I CASTELLI DI MAZZARINO - PERLA DEL BAROCCO SICILIANO


Mazzarino – Provincia di Caltanissetta
Dal sito: http://archivio.blogsicilia.it/tagli-alle-province-da-lunedi-chiusi-alcuni-uffici-a-mazzarino/



Il centro di Mazzarino, posto nel lembo interno e collinare della provincia Nissena, tra Caltanissetta e Gela, offre scenari grandiosi…” laddove in primavera i profumi dei fiori e degli ortaggi che maturano al sole riempiono di profumi l’aria; laddove in estate il grano si mostra con le sue splendide spighe dorate e in autunno gli uliveti innalzano le loro cime argentee e i vigneti si susseguono l’uno dopo l’altro”.
È considerato la perla del barocco siciliano per la bellezza delle sue chiese e del suo centro storico.
Le recensioni dei turisti su Mazzarino sono lusinghiere e dimostrano la sua importante vocazione turistica per i suoi molteplici aspetti culturali:
Un paesino di contadini ma con dei gioielli architettonici degni di una grande città d'arte.
Mazzarino presenta un'arte divina con le sue opere architettoniche. È una cittadella con le sue tradizioni, sia politiche sia religiose che si distinguono tra di loro. A tutti voi turisti, vi invito a visitare Mazzarino. Li troverete tutti i tempi lontani, che oggi non ci sono più”

“Ridente paese nel centro della Sicilia, su una verde vallata di mandorleti ed oliveti, ricco di pregiate facciate architettoniche, di antichi dipinti e artistici manufatti lignei dentro le chiese. Tutela le antiche tradizioni locali, l'enogastronomia e la pasticceria. Buona ospitalità e prossimo ad altri centri artistici ed archeologici.
Da non perdere altare ligneo dei Cappuccini , le facciate architettoniche e il Castello di Mazzarino”.

Mazzarino proprio per i suoi aspetti archeologici, storici, architettonici, religiosi, naturalistici è stata proposta a far parte dell’Unesco con il riconoscimento del “Comune di Mazzarino come Città D’Arte, ai sensi dell’art. 13co.V della L.R. n.28/)) ed è stato incluso tra i Comuni ad economia prevalentemente turistica.


Chiesa Madre
Dal sito : http://www.dvd-game-new-releases.info/skin/mazzarino-s.akp

IL CASTELLO VECCHIO  DI MAZZARINO

http://www.comune.mazzarino.cl.it/Comune/kalos/castello.htm


Nella tradizione locale è comunemente detto “Castelvecchio” o anche “U Cannuni” in riferimento all’unica torre cilindrica  (sud-ovest) superstite che somiglia ad un gigantesco cannone.
Incerta è la data della sua nascita.
Il castello fu in tempi antichissimi una fortezza e diversamente dall’altro castello di Grassuliato, fu abitato ed usato in epoche diverse, sempre subendo delle trasformazioni.
In epoca bizantina ed araba, quando il florido villaggio sorgeva al “Piano”, una contrada sita circa 2 km in linea d’aria più a valle dell’odierna Mazzarino, doveva esserci un castello. Una solida struttura, costruita probabilmente su un preesistente fortilizio romano, a presidio della Valle del Braemi e del Diseuri.




In epoca normanna, quando era ancora vitale il vicino Castello del Grassuliato,  e quando la popolazione dal “Piano” si trasferì nel luogo dove oggi sorge Mazzarino, il Castello Vecchio entrò a fare parte di una serie di fortificazioni che nella zona comprendeva oltre al Castello di Grassuliato anche i Castelli di Butera, Aidone ed altri luoghi forti.
È certo che la fortezza fu ricostruita dopo la dominazione musulmana e normanna, dalla famiglia Branciforte nel XIV secolo. È proprio del 1325 un privilegio di Federico d’Aragona in cui figura il nome del castello come proprietà e residenza dei Branciforte.




(Branciforte o Branciforti, nobile famiglia siciliana, che una leggenda fa discendere da Obizzo, un cavaliere che militò sotto Carlo Magno.
Obizzo,  leggendario capostipite della famiglia Branciforte, era un cavaliere di grande valore nell’armata di Carlo Magno.  Nella battaglia contro i Longobardi Obizzo si trovò a difendere  da solo le insegne del Re e la bandiera “orofiamma” contro tre nemici. Rimase con le mani mozzate ma continuò con ardore a tenere alata l’insegna reale. Da quel momento Ovizzo prese l’appellativo o cognome di  Branciforte. Diventò Alfiere generale dell’esercito del Re e ottenne come premio la città di Piacenza infatti il Mugnos lo cita “che indi fu ricambiata in terre, castelli ed altro nel piacentino”.Il primo Branciforte ad insediarsi in Sicilia fu Guglielmo sotto l’imperatore Federico II di Svevia. In realtà la famiglia Branciforte era già presente in Sicilia perché alcuni anni prima Aloisia Branciforte aveva sposato nel 1275  Orlando I Grifeo Maniace, che era V Barone di Partanna e stratigoto di Messina. Guglielmo Branciforte morì a Catania nel 1347 lasciando i feudi di Piacenza ai fratelli Bosso e Gaspare mentre le numerose terre in Sicilia andarono ai nipoti Raffaello e Ottaviano che erano figli di un terzo fratello Stefano. Stefano Branciforte era incaricato in Sicilia di riscuotere i dazi e controllare il traffico delle merci nel porto di Licata e maestro razionale del regno.
(foto dal sito : https://it.wikipedia.org/wiki/File:Branciforte_Stemma.jpg)



http://www.mazzarino.it/public/mazzarino/fotoantiche/?page=8



Una struttura in piena efficienza agli inizi del XV quando i Branciforte erano già diventati Conti di Grassuliato e di Mazzarino.
Il castello diventò la residenza dei Signori e un’altra ricostruzione o ristrutturazione, la subì nel XVI secolo in seguito ai danneggiamenti subiti alla metà dello stesso secolo. Fu poi abbandonato prima del XVII secolo quando i Branciforte costruirono in paese il loro magnifico palazzo. Palazzo che trovò la sua nascita nell’epoca in cui Mazzarino si era ormai sviluppato tanto da diventare un grosso centro famoso anche per le sue attività culturali.


Mazzarino – Palazzo Branciforte
https://www.lasiciliainrete.it/monumenti/listing/palazzo-branciforti-mazzarino


Il Castello fu abbandonato e in parte smantellato da chi vi asportò materiale da costruzione e poi nel 1693 subì dei danni a causa del terremoto del 1693.


http://win.lafrecciaverde.it/n127/mazzarino/art.html






In origine il castello era costituito da quattro torri cilindriche angolari che erano collegate da cortine murarie merlate all’interno delle quali si sviluppano gli ambienti abitativi e di servizio oltre ai vari cortili interni.



Le torri occidentali dovevano avere una dimensione maggiore rispetto a quelle orientali ed erano costituite da ben tre livelli collegati da scale in pietra che erano ricavate all’interno delle stesse torri. L’ingresso era costituita da un apertura a sesto acuto sita tra le due torri occidentali della quale restano poche tracce visibili.
Le pareti nord e sud presentano delle aperture che sono tipologicamente diverse. Questo dimostra come il castello nel corso del tempo sia stato oggetto di varie fasi di ristrutturazione come è rilevabile anche dalla lettura della merlatura inglobata a quota del calpestio del terzo livello della parete nord. I resti di un grande camino sono visibili sulla parte rivolta a nord.
 Il castello è stato oggetto di interventi di restauro conservativo per la salvaguardia delle imponenti strutture superstiti. Lo scavo che è stato effettuato all’interno dell’area delimitata dalle strutture murarie perimetrali, ha permesso la ricostruzione planimetrica di alcuni ambienti e l’importante individuazione di alcune cisterne  ben interrate per la raccolta di aridi e liquidi.




Cronologia Storica

1143 - un Manfredi (Aleramico) di Policastro è ricordato come primo signore di Mazzarino (notizia assai dubbia) - Amico 1855-56, II, p. 70.
1288 - Vitale di Villanova riceve da re Giacomo il feudo di Mazzarino tolto a Giovanni di Mazzarino, figlio di Man­fredi signore di Mongialino (Comune di Mineo – Catania) accusato di tradimento - ibidem.


