La Sicilia dei Sicani... un mondo affascinante tutto da scoprire - Seconda Parte


ABBAZIA REALE DI  SANTA MARIA DEL BOSCO – Contessa Entellina





L'Abbacia Reale...... un tempo lontano......

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Indice
1.      L’Abbazia;
a.       La Fondazione;
b.      Gli Eremiti che costituivano la Comunità – Il riconoscimento della Comunità (1308) –  I Monaci furono processati nel 1318;
c.       Ma chi erano i “Fraticelli” Spirituali ? –  La posizione della Chiesa nei confronti degli Spirituali – (In Appendice N. 1 : “La Questione sulla povertà di Gesù Cristo e degli Apostoli” – Eleonora d’Angiò impedì in Sicilia l’attuazione dello scisma con l’antipapa Niccolò V);
d.      Il processo ai monaci di Santa Maria del Bosco nel 1318;
e.       Nel 1400 il monastero entrò nell’ambito del Monachesimo Benedettino – Le concessioni dei Sovrani –  (In Appendice N. 2 : Le Diatribe degli Abati dell’Abbazia con l’Arcivescovo di Agrigento –  Le donazioni e il problema sulle decime dei lasciti)
f.       Le Donazioni;
g.      La decadenza dei Monasteri nel XV secolo – Le Congregazioni di Monasteri – Alcuni episodi legati alla decadenza dei monasteri (Santa Teresa d’Avila fu minacciata dalle consorelle) – L’Abbazia di Santa Maria del Bosco non era in decadenza;
h.      L’entrata dell’Abbazia di Santa Maria del Bosco nella Congregazione di Monte Oliveto Maggiore – Gli Olivetani – Gli Agostiniani – L’abbandono della struttura – La struttura oggi: metà privata (Barone Inglese) e metà pubblica (Diocesi di Monreale).
2.      La Struttura:
 I due Chiostri –  Il Refettorio – Scalone Reale – La Chiesa – l’Architetto Luigi Vanvitelli
 Progettista del Palazzo Reale di Caserta – Il Busto di Eleonora d’Aragona di Francesco
 Laurana;
3.      L’Effige (icona – mosaico) della Madonna con il Bambino (Odigitria)
La Chiesa della Madonna della Favara – La Madonna dell’Odigitria, Patrona della Sicilia;
4.      L’importante ruolo del Barone Guglielmo Inglese nella salvaguardia dell’Abbazia – Il riconoscimento dell’UNESCO – La morte del Barone Inglese nell’Abbazia che tanto amava..
5.       L’aspetto attuale della Chiesa….
6.      Le opere d’arte dell’Abbazia; Icona – Mosaico dell’Odigitria – Il Busto di Eleonora d’Aragona – “Madonna con Bambino” di Andrea della Robbia – Due sculture con episodi della Via Crucis – Paliotto con scene della Resurrezione di Cristo  - Il Pastorale che andò perduto…
7. Video
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Oggi è un country Relais aperto all’ospitalità, con le sue 11 camere elegantemente arredate, sala colazione, sala relax con camino e TV.  Dal 2020 sarà attiva la piscina e l’area solarium all’interno del giardino del relais….. http://www.abbaziasantamariadelbosco.it/

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1.      L’Abbazia
Sui Monti Sicani, un territorio tutto da scoprire, si trova una delle Abbazie più grandi ed importanti della Sicilia.
Un’antica testimonianza del Regno di Sicilia, avvolta dalla “nebbia” che solo un cuore innamorato della propria Terra può scoprire e comprendere nei suoi aspetti.
Peppino Impastato  che tanto amava queste zone tanto da dedicargli la propria vita, fu ucciso dalla mafia, in una sua poesia diceva:

Fiore di campo nasce
sul grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.


L’Abbazia, questo bellissimo fiore, ha lasciato i suoi umori sulla terra a testimonianza di un glorioso passato purtroppo dimenticato..
La stupenda struttura si trova nel Comune di Contessa Entellina da cui dista circa 3 km mentre la distanza dal comune di Bisacquino, posto ad oriente dell’Abbazia, è di circa 5,5 km.

A.     La Fondazione


I monaci eremiti erano sempre alla ricerca di luoghi isolati per poter pregare e il Monte Genuardo con il suo fitto ed intrigato bosco offriva, con uno dei suoi ripiani posto a circa 830 m s.l.m., un luogo adatto per edificare un monastero ed quindi per dedicarsi alla preghiera ed all’ascesi.
L’incontro tra gli eremiti ed il bosco avveniva in modo del tutto naturale nella loro “fuga mundi”  perché proprio nel silenzio del boschi cercavano il luogo in cui dedicarsi esclusivamente a Dio.
Il bosco costituiva un quindi  un “cibo per l’anima”, un  riparo dalle preoccupazioni e dai pericoli che la vita in società comportava e un luogo privilegiato per il contatto con Dio.
Ma anche il bosco non era esente da attacchi del diavolo che a volte assumeva le sembianze delle sue fiere: il lupo, il cinghiale e altri animali feroci. Animali che in età medievale venivano spesso paragonati alle passioni che tendevano a portare l’uomo verso il male.
Un esempio, tra i tanti, sono le fiere dantesche, (il lupo, il leone e la lontra), che ostacolarono il cammino di Dante.

Williami Blake (Londra 1757- 1827)

L’agiografia medievale ci riporta episodi il cui il monaco riusciva a rendere docile le bestie feroci del bosco come il leone (San Gerolamo)  e il lupo (San Francesco d’Assisi). Azioni che esprimevano la sconfitta del male o anche la trasformazione di atteggiamenti negativi in positivi.
Molti eremiti preferivano vivere da soli, sfruttando grotte o cavità naturali, mentre altri si aggregavano per condividere i momenti di vita e di preghiera.
Abbiamo quindi i grandi monasteri benedettini, da San Benedetto da Norcia, dove i monaci vivevano in forma comunitaria in cenobi collocati nelle zone montuose e per lo più vicino ai boschi dove gli stessi monaci potevano vivere temporanee esperienze anacoretiche rinsaldando così il proprio spirito e la propria fede. Nel mondo francescano l’esperienza eremitica era sempre presente ma non costituiva una nota essenziale. Il ruolo del bosco restava però importante con la scelta di alcuni luoghi in cui creare cenobi, conventi.
Dentro le mura di ogni convento francescano c’era quasi sempre un area, anche se piccola, che aveva l’aspetto di un bosco… un luogo in cui leggere il breviario, pregare e dove poter vivere quotidianamente l’esperienza del deserto che i monaci orientali seguivano nella loro fuga dal mondo.

Il Monte Genaurdo  con il suo fitto bosco e le sue risorse, con il suo aspetto geologico costituto da blocchi rocciosi disarticolati e separati da profondi canali, con gli affioramenti di lave sottomarine conseguenti ad antichissime attività eruttive, offriva agli eremiti l’aspetto di un luogo al di fuori del mondo, lontano dalla fugacità della vita.

Monte Genuardo


Un monte alto 1180 m,  con una massa boschiva che si estendeva in gran parte del territorio e anche con una sua antica storia legata al suo nome.
Secondo l’Amari  in merito al giardino reale del Genuardo di Palermo il termine derivava da “jannat al-ard” ovvero il “Giardino/ Paradiso della Terra” e “jannat al-ward” , “Giardino delle Rose”, secondo  il “Dizionario Onomastico della Sicilia”.
(Il Palazzo della Ziza , dall’arabo “al-Aziza” , “La Splendida”, sorgeva fuori le mura della città di Palermo e all’interno del parco reale normanno “Il Genoardo” che si estendeva con splendidi padiglioni, rigogliosi giardini e bacini d’acqua da Altofonte fino alle mura del palazzo reale).
Non lontano dal monastero sorgeva la “Rocca del Moro”, il castello di Calatamauro anche lui con il termine di derivazione araba  “qal’at mawru”.


Castello di Calatamauro

Il bosco di Calatamauro con il suo fitto querceto e con le numerose specie di arbusti ed erbe, aveva quindi un aspetto impenetrabile  tanto ricercato dagli eremiti.






Un bosco che era stato concesso dal re Federico III d’Aragona  al catalano Guglielmo Galceràn de Cartellà. (documento sulla luogotenenza di Federico d’Aragona 1294 – 1295).
Gli eremiti erano guidati da un certo Fazio e nel trecento decisero di stabilirsi nel luogo creando il primo nucleo iniziale della comunità che sarebbe diventata nel tempo un luogo importante della cristianità.
Padre Olimpio da Giuliana, abate del monastero nel 1586, riportò l’ubicazione del monastero “..situato in un monte d’altezza di quattro miglia, non già nella summità del monte ma quasi a mezza strada poi che a voler andare da basso al monasterio si saglie in due buone miglia, e dal monasterio alla cima suprema del monte che si domanda Genovardo bisogna salire due altri buoni miglia molto più erti e ratti….: Sciacca, a circa venti miglia, Palermo, a trentaquattro, Corleone a dieci, Trapani a cinquantotto; i centri più vicini sono Contessa «che ci sta quasi di sotto», Bisacquino a poco più di due miglia, Giuliana a tre, Chiusa a quattro e Entella a cinque…”
In quel luogo isolato costruirono una piccola chiesa che fu dedicata alla Vergine Maria e alcune stanze dove ripararsi per condurre una  vita remota ed appartata da ogni secolaresco intrico”.
 Una tradizione, fra le tante, citò anche che venerarono un icona della Vergine che era stata rinvenuta nell’incavo di un albero.. la famosa Odigitria di Calatamauro ?
(La Notizia non ha un riscontro storico  perché fu trovata dagli albanesi quando ricostruirono il casale di Contessa. L’icona si trovava nel castello di Calatamauro dove sembra che sia esistita una chiesa come testimonia un antico testamento ?)


B.  Gli Eremiti che costituivano la Comunità.

 Rocco Pirri, pur basandosi sulla cronaca di Padre Olimpio da Giuliana, citò sempre “ viri numero tresdecim” cioè un gruppo costituito da tredici eremiti mentre il Padre ne riportò dodici.

Secondo  il Pirri erano:
I Chierici
-          Fra Nicolò di Squillace;
-          Fra Francesco di Corileone;
-          Fra Ruggero di Montemaggiore.
I Laici:
-          Fra Riccardo di Amalfi;
-          Fra Oddone di Noto;
-          Fra Marco di Messina;
-          Fra Giacomo di Viggiano;
-          Fra Giovanni di Siena;
-          Fra Guglielmo da Burgio;
-          Fra Riccardo da Comicio;
-          Fra Giacomo Catalano;
-          Fra Fazio
Lo stesso Pirri indicò il luogo del monastero come “in horrido memore” per mettere in risalto l’aspetto ambientale del bosco di Calatamauro.
Ma quella foresta così intricata, selvaggia e quasi invalicabile, venne descritta da Padre Olimpio come una sorta di “Paradiso dell’Eden”. Una descrizione storica del Cinquecento in cui venne esaltata l’abbondanza nel luogo di piante medicinali adoperate dagli eremiti secondo regole e prescrizioni tramandate di generazione in generazione in un sapere che ha sempre contraddistinto la vita monastica…”non ne resta un palmo che non si spasseggi come un delitioso giardino, nel quale di passo in passo si trovano diverse fontane di freschi e limpidissimi acque. Il terreno del bosco produce naturalmente il zafferano et in abbundantia grande ma è minore del domestico e quelli che vi si pianta domestico produce il suo fiore maggiore di quello de gl’altri boschi. Per tutto il bosco ci nasce gran copia di diversi semplici e li speciali mandano da diverse città tanto per li semplici quanto anco per cogliere il polipodio che nasce in su i tronchi delle quercie per uso di diverse medicine. Nei garbi di quelle quercie l’ape ci mellificano da loro senza cura humana il mele delle quali per essere di fiori delle ellere è impietrato duro e bianco simile in tutto al vero zucchero. Per il bosco ci è abbondantia di caccia di conigli, di lepori e di pernici. Il verno nel tempo delle fortune massime quando li venti soffiano quelli di Giuliana vengono nel bosco di notte con fiaccole accese dove prendono grandissime quantità cio è migliaia di uccelli minuti come frenguelli et uccelli simili che la notte si riducono nel bosco per il ridosso del ellare. Prima ci era caccia di daini di caprii e di cinghiali, ma adesso per essere mancate le fortezze delle macchie se cene vedono rade volte, in cambio di questi ci è buona quantità di lupi che mangiano la caccia domestica. Volpi ce ne sono assaissime per tutto il bosco a tempi suoi si trova quantità di buoni fungi e massime di quegli di ferula e mai si sa che siano stati dannosi ad alcuno, si trovano asparagi per tutto il bosco in grandissima copia lunghi e teneri e negri “.
Naturalmente alle ricchezze del bosco si aggiungevano quelle del giardino del monastero con i suoi alberi da frutta, noci, castagni, vigneti e gli ortaggi… “se questi non fossero bastati si sarebbero potuti aggiungere i frutti provenienti dai vicini centri di Giuliana e di Chiusa”.
L’eremitismo fu un fenomeno molto diffuso in Sicilia e per certi versi sempre collegato ad un aspetto religioso, come strumento di fuga dall’accusa di eresia o di ricerca di un luogo solitario dove pregare  attraverso il ritiro dal mondo,  e  alla vita rurale.


Lo storico Bresc, creò diverse “generazioni” di monasteri per differenziarli.

Ci furono i monasteri fondati dai Normanni che avviarono la cristianizzazione e latinizzazione dell’isola; ancora prima dei monasteri Normanni ci furono i primi monasteri latini fondati da papa Gregorio Magno; quelli bizantini legati al culto di San Basilio ed infine quei monasteri nati spontaneamente come quello di Santa Maria del Bosco.
Monastero che nacque durante il regno di Federico III d’Aragona (dal 1296 al 1337), scomunicato più volte dalla Chiesa e definito come il “reèvangèlique” per il suo attaccamento all’idea della povertà. Il re simpatizzava per le dottrine degli spirituali e  nel 1312 pose sotto la sua protezione gli spirituali toscani e non solo. Aveva alla corte quell’Arnaldo da Villanova che doveva essere condotto sul rogo a Perugia per le sue idee filosofiche e per le sue amicizie con i Catari.
Proprio tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV secolo gli eremitaggi in Sicilia si moltiplicarono perché l’isola offriva un sicuro rifugio agli spirituali. E così nel bosco di Calatamauro un gruppo di eremiti, tra cui qualche toscano, guidati da Fazio, di cui non si sa nulla, si stabilirono nel XIII secolo sul luogo e fondarono una comunità.
Una comunità dedita all’osservanza della povertà evangelica e “vestivano come fraticelli”... o erano fraticelli esuli o fuggiaschi da altre terre, o comunque erano simpatizzanti per le loro dottrine, sospette di eresia….. provenivano da varie parti della Sicilia, Burgio, Corleone, Montemaggiore, Noto e Messina, ma anche dall’Italia peninsulare, da Squillace, Viggiano, Amalfi e Siena, e ancora dalla Catalogna”.
Il processo di normalizzazione della comunità nell’ambito ecclesiastico fu molto rapido perché il 21 giugno 1308 la stessa comunità ottenne dal Vescovo di Agrigento Bertoldo De Labro l’autorizzazione ecclesiastica e “la concessione di 40 giorni d’indulgenza a coloro che penitenti e confessati giornalmente fossero entrati per pregare nella chiesa”.
Il 22 giugno (luglio) 1309 (domenica)  il vescovo consacrava la chiesa dedicandola alla Beata Vergine Maria e collocandovi le reliquie di San Gregorio e di San Gerlando «recondite in altari patronorum nostrorum nec non beatorum principum apostolicorum Petri et Pauli».
Molto significativa era la scelta dei due Santi. Le reliquie di San Gerlando, vescovo di Agrigento, ponevano la comunità sotto la direzione o dipendenza della Diocesi di Agrigento mentre su San Gregorio la figura era collegata alla progressiva trasformazione del monastero alla Regola Benedettina. (Papa Gregorio Magno fu artefice della diffusione della regola benedettina redatta da San Benedetto da Norcia intorno al 529).
Il vescovo, inoltre, concedeva “quaranta giorni di indulgenza a coloro che pie et devote si fossero recati penitenti alla consacrazione della basilica e a coloro che lo avessero fatto nel giorno dell’anniversario della consacrazione” o “singulis diebus peregrinacionis aut devocionis”.

Il 14 novembre 1310 lo stesso Bertoldo riceveva a Giuliana il giuramento di obbedienza della comunità e l’impegno, in segno di soggezione alla giurisdizione del vescovo, “a consegnare annualmente in occasione della festa della Traslazione del Santo due libbre e mezzo di cera lavorata”. (Circa 1,14 Kg di cera lavorata)
Frate Fazio prometteva “voler osservare povertà secondo la vita evangelica e sotto la forma del Santo Vangelo” e prestava il giuramento tanto a nome suo, quanto dei fratelli che vivevano con lui.
Padre Olimpio citò nella sua cronaca che nel “giro di otto anni nel monastero non si trovò più nessuno degli eremiti presenti nel 1310.. neppure Fazio…….affermo per cosa certissima che dillà ad ott’anni quelli c’habbitavano a Santa Maria del Bosco che non erano più che sette havevano nomi diversi dali sopra detti e si vede chiaramente che di quei primi non ven era più niuno s’havessero mancato per morte o per altro io non l’ho potuto sapere”.
Il 20 marzo 1318 gli eremiti di Santa Maria del Bosco vennero processati dal Vescovo di Agrigento. Un processo in seguito all’accusa da parte del ministro generale dei Francescani, Frate Angelo, di “essere fraticelli”. Un processo che con la stessa accusa aveva convolti alcuni anni prima degli spirituali toscani.

C.  Ma chi erano i Fraticelli Spirituali ?

Fraticello Gioacchino da Fiore
Celtico (Cosenza), 1130 circa – Pietrafitta (Cosenza), 30 marzo 1202

Con la morte di San Francesco d’Assisi, avvenuta nel 1126, l’ordine dei Francescani fu retto da Elia da Cortona, già citato in una mia precedente ricerca come consigliere dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Il movimento francescano si presentava scisso in due gruppi che in un certo senso erano molto distanti tra loro per le ideologie e le regole:
-          I Conventuali che operavano secondo una parziale revisione delle Regole dell’Ordine dettate da San Francesco;
-          Gli Spirituali che invece osservano scrupolosamente le regole ed il Testamento di San Francesco e mantenevano uno stile di vita basato sulla povertà assoluta e sulla rinuncia di ogni privilegio.
Gli Spirituali avevano un loro maestro, Gioacchino da Fiore, e identificarono la sua “Chiesa Spirituale” con l’ordine Francescano.
Naturalmente Elia da Cortona, un frate dal carattere molto forte, perseguitò gli spirituali per ben quattro volte senza riuscire a raggiungere dei risultati positivi. Il movimento si diffuse e addirittura riuscirono a sfiduciare Elia una prima volta nel maggio 1227.
Il movimento degli Spirituali si sviluppò nelle Marche e nell’ Umbria dove nel 1274 operavano sotto il comando di Liberato da Macerata e successivamente dal 1307 avevano come guida Angelo Clareno da Cingoli.

Frate Elia da Cortona, compagno di San Francesco d’Assisi

L’atteggiamento della Chiesa, all’inizio  con papa Celestino V, fu clemente con gli Spirituali a tal punto che lo stesso papa li svincolò dal controllo dei Conventuali. Ma la loro libertà durò ben poco perché papa Bonifacio VIII (1294 – 1303) tolse loro ogni privilegio e con papa Giovanni XXII (1316 – 1334) iniziarono le persecuzioni e le condanne. Per gli Spirituali papa Giovanni XXII era l’immagine dell’Anticristo.
Il movimento degli Spirituali si era radicato non solo in Italia, sia pure in alcune regioni, ma anche all’estero e in particolare nella Francia Meridionale, dove avevano come guida Pietro di Giovanni (Pierre Jean) Olivi fino al 1298.
Anche in Francia furono perseguitati dai Conventuali.

Pietro di Giovanni Olivi

Grazie all’intervento del medico e filosofo spagnolo Arnaldo da Villanova (o di Villanuea), successivamente alla Corte di Re Federico III d’Aragona nel castello di Montalbano Elicona (Messina), presso il re di Napoli Carlo d’Angiò e il papa Clemente V, si cercò una soluzione tra il generale dell’Ordine, Guldisalvo di Valleboa ed i capi del movimento Raymond Gaufredi, Guy de Mirepoix, Bartolomeo Sicardi e Ubertino da Casale.
Trovare una soluzione tra le parti non era facile. Gli Spirituali erano contrari alle mitigazioni della “Regola” che era ritenuta intangibile come il Vangelo perché dettata a San Francesco da Cristo stesso.
Papa Clemente V con la Bolla del 6  maggio 1312 “Exivi de paradiso”  concesse all’Ordine degli Spirituali di “poter disporre di granai e cantine nei casi di provata necessità”.
Furono ottenute alcune concessioni ma alla morte del papa nel 1314 ed alla successiva elezione, avvenuta nel 1316, di Giovanni XXII, la situazione precipitò drammaticamente.

