LA LOTTA CONTADINA IN SICILIA - SECONDA PARTE

Viaggio lungole stragi di Satato e della mafia
La Lotta Contadina in Sicilia - seconda parte



17 Dicembre 1944 :  Pedara (Catania)
Nella mattinata vennero lanciate 5 bombe a mano in due piazze del paese, per protesta contro il richiamo alle armi dei giovani. A Vizzini, nel pomeriggio, i carabinieri aprirono il fuoco contro i dimostranti intenti ad incendiare la sede del Municipio. Furono uccisi due dimostranti.
4 Gennaio 1945 : Ragusa

A Ragusa, l’esercito sparò sulla folla che tentava di bloccare un camion che trasportava giovani verso il fronte, ferendo gravemente un ragazzo e uccidendo il sacrestano della chiesa di San Giovanni, con una bomba a mano che gli staccò la testa. La rivolta dei ‘non si parte’, lungi dal sedarsi, si inasprì.


5 – 6 Gennaio 1945 : Ragusa
A Ragusa, i rivoltosi s’impadronirono di alcuni quartieri, elevando barricate ed iniziando la resistenza armata. La rivolta era guidata da militanti socialisti e soprattutto comunisti, ignari delle posizioni del partito che ha stigmatizzavano la rivolta come "rigurgito fascista". La vendetta dell’esercito sarà spietata. Le cifre ufficiali diedero 18 morti e 24 feriti tra carabinieri e soldati, e 19 morti e 63 feriti fra gli insorti nella sola Ragusa e provincia.  Diverse fonti ritenevano  le cifre sottostimate.
11 Gennaio 1945: Naro
Rivolta contro la chiamata dei giovani alla leva. Il bilancio della repressione sarà di 5 morti, 12 feriti e 53 arrestati.
12 Gennaio 1945 : Licata
Disordini contro la chiamata alla leva, nel corso dei quali venne ucciso un manifestante.
11 Marzo 1945 : Palermo
A Palermo, la folla prese d’assalto gli uffici delle imposte e la sede dell’ispettorato dei dazi e consumi, dirigendosi poi verso la prefettura. Negli scontri che ne seguirono con le forze di polizia, rimasero uccisi un commissario di Ps ed un giovane operaio.
7 Giugno 1945 – Trabia (Pa)
Nunzio Passafiume, sindacalista della CGIl, fu ucciso perché “aveva diffuso in paese idee di uguaglianza e giustizia e in molti avevano cominciato a dargli ascolto” (Marcello Cimino, giornalista). Un omicidio che si inserì nell’ambito della lotta per l’occupazione delle terre. Fu forse il primo caduto per quella lotta contadina a cui non è stata mai fatta giustizia.

17 Giugno 1945
Un gruppo di industriali - fra i quali spiccano Pirelli, Falck, Piaggio, Costa e Valletta della Fiat – decise di costituire un fondo destinato in modo specifico alla lotta contro il comunismo.  Il fondo era destinato alla creazione di squadre amate che dovevano condurre sul terreno una vera e propria ”crociata contro il comunismo”. Squadre che verranno affidate a Tito Zaniboni.  Strano che questo incarico da “esercito privato” fosse assegnato a Zaniboni che è ricordato per aver organizzato il primo fallito attentato contro Mussolini (il 4 novembre 1925) e per aver ricoperto, dopo la caduta del fascismo, l’incarico di Alto Commissario “per l’epurazione nazionale del fascismo”. Sempre nello stesso giorno vennero uccisi dai carabinieri il leader autonomista prof. Antonio Canepa e gli studenti Giuseppe Lo Giudice e Carmelo Rosano. Da quel momento il movimento venne superato per importanza dall’Evis e in breve posto sotto il controllo della destra separatista e fascista.  Gli stessi che dopo poco tempo vi metteranno a capo Salvatore Giuliano con il grado di colonnello.
11 Settembre 1945 : Ficarazzi
Fu ucciso a colpi di lupara dalla mafia il guardiano di pozzi e  segretario della Camera del Lavoro di Ficarazzi,  D’Agostino D’Alessandro. Aveva cominciato una lotta contro il controllo mafioso dell’acqua per l’irrigazione dei giardini. Era stato invitato a desistere ma aveva continuato la sua battaglia. Nessuno venne condannato per il suo assassinio.

11 settembre 1945 : Piazza Armerina (Enna)
A Piazza Armerina (Enna), nel corso di uno scontro con dimostranti, un carabiniere uccise il militante socialista Giovanni Pivetti (Pivelli). L’indomani furono arrestati i segretari delle sezioni del PC e del PSI per avere organizzato lo sciopero..

2 ottobre 1945 : Piazza Armerina
Le forze di polizia caricarono ed eseguirono numerosi arresti fra i contadini e i lavoratori che da 2 giorni manifestavano contro il carovita e la mancanza di lavoro. La carica provocò un morto e diversi feriti.

28 Novembre 1945 : Cattolica Eraclea (Agrigento)
Fu ucciso davanti alla sede della Camera del Lavoro, Giuseppe Scalia. Contadino, sindacalista e fondatore della Cooperativa “ la Proletaria”. Si era posto con altri contadini alla testa del movimento bracciantile che lottava per l’assegnazione delle terre incolte e l’attuazione della riforma agraria (secondo la legge Gullo dell’ottobre del 1944). Fu ucciso con due bombe a mano lanciate da due mafiosi. Gli assassini non furono mai catturati.


4 Dicembre 1945 – Ventimiglia di Sicilia (Palermo)
Giuseppe Puntarello, dirigente della Camera di Lavoro, era nato a Comitini (Ag) il 14 agosto 1892 e si era stabilito a Ventimiglia dove lavorava e abitava con la moglie Vincenza Saperi e cinque figli. S’impegnò con fermezza in difesa del movimento contadino di Ventimiglia di Sicilia. Era autista dell’autobus di linea che collegava Ventimiglia a Palermo alternandosi con un suo compagno. All’alba del 4 dicembre 1945 il suo compagno di lavoro si trovò nell’impossibilità di andare a prelevare l’autobus dall’autorimessa e  Giuseppe Puntarello lo sostituì. Un commando mafioso costrinse quel giorno l’autista Giuseppe Puntarello a rallentare prima e a fermare poi la sua marcia. Lo uccise con fredda determinazione con alcuni colpi di lupara. Molti in quei giorni dissero che l’obiettivo dei killer non era Puntarello, ma il suo discusso compagno di lavoro. Altri invece ricordando il suo impegno di dirigente della Camera del Lavoro rimasero invece convinti che si era trattato di uno dei tanti omicidi che in quegli anni la mafia compiva per piegare il movimento contadino in lotta per le terre.



3 Marzo 1946 - Burgio
Masina Perricone Spinelli  fu uccisa durante un attentato contro il candidato sindaco del PCI che rimase ferito.  L' elenco della Regione la pone come vittima di mafia assassinata il 16 maggio del 1946 a Favara. E per la stessa data cita anche Antonio Guarisco, sindaco e farmacista, ucciso mentre parlava con alcune persone. La legge accomuna le due storie e, coincidendo la data del decesso, sembra volerli morti nello stesso agguato. Nulla di più falso. Perchè la signora non era di Favara, e sicuramente non era in quel paese nel giorno indicato dalla legge per la semplice ragione che era già morta due mesi prima a Burgio. Ma c'è di più. La legge la chiama Marina, e commette un ulteriore errore perché il suo vero nome è Tommasa (Masina per gli amici e i parenti). Spinelli era il nome del marito. Lei, 33 anni, appena sposata, stava rientrando a casa nello stesso istante in cui un commando stava cercando di eliminare il candidato sindaco di Burgio, Antonio Guarisco. I colpi sparati furono tanti. Uno colpì a morte la casalinga. Guarisco si salvò. Fu ferito solo ad un braccio. Uccisa a Burgio, ma per la legge lo è stata in un altro posto, col nome alterato e per di più sconosciuto. Dunque dimenticata. Con il risultato che pur essendo stata dichiarata vittima innocente della mafia i parenti non hanno potuto ottenere alcun aiuto e beneficio dall'amministrazione pubblica. Ed ancor oggi non sanno di aver avuto in casa una martire di Cosa nostra sancita dalla legge.


12 Marzo 1946 : Palermo
Disoccupati e reduci di guerra tentano di assaltare la Prefettura per protestare per la mancanza di lavoro e di viveri. Le forze di polizia aprirono il fuoco, uccidendo Giuseppe Maltesi (operaio del cantiere navale) e un altro dimostrante e ferendo 30 persone. Negli scontri morì anche il commissario di Ps Calderone  forse colpito dai copi sparati da un carabiniere
21 Marzo 1946 : Messina
Nel corso di una manifestazione di protesta contro la disoccupazione e l’assenteismo del governo, le forze di polizia spararono uccidendo il soldato di leva Salvatore Caramanna ed un bambino, e ferendo altri 24 dimostranti.

16 Maggio 1946 – Favara
Gaetano Guarino, sindaco socialista di Favara e fondatore di una Cooperativa Agricola.
Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell’umile gente che chiedeva l’attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi. Costituì anche una cooperativa agricola, che probabilmente si ispirava alla “Madre Terra” di Accursio Miraglia ed i “baroni” del latifondo cominciarono a remargli contro. Il 10 marzo del 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d’Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco. Ma la mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura lo uccise con un colpo di lupara alla nuca. Non mancarono ipotesi alternative (e spesso fantasiose) sul suo omicidio ma esse furono promosse da politici e dirigenti corrotti dalla Mafia o collusi con essa. Anche L’Avanti!, che sulle prime aveva accusato dell’assassinio i neofascisti, dovette fare marcia indietro. I responsabili del suo omicidio, seppur facilmente intuibili, non furono mai arrestati (né quelli materiali, né i mandanti). Per protesta la vedova di Guarino ed il figlio andarono a vivere a Parigi, rifiutandosi sempre di tornare a Favara. La storia ufficiale sostiene che l’omicidio di Guarino maturò all’interno degli ambienti mafiosi del paese. Una ipotesi, tanto alternativa, quanto realistica che circola da sempre nelle case dei Favaresi sostiene invece che l’omicidio Guarino avrebbe avuto ben altre implicazioni. Alcuni sostengono che i mandanti fossero interni all’allora Partito Comunista Italiano. Nell’immediato dopo guerra i Comunisti avrebbero instaurato un vero e proprio mercato nero degli aiuti provenienti dagli Americani. Si dice, che Guarino avesse intenzione, supportato da diverse prove, di denunciare l’accaduto pubblicamente. Un sindaco di lotta, esempio di correttezza e alta moralità. Esempio perpetuo per tutti coloro che si vogliono avvicinare alla politica. Quella fatta bene!




Favara - Castello Chiaramonte




28  Giugno 1946 – Naro (Agrigento)
Pino Camilleri, sindaco socialista del paese di Naro,  dal 1944 aveva organizzato le lotte dei contadini.



Nato il 20 giugno del 1918, ancora giovane universitario, aveva abbracciato la causa del movimento politico e sindacale che a Naro si era sviluppato con i movimenti dei fasci siciliani, con le cooperative e le casse rurali. Una grande solidarietà sociale animava il centro.. Il 25 agosto del 1945, su richiesta del Comitato di liberazione di Naro, ebbe trasformato l’incarico di sindaco in quello di commissario prefettizio. Era divenuto cioè un vero “Capo popolo” e molto probabilmente sarebbe stato candidato alle elezioni politiche per l’Assemblea Costituente. In quel periodo il fratello Calogero ottenne in affitto un feudo a Naro. Alla sua porta bussarono alcuni braccianti, mandati direttamente da una famiglia mafiosa, con l’intento di essere assunti nel feudo. Calogero Camilleri respinse quelle imposizioni e le minacce che ne erano seguite. Entrò, inevitabilmente, in contrasto con la mafia locale e così anche il sindaco divenne un bersaglio.
Il 28 giugno 1946 Pino Camilleri venne trovato assassinato con alcuni colpi di lupara. Gli tesero un agguato mentre si recava a cavallo da Riesi al feudo di Deliella (che era oggetto di un’aspra contesa tra contadini e gabellotti). Le indagini seguirono sia la pista della vendetta trasversale, che quella del delitto politico. In entrambi i casi comunque era certo che i mandanti fossero stati i capi mafia delle cosche locali.