Un Tramonto dal Castello di Mongialino
https://www.flickr.com/photos/limas1973/6881227566/


Aggiungi didascalia

Castello di Mongialino
https://www.enricocartia.it/castello_di_mongialino-w5321
Re Giacomo II Perez di Aragona (1267 – 1327)
Dal 1285 al 1296 re di Sicilia come  Giacomo I
Ritratto nel Monastero di Santa Maria di Poblet, 1400




Monastero di Santa Maria di Poblet – Comune di Vimbadè – L’Esplega de Francoli-
Nel monastero si trovano le tombe di otto sovrani della Corona di Catalogna e
D’Aragona e di sei regine consorti – L’edificio è patrimonio dell’Unesco
Dal sito: http://lugaresconhistoria.com/monasterio-poblet-tarragona


Foto dal sito:



1292 - in un privilegio di Federico III del 1325, viene citata la vendita del feudo di Mazzarino “cum castro” effettuata nel 1292 in favore di Raffaele Branci­forti (un ‘altra fonte cita l’acquizione del feudo in seguito ad un contratto di matrimonio)- Di Giorgio Ingala 1996, p. 93.
Da questo atto d’acquisto si può dedurre che il castello con la città erano in quel tempo esistenti. Il castello era naturalmente adibito a residenza dei Signori e Conti oltre ad avere una sua posizione strategica importante per il controllo del territorio. Fino all’abolizione della feudalità, nell’anno 1812, il feudo resterà sotto la dinastia dei Branciforte.

1325 - in seguito alla morte di Calcerando di Villanova, Stefano Branciforte acquistò metà della signoria di Mazzarino che lascerà in eredità al fi­glio Raffaello/Raffaele.
Questi essendo già in possesso della restante parte dello 'stato' (complesso feudale) acquisita con il matrimonio con Graziana di Villanova, figlia ed erede di Calcerando, diventò unico signore di Mazzarino.
Giovanni, figlio di Raffaele, cavaliere sotto Federico il Semplice, “ridusse alla regia ubbidienza” la città di Piazza Armerina, allora detta “Piazza”. Per questa impresa ricevette dal sovrano non solo città ma anche il titolo di Barone.

Dall’aragonese Re Martino I ricevette anche la fortezza ed il feudo di Grassuliato oltre ai feudi di Condrò e Gatto.

Nel XVII secolo Nicolò Placido Branciforte, principe di Leonforte, ebbe un’unica figlia ed erede, Stefania che sposò Giuseppe Lanza e Branciforte, principe della Trabia. Tutti i beni dei Branciforte si trasferirono alla famiglia Lanza.
1676 - alla morte di Giuseppe Branci­forte, gli successe il nipote Carlo Maria Carafa che stabilì la sua residenza a Mazzarino contribuendo alla creazione dei principali edifici di culto e residenziali dell'epoca. Il castello venne probabilmente abbandonato.
Con un decreto del 18 maggio 1790, il Principe di Butera e Conte di Mazzarino, Salvatore Branciforte, nominò un certo Don Pietro Accardi che malgrado “sia in età minorile”, diventò “castellano di codesto Castello di Mazzarino, che trovasi vacante”.



IL CASTELLO VECCHIO NEL CINEMA
Nel castello si svolsero alcune scene del film la “Piovra 10” se non ricordo male girato nel 2001. Un assalto con elicotteri della polizia e con due fuoristrada per un inseguimento sullo sterrato. Un inseguimento che fu realizzato con dei poliziotti appartenenti al decimo reparto mobile della Questura di Catania e dal reparto di volo di Reggio Calabria. La storia del film, scritta da Mimmo Rafele, Pier Giuseppe Murgia e Sergio Silva e diretta da Luigi Perelli, racconta una Sicilia che reagisce prendendo atto della coscienza antimafia e aiutando le istituzioni. Una storia che presenta spunti sentimentali e che presenta dialoghi veramente intensi che fanno riflettere. Indimenticabile il discorso magistrale alla “nuova mafia” del boss mafioso “Tano Cariddi” interpretato con bravura dall’attore Remo Girone. 












IL CASTELLO VECCHIO DI MAZZARINO - https://youtu.be/8i6kOgCzJeE





Vicino al castello è stato ricavato un piccolo teatro in cui si eseguono durante il periodo estivo delle rappresentazioni teatrali.
Proprietà attuale: pubblica (Comune).





http://www.mazzarino.it/mazzarino/cartella/fotoantiche.asp

Mazzarino – Via degli Orti – 1940



Mappa del Catasto Borbonico – Comune di Mazzarino

Mappa Catasto Borbonico – Centro Cittadino di Mazzarino


Da Mazzarino al Castello di Grassuliato





IL  CASTELLO  DI   GRASSULIATO

Il Castello di Grassuliato




Il Castello di “ Grassuliato, Garsiliato o Saliato”, nel Comune di Mazzarino, si trova nell’ex feudo “Salamone”.
Posto sulla sommità di un’emergenza rocciosa, a 418 m s.l.m., permette una visione piuttosto ampia del territorio circonstante (sulla sottostante vallata del fiume Gela). È accessibile da un fronte attraverso un ripido sentiero d’accesso facilmente percorribile. È inserito in un’area dal grande valore archeologico che, a quanto mi risulta, non è stata ancora del tutto indagata.
La particolare morfologia del luogo ha favorito la costruzione del castello, le cui fabbriche si distribuiscono sulla collina gessosa seguendone i livelli. Una fortezza legata alla presenza di un villaggio, Casale “ Gelasium”, che sorgeva nella vallata circostante e che perse progressivamente la sua importanza strategica con la costruzione e il relativo sviluppo dell’abitato di Mazzarino.

STORIA
Il termine “Grassuliato” nel “Vocabolario Siciliano, Etimologico Italiano e Latino, dell’Abate Michele Pasqualino da Palermo” (Palermo, Reale Stamperia MDCCLXXXVI(1786), significa “rocca”.
Le fonti sono rare e molti storici indicano il castello come caposaldo militare in epoca normanna quando entrò a fare parte di un sistema di fortificazione piuttosto ampio.  Probabilmente il sito doveva essere fortificato in epoca bizantina e araba e andando ancora più indietro nel tempo anche in epoca romana.   I ruderi sono la chiara testimonianza della presenza di nuclei abitativi nella zona  discendenti dalla vicina e gloriosa città greco-sicula di  “Mactorium” che fu scoperta da Paolo Orsi sul Monte Bubbonia. Un castello che per la sua particolare posizione altimetrica era in grado di resistere agli assalti nemici. Proprio per scongiurare i tragici assalti nemici e per propiziare il favore degli dei, il castello costruito dai romani fu denominato “Grassuliato”. Un nome che derivava dai 24 “Salii” (Saliati) sacerdoti di Marte.
Sacerdoti di Marte che custodivano 12 scudi e lance sacre al dio della guerra e che portavano in giro per i nuclei abitativi durante il mese di marzo. Una processione accompagnata da inni sacri e da balli propiziatori. Lance che erano presenti nell’antico simbolo che gli stessi romani concedettero alla cittadina di “Macarina”.
Secondo le ricerche del prof. Giuseppe Ferreri, riportate nel libro “ Il Mistero di Mazzarino” il castello del Grassuliato è collegato alla presenza dell’antica città romana di Macarina che fu fatta erigere dalle autorità romana in una zona situata fra le importanti “mansiones” di Colloniana e di Philosophiana. 
La “mansio” (“mansiones” è il termine plurale) erano delle stazioni di posta lungo le strade romane. Erano gestite dal governo centrale e messe a disposizione di dignitari, ufficiali o di chi viaggiava per ragioni di stato. L’identificazione degli ospiti era legata a documenti simili a passaporti. L’etimologia del termine proviene dal latino “mansus”, (“manere”) con il significato di “fermarsi, rimanere”.

(Le “Mansiones” lungo la Catania –Agrigento. Itinerarium Antonini

(Insediamenti e Mansiones
Opera della dott.ssa Rosa Casano del Puglia)

(il comune viaggiatore aveva a disposizione le “cauponae” cioè delle aree di sosta private che spesso si trovavano vicino alle “mansiones”. Avevano una reputazione minore rispetto alle “mansiones” perché considerate spesso equivoche e malfamate perché frequentate da malfattori e prostitute. Un aspetto che è stato rilevato dagli archeologici  in seguito al rinvenimento di graffiti sulle rovine delle “cauponae”.

(Ostia Antica – la Caupona di Fortunato

C’erano anche la “Tabernae” che erano destinate ai patrizi.  Le “tabernae” ebbero una loro diffusione legata sia allo sviluppo viario che ad una disposizione di legge secondo cui “le case vicine alla strada dovevano offrire ospitalità”
Tabernae poste lungo gli itinerari e che avevano la funzione di “ostello”. Naturalmente potevano essere lussuose o presentare un livello di accoglienza decisamente scadente.

(Taberna Romana
Foto tratta dal sito: http://www.datuopinion.com/caupona

(Taberna Romana – Menù

Infine erano presenti le “mutatio” cioè delle “stazioni di servizio” destinate anche agli animali ed ai “veicoli”. Si trovavano sugli itinerari ad una distanza di circa 12 – 18 miglia tra loro ed offrivano vari servizi. Si potevano comprare i servizi dei carrettieri, dei maniscalchi e degli “equarii medici” (veterinari) per la cura dei cavalli. Come riporta il sito di Wikipedia l’imperatore Tiberio sfruttando la collocazione delle “mutatio” riuscì a coprire in un solo giorno le 500 miglia che separavano l’Illiria da Mogontiacum dove il fratello Druso Germanico era in agonia per una gangrena causata dai postumi di una caduta da cavallo.