In realtà Papa Giovanni XXII accettò le concessioni di Clemente V osservando che “non potevano considerarsi trasgressori della Regola quanti vi si fossero attenuti”.
Ma gli Spirituali continuarono nel loro atteggiamento ostile nei confronti dell’Ordine Conventuale e del Papa Giovanni XXII che con la Bolla “Sancta Romana” del 30 dicembre 1317, soppresse definitivamente gli Spirituali d’ogni categoria “Fratres de paupere vita”, Terziari dissidenti, Beghini o Bizzocchi, ecc.” chiamandoli per la prima volta “fraticelli”.
Il papa emetteva una nuova Bolla “Gloriosam Ecclesiam” il 31 gennaio 1318 e colpiva in particolare i Fraticelli di Toscana che si erano rifugiati in Sicilia, sotto la guida di Enrico da Ceva, ottenendo la protezione di Federico III d’Aragona, sposo della regina Eleonora d’Angiò. I fraticelli erano “accusati di certi errori difesi dai Donatisti, dai neo-Manichei e dai Valdesi”.
Il papa dovette affrontare una situazione non facile da gestire.  Clemente V aveva temperato i rigori della povertà professata dagli Spirituali ma restava in vigore una precedente dichiarazione di Niccolò III, emessa con la Bolla “Exiit qui seminat” del lontano 14 agosto 1279.
La Bolla era particolarmente cara ai Francescani perché confermava la loro volontà di seguire l’esempio di Cristo e degli Apostoli nella pratica dell’ “assoluta povertà in comune e individuale”.
Gli “eventuali beni di chi entrava a far parte della vita francescana, sia le donazioni dei fedeli, erano depositati presso la Santa Sede, ed erano amministrati secondo le necessità dei frati, dai Sindaci Apostolici”. Sindaci Apostolici che erano stati istituiti da Martino IV con la Bolla “Exultantes in Domino” del 18 gennaio 1283.

Giovanni XXII malgrado le Bolle dei suoi predecessori incominciò ad ordinare gli arresti dei “fraticelli”. Furono  imprigionati i capi dei movimenti e torturati venticinque fraticelli da parte dell’Inquisizione. Quattro dei torturati non riconobbero l’autorità papale e furono condannati al rogo nel 1318.
Secondo alcuni storici la presenza dei fraticelli in Toscana è attestata verso il 1309 ma solo verso il 1312 la tensione e le diatribe con i Conventuali toccarono toni accessi e una cinquantina di essi decisero di emigrare in Sicilia dove furono raggiunti da altri fraticelli in fuga da diverse regioni d’Italia e anche dalla Francia Meridionale.
Le date non sono categoriche in quanto i fraticelli erano presenti a Santa Maria del Bosco già nel dicembre 1308 quando fu riconosciuto loro la regolarità della comunità da parte del Vescovo di Agrigento.
Gli spirituali in Sicilia si organizzarono sotto le direttive di Enrico di Ceva ed ebbero dalla loro parte il re Aragonese Federico III, già in carica nel 1296, che approvò il loro statuto.
La storia del gruppo di Spirituali di Santa Maria del Bosco continua nella storia dell’Abbazia ma è opportuno fare un cenno sulla fine del movimento degli spirituali in Italia.
Il papa Giovanni XXII li perseguitò e alcune notizie riportano che molti furono espulsi dalla Sicilia per confluire sotto la protezione di Carlo II d’Angiò a Napoli. Siamo negli anni  tra il 1322 ed il 1331 e gli spirituali erano confluiti nel movimento dei Michelisti guidati da Michele Fuschi da Cesena.
Come abbiamo visto il papa Giovanni XII aveva fatto bruciare al rogo quattro Spirituali a Marsiglia nel 1318, si narra che lo stesso papa fu presente all’esecuzione, ma non riuscì mai a catturare la loro guida, Angelo Clareno da Cingoli, che morì in santità il 15 giugno 1337 circa tre anni dopo la morte del papa avvenuta nel 1334.
La loro comunità resterà ancora in vita e nel  1389, a Firenze, ci fu un’altra condanna al rogo di Fra Michele Berti da Calci.
Con la morte del Clareno, i seguaci ebbero un forte seguito in diverse città tra cui Firenze dove  sfidarono apertamente i teologi della Chiesa che fecero emanare un editto di espulsione dalla città degli Spirituali (effettuato con la forza nel 1381).
In questo clima di contrasti la cronaca raccontata da Fra Michele minorita ci fa rivivere quei momenti.. “Come per usanza i poveri frati di santo Francesco oggi e per più tempo passato perseguitati per la povertà di Cristo, abitanti nella Marca, mandarono qua a Firenze frate Michele e C. per soddisfare i fedeli da Firenze. È giunsero qua a dì 26 di gennaio 1388”.
Il frate minore Michele Berti, di Calci un centro vicino Pisa, iniziò a Firenze la sua predicazione.
Una predicazione effettuata in segreto e a sfida delle autorità religiose.


Il 20 aprile 1389 il frate e un suo compagno, quando già avevano deciso di lasciare la città, furono chiamati da ““certe figliuole di Giuda, che s'erano più volte scifate per l'adrieto, instigate dal diavolo con più molta sollicitudine cercavano di confessarsi e di volere la salute de l'anima loro et cetera: sì deliberò d'andarvi”.
Furono queste “predette femine, cioè due pinzochere e tre donne vedove...” che denunciarono il frate e il suo confratello all’arcivescovo francescano Bartolomeo Uliari, arcivescovo di Firenze dal 1385 al 1389) che li fece arrestare e processare per eresia.
Fra Michele fu sottoposto ad un interrogatorio massacrante per ben 10 giorni ma rimase sempre fedele al suo pensiero affermando, di continuo, che “papa Giovanni XII era stato un eretico e quindi illegittimi i suoi successori e i preti che li avessero riconosciuti come veri pontefici”.
La sentenza di morte sul rogo fu pronunciata dal capitano del popolo Niccolò Gentile da Monterano il 30 aprile 1389  sotto il pontificato di Urbano VI .
La scena fu drammatica perché mentre il frate veniva condotto al rogo, i fiorentini lo invitarono più volte a ritrattare e riconoscere la legittimità del papa. Un azione che aveva seguito il suo confratello che ebbe per questo motivo salva la vita. Ma gli inviti furono inutili… cantando il “Te Deum” preferì affrontare il rogo piuttosto che ripudiare le sue convinzioni religiose. Un rogo che avvenne fuori le mura della città, oltre la Porta della Giustizia, nei pressi della Chiesa di Santa Maria del Tempio.

Il rogo di Michele Berti
Incisione del XIV secolo

Il 30 marzo 1956, Tribunale Penale di Palermo,
l’avv. Pietro Calamandrei nell’arringa difensiva nel processo a
Danilo  Dolci (1924 – 1997), il “Ghandi Siciliano”,
citò Michele Berti da Cenci come esempio di coraggio, coerenza e
resistenza all’oppressione del potere.
(una figura dimentica nella lotta di sviluppo sociale dell’Isola)

“La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante,
non segue la rassegnata è soddisfatta voce del buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita.
È un’antica cronaca fiorentina, rievoca anche la figura di un monaco, appartenente
all’ordine dei “fraticelli della povera vita” che praticavano la povertà assoluta e
che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano mai riconosciuto
la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come eresia:
e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò
dalla prigione al supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero
le stazioni della Via Crucis. Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa,
scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo agli armigeri, per le vie di Firenze.
Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio frasi di incitamento
e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano all’abiura:
“sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!”.
Ed egli risponde, mentre passa, senza voltarsi:
“pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercanzie”.
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna
a gridargli:
“Ma perché ti ostini a voler morire?”, egli risponde:
“Io voglio morire per la verità: questa è una verità, ch’io ho albergata in me,
della quale non se ne può dare testimonio se non morti”.
E con queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco,
ecco che arriva un messo dei Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi
e così salvargli la vita. Ma egli dice di no.
E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda:
“ma dunque costui ha il diavolo addosso?”; al che l’altro armigero, nel dar fuoco, risponde
(e par di sentire la sua voce strozzata dal pianto): “Forse ci ha Cristo”.”





Gli spirituali basavano la loro dottrina sul pronunciamento dell’assoluta povertà di Gesù Cristo e degli Apostoli. Un pronunciamento che fu effettuato da Michele Fuschi di Cesena,  ex generale dell’ordine francescano, nel 1322 durante il Capitolo Generale dell’Ordine.
Questo pronunciamento fu condiviso dai ministri provinciali dell’Ordine di Inghilterra, Aquitania, Francia del Nord e Germania meridionale. Naturalmente non fu accettato da papa Giovanni XXII che s’adirò moltissimo e nel 1323 promulgò la Bolla “Cum inter nonnullos” dichiarando eretica l’affermazione sulla povertà del Cristo.

Gli spirituali saranno attivi fino al 1431 quando ci fu una forte azione di persecuzione da parte del papa Martino V.
Un papa che anziché cercare di risolvere il problema della lotta contro i due antipapi Clemente VIII e Benedetto XIV, si dedicò, “con grande amore” ad una spietata azione repressiva, nel 1427 -1428, a Spoleto ed Ancona. Un azione che portò alla distruzione di 36 villaggi dei fraticelli ed alla condanna al rigo di alcuni di essi. Sentenza che fu eseguita a Fabriano alla presenza del papa stesso. L’ultimo processo a carico dei fraticelli avvenne nel 1466 con la condanna all’ergastolo di 15 religiosi.

( Appendice N. 1  - “La Questione Teoretica della Povertà”)
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D. I Monaci di S.M. del Bosco processati nel 1318
Nel 1318 ad Agrigento ci fu un processo a dir poco paradossale nei confronti dei fraticelli di Santa Maria del Bosco..  Il ministro dei Francescani frate Angelo si recò dal vescovo di Agrigento presentandogli delle lettere di papa Giovanni XXII, tra cui il “decretale” in cui il pontefice stabiliva “adnullacionem et irritacionem sette, ritus et status prophane multitudinis virorum qui vulgariter fraticelli seu fratres de paupere vita aut bizokii sive bigini aut aliis nominibus nuncupatur ipsorumque virorum errores detestabiles quisque precipue continenti et alia scimata et hereticas pravitates que ad gregem dominium poterant pervenire et specialiter ad beati Francisci ordinem memoratum sagagentes pro viribus sepefati ordinis beati Francisci stabilem firmamque compaginem solida presumpcione resindere”.

 (annullamento della setta con i suoi rituali e lo stato di profano della moltitudine di uomini che sono volgarmente chiamati fraticelli, fratelli della povertà, o beghini o bizocchi o qualsiasi altro nome… tutti in particolare che operano nel continente e in un altro scisma,  che depravatamente dicono di appartenere al gregge del Signore, non potranno mai raggiungere le parole del Beato Francesco e quindi appartenere all’ordine di San Francesco,….”
I frati avevano assunto anche un abito proprio «cum parvis capuciis curtis et inusitatis secundum beati Francisci regolam”.
“Piccoli cappucci corti e senza precedenti, secondo la Regola del Beato Francesco".
Vestivano più  o meno alla foggia dei francescani ma con abiti corti e spregevoli, il che dava occasione a Giovanni delle Celle di osservare che “alla perfezione loro non può bastare la misura del cappuccio di S. Francesco”. In caso di pericolo o in viaggi assumevano le vesti comuni”.

L'apparenza di estrema povertà e di vita rigorosa, nonché le loro denunzie sulle ricchezze della Chiesa, guadagnarono alla comunità religiosa il favore dell’umile gente che li aiutava con elemosine. I confessori e predicatori  fraticelli facevano lunghi viaggi per visitare i loro fedeli, nelle case dei quali nascostamente celebravano i loro riti. Tra i fedeli non mancarono dei nobili (a Rieti una contessa; a Poli varî membri della famiglia Colonna), che potevano essere un ostacolo all'azione degl'inquisitori.
Nei loro scritti conservatici non c’era alcun accenno a turpitudini o pratiche illecite, delle quali furono accusati.

 Giovanni XXII aveva disposto che si processassero coloro che vestivano quell’abito e che se si fossero trovati colpevoli sarebbero stati puniti con debite sanzioni canoniche:
Il ministro Franco chiese quindi al Vescovo che si adoperasse per l’esecuzione dei decreti papali anche per gli eremiti di Santa Maria del Bosco che portavano l’abito incriminato.
Il vescovo rispose subito disponendo un processo in cui “fossero esaminati il priore, fra Giovanni de Castelluccio e i frati, Pace de Curilioni, Alessandro de Milacio, Andrea de Curilioni, Angeluccio della Marca, Pietro de Catanzaro, Marco de Messana, Nicola de Messana e Nicola de Alcamo, i quali a Santa Maria del Bosco vestivano l’abito dei fraticelli. Il vescovo, interrogati uno per uno sugli articoli di fede, trovava i monaci «a dictis erroribus alienos” (attraverso le loro risposte in errore).
Dei frati fondatori non c’era più nessuno. Padre Olimpio nella sua cronaca non citò la loro fine ed è strano in un racconto così accurato e attento.
Il vescovo dichiarava quindi l’ortodossia dei frati e decretava la trasformazione del monastero in benedettino con una soluzione che, nel compromesso, velava la protezione accordata dal presule alla comunità. Non ci fu quindi quella persecuzione che coinvolse altre regioni d’Italia.
Il priore e il vice priore fecero la professione di fede nella mani del Vescovo e tutti i frati promisero di obbedire al priore e di osservare la regola benedettina.
La dipendenza al Vescovo di Agrigento veniva maggiormente sottolineata perché  i priori sarebbero stati confermati dallo stesso Vescovo di Agrigento e  i monaci avrebbero dovuto portare ogni anno per la festa di San Gerlando un rotolo di cera (circa 800 grammi).
Dal racconto traspare un celato sostegno del vescovo, Bertoldo di Labro, agli eremiti. Una posizione confermata da Padre Olimpio nel cui racconto traspare che dall’esame dei fatti accusatori …”era merco che niuno di loro era incorso ne in heresia ne in apostasia alcuna, e niuno di loro essere obligato, ne aver fatto professione in alcuna religione approbata dalla chiesa; anzi niuno di loro essere stato frate altrove; ma che solamente facevano vita eremitica nel detto bosco et erano persone semplicissime come vere colombe e degl’errori e costumi che solevano havere li bizzocchi n’erano del tutto alienissimi.”
La promessa dei frati “«lasciar l’habbito predetto e [...] volere servire Iddio tutto tempo della vita loro in habbito monacale di san Benedetto bisco o camellino» avrebbe trovato, per gli anni seguenti, scarso seguito nella realtà.

I frati continuarono a vestire nel modo dei “fraticelli” e anche a “comportarsi come tali”.

Giovanni XXII

I monaci di Santa Maria del Bosco  non furono quindi colpiti dalle persecuzioni papali  e la loro chiesa cominciò ad essere oggetto di donazioni da parte dei fedeli.

Nel 1322 una donna di Corleone nel suo testamento donò ai frati della Chiesa di Santa Maria del Bosco “sedici canne di panno d’orbace bruno”  forse da utilizzare per la creazione di paramenti sacri, e il cui colore richiamava il grigio-bruno delle vesti che erano state condannate nel processo da Giovanni XXII e non quello dell’abito benedettino di colore nero.

San Benedetto da Norcia
(Dipinto di Pietro Perugino)

Nel 1369, il  Vescovo di Agrigento era Matteo de Fugardo e in seguito alle dimissioni del priore Nicola de Bruzia venne eletto, forse su designazione del priore uscente, un nuovo superiore, Benedetto de Pligintino. Un elezione che fu confermata dal Vescovo di Agrigento.
Il nuovo priore si rivolse a Papa Urbano V per sanare un’irregolarità avvenuta nella sua elezione a priore che, secondo la prassi degli ordini Mendicanti, era temporanea.
Il 25 giugno 1370 il pontefice intervenne sulla questione accogliendo le giustificazioni del nuovo priore, secondo cui “filii conventus dicti prioratus tamquam simplices et iuris ignari eundem Benedittum in eorum et dicti prioratus priorem usque ad triennium dumtaxat concorditer eligerunt”, disponendo che il Vescovo si accertasse che “dictum Benedittum ad hoc ydoneum esse» e ne regolasse l’elezione rendendola vitalizia.
Le giustificazioni del priore erano lontane dalle abitudini degli ordini mendicanti che facevano riferimento a cariche brevi.
 Padre Olimpio, le cui idee coincidevano con quelle del priore,  nella sua cronaca attribuì la durata triennale dell’elezione alla debolezza umana dei monaci che volevano ad ogni costo evitare un altro “lungo governo, perche ci era forse venuta in fastidio la lunga suggettione ch’avevano durato sott’il governo del Castelluccio et del Brucia” … e perche ognuno di loro era convinto di saper bene governare e quindi accio n’havesse a toccare ad ogn’uno la parte sua non volevano ch’il priore fosse fatto perpetuo”.
Il tentativo dei monaci si scontrò con la furbizia , l’astuzia del nuovo priore che «huomo prudente et astuto uccellò tutti quegli ch’in questo modo l’havevano eletto perche essend’egli entrato col trivellino picciolo» si fece confermare prima dal Vescovo e poi si rivolse al papa.
Il Vescovo, dopo l’intervento di Urbano V, il 24 dicembre 1370, annullava l’elezione dei monaci  «ut pote contra canonicas sanciones iuris» e accertato che Benedetto era  “benemerito et ad hoc ydoneo”, dava l’esecuzione al mandato papale.
Il terzo priore sarebbe rimasto in carica per ben 9 anni fino cioè alla sua morte.
La generazione dei monaci-fraticelli a Santa Maria del Bosco era ormai passata e si aveva la visione di un monastero ormai nell’ambito del monachesimo benedettino e in obbedienza al papa.

E. Nel 1400 il Monastero entrò nell’ambito del Monachesimo Benedettino
Un processo di trasformazione nelle regole che fu favorito dalla elevazione del monastero in Abbazia avvenuto nel 1400.
Bonifacio IX aveva concesso il 15 luglio 1400 al monastero il privilegio di assolvere i peccatori in “articulo mortis” ed il 28 luglio elevava ad Abbazia il priorato benedettino e che “il monastero fosse in perpetuo esente dalla quarta canonica e che quando fosse morto un abate, il capitolo eleggesse il successore senza altra conferma ma con la semplice benedizione di un vescovo”.
Il primo abate fu Benedetto de Maniace che Padre Olimpio definì «huomo ingegnoso desideroso di cose grandi, splendido, magnifico di buonissima fama e di mirabbile espettatione.”
La nuova realtà del monastero fu accettata da re Martino solo in seguito all’intervento della Contessa di Caltabellotta e di Caltanissetta Eleonora d’Aragona, chiamata in causa dallo stesso abate.
Eleonora d’Aragona, insieme con i Conti di Caltabellotta, ebbe un ruolo decisamente importante nella vita del monastero perché garantì sostegno economico e protezione.
L’abate si trovò coinvolto in diatribe molto forti dove gli attori erano l’arcivescovo di Palermo, l’arcivescovo di Agrigento, il Papato e la Corona.
Il periodo era quello del Grande Scisma e l’antefatto furono alcuni provvedimenti del papa
Bonifacio IX che aveva elevato ad Abbazia il Monastero (nel 1400) sottraendolo di fatto alla giurisdizione del vescovo di Agrigento e ponendolo sotto la giurisdizione pontificia.
Il Vescovo di Agrigento, Joan Despi, catalano ed obbediente a Benedetto XIII (l’antipapa Pedro Martinez de Luna y Perez (o Peris) de Gotor), non accettò di buon grado questo provvedimento come d’altra parte anche Re Martino Il Giovane.
Il vescovo di Agrigento, non tenendo conto dell’esenzione dalla giurisdizione ordinaria concessa dal pontefice, nel 1421 confermava il nuovo abate Giovanni de Porto il quale anziché consegnare un rotolo di cera come consueto ne avrebbe dovuto consegnare due…” per le lite passate bisognò che fra Giovanni cen’havesse promesso dui rotula con giuramento di mai per l’avenire per qualsivoglia occasione havere a tentar cosa in pregiudittio della giuridittione del prelato o della Chiesa agrigentina”.

