La Sicilia dei Sicani..... un mondo affascinate tutto da scoprire.....Prima Parte
IL CASTELLO DI CALATAMAURO (Contessa Entellina - Palermo)
1. Il CASTELLO
Peri
Bono Calandrino era residente a Corleone e titolare del feudo “Salangruppu”
(nel territorio di Corleone) che in seguito alla sua rivolta fu confiscato da
re Martino. Lo stesso re lo concesse, con privilegio del 25 ottobre 1393 a
Beranrdo Caret sotto il consueto servizio
militare in cambio di onze 30 delle 60 che costituivano il suo salario. Il
Calandrino figura nel ruolo feudale del 1408 come titolare del feudo Chillaro
per conto della moglie.
Muro Nord
dell’edificio superiore (parte estrema occidentale – USM10046)
Indice
1.
Il
Castello
2.
I
Feudatari – Porcellet; Catania; Sessa; Cartellà o Cartiliano; Eleonora D’Aragona;
Peralta; (Calandrino, sepoltura); Cardona; Gioieni; Colonna di Resuttano; Rospigliosi; Mulè Sammartino; (Proprietà attuale: privata)
3.
La
Struttura
a)
Edificio
Superiore: La Grande Cisterna; Gli ambienti destinati ad attività artigianali;
L’edificio; (Proiettili per la Catapulta); Torre Ovest e la Cisterna con i
graffiti; Cortile
b)
La
Torre Est ed il suo Complesso: Il Cortile e la Gradinata; La Cisterna Est;
Ambienti tra la cisterna e la Torre Est; Torre Est; Cinta Esterna e il Sentiero
d’accesso,
4,
Le Sepolture e i Reperti Ceramici
-------------------
Il
castello è posto su un rilievo di calcarenite glauconitica fortemente inclinato
verso nord
di cui occupa la parte dorsale e parte del
pendio settentrionale.
I
versanti Ovest e Sud sono molto scoscesi mentre il pendio settentrionale,
modellato dallo scorrimento delle acque piovane, ha una sua accessibilità anche
se difficile. Il Versante Est è quello
meno ripido e si allarga in un pianoro dove aveva sede un abitato indigeno.
In
questo versante si trovava il percorso che consentiva l’accesso al castello di
cui restano delle tracce in alcuni tratti.
Il
castello domina una vasta pianura particolarmente ricca d’acqua e quindi molto
adatta all’insediamento umano e all’agricoltura. Acque che si raccolgono lungo
le pendici orientali del massiccio dando origine ad un corso d’acqua che nel
passato ha alimentato due mulini, di cui uno restaurato di recente dal Comune,
e che confluisce nel torrente Senore.
Un
sito strategico di grande importanza perché permetteva il controllo della via
che da Monte Genuardo portava alla valle del Senore, al Belice e al mare. Altro
controllo sulla strada di quota da Corleone a Sciacca ed altre importanti vie
di comunicazione.
L’altura,
malgrado la sua limitata estensione,
presenta una presenza umana in età arcaica, classica e medievale. Una presenza umana legata alla necessità di
arroccamento, quindi di difesa da eventuali attacchi nemici, e di sfruttamento
delle importati risorse agricole della piana sottostante.
La
citazione più antica del castello è legata alla conquista islamica della
Sicilia quando i Musulmani, una volta conquistata Palermo, avviarono la
conquista dell’interno dell’isola tra l’839 e l’840.
Il
nome del castello secondo alcuni storici potrebbe collegarsi ad un altro centro dell’isola,
Marineo.
Sulla
presenza dei Bizantini, precedente alla conquista araba, non ci sono molte
testimonianze ed è quindi un indagine ancora da completare.
Il
geografo Edrisi, insieme ai dati della Jarida di Monreale, citò l’esistenza
sull’altura di Calatamauro d’un fortilizio presente verso la metà del XII
secolo.
”da Manzil Sindi a Qal at Mawru nove
miglia”.. ed è ricordato anche nei registri dell’Abbazia di S. Maria di
Monreale che fu redatto per ordine di Guglielmo II nel 1182 in arabo e in
latino…”“usque ad viam que ducit de
Kalatamauru”.
In
merito alla sua etimologia il termine dovrebbe derivare da “Qal
at Mawru” cioè “Rocca del Moro”
Il
castello era posto alle dipendenze della Corona e controllava il territorio compreso tra il
Monte Genuardo, il Vaccarizzo e il Senore e la strada Palermo- Corleone –
Sciacca.
Il
sito si trovava di fronte alla roccaforte di Entella e durante il conflitto tra
Federico II di Svevia e i Musulmani ribelli, alcune fonti indicarono il
castello come roccaforte dell’emiro ibn’Abbad.
In
funzione della sua posizione strategica, decisamente importante per le sorti
del conflitto, fu elencato nei “castra
exempta” , riportati nel registro imperiale del 1239 – 1240. Castelli che
la Corona gestiva personalmente proprio per la loro importanza militare.
Nel
1248 i Musulmani di Entella furono deportati e l’importanza del castello di
Calatamauro restò immutata. Con la decadenza degli Svevi il castello passò agli
Angioini e all’epoca del Vespro, nella guerra tra Aragonesi ed Angioini, fu un
obiettivo primario per i Palermitani ed i Corleonesi tanto da essere attaccato
e conquistato. Gli Angioini abbandonarono il sito a malincuore perchè perdevano
il controllo della zona compresa tra il
Palermitano e la costa meridionale dell’isola.
Nei
secoli successivi il castello fu di proprietà di diversi nobili, lungo un asse
ereditario che giunse fino ai Colonna.
A
quanto sembra il castello è attualmente proprietà del dott. Benedetto Colletti.
L’altura di
Calatamauro vista da Nord. A sinistra il pianoro con l’abitato
indigeno e la
traccia della relativa cinta muraria.
2, I Feudatari
Nel
periodo angioino, una pagina molto tormentata nella storia del Regno di Sicilia,
signore del castello di Calatamauro fu Guglielmo Porcellet.
Fu
investito del feudo nel 1270 – 71 da Carlo I D’Angiò (nel privilegio
d’investitura Calatamauro è erroneamente trascritto come “Calabuturi”) e “ fu fatto uscire sano e salvo dal castello
di Calatafimi come signore giusto e stimato”.
Stemma del casato Porcellet
L’11
ottobre 1299 Giacomo di Catania, figlio di Virgilio, ricevette da Roberto
D’Angiò i castelli di Calatamauro
e Bivona, rispettivamente dei militi filoaragonesi Guglielmo Galcerando
e Ugone Talach, ma il Catania non potè entrarne in possesso.
Simone
di Catania, fratello di Virgilio, fu attivo nel passaggio di Catania agli Angioini
nel 1299. Il 4 agosto 1300 gli furono assegnati da Carlo II d’Angiò i casali
disabitati “ab antiquo” Chanzeria,
Consene, Contimini e Racalginegi, tutti presso Caltagirone.
Stemma della
famiglia Catania
L’imperatore
Federico II nell’agosto del 1233 concesse
al notaio Alberto
de Catania il Casale Bulfida sito in territorio di Lentini, in precedenza
di “maestro
Anselmo, asbirgerius imperiale”.
Virgilio di
Catania (o di Scordia) nel 17 maggio 1287 risultava associato ai
maestri portolani
Ugo Talach e Federico Incisa. Possedeva il casale di Nissoria
e il casale Placa
(o Placabianca) posto nel territorio di Troina.
Nell’ottobre 1299
favorì il passaggio di Catania dagli Aragonesi agli Angioini per cui
Federico III
d’Aragona gli confiscò i beni. Roberto d’Angiò l’11 ottobre 1299 lo nominò
suo consigliere e
familiare e gli concesse il tenimento di Putirrana, tenuto da Matteo di
Termini;
il tenimento
Scorponionis e il Casale di Chifala (Cefalà),
il castello di
Thadar “ch’egli teneva tra i beni
dotali”;
i casali di Placabianca e Pisone in Val di
Castrogiovanni.
Il 29 dicembre 1300 altre concessioni con il
castello di Vicari ed il Casale di Ciminna che
era in potere del
filoaragonese Matteo Termini.
Il 9 gennaio 1300
altra concessione, questa volta alla moglie Margherita de Sanducia,
figlia del defunto
Michele de Sanducia, il Casale di Scordia.
Molti di questi
centri non entrarono mai in possesso reale del Catania perché
riconquistati dalle
forze aragonesi.
Il
28 dicembre 1299 altra investitura filoangioina sul castello di Calatamauro con
un diploma emesso da. Carlo II D’Angiò in cui si concedevano i “castelli di Calatafimi e Calatamauro al
filoangioino Pietro Sessa”.
Anche
il Sessa, come il precedente feudatario Catania, non potè prendere possesso dei
castelli perchè in mano a Federico III d’Aragona.
Stemma del Casato Sessa
“Sola fides sufficit”
(“Da solo è sufficiente”)
Dopo
il Vespri Siciliani del 30 marzo – 22 maggio 1282 e le continue azioni militari
tra gli Angioini, mai domi nel voler abbandonare la Sicilia, e le forze
Aragonesi , il castello di Calatamauro già nel 1284 era tornato sotto il
presidio aragonese di Federico III d’Aragona e risultava titolare del feudo
l’aragonese Guglielmo Galzarando Cartellà o Cartiliano
Stemma della
Famiglia Cartellà
(nello Stemma tre
Cartelle con le scritte:
“Ave Maria”; Gratia plena” e “Dominus tecum”)
Guglielmo
Galzarando de Cartilliano (o Cartellà) «nobilis
egregius vir dominus regis Aragonum consiliarius et familiaris,regni Sicilie
Mariscalcus, regius vicarius, et castrorum Sicilie provisor citra flumen
Salsum, necnon a Faro citra usque ad confinia terrarum sacrosante Romane
Ecclesie, sicut se consuevit scribere, capitaneus et vicarius generalis».
Il
Cartelliano era già in Sicilia nel
giugno del 1284 e ricopriva quelle cariche il 21.6.1285 quando firmò a
Catanzaro una tregua con Pietro Ruffo di Calabria, conte di Catanzaro.
Guglielmo
Galcerando Cartellà, possedeva in feudo Calatafimi,
Calatamauro, Calatabarberi,
Calatamet, Adragna, Comicho e Giuliana.
Più
volte il re aragonese Giacomo II scrisse al fratello Federico III d’Aragona in
merito a Guglielmo G. Cartellà.
Il
20 maggio 1292 gli ordinò di non richiedergli il servizio feudale “se non
vi fosse stata guerra in Sicilia” e
il 25 maggio 1293 lo stesso re autorizzò Federico III ad “accettare il ricorso del Cartellà sulla occupazione di terre nei
tenimenti di Calatafimi e di Adragna da parte di uomini di Corleone e dei
centri vicini”.