(LA Mutatio di Fontana Fredda(Castell’Arquato
Foto tratta dal sito: https://valdarda.wordpress.com/2013/04/09/castellarquato-erede-di-veleia-muoveva-i-suoi-primi-passi-nel-ii-secolo-d-c/



Nell’ “Itinerarium Antonini” è documentata una strada che collegava Catania con Agrigento e univa il Mar Mediterraneo con lo Jonio. Alcuni cittadini scampati alla distrutta “Mazaris” (Mazara?) e “diverse decine” di romani, reduci dalla battagli di Agrigento, intorno al 265 a.C., in obbedienza al “Prescritto” ricostruirono una nuova città in un sito posto ai piedi del Monte Gibli, in località “Piano delle Vigne” (in una zona compresa fra l’odierna Chiesa del SS Salvatore e la chiesa della Madonna delle Grazie). Una città che denominarono “Macarina”.

In questa zona erano presenti delle vestigia risalenti alla presenza sicana, fenicia e greca. La presenza di queste rovine favorì la ricostruzione dell’abitato che forse si estese sino alla località denominata “Garciteddra”. Un sito particolarmente ricco d’acqua per la presenza di numerose sorgenti e per la sua natura pianeggiante adatto alla ricostruzione della nuova città.
Secondo il prof. Ferreri i romani indicarono la città come un “Oppidum” cioè un insediamento cittadino fortificato ma ancora non abbastanza esteso da poter essere indicato con l’appellativo di “civitas”. Gli “oppida” erano per i romani dei veri e propri centri amministrativi nei territori conquistati. Molti di questi centri diventarono successivamente delle città romane.  L’Oppidum” di Macarina era un importante centro amministrativi che assicurava la gestione di un vasto territorio caratterizzato da piccoli centri urbani e villaggi rurali.

(L’Oppidum fortiticato di Moleta del Remei-Lugares/ Alcanar – Tarragona)
(VIII – VI secolo a.C. e successivamente II sec. a.C.)

(Baetulo, l’iberica Baitolo, era il nome della città fondata dai Romani in prossimità del mare intorno al 100 a.C.
Sulle sue rovine sorse la città di Badalona. Plinio il Vecchio definì Baetulo come “oppidum civium romanorum
Ovvero “città fortificata di cittadini romani”. Era famosa per la produzione di vino.

Baetulo – Terme – Mosaico dei Delfini del I sec. d.C.
Foto dal sito : https://it.wikipedia.org/wiki/Baetulo

(Uno studio dell’Università di Barcellona e del Museo di Badalona hanno portato all’identificazione di anfore con vino Baetulo. Anfore che si trovavano su tre navi affondante sulle coste del Mediterraneo al tempo di Augusto (I sec. d.C.) i contenitori di ceramica erano fabbricati nella stessa Baetulo come dimostrano i rinvenimenti a Peixau e nella piazza Pompeu Fabra. Due navi si trovavano nel nord della costa catalana (Palafrugel e Port de la Selva) mentre la terza a sud della costa francese a Port Vendres. Il rinvenimento dimostra l’importanza che Baetulo aveva nella produzione di vino che veniva esportato. Le anfore dovevano giungere nella città romana di Narbo, l’attuale Narbonne, che era un importante centro di commercio durante l’Impero Romano.
La foto è tratta dal sito:
https://www.lavanguardia.com/local/barcelones-nord/20140206/54400897180/identifican-vino-baetulo-barcos-siglo.html


Gli “oppida” erano costruiti su declivi pianeggianti e circondati da colline sulle quali gli stessi rimani costruivano del castelli o torri di avvistamento. Strutture militari che avevano come obiettivo il controllo del territorio e offrire ai cittadini delle condizioni di sicurezza.
L’oppidum di Macarina costruito in località “Piano-mineddi” era protetto dal castello di Macarina ( (il Castello Vecchio di Mazzarino), dal castello di Grassuliato e dal Castidduzzu. Strutture realizzate su delle colline che circondavano “Piano-minnelli”.



Il “Castidduzzu” fu individuato nella località “Ruccazzu” (Canalotto) ed è visibile dal castello Grassuliato. Nel luogo si trovano grandi ammassi di pietre calcaree forse provenienti da un antica costruzione fortificata che serviva per il controllo della valle che si estende dalla Contrada “Favara” alla “Cosa a vurpi” e che è attraversata dal torrente “Jardiniddru”, affluente del fiume Gela.
Macarina fu quindi uno dei più importanti insediamenti in una vasta area rurale di circa 40 km di raggio. La sua importanza aumentò quando fu realizzata l’intensa coltivazione granaria del “fundus”. La città diventò una delle maggiori fornitrici di grano per Roma. Macarina e “Castrum Janni” (Enna) furono considerate le due città più importanti della colonizzazione romana nell’interno dell’isola e per questo oltre che ad essere dotate di strutture difensive, erano anche destinate alla residenza dei governatori. Nelle “Verrine” di Cicerone sono presenti delle citazioni che riguardano i suoi frequenti viaggi in Sicilia per controllare l’operato dei consoli e dei governatori che si arricchivano alle spalle dei contadini siciliani. Cicerone chiamò la città Macarina e i suoi abitanti macarinesi. Una città importante per il suo vasto e fertile territorio dedito alla coltivazione di frumento e all’allevamento dei bovini per i suoi ricchi pascoli. La città fu dotata di templi, di edifici sacri, di strutture pubbliche. Tra il 1952 ed il 1954, sindaco della città era il prof. Filippo Siciliano, alcuni contadini rinvennero in località “Piano Minnedri” una grande giara adatta per contenere derrate alimentari e cereali.
La giara rinvenuta, di epoca romana, fu l’unico reperto oltre al vetusto castello, che potrebbe testimoniare l’esistenza di un antico sito. Giara che fu portata nell’atrio del Municipio e collocata in una nicchia adiacente a quella in cui si trovava il sarcofago del Principe Branciforte.


(dal libro “I Misteri di Mazzarino” di  Giuseppe Ferreri

Foto di Giovanni Pappalardo)

Macarina era una città molto popolata dai romani tanto che nel 200 a.C. le fu assegnato il titolo di “Nobile et Vetustum Oppidum Macarina”.
Solo degli accurati scavi archeologici potrebbero rilevare l’esistenza di ulteriori villaggi legati alla  forte presenza romana e risolvere tanti dubbi per l’identificazione del sito dell’antica Macarina.

(foto dal sito : www.facebook.com/GelaStories/posts/il-castello-di-garsiliato-mazzarinoi-normanni-giunti-in-sicilia-a-partire-dal-10/857876160980433/

Il Castello “Grassuliato” fu anche indicato con il termine di “Salomone” riprendendo il nome della contrada in cui è ubicato.
Una denominazione probabilmente legata all’insediamento di alcune comunità agricole e commerciali di osservanza religiosa giudaico-cristiana. Una comunità che diede il nome anche ad altri feudi limitrofi al castello: San Nicola, Santa Cruci, Mistrà, Manca u Spataru, Valle Mira, Val Canonicu, Floresta,  Finucchiu, Sarvaria, Sufiana, Alzacuda e Purcaria.

Il Grassuliato con il suo villaggio fu abitato per lungo tempo perchè legato ad un esteso e ricco territorio agricolo in cui era possibile commerciare con profitto i relativi prodotti del suolo.
Nel periodo musulmano il castello conservò la sua importanza strategico militare.
Un caposaldo dove uomini di razza e di religione diversa esercitarono una volontà singola e collettiva con scambi economici di manufatti e di prodotti del suolo con i casali e le città vicine.  Insomma un periodo di massima tolleranza reciproca che determinerà un periodo di benessere sociale.
Nel centro una collettività di notabili che appoggiava il suo “caid”  fino a quando lo stesso “caid”  darà vita ad un governo personale che lo allontanerà dal potere centrale arabo consentendo la conquista normanna. La mancanza di un forte governo centrale musulmano permetterà ai Normanni di conquistare la Sicilia.
Con la conquista normanna il regime militare normanno, che rispetto a quello musulmano presentava un forte aspetto unitario, determinerà nel casale del Grassuliato un livellamento sociale e politico agli altri centri abitati. La forte rocca con l’istituzione della Contea Aleramica entrerà a fare parte di un complesso difensivo che si estenderà da Falconara sul mare, a Butera, Mazzarino, Barrafranca, Piazza, Aidone.


Il castello di Grassuliato appare per il prima volta nei documenti del 1091. Si tratta di un elenco di donazioni effettuate alla Chiesa di “Santa Maria della Valle di Giosafat”(1). Figura il nome di“Salomon de Garsiliat” (Salomone forse figlio di “Guigone de Garsiliat”)  e di “Enrico de Bufera” ( capostipite degli “Aleramici), “Girondus de Mazarina” e “Girbaldus de Comacina” (Barrafranca).