Racconta Padre Olimpio che “l’abate non gradì il nuovo stato di cose sentendosi sminuito nel suo ruolo e parendoli vergogna e danno d’essere mancato di quel grado al quale gl’altri dui suoi predecessori abbati erano pervenuti poi che la presente sua dignita non differiva quasi in niente da quella degli priori antichi, e d’habbate n’haveva solamente il nome privo di quelle gratie ed esentioni ch’erano gia state concesse al monasterio, incominciò a trattare per via di Roma di farsi confirmare li predetti privileggii”.
Nel volgere degli anni si verificheranno continui contrasti con il Vescovo di Agrigento, a causa dell’esenzione fiscale di cui godeva l’Abbazia, che sono riportati nell’Appendice n. 2.
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(Appendice N. 2
Le Controversie tra gli Abati dell’Abbazia e il Vescovo di Agrigento.
Il  problema sulle decime per i lasciti:
Le Donazioni.)
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Il 28 maggio 1423 il papa Martino V ordinò al vescovo di Agrigento (Lorenzo di Mesassal), per tutelare Santa Maria del Bosco dai malfattori e dall’azione «predonum raptorum et invasorum», di scomunicare tutti coloro che indebitamente si fossero appropriati dei beni del monastero.
Nel 1450 fu la volta di Nicolò V che, nell’anno giubilare, concesse ai monaci che non potessero recarsi a Roma «sine cultus divini et rerum aliarum in vestro monasterio detrimento» di conseguire l’indulgenza rimanendo nel monastero «et cultui divino operam dando». I monaci avrebbero dovuto «totum et integrum psalterium singulo mense usque ad unum annum dicere et in super quod quelibet in vestro monasterio sacerdos ratione predictarum indulgentiarum teneatur dicens triginta missas et si sacerdos non fuerit triginta vitibus septem psalmos cum litaniis». Il pontefice, inoltre, si preoccupava di far restituire ai monaci tutti i beni indebitamente alienati e di confermare tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori e dai sovrani. Alla benevolenza accordata dalla Sede apostolica si affiancava quella manifestata dalla Corona. Il 30 novembre 1359 Federico IV aveva donato ai monaci, come omaggio alla Vergine, due aratati di terra adiacenti al monastero, da seminare per il loro sostentamento, e aveva dato mandato al vicesecreto di Corleone, Ruggero de Cammarana, di farne entrare in possesso il procuratore del monastero. Il vicesecreto eseguì l’ordine il 20 dicembre seguente assegnando al monastero all’incirca i confini che mantenne almeno fino alla fine del XVI secolo. Nel 1367 il sovrano concedeva, ancora, dodici botticelle annuali di tonnina salata delle tonnare della Regia Curia di Palermo per uso dei monaci, del priore e delle persone al servizio del monastero. La donazione sarebbe stata confermata da re Martino e dalla regina Maria. Nei privilegi si fa riferimento alla fondazione e dotazione del monastero attribuita dai successori di Federico III a fondamento del diritto di regio patronato vantato dalla Corona. Nel dicembre del 1396 Martino, preoccupandosi delle conseguenze che lo stato di guerra del Regno poteva causare al monastero, emanava un provvedimento con il quale assicurava protezione a 500 pecore e 20 buoi aratori che sarebbero rimasti nel territorio del monastero «pro vita et subsidio monasterii» e salvaguardava il resto del patrimonio zootecnico consentendo che venisse trasferito in territorio fedele alla Corona dove non avrebbe subito alcun danno o molestia per tutta la durata della guerra. Nel 1397 Martino manifestava ancora la sua protezione ordinando ai prelati e agli ufficiali del Regno di non molestare i monaci nei loro beni e diritti dal momento che era espressa volontà del sovrano porre il monastero sotto la propria custodia e salvaguardia speciale in considerazione del fatto che «per divos retro principes et predecessores nostros constructum ac fundatum ex largitione munifica eorundem»
Il sostegno della Corona sarebbe continuato con Alfonso che, l’11 gennaio 1442, concedeva al monastero in perpetuo di potere estrarre dal caricatore di Palermo «tantam quantitatem casei et equi casei proventuri ex dictis eius animalibus libere et sine solu cione» fino ad un valore di 10 onze. Il 13 febbraio 1478 re Giovanni avrebbe ampliato la concessione dal momento che il monastero «paupertate oppressum est» e non raggiungeva le 10 onze in produzione di formaggio, pertanto consentiva di estrarre non solo il formaggio prodotto dai monaci ma anche, «si autem dictum monasterium seu illius abbas non habuerint tot capras oves vacas et animalia quorum ius extractionis ad summam decem unciarum singulis annis non ascenderit», di estrarre «merces quascumque tam proprias dicti monasterii quam alterius cuiuscumque persone» e che ciò avvenisse non solo dal porto di Palermo ma dal qualsiasi caricatore del Regno. Il sovrano a distanza di qualche anno, nel 1457 avrebbe anche permesso al monastero di tenere un mercato solenne nel giorno dell’Assunzione della Beata Maria Vergine. La sua celebrazione destò da subito preoccupazioni per l’ordine pubblico. Il vicerè intervenne il 9 agosto 1458 ordinando al regio algorizio di provvedere al mantenimento della sicurezza dal momento che «infra la terra di Curigliuni et di Juliana per causa chi si fa la festa in la Ecclesia di Santa Maria lu boscu a lu quindichi di lu presenti solino insurgiri multi altercacioni et brigi». I monaci, infatti, portarono in processione il simulacro dell’Assunta e all’evento parteciparono tutti gli abitanti del circondario con le inevitabili conseguenze. Il capitano non riuscì ad arginare la folla e nemmeno il baiulo e gli altri ufficiali che l’abate aveva nominato a tutela dell’ordine per i due giorni di festa.


F.     Le Donazioni dei privati
“Il monastero si arricchisce: la protezione dei signori e i lasciti dei privati Li monaci vivevano delle fatiche loro; d’industrie d’animali che tenevano e d’alcune elemosine che havevano da Giuliana da Corileone e da Sciacca: che davano buon odore di fatti loro e che facevano santa vita si comprende per li legati ch’alla giornata ci andavano lasciando le persone devote in Giuliana in Corileone et in Sciacca delle qual terre gl’habbitatori facevano a gara a chi ci poteva più dare in viventia o lasciare doppo la morte si teneva più contento e beato: molti lasciavano il monasterio loro herede universale et altri davano case, vigne, pezzi di terre scapole e territori intieri oltre il bestiame gli danari et altre cose mobbili delle qual cose li monaci ne facevano compra di cose stabbili”.
Con queste parole Padre Olimpio descriveva in modo pittoresco una realtà che, non esclusiva di Santa Maria del Bosco, assicurò al monastero una grande ricchezza e ne fece un punto di riferimento del territorio circostante. L’abate non poteva che sottolineare le buone azioni dei monaci, la loro santa vita per giustificare la gara degli abitanti del territorio che lasciavano una “maggiore quantità di beni al monastero”.
Padre Olimpio aggiunse che i monaci erano molto operosi e ospitali e «questi modi havevano innamorato di fatti loro tutta Sicilia», oltre che i sovrani che davano «spedimento di tutto quel che desideravano»; «percioche facendo li monaci buona vita et accarezzando li povereti con le continue elemosine; e li ricchi con li buoni esempii, e con l’hospitalita nel passaggio; di giorno in giorno andavano acquistando e reputazione e robba». Ma, pur non volendo sminuire tale “santità”, il gran numero di lasciti, soprattutto testamentari, andava anche ascritto, ovviamente, alla speranza dell’uomo medievale di assicurarsi con i legati pro anima il «passaporto per il cielo». Se appare, dunque, quasi più scontato il volume di donazioni e benefici concessi da nobili, conti e marchesi, non risulta strano neanche il gran numero di legati a favore del monastero di quanti da Corleone come da Giuliana, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina o Sciacca cercavano, pur in rapporto ai propri averi, di non dimenticare il monastero nelle ultime volontà o addirittura, a maggiore garanzia della salvezza dell’anima, lo designavano erede universale.
La storia dei legatari illustri inizierebbe, secondo Padre Olimpio, nel 1354 con Matteo Sclafani, conte di Adernò, signore di Ciminna e fondatore di Chiusa Sclafani che donò alcuni beni immobili ed una cappella a Palermo.
Nel suo testamento avrebbe donato al monastero di Santa Maria del Bosco una grande casa sita in contrada Terracina di Palermo con torre, cappella, giardino “munito di gebbia e acqua per l’irrigazione che sarebbe dovuta servire ai monaci da Grancia”
La casa e una parte del giardino successivamente sarebbero stati affidati dal monastero a Francesco Campana dietro pagamento di un censo annuo di 37 onze mentre nell’altra parte del giardino sarebbero state fabbricate delle case che portarono al monastero entrate annuali fisse.
Questo lascito fu riportato da Padre Olimpio nella sua narrazione e fu sicuramente una notizia certa sebbene il Conte Matteo, che aveva paura della morte e desiderio d’eternità, abbia redatto ben quattro testamenti e nell’ultimo del 6 settembre 1354 non fece alcuna menzione di questa donazione.

 Il nipote Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta, signore di Sciacca e vicario del Regno e, più di lui, la moglie, Eleonora d’Aragona, beneficiarono ancor di più il monastero. L’abate riportò con cura le concessioni accordate dai Peralta prima e successivamente dai Luna, loro discendenti,
 I De Luna fino a Giovanni Luna e Peralta, Duca di Bivona (2° Duca di Bivona e 11° Conte di Caltabellotta dal 1575 al1592), che Padre Olimpio definì  “mio signore”, avevano sostenuto il monastero con grandi favori e mostrato sempre nei confronti dei monaci un grande rispetto a amore. Il 18 agosto 1383 Guglielmo Peralta confermava la donazione di Federico IV Il Semplice “dei due aratati di terra e bosco” che il sovrano concesse nel 1359 affinchè “i monaci potessero lavorarli con le proprie mani onde trarne il sostentamento in ossequio alla regola benedettina”.

  Nel 1393 il Peralta nel suo testamento lasciava al monastero 10 onze annuali e il figlio Nicola confermava e accresceva il lascito paterno assegnando a Santa Maria tutte le entrate che gli provenivano da Palermo, fatta eccezione per l’”osterio magno” (palazzo di Palermo) di Matteo Sclafani.

Eleonora d’Aragona era nipote di Federico III d’Aragona e della moglie Eleonora  d’Angiò. Il figlio della coppia reale di Sicilia Giovanni aveva sposato Cesarea Lancia e dal loro matrimonio era nata Eleonora d’Aragona. Per questo motivo viene spesso chiamata “infanta” perché è un titolo dato in Spagna alla figlia  o al figlio di un sovrano.
Rimasta vedova di Guglielmo, il primo aprile 1401, estese i confini del monastero ampliando la donazione del sovrano, suo consobrino carnale, con il territorio della valle dello Strasatto e del feudo del Gurgo. Nell’ottobre successivo dispose che “per entrarne in possesso i monaci non aspettassero la sua morte”.
I confini del bosco in virtù della donazione di Eleonora abbracciavano un vasto territorio che, alla fine del XVI secolo, quando scriveva Padre Olimpio, si estendeva per circa 130 salme. Per poco più di mezzo secolo non ne faceva parte la zona meridionale denominata masseria di Fontana Cavata che Nicolò Peralta, il 19 agosto 1408, aveva concesso a Pino d’Andrea per un censo di 6 tarì annui.
Per tutto il XVI secolo l’Abbazia ricevette molte donazioni anche da parte regia. Re Alfonso ebbe come consiglieri due monaci dell’Abbazia.
Nel 1402  il monastero fu nominato erede universale nel testamento di donna Ricca de Pontecorno e nel 1403 altro lascito da donna Iaquinta Salimbeni.

Il monastero costituì una grande proprietà terriera che, con scambi e compravendite riportate nel tabulario conservato nell’Archivio di Stato di Palermo, contribuì a formare una grande ricchezza economica.
La benevolenza manifestata dai Peralta verso Santa Maria del Bosco di Calatamauro non venne meno con i successori che furono prodighi di grazie e munifici nei confronti del monastero e quest’ultimo assumerà un ruolo sempre più rilevante per il territorio circostante anche dopo che Innocenzo VIII, nel 1491, lo incorporò nella congregazione benedettina di Monte Oliveto. I monaci avrebbero continuato per tutto il XV secolo a ben destreggiarsi nel delicato rapporto di equilibrio tra istituzioni ecclesiastiche e poteri laici e a mostrare oculatezza nella gestione dell’ingente patrimonio accumulato.

G. La Decadenza dei Monasteri nel XV secolo
Nel XV secolo i monasteri erano in decadenza. La presenza degli ordini religiosi non era così incisiva nel tessuto sociale e nella coltura come nei secoli precedenti. L’istituzione della commenda, consistente nell’affidare la gestione dei beni del monastero ad un superiore che non vi risiede e spesso laico, decretò un rilassamento totale dal punto di vista religioso. Questa soluzione fu pensata per sottrarre i monasteri alle difficoltà dell’ambiente  ed ai contrasti interni legati alle nomine. La commenda determinò la fine di grandi abbazie perchè i superiori si disinteressavano dei vari problemi della comunità religiosa e si limitavano a percepirne solo le rendite spesso per loro tornaconti personali.
(Nel XVI secolo circa la metà dei monasteri sparì a causa delle misure repressive della Riforma. In Inghilterra, per esempio, i monasteri benedettini vennero totalmente soppressi e, più tardi, in Francia, la Rivoluzione decretò la chiusura in massa dei monasteri).
Una decadenza forse già avviata tra il XIII ed il XIV secolo e che raggiunse nel XV secolo il culmine.
Un monachesimi benedettino in declino malgrado l’elevato numero di abbazie e che si spopolarono delle comunità che vi vivevano. Anche gli stessi movimenti riformatori  (camaldolesi, verginiani, ecc.) che erano sorti con un indirizzo eremitico e di accentuato rigorismo, persero progressivamente il loro aspetto originario  per assumere quelli dei cenobi benedettini pur mantenendo un forte senso di appartenenza alla propria congregazione.
Nei monasteri benedettini la prassi religiosa era quindi in decadenza e la gente. già da tempo, continuò a manifestare sempre una maggiore preferenza per i frati provenienti dagli ordini mendicanti che erano animati da un grande fervore di predicazione e di insegnamento… un loro aspetto decisamente importante.. pregavano con la gente,,, in ogni luogo ed erano quindi a diretto contatto con la cruda realtà sociale dei tempi.
Le speranze di restaurazione dei monasteri secondo la regola di San Benedetto furono portate aventi con la formazione associazioni di più monasteri in congregazioni regionali.
Fu il papa cistercense Benedetto XII che con la bolla “Summi Magistri dignazio o Benedectina” del 1336  dispose come “tutti i monasteri benedettini venissero raggruppati in province, che venissero celebrati capitoli triennali e nominati visitatori”.
I risultati furono lontani dagli obiettivi prefissati di rilancio della regola… in pratica non si ottenne nulla e i monasteri continuarono ad essere abbandonati anche dagli stessi religiosi mentre quelli che continuavano a vivervi mostravano sempre meno la loro religiosità.
Continuarono comunque a sorgere in seno all’ordine benedettino delle nuove congregazioni monastiche che erano però legate non tanto ad un vero e proprio movimento riformatore ma a forti personalità religiose da cui infatti prendevano il nome.
I Silvestrini,  monastero di Monte Fano (Fabriano) fondato nel 1231 da Silvestro Guzzolini; i Celestini,  sorti intorno al 1259 a opera dell’eremita Pietro del Morrone (il futuro papa Celestino V);

gli Olivetani fondati da Bernardo Tolomei nel 1312 nel deserto di Accona, presso Siena.

Deserto di Accona – Creste Senesi

Alle porte dei centro di Arbia (frazione di Asciano – Siena) c’è una zona che
è chiamata “Deserto di Accona”.
Storicamente è l’unico deserto dell’Italia continentale e risale a circa
4 milioni d’anni (periodo Pliocene) quando costituiva il fondale del
Mar Tirreno. Nel periodo Pliocene si formò lo stato di argilla che oggi caratterizza
in prevalenza il terreno. La presenza di salgemma e di gesso fa assumere all’ambiente un
caratteristico aspetto “lunare”. Le attività umane, con il passare dei secoli, hanno in
parte modificato l’aspetto paesaggistico del sito con l’intensa attività irrigua che permette
la coltivazione di grano, girasoli e foraggio.
La zona era famosa con questa denominazione nel periodo medievale e fu raffigurata da
Ambrogio Lorenzetti in un affresco dove si nota “con mura di argilla, la città
del contado inizialmente fertile fino a lasciare spazio al deserto di Accona”.
Proprio nel Medioevo, ai margini meridionali del deserto di Accona, fu costruita
l’Abbazia di Monte Ulivero Maggiore che inizialmente era stata prevista
con funzioni eremitiche. I monaci olivetano intorno all’Abbazia piantarono
per decine di anni dei cipressi, perché era l’unico sistema per consolidare
il terreno, per evitare le frane, e per avere dell’ombra.
Una leggenda narra che in questa zona dimorò per un lungo periodo Ascanio, figlio di
Remo. Da qui si postò verso sud e fondò qual centro che oggi si chiama Ascanio.

Ambrogio Lorenzetti – XIII secolo









Le congregazioni, che avevano l’obiettivo di risolvere il problema di restaurazione della regola benedettina, erano presenti nel tessuto religioso ancora prima della fondazione dell’Abbazia di Santa Maria del Bosco che avvenne con riconoscimento papale solo nel 1400.
In molti monasteri era presente anche un problema morale legato al tipo di vita condotto dai monaci.
La situazione doveva essere grave se il Concilio di Trento (1545- 1563), convocato per reagire alla diffusione della riforma protestante in Europa, intervenne su alcuni problemi inerenti ai monasteri..

“ Il Concilio di Trento vuole, che la pietà regni né Monasteri; che i Voti sieno esattamente osservati, come pur le Regole; di modo che i Religiosi e le Religiose si portino d’una maniera conforme alla santità del loro stato. Non sarà permesso, dice il Concilio sul Voto della Povertà, ad alcun Regolare dell’uno, e dell’altro sesso di tenere, o possedere in proprietà alcun bene mobile, o stabile, di qualunque natura egli sia, e di qualunque modo sia stato acquistato: ma questi beni saranno subito messi nel potere del superiore, ed incorporati al Monastero. I superiori però permetteranno a’ Particolari l’uso de’ mobili, di modo che tutto risponda allo stato di povertà, ch’essi hanno professata, che non vi sia nulla di superfluo. Ma che nulla eziandio si neghi loro di necessario. Nondimeno il medesimo Concilio accorda la permissione di possedere in avvenire de’ beni in fondi a tutt’i Monasteri d’uomini, e di Donne, ma n’eccettua i Cappuccini, e quei che si chiamano  Minori della Osservanza”….



C’è da dire che il 3 dicembre 1563 nello stesso Concilio di Trento, due giorni prima della sua chiusura, fu approvato un decreto sui religiosi e sulle monache. All’interno del documento furono anche stabilite delle norme più precise sulla materia della clausura e degli spazi interni ed esterni dei conventi.
Già alla fine del XIII secolo la bolla “Periculoso”, promulgata nel 1298 dal papa Bonifacio VIII, ed entrata in vigore nel 1302, ribadiva le norme sull’osservanza della clausura e della loro reintroduzione dove fossero state abbandonate.
Ma a cavallo tra il XV ed il XVI secolo le norme sulla clausura non furono messe in pratica se non da pochi ordini religiosi femminili: le Francescane Clarisse, le Domenicane, le prime Carmelitane e le Certosine.
Tutte le altre monache che vivevano nelle grande abbazie e nei monasteri, s’erano sempre più allontanate dall’applicazione di quelle norme molto precise e rigorose mirate alla salvaguardia morale delle istituzioni religiose femminili.
Importante è un avvenimento che colpì Santa Teresa d’Avila, che fu riformatrice dell’Ordine Carmelitano, e che non viene quasi mai riportato nella narrazione della sua vita.
Quando fu nominata priora del Monastero dell’Incarnazione di Avila ( 6 ottobre 1571), le 130 monache che lo abitavano crearono dei disordini per impedirle di entrare. Il corteo che accompagnava Santa Teresa fu aggredito fisicamente all’ingresso del monastero. La stessa Santa non era stata eletta priora dal capitolo delle monache del monastero ma era stata scelta dai superiori dell’Ordine su sollecitazione delle Autorità Ecclesiastiche del luogo.
Un intervento delle autorità ecclesiastiche che aveva come obiettivo il ripristino dell’ordine “per le turbolente e rilassanti abitanti di quel monastero”.
Si narra della presenza di un corpo di guardia nel monastero, della cella di Santa Teresa  che era sorvegliata durante la notte per paura di azioni di rivalsa e del controllo dei suoi cibi perché si aveva paura che potesse essere avvelenata.
Teresa compì un gesto simbolico una volta insediatasi nel monastero. Pose sul suo seggio un quadro della Vergine Maria ed espose il suo programma con parole molto accorate che convinsero almeno una parte delle sue oppositrici. Un aspetto fondamentale fu legato all’insegnamento raggiunto non con gli ordini ma con l’esempio..
Non so se queste ultime notizie siano vere ma in ogni caso fanno risaltare lo stato di decadenza del monasteri in genere anche se non tutti vivevano  una crisi così profonda.