5 Agosto 1946
Caccamo (Pa) : 24 morti

Vigeva “l’ammasso del grano”..una istituzione fascista che era nata con il preciso intento di accumulare scorte di viveri per fare fronte all’emergenza per il prolungamento della guerra. I contadini erano quindi costretti a consegnare il loro prodotti nei “granai” e  spesso finivano con il patire la fame. Con la caduta di Mussolini, le donne chiesero l’apertura degli “ammassi” o “granai” e finirono con assalirli. Nei magazzini dello stato c’era di tutto e la popolazione aveva fame…
Malgrado l’isola fosse stata liberata grazie alle truppe alleate di Montgomery e Patton, gli ammassi restarono chiusi e la mafia assunse un ruolo sociale nel controllo dell’isola e nella gestione e distribuzione degli alimenti..
I decreti Gullo rimasero inascoltati  in un isola che era sotto il controllo della mafia e dei poteri reazionari siciliani che convergevano attorno alla Dc. La Dc, vera paladina dei latifondisti, che riusciva ad imporre un regime di provocazioni che si appoggiavano alle istituzioni. A Caccamo le donne guidarono una grande manifestazione contadina che si prolungò per ben tre giorni. Una protesta di circa 3000 persone fronteggiate da 600 poliziotti e carabinieri. Gli scontri furono duri .. e il 5 agosto l’assalto ai granai fu violento…..4 morti e 21 feriti tra le forze dell’ordine… 20 morti e 60 feriti tra i dimostranti.



22 Settembre 1946 – Alia (Palermo)
I contadini, Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia, furono uccisi. Era in corso una riunione di contadini nella casa del segretario della Camera del Lavoro del paese. Si discuteva dei famosi decreti Gullo per chiedere l’assegnazione delle terre e per l’occupazione dei feudi “Rigiura” e “Vaccotto”. Feudi malcoltivati che rientravano nell’assegnazione dei contadini ma che erano in mano a gabellotti mafiosi. La discussione era animata e si cercava di organizzare la lotta. Qualcuno dalla strada lanciò nella casa delle bombe a mano mentre dalla strada furono sparati colpi di mitraglia. Tredici persone rimasero ferite. I responsabili non furono mai catturati anche se si sapevano i mandanti della strage.

ALIA - GROTTE DELLA GURFA







ALIA - GROTTE DELLA GURFA - GRAFFITI


22 Ottobre 1946 – Santa Ninfa (Trapani)
 Giuseppe Biondo, mezzadro iscritto alla Federterra fu ucciso dalla mafia. Lottava per l’applicazione della legge sulla divisione del prodotto al 60% per il mezzadro e al 40% per il proprietario. Fu sfrattato illegalmente dal proprietario del terreno che aveva a mezzadria ma vi era tornato a lavorarvi.

2 Novembre 1946
Belmonte Mezzagno 
vennero uccisi i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Sant’Angelo. Erano contadini e facevano parte di una cooperativa in attesa dell’assegnazione del Feudo Gulino.

Dopo quest’ennesimo delitto si tenne una riunione di capimafia dove il boss Antonio Cottone annunciava che “la mafia è pronta a combattere i comunisti anche con le armi”.
Antonio Cottone (1904 – 22 agosto 1956) era un esponente mafioso della sua città natale, Villalba (Palermo). Una storia incredibile  quella del Cottone che pone in evidenza i forti legami fra mafia e DC. Era soprannominato “U Padre Nostro” (“Il Nostro Padre Celeste”) per la sua incredibile generosità. Faceva parte di una famiglia mafiosa di Villabate  che venne citata da Melchiorre Allegra, un medico mafioso, quando diventò informatore della polizia. Cottone era influente non solo nel suo paese ma anche a Palermo. Dopo l’invasione alleata fu nominato sindaco di Villabate dal governo militare alleato dei territori occupati (AMGOT). L’ennesima dimostrazione di come gli americani misero dei mafiosi  a capo dei Comuni dell’Isola. In origine era un ex-macellaio che fece fortuna con l’occupazione americana. Era stimato per la sua ricchezza e per le sue influenze, molto forti, con la Dc (Democrazia Cristiana…..). era un capo della “Mafia dei Giardini” ovvero di quella sezione mafiosa che “protegge” gli uomini che commerciano la frutta e gli agricoltori di agrumi di Palermo. Gestiva anche la fornitura di carne nel mercato all’ingrosso di Palermo. Carne che gli era fornita dal ladro di bestiame Luciano Leggio (meglio conosciuto come Liggio per l’errore di trascrizione di un brigadiere) di Corleone. Cottone favorì l’ingresso di Liggio nel mercato di Palermo. Fu ucciso in una guerra di mafia forse per il controllo del mercato all’ingrosso di Palermo.

23 Novembre 1946 – Casteldaccia (Palermo)Andrea Raja, segretario della Camera del Lavoro di Casteldaccia (Palermo). Fu ucciso dalla mafia.
25 Novembre 1946 – Joppolo Giancaxio (Agrigento)
Giovanni Severino, contadino e segretario della Camera del Lavoro, fu ucciso dalla mafia a colpi di lupara. Era un animatore coraggioso delle dure lotte contadine. I responsabili dell’omicidio non furono mai trovati.

29 Novembre 1946 – Comitini (Agrigento)
Filippo Forno (Farina), bracciante, sindacalista ed iscritto al PCI. (Per molti anni fu indicato in modo errato come “Farina”).

21 Dicembre 1946 – Baucina (Palermo)
Nicolò Azoti, Segretario della Camera del Lavoro di Baucina, fu ucciso dalla mafia. Era un esponente di rilievo nell’organizzazione del movimento dei braccianti agricoli.


Fondò l’ufficio di collocamento e progettò la costituzione di una cooperativa agricola. Gli spararono cinque colpi di pistola alle spalle e morì dopo due giorni di agonia. “Cola” era un ebanista, anche se sarebbe meglio considerarlo un informale “intellettuale popolare” nutrito da una personale cultura libertario-antifascista, appassionato di musica e di teatro. Aveva dato senso operativo alla sua spiccata vocazione sociale mettendosi, da sindacalista della Cgil, alla testa e al servizio dei contadini per l’attuazione dei decreti Gullo, e fondando la cooperativa agricola “San Marco”. Aver concretamente sfidato il fronte agrario-mafioso gli fu fatale

4 Gennaio 1947 – Sciacca


Accursio Miraglia fu una delle prime vittime di mafia. Al suo funerale ben 40.000 persone quando Sciacca di abitanti allora ne contava 20.000,  una folla immensa.. 



Non era solo il personaggio contro la mafia, le prepotenze, le ingiustizie, era il comunista ed anche il cristiano.. colui che in anni di indigenza, univa la filosofia marxista con il pensiero di Gesù Cristo… Amava la libertà e la solidarietà… Considerava gli esseri umani come fratelli. Non faceva differenza tra ricco e povero, fra comunista e fascista, fra ateo e prete. S indignava solo di fronte ai soprusi”. (da un intervista al figlio Nicolò)
Con i suoi soldi fece ristrutturare il vecchio orfanotrofio.. donava mille lire al mese per il sostentamento di ogni bambino, aiutava i pescatori e i contadini dilapidando il proprio conto in banca. A Sciacca, sua città natale, è ancora oggi una leggenda.. ”era il simbolo di una Sicilia straordinaria che in quei tempi giocava una partita fondamentale per il suo sviluppo… da una parte le armi della civiltà cioè della democrazia… dall’altra la lupara e le assoluzioni della giustizia per “insufficienza di prove”.

Miraglia fu ucciso da un commando mafioso con una raffica di mitra e dei colpi di pistola calibro 7,65. Stava tornando a casa verso le 22,30 dalla camera del Lavoro di cui era responsabile.
Miraglia era un ricco industriale. La nonna era la marchesa Tagliavia eppure si schierò con umiltà e con fervore a fianco dei contadini per la concessione delle terre incolte. Una lotta che fece anche da segretario del locale partito comunista. Un uomo semplice, umile, a fianco dei poveri. Aveva una posizione economica non indifferente perché proprietario di una fiorente industria conserviera di pesce azzurro… aveva sposato una donna bellissima,… una parente della zar di Russia Nicola II che era fuggita dal suo paese dopo la rivoluzione di Lenin.
Nei suoi discorsi alla gente pronunciava spesso questa frase: “ meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.  Una frase che aveva copiato da Hemingway e non poteva sapere che un altro grande personaggio rivoluzionario l’avrebbe usata: Ernesto Che Guevara.
A Sciacca (Agrigento) il 2 ottobre 1946 il Miraglia guidò una folla di 10.000 braccianti. La notizia fece scalpore. Il Miraglia era un aristocratico, industriale, aveva incarichi importanti (era anche presidente dell’Ospedale e del Teatro Rossi di Sciacca).. ed ora guidava una marcia di poveri contadini  sfruttati come animali.. . era contro gli aristocratici latifondisti. Per i nobili fu un grave affronto… .. quel servitore della gleba doveva sparire… fu ucciso tre mesi dopo.. una figura non ricordata dalla storia perché manda in frantumi il concetto di classe. La storia ci dice, anche se per sommi capi, che il rivoluzionario deve essere proletario.


Il figlio Nicolò con grande animo  in un intervista rilevò quei momenti drammatici: “ Del delitto di mio padre non ricordo niente. Mi dissero che era una brutta serata, c’era molto freddo, gli amici lo accompagnarono per un pezzo di strada e poi andarono via. Mentre stava aprendo la porta di casa arrivò la prima raffica di mitra, lui cercò di entrare e l’assassino lo colpì ancora con una pistola, il proiettile gli attraversò la carotide e lui morì. Perché? Bisognerebbe chiederlo ai servizi segreti italiani e americani. La versione ufficiale ci dice che lui stava portando avanti, mediante la legge Gullo-Segni, una seria possibilità di dare le terre ai contadini riuniti in cooperativa. Il motivo fu questo, ma non solo questo. Diciamo che ci fu una convergenza di interessi”.
“La morte di mio padre è collegata a due stragi di Stato consumate una dietro l’altra: quella di Portella della ginestra (1 maggio 1947; undici morti e diversi feriti) e quella di Partinico (22 giugno 1947; due morti). C’era un piano prestabilito, non riguardava un solo omicidio. Tutti i sindacalisti di allora, da Accursio Miraglia a Placido Rizzotto, da Salvatore Carnevale a Epifanio Li Puma, dovevano cadere per volontà degli americani. Il deputato del Pci, Giuseppe Montalbano, alcuni anni dopo, ricevette da parte dell’on. Antonio Ramirez (studioso attento di questi fenomeni) una lettera. Si leggeva: i mandanti e gli esecutori della strage di Portella della Ginestra sono gli stessi che hanno assassinato Accursio Miraglia. Dal 4 dicembre del 1947 al 22 giugno 1966 (con l’assassinio del sindacalista di Tusa, Carmelo Battaglia) un’unica strage di Stato coinvolge i sindacalisti che hanno lottato per la terra. Tutti questi omicidi non hanno mai avuto un processo. Dopo la morte di mio padre furono arrestati gli esecutori materiali, ma la procura generale di Palermo avocò il caso e liberò gli assassini per insufficienza di prove”.
“Oggi di Accursio Miraglia resta molto. Morto mio padre, a gestire l’industria restò mia madre: lei parlava poco l’italiano e non capiva niente di commercio. Furono i marinai di Sciacca a offrire il miglior pesce alla nostra industria. Si erano riuniti e avevano deciso: per almeno due anni la vedova Miraglia deve essere aiutata”.





“Alcuni anni fa l’Unicredit organizzò l’anniversario: in quella occasione volli ricambiare offrendo i pranzi e le cene agli ospiti, sia con i prodotti ricavati dai terreni confiscati alla mafia, sia con il pesce azzurro di Sciacca. A gennaio non è facile trovare molta quantità di pesce. Allora chiesi alla cooperativa di marinai di venderci il pescato. Portarono venti cassette. Quando andai in cooperativa per saldare il conto, la risposta del presidente fu questa: ‘I marinai di Sciacca per Accursio Miraglia non vogliono mai soldi”.
Una pausa e, per associazione di idee, la memoria va a settant’anni fa: “Dopo la morte, mio padre fu portato nella camera ardente dell’ospedale di Sciacca, dove per anni era stato il presidente. Le suore chiesero di poter tenere la salma per tre giorni e tre notti per pregare ininterrottamente. Poi, per altri tre giorni, fu portato nella sala della Camera del lavoro, dove vennero gli uomini politici di tutta Italia. E quando la bara uscì per essere trasportata al cimitero, tutte le industrie d’Italia suonarono le sirene. Per dieci minuti gli operai italiani e siciliani si fermarono per rendergli omaggio”.