Gerusalemme – Valle di Giosafat

Dal sito : https://www.cercoiltuovolto.it/video/nella-valle-di-giosafat/

Chiesa di Santa Maria della Valle di Giosafat
La Chiesa, posta nella Valle di Giosafat, tra Gerusalemme e il Monte degli Ulivi, conteneva la tomba della Vergine Maria ed era annessa ad un monastero. La chiesa venne distrutta intorno al 1010 dal califfo Al-Hakim e poi venne riedificata da Goffredo di Buglione. Sulla ricostruzione della Chiesa si ha notizia in seguito ad una donazione effettuata nel 112 da parte di Arnolfo di Rohes, patriarca di Gerusalemme.
La chiesa e l’annesso convento sottostavano all’Ordine di Santa Maria di Valle Josaphat.
Un ordine importante e tenuto in grande considerazione da sovrani e nobili che lo gratificarono con ricche donazioni e privilegi che furono ratificati dai vari pontefici. Le donazioni riguardavano anche l’Italia meridionale dove i reggenti normanni furono assidui benefattori dell’ordine. I normanni cacciati gli arabi dal meridione d’Italia ebbero nelle loro politica la diffusione del culto latino che passava attraverso l’istituzione di abbazie, prima benedettine, poi cistercensi e con la conseguente e progressiva emarginazione dei centri monastici basiliani di rito greco, di chiara influenza bizantina, e che comunque furono al momento della conquista  aiutati nella loro ripresa religiosa e culturale.



Tomba di Maria – Valle di Giosofat
Dal sito: http://www.gliscritti.it/gallery3/index.php/album_001/Gerusalemme/tomba-maria-cioni
In Sicilia una della più importante dipendenza della Chiesa di Santa Maria di Giosafat era la “Gancia” di Paternò e quella di Messina. Dipendenze che furono accordate con bolla papale del Pontefice Pasquale II emessa il 3 gennaio 1113.
La donazione effettuata da Salomone potrebbe essere rivolta proprio alla Gangia di Paternò che fu costruita per volere della regina Adelasia del Vasto, terza moglie del Granconte Ruggero I d’Altavilla, nel 1092.

1308 aprile 17, Messina

Fra Guglielmo, Abate del Monastero di S. Maria di Valle di Giosafat in Gerusalemme e della Chiesa di S. Maria Maddalena di Giosafat in Messina, la quale Chiesa era situata fuori le mura di Messina nelle vicinanze di S. Croce e dei SS. Simone e Giuda, ed era una delle grangie della predetta S. Maria di Valle Giosafat in Gerusalemme, acconsente alla vendita di una casa terrana, con proaulo, sita in Messina vicino la Chiesa di S. Croce e l'Ospedale detto di Maestro Ursone, fatta da Benedetto Scalisi, materassaio, figlio di Luca, bettoliere, col consenso di costui, e la moglie Bartolomea, nella lor qualità d'enfiteuti del Monastero, a favore di Notar Giovanni Calderone, messinese. Procede la suddetta vendita pel prezzo di tarì quarantuno e grana cinquanta d'oro in pierreali d'argento sine avantagio, coll'obbligo al compratore di pagare al Monastero l'annuo perpetuo canone di tarì due e grana dodici meno un quarto d'oro.
Originale Membranaceo mm 494 x 275

Salomon de Garsiliat, feudatario del luogo, appare in un altro documento del 1098 come ci riferisce A. Li Gotti nel suo “Garsiliato e su altri abitati dell’interno” ed appare come figlio di un certo “Guigone de Garsiliat”.
Nel 1150 circa l’arabo Idrisi cita il casale di “Gar(o gasr) Saliatah””distante da Butera dodici miglia verso levante”…”ricco di terre feraci sa seminare” e di “ ubertosi poderi, solcati dal fiume Miele, che abbonda di produzioni del suolo”.


Il Castello di Grassuliato e  Monte Formaggio

Dopo la conquista normanna non si hanno notizie sulle reali condizioni del castello.  Il sito, sempre in epoca normanna, appare con un importante centro lombardo  della famiglia degli Alemarici (Adelasia del Vasto moglie di Ruggero I), marchesi di Savona, che mostrerà un grande senso cittadino nei moti rivoluzionari durante il regno normanno di Guglielmo I (Palermo o Monreale, 1120 – Palermo, 7 maggio 1166, quarto figlio di Ruggero II e di Elvira di Castiglia) soprannominato “Il Malo”.

Guglielmo "Il Malo"

Sotto Guglielmo I il castello è retto da Bartolomeo di Grassuliato. Probabilmente un lombardo che si renderà protagonista durante i moti rivoluzionari e che in riferimento ai fatti narrati dal Falcando fu uno dei capi della sommossa.

L’origine di questi motivi rivoluzionari fu legata al comportamento dissoluto del re.
Un re che a Palermo era immerso nel suo magnifico palazzo circondato dai piaceri che gli procuravano le numerose concubine cristiane e musulmane ed estraniandosi dalle cure del regno. Dopo le domate rivolte del 1156, affidò all’ambiguo “Grande Ammiraglio” (ministro) Maione di Bari, con la carica di ministro, il governo del Regno.
Guglielmo I riponeva una smisurata fiducia nei confronti del suo ministro che fu anche nominato “amiratus amiratorum” (emiro degli emiri) e che aveva assunto un consolidato prestigio politico superiore al suo sovrano.
La critica storica ha avanzato tante ipotesi sul comportamento del Maione.  Alcuni storici sostennero che mirasse alla corona cerando con un opportuna politica di creare il vuoto attorno al re e nello stesso tempo d’ingraziarsi la plebe (compito alquanto difficile visto il suo comportamento nei confronti delle masse). Per questo motivo il ministro si creò un fedele seguito grazie alla promozione di ammiraglio del fratello Stefano e a quello di governatore della Puglia del cognato Simeone Siniscalco.
Altri storici affermarono che la sua politica aveva come obbiettivo l’accumulo di ricchezze e che con le sue azioni cercava di liberarsi di tutti coloro che erano in grado di comunicare al re il suo comportamento dissoluto.
I nobili non lo sopportavano per la sua origine plebea, sulla quale ci sono dei dubbi perché il padre sembra un magistrato e un ricco commerciante d’olio, ma è anche vero che verso la nobiltà si fece promotore di vere e proprie azioni persecutorie.
Alcuni avvenimenti politici dimostrarono la sua ambiguità. La pace sostenuta con il papa Adriano IV, che nelle condizioni in cui versava lo Stato Pontificio, non era necessaria per Guglielmo I.  Si sarebbe facilmente liberato dal nominale vassallaggio della santa Sede senza un trattato di pace.
L’abbandono di Mhedia, in Africa, che assediata dagli Africani non ricevette i rifornimenti né fu soccorsa militarmente, per ordine del ministro, da una flotta siciliana al comando del “gaito” (Kaid) Pietro, musulmano alla Corte di Palermo. Maione, che era di Bari, si giustificò dicendo che aveva solo eseguito gli ordini del sovrano e questo per screditare lo stesso re davanti ai suoi sudditi.

(Palermo)

Si dice che fosse diventato l’amante della regina Margherita e che “lei teneva in casa, già pronti, il diadema e le insegne reali” e infine che “avesse inviata una gran somma di denaro a Papa Alessandro per dichiarare Guglielmo incapace di regnare e affidare a lui l’investitura”.
La storiografia ha dimenticato la sua tirannide perché numerose furono le vittime della sua feroce persecuzione….una lunga lista che ci ha tramandatolo storico Palmeri Niccolò (Termini Imerese, 9 agosto 1778 – Termini Imerese, 18 luglio 1837; economista, storico e politico).
(Il Palmeri nelle sue opere storiche si basa sulle cronache latine del Regno di Sicilia della seconda metà del XII secolo scritte da Ugo Falcando, un letterato medievale. Un letterato vissuto tra il 1166 ed il 1190, di altissimo livello, profondo conoscitore dei classici latini e che doveva essere vicina alla corte normanna palermitana in cui doveva svolgere alti compiti amministrativi vista la sua alta competenza tecnico-burocratica. La Cronaca latina del Regno di Sicilia fu pubblicata a Parigi nel 1550 insieme ad una Epistola ad “Petrum Panormitanae thesaurarium de calamitate Siciliae”, probabilmente dello stesso autore forse un pseudomino).
Una lista lunghissima di persequitati:
-          Guglielmo, Conte d’Alosa;
-          Boemondo, Conte di Tarso;
-          Roberto di Buovo, valoroso cavaliere e zio del Conte di Squillace;
-           “E migliaia d’altri nobili personaggi erano ad affollare le carceri di Palermo, alcuni accecati, altri crudelmente frustati, altri gettati in oscuri e rozzi sotterranei”.
“Né rimanevano illese le mogli e le loro figliuole. Vedovi matrone e vergini di sangue strappate dai loro palazzi, altre rinchiuse in carcere con i più vili malfattori; altre per fornire zozzi piaceri al grand’ammiraglio; ed altre ridotte ad esercitare ignobili mestieri per vivere”.
“Gli stessi principi Tancredi e Guglielmo, figli naturali di Ruggero Duca di Puglia, fratello primogenito del Re, erano con rigore custoditi nel Palazzo (di Palermo)”.
Il malcontento alla fine scoppiò tra le file della nobiltà che più di ogni altra classe sociale era bersagliata dalla politica del ministro. La ribellione scoppiò a Melfi per poi propagarsi a macchia d’olio in Puglia.