Il
sovrano, sempre dalla Spagna perché giunse in Sicilia solo per combattere
contro il fratello Federico III, ordinò il 29 settembre 1293 al giustiziere
della Val di Mazara di fare cessare i disordini nelle terre di Guglielmo
Galcerando Cartellano e l’1 dicembre 1293 confermò l’appalto biennale che il
Cartelliano aveva stipulato, con atto redatto a Gerunda in Spagna, a Pietro
Susteri e Francesco di San Felice ( Sant Feliu) “dei redditi e proventi di alcuni castelli luoghi e terre siciliani, che
aveva ottenuto in concessione dal re “sub certo servicio”: Caltafimi, Calatamauro, Calatabarberi, Caltamet, Adragna, Comicchio e Giuliana”.
L’1
luglio 1294 Giacomo II diede ancora una volta l’incarico a Federico III di “rendere giustizia a Guglielmo Galcerando
Cartellà avendo questi denunziato che gli uomini di Corleone si era impadroniti
del bosco di Caltamauro, che gli
uomini di Salemi di quota del territorio di Calatafimi, gli uomini di
Miserendino di porzione del territorio
di Calatamauro, e inoltre che il nobile Ruggero Loria aveva occupato di
bosco di Rosarno in Calabria, e che indebitamente il nobile Blasco Alagona
percepiva redditi che non gli spettavano in territorio di Tropea in Calabria”.
Il
30 luglio 1294 il Cartellà si trova alla Corte di Barcellona di re Giacomo e
risultava “ signore del bosco di
Calatamauro”.
Il
“dominus” Guglielmo Galcerando
Cartellà, quindi signore delle terre di Calatafimi, Calatamauro e Adragna, era vivente il 10 giugno 1303 e in data 29
novembre 1307 risultava deceduto lasciando come erede universale la figlia
Ermessenda, moglie di Ugone de Cabrencio.
Il
18 settembre Ermessenda Cartellà, vedova di Bernardo Hugonis di Cabrencio,
erede dei beni del padre confermò Arnaldo de Fornellis “suo procuratore e benemerito per i servizi resi al defunto Guglielmo
Galcerando … e agli eredi dello stesso Arnaldo, un tenimento di terre in
territorio di Caltamauro con mulino..di
cui si descrivono i confini… con l’obbligo del servizio militare di un milite
da prestare per due mesi all’anno”.
Nella
stipula dell’atto era presente il “dominus
miles” Raynaldo de Cartelliano.
A
distanza di due anni, il 20 agosto 1310, le terre feudali di Ermessenda erano
affidate al milite Corrado Calandrino di Sciacca (per la custodia e forse per
l’amministrazione) mentre il titoli di proprietà erano di pertinenza dei figli del “dominus” Bernardo Cartelliano e di Sibilla.
Il
“ dominus milites” Raynaldo (o Arnaldo) di Cartelliano era ancora castellano
del regio palazzo nel 1312, sposato con Giacoma Mayda, figlia di Nicolò, e
morto tra il 16 dicembre 1325 e il 28 settembre 1328. Il fratello, anche lui “dominus miles”, Bernardo Cartelliano,
nell’agosto del 1328 venne nominato erede della metà del patrimonio di Rainaldo
ma, a quanto sembra, non si presentò per conseguire l’eredità. Non si conoscono
i motivi di un simile comportamento.
L’uno settembre 1350 Federico d’Aragona,
figlio di Giovanni d’Aragona e di Cesarea,
possedeva Randazzo , Traina e Vizzini. Ebbe confermata la terra di
Cerami e i feudo di Longarini e Burgillusu. Morì a Catania l’1 luglio 1355
senza avere una discendenza e i suoi beni furono incamerati al regio fisco. Il
ducato di Atene e Neopatria passò al fratello
di re Ludovico, il piccolo Federico che successivamente salirà al trono
con il titolo di Federico IV (detto “Il Semplice”) (entrambi cugini di Federico
d’Aragona dato che i rispettivi padri erano fratelli), mentre alla sorella
Costanza fu assegnata la terra di Francavilla che alla sua morte fu aggregata
alla camera reginale) e all’altra sorella Eleonora, che già aveva ereditato
dalla madre Cesarea la Contea di Caltanissetta, toccò la Contea di Calatafimi
con Giuliana, Adragna, Sambuca, Calatamauro,
Contessa e Comicchio “rivendicati in
cambio della dote paterna mai recepita”.
Il
17 febbraio 1360 Federico IV
concesse il castello di Calatamauro a
Guglielmo Ventimiglia e il 1’8 marzo la concessione riguardò anche terra e i
Castelli di Contessa e di Giuliana.
Stemma Famiglia
Ventimiglia
Il
sovrano impose, con decreto del 3 luglio 1361, che venissero mantenuti i vecchi
confini fra la terra di Caltabellotta e
i casali di Comicchio, di Favara e di Giuliana.
I
Casali di Comicchio e di Favara appartenevano a Guglielmo Peralta mentre il
casale di Giuliana era di pertinenza a
Guglielmo Ventimiglia.
Era un periodo caratterizzato da frequenti concessioni regie.
La
terra e il castello di Chiusa risultavano occupate nel 1361 tanto che
Guglielmone Chiaramonte “occupò di
rivalsa” il feudo ed il fortilizio di San Bartolomeo che appartenevano a
Enrico Incisa. Il re Federico IV impose al Chiaramonte di riconsegnare il feudo
all’Incisa e di trattenere solo il fortilizio fino al recupero di Chiusa.
La
castellania e la capitania di Alcamo furono assegnate, sempre da Federico IV
nel 1361, a Guarniero Ventimiglia finchè “non
avesse recuperato le somme di denaro spese per la presa e la difesa del
castello che legalmente continuava a fare parte dei beni feudali di Guglielmone
Chiaramonte”.
Il
12 settembre 1366 a Guglielmo II Peralta ed ai suoi eredi veniva infeudata
sotto servizio militare «totam et integram quantitatem pecunie contingentem ad
solvendum … quolibet anno
ratione
subventionis … per universitatem … terrarum et locorum dicti nobilis», …”fra le
quali si annoveravano Caltanissetta, Sclafani, Ciminna, Chiusa, Cristia,
Castellammare e Alcamo”.
Il
16 settembre 1361 lo stesso Federico IV concesse a Gugliemo Peralta l’ufficio
di capitano di guerra della Terra di Sciacca con “cognizione delle cause criminali”.
Intorno
al 1364 Guglielmo II Peralta, che ricopriva la carica di Cancelliere che mantenne fino al 15 marzo 1393, sposò
Eleonora d’Aragona figlia del duca Giovanni e di Cesarea. Eleonora portò in
dote la città di Caltanissetta di cui aveva avuto la disponibilità all’inizio
del 1356 ed il contado di Calatafimi che in quegli anni non comprendeva Giuliana,
Calatamauro, Comicchio.
Dal
matrimonio nacquero: Nicola o Niccolò, Giovanni, Matteo, Margherita e un’altra
figlia di cui non si conosce il nome.
Il
26 maggio 1369 con atto del notaio Antonio Turano di Sciacca, Guglielmo Peralta
scambiò la sua Terra di Ciminna con Giuliana che era di proprietà di Guglielmo
Ventimiglia. Un atto che fu confermato da re Federico IV con privilegio del 10
novembre 1371.
Nel
1382 il castello doveva essere ancora efficiente e rivestiva ancora una sua
importanza militare. Infatti nel patto di alleanza tra le “Universitas” Palermo
e di Corleone fu riportato di “cooperare” fra l’altro alla distruzione del
castello di Calatamauri “ ad destruendum castrum Calatamauri”.
Nel
1391 cedette al figlio Nicola la Contea di Caltabellotta, con relativa
investitura nel novembre dello stesso anno, riservandosi il titolo di Conte di
Sclafani.
L’8
aprile 1392 ottenne l’investitura del feudo di Verdura che era tornato alla
Regia Cancelleria in seguito alla rivolta del suo feudatario Berlinghiero di
Anglona.
Il
Re di Sicilia, Martino I Il Giovane, il 22 agosto 1392, tenendo conto della “fidelitate prestante, prestita, nec minus sue persone pericula, labores et
sumptus multuplices que et quas
pro fidelitate
nostre illibate servanda ac etiam in nobis serviendo continuatis temporibus
contulit”,
assegnò a Guglielmo Peralta le terre di Burgimilluso (Comune di Melfi) e di
Burgetto (Comune di Burgio), la torre di Misilcassimo ed anche il feudo di San
Bartolomeo.
Lo
stesso re, sempre il 22 agosto 1392, concesse a Niccolò Peralta figlio di Guglielmo, la città di Mazara elevata a
marchesato, con tutti i suoi diritti e pertinenze. Una donazione che fu
confermata il 10 marzo 1393 con l’ordine
perentorio ai giurati di consegnare il
castello.
Il
23 agosto 1392 il sovrano gli confermò la terra di Caltafimi, con i suoi feudi
e casali, Giuliana, Comiccio, Calatamauro,
Adragna, contessa e Sambuca.
Lo
stesso Guglielmo Peralta infeudò alcuni suoi feudi a nobili con cui aveva dei
buoni rapporti d’amicizia: il feudo Verdura a Nicolò Buondelmonte in data
anteriore al 10 novembre 1394 giorno in cui il Buondelmonte ebbe riconfermato
dal conte Nicolò Peralta il feudo; il feudo Massaria di Pandolfina, che faceva
parte del feudo Adragna, al milite Giovanni Perollo di Sciacca che ne ricevette
conferma da Nicolò Peralta il 27 gennaio 1398:
Nell’aprile
1393 padre e figlio Peralta si ribellarono all’autorità Regia occupando
Castrogiovanni (Enna), Sutera e Monte San Giuliano. Il 12 maggio dello stesso
anno ricopriva nuovamente la carica di regio Cancelliere e il 25 giugno, sempre
del 1393, “protestava la sua fedeltà
contro alcune malevole insinuazioni”.
Nicola Peralta, “quando ancora non aveva 18 anni, il 26
marzo 1375 contrasse i capitoli matrimoniali con Margherita, figlia di Giacomo
de Aragona che molto verosimilmente non riuscì a sposare e dalla quale
certamente non ebbe figli”.
Il
29 ottobre 1388 sposò Elisabetta (Isabella) Chiaramonte, figlia di Manfredi
Chiaramonte, alle quale venne assegnata una dote di 3000 onze.. “in soddisfazione delle quali nel 1397 Nicola
Peralta ottenne l’investitura del castello di Bivona”.
