La Sicilia dei Sicani... un mondo affascinante tutto da scoprire - Seconda Parte
ABBAZIA
REALE DI SANTA MARIA DEL BOSCO –
Contessa Entellina
L'Abbacia Reale...... un tempo lontano......
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Indice
1.
L’Abbazia;
a.
La
Fondazione;
b.
Gli
Eremiti che costituivano la Comunità – Il riconoscimento della Comunità (1308) –
I Monaci furono processati nel 1318;
c.
Ma
chi erano i “Fraticelli” Spirituali ? –
La posizione della Chiesa nei confronti degli Spirituali – (In Appendice
N. 1 : “La Questione sulla povertà di Gesù Cristo e degli Apostoli” – Eleonora d’Angiò
impedì in Sicilia l’attuazione dello scisma con l’antipapa Niccolò V);
d.
Il
processo ai monaci di Santa Maria del Bosco nel 1318;
e.
Nel
1400 il monastero entrò nell’ambito del Monachesimo Benedettino – Le concessioni
dei Sovrani – (In Appendice N. 2 : Le Diatribe
degli Abati dell’Abbazia con l’Arcivescovo di Agrigento – Le donazioni e il problema sulle decime dei
lasciti)
f.
Le
Donazioni;
g.
La
decadenza dei Monasteri nel XV secolo – Le Congregazioni di Monasteri – Alcuni episodi
legati alla decadenza dei monasteri (Santa Teresa d’Avila fu minacciata dalle
consorelle) – L’Abbazia di Santa Maria del Bosco non era in decadenza;
h.
L’entrata
dell’Abbazia di Santa Maria del Bosco nella Congregazione di Monte Oliveto
Maggiore – Gli Olivetani – Gli Agostiniani – L’abbandono della struttura – La struttura
oggi: metà privata (Barone Inglese) e metà pubblica (Diocesi di Monreale).
2.
La
Struttura:
I
due Chiostri – Il Refettorio – Scalone Reale
– La Chiesa – l’Architetto Luigi Vanvitelli
Progettista
del Palazzo Reale di Caserta – Il Busto di Eleonora d’Aragona di Francesco
Laurana;
3.
L’Effige
(icona – mosaico) della Madonna con il Bambino (Odigitria)
La Chiesa della Madonna della Favara – La Madonna
dell’Odigitria, Patrona della Sicilia;
4.
L’importante
ruolo del Barone Guglielmo Inglese nella salvaguardia dell’Abbazia – Il riconoscimento
dell’UNESCO – La morte del Barone Inglese nell’Abbazia che tanto amava..
5.
L’aspetto attuale della Chiesa….
6.
Le
opere d’arte dell’Abbazia; Icona – Mosaico dell’Odigitria – Il Busto di
Eleonora d’Aragona – “Madonna con Bambino” di Andrea della Robbia – Due sculture
con episodi della Via Crucis – Paliotto con scene della Resurrezione di
Cristo - Il Pastorale che andò perduto…
7. Video
7. Video
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Oggi
è un country Relais aperto all’ospitalità,
con le sue 11 camere elegantemente arredate, sala colazione, sala relax con
camino e TV. Dal 2020 sarà attiva la piscina e l’area solarium all’interno
del giardino del relais….. http://www.abbaziasantamariadelbosco.it/
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1.
L’Abbazia
Sui
Monti Sicani, un territorio tutto da scoprire, si trova una delle Abbazie più grandi
ed importanti della Sicilia.
Un’antica
testimonianza del Regno di Sicilia, avvolta dalla “nebbia” che solo un cuore
innamorato della propria Terra può scoprire e comprendere nei suoi aspetti.
Peppino
Impastato che tanto amava queste zone
tanto da dedicargli la propria vita, fu ucciso dalla mafia, in una sua poesia
diceva:
Fiore di campo nasce
sul grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.
sul grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.
L’Abbazia,
questo bellissimo fiore, ha lasciato i suoi umori sulla terra a testimonianza
di un glorioso passato purtroppo dimenticato..
La
stupenda struttura si trova nel Comune di Contessa Entellina da cui dista circa
3 km mentre la distanza dal comune di Bisacquino, posto ad oriente dell’Abbazia,
è di circa 5,5 km.
A. La Fondazione
I
monaci eremiti erano sempre alla ricerca di luoghi isolati per poter pregare e
il Monte Genuardo con il suo fitto ed intrigato bosco offriva, con uno dei suoi
ripiani posto a circa 830 m s.l.m., un luogo adatto per edificare un monastero
ed quindi per dedicarsi alla preghiera ed all’ascesi.
L’incontro
tra gli eremiti ed il bosco avveniva in modo del tutto naturale nella loro “fuga mundi” perché proprio nel silenzio del boschi
cercavano il luogo in cui dedicarsi esclusivamente a Dio.
Il
bosco costituiva un quindi un “cibo per
l’anima”, un riparo dalle preoccupazioni
e dai pericoli che la vita in società comportava e un luogo privilegiato per il
contatto con Dio.
Ma
anche il bosco non era esente da attacchi del diavolo che a volte assumeva le
sembianze delle sue fiere: il lupo, il cinghiale e altri animali feroci.
Animali che in età medievale venivano spesso paragonati alle passioni che
tendevano a portare l’uomo verso il male.
Un
esempio, tra i tanti, sono le fiere dantesche, (il lupo, il leone e la lontra),
che ostacolarono il cammino di Dante.
Williami Blake
(Londra 1757- 1827)
L’agiografia
medievale ci riporta episodi il cui il monaco riusciva a rendere docile le
bestie feroci del bosco come il leone (San Gerolamo) e il lupo (San Francesco d’Assisi). Azioni
che esprimevano la sconfitta del male o anche la trasformazione di
atteggiamenti negativi in positivi.
Molti
eremiti preferivano vivere da soli, sfruttando grotte o cavità naturali, mentre
altri si aggregavano per condividere i momenti di vita e di preghiera.
Abbiamo
quindi i grandi monasteri benedettini, da San Benedetto da Norcia, dove i
monaci vivevano in forma comunitaria in cenobi collocati nelle zone montuose e
per lo più vicino ai boschi dove gli stessi monaci potevano vivere temporanee
esperienze anacoretiche rinsaldando così il proprio spirito e la propria fede.
Nel mondo francescano l’esperienza eremitica era sempre presente ma non
costituiva una nota essenziale. Il ruolo del bosco restava però importante con
la scelta di alcuni luoghi in cui creare cenobi, conventi.
Dentro
le mura di ogni convento francescano c’era quasi sempre un area, anche se
piccola, che aveva l’aspetto di un bosco… un luogo in cui leggere il breviario,
pregare e dove poter vivere quotidianamente l’esperienza del deserto che i
monaci orientali seguivano nella loro fuga dal mondo.
Il
Monte Genaurdo con il suo fitto bosco e
le sue risorse, con il suo aspetto geologico costituto da blocchi rocciosi
disarticolati e separati da profondi canali, con gli affioramenti di lave
sottomarine conseguenti ad antichissime attività eruttive, offriva agli eremiti
l’aspetto di un luogo al di fuori del mondo, lontano dalla fugacità della vita.
Monte Genuardo
Un
monte alto 1180 m, con una massa
boschiva che si estendeva in gran parte del territorio e anche con una sua
antica storia legata al suo nome.
Secondo
l’Amari in merito al giardino reale del
Genuardo di Palermo il termine derivava da “jannat
al-ard” ovvero il “Giardino/ Paradiso
della Terra” e “jannat al-ward” ,
“Giardino delle Rose”, secondo il “Dizionario Onomastico della Sicilia”.
(Il
Palazzo della Ziza , dall’arabo “al-Aziza” , “La Splendida”, sorgeva fuori le
mura della città di Palermo e all’interno del parco reale normanno “Il Genoardo”
che si estendeva con splendidi padiglioni, rigogliosi giardini e bacini d’acqua
da Altofonte fino alle mura del palazzo reale).
Non
lontano dal monastero sorgeva la “Rocca del Moro”, il castello di Calatamauro
anche lui con il termine di derivazione araba
“qal’at mawru”.
Castello di Calatamauro
Il
bosco di Calatamauro con il suo fitto querceto e con le numerose specie di
arbusti ed erbe, aveva quindi un aspetto impenetrabile tanto ricercato dagli eremiti.
Un
bosco che era stato concesso dal re Federico III d’Aragona al catalano Guglielmo Galceràn de Cartellà.
(documento sulla luogotenenza di Federico d’Aragona 1294 – 1295).
Gli
eremiti erano guidati da un certo Fazio e nel trecento decisero di stabilirsi
nel luogo creando il primo nucleo iniziale della comunità che sarebbe diventata
nel tempo un luogo importante della cristianità.
Padre
Olimpio da Giuliana, abate del monastero nel 1586, riportò
l’ubicazione del monastero “..situato in
un monte d’altezza di quattro miglia, non già nella summità del monte ma quasi
a mezza strada poi che a voler andare da basso al monasterio si saglie in due
buone miglia, e dal monasterio alla cima suprema del monte che si domanda
Genovardo bisogna salire due altri buoni miglia molto più erti e ratti….:
Sciacca, a circa venti miglia, Palermo, a trentaquattro, Corleone a dieci,
Trapani a cinquantotto; i centri più vicini sono Contessa «che ci sta quasi di
sotto», Bisacquino a poco più di due miglia, Giuliana a tre, Chiusa a quattro e
Entella a cinque…”
In
quel luogo isolato costruirono una piccola chiesa che fu dedicata alla Vergine
Maria e alcune stanze dove ripararsi per condurre una “vita
remota ed appartata da ogni secolaresco intrico”.
Una tradizione, fra le tante, citò anche che venerarono
un icona della Vergine che era stata rinvenuta nell’incavo di un albero.. la
famosa Odigitria di Calatamauro ?
(La
Notizia non ha un riscontro storico
perché fu trovata dagli albanesi quando ricostruirono il casale di
Contessa. L’icona si trovava nel castello di Calatamauro dove sembra che sia
esistita una chiesa come testimonia un antico testamento ?)
B. Gli Eremiti che
costituivano la Comunità.
Rocco Pirri, pur basandosi sulla cronaca di
Padre Olimpio da Giuliana, citò sempre “ viri
numero tresdecim” cioè un gruppo costituito da tredici eremiti mentre il
Padre ne riportò dodici.
Secondo il Pirri erano:
I
Chierici
-
Fra
Nicolò di Squillace;
-
Fra
Francesco di Corileone;
-
Fra
Ruggero di Montemaggiore.
I
Laici:
-
Fra
Riccardo di Amalfi;
-
Fra
Oddone di Noto;
-
Fra
Marco di Messina;
-
Fra
Giacomo di Viggiano;
-
Fra
Giovanni di Siena;
-
Fra
Guglielmo da Burgio;
-
Fra
Riccardo da Comicio;
-
Fra
Giacomo Catalano;
-
Fra
Fazio
Lo
stesso Pirri indicò il luogo del monastero come “in horrido memore” per mettere in risalto l’aspetto ambientale del
bosco di Calatamauro.
Ma
quella foresta così intricata, selvaggia e quasi invalicabile, venne descritta
da Padre Olimpio come una sorta di “Paradiso dell’Eden”. Una descrizione
storica del Cinquecento in cui venne esaltata l’abbondanza nel luogo di piante
medicinali adoperate dagli eremiti secondo regole e prescrizioni tramandate di
generazione in generazione in un sapere che ha sempre contraddistinto la vita
monastica…”non ne resta un palmo che non
si spasseggi come un delitioso giardino, nel quale di passo in passo si trovano
diverse fontane di freschi e limpidissimi acque. Il terreno del bosco produce
naturalmente il zafferano et in abbundantia grande ma è minore del domestico e
quelli che vi si pianta domestico produce il suo fiore maggiore di quello de gl’altri
boschi. Per tutto il bosco ci nasce gran copia di diversi semplici e li
speciali mandano da diverse città tanto per li semplici quanto anco per
cogliere il polipodio che nasce in su i tronchi delle quercie per uso di
diverse medicine. Nei garbi di quelle quercie l’ape ci mellificano da loro
senza cura humana il mele delle quali per essere di fiori delle ellere è
impietrato duro e bianco simile in tutto al vero zucchero. Per il bosco ci è
abbondantia di caccia di conigli, di lepori e di pernici. Il verno nel tempo
delle fortune massime quando li venti soffiano quelli di Giuliana vengono nel
bosco di notte con fiaccole accese dove prendono grandissime quantità cio è
migliaia di uccelli minuti come frenguelli et uccelli simili che la notte si
riducono nel bosco per il ridosso del ellare. Prima ci era caccia di daini di
caprii e di cinghiali, ma adesso per essere mancate le fortezze delle macchie
se cene vedono rade volte, in cambio di questi ci è buona quantità di lupi che
mangiano la caccia domestica. Volpi ce ne sono assaissime per tutto il bosco a
tempi suoi si trova quantità di buoni fungi e massime di quegli di ferula e mai
si sa che siano stati dannosi ad alcuno, si trovano asparagi per tutto il bosco
in grandissima copia lunghi e teneri e negri “.
Naturalmente
alle ricchezze del bosco si aggiungevano quelle del giardino del monastero con
i suoi alberi da frutta, noci, castagni, vigneti e gli ortaggi… “se questi non fossero bastati si sarebbero
potuti aggiungere i frutti provenienti dai vicini centri di Giuliana e di
Chiusa”.
L’eremitismo
fu un fenomeno molto diffuso in Sicilia e per certi versi sempre collegato ad
un aspetto religioso, come strumento di fuga dall’accusa di eresia o di ricerca
di un luogo solitario dove pregare
attraverso il ritiro dal mondo,
e alla vita rurale.
Lo
storico Bresc, creò diverse “generazioni” di monasteri per differenziarli.
Ci
furono i monasteri fondati dai Normanni che avviarono la cristianizzazione e
latinizzazione dell’isola; ancora prima dei monasteri Normanni ci furono i
primi monasteri latini fondati da papa Gregorio Magno; quelli bizantini legati
al culto di San Basilio ed infine quei monasteri nati spontaneamente come
quello di Santa Maria del Bosco.
Monastero
che nacque durante il regno di Federico III d’Aragona (dal 1296 al 1337),
scomunicato più volte dalla Chiesa e definito come il “reèvangèlique” per il
suo attaccamento all’idea della povertà. Il re simpatizzava per le dottrine
degli spirituali e nel 1312 pose sotto
la sua protezione gli spirituali toscani e non solo. Aveva alla corte
quell’Arnaldo da Villanova che doveva essere condotto sul rogo a Perugia per le
sue idee filosofiche e per le sue amicizie con i Catari.
Proprio
tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV secolo gli eremitaggi in Sicilia
si moltiplicarono perché l’isola offriva un sicuro rifugio agli spirituali. E
così nel bosco di Calatamauro un gruppo di eremiti, tra cui qualche toscano,
guidati da Fazio, di cui non si sa nulla, si stabilirono nel XIII secolo sul
luogo e fondarono una comunità.
Una
comunità dedita all’osservanza della povertà evangelica e “vestivano come fraticelli”... o erano fraticelli esuli o fuggiaschi da
altre terre, o comunque erano simpatizzanti per le loro dottrine, sospette di
eresia….. provenivano da varie parti della Sicilia, Burgio, Corleone,
Montemaggiore, Noto e Messina, ma anche dall’Italia peninsulare, da Squillace,
Viggiano, Amalfi e Siena, e ancora dalla Catalogna”.
Il
processo di normalizzazione della comunità nell’ambito ecclesiastico fu molto
rapido perché il 21 giugno 1308 la
stessa comunità ottenne dal Vescovo di Agrigento Bertoldo De Labro
l’autorizzazione ecclesiastica e “la
concessione di 40 giorni d’indulgenza a coloro che penitenti e confessati
giornalmente fossero entrati per pregare nella chiesa”.
Il
22 giugno (luglio) 1309 (domenica) il vescovo consacrava la chiesa dedicandola
alla Beata Vergine Maria e collocandovi le reliquie di San Gregorio e di San
Gerlando «recondite in altari patronorum
nostrorum nec non beatorum principum apostolicorum Petri et Pauli».
Molto
significativa era la scelta dei due Santi. Le reliquie di San Gerlando, vescovo
di Agrigento, ponevano la comunità sotto la direzione o dipendenza della
Diocesi di Agrigento mentre su San Gregorio la figura era collegata alla progressiva
trasformazione del monastero alla Regola Benedettina. (Papa Gregorio Magno fu
artefice della diffusione della regola benedettina redatta da San Benedetto da
Norcia intorno al 529).
Il
vescovo, inoltre, concedeva “quaranta
giorni di indulgenza a coloro che pie et devote si fossero recati penitenti
alla consacrazione della basilica e a coloro che lo avessero fatto nel giorno
dell’anniversario della consacrazione” o “singulis diebus peregrinacionis aut devocionis”.
Il
14 novembre 1310 lo stesso Bertoldo
riceveva a Giuliana il giuramento di obbedienza della comunità e l’impegno, in
segno di soggezione alla giurisdizione del vescovo, “a consegnare annualmente in occasione della festa della Traslazione
del Santo due libbre e mezzo di cera lavorata”. (Circa
1,14 Kg di cera lavorata)
Frate
Fazio prometteva “voler osservare povertà
secondo la vita evangelica e sotto la forma del Santo Vangelo” e prestava
il giuramento tanto a nome suo, quanto dei fratelli che vivevano con lui.
Padre
Olimpio citò nella sua cronaca che nel “giro
di otto anni nel monastero non si trovò più nessuno degli eremiti presenti nel
1310.. neppure Fazio…….affermo per cosa certissima che dillà ad ott’anni quelli
c’habbitavano a Santa Maria del Bosco che non erano più che sette havevano nomi
diversi dali sopra detti e si vede chiaramente che di quei primi non ven era
più niuno s’havessero mancato per morte o per altro io non l’ho potuto sapere”.
Il
20 marzo 1318 gli eremiti di Santa
Maria del Bosco vennero processati dal Vescovo di Agrigento. Un processo in
seguito all’accusa da parte del ministro generale dei Francescani, Frate
Angelo, di “essere fraticelli”. Un
processo che con la stessa accusa aveva convolti alcuni anni prima degli
spirituali toscani.
C. Ma chi erano i
Fraticelli Spirituali ?
Fraticello Gioacchino
da Fiore
Celtico (Cosenza),
1130 circa – Pietrafitta (Cosenza), 30 marzo 1202
Con
la morte di San Francesco d’Assisi, avvenuta nel 1126, l’ordine dei Francescani
fu retto da Elia da Cortona, già citato in una mia precedente ricerca come
consigliere dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Il
movimento francescano si presentava scisso in due gruppi che in un certo senso
erano molto distanti tra loro per le ideologie e le regole:
-
I
Conventuali che operavano secondo una parziale revisione delle Regole
dell’Ordine dettate da San Francesco;
-
Gli
Spirituali che invece osservano scrupolosamente le regole ed il Testamento di San
Francesco e mantenevano uno stile di vita basato sulla povertà assoluta e sulla
rinuncia di ogni privilegio.
Gli
Spirituali avevano un loro maestro, Gioacchino da Fiore, e identificarono la
sua “Chiesa Spirituale” con l’ordine Francescano.
Naturalmente
Elia da Cortona, un frate dal carattere molto forte, perseguitò gli spirituali
per ben quattro volte senza riuscire a raggiungere dei risultati positivi. Il
movimento si diffuse e addirittura riuscirono a sfiduciare Elia una prima volta
nel maggio 1227.
Il
movimento degli Spirituali si sviluppò nelle Marche e nell’ Umbria dove nel
1274 operavano sotto il comando di Liberato da Macerata e successivamente dal
1307 avevano come guida Angelo Clareno da Cingoli.
Frate Elia da
Cortona, compagno di San Francesco d’Assisi
L’atteggiamento
della Chiesa,
all’inizio con papa Celestino V, fu
clemente con gli Spirituali a tal punto che lo stesso papa li svincolò dal
controllo dei Conventuali. Ma la loro libertà durò ben poco perché papa
Bonifacio VIII (1294 – 1303) tolse loro ogni privilegio e con papa Giovanni
XXII (1316 – 1334) iniziarono le persecuzioni e le condanne. Per gli Spirituali
papa Giovanni XXII era l’immagine dell’Anticristo.
Il
movimento degli Spirituali si era radicato non solo in Italia, sia pure in
alcune regioni, ma anche all’estero e in particolare nella Francia Meridionale,
dove avevano come guida Pietro di Giovanni (Pierre Jean) Olivi fino al 1298.
Anche
in Francia furono perseguitati dai Conventuali.
Pietro di Giovanni
Olivi
Grazie
all’intervento del medico e filosofo spagnolo Arnaldo da Villanova (o di
Villanuea), successivamente alla Corte di Re Federico III d’Aragona nel
castello di Montalbano Elicona (Messina), presso il re di Napoli Carlo d’Angiò
e il papa Clemente V, si cercò una soluzione tra il generale dell’Ordine,
Guldisalvo di Valleboa ed i capi del movimento Raymond Gaufredi, Guy de
Mirepoix, Bartolomeo Sicardi e Ubertino da Casale.
Trovare
una soluzione tra le parti non era facile. Gli Spirituali erano contrari alle
mitigazioni della “Regola” che era ritenuta intangibile come il Vangelo perché
dettata a San Francesco da Cristo stesso.
Papa
Clemente V con la Bolla del 6 maggio
1312 “Exivi de paradiso” concesse all’Ordine degli Spirituali di “poter disporre di granai e cantine nei casi
di provata necessità”.
Furono
ottenute alcune concessioni ma alla morte del papa nel 1314 ed alla successiva
elezione, avvenuta nel 1316, di Giovanni XXII, la situazione precipitò
drammaticamente.
In
realtà Papa Giovanni XXII accettò le concessioni di Clemente V osservando che “non potevano considerarsi trasgressori della
Regola quanti vi si fossero attenuti”.