Castello di Melfi

La parola d’ordine della sommossa: “Non deporre le armi fino a quando il ministro rimarrà al potere”.
Dalla Puglia (Otranto, Barletta, Taranto, Bari) la ribellione si propagò ad Amalfi, Sorrento e Napoli.
La ribellione minacciava di espandersi anche in Calabria.
Maione cercò di spegnere la rivolta ma le città insorte si rifiutarono di ricevere le lettere del ministro che “le invitava a rimanere fedeli pena il castigo”.
Inviò a Melfi addirittura il vescovo di Mazzara che giunto sul luogo per calmare gli animi,  alla fine “li rianimò”.
Maione fu costretto a rivolgersi a Matteo Bonello, Signore di Caccamo.

Castello di Caccamo

Il Bonello .. un giovane, bello, valoroso, magnanimo ed imparentato con la nobiltà calabrese, stimato nell’isola e fuori.

Stemma della Famiglia Bonello
Antichissima famiglia risalente al X secolo e ricordata in un diploma degli Imperatori
Basilio e Costantino. Diploma che è conservato nella Chiesa di S. Maria di
Nazareth. Un Bonel, oriundo della Normandia, scese in Sicilia al seguito di Ruggero d’Altavilla che lo nominò Signore di Carini e Caccamo


Il ministro era riuscito ad attirarlo a sé grazie al fidanzamento con la figlia e riuscendo a “strapparlo” dalla bellissima e ricca Clemenza, Contessa di Catanzaro di cui il Bonello era da tempo innamorato.
Matteo Bonello fu mandato in Calabria, riunì i nobili per convincerli che “erano false tutte quelle voci sull’Ammiraglio e che perciò dovevano restare tranquilli e fedeli”. Tra i nobili l’ammiragglio Ruggero di Martirano, acerrimo nemico del Maione.
Nella riunione avvenne qualcosa di strano che Maione mai avrebbe immaginato.
I baroni calabresi riuscirono a convincere il Bonello dell’ignobile causa che stava sostenendo. Lo convinsero della malvagità di Maione e dei tristi disegni politici che aveva in mente e che “a lui non conveniva sposare la figlia del tiranno, perché sarebbe diventato suo complice, tradendo la fiducia del re e coperto di macchie la nobiltà dei suoi natali”.
Lo invitarono quindi a sposare la giusta causa della nobiltà ed avere la riconoscenza di tutti gli oppressi “spegnendo” l’ammiraglio e gli promisero “la mano della Contessa di Catanzaro che sapevano essere lui innamorato”.
Bonello si lasciò convincere, accettò la mano della contessa che la fanciulla, felice perché innamorata, gli promise, e giurò di “uccidere colui che doveva essere suo suocero”, quindi ritornò in Sicilia.
Il Palmeri descrive i fatti seguenti: “Qui (a Palermo), un certo Niccolò Logoteta, che era in Calabria, avvisò il grand’ammiraglio del matrimonio tra Bonello e la Contessa di Catanzaro, e del partito che lui aveva preso con i baroni calabresi. Maione non voleva prestare fede a quella notizia, ma poi confermata da latri, piuttosto scocciato si preparò a prevenire il colpo e farla pagare cara a Bonello. Costui, intanto, reduce dalla Calabria, era giunto a Termini, e qui lo raggiunse uno dei suoi uomini che aveva lasciato Palermo, e lo avvertì che il grand’ammiraglio aveva promesso vendetta e stava attendendo il momento per compierla”.
Il Bonello scrisse al Maione una lettera molto affettuosa nella quale esprimeva che “in  Calabria tutto era tranquillo; che i baroni erano tornati all’obbedienza; e aggiungeva che era stato e sarebbe sempre stato in avvenire pronto a qualunque fatica, pronto ad affrontare qualunque pericolo per lui; ma non di averne ancora avuto quell’occasione; e che anche il suo cuore non desiderava altro che le nozze con sua figlia; e caldamente lo pregava di non differire oltre il matrimonio”.
Il tono di questa lettera fece sparire i sospetti del Maione “il quale credendo di smentire tutti coloro, che lo avevano avvertito dell’intenzione di Bonello, gongolando a tutti quella lettera mostrava”.
Il Maione rispose con un lettera altrettanto affettuosa, cordiale, ringraziandolo di ciò che aveva fatto in Calabria e “lo pregava di scendere a Palermo, dove le sue nozze non sarebbero state più a lungo rimandate”.
Bonello non indugiò nel fare ritorno e fu “accolto affabilmente da colui che invece, aveva giurato di sopprimere”.
Gli avvenimenti storici come in un romanzo incominciano a diventare intricati con un susseguirsi di azioni senza tregua….
Maione in Sicilia si era creato un altro nemico, molto potente perché godeva della fiducia del re, l’arcivescovo Ugo di Palermo.
Un nemico difficile da gestire perché Maione non poteva né metterlo in  cattiva luce presso Guglielmo I né rischiare di sollevare lo sdegno degli ecclesiastici dell’isola mettendolo in prigione.
Con grande finzione gli si era sempre dichiarato amico ma in realtà covava contro di lui un odio irrefrenabile a tal punto che un giorno colse l’occasione “per fargli propinare un veleno”.
“ Era il 10 novembre 1160,l’arcivescovo giaceva solo, infermo, forse per il veleno già ingerito con un primo tentativo; Maione però temendo che il suo nemico guarisse, preparò un veleno ancora più forte e glielo portò lui stesso, nel far della sera, facendogli credere che fosse una medicina miracolosa”.
“L’arcivescovo, che conosceva le intenzioni di Matteo Bonello, appena il Grand’Ammiraglio fu in casa sua, fece avvertire il giovane della presenza del ministro nel suo palazzo; e, nella serata, Matteo Bonello radunò un buon numero di fedeli armati, li mise in agguato sulle vie, dove Maione, rincasando, doveva passare, e lui stesso si appostò presso la porta detta di Sant’Agata”.
“Nella casa del prelato era, intanto, fallito il tentativo di fare bere all’arcivescovo il veleno; l’ammalto, fiutando l’inganno, si era rifiutato, dicendo che le medicine gli erano diventate insofferenti. Il grand’ammiraglio restò fino a tarda sera a conversare con l’arcivescovo, poi si accomiatò ed uscì mentre, per ordine dell’infermo, venivano sprangate, dietro il ministro, le porte del palazzo”.
“Qualcosa doveva però esser trapelato dell’agguato perché, quando Maione giunse sul luogo dell’insidia, il protonotaro Matteo D’Aiello e il gran camerlengo Adenolfo, facendosi largo tra il seguito del ministro, gli si accostarono e gli sussurrarono all’orecchio che lì vicino stava nascosto il Bonello con un gruppo d’armati. Ma proprio in quell’attimo sbucano dall’ombra Matteo Bonello e, gridando che era giunto il momento di vendicare tanti innocenti, trapassò con la spada il Maione che cadde esamine al suolo. Gli accompagnatori del ministro, atterriti, si diedero alla fuga; il gran protonotaro, che era stato ferito, a stento riuscì a salvarsi”.

Palermo – Porta Sant’Agata –
Nella parte superiore della porta era affrescata la Madonna del Carmelo ( opera non più visibile) e ai lati della porta, nelledue lunette si trovavano due puttini non più distinguibili. Vicino alla porta c’è la Chiesa di Sant’Agata che conserva un sasso con l’impronta di un piede, che secondo la tradizione locale, sarebbe di Sant’Agata che qui si sarebbe fermata.