“ E’incerto se
potè conseguire la signora di Malta e di Gozo che Manfredi Chiaramonte lasciò
per testamento dell’8 settembre 1390
alla figlia Isabella”.
Dopo
la morte del padre, avvenuta verso la fine del 1394, Nicola ritornò alla fede
regia nel febbraio del 1396. Il 12 febbraio 1396 il re accordò a Nicola la “remissione della fellonia” e “confermò a lui e ai suoi seguaci” i
feudi ereditari delle contee di Caltabellotta, Sclafani e Calatafimi ma non il
marchesato di Mazara.
(Abbo Barresi barone di Castelvetrano,
Calcerando Peralta, Giovanni Perollo milite, Roberto di lu Caravello
(Calvelli), Antonio di Tagliavia, Rogerio di la Lumia et Orlando e Andrea di lu
Cavaleri et Valori Lanza et barone di Santo Stefano eccepto castro Santo
Stefani, et Antonio Loria (deLauria), Nicola di Massaro jr milite, Nicola
Piccolo, Accurso di lo Presti milite e fratello di lui, e Tommaso di Michele, e
uomini e vassali delle terre luoghi e castelli loro).
Gli
accordò anche la castellania e la capitania di Sciacca, la potestà del “mero e
misto impero”, l’esenzione per tre anni dalle collette regie per tutti i
vassalli del conte. Il Peralta chiese al sovrano di avere come contrapartita
delle 3.000 onze, che gli erano state promesse da Manfredi Chiaramonte come
dote della figlia Elisabetta e mai ricevute, la terra ed il castello di Bivona.
Ma
il re prese il castello di Bivona, incamerandolo al regio Demanio,…” in sequestrum terram et castrum de Bisbona” e
dispose che “quicunque velit petere petat
si quod ius habet in dicto castro et faciat ei iustitie complimentum»
Occupò
molte città e terre per poi riconciliarsi, nuovamente, con il re nel 1397.
Nuova
concessione reale a Nicola Peralta il 12 gennaio 1397 il privilegio del “mero e misto impero” non solo nella
Contea di Caltabellotta ma anche in tutti i luoghi e le “terre da esso posseduti”. Alle fine gli infeudò anche la terra e
il castello di Bivona dopo la rivolta di Pietro Montecateno che ne era stato
signore.
Lo
stesso re gli assegnò i feudi Lazarino (Azarino), Rachalmaymuni e lu Cheuzu,
..”malgrado le pretese di Giovanni
Montalto, barone di Buccheri”.
Il
feudo Carbo di San Bartolomeo che nel 1392 era stato concesso a Guglielmo
Peralta, successivamente confiscato perché teatro di una rivolta, nel 1398 finì
in potere di Nicola Peralta che nello stesso anno lo vendette per 2000 fiorini
a Giovanni Perollo con reale conferma del 23 novembre 1398.
In
merito al castello di Calatamauro, che
era stato confiscato ai Peralta in seguito alla loro ribellione, grazie
all’intercessione di Eleonora d’Aragona, fu assegnato con privilegio reale del
28 febbraio 1398 ai figli minorenni di
Nicolò Peralta, figlio di Giovanni (Fratello di Nicola) (Scaturro 1924).
Nicola
Peralta nel suo testamento del 16 ottobre 1398, che precedette di qualche
giorno la sua morte, lasciò come erede universale e burgensatici la figlia
primogenita Giovanna.
In
caso di sua morte senza figli legittimi sarebbe dovuta succedere al patrimonio
di famiglia la secondogenita Margherita ed eventualmente, in caso di morte
anche lei senza figli legittimi, la terzogenita Costanza.
Agli
eredi particolari legò 2000 onze come dote per ciascuna delle figlie ultragenite, Margherita e Costanza,
che avrebbero avuto come tutrice e balia la nonna, cioè Eleonora d’Aragona; la
terra ed il castello di Caltanissetta e la terra e il castello di Sambuca a
Eleonora d’Aragona; la terra di Chiusa a
Nicola Peralta, figlio del fratello Giovanni, confermando il legato fatto dal
loro genitore Guglielmo; i castelli e
i territori dei due Burgio, e cioè Burgio Milluso e Burgio “domini
Ridolfi”(l’attale Burgio in prov. di Agrigento) a Matteo Peralta, altro figlio
di Giovanni; il feudo di San Bartolomeo sito in territorio di Sciacca al
magnifico Giovanni Perollo in compenso delle 400 onze che gli doveva e per cui
teneva in pegno Castellammare del Golfo con suo territorio; il feudo Martusia
Nova sito in territorio di Caltabellotta al nobile Nicola Amato in perpetuo; i
redditi e i proventi della terra di Bivona alla moglie contessa Elisabetta,
finchè fosse vissuta in vedovanza, da commutare in un legato di 1000 onze in
caso di seconde nozze, nel qual caso avrebbe perduto tutti i diritti su quella
terra……”.
Non
si fa menzione del castello di Calatamauro che probabilmente era di pertinenza
della primogenita Giovanna.
Peri
Bono Calandrino nel suo testamento del 26 novembre 1404 nominò erede universale
il cugino Guglielmo de Graciano e dispose di “edificare nella Chiesa di Santa Maria del Bosco di Calatamauro una
cappella intitolata a San Nicola, ove intendeva essere seppellito e…. nella
stessa tomba venissero trasferite le ossa del padre, che era sepolto nel
Patellaro, e di un suo fratello, sepolto nel castello di Calatamauro”.
Come
mai il Calandrino si trovava sepolto nel
1404 nel castello di Calatamauro ?
Dalle
ricerche non risulta che la famiglia
Calandrino abbia avuto in concessione il feudo di Calatamauro.
Una spiegazione possibile potrebbe essere legata all’esistenza nel castello di
Calatamauro di una cappella ed è probabile che il fratello di Peri Bono
Calandrino vi sia stato sepolto.
Un’altra
ipotesi potrebbe essere legata alla
fedeltà del “milite” nei confronti della famiglia De Luna. Martino I (il
Giovane), re di Sicilia era figlio di Martino Il Vecchio, re d’Aragona, e della
sua prima moglie Maria De Luna, figlia del Conte Lope de Luna (Conte di Luna e
Signore di Segorbe) e di Brianda d’Agaout.
Nel famoso caso Sciacca, che vide lo scontro tra i Perollo e i De Luna,
un esponente della famiglia Calandrino, Calandrino, che uccise il Conte Giacomo
Perollo.
Un
contrasto tra le due famiglie che risaliva al 1400 e che si concluderà solo nel
1530.
Una
fedeltà della famiglia Calandrino nei confronti dei De Luna e quindi di re
Martino che consentì la sepoltura del milite nel castello e forse su ordine dello
stesso re Martino I.
La
famiglia Calandrino era da tempo presente nel territorio della Val di Mazara.
Il
2 settembre 1313 il nobile domino milite Corrado Calandrino risultava
incaricato dalla Regia Curia di “imporre,
tassare e raccogliere la sovvenzione regia in Val di Mazara”.
Nel
1520 Alfonso de Cardona, marchese di Giuliana e Barone di Calatamauro, accordò
dei capitoli, rivolti ai profughi albanesi che volevano ripopolare il Casale di
Contessa, che furono trascritti dal notaio Florena di Chiusa in cui si legge:
”Item devono detti
abitatori pagar le decime del frumento posto alle fosse di Don Giovanni di
Calatamauro. Item devono portar le legna secondo si costuma nella terra di Chiusa
poste nel Castello di Calatamauro, essendovi Castellano.”
Folch de Cordona
(Cordona o Incardona in Sicilia)
Era una famiglia
nobile spagnola di origine Catalana e
seconda per
importanza dopo la famiglia reale d’Aragona
La famiglia
Cardona (Incardona secondo la terminologia siciliana dei cognomi
spagnoli) arrivò
in Sicilia nel 1282 con Ramon de Cardona y Empuries, figlio
del visconte
Raimondo V, quando gli Aragonesi conquistarono la Sicilia.
Federico, figlio
di Ramon, ebbe il feudo di Mazzarrone e suo nipote, Federico, si
ribellò a Re
Martino e gli furono confiscati i feudi tra cui quello di Mazzarrone.
Giacomo Cardona,
fratello del ribelle Federico, grazie al matrimonio con
Betta Cardona( ?)
acquisì il feudo di Ramione che rimase al casato fino al XV secolo.
La famiglia fece
un nuovo passaggio in Sicilia con Antonio de Cardona,
barone di
Giuliana. Era figlio terzogenito del conte Hugo Folch de Cardona e di
Beatriz de Luna,
fu nominato vicerè di Sicilia, dal 1416 al 1420, e
Consigliere del re
(Alfonso I “Il Magnanimo”)
-------------
I suoi discendenti
rimasero in Sicilia e si divisero in vari rami tra cui
quelli di
Collesano (o Golisano) e di Reggio.
Il ramo dei Conti
di Collesano possedeva Caronia, Petralia Sottana e Soprana,
il feudo di Bilici
e la baronia di Naso (nei Nebrodi).
Avevano anche in
Campania il marchesato di Padula e la contea di
Avellino e
Buonabitacolo.
I conti di Reggio
possedevano in Sicilia la contea di Chiusa, Burgio e
Calatamauro (per eredità di casa Peralta) ed il
Marchesato di Giuliana.
Nella famiglia
Cardona molti esponenti ricoprirono importanti cariche politiche:
Vicerè, Presidenti
del Regno di Sicilia e anche Arcivescovi.
Due rami sono oggi
presenti in Sicilia: I Cardona di Siracusa e il ramo dei
Cardona di Alvito
presenti ad Alcamo e Palermo.
I titoli di
quest’ultimo ramo confluirono nel casato dei Romano Colonna di
Resuttano. Questo
ramo vive oggi in Sardegna, tra Alghero e Cagliari, e a Roma mentre il ramo di
Siracusa si è sviluppato a Viterbo.
I Cardona furono
anche signori di Atessa in Abruzzo.
“Un Enrico fu arcivescovo di Monreale nel 1512 e
cardinal di S. Romana Chiesa,
del titolo di S. Marcello. Un Raimondo, conte
d’Albeto, capitan generale delle forze
di terra e di mare di tutti i dominii dell’imperatore
Carlo V, vicerè, luogotenente,
capitan generale e grande ammiraglio del regno di
Napoli,
maestro giustiziere del regno di Sicilia, con
privilegio dato a 24 aprile
esecutoriato a 15 giugno 1521 ottenne la concessione
della città di Mazzara,
con il mero e misto impero e piena giurisdizione.
Possedette pure questa famiglia
i feudi di Alzacuda, Camemi, Casalgiordano, Castellar,
Landro,
Margi, Mannarino, Motalliga, Vanella, Zaffuti, ecc”.