Avila – Monastero dell’Incarnazione


prima del Concilio di Trento c’erano monasteri e conventi femminili che erano dei bordelli. Il predicatore francescano Timoteo da Lucca durante un omelia dal pulpito della Basilica di San Marco di Venezia, il 25 dicembre 1497, inveì contro i peccati che si commettevano nei monasteri femminili di Venezia denunciando…”…quando viene qualche Signore in questa terra, voi gli mostrate i monasteri di monache, che però non sono monasteri, bensì postriboli e pubblici bordelli”.
“Tali erano i monasteri, (quelli che erano caduti perdendo la loro condotta cristiana), perché le nobili e ricche famiglie in modo del tutto particolare, per questioni spesso legate sia ai loro patrimoni, sia talvolta a questioni politiche, rinchiudevano ( o come dicevano gli esponenti delle loro famiglia: “monacavano) le loro figlie che, all’interno di quelle strutture religiose avevano però i loro alloggi separati, la loro servitù e la loro personale cucina. Ci sono state potenti e nobili famiglie che hanno costruito appositamente abbazie e monasteri per le loro figlie, dotandoli di patrimoni e di rendite. Le giovani monacate di queste famiglie, in questi monasteri erano elette quasi sempre e di rigore badesse perché in caso contrario la potente famiglia avrebbe revocato le rendite. Animate quindi tutt’altro che da fede, vocazione e virtù di vita, le giovani conducevano dentro quelle sacre mura delle esistenze mondane, non di rado come vere e proprio cortigiane, con tanto di feste interne e di uomini che entravano ed uscivano senza problemi; ed i monasteri  dove regnavano  in assoluto le più indicibili dissolutezze morali, erano quelli delle monache benedettine e delle monache cistercensi”.
Infatti nel 1514 il tribunale dell’Inquisizione di Venezia si occupò del caso delle “Pie  monache benedettine del Monastero di San Zaccaria” che non contente di avere trasformato il loro parlatorio in un salotto di accoglienza per giovanotti, cantanti e attori, un bel giorno organizzarono una festa in maschera che nel suo svolgimento si trasformò in un vero e proprio baccanale come “ le antiche città di Pompei ed Ercolano che nella storia romana erano due postriboli a cielo aperto”.
 (S. F. Wemple – S. Salvatore – S. Giulia: A case study in the endowment and patronage of a major female monastery in northern Italy, in Women of the medieval world. Edited by Julian Kirshner and Suzanne F. Wemple. New York: Blackwell, 1985).
Il Concilio di Trento intervenne forse tardivamente, solo nel dicembre 1563, per riportare i monasteri ed i conventi a luoghi di preghiera e di penitenza.
I provvedimenti furono tanti:
-          Si vietò la professione dei voti prima dei sedici anni e l’ingresso in monastero prima dei dodici anni;
-          Impose l’obbligo di almeno un anno di noviziato;
-          Il vescovo doveva accertare la reale volontà della giovane ad intraprendere la vita religiosa;
-          Ristabilì il principio della clausura e solo per rare eccezioni nessuna monaca poteva uscire dal monastero e nessun estraneo poteva entrarvi (in modo particolare gli uomini).
Nel 1566, con la bolla Circa pastoralis officii il Santo Pontefice Pio V comminò la scomunica a tutti i trasgressori, mentre le leggi ecclesiastiche avevano già chiarito e inserito tra i delitti quello del sacrilegio carnale. Sicché solo un sacerdote, preferibilmente anziano o scelto in ogni caso con accortezza dal vescovo, era ammesso all’interno della clausura e unicamente per amministrare i Sacramenti alle monache inferme o ammalate, ed era previsto dalle leggi canoniche che quattro monache anziane lo accogliessero all’ingresso della clausura, lo accompagnassero e poi lo conducessero di nuovo all’uscita. I rapporti delle giovani monache con la famiglia erano ridotti a brevi incontri nel parlatorio, il tutto con la rigida separazione creata da fitte grate, dalle quali si poteva udire la voce della monaca ma solo a malapena se ne poteva intravedere la figura. Le grandi famiglie nobili sollevarono molte proteste contro questo irrigidimento della vita conventuale, ma nessuna delle loro proteste impedì l’applicazione delle nuove norme.
Le nuove norme impedirono alle famiglie di risolvere i loro problemi patrimoniali e di successione ereditaria mandando le figlie nelle abbazie e nei monasteri, ed altresì a figlie senza alcun barlume di vocazione di mutare queste case religiose in autentici postriboli all’interno dei quali condurre vite da vere e proprie cortigiane. Un fenomeno, quello delle giovani costrette alla monacazione, che assunse risvolti a tratti non poco inquietanti, in modo particolare nelle città di Venezia, Napoli e Palermo.
Alcuni decenni dopo la chiusura del Concilio di Trento le autorità civili della Repubblica di Venezia misero in atto una legge contro i “monachini” cioè gli amanti delle monache che prevedeva sino alla pena di morte e ciò non solo per il sacrilegio carnale ma anche per la semplice violazione della clausura. Una legge che a quanto sembra non diede dei risultati positivi perché spesso sia le monache che i “monachini” appartenevano spesso a famiglie nobili.
L’aspetto religioso dell’Abbazia di Santa Maria del Bosco non sembra essere in decadenza. I monaci, come riporta Frate Olimpio, erano benvoluti dalla popolazione per la loro grande religiosità ed altruismo.  L’unico aspetto negativo era forse legato alle continue polemiche ed ai relativi stati di insofferenza mostrati dai monaci nei confronti dell’Abate per la sua carica vitalizia (sino alla morte)..
Fino al 25 giugno 1370 le cariche degli abati erano brevi, circa tre anni secondo una consuetudine degli ordini mendicanti.
Benedetto de Pligintino, quando fu eletto abate dell’Abbazia (nel 1369), si rivolse proprio a papa Urbano V per sanare l’irregolarità dell’elezione che prevedeva una carica breve. La tesi fu accettata dal papa  che diede disposizioni al Vescovo di Agrigento di rendere vitalizia la carica di abate.
Come diceva Padre Olimpio i monaci dell’Abbazia era insofferenti al lungo governo anche perché
e perche ognuno di loro era convinto di saper bene governare e quindi accio n’havesse a toccare ad ogn’uno la parte sua non volevano ch’il priore fosse fatto perpetuo”.


  H. L’Abbazia di Santa Maria del Bosco entra a fare parte della Congregazione di Monte Oliveto Maggiore
Nel XV secolo il monastero forse era in decadenza anche a causa di una probabile commenda, e l’abate fra Placido Castagneda decise di fare entrare l’Abbazia nella Congregazione di Monte Oliveto Maggiore (Chiusura, Frazione del comune di Asciano - Siena).





L’abate di Giuliana ma di origine spagnole, nel 1489 nel suo viaggio di ritorno dalla Spagna, si recò a Siena sul Monte Oliveto per chiedere all’abate generale degli Olivetani fra Giovanni da Baggio l’unione con l’Abbazia di Santa Maria del Bosco.

San Bernardo Tolomei regge il simbolo degli Olivetani


I monti si riferiscono a Monte Oliveto Maggiore – luogo di fondazione degli Olivetani – 
e poichè le montagne sono luoghi silenziosi e solitari, essi sono adatti alla preghiera,
ma essendo anche dure da scalare indicano gli sforzi che bisogna fare per
arrivare a Cristo; la Croce indicherebbe la meditazione sulla passione di Cristo;
mentre i ramoscelli di olivo (dal nome del monte di origine), un po’ inclinati
e carichi di frutti, indicano che il cristiano deve fruttificare nella chiesa
per il bene del prossimo, ma deve rimanere umile.
Inoltre l’ulivo, che di natura non tollera altre piante vicino a sé, simboleggia
la povertà e anche la castità, per via del suo legno che resiste alla corruzione”.

L’unione fu convalidata da papa Innocenzo VIII il 9 settembre 1491, grazie alla bolla “Cathedram”. Una bolla che fu esecutoriata a Polizzi il 5 ottobre 1491 dal Vicerè Fernando de Acugna. I monaci di Santa Maria del Bosco assunsero l’abito bianco.
Come priore fu mandato dall’abate Generale della Congregazione per attuare la riforma a Santa Maria del Bosco, fra Michele da Volterra accompagnato da nove monaci.
L’abate Castagneda, tra l’altro rettore anche dell’Ospedale di Palermo e delegato apostolico di papa Sisto IV, venne nominato abate perpetuo con il privilegio di poter indossare a vita, insieme ad altri due o tre frati l’abito nero dei benedettini. Fu descritto dal cronista del tempo Padre Olimpio con un uomo di “bellissimo ingegno e grave affabile et molto amicato tanto nella corte regia di Spagna quanto anche nella corte romana”.


A frate Castagneda si deve il restauro delle fabbriche trecentesche che furono ristrutturate grazie agli interventi dell’arch. Domenico Cannavali  (1493) e Antioco de Cara (1497).
Fino al 1572 l’abbazia fu governata quasi sempre da monaci non siciliani e le decisioni più importanti   si prendevano nei capitoli triennali di Monte Oliveto Maggiore. Veniva vietato all’abate generale di Monte Uliveto di recarsi in visita in Sicilia per “evitare che cadesse  in mano dei turchi e pesasse quindi sull’ordine un eventuale e grave onere di riscatto”.
La storia artistica del monastero iniziò proprio con l’insediamento degli olivetani. Il dominio del monastero diventò il punto di forza degli olivetani in Sicilia. Questo determinò forti contrasti tra clero e fisco per fare ancora una volta rispettare l’esenzione tributaria spettante ai beni ecclesiastici dipendenti direttamente da Roma. Altri contrasti, sempre di natura economica, tra clero siciliano  contro abati continentali e curia romana per evitare che le forti rendite del monastero finissero fuori dall’isola come spesso era accaduto in passato e come, ricorsi storici, accade oggi nella vita sociale e politica della Sicilia dimenticata…. Gli olivetani di Sicilia miravano ad una totale autonomia non volevano in pratica rispondere né al governo vicereale né alla curia romana.
Con le rendite dell’abbazia furono fondati a Palermo diversi monasteri: lo Spasimo, Santo Spirito, S. Giorgio in Kemonia, Santa Maria,  S. Leonardo a Chiusa Sclafani, della SS. Trinità a Giuliana. Numerose furono anche le chiese, cappelle e gli ospizi.
L’abate di Santa Maria del Bosco occupava il 45° seggio in Parlamento e partecipava quindi ai donativi. Nel XVII secolo l’abate ricusò d’intervenire ai parlamenti  e di contribuire ai donativi appellandosi all’autorità pontificia. Questo comportamento riuscì a prevalere ottenendo nel 1682 una sentenza favorevole all’immunità del monastero.

Il rancore da parte dei monaci siciliani di Santa Maria del Bosco verso gli abati italiani fu molto forte tanto che Tomasi Lanza scrisse che “ogni abate che Roma inviava od imponeva malgrado il decreto viceregio riportano, nella cronaca dell’olivetano del ‘600 Aiello da Corleone, accuse e lagnanze di dilapidazione”.
Nei secoli XVI e XVII l’abbazia di Santa Maria versò 40.144 onze alla camera apostolica e 16.353 scudi ai monasteri olivetani d’Italia per la sovvenzione alla curia per la guerra contro i turchi. Oltre al Castagneda almeno altri 2 abati si resero particolarmente benemeriti alla comunità del Bosco: P. Olimpio da Giuliana uomo dotto e pio, autore delle memorie antiche del monastero di S. Maria del Bosco (1582) e P. Protasio da Corleone di casa Piccoli il quale fu anche il primo siciliano a ricoprire la carica di abate generale degli olivetani (1605-8). Quest’ultimo fu anche il promotore della ricostruzione “ex fundamentis” del monastero del Bosco, a partire dal 1593, nel nuovo clima culturale religioso della Controriforma. Una ricostruzione del monastero con l’intervento dell’architetto milanese Antonio Muttone e del “lapidum incisor” siciliano Paolo Busacca da Ficarra.
L’epilogo e la fine degli Olivetani di Sicilia avvenne nel 1784 sotto il viceré Caracciolo, marchese di Villamarina. Con un dispaccio reale gli olivetani furono espulsi dal monastero in seguito all’ispezione ordinata dallo stesso vicerè. Dovette intervenire la forza pubblica per costringere gli olivetani a lasciare subito il monastero per essere trasferiti fra le sedi siciliane dei benedettini cassanesi.
Il monastero venne abbandonato e malgrado le disposizioni del sovrano, che avevano come obiettivo la salvaguardia della struttura, nel giro di circa 10 anni cominciò a deperire. Gli abitanti del centri vicini, che nel 1794 con la confisca del beni del monastero si erano viste private di un centro di commesse di lavoro molto importanti, ottennero da Ferdinando IV di Borbone che il monastero fosse affidato agli eremiti agostiniani.

San Nicola da Tolentino
Il primo frate agostiniano

Stemma degli Agostiniani
Il Cuore trafitto che poggia sul libro e una cintura.
La cintura ricorda la devozione alla Madonna e costituisce un  elemento
fondamentale dell’abito dei monaci agostiniani.
Il libro rappresenta il libro nono delle confessioni di Sant’Agostino in
cui lo stesso santo si esprime con queste parole:
“Hai ferito il mio cuore con il tuo amore”.
Parole che esprimo il grande amore che Agostino aveva verso Dio.
Un amore così grande da essere rappresentato in maniera simbolica
con un cuore fiammante trafitto da una freccia.

Il 4 febbraio 1808 il sovrano dispose che venissero riassegnati al monastero nuovamente tutti i feudi che gli appartenevano. Uno splendore ritrovato per l’antica Abbazia ma che durò poco perché nel 1866 con la legge di soppressione dei monasteri iniziò un nuovo e repentino oltre che definitivo declino dell’edificio. I comuni vicini con diverse petizioni chiesero, più volte, al real governo che il monumento fosse affidato ad alcuni degli stessi monaci che avrebbero avuto un particolare impegno a mantenerlo e soprattutto a presidiarlo.

Il complesso fu, in buona parte, venduto all’asta al Barone Ferrantelli (Domenico De Michele, Deputato: XXII – XXIII legislatura ?).
Diventò un importante centro aziendale agricolo con il vantaggio, decisamente importante, che almeno il monastero venne conservato nelle sue strutture murarie e nelle coperture.
La situazione della chiesa e dell’appartamento abbaziale invece finì con un irreparabile declino.
Una storia triste perchè agli atti vandalici, legati all’abbandono, si aggiunsero gli eventi sismici del 1968 che colpirono la Valle del Belice. Eventi che segnarono profondamente le antiche strutture della chiesa e quella parte del monastero che era rimasta di proprietà della Diocesi di Monreale e privi, ormai da tempo, di qualsiasi regolare manutenzione. A questi eventi si aggiunsero dei drammatici crolli che si verificarono nel 1970 – 72 e nel 1980 – 81.
Allo stato attuale una parte dell’Abbazia è di proprietà della Diocesi di Monreale mentre la parte rimanente è di proprietà del barone  Inglese, discendente del barone Ferrantelli.


2. STRUTTURA
Il grande complesso monastico fu iniziato nella seconda metà nel 1593 circa ed ultimato nel 1644 come risulta inciso nelle paraste dei cantonali.
Come abbiamo visto ospitò prima l’Ordine Benedettino e successivamente la Congregazione  Olivetana
Al progetto ed alla esecuzione del complesso contribuirono validi architetti del tempo come Antonio Muttone e l’intagliatore siciliano Paolo Busacca della Ficarra la cui firma è presente nei manufatti del primo chiostro.
Il grande complesso consiste in un grande edificio rettangolare, tagliato al centro da un’ala e diviso all’interno in due parti da altrettanti chiostri di carattere classicheggiante.
Il primo chiostro, a pianta quadra e pavimentato, in cui la dimensione che predomina è quella orizzontale. Presenta 36 snelle colonne con capitelli dorici intervallate da archetti e nicchie. Al centro è presente una fontana settecentesca su un basamento ottagonale.
Il secondo chiostro, a piata rettangolare e non pavimentato, in cui la dimensione prevalente è la verticalità cioè l’altezza del chiostro. È di epoca barocca e quindi successivo al primo,  

con semplici archi a tutto sesto su colonne lisce sollevate da alti plinti e con capitelli dorici. Al centro un elegante fontana risalente al 1713.

Chiostro rinascimentale





Chiostro Barocco




Magnifico il portale tardo cinquecentesco d'ingresso all'abbazia, che presenta un movimento dell'architrave che prende spunto dalla michelangiolesca Porta Pia a Roma dello stesso periodo.



L'abbazia consta di quattro elevazioni: due seminterrati occupati dai locali di servizio, un pianterreno con i due chiostri, il noviziato, il refettorio, lo scalone regio e altri locali di servizio e il primo piano con le celle dei frati.
Al grandissimo refettorio si accedeva dal secondo chiostro. La sala fu realizzata nel 1644 per volere dell'abate olivetano Leonardo Ragusa e si orna di un grande affresco, purtroppo in pessime condizioni, realizzato nel XVIII secolo e raffigurante la "moltiplicazione del pani".

Il Refettorio è un ampio salone di oltre 300 m², dominato da un affresco sul fondo che rappresenta la moltiplicazione dei pani e dei pesci (datato 1609) e da riquadri in finti marmi ai lati. L'ambiente è illuminato sul lato sud da un doppio ordine di finestre che permette al sole di riscaldare l'ambiente anche nei freddi mesi invernali. La luce è l'elemento dominante del fastoso salone. Una grande nicchia sul lato ovest permetteva ad uno dei commensali di leggere le sacre scritture durante i pasti mentre l'eco delle sue parole raggiungeva anche l'ultimo dei monaci vicino alla porta d'ingresso.




Alla parte superiore si accede tramite due preziose scalinate di steatite. Qui si sviluppano interminabili corridoi sui quali si affacciano le antiche celle dei frati (circa un centinaio), l'antica libreria, la foresteria, vari ripostigli e la cappella privata dell'abate, annessa al suo appartamento, nel quale soggiornarono ospiti illustri, fra gli altri il re di Sicilia Ferdinando I.

Il culmine dei camminamenti porticati dei chiostri è il cosiddetto Scalone Reale, molto teatrale nella sua composizione ma severo al tempo stesso. Presenta anche questo una spiccata spinta verticale, attenuata da due volumi balconati che fiancheggiano la scala vera e propria. Alla sua base una fontana settecentesca in marmo bianco e grigio permetteva ai monaci di lavarsi le mani prima del pasto, che si svolgeva nel limitrofo Refettorio, il cui portale classicista, in tre marmi, viene movimentato da un timpano spezzato.








Il piano dei chiostri era chiaramente un'area di rappresentanza che sul lato Ovest presenta una teoria di sale più o meno piccole, affrescate e stuccate, una piccola sala da pranzo (per le alte sfere del monastero e ospiti illustri) anch'essa riccamente ornata con stucchi e pitture murali. Sul lato sud del medesimo piano vi è la cucina e gli ambienti di servizio al Refettorio. Al piano superiore il dormitorio, con una cinquantina di celle, e la grande biblioteca affacciano su altissime gallerie a croce latina (la più lunga di 108 m) illuminate da finestre tonde, poste a circa 10 m di altezza, che permettono alla luce del sole nelle diverse ore diurne di scandire il tempo e di dare plasticità agli immensi spazi. I punti di fuga di questi straordinari corridoi sono dei grandi finestroni posti all'estremità. Portali, cornicioni, lesene e capitelli sono decorati con finti marmi di vario colore (dal più antico di colore verde scuro, al rosa del '700, al più severo bianco dell'800) e da un ocra dorato
che cattura la luce e ne definisce i contorni. Anche le porte del monastero rispondono ad una rigida regola barocca: di colore verde sono le porte che si aprono su spazi interni; di colore rosso quelle che si aprono all'esterno e su spazi porticati.






LA CHIESA

La chiesa, progettata dal Vanvitelli e realizzata tra il 1643 e il 1757, è serrata tra il monastero e il massiccio campanile dalla cuspide piramidale. A croce latina e con un'unica navata, essa fu costruita utilizzando una bella qualità di pietra grigia. La facciata è composta da conci squadrati con lesene e capitelli corinzi e al suo centro campeggia un rosone tamponato che simboleggia la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. La chiesa, dalla struttura imponente, purtroppo è stata molto danneggiata dal terremoto che sconvolse la Valle del Belice nel 1968 e da crolli successivi. Resta solo il ricordo delle feste religiose e dei pellegrinaggi che l'animavano, e le opere d'arte che la arricchivano sono state trasportate altrove. Tra esse ricordiamo il magnifico busto, capolavoro di Francesco Laurana, che ornava il sepolcro qui posto, della regina Eleonora d'Aragona, devotissima benefattrice del monastero, oggi alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo.  La soppressione degli ordini religiosi e l'esproprio di tutti i loro beni non risparmiò Santa Maria del Bosco che, smantellata e saccheggiata, venne venduta all'asta. Fu così che entrò a far parte del patrimonio del barone Ferrantelli, e venne trasformata in azienda agricola. Oggi appartiene a un nipote del primo proprietario, il barone Guglielmo Inglese.Il passaggio in mani private, comunque, ha sortito il positivo effetto di arrestare il degrado della fabbrica. Diversa la sorte della basilica che, rimasta a far parte dei beni del vescovado di Monreale, ed aspetta  un restauro in grado di riportarla all'originario splendore.

La Chiesa fu terminata nel 1757 in base alle testimonianze lasciate dall’architetto napoletano Luigi Vanvitelli che tra l’altro fu autore dell’Albergo dei Poveri di Palermo e del celebre Palazzo Reale di Caserta. In una sala del palazzo Reale è dipinto un affresco in cui è raffigurata l’Abbazia di Santa Maria del Bosco di Calatamauro.

Luigi Vanvitelli
Dipinto di Giacinto Diano (1765)
Olio su tela – Reggia di Caserta



La chiesa occupa un area di 2.206 mq ed è a unica navata con cappelle. Presenta una pianta a croce latina e con cupola mentre l’esterno della basilica rimase grezza ad eccezione della facciata principale e del campanile. Campanile che fu eretto  dal 1623 al maggio 1627 ed opera dell’abate don Vittorio da Napoli.
Quanto ai quadri che erano presenti nella chiesa bisogna ricordare:
Santa Rosalia di Vito d’Anna (1766);
la Sacra Famiglia del Postiglione (1856)
San Benedetto dell’Angeletti;
la Madonna della Consolazione del Lo Forte
la Madonna di Antonino Manno (1818)

Nella sacrestia era collocato un quadro del fiorentino Filippo Paladino che raffigura San Francesca Romana  del 1613.
Nella sala che mette il comunicazione il chiostro con la chiesa era collocato  un mausoleo sormontato dall’effige dell’infante Eleonora d’Aragona.  Un opera che fu attribuita a Francesco Laurana (XV secolo). Con la morte della principessa di Caltabellotta a Giuliana nel 1405, i monaci di Santa Maria del Bosco le eressero un monumento che è testimoniato da un epigrafe che la ricorda ai posteri per il suo grande amore verso il monastero. Il mezzo busto, per fortuna salvato dal trafugamento, è oggi uno dei reperti più importanti della Galleria Nazionale di Palazzo Abatellis a Palermo.

Eleonora d'Aragona 
di Francesco Laurana (XV secolo)


Una bellissima scultura marmorea, alta 50 cm, realizzata intorno al 1468.
Come già accennato il busto proviene dalla tomba di Eleonora d’Aragona, morta nel 1495,  posta nell’Abbazia di S.M. del Bosco. In realtà, in base alle ricerche effettuate, sembra che la principessa alla fine abbia deciso di farsi seppellire vicino alla madre Cesarea e cioè nella cappella del Castello di Caltanissetta.
Il suo ritratto è quindi postumo e nel Museo di Louvre è presente un “busto di principessa” molto simile.
Un finissimo ritratto femminile con un busto tagliato all’altezza del petto. Presenta un bellezza levigata cove la purezza delle forme e la sintesi della figura richiama a modelli di Piero della Francesca e di Antonello da Messina.
I capelli sono raccolti in velo e nascondono le orecchie dando alla testa un aspetto levigato, armonioso.
Eleonora D’Aragona (1346; 1405)  fu una delle donne più importanti del suo tempo. Contessa di Caltanissetta, Calatafimi, Contessa, sambuca, Giuliana, Adragna e Calatamauro, sposò nella chiesa del Castello “Pietrarossa” di Caltanissetta, Guglielmo Peralta, Conte di Caltabellotta e Vicario del Regno.