“La Spada di Matteo Bonello”
https://antonioblunda.wordpress.com/2011/12/13/matteo-bonello-e-la-sua-spada-inchiodata-sul-portone-del-palazzo-arcivescovile-di-palermo/


Altre fonti citano che l’uccisione di Maione, sempre il 10 novembre 1160, vigilia di San Martino, avvenne all’imbocco della via Coperta, strada che collegava il palazzo dell’Arcivescovo con il Palazzo Reale. Infissa sul portone dell’arcivescovado c’è l’elsa di una spada con la quale, secondo una tradizione popolare, il Matteo Bonello uccise il ministro Maione.
L’elsa della spada è del tipo “a vela” ed è una caratteristica del XVI secolo quindi non riferibile ai tempi del Bonello e di Guglielmo I.
Perché questa elsa è stata inchiodata sul battente del portone ?
Tra le risposte degli storici c’è la tesi secondo la quale nel periodo feudale  vigeva il privilegio e la facoltà, da parte dei baroni, di procedere tanto in via penale che in via civile contro i loro vassalli. Una facoltà, detta “ diritto di spada e di morte”  concessa dai re a partire dal 1400. L’impero baronale aveva come simbolo le “forche”, che s’incontravano all’ingresso delle loro terre, per far risaltare l’autorità dei feudatari sui loro vassalli. L’arcivescovo di Palermo possedeva, come i baroni, feudi e terre, e di conseguenza godeva dei relativi diritti e privilegi. Nel volere manifestare il suo potere, come monito per tutti, decise di non mettere un simbolo macabro ed inquietante come la “forca” ma l’elsa di una spada, che nessuno successivamente, si curò di levare forse per dimenticanza o perché fosse di continuo ammonimento al potere politico.

Palermo – Via coperta detta oggi “Via Matteo Bonello”
http://www.palermoviva.it/una-via-al-giorno-via-matteo-bonello/

La notizia dell’uccisione di Maione si sparse subito per Palermo e “fu giubilo… fu insultato il cadavere del malvagio ministro; i baroni della Puglia e della Calabria deposero le armi ma dichiararono di riprenderle subito se si fosse osato punire il Bonello”.
(Il suo corpo fu trascinato in modo macabro per le strade della città.. ”la gente lo colpiva con calci dopo avergli strappato barba e capelli…”
Il re sulle prime si mostrò sdegnato per l’accaduto per poi ravvedersi una volta venuto a conoscenza dei misfatti del suo ministro.
Diede la carica di ministro ad Arrigo Aristippo, arcidiacono di Catania, e concesse a Matteo Bonello, che nel frattempo si era rifugiato nel suo Castello di Caccamo, di tornare a Palermo.

Palermo – Palazzo Reale



L’ingresso del Bonello a Palermo fu accompagnato da scene di giubilo e il grido “liberatore” accompagnava il suo ingresso nel palazzo reale dove fu accolto dal re con grandi dimostrazioni di stima. Finiti i festeggiamenti fu accompagnato a casa dai più illustri personaggi della corte.
Maione aveva lasciato tanti amici influenti a corte tra cui la regina Margherita, Matteo D’Aiello ed Adenolfo che non sopportavano gli onori tributati al Bonello ed iniziarono una vera e propria campagna verbale volta a riabilitare l’immagine di Maione e a dipingere il Bonello come un uomo violento, incapace di fedeltà e gratitudine, avido di gloria e di dominio, desideroso  di primeggiare nella vita sociale  e di mirare alla corona.
Le insinuazioni ebbero un effetto positivo con il conseguente allontanamento del Bonello dalla corte.
Il Bonello convocò segretamente presso di sé, nel suo castello di Caccamo cioè in quella che è indicata come la “Sala della Congiura” (nel marzo del 1161), i suoi amici baroni per “provvedere alla salvezza comune e tutti”.

Castello di Caccamo – Sala della Congiura

Ruggero Sclavo, figlio di Simone di Policastro fratello del Re; un certo Simone;  Tancredi, nipote di Guglielmo; il Conte Ruggero di Avellino, furono dell’avviso di deporre il sovrano e confinarlo in una vicina isoletta e mettere sul trono il figlio del Re che “portava il nome dell’illustre avo Ruggero”.
“L’impresa non era facile perché la custodia del palazzo era affidata a Malgerio, ufficiale prode e fedele, e le guardie erano tante e così ben disposte che era impossibile giungere segretamente o per forza nelle stanze del re; ma, poiché Malgerio si assentava molte volte lasciando in sua vece il custode delle carceri, che a quel tempo erano nel palazzo, riuscì ai congiurati di corrompere costui e farsi promettere d’introdurli nella reggia e liberare ed armare i prigionieri per cooperare sull’impresa. Stabilita ogni cosa, il Bonello se n’andò a Mistretta per raccogliervi viveri ed armi nell’eventualità di una guerra e raccomandò ai suoi compagni di non tentar nulla prima del suo ritorno”.
Il Bonello andò a Mistretta per fortificare il suo castello nel caso di un evento bellico. Il Bonello era infatti anche Signore di Mistretta.

Mistretta – Castello

Mistretta – Castello
http://nellaseminara.altervista.org/il-castello-di-mistretta/

“Ma questi, essendo la congiura venuta per caso a conoscenza di un soldato imprudentemente invitato a farvi parte, furono costretti a metterla in esecuzione durante l’assenza di Matteo Bonello.
Il colpo fu fatto di mattina. I prigionieri politici e i congiurati, guidati da Simone e Tancredi, penetrarono improvvisamente nelle camere del sovrano, mentre questi si trovava a colloquio con il grand’ammiraglio Aristippo. Guglielmo atterrito, tentò di scappare; trattenuto e rassicurato da Riccardo di Mandra, che impedì agli altri di toccarlo, di dichiarò pronto ad abdicare”.
“Tutto era stato fatto senza che fuori nulla trapelasse; a render clamoroso il colpo di stato fu la peggiore feccia di carcerati, i quali, evasi, si diedero a saccheggiare la reggia, facendo man bassa degli ingenti tesori che vi erano e violentando le donzelle addette al servizio della regina. Nel trambusto che ne seguì un gran numero d’eunuchi e di Saraceni furono trucidati. Chiuso il sovrano nelle sue stanze, i congiurati gridarono re il piccolo Ruggero primogenito di Guglielmo, poi messo su un cavallo lo condussero per le vie della città, dicendo al popolo che lo avrebbero incoronato al ritorno del Bonello”.
Guglielmo I fu quindi imprigionato, nella Torre Pisana, e dichiarato decaduto mentre il figlio Ruggero di appena 9 anni dichiarato re anche se ancora privo dell’ufficiosità dato che si aspettava il ritorno di Matteo Bonello.

Palermo – Torre Pisana


Come narrano le cronache furono trucidati diversi membri della corte e ci fu una vera e propria caccia ai musulmani che erano considerati usurpatori e che vennero massacrati a decine. I palazzi reali vennero dati alle fiamme e saccheggiati con la conseguente distruzione di un patrimonio culturale d’inestimabile valore. Si perse un immenso patrimonio librario tra cui l’edizione in latino del “Kitab Rujar” ( un libro di geografia “Liber ad eorum delectationem qui terras peregrare studeant (Il sollazzo per chi si diletta di girare il mondo, Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), chiamato il libro di Ruggero(Kitāb Rujār o Kitāb Rujārī), finito verso il 1154.
Nel patrimonio artistico oltre a numerose e pregiate porcellane andò perduto il planisfero d’argento, detto “Tabula Rogeriana, una delle più avanzate mappe del mondo medievale e che era incisa su una lastra d’argento, e la sfera armillare realizzate dal grande geografo arabo Idrisi per conto di Ruggero II. 

Tabula Rogeriana



Opere che furono fatte a pezzi e fuse. Per dovere di cronaca il geografo Idrisi scappò dalla Sicilia dopo i fatti sanguinosi per morire nel 1165 circa a Ceuta anche se non si è sicuri della fonte.
Furono bruciati anche gli atti conservati negli archivi e i registri del catasto probabilmente per precisi interessi personali di chi aveva usurpato beni immobili e fondi. Gli eunuchi che assolvevano a corte  ad importanti incarichi amministrativi furono trucidati e la stessa fine fecero molti musulmani sparsi nella città, che svolgevano commerci, a cui era vietato possedere armi. Restarono in balia della plebaglia riuscendo solo in parte a salvarsi sfruttando le viuzze assai strette dei quartieri da loro abitati. La ferocia colpì anche il noto poeta Yahya ibn al – Tifashi.
( Gli eunuchi erano uomini privi di facoltà virili per difetto organico o in seguito ad evirazione. Erano gli antichi camerieri dei principi orientali e nelle corti occidentali ricoprirono importanti incarichi amministrativi e militari. Nella Bibbia vengono ricordati nella loro funzione di camerieri dei principi orientali anche se non è presente alcuna citazione alla menomazione fisica).

“La popolazione al sentire che Matteo Bonello era stato l’organizzatore della congiura, si mostrò lieta dell’avvenimento, ma poiché, trascorsi tre giorni, lui non tornava, si era sparsa la voce che si voleva dare lo scettro al conte Simone; a quel punto i Palermitani cominciarono a mormorare, poi si diedero a tumultare, e infine, prese le armi, corsero alla reggia reclamando la liberazione di Guglielmo”. (Simone sarebbe il nome di un conte non ben identificato da non confondere con Simone, Conte di Policastro, che era già morto nel 1156 circa).
“I congiurati tentarono di opporsi alla folla e s’impegnarono in un violento combattimento; ma, quando erano sul punto di essere sopraffatti, rimisero in libertà il sovrano, facendosi prima promettere uscire liberi per lasciare Palermo”.