Come
mai il feudo di Calatamauro passò dal casato dei Peralta a quello dei Cardona ?
Alonso Folch de
Cardona y Vilena Y Conte di Reggio Calabria (?; 1452), figlio di Antonio Folch
de Cordona e di Leonor d’Aragona) aveva sposato Caterina di Peralta (1420 ? –
1518 ?) , baronessa di Chiusa; Signora delle “Terre di Burgio” , di Contessa e
di Trappeto, figlia di Giovanni Peralta e di Costanza Chiaramonte Ventimiglia.
Alonso
(o Alfonso come riportano altri testi)
era conte di Reggio per privilegio emesso dal re Alfonso il 17 novembre 1439.
Dal
matrimonio nacque Antonio de Cardona ( ?: 1518), barone di Chiusa, che sposò
Juana De Luna y Peralta.
Il
figlio Alfonso De Cardona (1480; 5
aprile 1547) sposò Beatrice Isabella Branciforte, figlia di Niccolò Melchiorre Branciforte, I
conte di Mazzarino, e di Belladama d’Alagona e Gaetani, baronessa di Tavi
(Leonforte) e di Bauli.
Alfonso
era Conte di Reggio, Barone di Alzacuda e di Gallitano; Signore delle “Terre di
Burgio”, di Contessa, di Trappeto e di Ursitto.
Dal
matrimonio:
-
Caterina
de Cardona, Marchesa di Giuliana, Contessa di Chiusa, ecc.
-
Pere
de Cardona, Signore di Mazzara;
-
Antonio
de Cardona;
-
Eleonor
de Cardona
Con
Alfonso la baronia di Chiusa fu elevata a Contea con privilegio del 3 novembre
1535 esecutoriato il 18 marzo 1536: Burgio e Giuliana furono elevato a
marchesato, sempre in favore del suddetto Alfonso, con privilegio dell’11
agosto reso esecutorio il 6 settembre
1543.
Caterina de
Cardona
sposò Lorenzo Gioeni II, figlio di Gian Tommaso I Gioeni e di Donna Leonora
Gioeni,
da cui nacquero Giovanni, Tommaso, Girolama e Betarice, tutti de Gioeni e de
Cardona.
Tomaso
(Tommaso) Gioeni II (Palermo, 10 gennaio 1545; ?), tra i titoli anche primo
principe di Castiglione (reso esecutivo il 20 giugno 1602), prese come moglie
Susanna Beccadelli di Bologna da cui i figli: Giuseppe Gioeni (Marchese di
Giuliana); Lorenzo III Gioeni e Cardona, Principe di Castiglione; Diana,
Caterina e Emilia (Gioeni).
Lorenzo
III Gioeni e Cardona, Principe di Castglione (Palermo, 1574; Palermo, 11
dicembre 1641)
sposò
Antonia d’Averna, Baronessa di Santa Caterina in Calabria, figlia di Francesco
e di Isabella Saccano. dai cui i figli:
-
Isabella
Gioeni, Principessa di Castiglione;
-
Tomaso
Gioeni III
I
titoli di Lorenzo III Gioeni e de Cardona:
-
Signoria
di Aidone con investitura del 19 gennaio 1614 e 19 aprile 1622 (morte di
Filippo III e successione al trono di Filippo IV);
-
Baronia
di Burgio, Contessa, Noara, Aidone, feudo di Calatamauro, con i feudi in essi
esistenti, con investitura del 18
aprile 1622 (R.C., registro 1138, f. 271)
-
Marchese
di Giuliana con investitura del 5 luglio 1602 per donazione da parte del padre
Tommaso. Si reinvestì il 19 aprile 1622 per il passaggio della Corona.
-
Fu
vicario del vicerè e strategoto di Messina nel 1616.
-
Barone
di Belmontino Inferiore, un feudo che faceva parte della “Baronia e Terra” di
Aidone. Il feudo era diviso in due sezioni: Belmontino Inferiore e Belmontino
Superiore;
-
Signore
delle Terre di Burgio, Contessa e Trappeto, con investitura del 19 gennaio 1614
e 19 aprile 1622(c.s.);
-
Barone
di Butti e Mangaliviti. I due feudi e quelli di “Gattaino e Triarì” siti a
Floresta-Randazzo, appartenevano a Vincenzo Sant’Angelo e alla sua morte
passarono al nipote Francesco sant’Angelo che ne ricevette l’investitura il 12
dicembre 1555. Francesco sant’Angelo
vendette i feudi Botti, Mangaliviti e Triarì a
Mariano Averna che ottenne la relativa investitura il 27 gennaio 1558.
Quando mariano Averna morì, gli successe il figlio Don Francesco Averna con
investitura del 25 gennaio 1573 solo per i feudi Butti e Mangaliviti, Triarì.
Don Lorenzio Gioeni, “nel nome maritale
di Donna Antonia de Averna e Saccano” s’investì dei tre feudi per la morte
del suocero Don Francesco il 20 ottobre 1600 e successivamente il 10 aprile
1622 (c.s.).
-
Barone
di San Bartolomeo già feudo di Fessima con fortilizio di Pietratagliata. Donna
Giovanna Orteca Gioeni in Lanza, principessa di Trabia, li cedette a Lorenzio
Gioeni e Bologna, principe di Castiglione. Questi a sua volta li rinunziò a
favore di Isabella Gioeni a Averna, sua figlia, moglie di Marco Antonio Colonna.
“Tanto il Gioeni quanto il Colonna non
presero investitura”.
-
Principe
di Castiglione con investitura del 19 gennaio 1614, come primogenito per la
morte del padre Tommaso e reinvestito il 19 aprile 1622 (c.s.);
-
Contea
di Chiusa; Lorenzo Gioeni fu investito della Contea di Chiusa, con il suo mero
e misto impero, per donazione fattagli dal padre per la morte di Don Giuseppe
(fratello di Lorenzo) Fu reinvestito il 9 agosto 1600 e il 19 aprile 1622
(c.s.):
Isabella Gioeni,
Principessa di Castiglione
Ritratto di Isabella Gioeni (Averna, Cardona), Principessa di Castiglione,
con il figlio Lorenzo Onofio.
Dipinto di Novelli Pietro (Il Monrealese)(1603/1647)
Tela: (222 x 147) cm – Data: 1641
Galleria Colonna Roma
Isabella Gioeni (Averna, Cardona) (Palermo, 9
settembre 1603; Roma, 21 gennaio 1655), sposò Marcantonio V Colonna, VI
principe di Palliano, (Roma, 1606; Roma 24 gennaio 1659), figlio di Filippo I
Colonna, IV Principe di Palliano, e di Lucrezia Tomacelli.
Dal matrimonio:
-
Anna Colonna;
-
Lorenzo Onofrio Colonna, VII principe di Palliano;
-
Filippo Colonna, principe di Sonnino;
-
Lucrezia Colonna;
Donna Isabella Gioeni e il marito Don Marcoantonio
Colonna s’investirono il 7 maggio 1641 del Principato di Castiglione; delle
Baronie e Terre di: Burgio, Contessa, Noara, Aidone e Feudo di Calatamauro; della Signoria di Aidone;
del marchesato di Giuliano; Contea della Chiusa.
Donna Isabella morì a Roma il 12 gennaio 1655 e fu
sepolta nella Chiesa dei Santi Apostoli.
I Colonna mantennero il feudo fino alla fine del XVIII
secolo anche se il loro ramo era confluito nella famiglia Rospigliosi.
Il 13 febbraio 1803 a Roma, Giulio Cesare Rospigliosi
( Roma, 16 novembre 1781; Roma, 9 Aprile 1859), 6° principe del S.R.I. e 6° Duca di Zagarolo dal
1833, Nobile Romano Coscritto dal 17 gennaio 1854, Patrizio veneto, Patrizio
Genovese e Patrizio di Pistoia, figlio di Giuseppe Rospigliosi, Principe Rospigliosi e Duca di Zagarolo, e di
Ottavia Odelaschi, sposò Donna Margherita
Colonna Gioeni, (Roma, 13 febbraio 1786; Roma, 1 settembre 1864),
principessa di Castiglione, Marchesa di Giuliana, Contessa di Chiusa, Baronessa
della Miraglia e Valcorrente, Signora di Aidone, Burgio, Contessa e Trappeto
dal 1818 (titoli riconosciuti nel Regno delle Due Sicilie con Regio Rescritto
del 22 marzo 1819, figlia di Don Filippo III Giuseppe Colonna, 3° e Duca di
Palliano, e di Caterina di Savoia-Carignano (Principessa di Savoia Carignano).
Don Giulio prese i titoli dei feudi “maritali nomine”
del 1819 e i suoi discendenti assunsero il cognome Rospigliosi Gioeni.
Stemma della Famiglia Rospigliosi
Nel “Nobiliario Siciliano” è riportata come famiglia originaria di Pistoia
e
che “godette nobiltà in detta città,
in Venezia, in Genova, in Roma… diede
alla chiesa un papa, Clemente
IX, fu decorata del titolo di
principe del Sacro Romano
Impero”.
Dal matrimonio nacque l’unico figlio, Clemente Rospigliosi Gioeni (1823 –
1897) che il 5 ottobre 1846 sposò a Roma Francoise Fanny de Nompère de
Champagny, figlia di Louis Alix, Conte di Champagny e 2° Duca di Cadore, e di
Caroline Elisabeth (1825-1899)
I titoli di Don Clemente: 7° principe del S.R.I. e 7°
duca di Zagarolo, Principe di Castiglione, marchese di Giuliana, Conte di
Chiusa, Barone della Miraglia e di Valcorrente, Signore di Aidone, Burgio,
Contessa e Trappeto dal 1864; Gran Maestro della Corte del Granduca di Toscana
Ferdinando IV; Nobile Romano Coscritto, Patrizio Veneto, Patrizio Genovese e
Patrizio di Pistoia.
Dal matrimonio nacque Giuseppe Francesco Maria Filippo Rospigliosi Gioeni (Roma, 25
ottobre 1848 – Stresa (Hotel delle Isole Borromee), 21 settembre 1913).
I Titoli di Don Giuseppe:
Il 26 agosto 1901, nel castello di Lamporecchio, sposò
Maria Red, vedova Padkurst (Washington o New Orleans, 15 maggio 1870; ?, 16 agosto 1930).
Castello Lamporecchio (Pistoia) – Villa Rospigliosi
La Cappella di Villa Rospigliosi
Nell’elenco delle famiglie Nobili e titolate di
Sicilia, risalente al 1902, Don Giuseppe
è iscritto con i seguenti titoli:
Principe di Castiglione, Marchese di Giuliana, Conte di Chiusa, Barone
di Valcorrente e della Miraglia; Signore di Aidone, Signore delle terre di
Burgio, Contessa e Trappeto; nonché con i titoli Romani e di patrizio. Era come
i suoi predecessori Barone di Calatamauro,
ma non chiese il riconoscimento di questo titolo.
