “degli Albanesi”.
Il 7 luglio 1775, per motivi politici (regnava Ferdinando I di Borbone), il papa Pio VI unì l’arcidiocesi  “aeque principlaiter” a quella di Palermo e affidò l’amministrazione dei due arcivescovadi al principe di San Vincenzo.
Grazie all’intervento di Mercurio Maria Teresi di Cefalù, molto stimato dal re Ferdinando I, il papa Pio VII con la bolla “Imbecillitas humanae mentis” del 12 marzo 1802 restituì all’Arcidiocesi di Monreale la sua autonomia e lo stesso papa il 24 maggio 1802 nominò mons. Teresi Arcivescovo Metropolita di Monreale.
In quell’occasione  l’Arcivescovado di Monreale perse molti possedimenti tra cui anche il castello di Battalari
Quando il 20 maggio 1844 il Sommo Pontefice Gregorio XVI con la bolla “In suprema militantis Ecclesiae” disegnò un nuovo assetto per le diocesi di Sicilia, l’Arcidiocesi ebbe una nuova configurazione che, tranne per qualche piccola modifica, è stata conservata sino ad oggi.

Dopo il 1812 Battellaro ed il suo territorio passarono al Demanio dello Stato per essere quindi acquistati dal barone Orazio Fatta della Fratta.
Non ho riferimenti per poter stabilire quando fu acquistato dal barone Orazio Fratta.
Il barone citato potrebbe essere Orazio Fatta della Fratta e Rampulla del Tindaro (1823 – 1898) che sposò il 19 settembre 1862 Sestina Pojero e Ribaudi, figlia di Michele Pojero, un facoltoso e geniale imprenditore nonchè amico e socio dei Florio.


Barone Orazio Fratta della Fratta (?)

Tra i discendenti il barone Orazio Fratta della Fratta (Palermo, 3 luglio 1905; Palermo, 8 aprile 1979) figlio del barone Giovanni Fatta della Fratta (si occupò per tutta la vita delle proprietà agricole insieme al fratello Salvatore)  e di Virginia Fatta Poiero.

Sposò Maria Francesca de Gregorio di San Teodoro (figlia  del barone Camillo de Gregorio Vanni d’Archirafi e di Maria Concetta San Martino de Spuches) e dal matrimonio nacque Virginia Fatta della Fratta, nota archeologa e autrice di vari studi sulla Sicilia antica (Uno dei suoi libri è un attento studio sulla “Ceramica di Sant’Angelo Muxaro”). Sposò il barone. Gaetano Martinez Tagliavia.


Le nozze tra il Barone Orazio Fatta della Fratta  Maria Francesca de Gregorio

Il barone Orazio (dottore in Scienze Politiche, Cav. Di On. E De, del S.M.O. di Malta) fu un appassionato agricoltore. Sperimentò sin da giovane, insieme al padre ed al fratello, nuove varietà di frumento e la coltivazione di nuove specie come sorgo e mais nelle campagne della Madonie. Si rese artefice della promozione di associazioni di agricoltore (Sicilseme). Fu artefice dell’introduzione dei nuove coltivazioni di nespolo nella zona di Trabia, nella proprietà di “Donegarci”, impiantando nella stessa azienda anche agrumeti, Agrumeti che si estendevano anche nella vicina azienda del cugino Settimo Morello Fatta  denominata “Sant’Onofrio”.

La moglie Francesca era un appassionata di Apicolture ed insieme impiantarono un apiario a San Giorgio. Un attività seguita da entrambi i coniugi con grande passione a tal punto da arrivare a possedere ben 100 arnie.