La contessa fu sempre un punto di riferimento insostituibile per il monastero, tanto che in occasione dell’elevazione ad abbazia, fra Benedetto chiese il suo intervento per placare il re (Martino “Il Giovane”) che aveva scritto ai monaci di non tenere in nessun conto il nuovo titolo dell’abate ma di accoglierlo al rientro da Roma neppure come priore ma come semplice monaco. Eleonora «maneggiò in modo questo negozio con la reggina Maria sua nipote figlia del suo consobrino carnale» da placare del tutto le ire del sovrano e spingerlo a ritrattare quanto scritto in precedenza e ad accettare le bolle pontificie. Non è un caso che all’infanta si debba il transunto della consacrazione della chiesa di Santa Maria del Bosco del 1309.
A testimonianza del rapporto della contessa con il monastero, Eleonora redigeva le sue ultime volontà, nel 1402, a Santa Maria del Bosco, alla presenza dell’abate, del priore e di altri cinque frati, e disponeva che Benedetto Maniaci fosse uno degli esecutori testamentari. Anche il successore di fra Benedetto, Angelo de Calido, era chiamato in causa ed era presente a Giuliana, nel 1406, per un altro atto delicato voluto dall’infanta, ormai prossima alla morte, “la donatio causa mortis a favore del nipote Raimondetto delle terre e castelli di Caltanissetta e Sambuca e del castello di Calatamauro”. Il legame con il monastero fu talmente stretto da giustificare le parole di Padre Olimpio da Giuliana che ritenne che l’infanta fosse sepolta nel monastero da lei tanto beneficato in vita e da avvalorare l’ipotesi che la donna magistralmente immortalata dal Laurana nel busto custodito, fino alla fine dell’Ottocento, a Santa Maria del Bosco fosse proprio Eleonora d’Aragona. In realtà, pur considerando l’affetto nei confronti del monastero e pur ammettendo l’ipotesi che le volontà testamentarie dell’infanta fossero state disattese, bisogna tenere presente che la contessa scelse come luogo di sepoltura la chiesa del castello di Caltanissetta dove riposava la madre Cesarea. Relativamente al busto, tra le molteplici identificazioni della donna ritratta dall’artista dalmata, quella di Eleonora d’Aragona sarebbe la più plausibile, dando credito all’ipotesi di Patera secondo il quale Carlo Luna, discendente della contessa, avrebbe commissionato al Laurana, per commemorare la memoria dell’antenata, un ritratto postumo. L’artista avrebbe realizzato i tre busti: della Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo, del Louvre e del Musée Jacquemart-André. Uno dei tre esemplari, il migliore, sarebbe rimasto a Sciacca (?), probabilmente nel castello, fino alla fine del Cinquecento quando l’abate Agostino da Sciacca lo avrebbe portato con sé nel monastero. Perché Francesco Laurana fece tre busti quasi identici ?
Il Laurana era nativo di La Vrana In Dalmazia e attivo in diversi centri come Napoli, Urbino, Avignone. Lo scultore giunse in Sicilia prima del 1468, ed esattamente a Sciacca, chiamato dal potente signore Carlo Luna. Il Luna aveva apprezzato l’arte del Laurana a Napoli presso la corte aragonese e gli commissionò il busto della sua importante antenata.
Da chiarire il luogo della sepoltura di Eleonora d’Aragona che secondo alcune citazione sarebbe stata sepolta nell’Abbazia di santa Maria del Bosco mentre secondo altre fonti, accanto alla madre, nella chiesa del castello di Caltanissetta.
La chiesa dovrebbe essere quella di Santa Maria degli Angeli.
Nell’Abbazia la tomba di Eleonora si trovava in un sala di passaggio tra i chiostro e la chiesa e il busto che la sormontava, fu trasferito alla fine dell’Ottocento al Museo Nazionale di Palermo.
L’opera probabilmente fu eseguita dal Laurana tra il 1484 ed il 1491 quando ritornò In Sicilia (nel 1471 era rientrato da un lungo viaggio a Napoli).

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3. L’Effige della Madonna con il Bambino (Odigitria)
A chi era dedicata l’Abbazia di Santa Maria del Bosco ?
 Il nome è in un certo senso emblematico perché è venerata la Madonna con l’appellativo di “Bosco” per la posizione dell’Abbazia vicino al rigoglioso ed intrigato Bosco di Monte Genuardo.
In realtà i documenti, le fonti e anche le tradizioni dei contessioti la citano come:  la Madonna della Favara, Odigitria di Calatamauro, Madonna del Muro, S. Maria della Fonte, Shen Meria e Kroit, Shenbria e Favares, Odhghtria ths phghs, S. Maria delle Grazie.
La “Madonna  Odigitria di Calatamauro” è un mosaico di “Vergine con Bambino” che oggi è conservato presso la Galleria Regionale della Sicilia (Palazzo Abatellis, Via Alloro, Palermo) risalente alla seconda metà del XIII secolo. Un mosaico che fu eseguito da maestranze bizantine “una testimonianza della pittura bizantina di ambito protopaleologico, con grado di maturazione stilistica e di padronanza dei processi tecnico-esecutivi del tutto eccezionali”.



Fu eseguito quindi da esperti mosaicisti greco-costantinopolitani di cultura simile agli artigiani che a Messina eseguirono i mosaici nella chiesa di S. Gregorio.

Messina - Chiesa di San Gregorio  - prima della distruzione del terremoto del 1908




Guercino,_Francesco Barbieri detto il Guercino da Cento
La Madonna del Carmine con San Giuseppe, Santa Teresa e
Gloria d’Angeli – Chiesa di San Gregorio

Madonna della Ciambretta
 Secolo XIII

Il mosaico si trovava nella Chiesa di San Gregorio, detta anche di “Santa Maria, fuori
le mura”. Un edificio officiato dalle monache benedettine.
Il mosaico raffigura la Madonna e Gesù Bambino in trono ed
un monaco offerente.
La denominazione “Madonna della Ciambretta” deriva dal termine francese
“chambrette” (cameretta) e in questo caso piccola nicchia in cui era posta
la sacra immagine.
Il terribile terremoto del 1908 causò il suo distacco dalla parte.
Fu danneggiata, recuperata e dopo un attento restauro fu
Collocata nelle sale del Museo di Messina.
La Madonna è seduta su un trono circolare con i piedi posti su una pedana e regge in grembo il Bambino Gesù. Bambino Gesù che è benedicente entro una nicchia decorata con
motivi stilizzati. Ai piedi un monaco, identificato con San Gregorio che riceve
dalla Madonna una pergamena con un scritta di non facile interpretazione.
Il mosaico risalirebbe al XIII secolo e il realismo nella figura del monaco, nel suo abito, 
il trono con il suo andamento curvilineo farebbero riferimento a maestranze
bizantine e locali che diedero vita alla bellissima opera secondo la tradizione
stilistica bizantina e con influssi nuovi, tipici della cultura
bizantina del XIII secolo.

Messina – Madonna della Ciambretta

Il mosaico di Calatamauro è costituito da un frammento musivo e fu creato con tessere di materiale differente: foglie d’oro, pasta vitrea opaca, pasta vitrea trasparente e lapideo.
 La Madonna raffigurata nell’icona-mosaico presenta gli aspetti della “Odigitria” cioè di “Colei che indica la Via” secondo la tradizione dipinta da San Luca. La mano destra della Madonna indica Gesù Bambino, seduto sulla sua mano sinistra, che con una mano benedice (“alla greca”) e con l’altra tiene il rotolo.
Gli storici sono tutti concordi nel datare l’opera, ultimi decenni del XIII secolo come espressione dell’arte di Costantinopoli, e anche sulla sua provenienza cioè dall’area messinese.
La storia dell’icona assume  aspetti veramente affascinanti nel cercare di descrivere come sia giunta nel bosco di Calatamauro.
Nel XIV secolo nel monastero di Santa Maria del Bosco, non ancora dichiarato Abbazia, erano presenti alcuni frati di origine messinese: “fra’ Marco da Messina nel 1310; fra’ Matteo e fra’ Nicolò (entrambi di Messina) nel 1318. Fra’ Nicolò diventò priore dell’Abbazia dal 1362 al 1366”.
L’icona mosaico era portatile, presenta delle dimensione di (82 x 509) cm, e fu portata nel territorio di Calatamauro proprio dai monaci messinesi che esposero l’immagine in una cappella del territorio circostante. Una cappella già aperta al culto. Una collocazione temporanea in attesa che fosse costruita una cappella adatta per esporre la Sacra Immagine nella Chiesa del Monastero.
Nel casale di Contessa nel 1308 era presenti due chiese: una dedicata a Santa Maria e l’altra a San Nicola. Entrambe le chiese erano affidate ad un frate di nome Benedetto.
La piccola chiesa era dedicata a San Nicola (“Shen Koli di te Muzqat) e si trovava nella contrada “Musiche” che era attraversata dal Torrente  Favara.
Probabilmente l’icona fu collocata in questa piccola chiesa in attesa  del suo trasferimento nella cappella di Santa Maria del Bosco che era ancora in costruzione. Una paurosa frana investì la zona dove sorgeva la piccola chiesa cancellando sia l’edificio sacro che le costruzioni circostanti (Kumbora di te Muzgat) . Fu una frana di grandi proporzioni a tal punto che ha lasciato nella memoria popolare tristi presagi.


Si tramanda che alla vigilia di eventi disastrosi (frane, terremoti, inondazioni) si sente il suono delle campane della chiesetta che fu travolta dalla frana. Non si sente il suono della campana ma si ha questa strana sensazione come segno premonitore di una sciagura.
Nel documento “Rationes Decimarum Italiae” (Studi e Testi n. 112, Città del Vaticano, 1944), nella parte riguardante la Sicilia (al n. 1487, p. 111), è riportato che nei secoli XIII e XIV, un sacerdote di nome Benedetto, per gli anni 1308 – 1310, per le due chiese del casale di Contessa (S. Maria e S. Nicola) pagò 14 tarì e questo prima della ricostruzione del casale da parte degli Albanesi.

Con l’arrivo degli Albanesi, che ricostruirono il casale di Contessa, fu trovava una “lastra di pietra” con l’immagine della Madonna” vicino alla fontana della Favara o comunque vicino al torrente della Favara. Una ritrovamento che dimostra come il luogo fu abbandonato dagli abitanti per il terribile evento franoso. Furono quindi gli albanesi che nella seconda metà del XV secolo si stabilirono nella zona iniziando una forte opera di ricostruzione.

La sorgente Favara esisteva già prima del ritrovamento della
immagine della Madonna. La fonte con relativo abbeveratoio fu
costruita quando gli albanesi cominciarono ad edificare le prime abitazioni sia
vicino alla chiesa che alla fontana determinando la nascita del nuovo quartiere
che fu denominato “Favara” o “Fontana”. Quartiere che fu citato nel
rilevo del 1623. Il quartiere “Madonna della Favara” fu invece citato per
la prima volta nel rilevo del 1714 quando sostituì l’antica denominazione
e dopo la costituzione della chiesa latina.

 Il parroco latino Atanasio Schirò (1841/1895; parroco, insegnante e storico) scrisse che “la chiesetta sia stata eretta nell’occasione di essersi rinvenuta sotterra una lastra di pietra ove era mirabilmente effigiata la Madre di Dio”.
La chiesetta è l’attuale Maria SS. delle Grazie (della Favara) di cui però non si conosce la data esatta di costruzione.

Fu costruita nel XVI secolo e nel XVII secolo fu citata nel decreto dell’1 giugno 1603 dal Vescovo di Girgenti,  Juan Orozco Covarrubias y Leiva, che approvò i capitoli della “Compagnia della Madonna della Grazia, nominata della Favara nella terra della Contessa”.
In origine la piccola cappella era posta fuori il centro abitato e fu infatti indicata come “fuori Terra” nel testo di una visita pastorale del vescovo di Agrigento. Una chiesetta rurale e la cui presenza indubbiamente favorì lo sviluppo topografico dell’abitato. Nei secoli successivi la chiesetta finirà con il ritrovarsi in un grande quartiere.



Il piccolo edificio era usato dai membri della Confraternita che all’inizio erano quasi esclusivamente “arbereshe” (albanesi). I “latini” erano infatti in numero decisamente inferiore rispetto agli albanesi come risulta dai rilevi del 1592 e del 1623. Solo nei secoli successivi i latini saranno nel territorio sempre più numerosi.
La chiesa nel 1698 diventò parrocchia latina e nei primi decessi del XVIII secolo si presentava in degrado. Una relazione del 1740 del visitatore della casa Colonna citò che “ la parrocchia latina è troppo indecente, quantochè dubitano che il Prelato ordinasse di chiuderla”.


Grazie alla volontà del Principe Colonna (Filippo II  o Marcantonio Colonna ?), all’impegno di don Michelangelo Musacchia, che dal 1750 era parroco dei latini, e all’apporto di tutti i contessioti, greci e latini, la Cappella della Madonna della Favara fu restaurata. I lavori iniziarono nel 1751 e furono completati nel 1771. Fu un ampio lavoro di restaurazione, ampliamento ed abbellimento.
In un manoscritto del 1771 è riportato anche il sorgere di una diatriba tra greci e latini:
“….I latini però terminato che fu il materiale di tutta la fabbrica vi posero una lapide, in cui si stava scritto qualmente quel tempio era stato eretto a spese dei latini e che perciò non più ai greci ad essi pell’avvenire spettava”…..
“Ognuno secondo le proprie forze, colle fatiche personali i poveri, all’ingrandimento della loro parrocchia, e comeché  le famiglie più comode sono appunto quelle degli albanesi in quella terra, vi accorsero quegli più d’ogni altro all’ampliamento di quel tempio, e molto più che era loro proprio”……
“Tosto si opposero i greci contro i latini nella corte vescovile di Girgenti: vinsero la causa, strapparono l’affissa ingiusta lapide piantata in un fondo alieno coll’exequatur della medesima Corte vescovile”.
La chiesa nel 1843 era nuovamente in rovina e la sera del 21 febbraio, a causa di un violento temporale, crollò gran parte della struttura. La parrocchia venne provvisoriamente trasferita nella chiesa delle Anime Sante.  Tra i contessioti iniziò una grande gara di solidarietà per la ricostruzione dell’edificio,  con offerte di denaro con contributi di lavoro volontario.
Trasportarono la sabbia dalle cave della Brigna e le pietre dalla cava Honi, mentre le donne trasportavano l'acqua dalle sorgenti più vicine (Favara e Canale).

Si narra che durante i lavori di ricostruzione della chiesa, la Statua della Madonna rimase esposta sulla grande roccia che si trova nel fondo della famiglia Liuzza Antonino, attigua al sentiero che porta verso la contrada Tarmaggio.
Da parte della gente una continua veglia di preghiera nei confronti della Madonna che era circondata da fiori e il cui volto era rivolto verso la contrada “Honi” affinchè “proteggesse quanti erano impegnati nel pericoloso lavoro di estrazione delle pietre necessarie per l’edificazione della chiesa”.
I lavori furono ultimati e nel tempo ci furono vari interventi anche di abbellimento.
La chiesa fu dotata di un organo a canne nel 1871; la cappella della Madonna fu ornata con marmi; l’abside e le varie cappelle furono arricchite con stucchi, ori, statue ed affreschi. Il pavimento fu rifatto in marmo.


Nel corso del tempo furono eseguiti altri lavori: ampliamento con la cappella nel lato sud e vari interventi di abbellimento.
Durante i lavori di restauro e consolidamento eseguiti nell’ultimo decennio del XIX secolo fu individuato, sotto il pavimento il pavimento della chiesa, un grande locale sotterraneo. Un locale a pianta rettangolare che si estendeva dai primi gradini dell’altare maggiore fino ai primi banchi dell’aula, davanti all’altare del Crocifisso.
Un locale che era usato come ossario del cimitero della chiesa e che in origine era la cappella che fu costruita per custodire l’immagine della Madonna trovata nelle vicinanze della sorgente Favara e che era chiamata “Madonna del Muro” (secondo lo scritto di don Atanasio Schirò).
Un aspetto importante è legato alle caratteristiche del locale che sono uguali alla vecchia cappella che fu ritrovata nella chiesa greca dopo i lavori di restauro e che oggi è visitabile.
Dopo la rimozione della lapide posta dai latini quando furono ultimati i lavori di restauro della chiesa nel 1751….”per torre (togliere), in futurum, ogni pietra di scadalo rissa, si divenne tra il clero greco e latino di fare nel 1754, per gli atti di notar don Salvatore Schirò, una solenne transazione”:
-          Primo, si convenne che tutte le antiche e principali giurisdizioni della Matrice chiesa greca, di cui è filiale l’accomodata parrocchia dei latini,  appuntino si osservassero intatte;
-          Secondo, che i latini ratificavano qualmente la chiesa della SS. Vergine della Favara era “de jure proprio” dei greci; e che i latini eglino permettevano il solo uso della chiesa a loro accomodata, finchè fabbricassero questi un proprio tempio;
-          Terzo, che in vivo momento ed esecuzione di questo accordo i greci ogni anno dovessero solennizzare, essi, la quindicina dell’Assunta sino al quindici di agosto in suddetta accomodata chiesa;
-          quarto, pel medesimo fine, nel condurre ogni anno la sacra Bolla della Crociata, il parroco greco uscendo dalla matrice in processione avesse ad entrare nella sudetta accomodata chiesa ed ivi celebrarvi messa cantata solenne e farvi la spiega d’essa Bolla; quinto finalmente, che la festa della nascita di Maria agli otto di settembre, ogni anno, la solennizzassero, con vespero, messa cantata e processione, i greci ed in caso che il parroco greco non avesse comodo di intervenire, allora dovesse egli destinare a qualsivoglia del clero greco per supplire le veci del parroco greco nelle sudette processioni; e se mai il parroco latino si volesse intervenire nella suddetta processione, col clero, sta in sua libertà”.

Questa transazione fu convalidata con Sovrana Risoluzione il 5 agosto 1845, comunicata con Real rescritto del dì 9 di detto mese ed anno tanto alle autorità ecclesiastiche che civili, con la quale il re Ferdinando II ordina che”dai due cleri di Contessa si eseguisse la transazione 6 settembre 1754, come quella, che dalla sua costante osservanza si erano avuti i più felici risultati."


La Transazione viene anche confermata con decreto dell’ arcivescovo di Monreale (10.11.1900): “veduta la istanza del parroco latino di Contessa Entellina e i documenti dal medesimo prodotti; vedute le repliche del parroco greco alla istanza suddetta; considerando che con sovrano rescritto del 9 agosto 1845 onde porsi termine alle questioni allora insorte tra i due cleri, latino e greco, fu disposto doversi eseguire la transazione del 1754, con la quale erano stati stabiliti i rispettivi diritti e prerogative circa la festività di Maria SS.ma delle Grazie, che si celebra il dì 8 settembre d'ogni anno nella chiesa medesima; che  di fronte a tale rescritto, fondato sulla osservanza delle transazioni anzidette, ultrasecolari, sia opera vana quella di rivangare il passato sull'origine del locale di Contessa e su tutt'altro addotto dal parroco latino, la sovrana determinazione mirò certamente a che non risuscitassero più oltre i dissidi tra le due  parrocchie, ed essa ha tutta l'importanza e tutto il valore per troncarsi ogni questione sul proposito; dichiariamo che si debba stare fermi alla osservanza del passato circa all'esercizio dei rispettivi diritti e prerogative dei due cleri salvo, secondo i casi, i provvedimenti da emanarsi dalla Suprema Autorità Vescovile per le modalità del detto esercizio. Datum Monte Regali die 10 novembris 1900".
Altri interventi dopo il disastroso terremoto del 1968.

La chiesa della Madonna della Favara è  cara a tutti gli abitanti del centro sia di rito greco che romano. Custodisce la statua della Madonna della Favara e la preziosa ed artistica “vara” che viene adoperata per la processione e inoltre in essa si svolge la festa principale di Contessa Entellina.