Dal matrimonio:
-
Francesca Maria Carlotta Rospigliosi Gioeni (1902 –
1920 circa);
-
Girolamo Giuseppe Giovanni Maria Giulio Clemente Francesco Rospigliosi
Gioeni
Don Girolamo (Roma, 27 agosto 1907; Marshall’s Creek,
Pennsylvania, 28 settembre 1959) sposò il 27 novembre 1931, a Maccarese (Roma),
Marian Adair Dresser Snowden (Indianapolis, 22 aprile 1912, ?) da cui divorziò
nel ?
Il 17 giugno 1945 nuovo matrimonio, a Palm Springs (Palm
Beach County) Florida – Usa, con Jenny Elizabeth Angell (Bergen, 23 novembre 1907
– ?, 1985).
I titoli di Don Girolamo: 9° Principe del S.R.I.,
Principe di Castiglione; 9° Duca di Zagarolo, Marchese di Giuliana, Conte di
Chiusa, Barone della Miraglia e di Valcorrente, Signore di Aidone, Bugio, Contessa
e Trappeto dal 1913; ecc.
Dalla famiglia Colonna Rospigliosi il feudo di
Calatamauro passò alla famiglia Caminneci e Mulè.
Un passaggio di proprietà che non sono riuscito ad individuare
con precisione e cioè se legato a qualche matrimonio o a un atto di vendita.
Dalla famiglia Camminneci Mulè il feudo passò a Chiara
Mulè Sammartino che nel 1922 vendette il feudo ad Antonio Riggio di Contessa
con atto notarile del 4 dicembre.
Sono riuscito, non senza difficoltà, a fare luce sulla
genealogia di Chiara Mulè.
Chiara Mulè, nata a Palermo il 14 novembre 1868 e di
cui non si conosce il luogo e la data della sua morte, era figlia di Nicolò
Filippo Mulè (Palermo, 2 ottobre 1835,
Palermo, 9 ottobre 1868) e di Maria Anna San Martino Ramondetta (1847, ?),
matrimonio celebrato a Palermo l’8 febbraio 1868.
Il 3 dicembre 1885 sposò a Palermo Arcangelo Alù
(nato a Palermo il 30 gennaio 1864 e di cui non si conosce la
data e il luogo di morte), figlio di Arcangelo Alù (1840 circa; ?) e di Grazia
Baglio (1840 circa; ?). Dal matrimonio nacquero nove figli.
Il padre di Chiara Mulè, Nicolò Filippo Mulè, era
figlio di Giovanni Mulè (1810; ?) e di Chiara Caminneci (Palermo,1810 circa;
?), figlia di Giuseppe Caminneci
(1790 circa; ?) e di Teresa Scherciora (1790 circa; ?).
Chiara
Mulè tenne quindi i due cognomi legati al padre (Mulè) ed alla madre
(Sammartino).
Stemma della
famiglia Mulè (?)
“Non si sa se questa famiglia discenda dalla
famiglia Molè o Molì.
Un mauro Mulè e Coiro tenne la carica di
proconservatore in Chiaramonte
nel 1694;… barone diSuttafari e … investitura del
feudo di Balatazza”
Moli (Li) o Molè.
Godette nobiltà in Messina nei secoli XIV
e XV. Un Ludovico acquistò i feudi di
Cefalì e Canicarao nel finire del secolo XVI; un
Nicolò Molè fu senatore
di Palermo nel 1326-27; un Giovanni fu Luca possedette
i feudi di Torretta e di Serravalle;
un Caludio li Moli e Xirotta fu proconservatore in
Mineo nel 1655 e
detta carica tenne nel 1660 un dottor Ignazio
Alcuni vogliono che questa famiglia sia originaria
dalla Catalogna, altri invece
che sia originaria dalla Guascogna e che abbia avuto a
capostipite un Raimondo, signore di Miger e Toupers,
il quale
dall’imperatore Federico II, in memoria degli atti di
eroismo compiuti
in Terrasanta, ottenne il privilegio di alzare nelle
proprie armi l’aquila imperiale
che tiene lo stendardo con le armi gerosolimitane .
La famiglia Sammartino pare che sia stata portata, in
Sicilia,
da un Guglielmo, ai tempi di re Pietro.
Possedette il principato di Pardo, le ducee di
Fabrica, Montalbo, San Martino,
le baronie di Campobello, Gimia, Gisira, Morbano,
Priolo, Tuzia…..
Nel
1923 nel territorio di Contessa Entellina esistevano solo 5 chilometri di
strada rotabile….. il tratto andava dal centro abitato alla stazione
ferroviaria. Una situazione paradossale….. per il trasporto di cose e persone, nel vasto
territorio si svolgeva a dorso di mulo e soprattutto lungo sentieri e trazzere
difficili da percorrere.
Nel 1955 con atto notarile del 9 febbraio Antonino Riggio vendette il castello di
Calatamauro a Colletti Giuseppe di
Contessa Entellina ed oggi il vecchio fortilizio è di proprietà del
dott. Benedetto Colletti…….
Il
castello fu citato in una lettera che Francois Sabatier, critico d’arte e
traduttore, (1818-1891) scrisse a Michele Amari (1805 – 1889), in parte pubblicata
da Giuseppe Nenci. Scrisse Sabatier: “Da
Corleone andai a Contessa e di là a Calatamauro che n’è distante 2 miglia sole.
La fortezza s’innalza sopra una montagna ertissima, in forma di pane di
zucchero e quasi inaccessibile da tutte le parti….Fra le due torri e dopo la
seconda …è un’antica porta. Il proprietario del luogo, il barone Mulè mi disse
esserne state delle altre, forse esistevano dove mancano le mura”.
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3. STRUTTURA
Calatamauro.
Pianta dell’altura con in nero le strutture messe in luce.
L’altura di
Calatamauro vista da NordOvest. Si noti la roccia stratificata e regolarmente
inclinata, e le
terrazze create a monte dei diversi muri di cinta del castello.
Il
castello era composto da due muri di cinta: le mura esterne (1,10 metri di
spessore) sul lato nord, che sbarravano 1'accesso e le mura interne (1,50 metri
di spessore) che circondavano la parte sommitale del sito.
Nel
2006 iniziarono le prospezioni archeologiche sotto la direzione della Scuola
Normale Superiore di Pisa e della
Soprintendenza Archeologica di Palermo. Le indagini hanno messo in luce
l’intero percorso della cinta muraria inferiore che difendeva il complesso sul
versante Nord, Nord-Ovest e Nord-Est. Tale cinta, costituita da un muro spesso
fino a 1,80 metri circa, risulta rinforzata da 6 torri quadrangolari. E’ stato
individuato un tratto dell’antico sentiero che costeggiando parte delle fortificazioni
arrivava alla porta d’accesso all’area del castello.
Nell’area
più orientale del complesso edilizio è stata rilevante la scoperta di una
grande cisterna che costituiva l’approvvigionamento idrico di questo primo
livello di difesa. Chiude la fortificazione sul lato Est della terrazza una
Torre, importante punto di avvistamento sull’accesso nonché sul lato Est, sul
versante Nord-Est e Sud-Est. Procedendo dalla porta d’accesso verso Ovest
seguendo il filo interno del muro di fortificazione della cinta esterna, sono
state messe in luce due sepolture. Si tratta di due fosse terragne rivestite da
lastrine, di una fase probabilmente tarda dato che utilizzano come limite Nord
proprio il muro di cinta. Le sepolture sono in decubito dorsale, orientate con
il cranio ad Ovest e gli arti inferiori ad Est, entrambe infantili, una
probabilmente di neonato.
La
grande cisterna monumentale, da sempre visibile a chi si avventurava fino alla
cima di Calatamauro, è un grande ambiente rettangolare voltato con arco a sesto
acuto impiantato su due pilastri posti a metà dei due lati lunghi Nord e Sud.
All’estremità Ovest del lato Sud un piccolo vano quadrangolare costituisce la
canna del pozzo di attingimento che si apre sulla terrazza superiore nel
cortile della zona residenziale del castello. L’interno della cisterna e il
pavimento sono rivestiti da spessa malta idraulica, così come il bancone che
corre addossato all’intero lato lungo Nord. Dalla porta di accesso si entrava
in un cortile pavimentato in acciottolato e roccia regolarizzata, di forma
rettangolare, a Nord e Sud del quale si aprono diversi ambienti.
Per
quanto riguarda il resto della terrazza superiore si segnala un poderoso
torrione rettangolare posto nell’angolo Sud-Ovest dell’area. Si accedeva alla
torre salendo una scala ad ampi gradoni intagliata nella roccia. Proviene dal
castello di Calatamauro il celebre mosaico bizantino di Madonna con bambino del
VII secolo d.C. custodito nella Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di
Palermo ?
a) L’EDIFICIO SUPERIORE
L’edificio
presenta una lunga cortina sul lato nord ed una breve sul lato est con una
porta accesso tra due massicci torrioni squadrati. Le cortine, sul lato ovest e
lato sud, sono in gran parte crollati.
Le
cortine sono messe in opera con pietre disposte lungo i filari, distanti tra
loro circa 50 cm, e legate con malta di calce abbondante e sabbiosa.
Il
maggiore alzato, che poggia direttamente sulla roccia, si presenta
all’estremità occidentale della cortina Nord dove sono visibili una finestra ed
un’apertura per lo scarico delle acque.
(USM – Unità
Stratigrafiche Murarie)
L’angolo
nord-orientale dell’edificio presenta un imponente cisterna rettangolare.
La
cisterna fu trovata casualmente nel 1938 grazie a dei pastori che pascolavano
il proprio gregge tra i ruderi del castello……. Trovarono un buco scavato nella
spessissima parte del lato Nord, vi
entrarono e scoprirono la grande cisterna.
La
struttura ha una pianta rettangolare (10,50 x 6 )m ed una copertura con volta a
sesto acuto e con un arco mediano in conci di pietra regolari di calcarenite
(USM 10123).
Sezione della
Cisterna
L’arco
secondo le indagini era forse funzionale alla messa in opera della centina ed è
strutturalmente staccato dalla volta a botte che è auto portante. Un pozzetto
quadrangolare posto presso l’angolo sud occidentale della cisterna /0,70 x
0,85) m permetteva non solo il prelievo dell’acqua ma l’acceso alla stessa
cisterna dal cortile superiore. Nella roccia sono infatti visibili, nelle
pareti occidentale ed orientale, le pedate della piccola scala. Presso il muro
occidentale della cisterna si aprono nella volta strette cavità per l’adduzione
dell’acqua piovana infatti, sul corrispondente livello superiore del cortile,
furono trovati resti di tubazioni fittili.