(Da: Luciano Mirone

Accursio frequentò la scuola tecnica “Mariano Rossi” di Sciacca e in seguito l’Istituto tecnico Commerciale di Agrigento. Si diplomò con il massimo dei voti e fu assunto al Credito Italiano di Catania. Dopo un anno venne trasferito, come capo ufficio, a Milano dove entrò in contatto  con personaggi importanti della politica e della cultura. Fu conquistato dal pensiero di Bakunin e si iscrisse al gruppo anarchico di Porta Ticinese. Qui assieme agli attivisti portò avanti una attività politica sociale a favore della classe operaia per una vita più dignitosa nelle fabbriche.
Fu licenziato dalla banca per “contrasti di natura politica”. I dirigenti non sopportavano l’attività sociale del Miraglia a fianco degli operai e alla continua ricerca di uguaglianza e giustizia.
Rientrò a Sciacca e diede avvio a una propria industria ittico-conserviera. Da notizie riportate sul sito Wickipedia, si cita anche un attività come rappresentante e commerciante di ferro e metalli nel porto. Un attività che gli permise di aiutare, durante la seconda guerra mondiale, molti artigiani che avevano necessità di queste materie prime per svolgere il proprio lavoro artigianale. ( era vietata la vendita).
Un uomo di grande cultura  che si dedicava anche alla pittura, allo scrivere, al suonare il violino. Era sempre a contatto con la gente e soprattutto vicino ai loro problemi. Spesso diceva:per la ripresa della nostra vita operativa è indispensabile rivolgersi alla terra e al mare, creature come l'uomo, di Dio”.
La terra dei latifondisti era in mano ai gabellotti mafiosi mentre il mare era pericoloso da attraversare per il grado di fatiscenza delle imbarcazioni. Aiutò padre Michele Arena nella restaurazione a proprie spese dell’orfanotrofio e si adoperò con ogni mezzi per aiutare le orfanelle del Boccone del Povero. Portava ogni settimana carretti colmi di generi di prima necessità.
Riuscì a creare e a dirigere la prima Camera del Lavoro siciliana, nata appunto a Sciacca. Organizzata in modo da poter esprimere al massimo lo spirito comunitario e i diritti dei lavoratori,
Una delle iniziative (forse la più importante e duratura in quanto proprio nel 2004 se ne è festeggiato il sessantesimo anniversario) voluta da Accursio Miraglia fu la fondazione della cooperativa “La Madre Terra”. Nacque esattamente il 5 novembre 1944, venne sancita alla Camera del lavoro più di 60 anni fa ed oggi è una grande realtà che conta circa mille soci con una superficie di duemila ettari coltivata a ulivi e più di 200 000 piante ricadenti nel territorio di Sciacca.
Grazie alla cooperativa “La Madre Terra”, Miraglia divenne la voce dell'umile gente che chiedeva l'attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi. Memorabile rimase agli occhi della gente la cavalcata che riuscì ad organizzare per le vie del paese di Sciacca..
Non approfittò mai della sua posizione, l'ultimo incarico fu quello di presidente dell'ospedale di Sciacca e anche lì seppe agire in maniera indimenticabile lasciando il segno, come del resto era sua consuetudine fare. I medici, le suore e gli infermieri, la sera del suo assassinio per mano della mafia il 4 gennaio 1947, ricambiarono l'affetto permettendo alle sue spoglie di rimanere intatte per quattro giorni in una bara aperta. Le veglie funebri furono due, una organizzata presso l'ospedale, l'altra presso la sede della Camera del lavoro. Tutta l'Italia diede l'estremo saluto ad un uomo che lottava con le parole, ad un uomo che con i suoi discorsi semplici riusciva a gratificare la gente a dare speranza e insegnare che la fratellanza e l'organizzazione erano fondamentali in quel periodo così difficile, diceva sempre: «Noi, organizzati, siamo un gruppo di fratelli. Se succede qualcosa, si ragiona».
Alla base del monumento dedicatogli dal popolo di Sciacca, fatta dal noto pittore e scultore saccense Filippo Prestia, vi è una scritta di Miraglia che richiama questo valore della fratellanza che tanti nella società odierna non considerano affatto in quanto non rappresenta più un ideale raggiungibile in una società dominata dall'individualismo. La frase, riportata in uno scritto del nipote di Miraglia, dice: «Io non impreco e non chiedo alcuna punizione. Io che ho tanto amato la vita, chiedo ad essa di vedere pentiti coloro che ci hanno fatto del male».
Ecco anche il suo ultimo importante monito espresso nell’ultimo comizio che tenne a Sciacca:
“La forza dell’uomo civile è la legge, la forza del brutto e del mafioso è la violenza fisica e morale. Noi, malgrado quello che si sente dire di alcuni magistrati, abbiamo ancora fiducia nella sola legge degli uomini civili, che alla fine trionfa nello spirito dell’uomo che è capace di sentirne il “Bene”. Temiamo, invece la violenza perché offende la nostra maniera di vedere e concepire le cose. Lungi dalla perfezione e dall’infallibilità, siamo però in buona fede, e non cerchiamo altro che la possibilità di ripresa della nostra gente e in altre parole di dare il nostro piccolo contributo all’emancipazione e alla dignità dell’uomo. È solo questo il filo conduttore che ci ispira e ci porta nel rischio. Non è colpa nostra se qualcuno non lo arriva a capire: non arrivi a capire, cioè, che ci sia, ogni tanto, qualcuno disposto anche a morire per gli altri, per la verità per la giustizia. Attento però a questo qualcuno che da sprovveduto e morto non diventi un simbolo molto ma molto più grande e pericoloso”. (dall’ultimo comizio fatto a Sciacca)  
“Io non impreco e non chiedo alcuna punizione. Io che ho tanto amato la vita, chiedo ad essa di vedere pentiti coloro che ci hanno fatto del male”. (riportata dal nipote) 

“Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio”.  




SCIACCA

SCIACCA - CASTELLO INCANTATO




SCIACCA - CASTELLO LUNA


17 Gennaio 1947 – Ficarazzi (Palermo)
Pietro Macchiarella, militante del PCI e in prima fila nelle lotte contadine.

13 Febbraio 1947 – Partinico (Palermo)
Leonardo Salvia, militante nelle lotte contadine.

Nunzio Sansone, militante nelle lotte contadine e segretario della Camera del Lavoro di Villabate. La mafia del paese lo eliminò crudelmente, freddandolo a colpi di lupara all’uscita dall’abitato, mentre percorreva il tratto solitario che divide Villabate dal borgo di “Portella di Mare”. Il prof. Edoardo Salmeri ha avuto il merito di riportare in luce gli episodi del grande sindacalista Sansone. Riporta il momento in cui tentò di consegnare una lettera a Mussolini. Fu malmenato e condotto in carcere all’Ucciardone. Il duce passò da Villabate e quando la sua auto si fermò ricevette dalle autorità del paese un omaggio: un folto ramo di arance. Sansone corse verso la macchina che aveva ripreso la marcia.. una corsa sfrenata, voleva consegnarli una lettera… fu trattenuto dalla forza pubblica che gli impedì di consegnare quella lettera e lo malmenò come un malfattore. Gli misero le manette e lo portarono in caserma tempestandolo di pugni e calci… il risultato finale fu che l’indomani il giovane ferito fu trasportato in carcere all’Ucciardone di Palermo. Il prof. Salmeri con grande coraggio ricorda gli ultimi momenti vissuti accanto all’amico Sansone: «Ci eravamo appena separati [...] A duecento metri da casa mia c’era un gruppo di gente con la polizia, che piantonava il corpo dell’ucciso. Ricordai allora come la sera prima, appena rientrato, avevo sentito dei colpi di fucile. Non vi avevo dato importanza, credendo che fossero spari di cacciatore. Non avevo sospettato per nulla che in quel momento il mio povero amico e compagno fosse caduto sotto il piombo della mafia. Non immaginavo che quella sanguinaria associazione criminale sarebbe stata capace di commettere un tale efferato delitto. A chi faceva male il povero Vincenzo Sansone, insegnante di lettere, che nella sua gioventù aveva tanto lottato contro la povertà, sopportando dure prove e umilianti privazioni? Egli che conosceva la triste indigenza, voleva riscattare le masse operaie e contadine dalla loro miseria, dall’abiezione materiale e morale in cui esse vivevano nel prolungato servaggio dei tempi, ma era stato stroncato dalla mafia, da quella cosiddetta 'onorata società' che si arrogava il vanto di interpretare gli ideali di giustizia dell’antica setta dei Beati Paoli, e invece salvaguardava gli interessi del baronato e degli agrari, degli sfruttatori, del lavoro umano. Ecco perché la mafia l’aveva ucciso».    La vicenda di Sansone, riemersa grazie alle ricerche di Giuseppina Tesauro, consulente per le politiche alla Legalità del Comune di Villabate, per la prima volta fu raccontata, anni fa, dalla voce dei parenti agli studenti delle scuole di Villabate. «In famiglia dopo la sua morte fu steso un velo di silenzio. La nonna, che era rimasta vedova da poco, aveva altri 7 figli e aveva paura. Sansone fu così dimenticato da tutto il paese - racconta Vincenzo Sansone - Da bambino di questo zio di cui portavo il nome ho saputo qualcosa dai racconti di mia nonna. C'è molto ancora da approfondire sulle dinamiche e sui motivi di questo delitto. La luce fatta oggi speriamo contribuisca a riscrivere la verità». Due le testimonianze dirette. La nipote Giuseppa Sansone, 78 anni e il sindaco di Villabate, Vincenzo Oliveri. «Ricordo benissimo quando avvenne questo omicidio. Ci fu una specie di sommossa, tutti volevano capire cosa fosse successo - ha detto l'ex presidente della Corte d'appello di Palermo - Sansone organizzava i lavoratori della campagna per la raccolta dei mandarini. Aveva un grande consenso e questo dava fastidio alla mafia, in un periodo in cui tutti erano ossequiosi con i mafiosi. A chi si opponeva, facevano radere tutti gli alberi al suolo. Una delle ipotesi fu che avesse pestato i piedi a qualche proprietario terriero». «Era un punto di riferimento per tutto il popolo. Una persona altruista, squisita, generosissima - ha raccontato la nipote Giuseppa Sansone - Fondò la Camera del Lavoro di Villabate, che presto diventò il luogo dove la gente poteva trovare una risposta ai propri bisogni. In quegli anni di guerre e di miseria, coi bambini che camminavano scalzi per strada. Inviò una lettera chiedendo gli aiuti del Piano Marshall, viveri, vestiario e soldi per i familiari dei morti in guerra. Quando arrivarono i vagoni carichi di beni, quelli che comandavano in paese preteso di impossessarsi della roba. Mio zio, che lottava per il bene degli altri, fu minacciato e allontanato». «Vincenzo - ha aggiunto - aveva un solo completo, che indossava in estate e in inverno. Quando si consumò, copriva lo strappo con uno scialle. E andava in giro così, coperto con lo scialle della nonna. Ha fatto la sua vita per i poveri e per gli orfani». L'amministrazione comunale si è impegnata a intestare una strada a Vincenzo Sansone.

7 Marzo 1947 : Messina
A Messina, nel corso di uno sciopero generale contro il carovita e per aumenti salariali, i carabinieri caricarono e uccisero gli operai comunisti Biagio Pellegrino e Giuseppe Maiorana e feriti altri 3 dimostranti.

1 Maggio 1947 – Portella della Ginestra (Palermo)
Sulla Strage si dovrebbe scrivere un trattato ma cercherò, se possibile, di essere sintetico. Circa 2000 lavoratori, provenienti dalla zona di Piana degli Albanesi, San Cipirello e San Giuseppe Jato, si riunirono a Portella della Ginestra. “Il mitico luogo del “ Sasso di Barbato, dove alla fine dell’ottocento interveniva Nicola Barbato, dirigente del movimento di riscatto dei contadini e medico. Figura di primo piano ( tra i fondatori) dei Fasci Siciliani dei Lavoratori”.



Una vallata circondata dai monti Kumeta, Maja e Pelavet, dove i contadini volevano manifestare contro il latifondismo, per occupare le terre incolte e per festeggiare la vittoria elettorale del Blocco del Popolo che nelle recenti elezioni dell’Assemblea Regionale Siciliana, con la coalizione PCI –PSI, aveva ottenuto 29 rappresentati su 90 (circa il 32% dei voti). Nelle elezioni la DC aveva subito un crollo del 20% circa e ottenuto 21 rappresentanti.  Improvvisamente sui manifestanti cominciarono a piovere raffiche di mitra, sparati dal monte Pelavet, e sembra anche delle bombe a mano,. Sul terreno undici morti (otto adulti e tre bambini) e 27 feriti di cui alcuni morirono in seguito per le ferite. I feriti secondo altre versioni furono da 33 a 65.