L’11 marzo Guglielmo I venne liberato e importante furono le mediazioni degli uomini leali al re tra cui gli arcivescovi Romualdo di Salerno e Roberto di Messina oltre ai vescovi Tristano di Mazara e Riccardo Palmer, designato quest’ultimo dalla diocesi di Siracusa.
“Durante  questa breve lotta trovò la morte il più innocente di tutti, il piccolo Ruggero (di nove anni). La sua fine fu da alcuni attribuita ad una freccia, che, scagliata dal popolo, andò a colpire il fanciullo (ad un occhio); altri affermarono che Ruggero, visto il padre in libertà, corse da lui festosamente ma con rabbia fu respinto con un calcio mortale e spirò, poco dopo tra le braccia della madre”.
Il Palmeri continua nel suo racconto…”Re Guglielmo, intanto, sopraffatto da quel grave oltraggio, cadde in tale avvilimento d’animo che deposto il regio manto se ne stava seduto a terra, piangendo amaramente; come prescriveva il divieto reale nessuno poteva parlargli né avvicinarsi a lui, invece gli erano tutti intorno e lui piangendo a tutti narrava piangendo, quell’atto miserevole che gli era capitato. Finalmente, confortato dai vescovi, si recò nella grande sala, contigua al palazzo, e qui convocato il popolo, si diede a ringraziarlo di ciò che aveva fatto per lui, ed ad esortarlo a conservare sempre la stessa fedeltà. Confessava di essere stata quella disgrazia un castigo di Dio, per la sua mala condotta, e prometteva di ravvedersi e riscattarsi, e dichiarava di esser pronto a concedere ai sudditi quanto da loro era stato chiesto, che andava a loro bene; diceva volere abrogare tutte le consuetudini nel suo regno introdotte, ma faceva anche notare che così facendo poteva essere ristretta la libertà dei cittadini, mentre in caso contrario essere gravati di pesi straordinari; finalmente, in merito del servizio prestato concesse al popolo di Palermo l’esenzione di tutte le gabelle nel comprare, vendere, e liberi di portare in città ogni genere di prodotti della terra”.
Le improvvise liberalità del sovrano provocarono una forte reazione dai parte dei congiurati che nel frattempo avevano ricevuto ospitalità nel castello di Caccamo di Matteo Bonello. Il Bonello fu rimproverato dal re per aver concesso ospitalità a tanti traditori. La risposta del Bonello fu altezzosa e in nome di tutti rispose che “a lungo la nobiltà aveva sopportato i soprusi del re, fra i quali il più intollerabile era l’ostacolo opposto alle nozze delle figlie dei baroni, al cui matrimonio era spesso negato il consenso regio; che i nobili male tolleravano le illegali riforme recentemente introdotte e che infine reclamavano che fossero rimessi in vigore gli antichi statuti sanciti da Roberto il Guiscardo e confermati dal Conte Ruggero”.
Questa risposta sdegnò Guglielmo che fece riferire “che avrebbe concesso ai nobili quanto loro chiedevano se, essi, abbandonati i traditori, fossero venuti a lui umili e inermi”.
I baroni rimproveravano al Bonello, per il suo temporeggiare, il cattivo esito dell’impresa  e alla fine il signore di Caccamo, radunate le schiere, mosse contro la capitale.
Guglielmo si vide perduto, i soccorsi chiesti da Messina tardavano ad arrivare; le vettovaglie raccolte rapidamente nelle campagne erano insufficienti per un assedio; i partigiani di Maione, sgomenti, anziché preparare una difesa, si preparavo a mettersi in salvo con le loro cose; la popolazione mostrava di volersi schierare con i baroni che marciavano verso la città.”
Bonello spaventato dalle conseguenze dell’impresa più che dell’impresa stessa, che si presentava facilissima, giunto nelle vicinanze di Palermo, tornò indietro. I baroni dopo poco tempo ritentarono l’impresa ma ormai era troppo tardi perché da ogni parte dell’isola erano giunti soccorsi di truppe al re.
“I nobili accettarono quindi i patti che furono loro offerti dal re per mezzo del canonico Roberto di S. Giovanni di uscire cioè dal Regno”.
“Soltanto tre baroni furono esclusi dal bando; il Conte di Avellino, ultimo di quel casato, per l’età giovanile e le preghiere della nonna cugina del re; Matteo Bonello per il grande favore che godeva presso il popolo; Riccardo di Mandra per aver salvato la vita al re durante la rivolta e che ebbe la carica di Contestabile.  Arrigo Aristippo, sospettato di complicità con i baroni, perse il favore del re; lo riacquistò Matteo D’Aiello che, liberato dalla prigione, riebbe la carica di protonotaro. Guglielmo giurò di perdonare il passato di Matteo Bonello e di rimetterlo nella sua grazia ma ben presto il signore di Caccamo dovette imparare quanto sia stolto colui che crede al perdono di un principe contro il quale ha snudato la spada”.
Non tutti i baroni accettarono i patti di Caccamo. Alcuni baroni capitanati da “Tancredi e da Ruggero Sclavo, figlio di Simone (duca di Policastro), mantennero viva l’agitazione e, fatto il centro della rivoluzione la forte Butera, Piazza (Armerina) ed altre terre popolate da Lombardi, diedero addosso alle popolazioni musulmane di quelle parti, fedeli al re, e spinsero le loro incursioni fino a Siracusa e Catania”.

Ruggero Sclavo era figlio illegittimo di Simone del Vasto (detto anche Simone di Policastro o Simone Aleramico ) (Sicilia, ante 1137 – Sicilia, 1156), Conte Di Policastro, Butera, Paternò e Signore di Cerami. Simone era figlio di Enrico del Vasto e nipote di Adelaide Del Vasto moglie di Ruggero I. Diventò capo degli Aleramici di Sicilia  e Conte dei Lombardi in Sicilia.

Ruggero Sclavo, Tancredi, e altri nobili tra cui anche Bartolomeo di Grassuliato si asserragliarono nel munito castello di Butera (Il Castello di Grassuliato rientrava nella Contea di Butera e lo stesso Ruggero Sclavo rivendicava sul castello dei diritti feudali).

Castello di Butera

Dal sito: www.bandw.it


“Guglielmo era deciso a domare i ribelli, radunò un poderoso esercito e prima di partire, consigliato dagli amici di Maione di non lasciare libero a Palermo Matteo Bonello, chiamato alla reggia, ordinò di arrestarlo e di chiuderlo in prigione. Qui all’infelice giovane furono barbaramente cavati gli occhi e tagliati i garretti. Uguale sorte toccò a qualche suo parente ed amico”.
“Il popolo volle vendicare il suo eroe, uccisero il camerlengo Adenolfo e tentò pure di assalire la reggia che però resistesse perché ben difesa. Dopo inutili tentativi nella città tornò la calma. Guglielmo mosse contro gli insorti, assediò Butera dove si erano ritirati (i nobili), ma la città era fortissima come luogo di difesa ed era ben fornita di vettovaglie ed alimenti. L’assedio durò a lungo e già il sovrano, perdendo la speranza di conquistarla aveva deciso di allontanarsi, quando un’improvvisa discordia, sorta tra gli abitanti e la guarnigione, gli porse l’occasione di avere per patti Butera. La città fu distrutta e smantellata, Ruggero Sclavo e Tancredi ebbero salva la vita a condizione che partissero subito dal Regno”.
Stessa sorte toccò a Bartolomeo di Grassuliato, “abbandonare la Sicilia “extra regnum suum” non senza aver prima smantellato Grassuliato il cui presidio venne preso in ostaggio dall’esercito regio. Bartolomeo in questa fase della rivolta contro Guglielmo I fu uno dei nobili più attivi tanto da riuscire ad attirare nella disputa anche Goffredo di Monte Scaglioso (Matera).
La rocca venne quindi distrutta assieme a Piazza ed altri centri vicini occupati dai Lombardi.


Nel 1199 il Grassuliato è concesso a Bartolomeo da Amalfi

Durante il regno di Federico II di Svevia, dopo la cacciata definitiva degli Aleramici e dell’ultimo rampollo Ruggero Sclavo, per molti anni la fortezza era di pertinenza del regio demanio  e amministrata dal castellano Bartolomeo di Amalfi.
Il castello, che fu ricostruito, rimase  però demaniale per la sua particolare importanza e in un  diploma del 1240 l’imperatore Federico si lamenta con Giovanni Vulcano “provisor castrum”, per essere stato informato da Giacomo da Lentini, che la fortezza, della quale il Vulcano era castellano, manchi dell’indispensabile per le persone addette alla custodia, ordinando all’uopo che “pro necessariorum defectu castrum ipsum non remaneat immunitum" e di “pro munitione castri nostri Garsiliato”.
Si suppone che in questo periodo la terra sia in possesso di Giacomo da Lentini, altrimenti detto di San Basilio, parente con la famiglia di Giovanni Mazzarino, signore della vicina terra omonima, e con Riccardo da Lentini "prepositus edificiorum" (preposto alla costruzione dei casteli) dell’imperatore.