L’ingresso
all’area è arretrato rispetto ai due poderosi contrafforti (USM 10009 e USM
10056), di cui solo quello settentrionale è discretamente conservato, e
probabilmente erano uniti da un arco.
Un
percorso d’accesso che si snodava lungo
la cresta del rilevo partendo dalla Torre Est. Un sentiero che ancora oggi è in
parte visibile perché scavato nella roccia e presenta una ripida rampa, di cui
restano piccoli intagli nella roccia,
proveniente dal pianoro all’interno della cinta esterna.
Un
acciottolato, che aveva anche la funzione di regolarizzare le emergenze
rocciose, conduce quindi all’ingresso, della larghezza di 1,80 m, del cortile
dell’edificio che è disposto in direzione Est-Ovest.
Sulla
sinistra si trovano una serie di ambiente (1 – 6) che non presentano un grande
aspetto architettonico.
Sono
edifici scavati nella roccia e con muri, mal conservati, messi in opera con
pietrame irregolare, quindi non molto accurato, e legato con semplice terra.
Questi
ambienti non presentavano elevazioni e coperti con coppi vacuolati di cui sono
emersi reperti tra il materiale di crollo. Negli ambienti n. 5 e 6 sono presenti piccoli residui di quello che
doveva essere il pavimento di cocciopesto. Questi locali, i cui muri
perimetrali sono andati perduti, comunicavano con il cortile attraverso una
breve scala ricavata nella roccia (USM 10065) e sul lato Ovest attraverso una
porta che è stata messa in luce solo per metà.
A
che cosa erano adibiti questi ambienti ?
La
risposta non è facile anche se le indagini archeologiche possono in qualche
modo indirizzare per una risposta plausibile.
Furono
trovati scorie ferrose, probabilmente pertinenti ad una fucina, carboni e resti
di manufatti in metallo. I rinvenimenti di manufatti in metallo furono maggiori
nell’ambiente n. 2. Si trattava quindi di officine che operavano nell’ambito di
vita del castello.
Furono
anche trovate delle pietre oblunghe appoggiate al muro perimetrale Nord
dell’ambiente n. 2.
Pietre
ben disposte come se da un momento all’altro dovevano essere riutilizzate per
qualche scopo.
Più
complesso è l’edificio che occupa il lato settentrionale del pianoro che alcuni
storici hanno definito come il “mastio” del castello. Una struttura che presenta
dei vani seminterrati come la grande cisterna posta nell’angolo Nord-Est.
Ambienti che a quanto sembra furono colmati per creare nuove fasi di vita.
Importante
doveva essere l’ambiente sopra la cisterna che in inizio doveva essere unitario
per poi essere diviso in due ambienti ( 7 – 8).
Un
ambienti importante anche per i suoi aspetti costruttivi per certi versi anche
accurati.
È
presente una struttura muraria solida con murature di notevole spessore e con
abbondante uso di malta di calce. Sono presenti anche due pilastri (USM 10073 e
USM 10074, evidenziati in rosso) addossati l’uno all’altro a metà dei lati
lunghi e con base dalla semplice modanatura. Erano probabilmente destinati a
sorreggere un arco simile a quello posto dentro la cisterna.
Il
pavimento era in basole di pietra accuratamente messe in opera e forse coperte
da un piano di cocciopesto di cui sono presenti dei piccoli residui
nell’ambiente 8.
Le
aperture erano rifinite con conci in calcarenite sia per quella che immetteva
nel cortile, a est del pozzo, sia quella, successivamente chiusa, che
permetteva l’ingresso all’ambiente n. 9.
Questi
aspetti di ricercatezza costruttiva ha proposto degli interrogativi da parte
degli archeologi. Ipotesi legata agli ambienti che erano destinati a cappella.
Una cappella presente in ogni castello e
che spesso si trovava ubicata proprio sopra le cisterne.
I
vistosi segni di ristrutturazione sono
legati alla suddivisione dell’unico ambiente mediante un muro ( USM 10060 e USM
10134) che corre tra i due pilastri. Uno spesso strato di macerie, molto
compatto, trovato dentro l’ambiente 7 e forse da interpretare come creazione di
un piano di calpestio rialzato, ha permesso di conservare in buono stato il
sottostante piano di calpestio in cocciopesto.
Posteriore
è invece la struttura muraria (USM10061), addossata al muro divisorio e al
pilastro Nord, di cui non si sa la funzione.
Il
rinvenimento di cinque palle di catapulta in pietra locale ben sbozzata,
disposte in maniera ordinata lungo il muro divisorio, potrebbe far pensare ad una destinazione d’uso militare come
piattaforma di una macchina da guerra.
Durante
gli scavi furono trovati, negli angoli NordOvest e SudOvest due conduttore in
tubi di terracotta, simili a quelli trovati nel palazzo fortificato di Entella,
che raccoglievano le acque del tetto per riversarle nella cisterna sottostante.
Un'altra
conduttura, di diametro minore, con tubi di terracotta di diversa forma, era
interrata in una struttura addossata allo spigolo esterno Sud Ovest
dell’ambiente n. 8. Naturalmente anch’essa scaricava le acque piovane degli
edifici adiacenti nella cisterna mediante il pozzetto di attingimento.
Edificio Superiore
– Ambienti n. 7 e n. 8, sopra la
cisterna
Si notano i due
pilastri e il muro divisorio posteriore
Edificio Superiore
– Ambienti n. 7 e n. 8.
Muro divisorio
sopra la cisterna
Edificio Superiore
– Proiettili di catapulta trovati nell’ambiente n. 8
Edificio
Superiore.
Conduttura di
adduzione dell’acqua posta in un muro addossato alla
struttura della
cisterna.
Sugli
ambienti n. (9 – 10 – 11 ) non si può dire molto anche perché nel 2006 furono
parzialmente scavati per le ricerche archeologiche. L’ambiente mediano
comunicava con il cortile attraverso una porta che era accuratamente rifinita
in conci di calcarenite sia negli stipiti che nell’arco.
Tra
gli ambienti n. 8 e n. 9 c’era una porta che fu successivamente tamponata.
Torre Ovest ( ambienti 12 – 13 )
TORRE OVEST
All’estremità
Sud Ovest dell’edificio superiore si trova la Torre Ovest che costituisce il
punto più elevato del complesso fortificato. Un tempo la sua struttura doveva
essere molto più maestosa come si può rilevare dallo spessore delle sue pareti
(1,80 m circa) e dall’altezza della cisterna riportata alla luce nella metà occidentale
della torre. Aveva almeno un altro piano. Un altezza rilevata dalla sequenza di spessi strati di
crolli che le si sono addossate sui lati Nord ed Est.
I
muri poggiavano direttamente sulla roccia che era stata opportunamente scavata
ad Est per separarala dal blocco degli ambienti 1 – 6 e avendo cura di
effettuare sulla roccia superstite una serie di gradini che permettevano
l’accesso alla torre stessa.
Con
questi iterventi la torre doveva apparire in fondo al cortile come un blocco
isolato, massiccio e molto più alto degli edifici circostanti.
Il
suo orientamento è leggermente divergente rispetto a quello dell’edificio
superiore.
La
sua muratura è simile a quella della cinta dell’edificio superiore cioè con
l’impiego di pietra locale in grosse lastre messe “a catena” e con abbondante malta di
consistenza quasi sabbiosa.
Gran
parte del muro esterno della cortina perimetrale nord della torre (USM 10012) è
andato perduto e i blocchi infissi longitudinalmente documentano in qualche
modo il forte spessore originario.
All’interno
della torre l’aspetto è decisamente complesso. Nella metà occidentale, ambiente
n. 12, è stata realizzata una cisterna addossando alla parete Ovest, alla metà
occidentale delle pareti Nord e Sud e ai livelli di riempimento ad Est una
serie di stretti muri contigui (AUM 10002. USM 10003, 10004 e 10007) legati con
abbondante malta idraulica a base di calce e carboni e quindi diversa da quella
adoperata per la cisterna maggiore.
Il
fondo della cisterna presentava al centro il pozzetto per la pulitura mentre
gli spigoli erano rifiniti con semplici modanature.
Una
serie di graffiti di incerta lettura, forse navi, tra i quali sembrano figurare
anche degli stemmi araldici, se non risalgono al momento della stesura
dell’intonaco, documentano un utilizzo della cisterna anche dopo l’abbandono
del suo uso probabilmente a causa delle lesioni che sono anche oggi visibili
nella giunzione tra fondo e muri e che ne compromisero la tenuta.
Di
incerta cronologia la cavità che fu ricavata a metà altezza del muro Ovest.
Tracce di frequentazione sono state riscontrate anche nei livelli di crollo che
riempivano la cisterna.
Il
muro che chiudeva ad Est la cisterna (USM 10007) mostra i segni evidenti di un
taglio accurato, anch’esso legato ad un suo probabile riutilizzo della stessa
cisterna dopo il suo deterioramento. Si può pensare che abbattendo il muro
mediano tra gli ambienti n. 12 e 13 e colmando in parte la cisterna si sia
creato un ambiente unico. La torre Ovest appartiene stilisticamente alla serie
di torrioni quadrangolari che dominavano le corti dei castelli siciliani.
Edificio Superiore
– Torre Ovest vista da Nord Est
Si nota la scala
ricavata nella roccia e a destra il paramento
del muro
perimetrale Nord della Torre.
Edificio Superiore
– Torre Ovest – La Cisterna
Al centro il
pozzetto per la pulizia, la cavità nella parete Ovest e
in primo piano il
muro perimetrale Est rasato (USM 10007).
IL CORTILE E
L’AMBIENTE N. 14
Il
cortile in ogni castello o struttura fortificata, le masserie fortificate, era
lo scenario dei momenti lieti e drammatici di vita del luogo. L’ampio spazio
non presenta oggi elementi architettonici di rilievo. Gli studi hanno permesso
di evidenziare un piano pavimentale in parte scavato nella roccia e in parte
creato con la messa in opera di basole disposte con una certa cura e inclinato
da Ovest verso Est.
Unico
elemento di rilievo del cortile è il pozzo di attingimento (USM 10018) della
cisterna che è ricavato in una nicchia del muro perimetrale Sud dell’ambiente
n. 8.
Sul lato Nord dell’ambiente n. 14, sono
presenti una serie di bassi muretti (USM 10113, USM 10117) addossati alle
strutture portanti. Potrebbero essere strutture portanti per panche o sedute,
per il corpo di guardia che doveva controllare l’ingresso. Il cattivo stato di
conservazione di queste strutture non permette di confermare questa ipotesi.