Morirono sul colpo:
1.      Margherita Clesceri (37 anni), di minoranza albanese, madre di sei figli e incinta;
2.      Giorgio Cusenza (42 anni), di minoranza albanese;
3.      Castrense Intravaia (18 anni);
4.      Vincenzina La Fata (8 anni);
5.      Serafino Lascari (15 anni), di minoranza albanese;
6.      Giovanni Megna (18 anni), di minoranza albanese;
7.      Francesco Vicari (22 anni), minoranza albanese;
8.      Vito Allotta (18 anni), minoranza albanese; morì dopo pochi giorni;
9.      Giuseppe Di Maggio (13 anni), morì dopo pochi giorni;
10.  Filippo Di Salvo (48 anni), minoranza albanese, anche lui morì successivamente;
11.  Giovanni Grifò (12 anni)
12.  Provvidenza Greco, morì successivamente;
13.  Vincenza Spina;
14.  Vincenzo La Rocca, padre di Cristina, una bambina di 9 anni ferita a Portella (un esame radiografico del 1997 ha rilevato nel suo corpo la presenza di un frammento metallico, probabilmente una scheggia di granata), con la figlia sulle spalle si recò a piedi a San Cipirello e morì qualche settimana dopo, stremato dalla fatica.
15.  Emanuele Busellini, campiere, ucciso dai banditi della banda Giuliano che lo avevano incontrato lungo la strada per recarsi sul luogo della strage.
Solo le prime undici vittime furono riportate sulla pietra incisa posta a memoria sul luogo del massacro.



 Sul movente dell’eccidio si è parlato tanto senza mai raggiungere la verità dei fatti. Il 2 maggio 1947 il ministro dell’Interno, Scelba, ancora lui, affermò sull’episodio che “ non vi era alcuna finalità politica o terroristica, ma che doveva essere considerato un fatto circoscritto”.
Il processo a Viterbo, condannò Giuliano (già morto per mano del capitano Antonio Perenze ?) e la sua banda. Una condanna malgrado Pisciotta, uomo delle banda e avvelenato in carcere, abbia fatto i nomi di personaggi politici importanti coinvolti nel massacro: i monarchici Giovanni Alliata Di Montereale e Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso e anche i democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba. La Corte d’Appello di Viterbo non diede conto alle dichiarazioni di Pisciotta che tra l’altro si attribuiva l’uccisione del compagno Giuliano.
Girolamo Li Causi in Parlamento, quale esponente delle forze di sinistra e della CGIL fu esplicito..”Giuliano era solo l’esecutore del massacro.. i mandanti, gli agrari e i mafiosi, avevano voluto lanciare un preciso messaggio politico all’indomani della vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali”. In seguito ai riscontri del processo, lo stesso Li Causi ed altri esponenti di sinistra furono concordi nell’affermare, nella seduta della Camera dei deputati del 26 ottobre 1951: Tutti sanno che i miei colloqui col bandito Giuliano sono stati pubblici e che preferivo parlargli da Portella della Ginestra nell'anniversario della strage. Nel 1949 dissi al bandito: "ma lo capisci che Scelba ti farà ammazzare? Perché non ti affidi alla giustizia, perché continui ad ammazzare i carabinieri che sono figli del popolo come te?". Risposta autografa di Giuliano, allegata agli atti del processo di Viterbo: "Lo so che Scelba vuol farmi uccidere perché lo tengo nell'incubo di fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere la sua carriera politica e finirne la vita". È Giuliano che parla. Il nome di Scelba circolava tra i banditi e Pisciotta ha preteso, per l'attestato di benemerenza, la firma di Scelba; questo nome doveva essere smerciato fra i banditi, da quegli uomini politici che hanno dato malleverie a Giuliano. C'è chi ha detto a Giuliano: sta tranquillo perché Scelba è con noi; Tanto è vero che Luca portava seco Pisciotta a Roma, non a Partinico, e poi magari ammiccava: hai visto che a Roma sono d'accordo con noi? “
Un collegamento tra la strage e il Governo fu messo in risalto da Santo Provvisionato in “Misteri d’Italia (1994)) e da Carlo Ruta che nel suo prologo del libro “Giuliano – Scelba” (Rubattino, 1995) scriveva: “« Sugli scenari che si aprirono con Portella della Ginestra, alcuni quesiti rimangono aperti ancora oggi: fino a che punto quegli eventi tragici videro realmente delle correità di Stato? E quali furono al riguardo le effettive responsabilità, dirette e indirette, di taluni personaggi chiamati in causa per nome dai banditi e da altri? Fra l'oggi e quei lontani avvenimenti vige, a ben vedere, un preciso nesso. Nel pianoro di Portella venne forgiato infatti un peculiare concetto della politica che giunge in sostanza sino a noi. »  Si parlò anche di un collegamento con il governo americano. La tesi fu formulata da Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia secondo cui a Portella della Ginestra furono adoperate dei lanciagranate in dotazione alla X Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese. I servizi segreti americani erano preoccupati dell’avanzata social comunista in Italia e soprattutto in Sicilia, punto strategico del Mediterraneo. “I rapporti desecretati dell'OSS e del CIC (i servizi segreti statunitensi della Seconda guerra mondiale), che provano l'esistenza di un patto scellerato in Sicilia tra la cosiddetta “banda Giuliano” e elementi già nel fascismo di Salò (in primis, la Decima Mas di Junio Valerio Borghese e la rete eversiva del principe Pignatelli nel meridione) sono il risultato di una ricerca promossa e realizzata negli ultimi anni da Nicola Tranfaglia  (Università di Torino), dal ricercatore indipendente Mario J. Cereghino e da chi scrive





La verità sulla Strage di Stato di Portella della Ginestra ?
Un film ?  Non Credo… il teorema …i collegamenti tra i vari personaggi sono perfetti----- in ogni caso fanno pensare……






9 Maggio 1947  - Partinico (Palermo)
Michelangelo Salvia, contadino e dirigente della Camera del Lavoro, ucciso nelle campagne di  Partinico.

7 Giugno 1947 : Messina
A Messina, durante una manifestazione contro la disoccupazione, i carabinieri aprirono il fuoco uccidendo Ludovico Maiorana, Antonio Pellegrini e Carlo Rocco.

22 Giugno 1947 – Partinico (Palermo)
Giuseppe Casarrubea, militante sindacale, e Vincenzo Lo Jacono furono uccisi durante un attacco alla sede della Camera del Lavoro di Partinico. Ci fu un nutrito lancio di bombe a mano e colpi di mitra. L’eccidio maturò in un momento in cui vennero effettuati degli attacchi con armi da fuoco e bombe a mano a diverse sezioni del Partito Comunista (Partinico. Borgetto e Cinisi), a diverse sedi della Camera del Lavoro (Carini e San Giuseppe Jato) e alla sezione del Partito Socialista di Monreale. Sul posto dell’assassinio venne trovato un volantino a firma di Giuliano (?) che invitava i siciliani a lottare “contro la canea dei rossi” e annunciava la costituzione di un comitato di lotta contro il bolscevismo. Prometteva sussidi (?) a quanti si sarebbero presentati alla sede della formazione militare nel feudo Sagana.


22 Ottobre 1947 – Terrasini (Palermo)
L’assassinio di Giuseppe Maniaci, ucciso dalla mafia con bastonate in testa e crivellato di proiettili, è emblematico per mettere in evidenza il comportamento delle forze dell’ordine. Il Maniaci era iscritto al partito comunista e segretario della Federterra locale.
Nonostante le minacce mafiose si batteva da tempo contro il latifondo e per i diritti dei contadini. Era stato, in passato, nel carcere di Porto Longone (LI) come detenuto per reati comuni e aveva conosciuto i dirigenti comunisti Mauro Scoccimarro  (1895- 1972) e Umberto Terracini (1895- 1983), imprigionati per attività antifascista.
Nel messaggio di segnalazione inviato il giorno dopo alla Procura della Repubblica di Palermo si legge: “ore 13 circa 22 andante ignoti uccidevano colpi di mitra […] Maniaci Giuseppe fu Salvatore anni 38 del luogo, contadino, segretario Federterra predetto comune. Escludesi movente politico. Si ritiene probabile uccisione per vendetta essendo Maniaci fortemente pregiudicato delitti contro il patrimonio”.
Ministro dell’Interno.. Mario Scelba… sicuramente il mandato alla procura fu il risultato finale di precedenti contatti tra le forze dell’Ordine e lo stesso Scelba.
Il movente politico fu subito scartato… senza alcuna spiegazione o chiarimenti… il secondo aspetto fu legato alla vittima che venne presentata come un pregiudicato.. insomma un regolamento di conti a causa dei suoi trascorsi criminali. Venne esclusa categoricamente la pista politica che fu portata avanti dai compagni di partito del Maniaci. In un successivo rapporto dei carabinieri del 4 novembre dello stesso anno, venne ancora ribadita, con ottusa presunzione che è: “esclusa la peregrina idea del delitto politico, messa fuori in malafede dai suoi compagni di partito […] a Terrasini la politica non trova terreno fertile”. (Rapporto dei carabinieri del 4 novembre 1947 )
Il Maniace nel primo verbale venne descritto come un ladro e questo, sempre secondo le forze dell’ordine, spiegherebbe il movente del delitto cioè una vendetta di chi subì l’antico furto. L’unico reato accertato fu per il furto di un sacco di carrube effettuato tre mesi prima della sua uccisione. Il maresciallo Luigi Licata descrisse il Maniace con un pericoloso delinquente e non come un ladro di campagna. Ma nel verbale redatto viene menzionata la mafia e quindi il Maniaci infastidì qualcuno.
Quali i moventi del delitto? Solo vendetta personale, quale regolarizzazione di conti, perché “i mafiosi del luogo non sopportavano questi furti”.
La figura del Maniaci prese aspetti sempre più criminali nella stesura del verbale che lo mise in luce come un approfittatore e parassita dedito al «furto in cui il Maniaci si era da tempo abituato e per cui incuteva soggezione, specie nella parte dei piccoli borgesi [sic], i quali mal sopportavano che il Maniaci, senza stenti e sudori, menasse vita piuttosto comoda, a spese del loro lavoro […]».
Ma ciò che rese il caso di Giuseppe Maniaci particolare ed unico sta nell’affermazione seguente, riportata nel verbale:
“[…] Ma se il piccolo agricoltore per timore del peggio taceva e sopportava, lo stesso non doveva verificarsi con i limitrofi Di Maggio Procopio, Vitale Leonardo, Di Maggio Giuseppe, tutti da Cinisi ben noti per la loro appartenenza alla mafia e soprattutto conosciuti come gente da non subire angherìe”.
Un vero demente il commissario che scrisse il verbale e che fece i nomi dei personaggi appartenenti alla mafia locale. Con questa affermazione è chiara come c’era allora un atteggiamento favorevole verso la mafia vista come “una protettrice del piccolo agricoltore che per timore del peggio taceva”. Quindi il definitiva il delitto fu legato al comportamento criminale del Maniaci più che alla sua appartenenza alla Federterra locale.
“[…] Da quanto precede e dall’insieme delle circostanze emerse nel corso delle indagini, si è addivenuti alla conclusione, comunemente formata nell’ambiente locale, che il Maniaci Giuseppe sia caduto vittima della sua cattiva condotta e che gli uccisori siano gente appartenente alla nota mafia di Cinisi, la quale si è ormai specializzata nel liquidare tutti coloro che danno fastidio alle persone e alla proprietà”.
Curiosamente il rapporto dei carabinieri giunse alla conclusione che l’omicidio del segretario della Federterra di Terrasini fosse opera di ignoti, non considerando i nomi dei mafiosi precedentemente fatti. Il Giudice istruttore chiese spiegazioni di questi precisi riferimenti al maresciallo che compilò il verbale citando i nomi di mafiosi del luogo. Si mise in risalto dai verbali, un sistema di relazioni interne al paese che permettevano di far dichiarare al maresciallo – senza per questo avere delle prove giudiziarie –i nomi di quelli riconosciuti dall’“ambiente locale” come mafiosi. La dichiarazione di risposta del maresciallo non consentì di indirizzare le indagini verso quei sospetti per mancanza di prove: «abbiamo formulato per contro nostro sospetti […] ma nulla abbiamo potuto acclarare a loro carico, non essendo neanche risultato che avevano denunziato di avere patito dei furti». Nonostante l’individuazione dei mafiosi che avrebbero potuto uccidere il Maniaci, le indagini furono sospese e poi concluse con una declaratoria di improcedibilità perché ignoti gli autori del delitto. La responsabilità del delitto venne attribuita direttamente alla stessa vittima e al suo comportamento: la sua condotta sarebbe stata la vera causa della morte.