Il 10 settembre 1651 veniva redatto dal notaio Pietro Schirò di Contessa, un contratto  tra un comitato di Contessioti ((Simone Zamandà, Pietro Xammira, Luca Vitagliota, sac. Don Leonardo Rizzo, Simone Schirò, Marco Dulci, Mario Mustacchia, Domenico Lala, Francesco Lombardo, sac. Domenico Diamante, Gaspare Ferlito, e Bartolomeo Mustacchia)) e lo scultore Benedetto Marabitti di Chiusa Sclafani.
Allo scultore venne fu commissionata una statua “con le sembianze della Madonna del Muro, venerata da tempo nella cappella della Madonna della Favara”.
Il contratto rileva che la statua dovrà essere “alta sei palmi e mezzo, tutta dorata, legno di salice, da consegnare entro il 30 giugno 1652, costo 32 onze”
In un altro contratto dello stesso notaio, ma risalente al 20 marzo 1650, l’intagliatore Giuseppe Di Lorenzo, artigiano di Chiusa Scalafani, ricevette l’incarico dai Contessioti (Antonino Musacchia, Aloisio Vitagliotta, Giovanni Chetta, Pietro Chetta, Andrea Schirò, Biagio Xiamira e Giovanni Franco) di fornire “una grata di legno di noce, alta nove palmi da servire per proteggere l’immagine della Madonna della Favara (La Madonna del Muro)”.
L’immagine sarebbe l’icona-mosaico perché la statua verrà scolpita due anni dopo.
La Statua della Madonna della Favara ha una sua grande importanza artistica perché è una rarissima testimonianza di fusione della tradizione artistica sacra orientale (dettata dall’icona-mosaico) con quella occidentale (la statua). C’è infatti una perfetta rispondenza nell’espressione, dimensioni, posizione delle mani della Madonna con il Bambino.
Ritornando all’icona –mosaico c’è da chiedersi se fu mai esposta nella chiesa dell’Abbazia. Non si hanno in merito notizie certe anche se il suo culto era presente tra i monaci e la stessa Abbazia era dedicata alla Madonna. Altre fonti parlano della presenza, anche queste non sicure, dell’icona nella cappella del castello di Calatamauro.
La Madonna Odigitria  è patrona della Sicilia e il suo culto è diffuso da tempi remoti (sarebbe un lascito della dominazione bizantina).
A Contessa Entellina oltre all’icona mosaico e alla statua della Madonna della Favara (risalente al 1652) è presente anche un’altra immagine risalente al secolo XIX.
Si tratta dell’Odigitria di S. Luca, un icona su legno dipinta da papas Nino Cuccia ed esposta nella chiesa parrocchiale greca e, durante il canto della “Paraclisi” nella Chiesa della Madonna della Favara dal primo al 14 agosto.


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4.  L’importate ruolo del Barone Guglielmo Inglese nella salvaguardia dell’Abbazia
Un ruolo importante per la salvaguardia del Monastero di S. Maria del Bosco fu svolto dal barone cav. Guglilmo Inglese nel secolo scorso. Una figura importante nella vista sociale e culturale di Contessa Entellina che gli dedicò, il 28 agosto 1999, una mostra ed un concerto nei bellissimi chiostri del monastero.
Laureato in Agraria, partecipò alla seconda guerra mondiale come pilota dell’aeronautica Militare Italiana e trascorse gran parte della sua vita a Santa Maria del Bosco per seguire direttamente la gestione dell’azienda agricola  e la conservazione dell’importante complesso monumentale di sua proprietà.
Un impegno culturale che fu riconosciuto dall’Unesco con la seguente motivazione:
 “Gentile e tenace signore che, lottando contro leggi inique ed i fuorilegge, é riuscito a tutelare, pur tra mille difficoltà, un monumento della Sicilia occidentale tanto importante quanto sconosciuto ai più: l’Abbazia di S. Maria del Bosco.
Ha sostenuto e potenziato le azioni di restauro, contribuendo alla salvaguardia del nostro patrimonio artistico e alla difesa delle tante testimonianze storiche, che questo luogo rappresenta”.
Il suo intervento al convegno “Verso il Recupero”, che si tenne a Santa Maria del Bosco il 15 settembre 1986, evidenziò il suo grande amore verso il Monastero ed il disagio nel dover assistere impotente al degrado della chiesa e delle strutture di pertinenza della Diocesi di Monreale…“giorno dopo giorno e pietra dopo pietra, quella che era una splendida basilica é diventata un cumulo di macerie, profanate da sciacalli di ogni genere. La proprietà privata ha un grande vantaggio per la conservazione e la cura dei beni immobili: l’amore e l’interesse per le cose proprie”.

Cav. Guglielmo Inglese

Morì la notte del 30 novembre 1998 proprio a Santa Maria del Bosco… una morte avvolta dal dialogo con la sua amata struttura…”sentiti dei rumori e l’abbaiare insolito dei cani, esce dalla sua stanza, scende nel primo chiostro,   esce dal grande portone per controllare l'area che si estende davanti  alla chiesa ed al monastero. Rientrato nel chiostro, sale al primo piano, percorre il lungo corridoio ed esce dal portone del primo piano, sedendosi fuori  sull’antico sedile di pietra, dove viene  dai familiari trovato esanime con i cani sdraiati  a terra, che lo vegliano, come se volesse testimoniare il suo ruolo di custode fedele davanti al grande portone, per vigilare fino all’ultimo momento della sua vita su questo monumento della religione, dell’arte, della cultura, della solidarietà, che appartiene alla sua famiglia, ma che  nello stesso tempo appartiene anche al patrimonio culturale dell’umanità”.
Il cav. Inglese ha lasciato un importante testamento spirituale alla comunità così come tante altre figure che si sono adoperate nella vita, purtroppo breve, di scoprire, salvaguardare e valorizzare  i beni monumentali e naturalistici di questo nostro amato Regno di Sicilia così martoriato dalla storia e dalla politica… “sono stato fedele custode di un luogo di culto e di cultura, che con amore, sacrifici, risorse e grande  attenzione ho lasciato alle generazioni future, quale testimonianza plurisecolare della fede delle comunità di tutta la vallata”.
I convegni (negli anni 1985, 1986 e 1988), promossi anche dall’Associazione Culturale “Nicolò Chetta” di Contessa Entellina, risvegliarono l’interesse della gente e anche l’attenzione degli amministratori pubblici.
A distanza di alcuni anni dai convegni ci fu un intervento per consolidare le strutture non crollate ed un intervento recente, nel lato Est del primo chiostro, per porre fine al degrado ed all’abbandono.
Ma servono altri interventi di recupero e di salvaguardia per permettete che l’importante complesso possa essere ammirato dalle generazioni future.
Dopo i convegni  l’Abbazia fu oggetto di visite sempre più frequenti e negli spazi interni  (chiostri) furono organizzate occasionalmente manifestazioni culturali e ricevimenti di matrimoni.
Tra le manifestazioni culturali  che furono allestite nel monastero; degustazione di prodotti tipici, mostre fotografiche, mostra dell’artigianato ed anche spettacoli teatrali, concerti, spettacoli folcloristici e di danza moderna, ecc.
Manifestazioni che hanno richiamato un gran numero di visitatori anche perché spinti dal desiderio di ammirare e visitare la struttura.
Santa Maria del Bosco si presta quindi ad una fruizione culturale e turistica, sempre nel rispetto delle sue caratteristiche monumentali, e gli eredi del Barone Inglese si stanno adoperando verso questi importanti obiettivi

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5 . La situazione attuale della Chiesa
(Proprietà Diocesi  di Monreale)





L'Abbazia.... una volta........



Purtroppo la parte pubblica, affidata alla Diocesi di Monreale, è in rovina. Molti dei suoi tesori sono andati perduti, distrutti dai crolli e dai furti.
Le opere preziose che si sono salvate sono sparse tra Museo della Diocesi e Museo regionale di palazzo Abatellis e non , come dovrebbe essere, nella stessa Abbazia.
Oltre alla chiesa in rovina, c’è anche la rettoria che sarebbe il palazzo Abbaziale e adiacente alla stessa chiesa.
Era il palazzo dell’abate di Santa Maria del Bosco che si sviluppava su due livelli. Presentava dei  saloni abbelliti da stucchi, affreschi, camini e maioliche di gran pregio. Di tutto questo rimane nulla perché gli affreschi sono spariti, le volte sono crollate e non sono state ricostruite, ed anche la maioliche a parete, che raffiguravano le principali città d’Italia con le varie tonalità del blu e del bianco, furono distrutte in un tentativo di furto compiuto da individui con atteggiamenti mafiosi.
Dello stato attuale della chiesa è inutile parlarne,,, sono rimaste quasi intatti il campanile e le strutture murarie sul lato Nord.
La chiesa è un mucchio di macerie .. non esistono più il soffitto, le cappelle del lato Sud, il pavimento, il transetto, gli stucchi, i marmi, gli altari, le pitture……
Tutto questo, a prescindere dal terremoto del 1968, per l’incuria e per i mancati interventi di manutenzioni, anche piccoli o modesti, ma tempestivi, conseguenti al terremoto, che avrebbero potuto evitare il totale degrado  soprattutto del tetto.
Le infiltrazioni d’acqua provenienti proprio dal tetto si estesero progressivamente alle strutture provocando il crollo della chiesa nel 1972, tranne, come ho già accennato, per la facciata, il campanile , mura e cappelle del lato Nord.

È dal 2011 che le varie associazioni chiedono ad alta voce la salvaguardia dell’Abbazia “pubblica” cioè di pertinenza della Diocesi.
Ho l’impressione che le varie istituzioni abbiano dato una sentenza ben precisa in merito: La distruzione del Monumento.
L’’Abbazia fu fondata tra il XIII e il XIV secolo e l’incuria dell’Arcivescovado di Monreale
fece perdere la funzionalità della Chiesa.
Il problema è decisamente complesso da punto di vista giuridico perché sotto il profilo canonico la competenza giurisdizionale compete all’Eparchia di Piana degli Albanesi.
Il ruolo e quindi l’importanza della Diocesi di Monreale ha determinato, ad oltre cinquant’anni dalla fondazione dell’Eparchia bizantina di Piana degli Albanesi, che non sia ancora avvenuto, in via pratica, il passaggio giurisdizionale.
Nel periodo successivo all'Unità d'Italia lo stato ha confiscato il complesso architettonico e tutti i feudi che al monastero facevano capo. La chiesa e la foresteria furono affidati "in uso" alla diocesi di Monreale negli anni trenta del Novecento -allora unica realtà ecclesiale sul territorio-, che pur non avendone curato la buona conservazione (fino al punto che nel 1972 la Chiesa è crollata) si ostina nel non volerne cedere la giurisdizione all'Eparchia, in aperta violazione della Bolla papale che affida -appunto- il territorio di Contessa Entellina a questa.
Il resto del monastero (compresi i due chiostri) nella seconda metà dell'Ottocento fu venduto, assieme a vasti feudi, alla famiglia Inglese che ancora oggi ne conserva la proprietà e che con notevoli oneri ne garantisce la sopravvivenza”.



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6.       Le Opere d’arte dell’Abbazia….

“La Vergine col Bambino, di Calatamauro”
Come abbiamo visto era la preziosa icona-mosaico con l’immagine della Vergine con il Bambino, tipico esempio d’arte bizantina costantinopolitana del XIII secolo. Il rapporto di questa icona con l’Abbazia di Santa Maria del Bosco non è certo. L’opera fu infatti ritrovata nei magazzini del Museo con l’indicazione della sua provenienza “Territorio di Contessa Entellina”.
Il prezioso mosaico  potrebbe essere identificato con la “Madonna del Muro” che era posta sull’altare della Chiesa della Madonna della Favara e che secondo alcuni notizie fu trafugata intorno al 1800 per essere poi ritrovata e custodita nei magazzini del Museo Regionale “Abatellis” di Via Alloro a Palermo


BUSTO DI ELEONORA D’ARAGONA
Opera di Francesco Laurana ed una delle più importanti sculture del Museo.
Il busto, commissionato dopo la morte della principessa di Caltabellotta, fu posto sopra il suo sepolcro nel Monastero di Santa Maria del Bosco di cui fu una grande benefattrice.
In realtà non si è certi della sua sepoltura nel monastero. Secondo alcuni storici le sue ultime volontà furono quelle di essere sepolta vicino alla madre Cesarea a Caltanissetta.
Comunque Eleonora fu una delle figure femminili più importanti del periodo storico, morì nel 1405.
Era Infanta di Aragona, nipote di Federico III d’Aragona e di Eleonora d’Angiò e moglie di Guglielmo Peralta, Conte di Caltabellotta, Signore di Sciacca e Vicario del Regno di Sicilia. Morì nel castello di Giuliana
La scultura fu acquisita dal Museo grazie all’archeologo Antonio Salinas e si trova nell’ampia sala dove è esposto il dipinto il “Trionfo della Morte”.



Altri reperti, sempre provenienti dall’Abbazia, si trova invece nel Museo Diocesano di Monreale.

-          La “Madonna con Bambino”, una bellissima terracotta invetriata dell’ultimo trentennio del XV secolo, attribuita ad Andrea della Robbia. Era posta nell'Abbazia nell'ultima cappella a sinistra della navata.



Andrea della Robbia (Firenze, 20 ottobre 1435; Firenze, 4 agosto 1525)
Scultore e ceramista italiano, nipote di Luca della Robbia, fu come lui
specializzato nella tecnica della ceramica policroma invetriata, inventata dallo zio.
(Andrea della Robbia ritratto da Andrea del Sarto).

Due sculture in marmo in marmo bianco (78 x 48) cm, datate tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, che ritraggono due episodi della Via Crucis (doveva essere presente nella Chiesa dell’Abbazia l’intera Via Crucis):

Caduta di Cristo sotto la Croce

Flagellazione

 Le formelle sono di autore ignoto.

Un Paliotto con scene della Resurrezione di Cristo, del XVIII secolo. In stucco policromo trattato a finto marmo, (105 x 230) cm, ed attribuito a Gaspare Firriolo.
Nelle sale sono presenti dipinti e frammenti di altre opere sempre provenienti dall’Abbazia di Santa Maria del Bosco.



È andato perduto il pastorale che fu commissionato il 23 gennaio 1606 dai monaci dell’Abbazia di santa Maria del Bosco all’orefice e argentiere Pietro di Capua. Il baculo pastorale fu citato nell’inventario del 1642 relativo al monastero.
Doveva essere simile al baculo pastorale proveniente dal monastero delle suore benedettine di San Castrenze di Monreale. Il pastorale fu commissionato, come risulta dall’iscrizione, dalla badessa donna Nunzia Fulci ad un ignoto argentiere palermitano e marchiato dal console Francesco cappello in carica dal 21 luglio 1745 al 22 agosto 1746. Il manufatto è sormontato da un riccio ornato da foglie d’acanto terminate con la statuina di San Benedetto in atteggiamento estatico.

7. Video


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Appendice N. 1  - “La Questione Teoretica della Povertà”


Il problema teologico della povertà dopo le bolle di Nicolò III, del  14 agosto 1279, e quella di Martino IV del 18 gennaio 1283,  che accettavano la tesi degli Spirituali, si riaccese improvvisamente nel 1321.
Proprio nel 1321 a Marsiglia l’inquisitore domenicano Giovanni de Beaune (Belna) catturò a Marsiglia un beghino che sosteneva la “pratica dell’assoluta povertà da parte di Cristo e degli Apostoli, sia in privato che in comune”.
Si svolse il processo… il beghino era difeso dal Minorita Berengario Talon, lettore di teologia a Narbona, che scagionò l’imputato sulla base della “Exit qui seminat” di Nicolò III.

Lo stesso Talon fu minacciato di regolare processo se non avesse ritrattato e fu quindi costretto a rivolgersi al papa Giovanni XXII.
Il papa riunì una commissione ad Avignone composta da cardinali, prelati e teologi ed emanò la bolla “Quia nonnumquam” (del 26 marzo 1322) in virtù della quale sospese le interpretazioni della “Regola Francescana” contenute nella bolla di Niccolò III del 1279…..!!!
La decisione di Giovanni XXII  naturalmente non fu accettata dalla Comunità dell’Ordine convinta che la questione della povertà di Cristo e degli Apostoli fosse stata definitivamente definita da Niccolò III.
Fu una convinzione errata……
I  frati, giustamente indignati per le decisioni del papa, si ribellarono con forti agitazioni soprattutto a Perugia. Proprio a Perugia il 30 maggio 1322, nel giorno della Pentecoste, mentre era in corso lo svolgimento del capitolo Generale con la partecipazione dei cardinali francescani Vital du Four e Bertrande de la Tour, solidali con gli altri Capitolari, gli Spirituali pubblicarono  una supplica. Supplica indirizzata dal Generale Fuschi  al Pontefice, con la quale si chiedeva al papa di “non innovare nulla sulla povertà di Cristo e degli Apostoli rispetto a quanto affermato da Niccolò III nella Exit qui seminat”.
Il romagnolo Michele Fuschi (detto anche “Michele da Cesena”) era un dotto ed eccellente teologo  ma con un carattere bellicoso e spesso violento.
Senza attendere la risposta e la reazione del papa, il 4 giugno e l’11 luglio indirizzò due appelli “Universis Christifidelibus” nei quali si dichiarava solennemente come articolo di fede che “la questione della povertà di Cristo e degli Apostoli era da considerarsi risolta stante la dichiarazione di Niccolò III nella Exit, lodata dallo stesso Giovanni XXII nella “Quorundam exgit” del 7 ottobre 1317”.
I due appelli furono sottoscritti oltre che dai Capitolari anche da “41 Maestri e Baccellieri dimoranti a Parigi e in Inghilterra”.
Gli appelli, rivolti pure all’opinione pubblica in attesa del relativo responso della commissione incaricata dal papa di studiare la questione, colpirono la suscettibilità di papa Giovanni XXII che risentito emanò la bolla “Ad Conditorem  canonum” dell’8 dicembre 1322.
Nella bolla si dichiarava tra l’altro che “se è possibile distinguere l’uso della proprietà (o dominio) nelle cose che restano dopo l’uso (case, poderi, libri, ecc.) non è possibile asserire altrettanto circa le cose che si consumano con l’uso (vitto, bevande, vestito, ecc.) poiché in tal caso l’uso corrisponde alla proprietà….”.
Il papa mirava a colpire ciò di cui i Francescani si gloriavano, cioè la proprietà dei beni in loro uso posto sotto il dominio della Santa Sede. Questo determinò l’abolizione dei Sindaci Apostoli con la suddetta bolla di papa Giovanni XXII ritenendo “il loro incarico una pura finzione giuridica”
Il linguaggio della bolla era piuttosto inconsueto nei documenti papali e dimostrava come il papa fosse adirato. Si tentò una mediazione.

Il Procuratore Generale frate Bonagrazia da Bergamo, Converso e buon giurista, si precipitò ad Avignone e presentò un appello al papa in pubblico concistoro dimostrando che la bolla “Ad Conditorem” non aveva alcuna ragione e che “in essa l’Ordine veniva trattato ingiustamente e con estrema durezza”.

Bonagrazia da Bergamo

Giovanni XXII era cosciente di avere adoperato nella bolla un linguaggio violento  e alla fine fece arrestare il Bonagrazia che fu trattenuto in un duro carcere per un anno. Sulla base di vari testi biblici, con la Costituzione dogmatica “Cum inter nonnullos” del 13 novembre 1323 lo stesso papa definiva eretica la dichiarazione di Michele da Cesena e dei capitolari di Perugia “sulla povertà assoluta di Cristo e degli Apostoli”.
Sebbene umiliato l’Ordine degli Spirituali reagì con dignità. Accolse la decisione papale, compreso Michele Fuschi da Cesena, che il 25 maggio 1325, al capitolo di Lione, venne rieletto Ministro Generale.
In questo Capitolo, anche se ancora non era laureato, intervenne anche frate Geraldo Oddone. Le cronache riportarono un suo ardito intervento che mirava a togliere dalla Regola il precetto  di non ricevere denaro per due motivi: “tutelare la coscienza dei frati, che difficilmente lo osservavano, evitare gli scandali e le dispute sulla povertà che turbavano la pace tra i religiosi”.
Ci furono delle poteste tra i capitolari e la proposta di frate Geraldo fu respinta.
Giovanni XXII cominciò a dubitare della fedeltà del Generale Fuschi a causa del suo mancato intervento per richiamare all’ordine il provinciale di Calabria dove si trovavano alcuni frati ribelli.
La realtà era un’altra … il papa non sopportava il rapporto d’amicizia tra lo stesso Fuschi e Ludovico il Bavaro che era in forte contrasto con lo stesso papa. Un contrasto che si manifestò nella dichiarazione di Sachsenhausen  del 1324 nella quale risaltò l’ingerenza del bavarese sulla questione della povertà di Cristo e degli Apostoli che era difesa e quindi accettata dallo stesso bavarese.
Ludovico  accusò il papa di eresia, di essere apostata..”nemico di Cristo e degli Apostoli e decaduto dal soglio pontificio”.
Giovanni XXII l’8 giugno 1327 ingiunse al Generale Fuschi di recarsi ad Avignone “in virtù di santa obbedienza”.
Il frate per “motivi di salute” non partì e solo il 2 dicembre dello stesso anno raggiunse Avignone.
Ad Avignone il Fuschi trovò Guglielmo di Ockham , il giurista Bonagrazia, ancora in carcere su ordine del papa, e il teologo e lettore del convento avignose Francesco d’Ascoli. Questi personaggi furono testimoni il 13 aprile 1328 quando Michele da Cesena fece rogare da due notai un atto nel quale lamentava “d’essere stato trattato dal papa ingiustamente nell’udienza dell’8 aprile e sconfessava tutte le deliberazioni emesse dal pontefice contro l’Ordine francescano e contro la sua persona”.
(Guglielmo di Ockham era un teologo, filosofo e religioso francescano inglese. Ad Avignone conobbe Michele da Cesena con cui condivise l’idea che le comunità cristiane potessero avere in uso dei beni ma mai possederli, secondo la dottrina della povertà evangelica. Un idea, che come abbiamo visto, era contraria a quanto sostenuta dal papato, Guglielmo si schiero  con Ludovico il Bavaro nella diatriba tra Impero e Papato).