Ma
gli Spirituali continuarono nel loro atteggiamento ostile nei confronti dell’Ordine
Conventuale e del Papa Giovanni XXII che con la Bolla “Sancta Romana” del 30
dicembre 1317, soppresse definitivamente gli Spirituali d’ogni categoria “Fratres de paupere vita”, Terziari dissidenti,
Beghini o Bizzocchi, ecc.” chiamandoli per la prima volta “fraticelli”.
Il
papa emetteva una nuova Bolla “Gloriosam
Ecclesiam” il 31 gennaio 1318 e
colpiva in particolare i Fraticelli di Toscana che si erano rifugiati in
Sicilia, sotto la guida di Enrico da Ceva, ottenendo la protezione di Federico
III d’Aragona, sposo della regina Eleonora d’Angiò. I fraticelli erano “accusati di certi errori difesi dai
Donatisti, dai neo-Manichei e dai Valdesi”.
Il
papa dovette affrontare una situazione non facile da gestire. Clemente V aveva temperato i rigori della
povertà professata dagli Spirituali ma restava in vigore una precedente
dichiarazione di Niccolò III, emessa con la Bolla “Exiit qui seminat” del lontano 14
agosto 1279.
La
Bolla era particolarmente cara ai Francescani perché confermava la loro volontà
di seguire l’esempio di Cristo e degli Apostoli nella pratica dell’ “assoluta povertà in comune e individuale”.
Gli
“eventuali beni di chi entrava a far
parte della vita francescana, sia le donazioni dei fedeli, erano depositati
presso la Santa Sede, ed erano amministrati secondo le necessità dei frati, dai
Sindaci Apostolici”. Sindaci Apostolici che erano stati istituiti da
Martino IV con la Bolla “Exultantes in
Domino” del 18 gennaio 1283.
Giovanni
XXII malgrado le Bolle dei suoi predecessori incominciò ad ordinare gli arresti
dei “fraticelli”. Furono imprigionati i
capi dei movimenti e torturati venticinque fraticelli da parte
dell’Inquisizione. Quattro dei torturati non riconobbero l’autorità papale e
furono condannati al rogo nel 1318.
Secondo
alcuni storici la presenza dei fraticelli in Toscana è attestata verso il 1309
ma solo verso il 1312 la tensione e le diatribe con i Conventuali toccarono
toni accessi e una cinquantina di essi decisero di emigrare in Sicilia dove
furono raggiunti da altri fraticelli in fuga da diverse regioni d’Italia e
anche dalla Francia Meridionale.
Le
date non sono categoriche in quanto i fraticelli erano presenti a Santa Maria
del Bosco già nel dicembre 1308 quando fu riconosciuto loro la regolarità della
comunità da parte del Vescovo di Agrigento.
Gli
spirituali in Sicilia si organizzarono sotto le direttive di Enrico di Ceva ed
ebbero dalla loro parte il re Aragonese Federico III, già in carica nel 1296,
che approvò il loro statuto.
La
storia del gruppo di Spirituali di Santa Maria del Bosco continua nella storia
dell’Abbazia ma è opportuno fare un cenno sulla fine del movimento degli
spirituali in Italia.
Il
papa Giovanni XXII li perseguitò e alcune notizie riportano che molti furono
espulsi dalla Sicilia per confluire sotto la protezione di Carlo II d’Angiò a
Napoli. Siamo negli anni tra il 1322 ed
il 1331 e gli spirituali erano confluiti nel movimento dei Michelisti guidati
da Michele Fuschi da Cesena.
Come
abbiamo visto il papa Giovanni XII aveva fatto bruciare al rogo quattro
Spirituali a Marsiglia nel 1318, si narra che lo stesso papa fu presente
all’esecuzione, ma non riuscì mai a catturare la loro guida, Angelo Clareno da
Cingoli, che morì in santità il 15 giugno 1337 circa tre anni dopo la morte del
papa avvenuta nel 1334.
La
loro comunità resterà ancora in vita e nel
1389, a Firenze, ci fu un’altra condanna al rogo di Fra Michele Berti da
Calci.
Con
la morte del Clareno, i seguaci ebbero un forte seguito in diverse città tra
cui Firenze dove sfidarono apertamente i
teologi della Chiesa che fecero emanare un editto di espulsione dalla città
degli Spirituali (effettuato con la forza nel 1381).
In
questo clima di contrasti la cronaca raccontata da Fra Michele minorita ci fa
rivivere quei momenti.. “Come per usanza
i poveri frati di santo Francesco oggi e per più tempo passato perseguitati per
la povertà di Cristo, abitanti nella Marca, mandarono qua a Firenze frate
Michele e C. per soddisfare i fedeli da Firenze. È giunsero qua a dì 26 di
gennaio 1388”.
Il
frate minore Michele Berti, di Calci un centro vicino Pisa, iniziò a Firenze la
sua predicazione.
Una
predicazione effettuata in segreto e a sfida delle autorità religiose.
Il
20 aprile 1389 il frate e un suo compagno, quando già avevano deciso di
lasciare la città, furono chiamati da ““certe
figliuole di Giuda, che s'erano più volte scifate per l'adrieto, instigate dal
diavolo con più molta sollicitudine cercavano di confessarsi e di volere la
salute de l'anima loro et cetera: sì deliberò d'andarvi”.
Furono
queste “predette femine, cioè due
pinzochere e tre donne vedove...” che denunciarono il frate e il suo
confratello all’arcivescovo francescano Bartolomeo Uliari, arcivescovo di
Firenze dal 1385 al 1389) che li fece arrestare e processare per eresia.
Fra
Michele fu sottoposto ad un interrogatorio massacrante per ben 10 giorni ma
rimase sempre fedele al suo pensiero affermando, di continuo, che “papa Giovanni XII era stato un eretico e
quindi illegittimi i suoi successori e i preti che li avessero riconosciuti
come veri pontefici”.
La
sentenza di morte sul rogo fu pronunciata dal capitano del popolo Niccolò
Gentile da Monterano il 30 aprile 1389
sotto il pontificato di Urbano VI .
La
scena fu drammatica perché mentre il frate veniva condotto al rogo, i
fiorentini lo invitarono più volte a ritrattare e riconoscere la legittimità
del papa. Un azione che aveva seguito il suo confratello che ebbe per questo
motivo salva la vita. Ma gli inviti furono inutili… cantando il “Te Deum” preferì affrontare il rogo
piuttosto che ripudiare le sue convinzioni religiose. Un rogo che avvenne fuori
le mura della città, oltre la Porta della Giustizia, nei pressi della Chiesa di
Santa Maria del Tempio.
Il rogo di Michele
Berti
Incisione del XIV
secolo
Il 30 marzo 1956,
Tribunale Penale di Palermo,
l’avv. Pietro
Calamandrei nell’arringa difensiva nel processo a
Danilo Dolci (1924 – 1997), il “Ghandi Siciliano”,
citò Michele Berti
da Cenci come esempio di coraggio, coerenza e
resistenza
all’oppressione del potere.
(una figura
dimentica nella lotta di sviluppo sociale dell’Isola)
“La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma
Danilo non è un benpensante,
non segue la rassegnata è soddisfatta voce del
buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele
Minorita.
È un’antica cronaca fiorentina, rievoca anche la
figura di un monaco, appartenente
all’ordine dei “fraticelli della povera vita” che
praticavano la povertà assoluta e
che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli
non avevano mai riconosciuto
la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò
questa affermazione come eresia:
e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel
1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e
descrive il corteo che accompagnò
dalla prigione al supplizio il condannato e le sue
soste lungo la strada, come se fossero
le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello
per arrivare al rogo egli passa,
scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli
armigeri, per le vie di Firenze.
Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano
al passaggio frasi di incitamento
e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi
consigli. I più lo consigliano all’abiura:
“sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la
vita!”.
Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi:
“pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure,
delle false mercanzie”.
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo,
poiché ancora uno dei presenti torna
a gridargli:
“Ma perché ti ostini a voler morire?”, egli risponde:
“Io voglio morire per la verità: questa è una verità,
ch’io ho albergata in me,
della quale non se ne può dare testimonio se non
morti”.
E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre
stanno per dar fuoco,
ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo
tentativo, per persuaderlo a smentirsi
e così salvargli la vita. Ma egli dice di no.
E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza,
domanda:
“ma dunque costui ha il diavolo addosso?”; al che
l’altro armigero, nel dar fuoco, risponde
(e par di sentire la sua voce strozzata dal pianto):
“Forse ci ha Cristo”.”
Gli
spirituali basavano la loro dottrina sul pronunciamento dell’assoluta povertà
di Gesù Cristo e degli Apostoli. Un pronunciamento che fu effettuato da Michele
Fuschi di Cesena, ex generale
dell’ordine francescano, nel 1322 durante il Capitolo Generale dell’Ordine.
Questo
pronunciamento fu condiviso dai ministri provinciali dell’Ordine di
Inghilterra, Aquitania, Francia del Nord e Germania meridionale. Naturalmente
non fu accettato da papa Giovanni XXII che s’adirò moltissimo e nel 1323
promulgò la Bolla “Cum inter nonnullos”
dichiarando eretica l’affermazione sulla povertà del Cristo.
Gli
spirituali saranno attivi fino al 1431 quando ci fu una forte azione di
persecuzione da parte del papa Martino V.
Un
papa che anziché cercare di risolvere il problema della lotta contro i due
antipapi Clemente VIII e Benedetto XIV, si dedicò, “con grande amore” ad una
spietata azione repressiva, nel 1427 -1428, a Spoleto ed Ancona. Un azione che
portò alla distruzione di 36 villaggi dei fraticelli ed alla condanna al rigo
di alcuni di essi. Sentenza che fu eseguita a Fabriano alla presenza del papa
stesso. L’ultimo processo a carico dei fraticelli avvenne nel 1466 con la
condanna all’ergastolo di 15 religiosi.
(
Appendice
N. 1 - “La Questione Teoretica della
Povertà”)
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D. I Monaci di
S.M. del Bosco processati nel 1318
Nel
1318 ad Agrigento ci fu un processo
a dir poco paradossale nei confronti dei fraticelli di Santa Maria del
Bosco.. Il ministro dei Francescani
frate Angelo si recò dal vescovo di Agrigento presentandogli delle lettere di
papa Giovanni XXII, tra cui il “decretale” in cui il pontefice stabiliva “adnullacionem et irritacionem sette, ritus
et status prophane multitudinis virorum qui vulgariter fraticelli seu fratres
de paupere vita aut bizokii sive bigini aut aliis nominibus nuncupatur
ipsorumque virorum errores detestabiles quisque precipue continenti et alia
scimata et hereticas pravitates que ad gregem dominium poterant pervenire et
specialiter ad beati Francisci ordinem memoratum sagagentes pro viribus
sepefati ordinis beati Francisci stabilem firmamque compaginem solida
presumpcione resindere”.
(annullamento della setta con i suoi rituali e
lo stato di profano della moltitudine di uomini che sono volgarmente chiamati
fraticelli, fratelli della povertà, o beghini o bizocchi o qualsiasi altro
nome… tutti in particolare che operano nel continente e in un altro
scisma, che depravatamente dicono di
appartenere al gregge del Signore, non potranno mai raggiungere le parole del
Beato Francesco e quindi appartenere all’ordine di San Francesco,….”
I
frati avevano assunto anche un abito proprio «cum parvis capuciis curtis et inusitatis secundum beati Francisci
regolam”.
“Piccoli cappucci
corti e senza precedenti, secondo la Regola del Beato Francesco".
Vestivano
più o meno alla foggia dei francescani
ma con abiti corti e spregevoli, il che dava occasione a Giovanni delle Celle
di osservare che “alla perfezione loro
non può bastare la misura del cappuccio di S. Francesco”. In caso di pericolo o
in viaggi assumevano le vesti comuni”.
L'apparenza di estrema povertà e di vita rigorosa,
nonché le loro denunzie sulle ricchezze della Chiesa, guadagnarono alla
comunità religiosa il favore dell’umile gente che li aiutava con elemosine. I
confessori e predicatori fraticelli
facevano lunghi viaggi per visitare i loro fedeli, nelle case dei quali
nascostamente celebravano i loro riti. Tra i fedeli non mancarono dei nobili (a
Rieti una contessa; a Poli varî membri della famiglia Colonna), che potevano
essere un ostacolo all'azione degl'inquisitori.
Nei loro scritti conservatici non c’era alcun accenno
a turpitudini o pratiche illecite, delle quali furono accusati.
Giovanni XXII aveva disposto che si
processassero coloro che vestivano quell’abito e che se si fossero trovati colpevoli
sarebbero stati puniti con debite sanzioni canoniche:
Il
ministro Franco chiese quindi al Vescovo che si adoperasse per l’esecuzione dei
decreti papali anche per gli eremiti di Santa Maria del Bosco che portavano
l’abito incriminato.
Il
vescovo rispose subito disponendo un processo in cui “fossero esaminati il priore, fra Giovanni de Castelluccio e i frati,
Pace de Curilioni, Alessandro de Milacio, Andrea de Curilioni, Angeluccio della
Marca, Pietro de Catanzaro, Marco de Messana, Nicola de Messana e Nicola de
Alcamo, i quali a Santa Maria del Bosco vestivano l’abito dei fraticelli. Il
vescovo, interrogati uno per uno sugli articoli di fede, trovava i monaci «a
dictis erroribus alienos” (attraverso le loro risposte in errore).
Dei
frati fondatori non c’era più nessuno. Padre Olimpio nella sua cronaca non citò
la loro fine ed è strano in un racconto così accurato e attento.
Il
vescovo dichiarava quindi l’ortodossia dei frati e decretava la trasformazione
del monastero in benedettino con una soluzione che, nel compromesso, velava la
protezione accordata dal presule alla comunità. Non ci fu quindi quella
persecuzione che coinvolse altre regioni d’Italia.
Il
priore e il vice priore fecero la professione di fede nella mani del Vescovo e
tutti i frati promisero di obbedire al priore e di osservare la regola
benedettina.
La
dipendenza al Vescovo di Agrigento veniva maggiormente sottolineata perché i priori sarebbero stati confermati dallo stesso
Vescovo di Agrigento e i monaci
avrebbero dovuto portare ogni anno per la festa di San Gerlando un rotolo di
cera (circa 800 grammi).
Dal
racconto traspare un celato sostegno del vescovo, Bertoldo di Labro, agli
eremiti. Una posizione confermata da Padre Olimpio nel cui racconto traspare
che dall’esame dei fatti accusatori …”era
merco che niuno di loro era incorso ne in heresia ne in apostasia alcuna, e
niuno di loro essere obligato, ne aver fatto professione in alcuna religione
approbata dalla chiesa; anzi niuno di loro essere stato frate altrove; ma che
solamente facevano vita eremitica nel detto bosco et erano persone
semplicissime come vere colombe e degl’errori e costumi che solevano havere li
bizzocchi n’erano del tutto alienissimi.”
La
promessa dei frati “«lasciar l’habbito
predetto e [...] volere servire Iddio tutto tempo della vita loro in habbito
monacale di san Benedetto bisco o camellino» avrebbe trovato, per gli anni
seguenti, scarso seguito nella realtà.
I
frati continuarono a vestire nel modo dei “fraticelli” e anche a “comportarsi come tali”.
Giovanni XXII
I
monaci di Santa Maria del Bosco non
furono quindi colpiti dalle persecuzioni papali
e la loro chiesa cominciò ad essere oggetto di donazioni da parte dei
fedeli.
Nel
1322 una donna di Corleone nel suo
testamento donò ai frati della Chiesa di Santa Maria del Bosco “sedici canne di panno d’orbace bruno” forse da utilizzare per la creazione di
paramenti sacri, e il cui colore richiamava il grigio-bruno delle vesti che
erano state condannate nel processo da Giovanni XXII e non quello dell’abito
benedettino di colore nero.
San Benedetto da
Norcia
(Dipinto di Pietro Perugino)
Nel
1369,
il Vescovo di Agrigento era Matteo de
Fugardo e in seguito alle dimissioni del priore Nicola de Bruzia venne eletto, forse su designazione del priore
uscente, un nuovo superiore, Benedetto
de Pligintino. Un elezione che fu confermata dal Vescovo di Agrigento.
Il
nuovo priore si rivolse a Papa Urbano V per sanare un’irregolarità avvenuta
nella sua elezione a priore che, secondo la prassi degli ordini Mendicanti, era
temporanea.
Il
25 giugno 1370 il pontefice intervenne sulla questione accogliendo le
giustificazioni del nuovo priore, secondo cui “filii conventus dicti prioratus tamquam simplices et iuris ignari
eundem Benedittum in eorum et dicti prioratus priorem usque ad triennium
dumtaxat concorditer eligerunt”, disponendo che il Vescovo si accertasse
che “dictum Benedittum ad hoc ydoneum
esse» e ne regolasse l’elezione rendendola vitalizia.
Le
giustificazioni del priore erano lontane dalle abitudini degli ordini
mendicanti che facevano riferimento a cariche brevi.
Padre Olimpio, le cui idee coincidevano con
quelle del priore, nella sua cronaca
attribuì la durata triennale dell’elezione alla debolezza umana dei monaci che
volevano ad ogni costo evitare un altro “lungo
governo, perche ci era forse venuta in fastidio la lunga suggettione ch’avevano
durato sott’il governo del Castelluccio et del Brucia” … e perche ognuno di
loro era convinto di saper bene governare e quindi accio n’havesse a toccare ad
ogn’uno la parte sua non volevano ch’il priore fosse fatto perpetuo”.
Il
tentativo dei monaci si scontrò con la furbizia , l’astuzia del nuovo priore
che «huomo prudente et astuto uccellò
tutti quegli ch’in questo modo l’havevano eletto perche essend’egli entrato col
trivellino picciolo» si fece confermare prima dal Vescovo e poi si rivolse
al papa.
Il
Vescovo, dopo l’intervento di Urbano V, il 24 dicembre 1370, annullava l’elezione dei monaci «ut pote contra canonicas
sanciones iuris» e accertato che Benedetto era “benemerito
et ad hoc ydoneo”, dava l’esecuzione al mandato papale.
Il
terzo priore sarebbe rimasto in carica per ben 9 anni fino cioè alla sua morte.
La
generazione dei monaci-fraticelli a Santa Maria del Bosco era ormai passata e
si aveva la visione di un monastero ormai nell’ambito del monachesimo
benedettino e in obbedienza al papa.
E. Nel 1400 il
Monastero entrò nell’ambito del Monachesimo Benedettino
Un
processo di trasformazione nelle regole che fu favorito dalla elevazione del
monastero in Abbazia avvenuto nel 1400.
Bonifacio
IX aveva concesso il 15 luglio 1400 al
monastero il privilegio di assolvere i peccatori in “articulo mortis” ed il 28
luglio elevava ad Abbazia il priorato benedettino e che “il monastero fosse in perpetuo esente dalla
quarta canonica e che quando fosse morto un abate, il capitolo eleggesse il
successore senza altra conferma ma con la semplice benedizione di un vescovo”.
Il
primo abate fu Benedetto de Maniace
che Padre Olimpio definì «huomo ingegnoso
desideroso di cose grandi, splendido, magnifico di buonissima fama e di
mirabbile espettatione.”
La
nuova realtà del monastero fu accettata da re Martino solo in seguito
all’intervento della Contessa di Caltabellotta e di Caltanissetta Eleonora
d’Aragona, chiamata in causa dallo stesso abate.
Eleonora
d’Aragona, insieme con i Conti di Caltabellotta, ebbe un ruolo decisamente
importante nella vita del monastero perché garantì sostegno economico e protezione.
L’abate si trovò
coinvolto in diatribe molto forti dove gli attori erano l’arcivescovo di
Palermo, l’arcivescovo di Agrigento, il Papato e la Corona.
Il
periodo era quello del Grande Scisma e l’antefatto furono alcuni provvedimenti
del papa
Bonifacio
IX che aveva elevato ad Abbazia il Monastero (nel 1400) sottraendolo di fatto alla giurisdizione del vescovo di
Agrigento e ponendolo sotto la giurisdizione pontificia.
Il
Vescovo di Agrigento, Joan Despi, catalano ed obbediente a Benedetto XIII
(l’antipapa Pedro Martinez de Luna y Perez (o Peris) de Gotor), non accettò di
buon grado questo provvedimento come d’altra parte anche Re Martino Il Giovane.
Il
vescovo di Agrigento, non tenendo conto dell’esenzione dalla giurisdizione
ordinaria concessa dal pontefice, nel 1421
confermava il nuovo abate Giovanni de
Porto il quale anziché consegnare un rotolo di cera come consueto ne
avrebbe dovuto consegnare due…” per le
lite passate bisognò che fra Giovanni cen’havesse promesso dui rotula con
giuramento di mai per l’avenire per qualsivoglia occasione havere a tentar cosa
in pregiudittio della giuridittione del prelato o della Chiesa agrigentina”.
Racconta
Padre Olimpio che “l’abate non gradì il
nuovo stato di cose sentendosi sminuito nel suo ruolo e parendoli vergogna e
danno d’essere mancato di quel grado al quale gl’altri dui suoi predecessori
abbati erano pervenuti poi che la presente sua dignita non differiva quasi in
niente da quella degli priori antichi, e d’habbate n’haveva solamente il nome
privo di quelle gratie ed esentioni ch’erano gia state concesse al monasterio,
incominciò a trattare per via di Roma di farsi confirmare li predetti
privileggii”.
Nel
volgere degli anni si verificheranno continui contrasti con il Vescovo di
Agrigento, a causa dell’esenzione fiscale di cui godeva l’Abbazia, che sono
riportati nell’Appendice n. 2.
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---------------------
(Appendice N. 2
Le Controversie
tra gli Abati dell’Abbazia e il Vescovo di Agrigento.
Il problema sulle decime per i lasciti:
Le Donazioni.)
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Il
28 maggio 1423 il papa Martino V ordinò
al vescovo di Agrigento (Lorenzo di Mesassal), per tutelare Santa Maria del
Bosco dai malfattori e dall’azione «predonum
raptorum et invasorum», di scomunicare tutti coloro che indebitamente si
fossero appropriati dei beni del monastero.