Il barone Orazio Fratta aveva un fratello, Corrado Fratta, (Palermo, 1 agosto 1903; Palermo, 20 aprile 1979) storico e filosofico, politico, viaggiatore e grande appassionato di filatelia.
Fine letterato, studioso di Netzsche e di Kikegaard, filosoficamente pessimista, amico fraterno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e appartenente a quella famosa cerchia di intellettuali palermitani,  tra cui erano Lucio Piccolo, Bebbuzzo Sgadari, e cui si univano i giovani Gioacchino Lanza Tomasi, Francesco Agnello, Francesco Orlando.  Sotto il peso delle forti tradizioni non si rivelò in grado di affrontare positivamente il futuro in seguito agli stravolgimenti politici e sociali provocati dalla guerra.
Scrisse sulle “Origini della Germania contemporanea”, un volume su Enrico VIII ed uno studio su Falstaff, tradusse Hegel dal tedesco con Guido Calogero. Fu amico di André Malraux ed essendo di cultura francese, scrisse in francese i saggi “Du snobisme” e “L’Esprit de Saint-Simon” per cui ebbe la Legion d’Onore al merito letterario della Repubblica Francese. Si dedicò infine agli studi storico-filosofici con due saggi, “Il mito della Potenza” e “L’Esperienza della Storia.
Particolarmente attaccato al fratello Orazio, con il quale aveva vissuto per tutta la vita, morì di crepacuore dodici giorni dopo la di lui improvvisa e inattesa scomparsa.



Famiglia Fatta Martinez Tagliavia
“Famiglia antica e potente in Verona, trovandosi fra i congiurati di Mastino I della Scala
nel 1277 Ottone, Odorico ed Achille. Nel sec. XIV è nominato il notaio Antonio e nel principio
del sec. XV Michele, figlio del precedente, coprì la carica di Console della casa dei Mercanti….”

Secondo il Villabianca, la famiglia Fatta della Fratta “la si vuole originaria dalla
Spagna e passata in Sicilia nel secolo XVI parla di un Domenico Fatta, che a 25 agosto 1684 ottenne di essere ascritto alla nobiltà palermitana, e possedette il feudo della Fratta. Un Guglielmo fu proconservatore di Collesano nel 1731; un Orazio Fatta e Torre fu giurato di Polizzi nel 1787-88 e capitano di giustizia della stessa città nel 1800-1801; un Girolamo Fatta e Oddo acquistò il feudo di Garbonoara, del quale fu investito a 30 aprile 1774. Con Real Decreto del 12 agosto 1873 susseguito da Regie Lettere Patenti del 19 dello stesso mese venne rinnovato il titolo di barone della Fratta in persona di Orazio Fatta Rampolla, nato in Palermo a 23 ottobre 1823 e ivi morto a 13 agosto 1898. Con Decreto Ministeriale del 27 maggio 1903 vennero riconosciuti a Girolamo Fatta, fu Guglielmo (nato in Palermo il 16 settembre 1866) i titoli di principe di Belvedere, marchese di Alimena, barone di Garbonogara e signore di Pellizzera, trasmessibili ai suoi eredi e successori secondo l’antico 
diritto siciliano.

Il barone Corrado Fatta della Fratta nella sua vita aveva sviluppato un desiderio di ribellione e sovvertimento come si rileva dal sito dedicato alla famiglia Martinez Tagliavia di San Giacono (http://www.martinez-tagliavia.com/introduzione/storia/virginia-fatta-fratta/fatta-fratta/

Era sempre stato un grande amante degli studi e non dimostrò mai un interesse nella gestione pratica degli affari e nella relativa conduzione delle aziende agricole familiari. Spinse il fratello Orazio a vendere alcune proprietà da famiglia come la palazzina di famiglia posta a Palermo in via Siracusa-via Trapani con il suo vasto giardino. Una vendita effettuata in occasione del “sacco di Palermo” ( lo sviluppo edilizio di Palermo negli anni 1950 – 1960), per il timore di leggi vessatorie di matrice comunista. Al trasloco lo stesso barone Corrado bruciò tutte le carte e la corrispondenza del suo passato e diede alla Biblioteca Nazionale di Palermo gran parte del suo vasto patrimonio librario.