Edificio Superiore
–
Cortile e Ambiente
N. 14 visto da Ovest
b) LA TORRE
EST ED IL SUO COMPLESSO
All’estremità
orientale dell’intero complesso si
trovano le rovine di un complesso edificio posto in un punto delicato del
sistema difensivo perché a ridosso del sentiero d’ingresso, cioè in prossimità
della porta delle mura inferiori, e anche a difesa del versante orientale dove
più agevole era la risalita del pendio.
Gli
edifici nel loro insieme si articolano in un cortile con gradinata d’accesso,
in una cisterna, in alcuni ambienti e nella Torre Est vera e propria cioè la
prima torre della linea difensiva partendo da Est.
Il
Cortile e la Gradinata
Dopo l’ingresso dall’esterno si apriva
verso Est un ampio spazio (cortile n. 31) in cui la roccia, opportunamente
spianata sul lato meridionale, veniva integrata a Nord da una massicciata, in
pietrame di varie dimensioni, articolata in una serie regolare di gradoni in
salita verso Est.
Alcuni piccoli buchi circolari nella
roccia fanno portare aventi l’ipotesi della presenza di transenne o altri
elementi di recinzione che servivano ad integrare le strutture difensive
dell’area. A ridosso del muro di cinta è visibile una canaletta aperta che
convogliava verso la porta le acque meteoriche.
Complesso edilizio della Torre Est – Cortile e Gradinata
Complesso Edilizio
Torre Est – Cisterna vista da Ovest
Si nota al centro
il pozzetto per la pulitura della cisterna e a Nord il
bancone di
rinforzo (USM 30054 – USM 30055)
- La
Cisterna Est
La cisterna si trova vicino alla gradinata
ad est ed è a pianta rettangolare (n. 33) con la dimensione (10,5 x 4,50 ) m.
Si presenta priva di aperture d’ingresso e mostra, al di sotto degli strati di
crollo, la presenza di un intonaco idraulico sia sulle pareti che sul fondo. Un
incavo circolare nel centro costituiva il pozzetto per la pulitura (una presenza
rilevata anche nella cisterna della Torre Ovest).
Come nella grande cisterna dell’Edificio
Superiore, di cui copia le dimensioni, anche qui si trova un bancone (USM
30054, USM 30055) che si sviluppava lungo il lato settentrionale e che si
prolungava anche lungo le pareti Est e Sud.
Il lato Ovest (USM 30007), mostrava nella
tessitura muraria dei vistosi segni di un intervento riparatore effettuato con
conci cuneiformi di calcarenite giallastra che furono mesi in opera per taglio
in sequenza continua.
I conci erano analoghi a quelli rinvenuti
in crollo nella metà orientale della cisterna e sono la conseguenza del
disfacimento di una probabile struttura ad arco, forse la volta, che in questa
cisterna non era sorretta dall’arco ogivale come invece appare nella cisterna
dell’Edificio Superiore.
Lo studio dei materiali di crollo e delle
caratteristiche del muro perimetrale Sud, ha permesso di mettere in evidenza
diversi fasi di vita della cisterna con abbandono e riutilizzo della stessa
cisterna.
Il livello di crollo costituito dai
conci di calcarenite non appariva nella metà occidentale dell’ambiente. Qui il
materiale rinvenuto era costituito da pietrame misto a terra e calce derivante
dal disfacimento di strutture murarie. Inoltre il livello di crollo era orizzontale
e regolare e questo non coincideva con le normali dinamiche di crollo di
strutture del genere.
Sul lato Sud il muro perimetrale mostrava
una lacuna presso l’angolo SudOvest, dove la roccia inclinata formava una rampa
naturale a livello con la superficie superiore degli strati di crollo.
Questo dimostra che la cisterna una volta
era ricoperta a volta con conci di calcarenite. La volta è crollata provocando
dei danni anche nel muro Ovest.
Nella parte occidentale si recuperarono i
conci per utilizzarli per ritappezzare il muro Ovest che per altre attività
edilizie. In questo intervento si creò un piano di calpestio dentro la cisterna
livellando gli strati di crollo e portandoli in quota con la rampa creata nel
muro perimetrale Sud dall’andamento degli strati rocciosi. Infatti l’ambiente
si poteva prestare benissimo ad un suo utilizzo anche come stalla o recinto.
Per questi interventi è ancora in fase di studio la loro cronologia.
Complesso della
Torre Est
Muro perimetrale
Ovest (USM 300) della Cisterna. Si nota l’intervento
con blocchi di
calcarenite.
Complesso della
Torre Est
Cisterna vista da
Ovest. Nella metà est è visibile il crollo di blocchi di
calcarenite della
struttura della volta.
AMBIENTI TRA LA
CISTERNA E LA TORRE EST
Il muro (USM 30074) addossato al muro
perimetrale Ovest dell’ultima fase della Torre Est e all’angolo SudEst della
cisterna, dava origine a due ambienti (n. 35 e n. 36) in cui la stratificazione
era venuta meno per i crolli sul lato Nord, cioè il cedimento del muro di cinta
e di terrazzamento.
In questo muro divisorio sono presenti
alcuni blocchi di calcarenite presenti negli stipiti delle aperture e
riutilizzati dal crollo all’interno della cisterna Est.
Il livello pavimentale, dello stesso
periodo del muro, su due lati era
costituito da terra battuta.
Un saggio sotto la strato di terra ha
portato alla luce un lembo di basolato accuratamente realizzato, posto
nell’angolo SudEst dell’ambiente n. 35, a ridosso della Torre Est. Non fu
possibile rilevare e verificare la probabile esistenza del basolato anche a Sud
degli ambienti oltre il muro perimetrale.
Nell’ambiente n. 32, subito a Sud della
cisterna, fu trovata una lente di calce accanto ad una cavità oblunga. Un
presenza legata all’attività di cantiere relativa all’edificazione della stessa
cisterna che ha comportato un maggiore impiego di calce per la preparazione
dell’intonaco idraulico.
Complesso della
Torre Est
Ambienti (n: 34 –
35 – 36) a est della cisterna.
A sinistra il
pavimento in basolato e sullo sfondo il muro perimetrale
Ovest della Torre
Est (USM 30047)
Complesso Edilizio
della Torre Est
Resti di cantiere
a Sud della cisterna.
-
LA TORRE EST
Si
trova all’estremo Est dell’intera struttura ed ha una grande importanza
strategico militare perché posta a presidio del punto più delicato dell’intera
fortificazione. Qui il pendio non è molto scosceso e quindi l’accesso al
fortilizio non era molto arduo.
Questa
torre come rilevano gli studi archeologici, soprattutto in profondità
nell’ambiente n. 37, ha una storia molto tormentata.
In
superficie erano presenti i muri perimetrali della Torre.
Il
muro Ovest (USM 300479 presentava un alzato maggiore rispetto agli altri (USM
30070, USM 30071, USM 30048) ed anche una differente tecnica costruttiva.
Era
costruito con pietrame informe legato con terra e poggiava direttamente sul
terreno. Gli altri muri erano invece messi in opera in maniera molto accurata e
costruiti con pietre sommariamente sbozzate e disposte a filari regolarizzati
ad intervalli e presentavano anche una risega di fondazione. Le pietre erano
legate con abbondante malta di calce, molto dura e tenace.
Il
muro perimetrale Ovest si appoggiava ai muri perimetrali Nord e Sud (USM 30070
e USM 30048) scavalcandoli e coprendo la loro interfaccia di distruzione e
questo dimostrava un chiaro intervento posteriore.
Nell'asportazione
dei materiali di crollo, di calpestio e di colmata all’interno della torre, è
stato possibile individuare un suolo in collegamento con l’ultima fase di
frequentazione. Un suolo in terreno pressato e un altro strato, sempre in terra
compatta, che era invece in fase con i muri perimetrali Nord. Est e Sud.
All’altezza della loro risega di fondazione.
Si
è scavato al di sotto di questo livello di calpestio e è pervenuto alla luce un
muro Est-Ovest (USM 30075) che era rifinito solo sulla faccia Nord e che
costituiva un rinforzo interno al riempimento della base della torre, in modo
da spezzare la spinta del terreno dovuta alla forte pendenza della roccia di
base. La tecnica costruttiva era del tutto analoga a quella dei muri perimetrali
a cui si legava.
Questo
sistema di muri perimetrali ed interni si appoggiava ad una struttura
precedente (USM 30077) che si sviluppava in senso Nord-Sud e che doveva
costituire la prima forma di chiusura della fortificazione su questo lato.
Si
tratta di un muro in pietrame disposto con una certa cura e con abbondante
impiego di malta di calce, del quale non si è potuto ricostruire lo spessore in
quanto è stato messo in luce solo in parte, dato che si trovava al di sotto del
muro perimetrale Ovest di ultima fase.
L’esigua
quantità di materiali restituiti dal riempimento della base della torre
(all’interno dei muri perimetrali) potrà
fornire un a data per l’edificazione della struttura anche se dai primi
accertamento i reperti recuperati sembra collegare la primitiva struttura alla
seconda metà del XII secolo.
Le
complesse vicende costruttive di questa torre hanno trovato un riscontro anche
all’esterno. Infatti sui muri perimetrali si appoggiano da Nord e da Est tre
massicci contrafforti successivi (USM 50020, USM 50022, USM 50023) in pietrame
legato con terreno e scarsa malta. Una tecnica costruttiva che evidenzia la
preoccupazione per la tenuta delle strutture rispetto al piano inclinato della
roccia sul quale furono edificate.
Torre Est
Piano di calpestio
in terra battuta, in fase con i muri perimetrali
Nord. Est e Sud.
Torre Est
L’aspetto della
torre dopo l’asportazione del livello pavimentale di
riempimento. Si
notano, in basso a sinistra, il muro di prima fase (USM 30077);
i muri di seconda
fase (USM 30070 e 30071), con il diaframma murario
USM30075; il muro
di ultima fase (USM30047), che s’imposta ad
una quota
notevolmente superiore.
LA CINTA ESTERNA E
IL SENTIERO D’ACCESSO
La
cinta o cortina esterna si sviluppa all’incirca lungo la curva di livello dei
740 m s.l.m. seguendo quindi l’andamento della montana e rientrando nel settore
orientale dove il pendio è meno scosceso.
È
lunga circa 150 metri ed è rafforzata ad intervalli regolari di 20 – 25 m circa
da piccole torri a pianta quadra piene. Torri larghe in media 5 m e aggettanti
rispetto alla cortina muraria di 1,80 m.
Di
particolare importanza è la torre con l’ingresso di cui purtroppo, i due muri
perimetrali Ovest ed Est (USM 50003, USM 50005 – 50006) rimangono solo miseri
resti.