Nel
1450 fu la volta di Nicolò V che,
nell’anno giubilare, concesse ai monaci che non potessero recarsi a Roma «sine cultus divini et rerum aliarum in
vestro monasterio detrimento» di conseguire l’indulgenza rimanendo nel
monastero «et cultui divino operam
dando». I monaci avrebbero dovuto «totum
et integrum psalterium singulo mense usque ad unum annum dicere et in super
quod quelibet in vestro monasterio sacerdos ratione predictarum indulgentiarum
teneatur dicens triginta missas et si sacerdos non fuerit triginta vitibus
septem psalmos cum litaniis». Il pontefice, inoltre, si preoccupava di far
restituire ai monaci tutti i beni indebitamente alienati e di confermare tutti
i privilegi concessi dai suoi predecessori e dai sovrani. Alla benevolenza
accordata dalla Sede apostolica si affiancava quella manifestata dalla Corona.
Il 30 novembre 1359 Federico IV
aveva donato ai monaci, come omaggio alla Vergine, due aratati di terra adiacenti al monastero, da seminare per il loro
sostentamento, e aveva dato mandato al vicesecreto di Corleone, Ruggero de
Cammarana, di farne entrare in possesso il procuratore del monastero. Il
vicesecreto eseguì l’ordine il 20 dicembre seguente assegnando al monastero
all’incirca i confini che mantenne almeno fino alla fine del XVI secolo. Nel 1367 il sovrano concedeva, ancora,
dodici botticelle annuali di tonnina salata delle tonnare della Regia Curia di
Palermo per uso dei monaci, del priore e delle persone al servizio del
monastero. La donazione sarebbe stata confermata da re Martino e dalla regina
Maria. Nei privilegi si fa riferimento alla fondazione e dotazione del monastero
attribuita dai successori di Federico III a fondamento del diritto di regio patronato
vantato dalla Corona. Nel dicembre del 1396
Martino, preoccupandosi delle conseguenze che lo stato di guerra del Regno
poteva causare al monastero, emanava un provvedimento con il quale assicurava
protezione a 500 pecore e 20 buoi aratori che sarebbero rimasti nel territorio
del monastero «pro vita et subsidio
monasterii» e salvaguardava il resto del patrimonio zootecnico consentendo
che venisse trasferito in territorio fedele alla Corona dove non avrebbe subito
alcun danno o molestia per tutta la durata della guerra. Nel 1397 Martino manifestava ancora la sua
protezione ordinando ai prelati e agli ufficiali del Regno di non molestare i
monaci nei loro beni e diritti dal momento che era espressa volontà del sovrano
porre il monastero sotto la propria custodia e salvaguardia speciale in
considerazione del fatto che «per divos
retro principes et predecessores nostros constructum ac fundatum ex largitione
munifica eorundem»
Il
sostegno della Corona sarebbe continuato con Alfonso che, l’11 gennaio 1442, concedeva al monastero in perpetuo di potere
estrarre dal caricatore di Palermo «tantam
quantitatem casei et equi casei proventuri ex dictis eius animalibus libere et
sine solu cione» fino ad un valore di 10 onze. Il 13 febbraio 1478 re Giovanni avrebbe ampliato la
concessione dal momento che il monastero «paupertate
oppressum est» e non raggiungeva le 10 onze in produzione di formaggio,
pertanto consentiva di estrarre non solo il formaggio prodotto dai monaci ma
anche, «si autem dictum monasterium seu
illius abbas non habuerint tot capras oves vacas et animalia quorum ius
extractionis ad summam decem unciarum singulis annis non ascenderit», di
estrarre «merces quascumque tam proprias dicti monasterii quam alterius
cuiuscumque persone» e che ciò avvenisse non solo dal porto di Palermo ma
dal qualsiasi caricatore del Regno. Il sovrano a distanza di qualche anno, nel 1457 avrebbe anche permesso al
monastero di tenere un mercato solenne nel giorno dell’Assunzione della Beata
Maria Vergine. La sua celebrazione destò da subito preoccupazioni per l’ordine
pubblico. Il vicerè intervenne il 9
agosto 1458 ordinando al regio algorizio di provvedere al mantenimento
della sicurezza dal momento che «infra la
terra di Curigliuni et di Juliana per causa chi si fa la festa in la Ecclesia
di Santa Maria lu boscu a lu quindichi di lu presenti solino insurgiri multi
altercacioni et brigi». I monaci, infatti, portarono in processione il
simulacro dell’Assunta e all’evento parteciparono tutti gli abitanti del
circondario con le inevitabili conseguenze. Il capitano non riuscì ad arginare
la folla e nemmeno il baiulo e gli altri ufficiali che l’abate aveva nominato a
tutela dell’ordine per i due giorni di festa.
F.
Le Donazioni dei
privati
“Il monastero si
arricchisce: la protezione dei signori e i lasciti dei privati Li monaci
vivevano delle fatiche loro; d’industrie d’animali che tenevano e d’alcune
elemosine che havevano da Giuliana da Corileone e da Sciacca: che davano buon
odore di fatti loro e che facevano santa vita si comprende per li legati
ch’alla giornata ci andavano lasciando le persone devote in Giuliana in
Corileone et in Sciacca delle qual terre gl’habbitatori facevano a gara a chi
ci poteva più dare in viventia o lasciare doppo la morte si teneva più contento
e beato: molti lasciavano il monasterio loro herede universale et altri davano
case, vigne, pezzi di terre scapole e territori intieri oltre il bestiame gli
danari et altre cose mobbili delle qual cose li monaci ne facevano compra di cose
stabbili”.
Con
queste parole Padre Olimpio descriveva in modo pittoresco una realtà che, non
esclusiva di Santa Maria del Bosco, assicurò al monastero una grande ricchezza
e ne fece un punto di riferimento del territorio circostante. L’abate non
poteva che sottolineare le buone azioni dei monaci, la loro santa vita per
giustificare la gara degli abitanti del territorio che lasciavano una “maggiore quantità di beni al monastero”.
Padre
Olimpio aggiunse che i monaci erano molto operosi e ospitali e «questi modi havevano innamorato di fatti
loro tutta Sicilia», oltre che i sovrani che davano «spedimento di tutto quel che desideravano»; «percioche facendo li monaci buona vita et accarezzando li povereti con
le continue elemosine; e li ricchi con li buoni esempii, e con l’hospitalita
nel passaggio; di giorno in giorno andavano acquistando e reputazione e robba».
Ma, pur non volendo sminuire tale “santità”,
il gran numero di lasciti, soprattutto testamentari, andava anche ascritto,
ovviamente, alla speranza dell’uomo medievale di assicurarsi con i legati pro
anima il «passaporto per il cielo».
Se appare, dunque, quasi più scontato il volume di donazioni e benefici
concessi da nobili, conti e marchesi, non risulta strano neanche il gran numero
di legati a favore del monastero di quanti da Corleone come da Giuliana, Chiusa
Sclafani, Contessa Entellina o Sciacca cercavano, pur in rapporto ai propri
averi, di non dimenticare il monastero nelle ultime volontà o addirittura, a
maggiore garanzia della salvezza dell’anima, lo designavano erede universale.
La
storia dei legatari illustri inizierebbe, secondo Padre Olimpio, nel 1354 con Matteo Sclafani, conte di Adernò, signore di Ciminna e fondatore di
Chiusa Sclafani che donò alcuni beni immobili ed una cappella a Palermo.
Nel
suo testamento avrebbe donato al monastero di Santa Maria del Bosco una grande
casa sita in contrada Terracina di Palermo con torre, cappella, giardino “munito di gebbia e acqua per l’irrigazione
che sarebbe dovuta servire ai monaci da Grancia”
La
casa e una parte del giardino successivamente sarebbero stati affidati dal
monastero a Francesco Campana dietro pagamento di un censo annuo di 37 onze
mentre nell’altra parte del giardino sarebbero state fabbricate delle case che
portarono al monastero entrate annuali fisse.
Questo
lascito fu riportato da Padre Olimpio nella sua narrazione e fu sicuramente una
notizia certa sebbene il Conte Matteo, che aveva paura della morte e desiderio
d’eternità, abbia redatto ben quattro testamenti e nell’ultimo del 6 settembre
1354 non fece alcuna menzione di questa donazione.
I De Luna fino a Giovanni Luna e Peralta, Duca
di Bivona (2° Duca di Bivona e 11° Conte di Caltabellotta dal 1575 al1592), che
Padre Olimpio definì “mio signore”, avevano sostenuto il
monastero con grandi favori e mostrato sempre nei confronti dei monaci un
grande rispetto a amore. Il 18 agosto
1383 Guglielmo Peralta
confermava la donazione di Federico IV Il Semplice “dei due aratati di terra e bosco” che il sovrano concesse nel
1359 affinchè “i monaci potessero
lavorarli con le proprie mani onde trarne il sostentamento in ossequio alla
regola benedettina”.
Nel 1393
il Peralta nel suo testamento lasciava al monastero 10 onze annuali e il
figlio Nicola confermava e accresceva il lascito paterno assegnando a Santa
Maria tutte le entrate che gli provenivano da Palermo, fatta eccezione per l’”osterio magno” (palazzo di Palermo) di
Matteo Sclafani.
Eleonora d’Aragona era nipote di
Federico III d’Aragona e della moglie Eleonora
d’Angiò. Il figlio della coppia reale di Sicilia Giovanni aveva sposato
Cesarea Lancia e dal loro matrimonio era nata Eleonora d’Aragona. Per questo
motivo viene spesso chiamata “infanta” perché è un titolo dato in Spagna alla
figlia o al figlio di un sovrano.
Rimasta
vedova di Guglielmo, il primo aprile 1401,
estese i confini del monastero ampliando la donazione del sovrano, suo
consobrino carnale, con il territorio della valle dello Strasatto e del feudo
del Gurgo. Nell’ottobre successivo dispose che “per entrarne in possesso i monaci non aspettassero la sua morte”.
I
confini del bosco in virtù della donazione di Eleonora abbracciavano un vasto
territorio che, alla fine del XVI secolo, quando scriveva Padre Olimpio, si
estendeva per circa 130 salme. Per poco più di mezzo secolo non ne faceva parte
la zona meridionale denominata masseria di Fontana Cavata che Nicolò Peralta,
il 19 agosto 1408, aveva concesso a
Pino d’Andrea per un censo di 6 tarì annui.
Per
tutto il XVI secolo l’Abbazia ricevette molte donazioni anche da parte regia.
Re Alfonso ebbe come consiglieri due monaci dell’Abbazia.
Nel
1402
il monastero fu nominato erede universale nel testamento di donna Ricca
de Pontecorno e nel 1403 altro
lascito da donna Iaquinta Salimbeni.
Il
monastero costituì una grande proprietà terriera che, con scambi e
compravendite riportate nel tabulario conservato nell’Archivio di Stato di
Palermo, contribuì a formare una grande ricchezza economica.
La
benevolenza manifestata dai Peralta verso Santa Maria del Bosco di Calatamauro
non venne meno con i successori che furono prodighi di grazie e munifici nei
confronti del monastero e quest’ultimo assumerà un ruolo sempre più rilevante
per il territorio circostante anche dopo che Innocenzo VIII, nel 1491, lo
incorporò nella congregazione benedettina di Monte Oliveto. I monaci avrebbero
continuato per tutto il XV secolo a ben destreggiarsi nel delicato rapporto di
equilibrio tra istituzioni ecclesiastiche e poteri laici e a mostrare
oculatezza nella gestione dell’ingente patrimonio accumulato.
G. La Decadenza dei
Monasteri nel XV secolo
Nel
XV secolo i monasteri erano in decadenza. La presenza degli ordini religiosi
non era così incisiva nel tessuto sociale e nella coltura come nei secoli
precedenti. L’istituzione della commenda, consistente nell’affidare la gestione
dei beni del monastero ad un superiore che non vi risiede e spesso laico, decretò
un rilassamento totale dal punto di vista religioso. Questa soluzione fu
pensata per sottrarre i monasteri alle difficoltà dell’ambiente ed ai contrasti interni legati alle nomine.
La commenda determinò la fine di grandi abbazie perchè i superiori si
disinteressavano dei vari problemi della comunità religiosa e si limitavano a
percepirne solo le rendite spesso per loro tornaconti personali.
(Nel XVI
secolo circa la metà dei monasteri sparì a causa delle misure repressive
della Riforma. In Inghilterra, per esempio, i monasteri benedettini vennero
totalmente soppressi e, più tardi, in Francia, la Rivoluzione decretò la
chiusura in massa dei monasteri).
Una
decadenza forse già avviata tra il XIII ed il XIV secolo e che raggiunse nel XV
secolo il culmine.
Un
monachesimi benedettino in declino malgrado l’elevato numero di abbazie e che
si spopolarono delle comunità che vi vivevano. Anche gli stessi movimenti
riformatori (camaldolesi, verginiani,
ecc.) che erano sorti con un indirizzo eremitico e di accentuato rigorismo,
persero progressivamente il loro aspetto originario per assumere quelli dei cenobi benedettini
pur mantenendo un forte senso di appartenenza alla propria congregazione.
Nei
monasteri benedettini la prassi religiosa era quindi in decadenza e la gente.
già da tempo, continuò a manifestare sempre una maggiore preferenza per i frati
provenienti dagli ordini mendicanti che erano animati da un grande fervore di
predicazione e di insegnamento… un loro aspetto decisamente importante..
pregavano con la gente,,, in ogni luogo ed erano quindi a diretto contatto con
la cruda realtà sociale dei tempi.
Le
speranze di restaurazione dei monasteri secondo la regola di San Benedetto
furono portate aventi con la formazione associazioni di più monasteri in
congregazioni regionali.
Fu
il papa cistercense Benedetto XII che con la bolla “Summi Magistri dignazio o Benedectina” del 1336 dispose come “tutti i monasteri benedettini venissero raggruppati in province, che
venissero celebrati capitoli triennali e nominati visitatori”.
I
risultati furono lontani dagli obiettivi prefissati di rilancio della regola…
in pratica non si ottenne nulla e i monasteri continuarono ad essere
abbandonati anche dagli stessi religiosi mentre quelli che continuavano a vivervi
mostravano sempre meno la loro religiosità.
Continuarono
comunque a sorgere in seno all’ordine benedettino delle nuove congregazioni
monastiche che erano però legate non tanto ad un vero e proprio movimento
riformatore ma a forti personalità religiose da cui infatti prendevano il nome.
I
Silvestrini, monastero di Monte Fano
(Fabriano) fondato nel 1231 da Silvestro Guzzolini; i Celestini, sorti intorno al 1259 a opera dell’eremita
Pietro del Morrone (il futuro papa Celestino V);
gli
Olivetani fondati da Bernardo Tolomei nel 1312 nel deserto di Accona, presso Siena.
Deserto di Accona
– Creste Senesi
Alle porte dei
centro di Arbia (frazione di Asciano – Siena) c’è una zona che
è chiamata
“Deserto di Accona”.
Storicamente è
l’unico deserto dell’Italia continentale e risale a circa
4 milioni d’anni
(periodo Pliocene) quando costituiva il fondale del
Mar Tirreno. Nel
periodo Pliocene si formò lo stato di argilla che oggi caratterizza
in prevalenza il
terreno. La presenza di salgemma e di gesso fa assumere all’ambiente un
caratteristico aspetto
“lunare”. Le attività umane, con il passare dei secoli, hanno in
parte modificato
l’aspetto paesaggistico del sito con l’intensa attività irrigua che permette
la coltivazione di
grano, girasoli e foraggio.
La zona era famosa
con questa denominazione nel periodo medievale e fu raffigurata da
Ambrogio Lorenzetti
in un affresco dove si nota “con mura di
argilla, la città
del contado inizialmente fertile fino a lasciare
spazio al deserto di Accona”.
Proprio nel
Medioevo, ai margini meridionali del deserto di Accona, fu costruita
l’Abbazia di Monte
Ulivero Maggiore che inizialmente era stata prevista
con funzioni
eremitiche. I monaci olivetano intorno all’Abbazia piantarono
per decine di anni
dei cipressi, perché era l’unico sistema per consolidare
il terreno, per
evitare le frane, e per avere dell’ombra.
Una leggenda narra
che in questa zona dimorò per un lungo periodo Ascanio, figlio di
Remo. Da qui si
postò verso sud e fondò qual centro che oggi si chiama Ascanio.
Ambrogio
Lorenzetti – XIII secolo
Le
congregazioni, che avevano l’obiettivo di risolvere il problema di
restaurazione della regola benedettina, erano presenti nel tessuto religioso
ancora prima della fondazione dell’Abbazia di Santa Maria del Bosco che avvenne
con riconoscimento papale solo nel 1400.
In
molti monasteri era presente anche un problema morale legato al tipo di vita
condotto dai monaci.
La
situazione doveva essere grave se il Concilio di Trento (1545- 1563), convocato per
reagire alla diffusione della riforma protestante in Europa, intervenne su
alcuni problemi inerenti ai monasteri..
“ Il Concilio di
Trento vuole, che la pietà regni né Monasteri; che i Voti sieno esattamente
osservati, come pur le Regole; di modo che i Religiosi e le Religiose si
portino d’una maniera conforme alla santità del loro stato. Non sarà permesso,
dice il Concilio sul Voto della Povertà, ad alcun Regolare dell’uno, e
dell’altro sesso di tenere, o possedere in proprietà alcun bene mobile, o
stabile, di qualunque natura egli sia, e di qualunque modo sia stato
acquistato: ma questi beni saranno subito messi nel potere del superiore, ed
incorporati al Monastero. I superiori però permetteranno a’ Particolari l’uso
de’ mobili, di modo che tutto risponda allo stato di povertà, ch’essi hanno professata,
che non vi sia nulla di superfluo. Ma che nulla eziandio si neghi loro di
necessario. Nondimeno il medesimo Concilio accorda la permissione di possedere
in avvenire de’ beni in fondi a tutt’i Monasteri d’uomini, e di Donne, ma
n’eccettua i Cappuccini, e quei che si chiamano
Minori della Osservanza”….
C’è
da dire che il 3 dicembre 1563 nello stesso Concilio di Trento, due giorni
prima della sua chiusura, fu approvato un decreto sui religiosi e sulle
monache. All’interno del documento furono anche stabilite delle norme più precise
sulla materia della clausura e degli spazi interni ed esterni dei conventi.
Già
alla fine del XIII secolo la bolla “Periculoso”,
promulgata nel 1298 dal papa Bonifacio VIII, ed entrata in vigore nel 1302,
ribadiva le norme sull’osservanza della clausura e della loro reintroduzione
dove fossero state abbandonate.
Ma
a cavallo tra il XV ed il XVI secolo le norme sulla clausura non furono messe
in pratica se non da pochi ordini religiosi femminili: le Francescane Clarisse,
le Domenicane, le prime Carmelitane e le Certosine.
Tutte
le altre monache che vivevano nelle grande abbazie e nei monasteri, s’erano
sempre più allontanate dall’applicazione di quelle norme molto precise e
rigorose mirate alla salvaguardia morale delle istituzioni religiose femminili.
Importante
è un avvenimento che colpì Santa Teresa d’Avila, che fu riformatrice
dell’Ordine Carmelitano, e che non viene quasi mai riportato nella narrazione
della sua vita.
Quando
fu nominata priora del Monastero dell’Incarnazione di Avila ( 6 ottobre 1571),
le 130 monache che lo abitavano crearono dei disordini per impedirle di
entrare. Il corteo che accompagnava Santa Teresa fu aggredito fisicamente all’ingresso
del monastero. La stessa Santa non era stata eletta priora dal capitolo delle
monache del monastero ma era stata scelta dai superiori dell’Ordine su
sollecitazione delle Autorità Ecclesiastiche del luogo.
Un
intervento delle autorità ecclesiastiche che aveva come obiettivo il ripristino
dell’ordine “per le turbolente e
rilassanti abitanti di quel monastero”.
Si
narra della presenza di un corpo di guardia nel monastero, della cella di Santa
Teresa che era sorvegliata durante la
notte per paura di azioni di rivalsa e del controllo dei suoi cibi perché si
aveva paura che potesse essere avvelenata.
Teresa
compì un gesto simbolico una volta insediatasi nel monastero. Pose sul suo
seggio un quadro della Vergine Maria ed espose il suo programma con parole
molto accorate che convinsero almeno una parte delle sue oppositrici. Un aspetto
fondamentale fu legato all’insegnamento raggiunto non con gli ordini ma con l’esempio..
Non
so se queste ultime notizie siano vere ma in ogni caso fanno risaltare lo stato
di decadenza del monasteri in genere anche se non tutti vivevano una crisi così profonda.
Avila – Monastero
dell’Incarnazione
“prima del Concilio di Trento c’erano
monasteri e conventi femminili che erano dei bordelli. Il predicatore
francescano Timoteo da Lucca durante un omelia dal pulpito della Basilica di
San Marco di Venezia, il 25 dicembre 1497, inveì contro i peccati che si
commettevano nei monasteri femminili di Venezia denunciando…”…quando viene
qualche Signore in questa terra, voi gli mostrate i monasteri di monache, che
però non sono monasteri, bensì postriboli e pubblici bordelli”.
“Tali erano i
monasteri, (quelli
che erano caduti perdendo la loro condotta cristiana), perché le nobili e ricche famiglie in modo del tutto particolare, per
questioni spesso legate sia ai loro patrimoni, sia talvolta a questioni
politiche, rinchiudevano ( o come dicevano gli esponenti delle loro
famiglia: “monacavano) le loro figlie
che, all’interno di quelle strutture religiose avevano però i loro alloggi
separati, la loro servitù e la loro personale cucina. Ci sono state potenti e
nobili famiglie che hanno costruito appositamente abbazie e monasteri per le
loro figlie, dotandoli di patrimoni e di rendite. Le giovani monacate di queste
famiglie, in questi monasteri erano elette quasi sempre e di rigore badesse
perché in caso contrario la potente famiglia avrebbe revocato le rendite.