Giovanni XXII reagì all’atto di Michele da Cesena e con una lettera datata 23 aprile 1328 trattenne il Fuschi, che era generale dell’ordine Francescano, ad Avignone “pro certis negotiis”.
Quella del papa fu una mossa strategica perché a Bologna era stato indetto per l’imminente Pentecoste un Capitolo Generale e l’assenza del Fuschi, generale uscente, avrebbe impedito una sua possibile rielezione.
Il papa non raggiunse i suoi obiettivi perché al Capitolo generale, il 22 maggio 1328, fu rieletto proprio il Fuschi che, non aspettando il verdetto, fuggì da Avignone il 26 maggio con “i suoi tre complici, raggiungendo Ludovico il Bavaro, già a Pisa dall’11 ottobre 1327”.
Michele da Cesena si pose sotto la protezione del monarca bavarese e si collocò fuori dall’ordine Francescano ed inveendo contro Giovanni XXII continuerà a mantenere il sigillo di capo supremo dei francescani, illudendosi si essere il legittimo Ministro Generale.
L’ordine non lo riconoscerà come tale e Michele passerà alla storia come il capo di un gruppo di dissidenti o “Fraticelli” che dallo stesso Michele furono appellati “Michelisti”.
Con bolla papale del 6 giugno 1328 Michele da Cesena fu deposto dall’incarico di Ministro Generale. La lettera del 9 luglio che inviò a tutti i frati nella quale esponeva la sua versione dei fatti, non diede esiti positivi.
(Nella lettera fu trattata tutta la questione della povertà, naturalmente in chiave antipapale e decisamente a favore di Michele Fuschi da Cesena e dei suoi fratelli michelisti.)
Giovanni XXII con l’ennesima bolla del successivo 20 settembre, ordinava al cardinale Bertrando de la Tour, Vescovo di Ostia di “istruire il processo contro di lui e contro i vicari da lui istituiti”.
Il Fuschi fu scomunicato “solennemente” il 20 aprile 1329, Giovedì santo, durante la celebrazione liturgica “in coena Domini”.
Seguirà la lunghissima bolla papale “Quia vir reprobus”  del 16 dicembre 1329 che ribadì la condanna del Fuschi “quale eretico e fautore di eresie…e dal momento che questi continua ad osteggiare le precedenti  Costituzioni pontificie (“Ad conditorem canonum”, “Cum inter nonnullos”, “Quia quorumdam”), opponendo legge a legge, vangelo a vangelo, falso al vero, il papa risponde punto per punto alle sue impugnazioni, in modo che i semplici fedeli non siano tratti in inganno”.
La situazione cominciò ad ingarbugliarsi e a prendere degli aspetti drammatici.
Oltre alla ribellione di Michele e dei suoi seguaci al papa ed all’Ordine, si verificò un avvenimento drammatico che aveva le sue basi nel forte dissidio tra il monarca Ludovico il Bavaro e papa Giovanni XXII che, nel suo atteggiamento politico, aveva confermato nell’ufficio di Vicario Imperiale il re di Napoli Roberto D’Angiò.
Ludovico il Bavaro scese in Italia il 31 maggio 1327 e s’incoronò a Milano re dei Romani mentre a Roma il 17 gennaio 1328, “cingeva in Campidoglio la corona d’imperatore per mano del famigerato Sciarra Colonna”.
(Giacomo Colonna, detto “Sciarra” (rissa violenta) (1270 – 1329), sponente della famiglia Colonna, era fratello del cardinale Pietro Colonna. Il suo appellativo era legato al suo carattere litigioso.  Avrebbe schiaffeggiato in pubblico il papa Bonifacio VIII con uno dei suoi guanti di ferro).
Ludovico il bavaro era entrato a Pisa, conquistandola, l’11 ottobre 1327. Il papa  reagì subito colpendo la città con l’interdetto ecclesiastico che non “potè essere osservato dal clero, gravemente minacciato dai gendarmi del bavarese”.
Il monarca tedesco reagì opponendogli un antipapa, da lui scelto, tra i Francescani: frate Pietro Rainallucci (Rainalducci) da Corvaro (Rieti).

Penitenziere pontificio e noto oratore, il quale prese il nome di Niccolò V il 12 maggio 1328.
Un avvenimento gravissimo che avveniva a  circa un secolo di distanza dall’istituzione dell’Ordine di San Francesco d’Assisi il quale aveva  voluto che i suoi frati fossero “sempre sudditi e soggetti ai piedi della S. Chiesa Romana”.
Il Rainallucci… “entrò in Pisa a modo di Papa co’ suoi sette cardinali fatti per lui, il quale per lo detto Bavero, et sua gente, e da Pisani fu ricevuto con gran festa, et honore andandogli incontro il Chiericato, et Religiosi di Pisa, et Laici col detto Bavero con grande processione a pie e a Cavallo”.
L’antipapa pose il suo campo d’azione a Pisa, dove depose l’Arcivescovo Simone Saltarelli, sostituendolo con Giovanni Lanfranchi. Forte dell’appoggio del monarca tedesco, 
l’antipapa sembrò deciso a contrapporsi in maniera energica al papa legittimo, creando perfino una sua gerarchia. C’erano i presupposti per l’attuazione di uno scisma che poteva ampliarsi.
In Sardegna l’antipapa trovò molti seguaci tra i nemici degli Aragonesi ed anche in Sicilia  personalità religiose e secolari influenti erano disposti ad appoggiarlo.
Il merito fu di Eleonora d’Angiò, moglie di Federico III d’Aragona, se nel Regno di Sicilia lo scisma fu stroncato nel nascere.
L’impresa di Eleonora…”una grande donna e regina”.. poteva sembrare disperata … impossibile.
 Una figlia di Eleonora e di Federico, Isabella, aveva sposato nel 1328 Stefano di Baviera, secondogenito di Ludovico il Bavaro. Un matrimonio legato alle speranze che Federico III riversava su Ludovico per essere aiutato nel superamento di difficoltà specie di ordine economico. Nonostante il matrimonio, gli obiettivi di Federico III, la scomunica ricevuta dallo stesso Federico da papa Giovanni XXII fin dal 1320, Eleonora riuscì con tanta umiltà e dolcezza ad impedire che il marito aderisse all’antipapa eletto proprio da Ludovico. La stessa regina si giustificò dicendo che il suo Federico era “collegato” al Bavarese “nelle cose temporali, non nelle spirituali”.
Le fortune di Ludovico il Bavarese in Italia non furono delle migliori. Il re di Napoli, Roberto d’Angiò, che era stato minacciato dal papa di deposizione per il “non intervento immediato” con le sue truppe costrinse Ludovico a lasciare Roma e a tornare in  Germania.
Perduto il sostegno del monarca tedesco, l’antipapa decise di tornare alla Chiesa cattolica.
Con bolla dell’1 marzo 1330, Giovanni XXII comunicava ai vescovi di Pisa, Firenze e Lucca, il processo contro Pietro da Corvara (l’antipapa) comandando loro “d’avvertire quelli, presso i quali frate Pietro si trovava, di custodirlo in luogo sicuro e di consegnarglielo entro otto giorni”.
Probabilmente gli ordini del papa non furono eseguiti con la debita celerità.
Infatti Giovanni XXII, con la bolla del 13 luglio ammoniva nuovamente il conte Bonifacio Donoratico a consegnare il Corvara ai vescovi di Pisa e Lucca.
Il 13 luglio 1330 il papa comunicava di aver ricevuto una lettera da Pietro Corvara nella quale esprimeva d’aver “abiurato i suoi errori”…
Il papa di risposta lo esortava a…”perseverare e ad abiurare gli stessi errori oralmente davanti all’Arcivescovo di Pisa”…..(un comportamento del papa assurdo… sembra di essere tornati indietro nella storia al tempo delle persecuzioni dei Romani contro i cristiani… all’editto di Decio……!!!!!).
Fortunosamente la vicenda dell’antipapa si concluse e con la bolla del 2 settembre 1330, Giovanni XXII comunicava all’Arcivescovo di Pisa che “Pietrop da Corvara, venuto spontaneamente ad Avignone, durante il viaggio aveva abiurato i suoi errori, a Nizza e in vari luoghi importanti della Provenza, come anche ad Avignone in pubblico concistorio alla presenza dei cardinali e di molti fedeli”.
Il papa accolse con clemenza il Corvara ad Avignone. Lo ospitò nel suo palazzo papale e in un luogo distinto dove però “frate Pietro era trattato come familiare, custodito come nemico”.
Morì il 16 ottobre 1333.

Dopo la deposizione di Michele Fuschi da Cesena (6 giugno 1328), papa Giovanni XXII affidò il vicariato dell’Ordine al cardinale Bertrando de la Tour.
Nell’ordine dopo la rivolta del Fuschi e dei suoi seguaci si sentiva la necessità di cambiare pagina  e di avere un Ministro generale più equilibrato e soprattutto gradito a Giovanni XXII, c’era la ricerca di un po’ di pace e tranquillità dopo le liti e le continue discussioni sulla povertà di Cristo e degli Apostoli.
Il Vicario dell’Ordine Cardinale Bertrando, in occasione del Capitolo generale, previsto per la  Pentecoste del 1329, destituì alcuni Ministri provinciali ed officiali capitolari e lo sostituì con altri.
Un intervento che naturalmente fu approvato dal papa.
Il 26 novembre 1328 Michele Fuschi da Cesena continuava a dichiararsi legittimo Ministro Generale e indirizzata da Pisa una lettera “univerisi fratribus” ribandendo che in base alla Regola Francescana, indire un nuovo Capitolo generale spetta al Ministro in carica e quindi allo stesso Fuschi e non a Giovanni XXII che in modo dispregiativo chiamava “Giovanni il Cahorsino… spoglio d’ogni autorità, perché scomunicato ed eretico, non avendo riconosciuto quanto definito dai papi Niccolo III (bolla “Exit…”) e Clemente V (bolla “Exivi…”)”.
Michele da Cesena fece diversi appelli , forse con l’obiettivo di crearsi nuovi proseliti, che rimasero inascoltati.
Il 25 maggio 1329 a pochi giorni dall’inizio del Capitolo, Giovanni XXII inviò l’ennesima bolla ai Vocali del Capitolo che si sarebbero riuniti a Parigi per eleggere il nuovo Ministro Generale. Il papa ricordava ai convenuti  “ i gravi pericoli corsi dall’Ordine a causa del perverso Ministro Generale precedente (Michele Fuschi da Cesena), ed esortandoli a non dimenticare che è nell’integrità dei capi la salvezza dei sudditi”.
Parole giuste… ma Giovanni XXII era un “capo integro” ?
Le attese di papa Giovanni XXII non furono deluse. Riuniti a Parigi sotto la presidenza del cardinale Bertrando de la Tour, la vigilia di Pentecoste 1329 (10 giugno), secondo la consuetudine, i Vocali elessero il nuovo Ministro Generale dell’Ordine “nella persona di Geraldo Oddone, Maestro parigino, conterraneo e “intimo famigliare” del papa, soggetto di ampie vedute e non lontano dalle idee del papa in tema di povertà francescana”.
Secondo alcuni storici al capitolo di Parigi non parteciparono ma maggior parte dei Provinciali. Su 34 Provinciali ben 20 erano assenti.
Gli “Atti del Capitolo parigino”, appena sette punti, furono scoperti  dal noto studioso dei Frati Minori padre Livario Oliger che li pubblicò nella “Miscellanea Francescana” del 1945:
1° punto: sono presenti due paragrafi in cui si raccomanda il rispetto verso il papa Giovanni XXII e il divieto ai frati dell’accesso alla Curia Romana. Vengono  “cassate” (annullate, tolte con un tratto di penna) le Costituzioni di Lione, edite dal Fuschi nel 1325, probabilmente per riguardo al papa dato che, specialmente nel capitolo III, s’insisteva molto sulle dichiarazioni di Niccolò III e di Clemente V sulla povertà. Dichiarazioni che furono interpretate male, specialmente quella di Niccolò III che furono causa di aperta ribellione del Fuschi e dei suoi seguaci contro Giovanni XXII.
4° punto: si ordina che, nel presente Capitolo Generale, come anche nei capitoli provinciali, si rendano note le pene nelle quali sono incorsi i frati ribelli alla Sede Apostolica e al “Signor Papa Giovanni”, cioè Michele da Cesena e seguaci: si tratta delle pene inflitte dagli Statuti dell’Ordine agli apostati ed ai fautori di scissione, e della scomunica loro irrogata, sia nei processi papali, sia dal card. Bertrando de la Tour, Vescovo di Frascati, Vicario Generale dell’Ordine”;
5° punto: riguarda ancora i frati ribelli, giacchè si prescrive che “nei Capitoli, Provinciali, i Ministri o i loro Vicari devono intimare per lettera a questi ribelli di presentarsi entro tre mesi a ricevere giustizia con misericordia, avvertendoli tuttavia che, in caso di mancata comparizione, si procederà contro di loro in modo più rigoroso, a norma di giustizia”;
6° punto; “il Ministro Generale Geraldo Oddone, con l’autorità del suo ufficio e del Capitolo Generale, dichiara che frate Pietro da Corvara, che si fa chiamare Niccolò V e frate Michele da Cesena ed i suoi complici sono incorsi nelle pene di scomunica, privazione ed inabilitazione ad ogni ufficio, pene contenute, oltre che negli statuti dell’Ordine, nelle lettere e nei processi costruiti dall’allora Vicario Generale Card. Bertrando, Vescovo di Frascati”.
Nel corso del capitolo parigino, a parte gli “Atti”, da conservare nell’archivio dell’Ordine, il nuovo Ministro Generale, d’accordo con i Capitolari, scrisse una lettera, riportata dal domenicano polacco Abramo Bzovio, che reca la seguente intestazione:
“Universis praesentium notitiam habituris,
Frater Gerardus Ordinis Fratrum Minorum Generalis Minister & c.”:

un  modo di divulgare il più possibile la presa di posizione dell’Ordine francescano contro Michele da Cesena e i suoi Fraticelli, non escluso l’antipapa non ancora rinsavito, i quali, avevano fatto causa comune con lo scomunicato Ludovico il Bavaro, ribellandosi a Giovanni XXII.
In pratica la lettera, il cui testo era “Evangelica veritas” ribadiva, con più ampi particolari, il contenuto degli “Atti” del capitolo Generale, quindi anche l’ingiunzione ai ribelli “di presentarsi al Padre Generale o ai Provinciali entro tre mesi a ricevere giustizia con misericordia”.
L’elezione di Geraldo Oddone, anche se pilotata, portò un po’ di tranquillità e in questo clima il capitolo colse l’occasione per chiarire ai frati il valore della famosa bolla di Niccolò III “Exiit qui seminat” sulla questione della povertà di Cristo e degli Apostoli che aveva causato tanti problemi.
L’intero corpo capitolare di Perugia nel 1322, nel quale non mancavano qualificati teologi dell’ordine, aveva attribuito un valore dogmatico alla Decretale di Niccolò III e i Vocali difesero come “dogma di fede” il documento.
Erano convinti di seguire più da vicino Cristo e gli Apostoli professando la povertà assoluta e gli stessi teologi non avevano avuti dubbi nel giudicare errata la decisione di Giovanni XXII di sospendere successivamente le sanzioni del Decretale di Niccolò III.
Tra i teologi che si schierarono contro le decisioni del papa Giovanni XXII c’erano i cardinali   du Four e Bertrand de la Tour. Il primo sembra che sia caduto “in disgrazia di Giovanni XXII” mentre il de la Tour, pur avendo difeso la tesi francescana presso la Curia papale anche durante il dibattito, dopo il Decretale del papa si ravvide completamente modificando le sue opinioni.
Nella bolla di Niccolò III non c’era alcun indizio che poteva fare pensare ad una definizione dogmatica. Niccolò III affermò solo che la “rinunzia alla proprietà per Dio è meritoria e santa, giacchè lo stesso Cristo l’ha praticata ed insegnata come via di perfezione, e sul suo esempio,  l’hanno messo in pratica i primi fondatori della Chiesa militante, cioè gli Apostoli”.
Lo stesso Niccolò aggiunse un particolare non trascurabile…”l’insegnamento di Gesù sulla povertà assoluta, non contrasta con quei testi sacri, dai quali appare che Cristo tenne denaro,  poiché il Figlio di Dio, le cui opere sono perfette, assumendo le infermità della natura umana, ne condivise anche le debolezze, come appare, ad esempio, nella fuga (cioè quando si nascose perché i Giudei volevano lapidarlo)”, e “nel possedere qualcosa”.
In pratica Niccolò III riconosceva che Cristo e gli Apostoli possedevano qualcosa.
Nella bolla di Niccolò III, come in ogni documento papale, c’era la consueta proibizione di contravvenire a quanto espresso dal papa autore del documento.
L’errore di papa Giovanni XXII fu quella di sospendere la proibizione espressa da Niccolò III nella clausola conclusiva della sua bolla.
Il Capitolo di Parigi pose fine alla controversia sulla povertà di Cristo e degli Apostoli e in seno all’Ordine, grazie anche alla nomina come Ministro Generale di Geraldo Oddone, s’instaurò un clima più sereno.
Sarà necessario aspettare oltre due secoli prima che la problematica sulla povertà venga risolta definitivamente da una delle Famiglie francescane, quella Conventuale, dinanzi a circostanze nuove e suggerimenti nuovi della Chiesa, desiderosa di maggiore uniformità tra gli Ordini religiosi, nel Concilio di Trento, il 3 dicembre 1563”.

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Il 15 maggio 1423, cioè due anni dopo l’elezione, l’abate si rivolgeva a Martino V ottenendo una bolla in cui veniva specificato che nel provvedimento emanato nel 1404 da Bonifacio IX in sui si revocavano tutte le grazie e gli indulti concessi ai monasteri ..” non erano incluse le grazie ed esenzioni accordate al monastero di Santa Maria del Bosco e al suo abate”.
Il pontefice, dunque, ribadiva l’indipendenza del monastero dalla giurisdizione del presule agrigentino ponendolo sotto la protezione del Papa e lo “esentava dal pagamento della quarta canonica dovuta al vescovo; concedeva, infine, che l’abate eletto dalla maggioranza del capitolo o con il pieno consenso potesse farsi benedire da qualsiasi vescovo senza altra conferma e senza andare a Roma”.
L’Abbazia godeva del diritto d’asilo e gli abati avevano anche la facoltà di assolvere da quei peccati per i quali era di solito richiesta l’autorizzazione della Santa Sede. Un privilegio assai raro e ambito, soprattutto in tempo di scomuniche papali.