3 Novembre 1947 – San Giuseppe Jato (Palermo)
Calogero Caiola, doveva testimoniare sulla Strage di Portella della GinestraIl prof. Pierluigi Basile con grande senso storico descrisse l’assassinio o meglio i motivi per cui fu assassinato il Caiola. ”Il suo nome dimenticato non si trova nelle lapidi che ricordano la strage di Portella della Ginestra. Eppure la sua uccisione - avvenuta 70 anni fa a San Giuseppe Jato - è legata strettamente a quel I maggio 1947.Perché prima di essere un cadavere era un contadino. E oltre ad essere un contadino era stato uno dei testimoni "involontari" della tragedia che si consumò durante la festa del lavoro. Insieme ad altri 3 ragazzi ed una "donna di facili costumi" si era appartato a poca distanza dal pianoro dove la folla era radunata. Dopo le terribili sequenze dell'attacco agli innocenti, attratto dalle detonazioni, Caiola aveva scorto il gruppo di fuoco in ritirata e senza alcuna esitazione prese un mulo e fuggì per avvertire la forza pubblica. La sua poteva essere una "testimonianza-chiave" per individuare gli esecutori materiali della strage, eppure la sua voce non giunse mai nelle aule del processo di Viterbo. Perché la notte del 2 novembre 1947 veniva ucciso, con 5 colpi di arma da fuoco automatica, a poca distanza da casa sua, tra via Pergole e via Minghetti. I carabinieri e gli organi inquirenti esclusero subito ogni "pista politica" sull'omicidio, non pensarono minimamente di ricondurre il fatto di sangue al tentativo di bloccare le possibili rivelazioni in merito alla strage. Tutto fu spiegato e collegato - come divenne consuetudine in quegli anni - alla dubbia morale dell'uomo e alle sue strane abitudini sessuali, tanto che fu accusato, senza alcuna prova concreta, di essere un "pederastra attivo". Per spezzare questa infamia, che ha ucciso la sua memoria dopo la sua vita, occorre non dimenticare...



8 Novembre 1947 – Marsala (Trapani)
Vito Pipitone, sindacalista e segretario della Confederterra.


5 Dicembre 1947Agrigento
Una manifestazione di disoccupati fu repressa dalla Celere con l'uso di armi da fuoco. Venne ucciso un dimostrante e feriti gravemente 3 donne e un bambino

2 Marzo 1948 – Petralia Sottana (Palermo)
Epifanio Li Puma, dirigente delle lotte contadine, socialista e padre di 10 figli. Si era opposto all'ingresso dei mafiosi nella cooperativa "La Madre terra".




10 Marzo 1948 – Corleone (Palermo)
Venne ucciso il sindacalista Placido Rizzotto e anche in questo caso si cercò di insabbiare il movente politico. All’assassino aveva assistito il pastore tredicenne Giuseppe Letizia che fu ricoverato in stato di shock in ospedale. In ospedale morì sicuramente per essere stato avvelenato (tossicosi riferì il referto).



La reazione dell’opinione pubblica nazionale al delitto, spinse a malincuore i carabinieri e le forze dell’ordine ad includere il motivo politico tra i possibili moventi. Le forze dell’ordine preoccupate dal clamore a livello nazionale dell’assassinio, rimasero esitanti sulle motivazioni o sulle piste da battere forse “perché ricevettero delle indicazioni o veti in merito”. Nel verbale di denunzia del 3 aprile, il comandante della Compagnia dei carabinieri di Corleone, il capitano Filippo Rosati, insieme con il comandante della locale sezione dei carabinieri, Generoso Tozzo, scrisse che “«il movente […] è l’attività di organizzatore sindacale di Rizzotto esponente del Movimento contadino diretto alle occupazione delle terre incolte».
Una dichiarazione ben diretta ed inusuale che avrebbe condotto le indagini in una determinata direzione e cioè a chi si opponeva al movimento contadino.  Dichiarazione che fu parzialmente smentita nei successivi verbali. Nella dichiarazione del 20 maggio, rilasciata dal capitano Tozzo, che nel frattempo era diventato comandante della Compagnia dei carabinieri di Corleone al posto del Rosati) al giudice istruttore,  fu  evidente non solo un cambio di cariche ma anche un mutamento di opinione:  «secondo me, anche i familiari del Rizzotto […] hanno voluto prospettare il delitto come determinato da movente politico per avere, come hanno ottenuto dal Partito aiuto e soccorsi finanziari»
Il nuovo comandante della stazione dei Carabinieri, il maresciallo Maggiore Nicolò Accomando non fu da meno… non diede il movente politico ricercando le motivazioni del delitto nel passato sia della vittima che dei suoi parenti… un atteggiamento decisamente pilotato … il comandante disse al giudice istruttore:
«[…] visti i precedenti di Rizzotto Carmelo […] non è da escludere che la scomparsa del figlio (Placido) sia dovuta a qualche vecchio conto che si è voluto regolare».
Le indagini non tennero conto del contesto generale in cui si svolse l’omicidio di Rizzotto. Un contesto complesso.. Rizzotto era un sindacalista socialista; dirigente della Federterra; segretario della Camera del Lavoro locale e aveva guidato l’occupazione delle terre incolte a favore delle cooperative contadine. I compagni fecero notare l’importanza che aveva avuto all’interno del movimento e le minacce che aveva subito nei mesi vicini alle elezioni politiche.
La sua lotta politica .. grande e importante lotta politica, la sua lotta sindacale garantì alla cooperativa “Bernardino Verro” di Corleone la gestione di un intero feudo.
Era dedicata al primo sindaco socialista di Corleone. Dirigente contadino, nel 1892 durante il periodo dei Fasci Siciliani fondò il Fascio di Corleone. Bernardino Verro nel 1914 venne eletto sindaco e nel 1915 venne ucciso dalla mafia.  
Le cooperative stavano diventando dei luoghi sociali di opposizione alla classe agraria-mafiosa e allontanavano i gabellotti dai feudi.
Sfide mafiose nel territorio di Corleone tenuto da Michele Navarra e dal boss emergente Luciano Liggio che fu autore materiale del delitto.
L’eliminazione di Rizzotto non fu solo l’eliminazione di un dirigente di un importante e fastidioso movimento contadino che minacciava la mafia ma fu anche un messaggio politico.
Le dichiarazioni rese da Antonino di Palermo al giudice istruttore il 2 luglio 1950: “dopo la morte di Rizzotto molti iscritti al PSI di Corleone passarono al Partito Socialista
dei Lavoratori Italiani nato dalla scissione di Palazzo Barberini voluta da Saragat l’11 gennaio per uscire dall’alleanza social-comunista del Fronte Democratico Popolare (detto anche il Blocco del Popolo, che riuniva PCI e PSI). Vi erano motivazioni di carattere politico-mafioso che spingevano i socialisti a rompere il patto con i comunisti o a far passare il più possibile i contadini dal PSI al PSLI indebolendo elettoralmente il Blocco del Popolo. Il movimento contadino con la rottura o indebolimento dell’alleanza social-comunista ne sarebbe uscito provato. La ragione politica dell’uccisione dei socialisti durante la campagna elettorale del 1948 venne spiegata lucidamente da Pio La Torre nel 1976, nella sua relazione di minoranza alla Commissione antimafia. Le sue considerazioni in merito al rapporto tra uccisioni mafiose e politica nazionale meritano di essere riportate:
Nel corso di quella campagna elettorale [1948] furono compiuti alcuni dei più efferati delitti di mafia contro esponenti del movimento contadino siciliano. Vogliamo ricordare in modo particolare tre episodi: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia, Cangelosi a Camporeale, dirigenti contadini di queste tre zone fondamentali nella provincia di Palermo e socialisti. Perché tre socialisti? Gli assassinii si susseguirono a distanza di pochi giorni. Vi era stata la scissione socialdemocratica e il movimento contadino in Sicilia restava, invece, unito; occorreva, dunque, dare un colpo al movimento e da parte della mafia si sviluppò una campagna di intimidazioni verso i dirigenti socialisti”.
Liggio e gli altri due sicari mafiosi vennero assolti per insufficienza di prove. Il mandante, Michele Navarra, fu mandato al confino di polizia dopo che si riconobbe la sua pericolosità sociale grazie anche all’azione del giovane capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Quest’ultimo scrisse in una nota al giudice istruttore il 30 maggio 1950 che don Navarra «[…] è notoriamente, da alcuni anni, l’esponente di quella mafia corleonese cui vorrebbesi fare risalire la soppressione del sindacalista Rizzotto […]»  riportato in FIGURELLI, Michele, PANTANO, Linda, SGRÒ, Enza, op. cit., p. 42.  
 Ma il confino durò ben poco: in capo a qualche mese Navarra tornò a Corleone perché il provvedimento venne revocato. Rientrato in paese lasciò il partito liberale per avvicinarsi a quello democristiano. Quelle indagini si risolsero quindi con assoluzioni per insufficienza di prove e nessun colpevole venne condannato per l’omicidio di Rizzotto, del cui cadavere vennero trovati solo dei resti in una foiba (inghiottitoio, galleria verticale) nel 2009. Solamente il 9 marzo 2012 si ebbe la conferma che quei resti fossero effettivamente del sindacalista ucciso dalla mafia e il 24 dello stesso mese gli furono dedicati i funerali di Stato. L’uccisione di Rizzotto – insieme a quelle, nel 1948, degli altri dirigenti sindacali – erano dovute ad un disegno mafioso di arginamento e repressione del movimento contadino che con le occupazioni delle terre incolte metteva a rischio il potere mafioso. La repressione riguardò principalmente i partiti di sinistra aderenti al Blocco del Popolo in quanto maggiormente coinvolti nelle rivendicazioni del movimento contadino. Ma l’intreccio mafia-agrari e politica aveva iniziato a dare prova della sua crudeltà ben prima della campagna elettorale per le elezioni del 1948 e delle uccisioni mirate che servivano a scompaginare il movimento contadino e il partito socialista. La repressione agrario-mafiosa aveva già dato il suo massimo esempio di violenza anticontadina in quella che per molti versi è da considerarsi come la prima strage di Stato dell’Italia Repubblicana: la strage di Portella della Ginestra.


L'INGHIOTTITOIO DOVE FU TROVATO IL CORPO DI PLACIDO RIZZOTTO






30 Marzo 1948 : Pantelleria
A Pantelleria, una manifestazione contro l’iniquità delle sanzioni fiscali fu repressa dalle forze di polizia con l’uso di armi da fuoco che provocarono la morte di Antonio Valenza, Giuseppe Pavia e
Michele Salerno.

1 Aprile 1949 – Camporeale
Calogero Cangelosi, socialista e segretario della Camera del Lavoro di Camporeale. Il delitto era stato preceduto da intimidazioni e nel paese, dominato dal capomafia Vanni Sacco, si erano già registrati attentati a dirigenti del movimento contadino e l'incendio della sezione socialista. Il delitto rimase impunito



4 Aprile 1949 : Mazara del Vallo (Trapani)
 A Mazara del Vallo (Trapani), venne strangolato nella locale caserma dei carabinieri il bracciante Francesco La Rosa, che era stato convocato per un interrogatorio.

19 Aprile 1949: Mazara del Vallo (Trapani)
A Mazara del Vallo (Trapani), nel corso di una manifestazione di braccianti, la polizia aprì il fuoco uccidendo un contadino.

8 Luglio 1949 – Alcamo (Trapani)
Leonardo Renda, contadino, assessore e segretario DC nel comune di Alcamo

29 Novembre 1949 : Bagheria (Palermo)
A Bagheria (Palermo), nel corso di una manifestazione contadina, i carabinieri intervennero aprendo il fuoco e uccidendo la contadina Filippa Mollica Nardo.