Animate quindi tutt’altro che da fede, vocazione e virtù di vita, le giovani
conducevano dentro quelle sacre mura delle esistenze mondane, non di rado come
vere e proprio cortigiane, con tanto di feste interne e di uomini che entravano
ed uscivano senza problemi; ed i monasteri
dove regnavano in assoluto le più
indicibili dissolutezze morali, erano quelli delle monache benedettine e delle
monache cistercensi”.
Infatti
nel 1514 il tribunale dell’Inquisizione di Venezia si occupò del caso delle
“Pie monache benedettine del Monastero
di San Zaccaria” che non contente di avere trasformato il loro parlatorio in un
salotto di accoglienza per giovanotti, cantanti e attori, un bel giorno
organizzarono una festa in maschera che nel suo svolgimento si trasformò in un
vero e proprio baccanale come “ le antiche
città di Pompei ed Ercolano che nella storia romana erano due postriboli a
cielo aperto”.
(S.
F. Wemple – S. Salvatore – S. Giulia: A
case study in the endowment and patronage of a major female monastery in
northern Italy, in Women of the medieval world. Edited by Julian
Kirshner and Suzanne F. Wemple. New York: Blackwell, 1985).
Il
Concilio di Trento intervenne forse tardivamente, solo nel dicembre 1563, per
riportare i monasteri ed i conventi a luoghi di preghiera e di penitenza.
I
provvedimenti furono tanti:
-
Si
vietò la professione dei voti prima dei sedici anni e l’ingresso in monastero
prima dei dodici anni;
-
Impose
l’obbligo di almeno un anno di noviziato;
-
Il
vescovo doveva accertare la reale volontà della giovane ad intraprendere la
vita religiosa;
-
Ristabilì
il principio della clausura e solo per rare eccezioni nessuna monaca poteva
uscire dal monastero e nessun estraneo poteva entrarvi (in modo particolare gli
uomini).
Nel
1566, con la bolla Circa pastoralis officii il
Santo Pontefice Pio V comminò la scomunica a tutti i trasgressori, mentre le
leggi ecclesiastiche avevano già chiarito e inserito tra i delitti quello del
sacrilegio carnale. Sicché solo un sacerdote, preferibilmente anziano o scelto
in ogni caso con accortezza dal vescovo, era ammesso all’interno della clausura
e unicamente per amministrare i Sacramenti alle monache inferme o ammalate, ed
era previsto dalle leggi canoniche che quattro monache anziane lo accogliessero
all’ingresso della clausura, lo accompagnassero e poi lo conducessero di nuovo
all’uscita. I rapporti delle giovani monache con la famiglia erano ridotti a
brevi incontri nel parlatorio, il tutto con la rigida separazione creata da
fitte grate, dalle quali si poteva udire la voce della monaca ma solo a
malapena se ne poteva intravedere la figura. Le grandi famiglie nobili
sollevarono molte proteste contro questo irrigidimento della vita conventuale,
ma nessuna delle loro proteste impedì l’applicazione delle nuove norme.
Le
nuove norme impedirono alle famiglie di risolvere i loro problemi patrimoniali
e di successione ereditaria mandando le figlie nelle abbazie e nei monasteri,
ed altresì a figlie senza alcun barlume di vocazione di mutare queste case
religiose in autentici postriboli all’interno dei quali condurre vite da vere e
proprie cortigiane. Un fenomeno, quello delle giovani costrette alla monacazione, che assunse risvolti a tratti non
poco inquietanti, in modo particolare nelle città di Venezia, Napoli e Palermo.
Alcuni
decenni dopo la chiusura del Concilio di Trento le autorità civili della
Repubblica di Venezia misero in atto una legge contro i “monachini” cioè gli
amanti delle monache che prevedeva sino alla pena di morte e ciò non solo per
il sacrilegio carnale ma anche per la semplice violazione della clausura. Una
legge che a quanto sembra non diede dei risultati positivi perché spesso sia le
monache che i “monachini” appartenevano spesso a famiglie nobili.
L’aspetto
religioso dell’Abbazia di Santa Maria
del Bosco non sembra essere in decadenza. I monaci, come riporta Frate
Olimpio, erano benvoluti dalla popolazione per la loro grande religiosità ed
altruismo. L’unico aspetto negativo era
forse legato alle continue polemiche ed ai relativi stati di insofferenza
mostrati dai monaci nei confronti dell’Abate per la sua carica vitalizia (sino
alla morte)..
Fino
al 25 giugno 1370 le cariche degli abati erano brevi, circa tre anni secondo
una consuetudine degli ordini mendicanti.
Benedetto
de Pligintino, quando fu eletto abate dell’Abbazia (nel 1369), si rivolse
proprio a papa Urbano V per sanare l’irregolarità dell’elezione che prevedeva
una carica breve. La tesi fu accettata dal papa
che diede disposizioni al Vescovo di Agrigento di rendere vitalizia la
carica di abate.
Come
diceva Padre Olimpio i monaci dell’Abbazia era insofferenti al lungo governo
anche perché
“e perche ognuno di loro era convinto di
saper bene governare e quindi accio n’havesse a toccare ad ogn’uno la parte sua
non volevano ch’il priore fosse fatto perpetuo”.
H. L’Abbazia di Santa
Maria del Bosco entra a fare parte della Congregazione di Monte Oliveto
Maggiore
Nel
XV secolo il monastero forse era in decadenza anche a causa di una probabile
commenda, e l’abate fra Placido Castagneda decise di fare entrare l’Abbazia
nella Congregazione di Monte Oliveto Maggiore (Chiusura, Frazione del comune di
Asciano - Siena).
L’abate
di Giuliana ma di origine spagnole, nel 1489 nel suo viaggio di ritorno dalla
Spagna, si recò a Siena sul Monte Oliveto per chiedere all’abate generale degli
Olivetani fra Giovanni da Baggio l’unione con l’Abbazia di Santa Maria del
Bosco.
San Bernardo Tolomei
regge il simbolo degli Olivetani
“I monti si riferiscono a Monte Oliveto
Maggiore – luogo di fondazione degli Olivetani –
e poichè le montagne sono
luoghi silenziosi e solitari, essi sono adatti alla preghiera,
ma essendo anche dure da
scalare indicano gli sforzi che bisogna fare per
arrivare a Cristo; la Croce
indicherebbe la meditazione sulla passione di Cristo;
mentre i ramoscelli di
olivo (dal nome del monte di origine), un po’ inclinati
e carichi di frutti,
indicano che il cristiano deve fruttificare nella chiesa
per il bene del prossimo,
ma deve rimanere umile.
Inoltre l’ulivo, che di
natura non tollera altre piante vicino a sé, simboleggia
la povertà e anche la
castità, per via del suo legno che resiste alla corruzione”.
L’unione
fu convalidata da papa Innocenzo VIII il 9 settembre 1491, grazie alla bolla “Cathedram”. Una bolla che fu
esecutoriata a Polizzi il 5 ottobre 1491 dal Vicerè Fernando de Acugna. I
monaci di Santa Maria del Bosco assunsero l’abito bianco.
Come
priore fu mandato dall’abate Generale della Congregazione per attuare la
riforma a Santa Maria del Bosco, fra Michele da Volterra accompagnato da nove
monaci.
L’abate
Castagneda, tra l’altro rettore anche dell’Ospedale di Palermo e delegato
apostolico di papa Sisto IV, venne nominato abate perpetuo con il privilegio di
poter indossare a vita, insieme ad altri due o tre frati l’abito nero dei
benedettini. Fu descritto dal cronista del tempo Padre Olimpio con un uomo di “bellissimo ingegno e grave affabile et
molto amicato tanto nella corte regia di Spagna quanto anche nella corte
romana”.
A
frate Castagneda si deve il restauro delle fabbriche trecentesche che furono
ristrutturate grazie agli interventi dell’arch. Domenico Cannavali (1493) e Antioco de Cara (1497).
Fino
al 1572 l’abbazia fu governata quasi sempre da monaci non siciliani e le
decisioni più importanti si prendevano
nei capitoli triennali di Monte Oliveto Maggiore. Veniva vietato all’abate
generale di Monte Uliveto di recarsi in visita in Sicilia per “evitare che cadesse in mano dei turchi e pesasse quindi
sull’ordine un eventuale e grave onere di riscatto”.
La storia artistica del monastero iniziò proprio con
l’insediamento degli olivetani. Il dominio del monastero diventò il punto di
forza degli olivetani in Sicilia. Questo determinò forti contrasti tra clero e
fisco per fare ancora una volta rispettare l’esenzione tributaria spettante ai
beni ecclesiastici dipendenti direttamente da Roma. Altri contrasti, sempre di
natura economica, tra clero siciliano contro
abati continentali e curia romana per evitare che le forti rendite del
monastero finissero fuori dall’isola come spesso era accaduto in passato e
come, ricorsi storici, accade oggi nella vita sociale e politica della Sicilia
dimenticata…. Gli olivetani di Sicilia miravano ad una totale autonomia non
volevano in pratica rispondere né al governo vicereale né alla curia romana.
Con le rendite dell’abbazia furono fondati a Palermo
diversi monasteri: lo Spasimo, Santo Spirito, S. Giorgio in Kemonia, Santa
Maria, S. Leonardo a Chiusa Sclafani,
della SS. Trinità a Giuliana. Numerose furono anche le chiese, cappelle e gli
ospizi.
L’abate di Santa Maria del Bosco occupava il 45°
seggio in Parlamento e partecipava quindi ai donativi. Nel XVII secolo l’abate
ricusò d’intervenire ai parlamenti e di
contribuire ai donativi appellandosi all’autorità pontificia. Questo
comportamento riuscì a prevalere ottenendo nel 1682 una sentenza favorevole
all’immunità del monastero.
Il
rancore da parte dei monaci siciliani di Santa Maria del Bosco verso gli abati
italiani fu molto forte tanto che Tomasi Lanza scrisse che “ogni abate che Roma inviava od imponeva malgrado il decreto viceregio
riportano, nella cronaca dell’olivetano del ‘600 Aiello da Corleone, accuse e
lagnanze di dilapidazione”.
Nei secoli XVI e XVII l’abbazia di Santa Maria versò
40.144 onze alla camera apostolica e 16.353 scudi ai monasteri olivetani
d’Italia per la sovvenzione alla curia per la guerra contro i turchi. Oltre al
Castagneda almeno altri 2 abati si resero particolarmente benemeriti alla
comunità del Bosco: P. Olimpio da
Giuliana uomo dotto e pio, autore delle memorie antiche del monastero di S.
Maria del Bosco (1582) e P. Protasio da
Corleone di casa Piccoli il quale fu anche il primo siciliano a ricoprire
la carica di abate generale degli olivetani (1605-8). Quest’ultimo fu anche il
promotore della ricostruzione “ex
fundamentis” del monastero del Bosco, a partire dal 1593, nel nuovo clima culturale religioso della Controriforma. Una
ricostruzione del monastero con l’intervento dell’architetto milanese Antonio
Muttone e del “lapidum incisor”
siciliano Paolo Busacca da Ficarra.
L’epilogo e la fine degli Olivetani di Sicilia avvenne
nel 1784 sotto il viceré Caracciolo,
marchese di Villamarina. Con un dispaccio reale gli olivetani furono espulsi
dal monastero in seguito all’ispezione ordinata dallo stesso vicerè. Dovette
intervenire la forza pubblica per costringere gli olivetani a lasciare subito
il monastero per essere trasferiti fra le sedi siciliane dei benedettini
cassanesi.
Il monastero venne abbandonato e malgrado le
disposizioni del sovrano, che avevano come obiettivo la salvaguardia della
struttura, nel giro di circa 10 anni cominciò a deperire. Gli abitanti del centri
vicini, che nel 1794 con la confisca del beni del monastero si erano viste
private di un centro di commesse di lavoro molto importanti, ottennero da
Ferdinando IV di Borbone che il monastero fosse affidato agli eremiti
agostiniani.
San Nicola da Tolentino
Il primo frate agostiniano
Stemma degli Agostiniani
Il Cuore trafitto che poggia sul libro e una cintura.
La cintura ricorda la devozione alla Madonna e costituisce un elemento
fondamentale dell’abito dei monaci agostiniani.
Il libro rappresenta il libro nono delle confessioni di Sant’Agostino in
cui lo stesso santo si esprime con queste parole:
“Hai ferito il mio cuore con
il tuo amore”.
Parole che esprimo il grande amore che Agostino aveva verso Dio.
Un amore così grande da essere rappresentato in maniera simbolica
con un cuore fiammante trafitto da una freccia.
Il 4 febbraio 1808 il sovrano dispose che venissero
riassegnati al monastero nuovamente tutti i feudi che gli appartenevano. Uno
splendore ritrovato per l’antica Abbazia ma che durò poco perché nel 1866 con
la legge di soppressione dei monasteri iniziò un nuovo e repentino oltre che
definitivo declino dell’edificio. I comuni vicini con diverse petizioni
chiesero, più volte, al real governo che il monumento fosse affidato ad alcuni
degli stessi monaci che avrebbero avuto un particolare impegno a mantenerlo e
soprattutto a presidiarlo.
Il complesso fu, in buona parte, venduto all’asta al
Barone Ferrantelli (Domenico De Michele, Deputato: XXII – XXIII legislatura ?).
Diventò un importante centro aziendale agricolo con il
vantaggio, decisamente importante, che almeno il monastero venne conservato
nelle sue strutture murarie e nelle coperture.
La situazione della chiesa e dell’appartamento
abbaziale invece finì con un irreparabile declino.
Una storia triste perchè agli atti vandalici, legati
all’abbandono, si aggiunsero gli eventi sismici del 1968 che colpirono la Valle
del Belice. Eventi che segnarono profondamente le antiche strutture della
chiesa e quella parte del monastero che era rimasta di proprietà della Diocesi
di Monreale e privi, ormai da tempo, di qualsiasi regolare manutenzione. A
questi eventi si aggiunsero dei drammatici crolli che si verificarono nel 1970
– 72 e nel 1980 – 81.
Allo stato attuale una parte dell’Abbazia è di
proprietà della Diocesi di Monreale mentre la parte rimanente è di proprietà
del barone Inglese, discendente del
barone Ferrantelli.
2. STRUTTURA
Il
grande complesso monastico fu iniziato nella seconda metà nel 1593 circa ed ultimato nel 1644 come risulta inciso nelle paraste
dei cantonali.
Come
abbiamo visto ospitò prima l’Ordine Benedettino e successivamente la
Congregazione Olivetana
Al
progetto ed alla esecuzione del complesso contribuirono validi architetti del
tempo come Antonio Muttone e l’intagliatore siciliano Paolo Busacca della
Ficarra la cui firma è presente nei manufatti del primo chiostro.
Il
grande complesso consiste in un grande edificio rettangolare, tagliato al
centro da un’ala e diviso all’interno in due parti da altrettanti chiostri di
carattere classicheggiante.
Il primo chiostro, a pianta quadra
e pavimentato, in cui la dimensione che predomina è quella orizzontale. Presenta
36 snelle colonne con capitelli dorici intervallate da archetti e nicchie. Al
centro è presente una fontana settecentesca su un basamento ottagonale.
Il secondo
chiostro,
a piata rettangolare e non pavimentato, in cui la dimensione prevalente è la
verticalità cioè l’altezza del chiostro. È di epoca barocca e quindi successivo
al primo,
con
semplici archi a tutto sesto su colonne lisce sollevate da alti plinti e con
capitelli dorici. Al centro un elegante fontana risalente al 1713.
Chiostro rinascimentale
Chiostro Barocco
Magnifico
il portale tardo cinquecentesco d'ingresso all'abbazia, che presenta un
movimento dell'architrave che prende spunto dalla michelangiolesca Porta Pia a
Roma dello stesso periodo.
L'abbazia
consta di quattro elevazioni: due seminterrati occupati dai locali di servizio,
un pianterreno con i due chiostri, il noviziato, il refettorio, lo scalone
regio e altri locali di servizio e il primo piano con le celle dei frati.
Al
grandissimo refettorio si accedeva dal secondo chiostro. La sala fu realizzata
nel 1644 per volere dell'abate olivetano Leonardo Ragusa e si orna di un grande
affresco, purtroppo in pessime condizioni, realizzato nel XVIII secolo e
raffigurante la "moltiplicazione del pani".
Il
Refettorio è un ampio salone di oltre 300 m², dominato da un affresco sul fondo
che rappresenta la moltiplicazione dei pani e dei pesci (datato 1609) e da
riquadri in finti marmi ai lati. L'ambiente è illuminato sul lato sud da un
doppio ordine di finestre che permette al sole di riscaldare l'ambiente anche
nei freddi mesi invernali. La luce è l'elemento dominante del fastoso salone.
Una grande nicchia sul lato ovest permetteva ad uno dei commensali di leggere
le sacre scritture durante i pasti mentre l'eco delle sue parole raggiungeva
anche l'ultimo dei monaci vicino alla porta d'ingresso.
Alla
parte superiore si accede tramite due preziose scalinate di steatite. Qui si
sviluppano interminabili corridoi sui quali si affacciano le antiche celle dei
frati (circa un centinaio), l'antica libreria, la foresteria, vari ripostigli e
la cappella privata dell'abate, annessa al suo appartamento, nel quale soggiornarono
ospiti illustri, fra gli altri il re di Sicilia Ferdinando I.
Il
culmine dei camminamenti porticati dei chiostri è il cosiddetto Scalone Reale,
molto teatrale nella sua composizione ma severo al tempo stesso. Presenta anche
questo una spiccata spinta verticale, attenuata da due volumi balconati che
fiancheggiano la scala vera e propria. Alla sua base una fontana settecentesca
in marmo bianco e grigio permetteva ai monaci di lavarsi le mani prima del
pasto, che si svolgeva nel limitrofo Refettorio, il cui portale classicista, in
tre marmi, viene movimentato da un timpano spezzato.
Il
piano dei chiostri era chiaramente un'area di rappresentanza che sul lato Ovest
presenta una teoria di sale più o meno piccole, affrescate e stuccate, una
piccola sala da pranzo (per le alte sfere del monastero e ospiti illustri)
anch'essa riccamente ornata con stucchi e pitture murali. Sul lato sud del
medesimo piano vi è la cucina e gli ambienti di servizio al Refettorio. Al
piano superiore il dormitorio, con una cinquantina di celle, e la grande
biblioteca affacciano su altissime gallerie a croce latina (la più lunga di
108 m) illuminate da finestre tonde, poste a circa 10 m di altezza,
che permettono alla luce del sole nelle diverse ore diurne di scandire il tempo
e di dare plasticità agli immensi spazi. I punti di fuga di questi straordinari
corridoi sono dei grandi finestroni posti all'estremità. Portali, cornicioni,
lesene e capitelli sono decorati con finti marmi di vario colore (dal più
antico di colore verde scuro, al rosa del '700, al più severo bianco dell'800)
e da un ocra dorato
che
cattura la luce e ne definisce i contorni. Anche le porte del monastero
rispondono ad una rigida regola barocca: di colore verde sono le porte che si
aprono su spazi interni; di colore rosso quelle che si aprono all'esterno e su
spazi porticati.
LA CHIESA
La
chiesa, progettata dal Vanvitelli e realizzata tra il 1643 e il 1757, è serrata
tra il monastero e il massiccio campanile dalla cuspide piramidale. A croce
latina e con un'unica navata, essa fu costruita utilizzando una bella qualità
di pietra grigia. La facciata è composta da conci squadrati con lesene e
capitelli corinzi e al suo centro campeggia un rosone tamponato che simboleggia
la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. La chiesa, dalla struttura
imponente, purtroppo è stata molto danneggiata dal terremoto che sconvolse la
Valle del Belice nel 1968 e da crolli successivi. Resta solo il ricordo delle
feste religiose e dei pellegrinaggi che l'animavano, e le opere d'arte che la
arricchivano sono state trasportate altrove. Tra esse ricordiamo il magnifico
busto, capolavoro di Francesco Laurana, che ornava il sepolcro qui posto, della
regina Eleonora d'Aragona, devotissima benefattrice del monastero, oggi alla
Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. La soppressione degli ordini religiosi e
l'esproprio di tutti i loro beni non risparmiò Santa Maria del Bosco che,
smantellata e saccheggiata, venne venduta all'asta. Fu così che entrò a far
parte del patrimonio del barone Ferrantelli, e venne trasformata in azienda
agricola. Oggi appartiene a un nipote del primo proprietario, il barone
Guglielmo Inglese.Il passaggio in mani private, comunque, ha sortito il
positivo effetto di arrestare il degrado della fabbrica. Diversa la sorte della
basilica che, rimasta a far parte dei beni del vescovado di Monreale, ed
aspetta un restauro in grado di
riportarla all'originario splendore.
La Chiesa fu terminata nel 1757 in base alle
testimonianze lasciate dall’architetto napoletano Luigi Vanvitelli che tra
l’altro fu autore dell’Albergo dei Poveri di Palermo e del celebre Palazzo
Reale di Caserta. In una sala del palazzo Reale è dipinto un affresco in cui è
raffigurata l’Abbazia di Santa Maria del Bosco di Calatamauro.
Luigi Vanvitelli
Dipinto di Giacinto Diano (1765)
Olio su tela – Reggia di Caserta
La chiesa occupa un area di 2.206 mq ed è a unica
navata con cappelle. Presenta una pianta a croce latina e con cupola mentre
l’esterno della basilica rimase grezza ad eccezione della facciata principale e
del campanile. Campanile che fu eretto dal 1623 al maggio 1627 ed opera dell’abate
don Vittorio da Napoli.
Quanto ai quadri che erano presenti nella chiesa
bisogna ricordare:
Santa Rosalia di Vito d’Anna (1766);
la Sacra Famiglia del Postiglione (1856)
San Benedetto dell’Angeletti;
la Madonna della Consolazione del Lo Forte
la Madonna di Antonino Manno (1818)
Nella sacrestia era collocato un quadro del fiorentino
Filippo Paladino che raffigura San Francesca Romana del 1613.