Sul feudo e castello di  Battalari o Patellaro  nel XX secolo non si sa molto. La vasta proprietà fu divisa nel 1955 fra diversi proprietari




2. STRUTTURA
Un castello dimenticato…Le sue condizioni oggi sono molto precarie a causa dell’utilizzo, da tempo, come ricovero di animali e anche delle continue manomissioni di cui è stato oggetto. Molti rimaneggiamenti sulle antiche strutture a cui sono state anche addossate nuove costruzioni.
Rimaneggiamenti ed ampliamenti eseguiti con relativi scavi, manomissioni, inglobamenti e non si sa nulla su eventuali rinvenimenti di importanti reperti archeologici andati quindi perduti……..
 Una costruzione del 1350 in rovina .. .
 La struttura si articola su due livelli che furono ottenuti grazie ai tagli effettuati sul blocco di calcarenite e fu circondata da una cinta muraria che seguì l’andamento altimetrico del terreno.


 La cinta muraria è costituita da tre torri poste sul lato ovest e conservate in elevato per circa 7 metri. Si differenziano tra loro per la morfologia dei caratteri costruttivi. Due presentano una pianta quadra e pareti con uno spessore di circa 1,25 m; mentre l’altra ha una pianta pentagonale e delle pareti con spessore di 1,40 metri.
Un’altra torre, posta al di fuori della cinta muraria, si trovava a nord-est.
La parte residenziale del castello era situata a nord e si sviluppava su due piani, una zona che nel tempo ha subito varie ristrutturazioni e rifacimenti.
A sud si trovano altre case e magazzini
 A quanto sembra non sono state condotte delle vere e proprie indagini archeologiche sul sito  per cui è quasi impossibile poter delineare, anche per grandi linee, quello che doveva essere l’impianto originario anche se la presenza delle due torri ad ovest sembra fare luce almeno su una parte del castello.
Proprio dove erano situate le due torri e quella pentagonale dovevano essere posto l’ingresso della struttura mentre la torre ad est presidiava il controllo della zona retrostante al castello.
Tra la torre n. 2 e la torre pentagonale n. 3 era posto un probabile ponte levatoio che superava il fossato oggi non più esistente.
L’ “Università di Pisa – Scienze Archeologiche – Scuola Normale Superiore di Pisa “, molto presente nel territorio siciliano con le sue attente e ricche ricerche, ha effettuato un’accurata indagine sulla stratigrafia degli elevati del sito per rilevare modelli edilizi, i materiali impiegati, le eventuali maestranze, l’organizzazione dei cantieri.
L’indagine aveva come obiettivo la  creazione di un atlante dell’edilizia fortificata della Sicilia occidentale anche attraverso le analisi chimico-fisiche dei leganti utilizzati nelle costruzioni.
La ricerca ha permesso di avere nuove indicazioni sulle modalità dell’insediamento feudale ed in generale sui fenomeni di incastellamento nell’area. Contestualmente all’indagine si sono effettuate rilevazioni dello stato di conservazione della fabbrica. I dati raccolti dovevano fare da base per eventuali interventi di restauro o consolidamento dell’edificio. Il quadro fornito dalle ricerche doveva essere completato dalla realizzazione di sondaggi stratigrafici nel complesso e dalla ricognizione sistematica del territorio circostante. A quanto mi risulta i sondaggi stratigrafici e l’indagine archeologica sul territorio circostante non furono mai effettuati forse perché interessavano aree di proprietà privata e quindi di difficile accesso.

Nella Torre 1 guardando la sua muratura s’evidenzia una prima fase costruttiva sui lato Ovest ed Est. Infatti la muratura più antica è costituita da conci di calcare di varie dimensioni (grandi e piccoli, spaccati, sbozzati grossolanamente ed in parte spianati a faccia vista). La squadratura è più accurata nelle pietre angolari che non presentano segni di interventi successivi. La posa in opera dei conci è su corsi sub – orizzontali e paralleli, con pietre disposte soprattutto in orizzontale e legati da malta poco tenace. L’inserimento di zeppe in scaglie di pietra di medie e piccole dimensioni tra i giunti e i letti di posa, consente il mantenimento dell’orizzontalità dei piani



L’angolata è risolta in conci sbozzati di medie dimensioni posizionati alternativamente per testa e per taglio. I filari, spesso sdoppiati, hanno un altezza variabile da 12 a 36 cm. Il nucleo dei muri, a bancate non apparecchiate, è spesso 1,25 m, grandezza giustificata dalla funzione difensiva. La tecnica utilizzata è simile alla tecnica registrata nel castello di Segesta (IV) e data intorno agli inizi del XIII secolo.