Le occupazioni dei latifondi fino al 1949 erano simboliche cioè non avevano l’obiettivo di prendere il possesso reale del terreno. Era solo un messaggio rivolto alle commissioni affinchè valutassero le richieste di concessione dei terreni.
I contadini andavano in massa nei feudi per piantare una bandiera (il tricolore o magari un pezzo di stoffa bianca o rossa) e spesso si tracciava un solco con l’aratro o ancora si dissodava una piccola parte di terreno occupato. Successivamente si giunse all’occupazione vera e propria dove i contadini lavoravano i terreni gratuitamente. Terreni incolti, per mettere in evidenza la necessità di reddito e di lavoro alle autorità competenti.
Nonostante le occupazioni fossero pacifiche, al ritorno dai campi di lavoro e spesso negli stessi campi, le forze dell’ordine fermavano i manifestanti. Nel 1949 - 50 le occupazioni diventarono effettive con la semina dei campi, grano in particolare, sempre nei terreni non conferiti cioè non dati alle cooperative richiedenti. Ci sono dei verbali di deposizione in cui si leggono le motivazioni che spinsero i contadini ad occupare le terre.
A Campofiorito alcuni contadini interrogati per il reato di invasione dei terreni avvenuta il 15/11/1949, i carabinieri scrivono: “i soci della cooperativa “Lavoro Proletario” di Campofiorito più volti riuniti decidevano di occupare i terreni incolti o meni incolti, perché, pur avendo più volte richieste ai competenti organi, l’assegnazione delle terre alla predetta cooperativa, non erano mai stati accontentati.. hanno dichiarato concordemente di essersi portati alla località Giardinello procedendo alla occupazione reale di quella zona essendo tutti senza lavoro e disoccupati”.
(fascicolo 11 _ “Procedimento penale contro Alfano Giuseppe fu Francesco ed altri 41 imputati di invasione aggravata di terreni. Udienza del 13/12/1951 pp. 3-4,8)
Il processo per questo terreno, situato nel territorio di Corleone, mise naturalmente in evidenza le due posizioni contrastanti del proprietario e dei contadini. Da una parte le deposizioni dei contadini e dall’altra anche quelle dei proprietari e non mancano anche le relative dichiarazione dei testimoni oculari.
La scelta dell’occupazione nacque dal rifiuto della commissione che bloccò la possibilità di lavoro per i braccianti benchè sia stato accertato dai carabinieri che le terre in oggetto fossero abbandonate e incolte. Il proprietario a sua volta denunciò i contadini per invasione aggravata perché, secondo lui, i suoi terreni avevano subito un danno ingente causato dall’occupazione. I danni ingenti secondo il proprietario  erano legati: “ al dissodamento di terreni che non potevano essere dissodati, sia per ragioni culturali [sic], sia per motivi di teca [terra?] agraria, è stato anche costituito dal calpesto di grande numero di persone e rispettivi animali, nonché del pascolo di questi ultimi” (c.s. p. 13 – 14)
Alla dichiarazione del proprietario, che quel giorno non era presente all’occupazione, dei danni subiti e quindi da risarcire, facevano riscontro le dichiarazioni dei carabinieri che quel giorno sorvegliavano l’occupazione: “gli occupanti furono seguiti dai militari di questa stazione per accertarne luogo e sviluppo […]. Non furono commesse devastazioni o danneggiamenti di sorta». (c.s. p. 6)
Il carattere pacifico dell’occupazione fu comprovato dalla testimonianza di due testimoni, padre e figlio, che lavoravano in quel fondo e diedero una descrizione anche se sommaria degli eventi.
Il padre dichiarò che erano lì «quando ne fu eseguita l’invasione ad opera di oltre 250 persone, venute apposta da Campofiorito, con la bandiera in testa. Io lavoravo con mio figlio in prossimità delle case, dove non fui molestato da alcuno, e non ho conosciuto nessuno degli invasori, tra i quali vi erano molte donne […]» (c.s. p. 25)
Il figlio diede una dichiarazione quasi simile a quella del padre:  «non fu loro opposta alcuna resistenza, anche perché, per la verità, nessuna molestia essi diedero a me ed a mio padre, che continuammo a lavorare pei fatti nostri. [...] Nessun danno fu arrecato alle terre». (c.s. p. 28). 

Era un movimento organizzato e pacifico, consapevole delle ragioni che lo animavano e con un obiettivo chiaro e preciso: avere la possibilità di lavorare le terre incolte.. In un contesto come quello delle campagne siciliane in cui la soggezione paternalistica era la base dei rapporti tra contadino e proprietario, l’uso di una bandiera per un atto simile era un tentativo di spersonalizzazione del conflitto che eliminava ogni tipo legame (di paura, di sottomissione, di riverenza…) personalistico con il proprietario da contestare.
Nonostante le varie testimonianze delle forze di polizia come dei testimoni civili che confermavano il non danneggiamento delle terre occupate, il proprietario dichiarò: «il danno arrecato al fondo è di circa lire trentamila. Chiedo la punizione dei colpevoli». L’esplicita richiesta di punizione dei colpevoli lascia intendere una volontà di rivalsa verso l’insubordinazione contadina. A fronte di queste dichiarazioni e testimonianze il Pubblico Ministero rinviò a giudizio gli imputati per invasione aggravata. Nell’argomentare la sua decisione il PM spiegò:
“la circostanza che trattasi di terre incolte ed abbandonate a pascolo, anche se sussistente, non influisce sulla configurazione attribuita al fatto. […] Irrilevante è che la permanenza degli invasori nel fondo si sia protratta solo per poche ore e che l’attività degli imputati si sia limitata al dissodamento […] “. (Il Pubblico Ministero poteva rinviare a giudizio in quanto era ancora in vigore il codice di procedura penale Rocco del 1930. Prima di questa data il PM aveva potere inquisitorio e poteva decidere il rinvio a giudizio o l’assoluzione).  



Il fatto che le terre occupate dai contadini fossero incolte non venne considerato come un elemento da tenere presente in ambito giudiziario, quando in realtà fu centrale per comprendere le motivazioni dell’occupazione da parte di braccianti disoccupati. In questo caso l’occupazione si svolse in maniera ordinata e benché si fossero generate delle ripercussioni legali contro i contadini, non si può parlare di uno scontro diretto con le forze dell’ordine, che anzi si assicurarono del corretto svolgimento dell’occupazione. Ma non sempre le occupazioni dei latifondi si svolsero così serenamente.



PIO LA TORRE IN UN COMIZIO A PALERMO








ABBAZIA DI SANTA MARIA DEL BOSCO




Un latifondo esteso circa 2000 ettari. La sera al rientro, i manifestanti vennero fermati dalla polizia che era stata inviata dal prefetto di Palermo,  Angelo Vicari,  sicuramente su direttive di Scelba.  La forza pubblica inspiegabilmente aprì il fuoco. La tensione era molto alta anche perché legata al comportamento del prefetto che voleva scorporare i 3000 ettari di terre incolte che erano state seminate dai contadini durante la stagione precedente. Il prefetto voleva altresì riconsegnare i terreni, con i relativi prodotti, ai proprietari e fare decidere agli stessi proprietari quali terreni dare in concessione ai contadini. Una strana posizione quella del prefetto che mostrava un comportamento filo-padronale e che giustamente trovava una ferma opposizione da parte dei contadini. Ci furono degli scontri e dalle testimonianze apparve subito evidente come la polizia abbia cercato in tutti i modi lo scontro. Forze di polizia che erano comandate dal commissario Panico e che si lasciarono andare ad azioni di vera violenza.
I contadini furono arrestati e portati nel carcere borbonico dell’Ucciardone e le loro deposizioni misero in rilevanza la forte tragicità di quell’azione. Un contadino, Gioacchino D’Accursio, lasciò questa dichiarazione che fu decisamente molto importante:
[…] Udii per prima gridare le donne, e poi il clamore si fece generale. […] I militari sparavano contro la folla. Io vidi alcuni di questi puntare le armi contro la folla e sparare a ventaglio […] Noi avevamo solo arnesi da lavoro […]”.
La polizia, probabilmente reparti della Celere, mostrarono sempre, in qualsiasi parte del territorio nazionale, una grande avversione ai movimenti contadini a tal punto da sparare anche ad una folla di donne e uomini disarmati. La deposizione del contadino non rilevò  come iniziarono quegli scontri e quale fu la causa scatenante che spinse la polizia in un simile comportamento cioè ad usare le armi contro i civili anziché mediare.
Un’altra testimonianza venne riportata dall’assessore comunista di Bisacquino, Nicola Sicula, che era presente all’occupazione e dichiarò:  “ […] il La Torre andò incontro al tenente, seguito da me, e disse subito che il corteo stava per sciogliersi […] il Commissario disse alle donne di abbassare le bandiere. Una donna rispose – questo mai ! – […]. Ne seguì una colluttazione […] vidi i carabinieri che erano sui camion precipitare a terra sparando ed avanzando per caricare la folla […]”. 

Da queste dichiarazione risaltò un elemento importante : la presenza delle donne che tende a mettere in risalto l’aspetto non violento della manifestazione e della relativa occupazione.  Nei latifondi hanno i bambini accanto e la loro presenza era un aspetto molto importante che non fu mai preso in considerazione dalla polizia di Scelba… quella della mediazione !!!!. Queste donne con la loro presenza furono il primo segnale per quella che sarà la loro emancipazione nel tessuto sociale siciliano. Infatti a Palermo, nel 1953 ci fu il primo congresso regionale delle donne siciliane .  «con oltre 1.500 delegate elette dalle donne di tutta la Sicilia».
Nonostante la lotta del movimento per l’applicazione delle leggi dello Stato, lo stesso movimento venne condannato dai processi che si svolsero per le occupazioni dei latifondi. I dati che si possono reperire dalle carte del Comitato Regionale di Solidarietà Democratica indicano che, considerando complessivamente le lotte per la riforma agraria, «i contadini denunziati furono 3.185, quelli assolti 386, quelli processati 2.323, e condannati complessivamente a 293 anni e 36 mesi di reclusione e 7.543.280 lire di multe».
«Dal 1949 al 1955 nelle lotte in difesa delle libertà civili nella sola provincia di Palermo vi furono 884 lavoratori arrestati o fermati, 5.065 denunziati all’autorità giudiziaria, 1.886 condannati per 681 anni di carcere. Negli stessi anni in tutta la Sicilia vi furono 2.916 lavoratori arrestati o fermati, 7.708 denunziati, 4.960 condannati, per 1.330 anni di carcere». 
I feudatari erano allarmati …il loro potere economico e sociale era in pericolo sotto i colpi delle azioni dei movimenti contadini. La situazione sociale nell’isola subito dopo la guerra era molto instabile e questo permise ai mafiosi di aumentare il loro potere sociale. Mafiosi che nello sbarco alleato avevano avuto un ruolo primario. Charles Poletti mise diversi capimafia ai vertici amministrativi dei ari comuni dell’isola e questa fu la loro prima legittimazione storica.
È naturale chiedersi per quale motivo gli alleati, certo gente non inesperta, consideravano i capi mafia così importanti.  I motivi possono essere molteplici: la conoscenza del territorio; il banditismo dilagante e sempre più minaccioso e forte;  l’accordo con l’aristocrazia locale, i grandi proprietari terrieri  proprietari che vedevano nella mafia un valido aiuto sia contro il banditismo e le rivendicazioni dei contadini. Ma la mafia vedeva con preoccupazione il movimento contadino, in termini di autorità, e decise che doveva essere annientato con qualsiasi azione. Al gabellotto mafioso  erano assoggettate, con estrema riverenza, le classi povere dei contadini.







GEBALLOTTI







Il movimento contadino colpiva il potere dei gabellotti. I proprietari terrieri decisero di affidare le loro vaste proprietà proprio ai gabellotti creando con loro un forte e duraturo rapporto di collaborazione.
Nacque un vero blocco agrario- mafioso : «un fronte comune per fronteggiare il nemico di sempre: il movimento dei contadini». Un blocco che si sviluppò in modo particolare nella Sicilia occidentale dove vennero arruolati, come un vero e proprio esercito diventando i “ campieri di fiducia dei latifondisti”.
Esempi ? Tanti…..
La nomina di Calogero Vizzini, uno dei più potenti capimafia dell’epoca, come gestore dell’immenso feudo Miccichè della principessa di Trabia, Giulia Florio D’Ontes.


VILLALBA - FEUDO E FATTORIA MICCICHE'




Feudo che in parte incolto ed abbandonato fu richiesto con insistenza dai contadini poveri del paese che si erano riuniti nella cooperativa “Libertà”.  Vizzini riuscì a riprendere quel terreno che aveva gestito anni prima e che aveva dovuto abbandonare durante il fascismo a causa della repressione di Mori. I  capimafia presero la gestione di un gran numero di feudi… altri esempi ?
-           Giuseppe Genco Russo ebbe in gestione il feudo dei principi Lanza di Trabia;
-          Vanni Sacco, capomafia di Camporeale, ebbe in gestione il feudo Parrino;
-          Luciano Liggio, gabellotto di un feudo dalle parti di Corleone malgrado avesse già “un mandato di cattura per essere stato accusato di gravissimi reati” . 
-          Ogni feudo il suo gabellotto .. mafioso… di riferimento.

Il movimento contadino, almeno quello ben organizzato, non si arrese e la mafia passò ben presto ad azioni delittuose e a continue minacce. Le sedi dei partiti di sinistra furono spesso presi d’assalto. Azioni che avevano come obiettivo mandare un messaggio verso quelle masse contadine in particolare nei paesi dell’interno. Azioni con minacce ben studiate… si colpiva in modo particolare i dirigenti socialisti per indurli a rompere il loro patto d’alleanza con i comunisti… frantumare il movimento social-comunista molto vicino alle masse contadine. I giornali dell’epoca..”La Voce della Sicilia” e “l’Ora” riportavano nelle pagine notizie di attentatati, minacce e sparatorie contro i dirigenti del movimento contadino, dei partiti di sinistra e dei movimenti sindacali. 
La parola d’ordine era : “stroncare il movimento contadino con qualunque mezzo”.
In questo contesto, a dir poco drammatico, ci fu l’attentato di Villalba del 16 settembre 1946… un vero e proprio atto di guerra da parte della mafia ai partiti di sinistra.
Fu organizzato un comizio del partito comunista e questo non andò molto a genio ai capimafia… perché Villalba era il paese del capomafia Vizzini. L’oratore era Girolamo Li Causi, segretario del partito in Sicilia. Li Causi naturalmente durante il comizio parlò del patto tra agrari (latifondisti) e mafiosi e prese ad esempio il feudo Miccichè che era gestito, come abbiamo visto, proprio da Vizzini.