Nella sala che mette il comunicazione il chiostro con la
chiesa era collocato un mausoleo
sormontato dall’effige dell’infante Eleonora d’Aragona. Un opera che fu attribuita a Francesco
Laurana (XV secolo). Con la morte della principessa di Caltabellotta a Giuliana
nel 1405, i monaci di Santa Maria del Bosco le eressero un monumento che è
testimoniato da un epigrafe che la ricorda ai posteri per il suo grande amore
verso il monastero. Il mezzo busto, per fortuna salvato dal trafugamento, è
oggi uno dei reperti più importanti della Galleria Nazionale di Palazzo
Abatellis a Palermo.
Eleonora d'Aragona
di Francesco Laurana (XV secolo)
Una bellissima scultura marmorea, alta 50 cm,
realizzata intorno al 1468.
Come già accennato il busto proviene dalla tomba di
Eleonora d’Aragona, morta nel 1495, posta nell’Abbazia di S.M. del Bosco. In
realtà, in base alle ricerche effettuate, sembra che la principessa alla fine
abbia deciso di farsi seppellire vicino alla madre Cesarea e cioè nella
cappella del Castello di Caltanissetta.
Il suo ritratto è quindi postumo e nel Museo di Louvre
è presente un “busto di principessa” molto simile.
Un finissimo ritratto femminile con un busto tagliato
all’altezza del petto. Presenta un bellezza levigata cove la purezza delle
forme e la sintesi della figura richiama a modelli di Piero della Francesca e
di Antonello da Messina.
I
capelli sono raccolti in velo e nascondono le orecchie dando alla testa un
aspetto levigato, armonioso.
Eleonora D’Aragona
(1346; 1405) fu una delle donne più importanti del suo
tempo. Contessa di Caltanissetta, Calatafimi, Contessa, sambuca, Giuliana,
Adragna e Calatamauro, sposò nella chiesa del Castello “Pietrarossa” di
Caltanissetta, Guglielmo Peralta, Conte di Caltabellotta e Vicario del Regno.
La
contessa fu sempre un punto di riferimento insostituibile per il monastero,
tanto che in occasione dell’elevazione ad abbazia, fra Benedetto chiese il suo
intervento per placare il re (Martino “Il Giovane”) che aveva scritto ai monaci
di non tenere in nessun conto il nuovo
titolo dell’abate ma di accoglierlo al rientro da Roma neppure come priore ma
come semplice monaco. Eleonora «maneggiò
in modo questo negozio con la reggina Maria sua nipote figlia del suo
consobrino carnale» da placare del tutto le ire del sovrano e spingerlo a
ritrattare quanto scritto in precedenza e ad accettare le bolle pontificie. Non
è un caso che all’infanta si debba il transunto della consacrazione della
chiesa di Santa Maria del Bosco del 1309.
A testimonianza del rapporto della contessa con il
monastero, Eleonora redigeva le sue ultime volontà, nel 1402, a Santa Maria del
Bosco, alla presenza dell’abate, del priore e di altri cinque frati, e
disponeva che Benedetto Maniaci fosse uno degli esecutori testamentari. Anche
il successore di fra Benedetto, Angelo de Calido, era chiamato in causa ed era
presente a Giuliana, nel 1406, per un altro atto delicato voluto dall’infanta,
ormai prossima alla morte, “la donatio
causa mortis a favore del nipote Raimondetto delle terre e castelli di
Caltanissetta e Sambuca e del castello di Calatamauro”. Il legame con il
monastero fu talmente stretto da giustificare le parole di Padre Olimpio da
Giuliana che ritenne che l’infanta fosse sepolta nel monastero da lei tanto
beneficato in vita e da avvalorare l’ipotesi che la donna magistralmente
immortalata dal Laurana nel busto custodito, fino alla fine dell’Ottocento, a
Santa Maria del Bosco fosse proprio Eleonora d’Aragona. In realtà, pur
considerando l’affetto nei confronti del monastero e pur ammettendo l’ipotesi
che le volontà testamentarie dell’infanta fossero state disattese, bisogna
tenere presente che la contessa scelse come luogo di sepoltura la chiesa del
castello di Caltanissetta dove riposava la madre Cesarea. Relativamente al
busto, tra le molteplici identificazioni della donna ritratta dall’artista
dalmata, quella di Eleonora d’Aragona sarebbe la più plausibile, dando credito
all’ipotesi di Patera secondo il quale Carlo Luna, discendente della contessa,
avrebbe commissionato al Laurana, per commemorare la memoria dell’antenata, un
ritratto postumo. L’artista avrebbe realizzato i tre busti: della Galleria
Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo, del Louvre e del Musée
Jacquemart-André. Uno dei tre esemplari, il migliore, sarebbe rimasto a Sciacca
(?), probabilmente nel castello, fino alla fine del Cinquecento quando l’abate
Agostino da Sciacca lo avrebbe portato con sé nel monastero. Perché Francesco
Laurana fece tre busti quasi identici ?
Il
Laurana era nativo di La Vrana In Dalmazia e attivo in diversi centri come
Napoli, Urbino, Avignone. Lo scultore giunse in Sicilia prima del 1468, ed
esattamente a Sciacca, chiamato dal potente signore Carlo Luna. Il Luna aveva
apprezzato l’arte del Laurana a Napoli presso la corte aragonese e gli
commissionò il busto della sua importante antenata.
Da
chiarire il luogo della sepoltura di Eleonora d’Aragona che secondo alcune
citazione sarebbe stata sepolta nell’Abbazia di santa Maria del Bosco mentre
secondo altre fonti, accanto alla madre, nella chiesa del castello di
Caltanissetta.
La
chiesa dovrebbe essere quella di Santa Maria degli Angeli.
Nell’Abbazia
la tomba di Eleonora si trovava in un sala di passaggio tra i chiostro e la
chiesa e il busto che la sormontava, fu trasferito alla fine dell’Ottocento al
Museo Nazionale di Palermo.
L’opera
probabilmente fu eseguita dal Laurana tra il 1484 ed il 1491 quando ritornò In
Sicilia (nel 1471 era rientrato da un lungo viaggio a Napoli).
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3. L’Effige della
Madonna con il Bambino (Odigitria)
A
chi era dedicata l’Abbazia di Santa Maria del Bosco ?
Il nome è in un certo senso emblematico perché
è venerata la Madonna con l’appellativo di “Bosco” per la posizione
dell’Abbazia vicino al rigoglioso ed intrigato Bosco di Monte Genuardo.
In
realtà i documenti, le fonti e anche le tradizioni dei contessioti la citano
come: la Madonna della Favara, Odigitria
di Calatamauro, Madonna del Muro, S. Maria della Fonte, Shen Meria e Kroit,
Shenbria e Favares, Odhghtria ths phghs, S.
Maria delle Grazie.
La “Madonna Odigitria di Calatamauro” è un mosaico di
“Vergine con Bambino” che oggi è conservato presso la Galleria Regionale della
Sicilia (Palazzo Abatellis, Via Alloro, Palermo) risalente alla seconda metà
del XIII secolo. Un mosaico che fu eseguito da maestranze bizantine “una testimonianza della pittura bizantina di
ambito protopaleologico, con grado di maturazione stilistica e di padronanza
dei processi tecnico-esecutivi del tutto eccezionali”.
Fu
eseguito quindi da esperti mosaicisti greco-costantinopolitani di cultura
simile agli artigiani che a Messina eseguirono i mosaici nella chiesa di S.
Gregorio.
Messina - Chiesa
di San Gregorio - prima della
distruzione del terremoto del 1908
Guercino,_Francesco
Barbieri detto il Guercino da Cento
La Madonna del
Carmine con San Giuseppe, Santa Teresa e
Gloria d’Angeli –
Chiesa di San Gregorio
Madonna della
Ciambretta
Secolo XIII
Il mosaico si
trovava nella Chiesa di San Gregorio, detta anche di “Santa Maria, fuori
le mura”. Un
edificio officiato dalle monache benedettine.
Il mosaico
raffigura la Madonna e Gesù Bambino in trono ed
un monaco
offerente.
La denominazione
“Madonna della Ciambretta” deriva dal termine francese
“chambrette”
(cameretta) e in questo caso piccola nicchia in cui era posta
la sacra immagine.
Il terribile
terremoto del 1908 causò il suo distacco dalla parte.
Fu danneggiata,
recuperata e dopo un attento restauro fu
Collocata nelle
sale del Museo di Messina.
La Madonna è
seduta su un trono circolare con i piedi posti su una pedana e regge in grembo
il Bambino Gesù. Bambino Gesù che è benedicente entro una nicchia decorata con
motivi stilizzati.
Ai piedi un monaco, identificato con San Gregorio che riceve
dalla Madonna una
pergamena con un scritta di non facile interpretazione.
Il mosaico
risalirebbe al XIII secolo e il realismo nella figura del monaco, nel suo abito,
il trono con il
suo andamento curvilineo farebbero riferimento a maestranze
bizantine e locali
che diedero vita alla bellissima opera secondo la tradizione
stilistica
bizantina e con influssi nuovi, tipici della cultura
bizantina del XIII
secolo.
Messina – Madonna della
Ciambretta
Il
mosaico di Calatamauro è costituito da un frammento musivo e fu creato con
tessere di materiale differente: foglie d’oro, pasta vitrea opaca, pasta vitrea
trasparente e lapideo.
La Madonna raffigurata nell’icona-mosaico
presenta gli aspetti della “Odigitria” cioè di “Colei che indica la Via”
secondo la tradizione dipinta da San Luca. La mano destra della Madonna indica
Gesù Bambino, seduto sulla sua mano sinistra, che con una mano benedice (“alla
greca”) e con l’altra tiene il rotolo.
Gli
storici sono tutti concordi nel datare l’opera, ultimi decenni del XIII secolo
come espressione dell’arte di Costantinopoli, e anche sulla sua provenienza
cioè dall’area messinese.
La
storia dell’icona assume aspetti
veramente affascinanti nel cercare di descrivere come sia giunta nel bosco di
Calatamauro.
Nel
XIV secolo nel monastero di Santa Maria del Bosco, non ancora dichiarato
Abbazia, erano presenti alcuni frati di origine messinese: “fra’ Marco da Messina nel 1310; fra’ Matteo
e fra’ Nicolò (entrambi di Messina) nel 1318. Fra’ Nicolò diventò priore
dell’Abbazia dal 1362 al 1366”.
L’icona
mosaico era portatile, presenta delle dimensione di (82 x 509) cm, e fu portata
nel territorio di Calatamauro proprio dai monaci messinesi che esposero
l’immagine in una cappella del territorio circostante. Una cappella già aperta
al culto. Una collocazione temporanea in attesa che fosse costruita una
cappella adatta per esporre la Sacra Immagine nella Chiesa del Monastero.
Nel
casale di Contessa nel 1308 era presenti due chiese: una dedicata a Santa Maria
e l’altra a San Nicola. Entrambe le chiese erano affidate ad un frate di nome
Benedetto.
La
piccola chiesa era dedicata a San Nicola (“Shen Koli di te Muzqat) e si trovava
nella contrada “Musiche” che era attraversata dal Torrente Favara.
Probabilmente
l’icona fu collocata in questa piccola chiesa in attesa del suo trasferimento nella cappella di Santa
Maria del Bosco che era ancora in costruzione. Una paurosa frana investì la
zona dove sorgeva la piccola chiesa cancellando sia l’edificio sacro che le
costruzioni circostanti (Kumbora di te Muzgat) . Fu una frana di grandi
proporzioni a tal punto che ha lasciato nella memoria popolare tristi presagi.
Si
tramanda che alla vigilia di eventi disastrosi (frane, terremoti, inondazioni)
si sente il suono delle campane della chiesetta che fu travolta dalla frana. Non
si sente il suono della campana ma si ha questa strana sensazione come segno
premonitore di una sciagura.
Nel
documento “Rationes Decimarum Italiae” (Studi e Testi n. 112, Città del
Vaticano, 1944), nella parte riguardante la Sicilia (al n. 1487, p. 111), è
riportato che nei secoli XIII e XIV, un sacerdote di nome Benedetto, per gli
anni 1308 – 1310, per le due chiese del casale di Contessa (S. Maria e S.
Nicola) pagò 14 tarì e questo prima della ricostruzione del casale da parte
degli Albanesi.
Con
l’arrivo degli Albanesi, che ricostruirono il casale di Contessa, fu trovava
una “lastra di pietra” con l’immagine della Madonna” vicino alla fontana della
Favara o comunque vicino al torrente della Favara. Una ritrovamento che
dimostra come il luogo fu abbandonato dagli abitanti per il terribile evento
franoso. Furono quindi gli albanesi che nella seconda metà del XV secolo si
stabilirono nella zona iniziando una forte opera di ricostruzione.
La sorgente Favara
esisteva già prima del ritrovamento della
immagine della
Madonna. La fonte con relativo abbeveratoio fu
costruita quando
gli albanesi cominciarono ad edificare le prime abitazioni sia
vicino alla chiesa
che alla fontana determinando la nascita del nuovo quartiere
che fu denominato
“Favara” o “Fontana”. Quartiere che fu citato nel
rilevo del 1623.
Il quartiere “Madonna della Favara” fu invece citato per
la prima volta nel
rilevo del 1714 quando sostituì l’antica denominazione
e dopo la
costituzione della chiesa latina.
Il
parroco latino Atanasio Schirò (1841/1895; parroco, insegnante e storico) scrisse che “la chiesetta sia stata eretta nell’occasione
di essersi rinvenuta sotterra una lastra di pietra ove era mirabilmente
effigiata la Madre di Dio”.
La
chiesetta è l’attuale Maria SS. delle Grazie (della Favara) di cui però non si
conosce la data esatta di costruzione.
Fu
costruita nel XVI secolo e nel XVII secolo fu citata nel decreto dell’1 giugno
1603 dal Vescovo di Girgenti, Juan
Orozco Covarrubias y Leiva, che approvò i capitoli della “Compagnia della Madonna della Grazia, nominata della Favara nella
terra della Contessa”.
In
origine la piccola cappella era posta fuori il centro abitato e fu infatti
indicata come “fuori Terra” nel testo
di una visita pastorale del vescovo di Agrigento. Una chiesetta rurale e la cui
presenza indubbiamente favorì lo sviluppo topografico dell’abitato. Nei secoli
successivi la chiesetta finirà con il ritrovarsi in un grande quartiere.
Il
piccolo edificio era usato dai membri della Confraternita che all’inizio erano
quasi esclusivamente “arbereshe” (albanesi). I “latini” erano infatti in numero
decisamente inferiore rispetto agli albanesi come risulta dai rilevi del 1592 e
del 1623. Solo nei secoli successivi i latini saranno nel territorio sempre più
numerosi.
La
chiesa nel 1698 diventò parrocchia latina e nei primi decessi del XVIII secolo
si presentava in degrado. Una relazione del 1740 del visitatore della casa
Colonna citò che “ la parrocchia latina è
troppo indecente, quantochè dubitano che il Prelato ordinasse di chiuderla”.
Grazie
alla volontà del Principe Colonna (Filippo II
o Marcantonio Colonna ?), all’impegno di don Michelangelo Musacchia, che
dal 1750 era parroco dei latini, e all’apporto di tutti i contessioti, greci e
latini, la Cappella della Madonna della Favara fu restaurata. I lavori
iniziarono nel 1751 e furono completati nel 1771. Fu un ampio lavoro di
restaurazione, ampliamento ed abbellimento.
In
un manoscritto del 1771 è riportato anche il sorgere di una diatriba tra greci
e latini:
“….I latini però
terminato che fu il materiale di tutta la fabbrica vi posero una lapide, in cui
si stava scritto qualmente quel tempio era stato eretto a spese dei latini e
che perciò non più ai greci ad essi pell’avvenire spettava”…..
“Ognuno secondo le
proprie forze, colle fatiche personali i poveri, all’ingrandimento della loro
parrocchia, e comeché le famiglie più comode sono appunto quelle degli
albanesi in quella terra, vi accorsero quegli più d’ogni altro all’ampliamento
di quel tempio, e molto più che era loro proprio”……
“Tosto si opposero
i greci contro i latini nella corte vescovile di Girgenti: vinsero la causa,
strapparono l’affissa ingiusta lapide piantata in un fondo alieno
coll’exequatur della medesima Corte vescovile”.
La
chiesa nel 1843 era nuovamente in rovina e la sera del 21 febbraio, a causa di
un violento temporale, crollò gran parte della struttura. La parrocchia venne
provvisoriamente trasferita nella chiesa delle Anime Sante. Tra i contessioti iniziò una grande gara di
solidarietà per la ricostruzione dell’edificio,
con offerte di denaro con contributi di lavoro volontario.
Trasportarono
la sabbia dalle cave della Brigna e le pietre dalla cava Honi, mentre le donne
trasportavano l'acqua dalle sorgenti più vicine (Favara e Canale).
Si
narra che durante i lavori di ricostruzione della chiesa, la Statua della
Madonna rimase esposta sulla grande roccia che si trova nel fondo della
famiglia Liuzza Antonino, attigua al sentiero che porta verso la contrada
Tarmaggio.
Da
parte della gente una continua veglia di preghiera nei confronti della Madonna
che era circondata da fiori e il cui volto era rivolto verso la contrada “Honi”
affinchè “proteggesse quanti erano
impegnati nel pericoloso lavoro di estrazione delle pietre necessarie per
l’edificazione della chiesa”.
I
lavori furono ultimati e nel tempo ci furono vari interventi anche di
abbellimento.
La
chiesa fu dotata di un organo a canne nel 1871; la cappella della Madonna fu
ornata con marmi; l’abside e le varie cappelle furono arricchite con stucchi,
ori, statue ed affreschi. Il pavimento fu rifatto in marmo.
Nel
corso del tempo furono eseguiti altri lavori: ampliamento con la cappella nel
lato sud e vari interventi di abbellimento.
Durante
i lavori di restauro e consolidamento eseguiti nell’ultimo decennio del XIX
secolo fu individuato, sotto il pavimento il pavimento della chiesa, un grande
locale sotterraneo. Un locale a pianta rettangolare che si estendeva dai primi
gradini dell’altare maggiore fino ai primi banchi dell’aula, davanti all’altare
del Crocifisso.
Un
locale che era usato come ossario del cimitero della chiesa e che in origine
era la cappella che fu costruita per custodire l’immagine della Madonna trovata
nelle vicinanze della sorgente Favara e che era chiamata “Madonna del Muro”
(secondo lo scritto di don Atanasio Schirò).
Un
aspetto importante è legato alle caratteristiche del locale che sono uguali
alla vecchia cappella che fu ritrovata nella chiesa greca dopo i lavori di
restauro e che oggi è visitabile.
Dopo
la rimozione della lapide posta dai latini quando furono ultimati i lavori di
restauro della chiesa nel 1751….”per
torre (togliere), in futurum, ogni pietra di scadalo rissa, si divenne tra il
clero greco e latino di fare nel 1754, per gli atti di notar don Salvatore
Schirò, una solenne transazione”:
-
Primo, si convenne
che tutte le antiche e principali giurisdizioni della Matrice chiesa greca, di
cui è filiale l’accomodata parrocchia dei latini, appuntino si osservassero intatte;
-
Secondo, che i
latini ratificavano qualmente la chiesa della SS. Vergine della Favara era “de
jure proprio” dei greci; e che i latini eglino permettevano il solo uso della
chiesa a loro accomodata, finchè fabbricassero questi un proprio tempio;
-
Terzo, che in vivo
momento ed esecuzione di questo accordo i greci ogni anno dovessero
solennizzare, essi, la quindicina dell’Assunta sino al quindici di agosto in
suddetta accomodata chiesa;
-
quarto, pel
medesimo fine, nel condurre ogni anno la sacra Bolla della Crociata, il parroco
greco uscendo dalla matrice in processione avesse ad entrare nella sudetta
accomodata chiesa ed ivi celebrarvi messa cantata solenne e farvi la spiega
d’essa Bolla; quinto finalmente, che la festa della nascita di Maria
agli otto di settembre, ogni anno, la solennizzassero, con vespero, messa
cantata e processione, i greci ed in caso che il parroco greco non avesse
comodo di intervenire, allora dovesse egli destinare a qualsivoglia del clero
greco per supplire le veci del parroco greco nelle sudette processioni; e se
mai il parroco latino si volesse intervenire nella suddetta processione, col
clero, sta in sua libertà”.
Questa
transazione fu convalidata con Sovrana Risoluzione il 5 agosto 1845, comunicata
con Real rescritto del dì 9 di detto mese
ed anno tanto alle autorità ecclesiastiche che civili, con la quale il re
Ferdinando II ordina che”dai due cleri di
Contessa si eseguisse la transazione 6 settembre 1754, come quella, che dalla
sua costante osservanza si erano avuti i più felici risultati."
La
Transazione viene anche confermata con decreto dell’ arcivescovo di
Monreale (10.11.1900): “veduta la istanza
del parroco latino di Contessa Entellina e i documenti dal medesimo prodotti;
vedute le repliche del parroco greco alla istanza suddetta; considerando che
con sovrano rescritto del 9 agosto 1845 onde porsi termine alle questioni
allora insorte tra i due cleri, latino e greco, fu disposto doversi eseguire la
transazione del 1754, con la quale erano stati stabiliti i
rispettivi diritti e prerogative circa la festività di Maria SS.ma delle
Grazie, che si celebra il dì 8 settembre d'ogni anno nella chiesa
medesima; che di fronte a tale rescritto, fondato sulla osservanza delle
transazioni anzidette, ultrasecolari, sia opera vana quella di rivangare
il passato sull'origine del locale di Contessa e su tutt'altro addotto dal
parroco latino, la sovrana determinazione mirò certamente a che non
risuscitassero più oltre i dissidi tra le due parrocchie, ed essa ha
tutta l'importanza e tutto il valore per troncarsi ogni questione sul
proposito; dichiariamo che si debba stare fermi alla osservanza del
passato circa all'esercizio dei rispettivi diritti e prerogative dei due cleri
salvo, secondo i casi, i provvedimenti da emanarsi dalla Suprema Autorità
Vescovile per le modalità del detto esercizio. Datum Monte Regali die 10
novembris 1900".