La torre n. 2 presenta un grosso restauro che fu effettuato sulle mura ovest.
La muratura è costituita da conci in calcare di medie dimensioni, spaccati, sbozzati e spianati nella superficie a vista. L’angolatura presenta una squadratura accurata, senza segni successivi di rifinitura. La posa in opera dei conci è su corsi sub-orizzontali e paralleli, ed è frequente l’inserimento di zeppe di scaglie in pietra e frammenti di laterizi nei letti di posa per regolarizzare i piani. I filari hanno un altezza variabile tra i 12 ed i 25 cm ca. Il legante è costituito da malta molto tenace. Tale tecnica caratterizza tutte le murature del sistema difensivo e potrebbe attribuirsi, in via del tutto ipotetica,  alla ricostruzione trecentesca del castello.


Il terzo campione riguarda un esteso intervento di restauro nel paramento murario ovest. La muratura è costituita da conci di calcare di medie dimensioni, spazzati, sbozzati e spianati sommariamente a faccia vista. La posa in opera dei conci è su corsi sub-orizzontali e paralleli. I filari hanno un’altezza variabile tra i 15 ed i 25 cm. L’orizzontalità dei piani è mantenuta grazie all’inserimento di zeppe in scaglie di pietra di piccole e medie dimensioni. La cronologia della muratura dovrebbe essere compresa tra il XIII ed il XIV secolo.




Si possono ancora ammirare le finestre, sormontate da archi di pietra, dell’edificio baronale. Il fabbricato del feudatario è posto nell’angolo nord-ovest del fortilizio e presenta delle mura molto solide. Sono presenti ancora dei residui delle vecchie coperture dei piani che erano costituite da volte a botte e da archi costruiti con pietra viva. Sono anche presenti dei muri di separazione dei vari vani con relative aperture di comunicazione sormontate da archi di pietra.


Nell’angolo sud-ovest erano presenti le case dei coloni e del sovrastante  alcune delle quali sono state restaurate per essere adibite a magazzini.
Penso che il video, anche se di breve durata, sia più utile delle foto per dare una visione globale dello stato di cadenza e di manomissione di questa testimonianza di storia del Regno di Sicilia.
Un castello, come già detto, dimenticato e che da tempo aspetta degli interventi che potrebbero arrestare il suo degrado.
Un vano ad esempio sembra, dal suo aspetto architettonico, destinato a cappella.  Mancano i riferimenti e non so se degli scavi o ricerche potrebbero restituirgli quella sua importante identità storica.
Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, per motivi di stabilità della costruzione, furono abbattute le due torri sino alla metà della loro altezza.

3. VIDEO


4. La ferrovia (dismessa): Palermo – Corleone – San Carlo
Vicino al Castello di Battalari passa l’antica linea ferroviaria Palermo – Corleone –San Carlo.
Fu la prima linea a scartamento ridotto ad essere costruita in Sicilia.
Una linea decisamente importante perché copriva la mancanza di un adeguata via viaria tra i centri dell’entroterra e i punti d’imbarco della costa.
Fu aperta nel 1886, la tratta Palermo – Corleone, e nel 1903 la linea Corleone – San Carlo.
Tutta la linea che era lunga circa 110 km fu chiusa nel 1959…












I locali restaurati dell’antica stazione di Contessa Entellina

Ambienti recuperati dell'antica stazione ferroviaria di Contessa Entellina

Pista ciclabile sull'antica ferrovia che attraversava la stazione
di Contessa Entellina

Impianto trattamento rifiuti che vanifica la fruizione e della pista ciclabile che la rievocazione storica dell'antica stazione ferroviaria



Galleria nei Pressi della Stazione di Bisacquino





5. Percorso : Abbazia Santa Maria del Bosco – Castello Battalari (Patellaro





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LA  SICILIA  DEI SICANI:
Prima Parte - Castello di Calatamauro (Contessa Entellina – Pa) :

Seconda Parte - L’Abbazia di Santa Maria del Bosco (di Calatamauro)

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