GIROLAMO LI CAUSI



DON CALOGERO VIZZINI




DON CALOGERO VIZZINI NOMINATO SINDACO DAGLI AMERICANI




Vizzini rispose subito all’attacco…. Come ?  Ci fu una sparatoria nella piazza del comizio a cui prese parte….. è assurdo…. anche il sindaco democristiano di Villalba, Beniamino Farina, nipote di Vizzini, che lanciò una bomba a mano contro i comunisti.
“Li Causi si reca nella tana del lupo e don Calò Vizzini risponde alla sfida con i suoi mezzi e il suo lunguaggio”.
Ma cosa evidenziò l’attentato ? Non ‘c’era solo una risposta alla minaccia di sinistra e alle rivendicazioni dei contadini ma si evidenziò un pericoloso intreccio tra la mafia ed alcuni esponenti politici della Democrazia Cristiana. Una presenza che diventò una costante della politica siciliana. Naturalmente i giornali comunisti rilevarono ad ampie righe questo aspetto e Bernardo Mattarella, dirigente della DC, contestò le accuse dei comunisti sul giornale “Il Popolo” .
Nell’editoriale del 24 settembre difese il suo partito…. Il partito di Don Sturzo, e riuscì addirittura a ridimensionare o sminuire il carattere politico dell’attentato mafioso. Cosa disse ?  Per Mattarella “il conflitto a fuoco era causato da faide tra famiglie rivali e non da motivazioni politiche per contrastare o reprimere i comunisti”.
Naturalmente non era dello stesso avviso il partito socialista che dichiarò:
La provincia di Caltanissetta è da un anno praticamente nelle mani dei democristiani. Perché le cricche reazionarie, latifondiste, fasciste e mafiose hanno potuto continuare a dominare indisturbate? […] È la tradizione: la mafia siciliana può vivere al patto d’essere favorita dalle Autorità. Il partito democristiano si prepara ad ereditare questa funzione, che fu in altri tempi dei partiti sedicenti democratici liberali”. (La Voce Socialista» del 7 ottobre 1944). 
Il comportamento delle forze dell’Ordine che avevano il compito di presidiare il territorio…?
E’ facile intuirlo…. Un connubio con il potere mafioso e con la Dc. In un documento dell’Office of Strategic Service  si riesce a leggere il grado di accordo e di convivenza, di protezione reciproca tra il potere mafioso, i Carabinieri e la Pubblica Sicurezza: “ la Pubblica Sicurezza e i Carabinieri sono apertamente favorevoli all’improvviso interesse dell’alta mafia per la situazione della legge dell’ordine e volutamente evitano di investigare sugli omicidi dei suddetti fuorilegge”. ( L’alta mafia combatte il crimine» del 5 aprile 1945, riportato in CASARRUBEA  )

I numeri delle vittime… altissime… da vera e propria guerra civile.
Ci furono 52 vittime in un arco di tempo che va dal 1944 al 1960 secondo le stime della regione Siciliana che li riconobbe come vittime di mafia. Dirigenti politici, sindacali che vennero uccisi per il loro ruolo importante nelle lotte contadine.
Ma c’è da fare un precisazione….
Non sono considerati gli attentati alle sedi, ai raccolti agricoli, ai comizi e senza tenere conto dei feriti e di coloro che persero la vita pur non avendo un ruolo importante  nella dirigenza o uccisi per sbaglio a causa delle sparatorie o non riconosciute come vittime di mafia…. Insomma cifre altissime come già detto da guerra civile.
Ma ancora non ho finito….alle vittime riconosciute come di mafia è necessario aggiungere anche quelle persone che furono uccise dalle forze dell’ordine durante le manifestazioni o le contestazioni più dure.
Ci furono dei processi contro gli assassini dei dirigenti del movimento ma con relativa scarsità di condanne. Molti di quelle uccisioni restarono impunite.
Come fa notare lo storico, il ruolo di copertura di alcuni esponenti dello Stato agli attacchi mafiosi è un’ipotesi già analizzata da Casarrubea.

La tesi proposta da Casarrubea dimostra il legame con vari esponenti dell’OSS e dei gruppi neofascisti con il banditismo siciliano e la mafia in vista del contenimento e della repressione dei movimenti di sinistra. Il personaggio che garantì l’accordo tra questi due poteri fu l’ispettore capo delle forze dell’ordine in Sicilia Ettore Messana, «di fatto un anello nevralgico del blocco reazionario in Sicilia». (in CASARRUBEA, Giuseppe, Storia segreta della Sicilia, cit., p. 96.)


IL COMMISSARIO DI PS ETTORE MESSANA CON ALCIDE DE GASPERI

 Il ruolo di Ettore Messana sembrò essere centrale in questo accordo tra polizia e mafia, «che servì a garantire l’impunità negli attacchi neofascisti e mafiosi contro la sinistra».  
(L’ispettore Ettore Messana… un altro criminale di guerra, responsabile di stragi di Stato. Il suo marchio di violenza ha radici lontane, nel 1919, a Riesi, in Sicilia, dove ordinò di sparare contro i contadini dopo un fallito tentativo di occupazione delle terre: 15 morti. Collaboratore del Sim, il Servizio segreto militare, questore di Lubiana e poi di Trieste fu responsabile, nella seconda guerra mondiale, di rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, violenze contro gli sloveni e gli ebrei. Il suo agire parve eccessivo persino al generale Mario Roatta che non era un agnello, iscritto anche lui, come Messana, nella lista dei criminali di guerra delle Nazioni Unite per la condotta repressiva contro i civili in Jugoslavia).
Il depistaggio e lo sviamento delle indagini furono delle costanti in tutti i processi riguardanti l’uccisione dei dirigenti per mano dei sicari mafiosi.  Anche se i sospetti miravano ai feudatari mai nessuno di loro fu indagato. Le indagini delle forze dell’ordine furono sempre mirate a cercare qualcosa nella vita del dirigente ucciso e quindi nel suo passato, nelle sue inimicizie, odi di paese… tutte piste che avevano come obiettivo di allontanare il delitto dal movente politico o mafioso. Si cercò dimettere in risalto i problemi, anche minimi, avuti nella vita passata dell’ucciso per dare risalto a motivazioni di vendetta personale. Un movente politico o delitto di mafia avrebbe creato problemi immensi come la rottura di equilibri tra la stessa mafia e la politica.


17 Gennaio 1951 : Adrano (Catania)
La polizia aprì il fuoco sui militanti di sinistra che protestavano contro la visita di Eisenhower, uccidendo Girolamo Rosano, bracciante ( 19 anni) iscritto alla Cisl e ferendo altre 11 persone fra i quali, in modo grave. Francesco Greco (16 anni). Una donna morì per attacco cardiaco, poco dopo la sparatoria. La prima carica, con uso di armi da fuoco, davanti alla Camera del Lavoro dove i manifestanti si stavano concentrando; la seconda contro il corteo, effettuata con mitra e lacrimogeni. Secondo il quotidiano "L’Unità" si sarebbe sparato anche dal balcone di tale Filadelfio Cancio, iscritto al Msi e dell’avvocato Danielo, già segretario del Fascio.

18 Gennaio 1951 : Piana degli Albanesi (Palermo)
A Piana degli Albanesi, i manifestanti che protestavano contro la visita del generale Eisenhower, al grido di "non daremo i nostri figli alla guerra americana" e "via lo straniero", vennero caricati dai carabinieri con bombe lacrimogene. I dimostranti riuscirono a spegnerle e continuarono la protesta. Il maresciallo dei carabinieri, a questo punto, ordinò il fuoco e un milite sparò al bracciante Domenico Lo Greco, padre di 4 figli che, portato in ospedale, morì qualche ora dopo.

7 Agosto 1952 – Caccamo (Palermo)

Filippo Intile, contadino e dirigente della Camera del Lavoro di Caccamo, fu ucciso in campagna a colpi d'accetta. Voleva dividere il prodotto dei campi che aveva a mezzadria al 60% per il mezzadro e il 40% per il proprietario, in base a un decreto del ministro Fausto Gullo dell'ottobre 1944. A molti anni dal decreto agrari e mafiosi pretendevano di dividere ancora al 50%.


17 Febbraio 1954 : Barrafranca (Enna)
I carabinieri spararono contro i partecipanti ad una manifestazione contadina, uccidendo un bambino di 5 anni.

17 Febbraio 1954 – Mussomeli (Caltanissetta)
I carabinieri e le forze dell’ordine intervenirono per sedare una manifestazione di circa 2500 persone, per lo più donne. I Motivi ? La mancanza d’acqua da circa sei giorni e le pretese  dell’Ente Acquedotti di Sicilia di riscuotere ugualmente le bollette… piuttosto “salate….”.
Era circa mezzogiorno e la folla protestava contro il sindaco reclamando  “reclamando l’immediata revoca del contratto “ stipulato nel 1952.
Il sindaco di allora, l’avv. Giuseppe Sorce, si rifiutò categoricamente di adempiere alle richieste della cittadinanza. Cominciarono a volare dalla folla sassi contro il balcone e le finestre del Municipio. L’agitazione tra i dimostranti era alta e il comandante dei Carabinieri, dopo una breve consultazione con il sindaco, intimò alla fola di disperdersi… in poche parole di sgombrare la piazza. Le sue parole furono vane e fu a questo punto che le forze dell’ordine lanciarono dei candelotti lacrimogeni per disperdere la grande folla davanti al Municipio.



Il fumo, l’odore acre, forse anche il timore di bombe.. generò il panico. La folla  nella fuga si accalcò lungo la strettoia di Via della Vittoria…..una piccola viuzza che era l’unica via d’uscita della piazza… una stradina larga appena tre metri.
Fu un massacro… La terribile calca causò la morte di quattro persone tra cui tre donne e di un giovane che morirono schiaciati::
-          Vincenza Messina, di 25 anni, madre di 3 bambini ed in attesa del quarto;
-          Onofria Pellitteri, di 50 anni, madre di 8 figli;
-          Giuseppina Valenza di 72 anni;
-          Giuseppe Cappalonga di 16 anni. Era andato in piazza a prendere la sorellina per riportarla in casa.
Nove i feriti, ma la cifra mi sembra sottostimata, tra cui un bambino di 7 anni, Baldassare Mistretta, ferito in modo grave con il cranio gravemente lesionato.

Il giorno prima della strage cittadini si erano recati al Comune per protestare contro la mancanza d’acqua.. l’acqua mancava da sei giorni ed anche le fontane pubbliche erano all’asciutto.
Il Consiglio Comunale aveva deliberato il 25 settembre 1952 (un anno prima della strage) di affidare all’Ente Acquedotti Siciliani (EAS) la gestione della distribuzione idrica nel paese.. im poche parole affidare l’acquedotto municipale all’EAS.  In quel consiglio ci fu solo un voto sfavorevole alla delibera e fu quello del consigliere del MSI (Movimento Sociale Italiano). Fu stabilito anche un canone annuo di 3.125 lire e l’EAS avrebbe garantito “ 8 ore d’acqua tutti i giorni ed entro un anno un erogazione di 24 ore su 24

Non solo ‘acqua non era arrivata ma il messo comunale aveva cominciato a notificare ai cittadini le bollette esattoriali per il pagamento del consumo d’acqua per gli ultimi due anni.. bollette da pagare all’EAS….. Doveva pagare anche chi non aveva ancora l’acqua corrente a casa e .. atteggiamento mafioso da parte dell’EAS…  conteggiava 800 lire l’anno perchè andava a rifornirsi d’acqua per strada cioè nelle fontanelle pubbliche.
Naturalmente in questo clima di contestazione,,, di malumore,,, il sindaco era il capo espiatorio … Sindaco che aveva promesso risposte chiare il giorno dopo in merito alla sospensione del pagamento e alla  revoca del contratto di gestione con l’EAS.
Il sindaco Sorce l’indomani, cioè quel tragico 17 febbraio,,, anche il numero sembra voler fare presagire qualcosa di tremendo che sta per verificarsi, non si fece trovare in Municipio.. si era rifugiato in Pretura ed aveva ordinato al maresciallo dei Carabinieri, Giuseppe Sturiale di “procedere d’autorità a disperdere i dimostranti dalla piazza”.


Il Governo riferì alla Camera dei Deputati il giorno dopo gli avvenimenti.. con questa versione ufficiale:
“ Furono lanciati 7 candelotti di lacrimogeni contro la folla, i dimostranti impauriti sbandarono e cercarono rifugio tra la via della Vittoria e Piazza Chiaramonte.. lì per un tragico caso si trovava un giovane manovale, Francesco Spoto, che portava un regolo di legno per muratori lungo 4 metri e larco 3 centimetri. Malamente il regolo di legno, dato che allo sbocco di via della Vittoria si aveva un punto largo poco più di tre metri, rimase all’estremità attaccato al muro. Sull’otstacolo inciamparono e venivano travolti decedendo sul posto:  Giuseppa Valenza,  Vincenza Messina, Giuseppe Cappalonga e Onofria Pellitteri”.