Altri
interventi dopo il disastroso terremoto del 1968.
La chiesa della Madonna della Favara è cara a tutti gli abitanti del centro sia di rito greco che romano. Custodisce la statua della Madonna della Favara e la preziosa ed artistica “vara” che viene adoperata per la processione e inoltre in essa si svolge la festa principale di Contessa Entellina.
Il
10 settembre 1651 veniva redatto dal notaio Pietro Schirò di Contessa, un
contratto tra un comitato di Contessioti
((Simone Zamandà, Pietro Xammira, Luca Vitagliota, sac. Don Leonardo Rizzo, Simone
Schirò, Marco Dulci, Mario Mustacchia, Domenico Lala, Francesco Lombardo, sac.
Domenico Diamante, Gaspare Ferlito, e Bartolomeo Mustacchia)) e lo scultore
Benedetto Marabitti di Chiusa Sclafani.
Allo
scultore venne fu commissionata una statua “con
le sembianze della Madonna del Muro, venerata da tempo nella cappella della
Madonna della Favara”.
Il
contratto rileva che la statua dovrà essere “alta
sei palmi e mezzo, tutta dorata, legno di salice, da consegnare entro il 30
giugno 1652, costo 32 onze”
In
un altro contratto dello stesso notaio, ma risalente al 20 marzo 1650,
l’intagliatore Giuseppe Di Lorenzo, artigiano di Chiusa Scalafani, ricevette
l’incarico dai Contessioti (Antonino Musacchia,
Aloisio Vitagliotta, Giovanni Chetta, Pietro Chetta, Andrea Schirò, Biagio
Xiamira e Giovanni Franco) di fornire “una
grata di legno di noce, alta nove palmi da servire per proteggere l’immagine
della Madonna della Favara (La Madonna del Muro)”.
L’immagine sarebbe l’icona-mosaico perché la statua verrà scolpita
due anni dopo.
La Statua della Madonna della Favara ha una sua grande
importanza artistica perché è una rarissima testimonianza di fusione della
tradizione artistica sacra orientale (dettata dall’icona-mosaico) con quella
occidentale (la statua). C’è infatti una perfetta rispondenza nell’espressione,
dimensioni, posizione delle mani della Madonna con il Bambino.
Ritornando all’icona –mosaico
c’è da chiedersi se fu mai esposta nella chiesa dell’Abbazia. Non si hanno in
merito notizie certe anche se il suo culto era presente tra i monaci e la
stessa Abbazia era dedicata alla Madonna. Altre fonti parlano della presenza,
anche queste non sicure, dell’icona nella cappella del castello di Calatamauro.
La
Madonna Odigitria è patrona della
Sicilia e il suo culto è diffuso da tempi remoti (sarebbe un lascito della
dominazione bizantina).
A
Contessa Entellina oltre all’icona mosaico e alla statua della Madonna della
Favara (risalente al 1652) è presente anche un’altra immagine risalente al
secolo XIX.
Si
tratta dell’Odigitria di S. Luca, un icona su legno dipinta da papas Nino
Cuccia ed esposta nella chiesa parrocchiale greca e, durante il canto della “Paraclisi”
nella Chiesa della Madonna della Favara dal primo al 14 agosto.
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4. L’importate ruolo
del Barone Guglielmo Inglese nella salvaguardia dell’Abbazia
Un
ruolo importante per la salvaguardia del Monastero di S. Maria del Bosco fu
svolto dal barone cav. Guglilmo Inglese nel secolo scorso. Una figura
importante nella vista sociale e culturale di Contessa Entellina che gli dedicò,
il 28 agosto 1999, una mostra ed un concerto nei bellissimi chiostri del
monastero.
Laureato
in Agraria, partecipò alla seconda guerra mondiale come pilota dell’aeronautica
Militare Italiana e trascorse gran parte della sua vita a Santa Maria del Bosco
per seguire direttamente la gestione dell’azienda agricola e la conservazione dell’importante complesso
monumentale di sua proprietà.
Un
impegno culturale che fu riconosciuto dall’Unesco con la seguente motivazione:
“Gentile e tenace signore che, lottando contro
leggi inique ed i fuorilegge, é riuscito a tutelare, pur tra mille difficoltà,
un monumento della Sicilia occidentale tanto importante quanto sconosciuto ai
più: l’Abbazia di S. Maria del Bosco.
Ha sostenuto e
potenziato le azioni di restauro, contribuendo alla salvaguardia del nostro
patrimonio artistico e alla difesa delle tante testimonianze storiche, che
questo luogo rappresenta”.
Il
suo intervento al convegno “Verso il Recupero”, che si tenne a Santa Maria del
Bosco il 15 settembre 1986, evidenziò il suo grande amore verso il Monastero ed
il disagio nel dover assistere impotente al degrado della chiesa e delle
strutture di pertinenza della Diocesi di Monreale…“giorno dopo giorno e pietra dopo pietra, quella che era una splendida
basilica é diventata un cumulo di macerie, profanate da sciacalli di ogni
genere. La proprietà privata ha un grande vantaggio per la conservazione e la
cura dei beni immobili: l’amore e l’interesse per le cose proprie”.
Cav. Guglielmo
Inglese
Morì
la notte del 30 novembre 1998 proprio a Santa Maria del Bosco… una morte
avvolta dal dialogo con la sua amata struttura…”sentiti dei rumori e l’abbaiare insolito dei cani, esce dalla sua
stanza, scende nel primo chiostro, esce dal grande portone per
controllare l'area che si estende davanti alla chiesa ed al monastero.
Rientrato nel chiostro, sale al primo piano, percorre il lungo corridoio ed
esce dal portone del primo piano, sedendosi fuori sull’antico sedile di
pietra, dove viene dai familiari trovato esanime con i cani
sdraiati a terra, che lo vegliano, come se volesse testimoniare il suo
ruolo di custode fedele davanti al grande portone, per vigilare fino all’ultimo
momento della sua vita su questo monumento della religione, dell’arte, della
cultura, della solidarietà, che appartiene alla sua famiglia, ma che
nello stesso tempo appartiene anche al patrimonio culturale dell’umanità”.
Il cav. Inglese ha lasciato
un importante testamento spirituale alla comunità così come tante altre figure
che si sono adoperate nella vita, purtroppo breve, di scoprire, salvaguardare e
valorizzare i beni monumentali e
naturalistici di questo nostro amato Regno di Sicilia così martoriato dalla
storia e dalla politica… “sono stato fedele custode di un luogo di culto e di cultura, che
con amore, sacrifici, risorse e grande attenzione ho lasciato alle
generazioni future, quale testimonianza plurisecolare della fede delle comunità
di tutta la vallata”.
I
convegni (negli anni 1985, 1986 e 1988), promossi anche dall’Associazione
Culturale “Nicolò Chetta” di Contessa Entellina, risvegliarono l’interesse
della gente e anche l’attenzione degli amministratori pubblici.
A
distanza di alcuni anni dai convegni ci fu un intervento per consolidare le
strutture non crollate ed un intervento recente, nel lato Est del primo
chiostro, per porre fine al degrado ed all’abbandono.
Ma servono altri interventi di recupero e di salvaguardia per
permettete che l’importante complesso possa essere ammirato dalle generazioni
future.
Dopo
i convegni l’Abbazia fu oggetto di
visite sempre più frequenti e negli spazi interni (chiostri) furono organizzate occasionalmente
manifestazioni culturali e ricevimenti di matrimoni.
Tra
le manifestazioni culturali che furono
allestite nel monastero; degustazione di prodotti tipici, mostre fotografiche,
mostra dell’artigianato ed anche spettacoli teatrali, concerti, spettacoli
folcloristici e di danza moderna, ecc.
Manifestazioni che hanno richiamato un gran numero di visitatori
anche perché spinti dal desiderio di ammirare e visitare la struttura.
Santa Maria del Bosco si presta quindi ad una fruizione culturale
e turistica, sempre nel rispetto delle sue caratteristiche monumentali, e gli
eredi del Barone Inglese si stanno adoperando verso questi importanti obiettivi
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5 . La
situazione attuale della Chiesa
(Proprietà Diocesi di
Monreale)
L'Abbazia.... una volta........
Purtroppo la parte pubblica, affidata alla Diocesi di Monreale, è
in rovina. Molti dei suoi tesori sono andati perduti, distrutti dai crolli e
dai furti.
Le opere preziose che si sono salvate sono sparse tra Museo della
Diocesi e Museo regionale di palazzo Abatellis e non , come dovrebbe essere,
nella stessa Abbazia.
Oltre alla chiesa in rovina, c’è anche la rettoria che sarebbe il
palazzo Abbaziale e adiacente alla stessa chiesa.
Era il palazzo dell’abate di Santa Maria del Bosco che si
sviluppava su due livelli. Presentava dei saloni abbelliti da stucchi, affreschi, camini
e maioliche di gran pregio. Di tutto questo rimane nulla perché gli affreschi
sono spariti, le volte sono crollate e non sono state ricostruite, ed anche la
maioliche a parete, che raffiguravano le principali città d’Italia con le varie
tonalità del blu e del bianco, furono distrutte in un tentativo di furto compiuto
da individui con atteggiamenti mafiosi.
Dello stato attuale della chiesa è inutile parlarne,,, sono
rimaste quasi intatti il campanile e le strutture murarie sul lato Nord.
La chiesa è un mucchio di macerie .. non esistono più il soffitto,
le cappelle del lato Sud, il pavimento, il transetto, gli stucchi, i marmi, gli
altari, le pitture……
Tutto questo, a prescindere dal terremoto del 1968, per l’incuria
e per i mancati interventi di manutenzioni, anche piccoli o modesti, ma
tempestivi, conseguenti al terremoto, che avrebbero potuto evitare il totale
degrado soprattutto del tetto.
Le infiltrazioni d’acqua provenienti proprio dal tetto si estesero
progressivamente alle strutture provocando il crollo della chiesa nel 1972,
tranne, come ho già accennato, per la facciata, il campanile , mura e cappelle
del lato Nord.
È
dal 2011 che le varie associazioni chiedono ad alta voce la salvaguardia
dell’Abbazia “pubblica” cioè di pertinenza della Diocesi.
Ho
l’impressione che le varie istituzioni abbiano dato una sentenza ben precisa in
merito: La distruzione del Monumento.
L’’Abbazia
fu fondata tra il XIII e il XIV secolo e l’incuria dell’Arcivescovado di
Monreale
fece
perdere la funzionalità della Chiesa.
Il
problema è decisamente complesso da punto di vista giuridico perché sotto il
profilo canonico la competenza giurisdizionale compete all’Eparchia di Piana degli
Albanesi.
Il
ruolo e quindi l’importanza della Diocesi di Monreale ha determinato, ad oltre
cinquant’anni dalla fondazione dell’Eparchia bizantina di Piana degli Albanesi,
che non sia ancora avvenuto, in via pratica, il passaggio giurisdizionale.
Nel periodo
successivo all'Unità d'Italia lo stato ha confiscato il complesso
architettonico e tutti i feudi che al monastero facevano capo. La chiesa e la
foresteria furono affidati "in uso" alla diocesi di Monreale negli
anni trenta del Novecento -allora unica realtà ecclesiale sul territorio-, che
pur non avendone curato la buona conservazione (fino al punto che nel 1972 la
Chiesa è crollata) si ostina nel non volerne cedere la
giurisdizione all'Eparchia, in aperta violazione della Bolla papale che
affida -appunto- il territorio di Contessa Entellina a questa.
Il resto del
monastero (compresi i due chiostri) nella seconda metà dell'Ottocento fu
venduto, assieme a vasti feudi, alla famiglia Inglese che ancora oggi ne
conserva la proprietà e che con notevoli oneri ne garantisce la sopravvivenza”.
-----------------------------------
6. Le
Opere d’arte dell’Abbazia….
“La
Vergine col Bambino, di Calatamauro”
Come abbiamo visto era la preziosa icona-mosaico con l’immagine
della Vergine con il Bambino, tipico esempio d’arte bizantina
costantinopolitana del XIII secolo. Il rapporto di questa icona con l’Abbazia
di Santa Maria del Bosco non è certo. L’opera fu infatti ritrovata nei
magazzini del Museo con l’indicazione della sua provenienza “Territorio di Contessa Entellina”.
Il
prezioso mosaico potrebbe essere
identificato con la “Madonna del Muro” che era posta sull’altare della Chiesa
della Madonna della Favara e che secondo alcuni notizie fu trafugata intorno al
1800 per essere poi ritrovata e custodita nei magazzini del Museo Regionale
“Abatellis” di Via Alloro a Palermo
BUSTO
DI ELEONORA D’ARAGONA
Opera di Francesco Laurana ed una delle più importanti sculture
del Museo.
Il busto, commissionato dopo la morte della principessa di
Caltabellotta, fu posto sopra il suo sepolcro nel Monastero di Santa Maria del
Bosco di cui fu una grande benefattrice.
In realtà non si è certi della sua sepoltura nel monastero.
Secondo alcuni storici le sue ultime volontà furono quelle di essere sepolta
vicino alla madre Cesarea a Caltanissetta.
Comunque Eleonora fu una delle figure femminili più importanti del
periodo storico, morì nel 1405.
Era Infanta di Aragona, nipote di Federico III d’Aragona e di
Eleonora d’Angiò e moglie di Guglielmo Peralta, Conte di Caltabellotta, Signore
di Sciacca e Vicario del Regno di Sicilia. Morì nel castello di Giuliana
La scultura fu acquisita dal Museo grazie all’archeologo Antonio
Salinas e si trova nell’ampia sala dove è esposto il dipinto il “Trionfo della
Morte”.
Altri reperti, sempre provenienti dall’Abbazia, si trova invece
nel Museo Diocesano di Monreale.
-
La “Madonna con Bambino”, una bellissima terracotta invetriata
dell’ultimo trentennio del XV secolo, attribuita ad Andrea della Robbia. Era posta nell'Abbazia nell'ultima cappella a sinistra della navata.
Andrea della
Robbia (Firenze, 20 ottobre 1435; Firenze, 4 agosto 1525)
Scultore e
ceramista italiano, nipote di Luca della Robbia, fu come lui
specializzato
nella tecnica della ceramica policroma invetriata, inventata dallo zio.
(Andrea della
Robbia ritratto da Andrea del Sarto).
Due sculture in
marmo in
marmo bianco (78 x 48) cm, datate tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII
secolo, che ritraggono due episodi della Via Crucis (doveva essere presente
nella Chiesa dell’Abbazia l’intera Via Crucis):
Caduta di Cristo
sotto la Croce
Flagellazione
Un Paliotto con scene della
Resurrezione di Cristo, del XVIII secolo. In stucco policromo trattato a finto
marmo, (105 x 230) cm, ed attribuito a Gaspare Firriolo.
Nelle
sale sono presenti dipinti e frammenti di altre opere sempre provenienti
dall’Abbazia di Santa Maria del Bosco.
È
andato perduto il pastorale che fu commissionato il 23 gennaio 1606 dai monaci
dell’Abbazia di santa Maria del Bosco all’orefice e argentiere Pietro di Capua.
Il baculo pastorale fu citato nell’inventario del 1642 relativo al monastero.
Doveva
essere simile al baculo pastorale proveniente dal monastero delle suore
benedettine di San Castrenze di Monreale. Il pastorale fu commissionato, come
risulta dall’iscrizione, dalla badessa donna Nunzia Fulci ad un ignoto
argentiere palermitano e marchiato dal console Francesco cappello in carica dal
21 luglio 1745 al 22 agosto 1746. Il manufatto è sormontato da un riccio ornato
da foglie d’acanto terminate con la statuina di San Benedetto in atteggiamento
estatico.
7. Video
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Appendice
N. 1 - “La Questione Teoretica della
Povertà”
Il
problema teologico della povertà dopo le bolle di Nicolò III, del 14 agosto 1279, e quella di Martino IV del 18
gennaio 1283, che accettavano la tesi
degli Spirituali, si riaccese improvvisamente nel 1321.
Proprio
nel 1321 a Marsiglia l’inquisitore domenicano Giovanni de Beaune (Belna)
catturò a Marsiglia un beghino che sosteneva la “pratica dell’assoluta povertà da parte di Cristo e degli Apostoli, sia
in privato che in comune”.
Si
svolse il processo… il beghino era difeso dal Minorita Berengario Talon,
lettore di teologia a Narbona, che scagionò l’imputato sulla base della “Exit qui seminat” di Nicolò III.
Lo
stesso Talon fu minacciato di regolare processo se non avesse ritrattato e fu
quindi costretto a rivolgersi al papa Giovanni XXII.
Il
papa riunì una commissione ad Avignone composta da cardinali, prelati e teologi
ed emanò la bolla “Quia nonnumquam” (del
26 marzo 1322) in virtù della quale sospese le interpretazioni della “Regola Francescana” contenute nella
bolla di Niccolò III del 1279…..!!!
La
decisione di Giovanni XXII naturalmente
non fu accettata dalla Comunità dell’Ordine convinta che la questione della
povertà di Cristo e degli Apostoli fosse stata definitivamente definita da Niccolò
III.
Fu
una convinzione errata……
I frati, giustamente indignati per le decisioni
del papa, si ribellarono con forti agitazioni soprattutto a Perugia. Proprio a
Perugia il 30 maggio 1322, nel giorno della Pentecoste, mentre era in corso lo
svolgimento del capitolo Generale con la partecipazione dei cardinali
francescani Vital du Four e Bertrande de la Tour, solidali con gli altri
Capitolari, gli Spirituali pubblicarono
una supplica. Supplica indirizzata dal Generale Fuschi al Pontefice, con la quale si chiedeva al
papa di “non innovare nulla sulla povertà
di Cristo e degli Apostoli rispetto a quanto affermato da Niccolò III nella
Exit qui seminat”.
Il
romagnolo Michele Fuschi (detto
anche “Michele da Cesena”) era un
dotto ed eccellente teologo ma con un
carattere bellicoso e spesso violento.
Senza
attendere la risposta e la reazione del papa, il 4 giugno e l’11 luglio
indirizzò due appelli “Universis
Christifidelibus” nei quali si dichiarava solennemente come articolo di
fede che “la questione della povertà di
Cristo e degli Apostoli era da considerarsi risolta stante la dichiarazione di
Niccolò III nella Exit, lodata dallo stesso Giovanni XXII nella “Quorundam
exgit” del 7 ottobre 1317”.
I
due appelli furono sottoscritti oltre che dai Capitolari anche da “41 Maestri e Baccellieri dimoranti a Parigi
e in Inghilterra”.
Gli
appelli, rivolti pure all’opinione pubblica in attesa del relativo responso
della commissione incaricata dal papa di studiare la questione, colpirono la
suscettibilità di papa Giovanni XXII che risentito emanò la bolla “Ad Conditorem canonum” dell’8 dicembre 1322.
Nella
bolla si dichiarava tra l’altro che “se è
possibile distinguere l’uso della proprietà (o dominio) nelle cose che restano
dopo l’uso (case, poderi, libri, ecc.) non è possibile asserire altrettanto
circa le cose che si consumano con l’uso (vitto, bevande, vestito, ecc.) poiché
in tal caso l’uso corrisponde alla proprietà….”.
Il
papa mirava a colpire ciò di cui i Francescani si gloriavano, cioè la proprietà
dei beni in loro uso posto sotto il dominio della Santa Sede. Questo determinò
l’abolizione dei Sindaci Apostoli con la suddetta bolla di papa Giovanni XXII
ritenendo “il loro incarico una pura
finzione giuridica”
Il
linguaggio della bolla era piuttosto inconsueto nei documenti papali e
dimostrava come il papa fosse adirato. Si tentò una mediazione.
Il
Procuratore Generale frate Bonagrazia da Bergamo, Converso e buon giurista, si
precipitò ad Avignone e presentò un appello al papa in pubblico concistoro
dimostrando che la bolla “Ad Conditorem” non
aveva alcuna ragione e che “in essa
l’Ordine veniva trattato ingiustamente e con estrema durezza”.
Bonagrazia da
Bergamo
Giovanni
XXII era cosciente di avere adoperato nella bolla un linguaggio violento e alla fine fece arrestare il Bonagrazia che
fu trattenuto in un duro carcere per un anno. Sulla base di vari testi biblici,
con la Costituzione dogmatica “Cum inter
nonnullos” del 13 novembre 1323 lo stesso papa definiva eretica la
dichiarazione di Michele da Cesena e dei capitolari di Perugia “sulla povertà assoluta di Cristo e degli
Apostoli”.
Sebbene
umiliato l’Ordine degli Spirituali reagì con dignità. Accolse la decisione
papale, compreso Michele Fuschi da Cesena, che il 25 maggio 1325, al capitolo
di Lione, venne rieletto Ministro Generale.
In
questo Capitolo, anche se ancora non era laureato, intervenne anche frate
Geraldo Oddone. Le cronache riportarono un suo ardito intervento che mirava a
togliere dalla Regola il precetto di non
ricevere denaro per due motivi: “tutelare
la coscienza dei frati, che difficilmente lo osservavano, evitare gli scandali
e le dispute sulla povertà che turbavano la pace tra i religiosi”.
Ci
furono delle poteste tra i capitolari e la proposta di frate Geraldo fu
respinta.
Giovanni
XXII cominciò a dubitare della fedeltà del Generale Fuschi a causa del suo
mancato intervento per richiamare all’ordine il provinciale di Calabria dove si
trovavano alcuni frati ribelli.
La
realtà era un’altra … il papa non sopportava il rapporto d’amicizia tra lo
stesso Fuschi e Ludovico il Bavaro che era in forte contrasto con lo stesso papa.
Un contrasto che si manifestò nella dichiarazione di Sachsenhausen del 1324 nella quale risaltò l’ingerenza del
bavarese sulla questione della povertà di Cristo e degli Apostoli che era
difesa e quindi accettata dallo stesso bavarese.