Questo
ingresso doveva avere una doppia chiusura, sul lato esterno e sul lato interno
che insieme alla porta si sono irrimediabilmente perduti.
La
cortina USM 50001 è messa in opera con pietrame sbozzato sommariamente e
disposto secondo filari regolarizzati ogni 50 cm circa, legato con malta di
calce abbastanza ricca di sabbia. I muri e le torri poggiano direttamente sulla
roccia che risulta sommariamente incisa per creare un piano d’appoggio ch’era
comunque precario.
Durante
i lavori di ripulitura si non raccolte tra le pietre della cortina, dei
frammenti di ceramica invetriata monocroma verde.
Il
potenziale difensivo della cortina e delle torri era integrato all’esterno
dalla conformazione geologica degli strati di roccia, la cui pendenza omogenea
e continua, salvo piccole rotture, costituiva una formidabile scarpa naturale
che moltiplicava gli effetti devastanti
della difesa piombate e impediva un assalto diretto alle mura.
Cinta Inferiore
Torre D (in primo
piano) e C (dietro) viste da Ovest.
Sullo sfondo, il
complesso della Torre Est.
Si nota l’imposta
della torre sul piano di roccia inclinato.
Cinta Inferiore,
vista da Ovest.
Resti della torre
d’accesso, della Torre B e della Torre Est
con le cortine
intermedie.
La scarpa naturale
della roccia è stata portata in luce con gli scavi.
IL SENTIERO
D’ACCESSO
E’
un percorso scavato nella roccia ed ottenuto regolarizzando in parte le
superfici di rottura negli strati calcarenitici. È ancora oggi visibile,
vegetazione permettendo, lungo la dorsale orientale.
Largo
circa un metro per poi raggiungere una larghezza di circa venti metri a valle
dello Torre est che quindi aveva la possibilità di averne un controllo per un
ampio tratto.
Passa
sotto la cinta inferiore, la torre B della cinta e sale di quota prima di curvare
a gomito verso l’accesso vero e proprio.
Dovendo
risalire su un pendio roccioso, scivoloso e fortemente inclinato, il sentiero
aveva bisogno di un muro di terrazzamento a valle e di qualche regolarizzazione
del piano pedonale a monte.
Questi
due elementi sono gravemente deteriorati e sono stati individuati in diversi
punti del percorso.
Al
tratto terminale del sentiero si raccordano diversi percorsi che risalgono il
pendio.
Oltre
al sentiero già citato da est gli altri sono:
-
Un
sentiero che giungeva dal mulino di Bagnitelle Soprano scavalcando in un punto
imprecisato l’antico muro di cinta dell’abitato di epoca arcaica e classica e
inerpicandosi poi per il pendio da Nord est;
-
Un
sentiero congiungeva l’accesso al castello con l’estremità nord-occidentale del
bastione roccioso, attraversando in diagonale il pendio, come sembra desumersi
nel leggere una foto aerea eseguita dopo la pulitura preliminare dello scavo.
Cinta Inferiore
Pianta delle
strutture relative al sentiero d’accesso.
4 LE SEPOLTURE
Gli
scavi riportarono alla luce, con grande sorpresa da parte degli archeologi, di
tre sepolture nell’area del castello e tutte infantili.
Di
queste tombe la n. 1 era isolata rispetto alle altre e si trovava nell’Edificio
Superiore all’interno dell’ambiente n. 3.
Tomba n. 1 da Est
“Scavata negli
strati di colmata e di abbandono, era a cassa di lastrine litiche, orientata a
Est-Ovest e coperta con scaglie di pietra locale”.
La
tomba aveva la dimensione di (lunghezza 0,90 x 0,24 di larghezza e 0,34
d’altezza)m.
L’età
del defunto era infantile, il corpo era disposto supino, con la testa rivolta a
Ovest e le braccia incrociate sul tronco. Mancavano i piedi.
Non
si sono raccolti elementi di corredo o vestiario e un dato non trascurabile era
la constatazione che la tomba tagliava strati di abbandono.
Le
altre due tombe (n. 2 e n. 3) erano anch’esse infantili. Sono state solo
intaccate dallo scavo per la messa in luce della cortina esterna alla quale si
appoggiano e non fu possibile indagarle né mettere in luce relazioni
stratigrafiche per ottenere almeno una cronologia anche relativa.
La
loro prossimità potrebbe fare avanzare l’ipotesi sull’esistenza di una piccola
area cimiteriale all’interno del recinto inferiore. Resta da vedere se si
trattava di un utilizzo relativo alla vita del castello o se riferibili ad un
periodo posteriore all’abbandono del sito.
I
reperti archeologici recuperati provengono in massima parte dai livelli di
abbandono e di crollo all’interno del cortile superiore. Materiale che potrà
fornire importanti notizie sulle ultima fasi di vista del castello.
Abbandono
del castello che fu cronologicamente collocato dal Fazello verso la metà del
XVI secolo
. REPERTI CERAMICI
Un
abbandono lento e non legato ad eventi drammatici. È probabile che vi
siano state delle aree contemporaneamente abbandonate ed altre frequentate da
piccoli nuclei. Sulla datazione di costruzione della struttura non si può dire
molto in base ai rinvenimenti.
“Episodici
e poco significativi i materiali di possibile epoca bizantina (pochi frammenti di
coppi striati); pressoche inesistenti i reperti riconducibili all’età islamica (tra
cui un frammento di lucerna acroma a piattello e cupoletta e un’ansa di anfora
a nastro schiacciato con solcatura mediana, rinvenuti purtroppo sporadici alle
pendici del castello), ad onta del toponimo, genuinamente arabo. Esigue le
testimonianze di XII secolo, tra cui si annovera una moneta
di Lucca databile al 1139-112528: scarsi anche i
materiali ceramici di XII secolo (in primo luogo la ceramica invetriata
monocroma verde), peraltro di lunga durata, come di lunga durata sono le
ciotole con decorazione a spirali verdi e brune rinvenute in discreta quantità
nel cortile superiore,
e che dall’inizio del XIII si inoltrano nel secolo
seguente; attestate anche ceramiche con decorazione in cobalto e manganese”.
“Ben più il materiale
posteriore (fino al XV secolo) da livelli di vita e di abbandono;
si segnalano sia
frammenti decorati in verde e bruno su smalto chiaro che a lustro metallico.
Poche, e poco
leggibili, le monete rinvenute. Dagli interventi di rifacimento del piano
pavimentale negli ambienti 7 e 8, sopra la cisterna dell’edificio superiore,
provengono una moneta di Manfredi (1258-1266) ed un’altra di Federico IV
(1355-1377)”.
Frammenti di
ciotole a spirali in verde e bruno
(Trovate
nell’Edificio Superiore)
Frammenti di
ceramiche decorate in cobalto e manganese
(Edificio
Superiore)
Frammenti decorati
in verde e bruno su smalto chiaro
(Edificio Superiore)
Frammenti a lustro
metallico
(Edificio
Superiore).
L’impressione
che si ricava osservando il castello è
quello di una fortezza concepita secondo un progetto unitario. Edificata con
ingenti risorse, legati alla difficile orografia del sito, e anche con
accorgimenti tecnici-costruttivi. Un luogo fortemente strategico ottimo per il
controllo del sistema viario e in collegamento ottico con altri fortilizi di
età normanno-sveva tra cui Erice, Corleone, Monte Jato, Calatrasi, Monte
Bonifato, Castelvetrano.
L’architetto
o architetti militari vollero appoggiare saldamente la struttura ai livelli di
roccia e questo può aver anche portato alla distruzione di eventuali strutture
preesistenti.
C’è
d’altra parte anche un osservazione importante da fare ed è legata alla
strutturazione del castello in recinti successivi corrispondenti ai saldi di
quota del terreno. Un aspetto che può richiamare modelli di castelli di ambito
islamico e che specialmente in Andalusia
(Al – Andalus) sono stati oggetto di studi archeologici molto approfonditi
grazie al loro ottimo stato di
conservazione. E lo stesso toponimo del sito potrebbe costituirne una
testimonianza.
Sono
però presenti anche elementi di architettura fortificata normanna come nella
proporzione e nello svilupparsi della cortina muraria esterna, nella pianta e
nel sistema di accesso dell’edificio superiore (riscontrabile nel Castelluccio
sopra Monreale inserito nel quadro della creazione dell’Acidiocesi di Monreale
al tempo di Guglielmo II).
Allo
stesso periodo potrebbe ricondursi la Torre Ovest per la sua posizione e anche
per la sua struttura interna.
L’intervento edilizio attualmente visibile è
probabilmente di poco posteriore all’età normanna e potrebbe essere inserito
nell’ambito del programma di fortificazione instaurato da Federico II di
Svevia.
Il
fatto che fosse uno dei “castra exempta” come Calatafimi (in cui la cisterna ha evidente analogie con
quella superiore di Caltatamauro) e come Milazzo (la cui cinta muraria è simile alla cinta inferiore di Calatamauro)
spinge a non escludere la possibilità proprio di un intervento federiciano.
Le
lettere di Tommaso da Gaeta, giustiziere del grande Imperatore Federico II di
Svevia, riassumo la grande attività di fortificazione portate avanti
dall’Imperatore tra il 1223 ed il 1225 proprio nel periodo delle ribellioni
islamiche …” erigere in altum arces ...
in ascensum arduos colles munire ... latera montium abscidere multiplicibusque
muris et turribus sepire”.
A
detta degli archeologici della “Normale di Pisa”, che con grande impegno e
professionalità effettuarono le ricerche archeologiche, appare improbabile che
si debba scendere cronologicamente come datazione del sistema difensivo.
Anche
dopo la conquista del 1282, che non portò ad una distruzione del castello,
l’attività edilizia era legata ad interventi regolari di manutenzione e
consolidamento dei punti più esposti a crolli e cedimenti come ad esempio nella
Torre Est.
Con il passare dei
secoli venne meno la funzione militare del sito, un aspetto rilevante anche per
altri castelli, e la frequentazione a Calatamauro fu probabilmente limitata ad
un presidio dell’Edificio
Superiore forse ad alcuni ambienti e quindi
è improbabile un intervento edilizio, in questo contesto, nell’edificio
inferiore in particolare nella cinta
muraria.
Le
fortezze di Entella e di Calatamauro sono legate da un rapporto che va al di là della leggenda
sulla probabile esistenza di una galleria che metteva in comunicazione i due
fortilizi.
Sembra
quasi che i due siti vivano l’uno in dipendenza dell’altro. Con la definitiva
sconfitta dei Musulmani ribelli e la loro partenza dalla Sicilia, venne meno il
potenziale difensivo di Entella che segnò anche il destino della pur vittoriosa
rocca di Calatamauro.
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