La versione ufficiale della perizia medica fu la seguente: “le persone son decedute a causa dello schiacciamento. Nessuna delle vittime presentava lesioni esterne riportabili a ferite d’arma da fuoco o da taglio”.
Quello stesso giorno si presentava alla Camera per la fiducia il nuovo Governo che era presieduto da un siciliano, l’unico a ricoprire questa carica nella storia repubblicana… chi era ?   Mario Scelba… l’assassino.
Tristemente famoso nei primi anni del dopoguerra da Ministro degli Interni per la sua feroce repressione poliziesca delle manifestazioni operaie e contadine. In queste manifestazioni i reparti della “Celere” avevano sparato spesso sulla folla provocando numerosi morti e feriti.
Quando Scelba prese la parola, dopo un dibattito infuocato in cui tutti i partiti avevano chiesto al Governo di individuare con chiarezza le responsabilità di quello che era accaduto, tutti i deputati dell’opposizione, dopo un intervento di Togliatti,  lasciarono l’aula in segno di protesta.
In Italia il conflitto sociale si manifestava in modo aspro, forte  nel dopoguerra. Il costo di questo conflitto pesava sulle spalle dei più poveri, dei lavoratori del Sud, dei contadini che avevano lottato per la riforma agraria e degli zolfatari che si asserragliavano in sciopero per settimane nel sottosuolo per qualche lire in più di salario al giorno.
A Mussomeli era stata epica la battaglia per l’assegnazione del feudo di Polizzello, in cui i gabelloti mafiosi accolsero con i mitra  spianai la marcia dei contadini per quotizzazione, cioè divisione, del latifondo.
Nelle aule del parlamento quel conflitto sociale si trasformò in una battaglia politica ad alta tensione. I leader dei partiti s’impegnarono sui problemi delle periferie del Paese e l’eco delle lotte della povera gente risuonava nelle aule  del Parlamento e scandiva i tempi dell’”agenda politica”, molto diversamente da quanto avviene oggi… vero Gentiloni e compagnia ?

Il dibattito della Camera del 3 giugno 1954 sui fatti di Mussomeli, su sollecitazione di tanti gruppi politici, avrebbe fatto emergere  trame inquietanti dietro alla strage  per l’acqua del febbraio.
“Chi è il sindaco di Mussomeli,  chiese il quella seduta il deputato nisseno Guido Faletra – E’ un uomo di  paglia della mafia, messo a quel posto, non per tutelare  e difendere l’interesse dei suoi concittadini ricchi e poveri e di qualunque colore politico, ma per vigilare affinchè l’interesse degli agrari e della mafia non venga leso”.


Le famiglie delle vittime della strage del 17 febbraio ’54 citeranno in giudizio il Ministro degli Interni il siciliano Mario Scelba, il sindaco di Mussomeli Giuseppe Sorce e il comandante della Stazione dei carabinieri il maresciallo Giuseppe Sturiale responsabili, secondo i parenti, dell’eccidio.
Qualunque sia la versione dei fatti e la verità giudiziaria, un fatto è certo: le donne e i bambini di Mussomeli si erano recati dal sindaco per chiedere l’acqua che da 6 giorni mancava e chiedere la revisione del canone di quell’acqua che essi non avevano. Non chiedevano la terra, non chiedevano il mutamento di un antico ordine sociale, ma solo uno degli elementi che stanno a fondamento della stessa vita degli esseri umani: l’acqua.







Seguirono 44 arresti e il relativo processo.
Al processo venne ascoltato il maresciallo Giuseppe Sturiale che precisò: “Non mi è venuto in mente che il lancio dei candelotti potesse provocare un panico di tale portata fra la popolazione“.
Il sindaco Giuseppe Sorce, invece, si limitò a ricostruire la vicenda burocratico-ammistrativa dell’acqua in paese.
Un processo paradossale dove le indagini furono condotte dallo stesso maresciallo che causò la strage…. Con carabinieri che in aula sbagliavano nell’indicare i manifestanti che dovevano dire di riconoscere.
Il collegio di difesa dei parenti delle vittime composto da principi del foro della Sicilia (Giuseppe Savagnone, Vincenzo Terenzio, Michelangelo Salerno, Vincenzo Vizzini, Salvatore Arcarese, Francesco Spataro, Filippo Siciliano, Matteo Sanfilippo). Un  gruppo di avvocati guidati
da Umberto Terracini ( il Presidente dell’Assemblea Costituente che mise la sua firma in calce alla Costituzione), senatore comunista, giunto da Roma e  che il partito aveva deciso di inviare in aiuto dei compagni di Mussomeli.
Il Pubblico Ministero era Gaetano Costa che fu ucciso dalla mafia  a Palermo il 6 agosto 1980.


(Antonino Cassarà – Roberto Antiochia – Gaetano Costa)
(Gaetano Costa era Procuratore Capo di Palermo. Fu ucciso dalla mafia
Perhè aveva firmato dei mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola che alcuni suoi colleghi ed altri funzionari si erano rifiutati di fermare. Il delitto venne ordinato dal clan mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo).

Gli imputati confermarono la loro innocenza. Alcuni imputati dichiararono che non si trovavano in piazza in quel fatidico giorno ed altri di non aver preso parte alla dimostrazione pur trovandosi nelle vicinanze. Il maresciallo, Giuseppe Sturiale, interrogato sugli avvenimenti rispose che “la folla avrebbe di certo invaso il minicipio si i suoi uomini non l’avessero fermata in tempo…Non è mi venuto in mente che il lancio dei candelotti potesse provocare un panico eccessivo fra la popolazione».
La difesa cominciò ad interrogare il maresciallo con domande pressanti… continue: “quali precise disposizioni sono state date alle guardie? Quanto tempo è passato tra l' ultima intimidazione e il lancio dei lacrimogeni? Sono state lasciate ai manifestanti effettive possibilità di deflusso? “.
Venne interrogato il Sindaco che si limitò a ricostruire la vicenda dell’acqua dal punto di vista burocratico-amministrativo.
Furono chiamati a testimoniare i carabinieri che in quel giorno si trovavano in piazza e che dovevano riconoscere alcuni imputati (chiusi in gabbia). Momenti di confusione…un carabiniere sbagliò nell’individuazione. Questo provocò una polemica furiosa sull’attendibilità dei riconoscimenti effettuati.  Ci furono delle vivaci contestazioni sia da parte della difesa che del pubblico. Il presidente Piscitello fu costretto più volte costretto a fare uscire dall’aula il pubblico.
Il collegio di difesa chiese ed ottenne l’effettuazione di un’ispezione sui luoghi della strage. Si voleva dimostrare che poiché “l’edificio comunale aveva altri ingressi, la folla avrebbe potuto accedervi dalle entrate secondarie.. sempre se avesse avuto veramente l’idea di assaltare il Municipio”.
Il Pubblico Ministero  con una dura requisitoria cercò di fare leva “ sulla disobbedienza della folla ai richiami dei carabinieri, sugli insulti pesanti e reiterati, e sulla resistenza aggravata culminata in una pericolosa sassaiola”.
Il PM Costa avanzò la richiesta di condanna a 5 anni e 9 mesi. Il difensore palermitano Di Matteo ribadì “ la mancanza di prove sufficienti a carico degli imputati, individuati peraltro con criteri discutibilissimi»;  l' avvocato Terenzio si “soffermò  sulle oggettive difficoltà di sbocco dei manifestanti dalla piazza”. Venne anche eccepito “il reato di resistenza e si insistè sul fatto che le pietre furono lanciate contro l' edificio comunale, non contro i carabinieri”. Terracini ripercorse tutte le fasi della vicenda, indugiando sulle “responsabilità dell' Eas”.  Alla fine, dopo il riepilogo delle tesi difensive da parte dell' avvocato Trigona della Floresta, il quale contestò “i capi d' imputazione e invitò tutti ad abbandonare demagogia e speculazioni di parte», il collegio giudicante si ritirò in camera di consiglio. Il verdetto arrivò dopo tre ore: 27 condanne, 17 assoluzioni. La pena più pesante - 9 mesi di reclusione - venne inflitta al segretario della Camera del lavoro di Mussomeli, Salvatore Guarino che forse quel giorno non era in piazza. Il caso diventò politico. A sinistra parlarono di «autentica punizione politica». Degli imputati condannati quasi tutti erano comunisti, con tanto di tessera del partito. Le polemiche non si placarono, e volarono pesantissime accuse nei confronti del ministro Scelba. Eppure in appello, il 22 luglio 1955, la sostanza della sentenza - che giustificava l' operato del maresciallo dei carabinieri e del sindaco - non cambiò. E l' anno dopo la Cassazione rigettò definitivamente il ricorso dei condannati.

La sentenza era scontata… si dovevano tutelare il Sindaco e il Maresciallo dei Carabinieri…
Quelle condanne e la conferma in appello determinarono a Mussomeli , per anni, un “epurazione politica”… Decapitato il movimento sindacale e politico dei contadini e fallita la riforma agraria, ci f a Mussomeli un forte ondata di emigrazione che avrebbe portato lontano migliaia di famiglie e lavoratori.
Nell’estate del 1954, morto a Villalba Don Calogero Vizzini,, il suo posto venne preso dal “capo dei capi” della mafia siciliana che era proprio di Mussomeli… Giuseppe Genco Russo. Il “capo dei capi” era stato già nominato sindaco di Mussomeli dagli anglo-americani nel 19434 e che nel 1960 sarebbe stato eletto consigliere comunale e assessore nella lista della    Democrazia Cristiana.


GIUSEPPE GENCO RUSSO


Dopo 56 anni, costa ancora più l’acqua che il pane!
Sembra incredibile, ma a Mussomeli dopo 56 anni, uno dei principali problemi rimane ancora l’acqua! Si aspetta l’acqua come una grazia del cielo e non come un diritto ad un bene comune. Un referendum recente, già dimenticato dai nostri lestofanti, ha persino stabilito che debba essere un bene gratuito.


31 Marzo 1954 : Mussomeli (Caltanissetta)
A distanza di poco più di un mese dall’eccidio, 2.300 poliziotti invasero Mussomeli (Caltanissetta) perquisendo decine di abitazioni ed operando una sessantina di arresti.
Arresti che colpiscono anche i familiari delle vittime, manifestanti e anche  coloro che si erano adoperati per evitare il massacro o l’avevano denunciato:   i consiglieri comunali Calogero Amico e Vincenzo Consiglio, comunisti; il segretario della Cdl Salvatore Guarino ed il consigliere democristiano Giovanni Vullo che aveva sottoscritto un dettagliato esposto alla Procura della Repubblica.
Gli arrestati sono accusati di “adunata sediziosa ” e  “di aver assaltato il Municipio minacciando di invaderlo”……..che lestofante quel Scelba…..
In seguito a questo avvenimento alla camera  dei deputati..”Così Mussomeli è stata punita una seconda volta, dopo i morti e i feriti , affermò il deputato Calderone proprio alla Camera dei Deputati – punita la popolazione di Mussomeli per avere osato protestare contro l’ingiustizia atroce, contro il danno e la beffa di dovere pagare profumatamente quell’acqua che essi non avevano avuto!”.

19 Ottobre 1954 : Caltanissetta
A Caltanissetta, venne emessa dal Tribunale una sentenza per i fatti di Mussomeli dei quali furono chiamati a rispondere, anziché le forze di stato responsabili dell’eccidio, 35 cittadini che manifestavano per la mancanza d’acqua. Fu condannato il segretario della Camera del Lavoro Salvatore Guarino a 9 mesi e 15 giorni di reclusione per ‘oltraggio aggravato’.  Con la medesima imputazione furono comminate condanne da 6 a 8 mesi per Francesco Catania, Salvatore Mancuso, Diego Seminatore, Vincenzo Russo, Antonino Collura, Calogero Castello, Michele Noto, Nicola Cardinali, Alfonso Caruso, Calogero Amico, Vincenzo Consiglio, Vincenza Randasso, Vincenza Giovino, Calogero Immermano, Giuseppe Savia, Vincenzo Lobrutto, Giuseppe Di Liberto, Marcangelo Lo Presti, Salvatrice La Rocca, Giuseppe Bonfanti, Calogero Castello, Gaetano Barba, Eraldo Martinassi, Giovanni Calà, Concetto Evelino, Angela Torquato, Giovanna Giovino.

31 Dicembre 1954 : Dati…
Secondo stime dello storico Sereni, la repressione di classe nel periodo 1 gennaio 1948-31 dicembre 1954 fornì il bilancio che segue: 75 morti, 5.104 feriti, 148.269 arrestati, 61.243 condannati a 20.426 anni di carcere e 18 condanne all’ergastolo. I dati sono parziali perché riferiti a 38 province.




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