Ludovico accusò il papa di eresia, di essere
apostata..”nemico di Cristo e degli
Apostoli e decaduto dal soglio pontificio”.
Giovanni
XXII l’8 giugno 1327 ingiunse al Generale Fuschi di recarsi ad Avignone “in virtù di santa obbedienza”.
Il
frate per “motivi di salute” non
partì e solo il 2 dicembre dello stesso anno raggiunse Avignone.
Ad
Avignone il Fuschi trovò Guglielmo di Ockham , il giurista Bonagrazia, ancora
in carcere su ordine del papa, e il teologo e lettore del convento avignose
Francesco d’Ascoli. Questi personaggi furono testimoni il 13 aprile 1328 quando
Michele da Cesena fece rogare da due notai un atto nel quale lamentava “d’essere stato trattato dal papa
ingiustamente nell’udienza dell’8 aprile e sconfessava tutte le deliberazioni
emesse dal pontefice contro l’Ordine francescano e contro la sua persona”.
(Guglielmo
di Ockham era un teologo, filosofo e religioso francescano inglese. Ad Avignone
conobbe Michele da Cesena con cui condivise l’idea che le comunità cristiane
potessero avere in uso dei beni ma mai possederli, secondo la dottrina della
povertà evangelica. Un idea, che come abbiamo visto, era contraria a quanto
sostenuta dal papato, Guglielmo si schiero
con Ludovico il Bavaro nella diatriba tra Impero e Papato).
Giovanni
XXII reagì all’atto di Michele da Cesena e con una lettera datata 23 aprile
1328 trattenne il Fuschi, che era generale dell’ordine Francescano, ad Avignone
“pro certis negotiis”.
Quella del papa fu una mossa strategica
perché a Bologna era stato indetto per l’imminente Pentecoste un Capitolo Generale
e l’assenza del Fuschi, generale uscente, avrebbe impedito una sua possibile
rielezione.
Il papa non raggiunse i suoi obiettivi
perché al Capitolo generale, il 22 maggio 1328, fu rieletto proprio il Fuschi
che, non aspettando il verdetto, fuggì da Avignone il 26 maggio con “i suoi tre complici, raggiungendo Ludovico
il Bavaro, già a Pisa dall’11 ottobre 1327”.
Michele da Cesena si pose sotto la
protezione del monarca bavarese e si collocò fuori dall’ordine Francescano ed
inveendo contro Giovanni XXII continuerà a mantenere il sigillo di capo supremo
dei francescani, illudendosi si essere il legittimo Ministro Generale.
L’ordine non lo riconoscerà come tale e
Michele passerà alla storia come il capo di un gruppo di dissidenti o
“Fraticelli” che dallo stesso Michele furono appellati “Michelisti”.
Con bolla papale del 6 giugno 1328 Michele
da Cesena fu deposto dall’incarico di Ministro Generale. La lettera del 9
luglio che inviò a tutti i frati nella quale esponeva la sua versione dei
fatti, non diede esiti positivi.
(Nella lettera fu trattata tutta la
questione della povertà, naturalmente in chiave antipapale e decisamente a
favore di Michele Fuschi da Cesena e dei suoi fratelli michelisti.)
Giovanni XXII con l’ennesima bolla del
successivo 20 settembre, ordinava al cardinale Bertrando de la Tour, Vescovo di
Ostia di “istruire il processo contro di
lui e contro i vicari da lui istituiti”.
Il Fuschi fu scomunicato “solennemente” il 20 aprile 1329,
Giovedì santo, durante la celebrazione liturgica “in coena Domini”.
Seguirà la lunghissima bolla papale “Quia vir reprobus” del 16 dicembre 1329 che ribadì la condanna
del Fuschi “quale eretico e fautore di
eresie…e dal momento che questi continua ad osteggiare le precedenti Costituzioni pontificie (“Ad conditorem
canonum”, “Cum inter nonnullos”, “Quia quorumdam”), opponendo legge a legge,
vangelo a vangelo, falso al vero, il papa risponde punto per punto alle sue
impugnazioni, in modo che i semplici fedeli non siano tratti in inganno”.
La
situazione cominciò ad ingarbugliarsi e a prendere degli aspetti drammatici.
Oltre
alla ribellione di Michele e dei suoi seguaci al papa ed all’Ordine, si
verificò un avvenimento drammatico che aveva le sue basi nel forte dissidio tra
il monarca Ludovico il Bavaro e papa Giovanni XXII che, nel suo atteggiamento
politico, aveva confermato nell’ufficio di Vicario Imperiale il re di Napoli
Roberto D’Angiò.
Ludovico
il Bavaro scese in Italia il 31 maggio 1327 e s’incoronò a Milano re dei Romani
mentre a Roma il 17 gennaio 1328, “cingeva
in Campidoglio la corona d’imperatore per mano del famigerato Sciarra Colonna”.
(Giacomo
Colonna, detto “Sciarra” (rissa violenta) (1270 – 1329), sponente della
famiglia Colonna, era fratello del cardinale Pietro Colonna. Il suo appellativo
era legato al suo carattere litigioso.
Avrebbe schiaffeggiato in pubblico il papa Bonifacio VIII con uno dei
suoi guanti di ferro).
Ludovico
il bavaro era entrato a Pisa, conquistandola, l’11 ottobre 1327. Il papa reagì subito colpendo la città con
l’interdetto ecclesiastico che non “potè
essere osservato dal clero, gravemente minacciato dai gendarmi del bavarese”.
Il
monarca tedesco reagì opponendogli un antipapa, da lui scelto, tra i
Francescani: frate Pietro Rainallucci (Rainalducci) da Corvaro (Rieti).
Penitenziere
pontificio e noto oratore, il quale prese il nome di Niccolò V il 12 maggio
1328.
Un
avvenimento gravissimo che avveniva a circa un secolo di distanza dall’istituzione
dell’Ordine di San Francesco d’Assisi il quale aveva voluto che i suoi frati fossero “sempre sudditi e soggetti ai piedi della S.
Chiesa Romana”.
Il
Rainallucci… “entrò in Pisa a modo di
Papa co’ suoi sette cardinali fatti per lui, il quale per lo detto Bavero, et
sua gente, e da Pisani fu ricevuto con gran festa, et honore andandogli
incontro il Chiericato, et Religiosi di Pisa, et Laici col detto Bavero con
grande processione a pie e a Cavallo”.
L’antipapa
pose il suo campo d’azione a Pisa, dove depose l’Arcivescovo Simone Saltarelli,
sostituendolo con Giovanni Lanfranchi. Forte dell’appoggio del monarca
tedesco,
l’antipapa
sembrò deciso a contrapporsi in maniera energica al papa legittimo, creando
perfino una sua gerarchia. C’erano i presupposti per l’attuazione di uno scisma
che poteva ampliarsi.
In
Sardegna l’antipapa trovò molti seguaci tra i nemici degli Aragonesi ed anche
in Sicilia personalità religiose e
secolari influenti erano disposti ad appoggiarlo.
Il
merito fu di Eleonora d’Angiò, moglie di Federico III d’Aragona, se nel Regno
di Sicilia lo scisma fu stroncato nel nascere.
L’impresa
di Eleonora…”una grande donna e regina”.. poteva sembrare disperata …
impossibile.
Una figlia di Eleonora e di Federico,
Isabella, aveva sposato nel 1328 Stefano di Baviera, secondogenito di Ludovico
il Bavaro. Un matrimonio legato alle speranze che Federico III riversava su
Ludovico per essere aiutato nel superamento di difficoltà specie di ordine
economico. Nonostante il matrimonio, gli obiettivi di Federico III, la
scomunica ricevuta dallo stesso Federico da papa Giovanni XXII fin dal 1320,
Eleonora riuscì con tanta umiltà e dolcezza ad impedire che il marito aderisse
all’antipapa eletto proprio da Ludovico. La stessa regina si giustificò dicendo
che il suo Federico era “collegato” al Bavarese “nelle cose temporali, non nelle spirituali”.
Le
fortune di Ludovico il Bavarese in Italia non furono delle migliori. Il re di
Napoli, Roberto d’Angiò, che era stato minacciato dal papa di deposizione per
il “non intervento immediato” con le sue truppe costrinse Ludovico a lasciare
Roma e a tornare in Germania.
Perduto
il sostegno del monarca tedesco, l’antipapa decise di tornare alla Chiesa
cattolica.
Con
bolla dell’1 marzo 1330, Giovanni XXII comunicava ai vescovi di Pisa, Firenze e
Lucca, il processo contro Pietro da Corvara (l’antipapa) comandando loro “d’avvertire quelli, presso i quali frate
Pietro si trovava, di custodirlo in luogo sicuro e di consegnarglielo entro
otto giorni”.
Probabilmente
gli ordini del papa non furono eseguiti con la debita celerità.
Infatti
Giovanni XXII, con la bolla del 13 luglio ammoniva nuovamente il conte
Bonifacio Donoratico a consegnare il Corvara ai vescovi di Pisa e Lucca.
Il
13 luglio 1330 il papa comunicava di aver ricevuto una lettera da Pietro
Corvara nella quale esprimeva d’aver “abiurato
i suoi errori”…
Il
papa di risposta lo esortava a…”perseverare
e ad abiurare gli stessi errori oralmente davanti all’Arcivescovo di Pisa”…..(un
comportamento del papa assurdo… sembra di essere tornati indietro nella storia
al tempo delle persecuzioni dei Romani contro i cristiani… all’editto di
Decio……!!!!!).
Fortunosamente
la vicenda dell’antipapa si concluse e con la bolla del 2 settembre 1330,
Giovanni XXII comunicava all’Arcivescovo di Pisa che “Pietrop da Corvara, venuto spontaneamente ad Avignone, durante il
viaggio aveva abiurato i suoi errori, a Nizza e in vari luoghi importanti della
Provenza, come anche ad Avignone in pubblico concistorio alla presenza dei
cardinali e di molti fedeli”.
Il
papa accolse con clemenza il Corvara ad Avignone. Lo ospitò nel suo palazzo
papale e in un luogo distinto dove però “frate
Pietro era trattato come familiare, custodito come nemico”.
Morì
il 16 ottobre 1333.
Dopo
la deposizione di Michele Fuschi da Cesena (6 giugno 1328), papa Giovanni XXII
affidò il vicariato dell’Ordine al cardinale Bertrando de la Tour.
Nell’ordine
dopo la rivolta del Fuschi e dei suoi seguaci si sentiva la necessità di
cambiare pagina e di avere un Ministro
generale più equilibrato e soprattutto gradito a Giovanni XXII, c’era la
ricerca di un po’ di pace e tranquillità dopo le liti e le continue discussioni
sulla povertà di Cristo e degli Apostoli.
Il
Vicario dell’Ordine Cardinale Bertrando, in occasione del Capitolo generale,
previsto per la Pentecoste del 1329,
destituì alcuni Ministri provinciali ed officiali capitolari e lo sostituì con
altri.
Un
intervento che naturalmente fu approvato dal papa.
Il
26 novembre 1328 Michele Fuschi da Cesena continuava a dichiararsi legittimo
Ministro Generale e indirizzata da Pisa una lettera “univerisi fratribus”
ribandendo che in base alla Regola Francescana, indire un nuovo Capitolo
generale spetta al Ministro in carica e quindi allo stesso Fuschi e non a
Giovanni XXII che in modo dispregiativo chiamava “Giovanni il Cahorsino… spoglio d’ogni autorità, perché scomunicato ed
eretico, non avendo riconosciuto quanto definito dai papi Niccolo III (bolla
“Exit…”) e Clemente V (bolla “Exivi…”)”.
Michele
da Cesena fece diversi appelli , forse con l’obiettivo di crearsi nuovi
proseliti, che rimasero inascoltati.
Il
25 maggio 1329 a pochi giorni dall’inizio del Capitolo, Giovanni XXII inviò
l’ennesima bolla ai Vocali del Capitolo che si sarebbero riuniti a Parigi per
eleggere il nuovo Ministro Generale. Il papa ricordava ai convenuti “ i
gravi pericoli corsi dall’Ordine a causa del perverso Ministro Generale
precedente (Michele Fuschi da Cesena), ed esortandoli a non dimenticare che è
nell’integrità dei capi la salvezza dei sudditi”.
Parole
giuste… ma Giovanni XXII era un “capo
integro” ?
Le
attese di papa Giovanni XXII non furono deluse. Riuniti a Parigi sotto la
presidenza del cardinale Bertrando de la Tour, la vigilia di Pentecoste 1329
(10 giugno), secondo la consuetudine, i Vocali elessero il nuovo Ministro
Generale dell’Ordine “nella persona di
Geraldo Oddone, Maestro parigino, conterraneo e “intimo famigliare” del papa,
soggetto di ampie vedute e non lontano dalle idee del papa in tema di povertà
francescana”.
Secondo
alcuni storici al capitolo di Parigi non parteciparono ma maggior parte dei
Provinciali. Su 34 Provinciali ben 20 erano assenti.
Gli
“Atti del Capitolo parigino”, appena
sette punti, furono scoperti dal noto
studioso dei Frati Minori padre Livario Oliger che li pubblicò nella
“Miscellanea Francescana” del 1945:
1° punto: sono presenti due paragrafi in cui si raccomanda il rispetto verso il
papa Giovanni XXII e il divieto ai frati dell’accesso alla Curia Romana.
Vengono “cassate” (annullate, tolte con
un tratto di penna) le Costituzioni di Lione, edite dal Fuschi nel 1325,
probabilmente per riguardo al papa dato che, specialmente nel capitolo III,
s’insisteva molto sulle dichiarazioni di Niccolò III e di Clemente V sulla
povertà. Dichiarazioni che furono interpretate male, specialmente quella di
Niccolò III che furono causa di aperta ribellione del Fuschi e dei suoi seguaci
contro Giovanni XXII.
4° punto: si ordina che, nel presente Capitolo Generale, come anche nei capitoli
provinciali, si rendano note le pene nelle quali sono incorsi i frati ribelli
alla Sede Apostolica e al “Signor Papa Giovanni”, cioè Michele da Cesena e
seguaci: si tratta delle pene inflitte dagli Statuti dell’Ordine agli apostati
ed ai fautori di scissione, e della scomunica loro irrogata, sia nei processi
papali, sia dal card. Bertrando de la Tour, Vescovo di Frascati, Vicario
Generale dell’Ordine”;
5° punto: riguarda ancora i frati ribelli,
giacchè si prescrive che “nei Capitoli,
Provinciali, i Ministri o i loro Vicari devono intimare per lettera a questi
ribelli di presentarsi entro tre mesi a ricevere giustizia con misericordia,
avvertendoli tuttavia che, in caso di mancata comparizione, si procederà contro
di loro in modo più rigoroso, a norma di giustizia”;
6° punto; “il Ministro Generale Geraldo Oddone, con l’autorità del suo ufficio e
del Capitolo Generale, dichiara che frate Pietro da Corvara, che si fa chiamare
Niccolò V e frate Michele da Cesena ed i suoi complici sono incorsi nelle pene
di scomunica, privazione ed inabilitazione ad ogni ufficio, pene contenute,
oltre che negli statuti dell’Ordine, nelle lettere e nei processi costruiti
dall’allora Vicario Generale Card. Bertrando, Vescovo di Frascati”.
Nel
corso del capitolo parigino, a parte gli “Atti”, da conservare nell’archivio
dell’Ordine, il nuovo Ministro Generale, d’accordo con i Capitolari, scrisse
una lettera, riportata dal domenicano polacco Abramo Bzovio, che reca la
seguente intestazione:
“Universis praesentium notitiam habituris,
Frater Gerardus Ordinis Fratrum Minorum Generalis
Minister & c.”:
un modo di divulgare il più possibile la presa
di posizione dell’Ordine francescano contro Michele da Cesena e i suoi
Fraticelli, non escluso l’antipapa non ancora rinsavito, i quali, avevano fatto
causa comune con lo scomunicato Ludovico il Bavaro, ribellandosi a Giovanni
XXII.
In
pratica la lettera, il cui testo era “Evangelica
veritas” ribadiva, con più ampi particolari, il contenuto degli “Atti” del
capitolo Generale, quindi anche l’ingiunzione ai ribelli “di presentarsi al Padre Generale o ai Provinciali entro tre mesi a
ricevere giustizia con misericordia”.
L’elezione
di Geraldo Oddone, anche se pilotata, portò un po’ di tranquillità e in questo
clima il capitolo colse l’occasione per chiarire ai frati il valore della
famosa bolla di Niccolò III “Exiit qui
seminat” sulla questione della povertà di Cristo e degli Apostoli che aveva
causato tanti problemi.
L’intero
corpo capitolare di Perugia nel 1322, nel quale non mancavano qualificati teologi
dell’ordine, aveva attribuito un valore dogmatico alla Decretale di Niccolò III
e i Vocali difesero come “dogma di fede” il documento.
Erano
convinti di seguire più da vicino Cristo e gli Apostoli professando la povertà
assoluta e gli stessi teologi non avevano avuti dubbi nel giudicare errata la
decisione di Giovanni XXII di sospendere successivamente le sanzioni del
Decretale di Niccolò III.
Tra
i teologi che si schierarono contro le decisioni del papa Giovanni XXII c’erano
i cardinali du Four e Bertrand de la
Tour. Il primo sembra che sia caduto “in disgrazia di Giovanni XXII” mentre il
de la Tour, pur avendo difeso la tesi francescana presso la Curia papale anche
durante il dibattito, dopo il Decretale del papa si ravvide completamente
modificando le sue opinioni.
Nella
bolla di Niccolò III non c’era alcun indizio che poteva fare pensare ad una
definizione dogmatica. Niccolò III affermò solo che la “rinunzia alla proprietà per Dio è meritoria e santa, giacchè lo stesso
Cristo l’ha praticata ed insegnata come via di perfezione, e sul suo
esempio, l’hanno messo in pratica i
primi fondatori della Chiesa militante, cioè gli Apostoli”.
Lo
stesso Niccolò aggiunse un particolare non trascurabile…”l’insegnamento di Gesù sulla povertà assoluta, non contrasta con quei
testi sacri, dai quali appare che Cristo tenne denaro, poiché il Figlio di Dio, le cui opere sono
perfette, assumendo le infermità della natura umana, ne condivise anche le
debolezze, come appare, ad esempio, nella fuga (cioè quando si nascose perché
i Giudei volevano lapidarlo)”, e “nel
possedere qualcosa”.
In
pratica Niccolò III riconosceva che Cristo e gli Apostoli possedevano qualcosa.
Nella
bolla di Niccolò III, come in ogni documento papale, c’era la consueta
proibizione di contravvenire a quanto espresso dal papa autore del documento.
L’errore
di papa Giovanni XXII fu quella di sospendere la proibizione espressa da Niccolò
III nella clausola conclusiva della sua bolla.
Il
Capitolo di Parigi pose fine alla controversia sulla povertà di Cristo e degli
Apostoli e in seno all’Ordine, grazie anche alla nomina come Ministro Generale
di Geraldo Oddone, s’instaurò un clima più sereno.
“
Sarà necessario aspettare oltre due
secoli prima che la problematica sulla povertà venga risolta definitivamente da
una delle Famiglie francescane, quella Conventuale, dinanzi a circostanze nuove
e suggerimenti nuovi della Chiesa, desiderosa di maggiore uniformità tra gli
Ordini religiosi, nel Concilio di Trento, il 3 dicembre 1563”.
----------------------------
Il
15 maggio 1423, cioè due anni dopo
l’elezione, l’abate si rivolgeva a Martino V ottenendo una bolla in cui veniva
specificato che nel provvedimento emanato nel 1404 da Bonifacio IX in sui si
revocavano tutte le grazie e gli indulti concessi ai monasteri ..” non erano incluse le grazie ed esenzioni
accordate al monastero di Santa Maria del Bosco e al suo abate”.
Il
pontefice, dunque, ribadiva l’indipendenza del monastero dalla giurisdizione
del presule agrigentino ponendolo sotto la protezione del Papa e lo “esentava dal pagamento della quarta
canonica dovuta al vescovo; concedeva, infine, che l’abate eletto dalla
maggioranza del capitolo o con il pieno consenso potesse farsi benedire da
qualsiasi vescovo senza altra conferma e senza andare a Roma”.
L’Abbazia
godeva del diritto d’asilo e gli abati avevano anche la facoltà di assolvere da
quei peccati per i quali era di solito richiesta l’autorizzazione della Santa
Sede. Un privilegio assai raro e ambito, soprattutto in tempo di scomuniche
papali.
Malgrado
il provvedimento del pontefice fosse esecutoriato, l’abate ebbe dei problemi
con il Regio Collettore della Camera Apostolica nel Regno di Sicilia che
pretendeva le entrate di un intero anno del monastero a causa del tempo
intercorso tra la morte dell’abate Angelo e la nomina del successore.
Fra
Giovanni si difese con le sue ragioni e ottenne che il Collettore tornasse
nelle sue posizioni dichiarando di aver indebitamente richiesto il pagamento.
Il
vescovo di Agrigento, Lorenzo di Mesassal, prima che venisse reso pubblico il
breve pontificio, volle rimarcare la sua giurisdizione sul monastero e nel
luglio 1424 lo visitò. Non fu una
semplice visita perchè diede delle
disposizioni riguardanti la vita quotidiana e l’amministrazione ordinaria.
Disposizioni che avevano come obiettivo
la conferma della dipendenza del monastero alla Diocesi di Agrigento.
Il
vescovo ricordò all’abate che doveva rendergli conto della sua amministrazione
almeno una volta all’anno e gli vietò “di
fare domande ai monaci che lui avesse esaminato costringendoli a riferire cosa
gli avessero detto”.
Il
progetto del vescovo fallì miseramente perchè dopo alcuni giorni giunse il
breve apostolico della “confirma degli
privilegi et esentione del monasterio fu spedito et esecutoriato e d’alhora in
qua mai più li vescovi di Gigento si sono impediti a perturbare o molestare la
libberta del monasterio del Bosco, né a mantenerci più superiorita alcuna.