Malgrado il provvedimento del pontefice fosse esecutoriato, l’abate ebbe dei problemi con il Regio Collettore della Camera Apostolica nel Regno di Sicilia che pretendeva le entrate di un intero anno del monastero a causa del tempo intercorso tra la morte dell’abate Angelo e la nomina del successore.
Fra Giovanni si difese con le sue ragioni e ottenne che il Collettore tornasse nelle sue posizioni dichiarando di aver indebitamente richiesto il pagamento.
Il vescovo di Agrigento, Lorenzo di Mesassal, prima che venisse reso pubblico il breve pontificio, volle rimarcare la sua giurisdizione sul monastero e nel luglio 1424 lo visitò. Non fu una semplice visita perchè  diede delle disposizioni riguardanti la vita quotidiana e l’amministrazione ordinaria. Disposizioni che avevano come obiettivo  la conferma della dipendenza del monastero alla Diocesi di Agrigento.
Il vescovo ricordò all’abate che doveva rendergli conto della sua amministrazione almeno una volta all’anno e gli vietò “di fare domande ai monaci che lui avesse esaminato costringendoli a riferire cosa gli avessero detto”.
Il progetto del vescovo fallì miseramente perchè dopo alcuni giorni giunse il breve apostolico della “confirma degli privilegi et esentione del monasterio fu spedito et esecutoriato e d’alhora in qua mai più li vescovi di Gigento si sono impediti a perturbare o molestare la libberta del monasterio del Bosco, né a mantenerci più superiorita alcuna. Hanno ben sempre favoriti li monaci et il monasterio come amici, ma non già come padroni e superiori secondo si costumava anticamente”.
Dai documenti presenti nell’Archivio di Stato di Sciacca la situazione nell’Abbazia non migliorò in tema di rapporti giuridici con la Diocesi di Agrigento.
Nel 1434 l’abate si trovò a dover cercare di risolvere una lunga controversia con il Vescovo per questioni legate alle decime.
Il 13 dicembre Paolo de Skifato, canonico agrigentino e vicario generale del vescovo di Agrigento, protestò, alla presenza dell’abate, dinanzi al notaio Liotta di Sciacca, asserendo che vi fossero delle decime dovute al re dal vescovado, di cui al monastero competevano 20 onze «tam exempti tam non exempti».
L’abate ribatté di non essere tenuto a nessun pagamento e ricordò che lo stesso vicario a nome del vescovo aveva già fatto ricorso al Sacro Regio Consiglio e all’arcivescovo di Palermo affinché il vescovo di Agrigento fosse ascoltato nelle sue opposizioni in merito all’esenzione del monastero. L’arcivescovo aveva assegnato a Giovanni de Falco di Sciacca il compito di scegliere dei giudici che, udite le parti, ponessero fine alla controversia, ma l’abate si era opposto alla scelta di giudici. Il vicario pretese che l’abate si sottoponesse al giudizio sotto pena, in caso contrario, di un’ammenda pecuniaria e della privazione dell’ufficio e del beneficio.
 Due giorni dopo, il 15 dicembre, l’abate rispose al vicario che il monastero aveva ottenuto dal Papa l’esenzione «prestacionis solucionis et contribucionis decimarum et caritativorum subsidiorum exactionum et omnium quorumlibet quacumque occasione concessorum et concedendorum aut impositorum et imponendorum» dal momento che il pontefice aveva voluto che «dictum monasterium abbatem et monacos et bona eorum fore et esse immunes liberos et exemptos». Il re aveva confermato «sua benignitate solita» l’esenzione, motivo per cui l’abate non era tenuto ad alcun pagamento, tanto più che, analizzate le bolle apostoliche dal Sacro Regio Consiglio, era stato dichiarato che le bolle erano autentiche. Il vescovo, dunque, a detta dell’abate, non avrebbe dovuto più molestare il monastero e avrebbe dovuto revocare la richiesta della colletta, considerando anche il fatto che erano trascorsi gli otto giorni di tempo in cui lo stesso presule o il regio collettore Nicola de Carusio avrebbero potuto fare i loro reclami.  “Il vicario e il vescovo, dunque, si facessero una ragione dello stato di fatto e accettassero l’esenzione del monastero”.
Ma il vicario non era affatto disposto a cedere sull’argomento e l’indomani, per tutelare i diritti del vescovo e degli aventi diritto in futuro, protestò contro il commissario, il notaio Nicoloso de Fussatello, sostenendo che, dovendo il vescovo di Agrigento pagare 180 onze in due rate a re Alfonso ed essendo le decime dovute «tam per non exemptos quam per exemptos solis mendicantibus exclusis», trovandosi il monastero di Santa Maria del Bosco nella diocesi di Agrigento, in considerazione del suo reddito, fosse tenuto al pagamento di 23 onze e 10 tarì. L’abate, ovviamente, continuava a portare avanti la consueta obiezione dell’esenzione del monastero pur riconoscendo l’appartenenza alla diocesi di Agrigento e aggiungeva che, ferma restando l’esenzione, la spiegazione della richiesta andasse ricercata in un precedente risalente ai tempi del vice delegato alla riscossione delle decime Simone Salvatore quando il monastero aveva pagato la porzione imposta. Si spiegava, dunque, il perché l’arcivescovo palermitano “subexecutor et sublegatus apostolicus” avesse ritenuto che le decime dovessero essere pagate secondo quanto era stato fatto ai tempi di Simone Salvatore. Così, il notaio Nicoloso Fossatello aveva riscosso la prima metà della cifra dovuta dal vescovado di Agrigento. Riconosciuta, adesso, l’esenzione, dalla seconda soluzione richiesta per il mese di agosto si sarebbe dovuta scomputare la porzione spettante al monastero di Santa Maria del Bosco già anticipata dal vescovo nella prima soluzione, in modo che: «illud quod solvit, solvit cum ipsa reservacione et protestacione». Sembrava che l’abile abate avesse avuto la meglio nelle dispute con il vescovado; del resto egli aveva dalla sua parte le maggiori autorità del tempo che avevano espressamente e incondizionatamente manifestato il proprio sostegno al monastero. Re Alfonso, il 17 giugno 1433, aveva concesso al monastero la completa esenzione fiscale da qualsiasi colletta o sussidio imposto dalla Corona e il nuovo pontefice, Eugenio IV, aveva risposto all’appello dell’abate che non si era voluto accontentare dell’esenzione regia e il primo aprile 1434, ritenendo che il monastero subisse un grave danno dal momento che venivano imposte ed estorte decime e sussidi a causa dei quali l’abate e i monaci «gravia frequenter subierunt hac tenus detrimenta» e considerando che ad “prestationem solutionem et contributionem decimarum caritativorum subsidiorum et exactionum ac onerum huismodi quorumlibet quacumque occasione concessorum et concedendorum aut impositorum et imponendorum minime teneantur nec ad id a quoquam compelli possint”, aveva liberato il monastero dal pagamento di qualsiasi contributo al sovrano, di decime, caritativi e sussidi prescritti loro abusivamente. Nella lettera apostolica si legge che in quell’anno i monaci regolari erano ventiquattro. Pochi giorni dopo il pontefice accordava ai monaci la facoltà di costituire come giudice conservatore l’arcivescovo di Palermo o l’abate di San Martino delle Scale, ribadiva la sua benevolenza nei confronti del monastero e scriveva agli arcivescovi di Palermo e Monreale e all’abate del monastero di San Martino delle Scale disponendo che non permettessero che i monaci venissero molestati indebitamente sui loro beni e diritti subendo «gravamina seu damna vel iniurias». Chi fosse l’artefice di questi danni al monastero appare chiaramente dal documento papale nel momento in cui si legge che alcuni arcivescovi, vescovi, prelati e ancora duchi, marchesi e conti, nobili e militi avevano occupato luoghi e terre del monastero, usurpato diritti e detenuto indebitamente beni mobili e immobili, spirituali e temporali, spettanti all’abate e ai monaci. La protezione che Eugenio IV accordava ai monaci era, dunque, totale, abbracciando tutti i poteri ecclesiastici e laici che in qualche modo potessero avere a che fare con il monastero. Il documento è chiaramente rivelatore del perdurare delle tensioni con il vescovo di Agrigento, tensioni che avrebbero portato ad un altro momento critico nel 1460.
Racconta Padre Olimpio che in quell’anno il «puoco savio» vescovo Domenico Xarth (dell’Ordine Cistercense), approfittando dell’assenza dell’abate, si era recato in visita al monastero. Non essendo riuscito il priore fra Domenico Pescatore ad opporre resistenza, pur avendo ricordato al presule l’esistenza dei privilegi d’esenzione dalla giurisdizione del vescovo, era intervenuto Benedetto Bonanno, frate «dotto di legge» che, dopo aver sottolineato che «le visite non si sogliono fare così di gatto in sacco», aveva enumerato le esenzioni e immunità del monastero e invitato il presule a visionare i privilegi in presenza dell’abate. Essendosi animata la discussione, sembrava quasi che si stesse per «venire dalle parole agli bastoni», il vescovo pensò bene di andar via non senza essersi fatto riferire dal priore tutti i nomi dei frati presenti. Ritornato l’abate, dopo aver tirato le orecchie con «una buona cappellata» all’ingenuo priore, si fece fare una procura dal capitolo del monastero per accusare di usurpata giurisdizione il vescovo e avere giustizia. Padre Olimpio conclude la narrazione dell’episodio dicendo di non sapere come abbia proceduto in seguito l’abate, ma di essere certo di una cosa: «da quel tempo in qua mai altro vescovo hebbe simile ardire». Nei ripetuti momenti critici affrontati dagli abati a causa delle ingerenze dei vescovi agrigentini, risolutore fu sempre l’intervento dei pontefici che manifestarono il loro sostegno al monastero. Il favore accordato all’abbazia continuò, infatti, anche con il successore sul soglio pontificio di Eugenio IV, Niccolò V, che, nel 1452, confermava tutte le immunità e i privilegi concessi non solo dai suoi predecessori ma anche libertates et exemptiones secularium exactionum a regibus et principibus ac aliis Christi fidelibus rationabiliter [...] indultas specialiter autem agros terras, prata, vineas, pascua, silvas, nemora, hortos, molendina, domos, possessiones, iura, iurisdictiones, aliaque mobilia et immobilia bona ad dictum monasterium spectantia
in modo che i monaci ne potessero godere pacificamente per autorità apostolica. Dopo di lui anche papa Sisto IV, nel 1472, avrebbe dato la sua conferma.

 Nel 1461 l’abate Placido Bencivinni riuscì a rientrare in possesso della zona meridionale “denominata masseria Fontana Cavata” acquistandola da Paolo d’Andrea con licenza di Antonio Cardona. Il conte, che aveva sposato Margherita Peralta, figlia di Nicola, rimasta vedova di Artale Luna, nel 1463, avrebbe ricomprato, per 20 onze, dallo stesso abate parte del territorio concesso da Eleonora. Nel processo di ampliamento territoriale e di accrescimento economico che caratterizza Santa Maria del Bosco nel XIV e XV secolo,  un ruolo notevole rivestirono i privati le cui donazioni accrebbero la proprietà fondiaria e le rendite del monastero. Non meno rilevante fu, al contempo, l’abilità di alcuni priori che seppero portare a compimento lucrosi affari.  Il corleonese Giovanni di Vaccarelle, nel 1362, nelle sue ultime volontà, aveva lasciato eredi i figli di prime e seconde nozze ma si era ricordato anche dei monaci di Calatamauro ai quali sarebbe andato un appezzamento di terra confinante con il fiume del Batticane. Il testatore aveva anche inserito il monastero tra i sostituti in caso di morte dei figli e la sorte, estremamente fortunata per il monastero, meno per i piccoli eredi, volle che Guglielmo e Filippo, figli della prima moglie, morissero in tenera età e senza eredi legittimi, così come Michele e Rosana, figli della seconda moglie. A ereditare feudi, case e beni fu allora il monastero la cui proprietà si estese verso il territorio di Corleone e Bisacquino. Nello stesso anno il saccense Andrea Vassallo, vice magistrato di Sciacca, alla presenza del priore di Santa Maria, Nicolò da Messina, che si era recato a far visita all’infermo, redasse il suo testamento istituendo il monastero erede universale. L’eredità era ingente grazie all’abilità di Andrea che in vita aveva concluso affari vantaggiosi. Si era prodigato a rilevare quote ereditarie dei fratelli ed era riuscito a recuperare i suoi beni anche dopo essersi indebitato con l’università di Sciacca per l’affitto di alcune gabelle. Tra gli altri beni erano compresi case a Sciacca, molti capi di bestiame in ovini, caprini e bovini, e «il territorio nel distretto di Sciacca che fin hoggi si chiama il Vassallo per memoria di quello che lo lasciò». I toponimi, ancora oggi, sono indicativi dei nomi degli antichi possessori; così, accanto al Vassallo, si trovano il Cappuccio, il Conte Ranieri93, Errico Abate, Giacomazzo; Giancavallo, Liotta, Pomo di Vegna, Rogirello. La loro ubicazione negli attuali comuni di Corleone, Bisacquino, Contessa Entellina, Campofiorito e Roccamena dà la misura indicativa dell’estensione della proprietà del monastero.
Altri toponimi sono una chiara espressione della variegata produzione della natura, dagli alberi di carrubbe nella contrada Carrubelle nel comune di Contessa Entellina, ai corbezzoli nella contrada Armolini vicino Bisacquino, al miele del feudo Apparia. Altri ancora, infine, designano le caratteristiche fisiche del terreno: Cresta di Gallo, Fiumara, Frattina, Marusella, o Molara. Molti furono i lasciti al monastero durante il priorato del corleonese Giovanni di Puglia, confermato dal vescovo agrigentino nel gennaio del 1379 e numerosi i beni acquisiti, anche attraverso compravendite e permute, tra case, tenimenti di terre e vigne, non solo in territorio corleonese. Sotto il governo di questo priore, il quarto di Santa Maria, il monastero divenne sempre più ricco, «percioche facendo li monaci buona vita et accarezzando li poveretti con le continue elemosine; e li ricchi con li buoni esempii, e con l’hospitalita nel passaggio; di giorno in giorno andavano acquistando e reputazione e robba». A titolo esemplificativo si ricordino la donazione di un tenimento di terre, due case terranee, una vigna in territorio di Corleone operata nel 1381 da Advenante di Russignano e le operazioni portate a termine dal procuratore di Santa Maria e dal priore per unificare e compattare feudi frammentati o perduti nel corso degli anni. Nel 1381 il procuratore del monastero comprava, infatti, da Bertola di Rocca e dalla madre Contessa per 5 onze un tenimento di terre nella contrada degli Armolini confinante con l’eredità di Giovanni Vaccarelle. Due anni dopo il priore acquistava da Antonio Calandrino «la mità d’un territorio o’ fego detto Barraù» per 44 onze. Nel 1384 lo stesso fra Giovanni comprava da Giorgio Calandrino abitante di Caltabellotta «la mità del fego o territorio del conte Raineri l’altra mità alhora era indivisa fra il monasterio e Petruccio Calandrino»; nel 1385 il procuratore del monastero permutava con lo stesso Petruccio una vigna «con la mita d’un palmento e della terra lapidea pertinente a detta vigna nella contrada di Rasellis in Corileone» con la quarta parte «del territorio del conte Raineri insieme con la quarta parte del istesso castello del conte Raineri contingente a detto Petruccio indivisa e congiunta con l’altre tre parti del monasterio», riuscendo così a riunire l’intero feudo dal momento che l’altro quarto era già in mano al monastero per l’eredità di Giovanni Vaccarelle. Ancora più industrioso fu l’ultimo priore del monastero, fra Benedetto Maniaci, «huomo ingegnoso desideroso di cose grandi, splendido, magnifico, di buonissima fama e di mirabbile espettatione», l’artefice dell’elevazione di Santa Maria ad abbazia. La tempra del futuro abate si rivela già in occasione della controversia sorta per l’eredità del protonotaro apostolico, Alfonso Palmeri, che morendo aveva istituito suo erede universale il monastero. Per entrare in possesso di quanto preteso fra Benedetto dovette scontrarsi con la madre del testatore, con il fratello Benedetto, che agiva in suo nome e per il figlio, e con Tommaso Crispo, giudice della Gran Corte, luogotenente del maestro giustiziere, in nome della moglie Filippa, sorella di Alfonso. Le ragioni addotte in opposizione al priore si basavano sul testamento di Fulco, padre di Alfonso il quale avrebbe disposto che il figlio ereditasse i suoi beni ma che, in caso di morte senza eredi legittimi, dovessero subentrare Benedetto e Filippa. Il priore non si arrese facilmente e ottenne che due giudici della Regia Gran Corte esaminassero la questione. Nonostante fossero chiare le condizioni del testamento di Fulco, fra Benedetto ricevette una quota d’eredità corrispondente a 45 onze. Ma quando sembrava che la questione si fosse risolta con accordo fra le parti e compiacimento del priore, comparve un altro pretendente, Giovanni d’Aragona, che voleva essere soddisfatto per un legato del testamento di Alfonso. Poiché i parenti pretendevano che fosse il monastero a cedere le 45 onze a Giovanni, il priore, ancora una volta con estrema saggezza, rendendosi conto «ch’il litiggare non metteva conto: e che sarebbe stato meglio per il monasterio accor do magro che sententia grassa», nel 1393, si accordò con il marito di Filippa, Tommaso Crispo, vendendogli per 40 onze la sua quota d’eredità e ricevendo da Tommaso al posto della somma pattuita due terreni in territorio di Licata. A ulteriore riprova dell’abilità di fra Benedetto e ad esemplificazione dell’accorta politica adottata da alcuni priori e abati di Santa Maria del Bosco, che permutavano o vendevano i feudi più lontani per comprarne di più vicini o per acquistare immobili che avrebbero potuto garantire considerevoli entrate annuali, si ricordano alcuni “affari” portati a compimento dal primo abate del monastero, uomo «molto sollecito e curioso nel augmento et acquisto delle facultà et honere del monasterio». Fra Benedetto, nel 1389, permutò «tre pezzi di terra lasciate da diversi al monasterio delle qual terre due pezzi erano confinanti col fiume Batticane […] e l’altro pezzo alla Giammaria», con il notaio Oberto Calandrino in cambio di un tenimento di terra nella contrada Scorciavacche, che già confinava con altre terre del monastero in territorio di Corleone. Nel 1398 acquisì quello di Cresta di Gallo; nel 1402 comprò dal vescovo di Mazara una grande casa a Palermo per 38 onze e 17 tarì di cui scomputava 1 onza e 26 tarì come rimborso delle riparazioni portate a termine dai monaci che l’anno precedente avevano affittato la casa e pagò buona parte della rimanente somma in animali. La casa garantì un’entrata annuale fissa al monastero per lungo tempo. L’anno successivo, attraverso una permuta con le monache del monastero del Salvatore di Corleone, veniva acquisito un altro appezzamento di terra confinante con i terreni del monastero tra Corleone e Giuliana. L’abate andava così ad accrescere il già vasto territorio che prendeva il nome di Giancavallo con una preziosa cava a lungo utilizzata dal monastero. Le pertinenze del monastero vennero arricchite ancora da altre donazioni di privati: nel 1391 è la volta di Teodaro de Salomone, abitante di Giuliana, che istituì suo erede universale il monastero; nel 1401 un altro giulianese Comino di Ruggirello donò vigne e terre scapole in territorio di Giuliana che, ancora oggi, è denominato Ruggirello. In quello stesso anno il monastero di San Martino delle Scale rinunziò in favore di Santa Maria del Bosco a quanto aveva ereditato dal ricco mercante catalano Antonio Pardo che abitava a Sciacca. Molti altri ancora furono i lasciti pervenuti al monastero numerosi dei quali in virtù di testamenti che portarono Santa Maria del Bosco ad accrescere il suo patrimonio principalmente in territorio di Calatamauro, Caltabellotta, Corleone, Giuliana, Chiusa Sclafani, Bisacquino, Bivona, Licata, Sciacca e Palermo. E se innumerevoli furono i lasciti pro anima altrettanto consistenti furono le questioni affrontate per venire in possesso dei legati testamentari o per rivendicare diritti acquisiti, cause in cui il monastero uscì per lo più vittorioso. Dalla sua parte ebbe sempre i conti di Caltabellotta, il cui sostegno si manifestò anche attraverso l’intercessione operata presso la Corona a favore dei monaci. Nel 1393 Guglielmo Peralta, vicario del Regno, ottenne dai consanguinei regnanti, Martino e Maria, la conferma della concessione di Federico IV delle dodici botticelle di tonnina dalle tonnare di Palermo.


Se nella questione delle decime dovute dal vescovado al sovrano, almeno sulla carta, l’abate sembrava avere avuto la meglio, i motivi di contesa non mancarono dettati da altre ragioni; un’altra controversia era sorta sul pagamento della decima sui lasciti al monastero. Bonifacio IX aveva concesso a Santa Maria del Bosco l’esenzione dal pagamento della quarta canonica o della decima sui legati che fossero stati assegnati al monastero. Nel 1404 lo stesso papa aveva annullato il provvedimento che, però, continuava a destare controversie, come testimonia quanto accaduto alla morte dell’arciprete di Giuliana, Antonio de Guigla. Questi aveva redatto un testamento in cui nominava erede universale il monastero che eleggeva come luogo di sepoltura. Alla sua morte il vescovo di Agrigento pretese dal monastero la quarta canonica sull’eredità; il monastero fece ricorso all’esenzione e per tutta risposta il vescovo, a risarcimento della mancata riscossione della quarta canonica, si era impossessato di alcuni beni mobili e immobili a Giuliana, Castronovo e Caltabellotta lasciati al monastero dall’arciprete, fondando le sue ragioni sulle bolle con cui il papa revocava le immunità concesse. Il monastero, allora, si era appellato alla Santa Sede per richiedere la protezione e la tutela dei propri beni, ma, nello stesso tempo, l’abate Angelo de Calido «voluens sine lite et questione facere totum illud quod debet de iure» aveva pensato di dare un contentino al vescovo assegnandogli la quarta parrocchiale che spettava alla chiesa parrocchiale di Giuliana, pur rimanendo fermo nella decisione di non pagare la quarta episcopale della quale non era tenuto a rispondere data l’esenzione del monastero. Pertanto, il 20 agosto 1413, il priore Giovanni de Porto e il procuratore frate Matteo de Gulfa, a nome dell’abate, assegnavano la quarta parrocchiale al vescovo «cum protestacione quod nullum preiudicium generaretur eidem monasterio quo ad quartam episcopalem a qua sunt abbas et conventus totaliter exempti». La delicata questione del pagamento delle decime e della quarta canonica aveva visto scendere in campo anche la Corona a difesa del monastero. Il 5 luglio 1399, il sovrano interveniva contro le richieste del vescovo di Agrigento invitando il presule a non molestare ulteriormente il monastero e a rivolgersi, nel caso in cui ritenesse diversamente, all’arcivescovo di Palermo, come metropolitano e giudice competente. Come se non fosse bastato il continuo braccio di ferro con il vescovo di Agrigento, l’abate si trovò a difendere gli interessi del monastero anche dai poteri laici operanti nel territorio e se nel primo caso fu sostenuto dal Papa nel secondo poté contare sul favorevole intervento della Corona. Il motivo del contendere fu la tassa imposta dal vicesecreto di Corleone sulle donazioni “inter vivos”.  Il 2 maggio 1399, re Martino  (Il Giovane) ascoltava diversi testimoni «super immunitate, exempcione et libertate devotorum dicti monasterii eidem monasterio donancium bona eorum donacionis nomine inter vivos»; i testi dichiaravano che coloro che avevano fatto donazione “inter vivos” dei propri beni al monastero «erant, fuerunt et sunt franhi, exempti, liberi et immunes que iura cabellarum predictarum dicti devoti donatores non tenebantur nec tenentur solvere cabellotis cabellarum predictarum nec alicui alteri».  Il 21 del mese successivo scriveva al vicesecreto di Corleone, che costringeva coloro che donavano beni al monastero «contra consuetudinem et immunitatem ipsius monasterii» al pagamento della tassa «iuris colte et cabellarum», ordinandogli di porre fine alle vessazioni. Il 27 gennaio dell’anno seguente Martino il Vecchio, Martino il Giovane e la regina Maria, constatando che tutti coloro che avessero fatto donazione irrevocabile dei propri beni al monastero «è sempre stata usanza e consuetudine che siano libberi et essenti d’ogni pagamento di colta debbita alla nostra corte» disponevano che anche per il futuro si osservasse l’esenzione e nel caso in cui non fosse stata osservata in passato, che fosse restituito il mal tolto dal maestro secreto o dal vicesecreto di Corleone e tutto ciò in considerazione del proposito di favorire e accrescere «le raggioni e negotii» del monastero.
Nel luglio 1408 re Martino interveniva nuovamente su richiesta del monastero il quale temeva che Nicolò Peralta, nipote di Guglielmo Peralta ed Eleonora d’Aragona, signore di Chiusa, Burgio e Calatamauro, dopo aver ridotto i confini del bosco continuasse «a dar fastiddio» e confermava l’esenzione concessa da Guglielmo Peralta, il 4 aprile 1377, dal pagamento del censo dovuto al signore su alcune vigne nel territorio di Giuliana fino alla somma di 26 tarì. La lettura dei numerosi documenti relativi alle contese con il vescovado agrigentino rivela come tratto comune fosse il favore accordato al monastero dalla Sede apostolica e dalla Corona e ciò fu evidente in diversi momenti della sua storia.


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