Hanno ben sempre favoriti li monaci et il monasterio come amici, ma non già
come padroni e superiori secondo si costumava anticamente”.
Dai
documenti presenti nell’Archivio di Stato di Sciacca la situazione nell’Abbazia
non migliorò in tema di rapporti giuridici con la Diocesi di Agrigento.
Nel
1434 l’abate si trovò a dover
cercare di risolvere una lunga controversia con il Vescovo per questioni legate
alle decime.
Il
13 dicembre Paolo de Skifato, canonico agrigentino e vicario generale del
vescovo di Agrigento, protestò, alla presenza dell’abate, dinanzi al notaio
Liotta di Sciacca, asserendo che vi fossero delle decime dovute al re dal
vescovado, di cui al monastero competevano 20 onze «tam exempti tam non exempti».
L’abate
ribatté di non essere tenuto a nessun pagamento e ricordò che lo stesso vicario
a nome del vescovo aveva già fatto ricorso al Sacro Regio Consiglio e
all’arcivescovo di Palermo affinché il vescovo di Agrigento fosse ascoltato
nelle sue opposizioni in merito all’esenzione del monastero. L’arcivescovo
aveva assegnato a Giovanni de Falco di Sciacca il compito di scegliere dei
giudici che, udite le parti, ponessero fine alla controversia, ma l’abate si
era opposto alla scelta di giudici. Il vicario pretese che l’abate si
sottoponesse al giudizio sotto pena, in caso contrario, di un’ammenda
pecuniaria e della privazione dell’ufficio e del beneficio.
Due giorni dopo, il 15 dicembre, l’abate
rispose al vicario che il monastero aveva ottenuto dal Papa l’esenzione «prestacionis solucionis et
contribucionis decimarum et caritativorum subsidiorum exactionum et omnium
quorumlibet quacumque occasione concessorum et concedendorum aut impositorum et
imponendorum» dal momento che il pontefice aveva voluto che «dictum monasterium
abbatem et monacos et bona eorum fore et esse immunes liberos et exemptos». Il
re aveva confermato «sua benignitate solita» l’esenzione, motivo per cui
l’abate non era tenuto ad alcun pagamento, tanto più che, analizzate le bolle
apostoliche dal Sacro Regio Consiglio, era stato dichiarato che le bolle erano
autentiche. Il vescovo, dunque, a detta dell’abate, non avrebbe dovuto più
molestare il monastero e avrebbe dovuto revocare la richiesta della colletta,
considerando anche il fatto che erano trascorsi gli otto giorni di tempo in cui
lo stesso presule o il regio collettore Nicola de Carusio avrebbero potuto fare
i loro reclami. “Il vicario e il vescovo, dunque, si facessero una ragione dello stato
di fatto e accettassero l’esenzione del monastero”.
Ma
il vicario non era affatto disposto a cedere sull’argomento e l’indomani, per
tutelare i diritti del vescovo e degli aventi diritto in futuro, protestò
contro il commissario, il notaio Nicoloso de Fussatello, sostenendo che,
dovendo il vescovo di Agrigento pagare 180 onze in due rate a re Alfonso ed
essendo le decime dovute «tam per non
exemptos quam per exemptos solis mendicantibus exclusis», trovandosi il
monastero di Santa Maria del Bosco nella diocesi di Agrigento, in
considerazione del suo reddito, fosse tenuto al pagamento di 23 onze e 10 tarì.
L’abate, ovviamente, continuava a portare avanti la consueta obiezione
dell’esenzione del monastero pur riconoscendo l’appartenenza alla diocesi di
Agrigento e aggiungeva che, ferma restando l’esenzione, la spiegazione della
richiesta andasse ricercata in un precedente risalente ai tempi del vice delegato
alla riscossione delle decime Simone Salvatore quando il monastero aveva pagato
la porzione imposta. Si spiegava, dunque, il perché l’arcivescovo palermitano “subexecutor et sublegatus apostolicus” avesse
ritenuto che le decime dovessero essere pagate secondo quanto era stato fatto
ai tempi di Simone Salvatore. Così, il notaio Nicoloso Fossatello aveva
riscosso la prima metà della cifra dovuta dal vescovado di Agrigento.
Riconosciuta, adesso, l’esenzione, dalla seconda soluzione richiesta per il
mese di agosto si sarebbe dovuta scomputare la porzione spettante al monastero
di Santa Maria del Bosco già anticipata dal vescovo nella prima soluzione, in
modo che: «illud quod solvit, solvit cum
ipsa reservacione et protestacione». Sembrava che l’abile abate avesse
avuto la meglio nelle dispute con il vescovado; del resto egli aveva dalla sua
parte le maggiori autorità del tempo che avevano espressamente e
incondizionatamente manifestato il proprio sostegno al monastero. Re Alfonso,
il 17 giugno 1433, aveva concesso al
monastero la completa esenzione fiscale da qualsiasi colletta o sussidio
imposto dalla Corona e il nuovo pontefice, Eugenio IV, aveva risposto
all’appello dell’abate che non si era voluto accontentare dell’esenzione regia
e il primo aprile 1434, ritenendo
che il monastero subisse un grave danno dal momento che venivano imposte ed
estorte decime e sussidi a causa dei quali l’abate e i monaci «gravia frequenter subierunt hac tenus
detrimenta» e considerando che ad “prestationem
solutionem et contributionem decimarum caritativorum subsidiorum et exactionum
ac onerum huismodi quorumlibet quacumque occasione concessorum et concedendorum
aut impositorum et imponendorum minime teneantur nec ad id a quoquam compelli
possint”, aveva liberato il monastero dal pagamento di qualsiasi contributo
al sovrano, di decime, caritativi e sussidi prescritti loro abusivamente. Nella
lettera apostolica si legge che in quell’anno i monaci regolari erano
ventiquattro. Pochi giorni dopo il pontefice accordava ai monaci la facoltà di
costituire come giudice conservatore l’arcivescovo di Palermo o l’abate di San
Martino delle Scale, ribadiva la sua benevolenza nei confronti del monastero e
scriveva agli arcivescovi di Palermo e Monreale e all’abate del monastero di
San Martino delle Scale disponendo che non permettessero che i monaci venissero
molestati indebitamente sui loro beni e diritti subendo «gravamina seu damna vel iniurias». Chi fosse l’artefice di questi
danni al monastero appare chiaramente dal documento papale nel momento in cui
si legge che alcuni arcivescovi, vescovi, prelati e ancora duchi, marchesi e
conti, nobili e militi avevano occupato luoghi e terre del monastero, usurpato
diritti e detenuto indebitamente beni mobili e immobili, spirituali e
temporali, spettanti all’abate e ai monaci. La protezione che Eugenio IV
accordava ai monaci era, dunque, totale, abbracciando tutti i poteri
ecclesiastici e laici che in qualche modo potessero avere a che fare con il
monastero. Il documento è chiaramente rivelatore del perdurare delle tensioni
con il vescovo di Agrigento, tensioni che avrebbero portato ad un altro momento
critico nel 1460.
Racconta
Padre Olimpio che in quell’anno il «puoco
savio» vescovo Domenico Xarth (dell’Ordine Cistercense), approfittando
dell’assenza dell’abate, si era recato in visita al monastero. Non essendo
riuscito il priore fra Domenico
Pescatore ad opporre resistenza, pur avendo ricordato al presule
l’esistenza dei privilegi d’esenzione dalla giurisdizione del vescovo, era
intervenuto Benedetto Bonanno, frate «dotto
di legge» che, dopo aver sottolineato che «le visite non si sogliono fare così di gatto in sacco», aveva
enumerato le esenzioni e immunità del monastero e invitato il presule a
visionare i privilegi in presenza dell’abate. Essendosi animata la discussione,
sembrava quasi che si stesse per «venire
dalle parole agli bastoni», il vescovo pensò bene di andar via non senza
essersi fatto riferire dal priore tutti i nomi dei frati presenti. Ritornato
l’abate, dopo aver tirato le orecchie con «una
buona cappellata» all’ingenuo priore, si fece fare una procura dal capitolo
del monastero per accusare di usurpata giurisdizione il vescovo e avere
giustizia. Padre Olimpio conclude la narrazione dell’episodio dicendo di non
sapere come abbia proceduto in seguito l’abate, ma di essere certo di una cosa:
«da quel tempo in qua mai altro vescovo
hebbe simile ardire». Nei ripetuti momenti critici affrontati dagli abati a
causa delle ingerenze dei vescovi agrigentini, risolutore fu sempre
l’intervento dei pontefici che manifestarono il loro sostegno al monastero. Il
favore accordato all’abbazia continuò, infatti, anche con il successore sul
soglio pontificio di Eugenio IV, Niccolò V, che, nel 1452, confermava tutte le immunità e i privilegi concessi non solo
dai suoi predecessori ma anche libertates
et exemptiones secularium exactionum a regibus et principibus ac aliis Christi
fidelibus rationabiliter [...] indultas specialiter autem agros terras, prata,
vineas, pascua, silvas, nemora, hortos, molendina, domos, possessiones, iura,
iurisdictiones, aliaque mobilia et immobilia bona ad dictum monasterium spectantia
in
modo che i monaci ne potessero godere pacificamente per autorità apostolica.
Dopo di lui anche papa Sisto IV, nel 1472,
avrebbe dato la sua conferma.
Altri
toponimi sono una chiara espressione della variegata produzione della natura,
dagli alberi di carrubbe nella contrada Carrubelle nel comune di Contessa
Entellina, ai corbezzoli nella contrada Armolini vicino Bisacquino, al miele
del feudo Apparia. Altri ancora, infine, designano le caratteristiche fisiche
del terreno: Cresta di Gallo, Fiumara, Frattina, Marusella, o Molara. Molti
furono i lasciti al monastero durante il priorato del corleonese Giovanni di Puglia, confermato dal
vescovo agrigentino nel gennaio del 1379 e numerosi i beni acquisiti, anche
attraverso compravendite e permute, tra case, tenimenti di terre e vigne, non
solo in territorio corleonese. Sotto il governo di questo priore, il quarto di
Santa Maria, il monastero divenne sempre più ricco, «percioche facendo li monaci buona vita et accarezzando li poveretti
con le continue elemosine; e li ricchi con li buoni esempii, e con
l’hospitalita nel passaggio; di giorno in giorno andavano acquistando e reputazione
e robba». A titolo esemplificativo si ricordino la donazione di un
tenimento di terre, due case terranee, una vigna in territorio di Corleone
operata nel 1381 da Advenante di Russignano e le operazioni portate a termine
dal procuratore di Santa Maria e dal priore per unificare e compattare feudi
frammentati o perduti nel corso degli anni. Nel 1381 il procuratore del
monastero comprava, infatti, da Bertola di Rocca e dalla madre Contessa per 5
onze un tenimento di terre nella contrada degli Armolini confinante con
l’eredità di Giovanni Vaccarelle. Due anni dopo il priore acquistava da Antonio
Calandrino «la mità d’un territorio o’
fego detto Barraù» per 44 onze. Nel 1384 lo stesso fra Giovanni comprava da
Giorgio Calandrino abitante di Caltabellotta «la mità del fego o territorio del conte Raineri l’altra mità alhora
era indivisa fra il monasterio e Petruccio Calandrino»; nel 1385 il
procuratore del monastero permutava con lo stesso Petruccio una vigna «con la mita d’un palmento e della terra
lapidea pertinente a detta vigna nella contrada di Rasellis in Corileone»
con la quarta parte «del territorio del
conte Raineri insieme con la quarta parte del istesso castello del conte
Raineri contingente a detto Petruccio indivisa e congiunta con l’altre tre parti
del monasterio», riuscendo così a riunire l’intero feudo dal momento che
l’altro quarto era già in mano al monastero per l’eredità di Giovanni
Vaccarelle. Ancora più industrioso fu l’ultimo priore del monastero, fra Benedetto Maniaci, «huomo ingegnoso desideroso di cose grandi,
splendido, magnifico, di buonissima fama e di mirabbile espettatione»,
l’artefice dell’elevazione di Santa Maria ad abbazia. La tempra del futuro
abate si rivela già in occasione della controversia sorta per l’eredità del
protonotaro apostolico, Alfonso Palmeri, che morendo aveva istituito suo erede
universale il monastero. Per entrare in possesso di quanto preteso fra
Benedetto dovette scontrarsi con la madre del testatore, con il fratello
Benedetto, che agiva in suo nome e per il figlio, e con Tommaso Crispo, giudice
della Gran Corte, luogotenente del maestro giustiziere, in nome della moglie
Filippa, sorella di Alfonso. Le ragioni addotte in opposizione al priore si
basavano sul testamento di Fulco, padre di Alfonso il quale avrebbe disposto
che il figlio ereditasse i suoi beni ma che, in caso di morte senza eredi
legittimi, dovessero subentrare Benedetto e Filippa. Il priore non si arrese
facilmente e ottenne che due giudici della Regia Gran Corte esaminassero la
questione. Nonostante fossero chiare le condizioni del testamento di Fulco, fra
Benedetto ricevette una quota d’eredità corrispondente a 45 onze. Ma quando
sembrava che la questione si fosse risolta con accordo fra le parti e
compiacimento del priore, comparve un altro pretendente, Giovanni d’Aragona,
che voleva essere soddisfatto per un legato del testamento di Alfonso. Poiché i
parenti pretendevano che fosse il monastero a cedere le 45 onze a Giovanni, il
priore, ancora una volta con estrema saggezza, rendendosi conto «ch’il litiggare non metteva conto: e che
sarebbe stato meglio per il monasterio accor do magro che sententia grassa»,
nel 1393, si accordò con il marito di Filippa, Tommaso Crispo, vendendogli per
40 onze la sua quota d’eredità e ricevendo da Tommaso al posto della somma
pattuita due terreni in territorio di Licata. A ulteriore riprova dell’abilità
di fra Benedetto e ad esemplificazione dell’accorta politica adottata da alcuni
priori e abati di Santa Maria del Bosco, che permutavano o vendevano i feudi più
lontani per comprarne di più vicini o per acquistare immobili che avrebbero
potuto garantire considerevoli entrate annuali, si ricordano alcuni “affari”
portati a compimento dal primo abate del monastero, uomo «molto sollecito e curioso nel augmento et acquisto delle facultà et
honere del monasterio». Fra Benedetto, nel 1389, permutò «tre pezzi di terra lasciate da diversi al
monasterio delle qual terre due pezzi erano confinanti col fiume Batticane […]
e l’altro pezzo alla Giammaria», con il notaio Oberto Calandrino in cambio
di un tenimento di terra nella contrada Scorciavacche, che già confinava con
altre terre del monastero in territorio di Corleone. Nel 1398 acquisì quello di
Cresta di Gallo; nel 1402 comprò dal vescovo di Mazara una grande casa a Palermo
per 38 onze e 17 tarì di cui scomputava 1 onza e 26 tarì come rimborso delle
riparazioni portate a termine dai monaci che l’anno precedente avevano
affittato la casa e pagò buona parte della rimanente somma in animali. La casa
garantì un’entrata annuale fissa al monastero per lungo tempo. L’anno
successivo, attraverso una permuta con le monache del monastero del Salvatore
di Corleone, veniva acquisito un altro appezzamento di terra confinante con i
terreni del monastero tra Corleone e Giuliana. L’abate andava così ad
accrescere il già vasto territorio che prendeva il nome di Giancavallo con una
preziosa cava a lungo utilizzata dal monastero. Le pertinenze del monastero
vennero arricchite ancora da altre donazioni di privati: nel 1391 è la volta di
Teodaro de Salomone, abitante di Giuliana, che istituì suo erede universale il
monastero; nel 1401 un altro giulianese Comino di Ruggirello donò vigne e terre
scapole in territorio di Giuliana che, ancora oggi, è denominato Ruggirello. In
quello stesso anno il monastero di San Martino delle Scale rinunziò in favore
di Santa Maria del Bosco a quanto aveva ereditato dal ricco mercante catalano
Antonio Pardo che abitava a Sciacca. Molti altri ancora furono i lasciti
pervenuti al monastero numerosi dei quali in virtù di testamenti che portarono
Santa Maria del Bosco ad accrescere il suo patrimonio principalmente in
territorio di Calatamauro, Caltabellotta, Corleone, Giuliana, Chiusa Sclafani,
Bisacquino, Bivona, Licata, Sciacca e Palermo. E se innumerevoli furono i lasciti
pro anima altrettanto consistenti furono le questioni affrontate per venire in
possesso dei legati testamentari o per rivendicare diritti acquisiti, cause in
cui il monastero uscì per lo più vittorioso. Dalla sua parte ebbe sempre i
conti di Caltabellotta, il cui sostegno si manifestò anche attraverso
l’intercessione operata presso la Corona a favore dei monaci. Nel 1393
Guglielmo Peralta, vicario del Regno, ottenne dai consanguinei regnanti,
Martino e Maria, la conferma della concessione di Federico IV delle dodici
botticelle di tonnina dalle tonnare di Palermo.
Se
nella questione delle decime dovute dal vescovado al sovrano, almeno sulla
carta, l’abate sembrava avere avuto la meglio, i motivi di contesa non
mancarono dettati da altre ragioni; un’altra
controversia era sorta sul pagamento della decima sui lasciti al monastero.
Bonifacio IX aveva concesso a Santa Maria del Bosco l’esenzione dal pagamento
della quarta canonica o della decima sui legati che fossero stati assegnati al
monastero. Nel 1404 lo stesso papa aveva annullato il provvedimento che, però,
continuava a destare controversie, come testimonia quanto accaduto alla morte
dell’arciprete di Giuliana, Antonio de Guigla. Questi aveva redatto un
testamento in cui nominava erede universale il monastero che eleggeva come
luogo di sepoltura. Alla sua morte il vescovo di Agrigento pretese dal
monastero la quarta canonica sull’eredità; il monastero fece ricorso
all’esenzione e per tutta risposta il vescovo, a risarcimento della mancata
riscossione della quarta canonica, si era impossessato di alcuni beni mobili e
immobili a Giuliana, Castronovo e Caltabellotta lasciati al monastero
dall’arciprete, fondando le sue ragioni sulle bolle con cui il papa revocava le
immunità concesse. Il monastero, allora, si era appellato alla Santa Sede per
richiedere la protezione e la tutela dei propri beni, ma, nello stesso tempo,
l’abate Angelo de Calido «voluens sine lite et questione facere totum
illud quod debet de iure» aveva pensato di dare un contentino al vescovo
assegnandogli la quarta parrocchiale che spettava alla chiesa parrocchiale di
Giuliana, pur rimanendo fermo nella decisione di non pagare la quarta
episcopale della quale non era tenuto a rispondere data l’esenzione del
monastero. Pertanto, il 20 agosto 1413, il priore Giovanni de Porto e
il procuratore frate Matteo de Gulfa, a nome dell’abate, assegnavano la quarta
parrocchiale al vescovo «cum
protestacione quod nullum preiudicium generaretur eidem monasterio quo ad
quartam episcopalem a qua sunt abbas et conventus totaliter exempti». La
delicata questione del pagamento delle decime e della quarta canonica aveva
visto scendere in campo anche la Corona a difesa del monastero. Il 5 luglio 1399, il sovrano interveniva contro le richieste del vescovo di
Agrigento invitando il presule a non molestare ulteriormente il monastero e a
rivolgersi, nel caso in cui ritenesse diversamente, all’arcivescovo di Palermo,
come metropolitano e giudice competente. Come se non fosse bastato il continuo
braccio di ferro con il vescovo di Agrigento, l’abate si trovò a difendere gli
interessi del monastero anche dai poteri laici operanti nel territorio e se nel
primo caso fu sostenuto dal Papa nel secondo poté contare sul favorevole
intervento della Corona. Il motivo del contendere fu la tassa imposta dal
vicesecreto di Corleone sulle donazioni “inter
vivos”. Il 2 maggio 1399, re Martino (Il Giovane) ascoltava diversi testimoni «super immunitate, exempcione et libertate
devotorum dicti monasterii eidem monasterio donancium bona eorum donacionis
nomine inter vivos»; i testi dichiaravano che coloro che avevano fatto
donazione “inter vivos” dei propri
beni al monastero «erant, fuerunt et sunt
franhi, exempti, liberi et immunes que iura cabellarum predictarum dicti devoti
donatores non tenebantur nec tenentur solvere cabellotis cabellarum predictarum
nec alicui alteri». Il 21 del mese
successivo scriveva al vicesecreto di Corleone, che costringeva coloro che
donavano beni al monastero «contra
consuetudinem et immunitatem ipsius monasterii» al pagamento della tassa «iuris colte et cabellarum»,
ordinandogli di porre fine alle vessazioni. Il 27 gennaio dell’anno seguente
Martino il Vecchio, Martino il Giovane e la regina Maria, constatando che tutti
coloro che avessero fatto donazione irrevocabile dei propri beni al monastero «è sempre stata usanza e consuetudine che
siano libberi et essenti d’ogni pagamento di colta debbita alla nostra corte»
disponevano che anche per il futuro si osservasse l’esenzione e nel caso in cui
non fosse stata osservata in passato, che fosse restituito il mal tolto dal
maestro secreto o dal vicesecreto di Corleone e tutto ciò in considerazione del
proposito di favorire e accrescere «le
raggioni e negotii» del monastero.
Nel luglio 1408 re Martino interveniva
nuovamente su richiesta del monastero il quale temeva che Nicolò Peralta,
nipote di Guglielmo Peralta ed Eleonora d’Aragona, signore di Chiusa, Burgio e
Calatamauro, dopo aver ridotto i confini del bosco continuasse «a dar fastiddio» e confermava
l’esenzione concessa da Guglielmo Peralta, il 4 aprile 1377, dal pagamento del
censo dovuto al signore su alcune vigne nel territorio di Giuliana fino alla
somma di 26 tarì. La lettura dei numerosi documenti relativi alle contese con
il vescovado agrigentino rivela come tratto comune fosse il favore accordato al
monastero dalla Sede apostolica e dalla Corona e ciò fu evidente in diversi
momenti della sua storia.
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