Nell’ultimo periodo della dominazione sveva la ricostruzione di Grassulato è completa e in un diploma del 7 febbraio 1266 si trova sotto la signoria di Pagano da Grassuliato.

Sotto gli Angiò la terra ritorna ancora demaniale. Infatti in un diploma del 1270  il feudo è obbligato al pagamento delle decime che deve con Avola, Mineo e Barrafranca al vescovo di Siracusa, indipendentemente da quelle che deve alla Reale Cappella di Palermo mentre in documento successivo del 1274 lo stesso sovrano cataloga il castello tra le fabbriche  regie “"Castrum Garsiliatae per castellanum unum militem et servientes quattuor".
 Il casale sotto la dominazione sveva ebbe un suo sviluppo entrando in “competizione” con le altre città demaniali di Caltagirone, Ragusa e Butera nel tentativo di espandersi nella sottostante pianura ai danni di Eraclia o Terranova (l’attuale Gela), assumendo l’ambito titolo di “Comitatus Grassuliati”.
Dopo la battaglia del “Vespro” il castello con il suo esteso casale erano di pertinenza di Ruggero Passaneto che aveva partecipato attivamente alla rivolta contro gli Angioini nel 1282 sollevando la contea e la terra di Mazzarino.
Le fonti storiche del Mugnos citano Ruggero Passaneto  “Conte di Grassuliato nel Ruolo Feudale di Federico d’Aragona, iniziatore di una dinastia di valorosi, che si mostreranno degni di tutti gli avvenimenti successivi”.
“Bernardo Raimondo de Rebellis Conte di Grassuliato, strenuo difensore della nave regia, nella celebre battaglia di Capo d’Orlando, de 25 giugno 1299, sta a poppa accanto a Federico d’Aragona, , mentre Ugone degli Eimpuri trovasi alla prua e Garzia Sancio accanto allo stendardo regio, quando a nulla vale il valore degli eroi e di Gombaldo de Insenga, "che vago di gloria e forsaneo di vendicare il suo nome, deturpato dal fratello traditore della Sicilia, cacciata la gomena, che li legava alle altre navi, la nimica fila investe", e muore arso di sangue, che perde da tutte le parti, trafitto da mille ferite, mentre cerca un attimo di riposo poggiando la testa sullo scudo, nè l'atto disperato dell'alfiere di Blasco d'Alagona, che nel vedere il suo signore ammainare la bandiera regia si toglie la vita urtando la testa contro l'albero della nave, mentre privo di sensi il giovane re viene sottratto alla prigionia, dopo che invano ha cercato la morte gloriosa in battaglia e rabbioso l'incontro con il fratello Giacomo”.

A Ruggero successe Riccardo ..Ancora negli avvenimenti del 1302, e nelle vittorie che precedono la pace di Caltabellota, del 24 agosto dello stesso anno, si distingue nella battaglia di Aidone Riccardo Passaneto, conte di Grassuliato,”, il cui figlio Ruggero…” che pur disobbedisce a re Pietro II, negli avvenimenti del 1338, viene reintegrato nei suoi stati dalla grazia sovrana”.


Ma fu un figlio di Riccardo, Blasco Passaneto, fedele alla corona Aragonese a diventare il primo “Conte di Grassuliato”… Il figlio di Riccardo, Blasco Passaneto, nuovo conte di Grassuliato, serve fedelmente Federico IV, fratello di Ludovico morto a 17 anni; poi quando il predominio dell'Isola viene conteso tra la nobiltà catalana e quella latina ed il regno sembra ancora una volta vacillare per la discesa degli Angioini di Napoli, che ancora non sanno rassegnarsi alla perdita dell'Isola, tra i fedelissimi della corona troviamo sempre Blasco Passaneto nei noti avvenimenti del 1374”.

Da Ruggero Passaneto il feudo passò a Raffaello Branciforti forse in seguito ad un atto di ribellione da parte di un successore di Blasco Passaneto.
La cronaca storica cita come primo signore di “Grassuliato e Mazzarino” nel 1392 “Nicolo” Branciforte… Un successore dei Passaneto si ribellò a Martino I e come conseguenza perse i feudi… Ma col successore chiamato con nomi diversi dagli storici e che si ribella a re Martino, inizia la rovina progressiva di Grassuliato, che viene data in feudo, nel 1393, a Niccolò Branciforti, barone della vicina terra di Mazzarino”.
Nel 1408 è “sotto questa famiglia rimane e la troviamo nel Ruolo di Martino..” Grassuliatum Comitatus et Castrum apud Platiam nobilis Thomasij de Brachilis Fortibus", figlio del precedente conte Niccolò, che si era segnalato nella ribellione di Piazza, e fratello di Federico barone di Mazzarino”.
Nel 1507 Nicolo Melchiorre Branciforti è il primo conte Di Mazzarino e Grassuliato.

In tutti i contratti notarili della fine del XV secolo Nicolò Branciforti si firmerà sempre “"Dominus Terrarum Mazareni, Grassuliati, Auguste, etc.".
La terra del Grassuliato è ancora abitata da qualche vassallo e in qualche contratto notarile è citato ancora un magistrato in carica.
Giovsnni Luca Barberi (XV secolo – XVI secolo) ( notaio e giurista autore di un’opera che descrive i feudi popolati, terre e contee, siciliani dal feudalesimo al Seicento) cita il Grassuliato tra i feudi disabitati e soggetta al “Mero e Misto Impero” con Mazzarino e con i feudi di Gallitano, Gibiliusi, Alzacauda, Sofiana, Porcaria, Bauci, Mandrablanca, Candiacagghiuni. Tutti casali abitati in precedenza e che entrarono a fare parte della Contea di Mazarino con un privilegio del 21 febbraio 1507 di Ferdinando il Cattolico al su citato Niccolò Melchiorre Branciforti che era anche signore delle terre di Augusta e di Melilli e che come abbiamo visto fu il primo conte di Mazzarino e Grassuliato.

Nel 1550 il castello era probabilmente già abbandonato dato che anche il Fazello cita: "il piccolo centro fortificato di Grassuliato con la sua rocca" distante diciotto miglia da Biscari - Fazello, I, p. 477.

Del XVI secolo è lo spopolamento del feudo di Grassuliato con il trasferimento dei vassalli nella vicina Mazzarino.
Una leggenda narra che nel Castello di Grassuliato sia presente il fantasma di Federico II di Svevia. Proprio in questo castello Federico II e Bianca Lancia furono amanti. Una forte storia d’amore. Bianca Lancia aveva sedici anni quando riuscì ad infiammare il cuore dell’uomo più  potente e freddo del Medio Evo. Era figlia di Bonifacio I d’Agliano, conte d’Agliano, Mineo e Signore di Paterno e di una Bianca Lancia figlia a sua volta del marchese piemontese Manfredi I Lancia.

Il Castello di Grassuliato e sulla sinistra Monte Formaggio

STRUTTURA ARCHITETTONICA

Dai resti è difficile ricostruire la maestosità del castello. I resti non costituiscono un sistema unitario e attraverso la relativa lettura dei tre gruppi di ruderi, ancora esistenti, è possibile avere una visione frammentaria di quello che doveva essere la fortezza.

http://www.siciliafotografica.it/homesic/index.php/reportage-mainmenu-81/nella-storia-mainmenu-86/162-lantico-grassuliato

 Il Castello fu ricostruito in epoca sveva presentando gli aspetti tipici  dell’architettura che ne contraddistingue il periodo: su scosceso monte; solide mura, apertura a nord con arco a sesto acuto, vaste cisterne nei sotterranei che portavano dal castello nella sottostante vallata.
Si distinguono tre diversi gruppi di costruzione, disposti su piani diversi e risalenti a varie età. Aspetti desumibili dalle diverse strutture dei muri e dai diversi materiali impiegati per la costruzione.
Il primo gruppo è costituito da due ambienti scoperti orientati sud-nord. Su una parte si aprono tre feritoie strombate. In direzione sud-ovest, rispetto agli ambienti precedenti, si trovano le rovine di un muro e di un ambiente quadrangolare di metri 4 di lato, forse una torre. Tracce di un’altra torre identica si trova sul lato opposto. Forse collegato al muro predetto si trovava un ambiente rettangolare, piuttosto ampio. Questi resti costituiscono il terzo gruppo di rovine che sono i più interessanti. Si tratta di un grande salone scandito da tre campate quadrate che erano chiuse da crociere.


Sono presenti i muri di una cappella per il culto cristiano, costruita in mattoni pressati, costruita in mattoni pressati, ed attaccata al lato sud della struttura muraria.

Di gran valore architettonico è una mensola angolare sulla quale scaricavano il loro peso le volte. I resti fuori terra visibili consentono una ricostruzione parziale dell’impianto che secondo G. Agnello sono da attribuire ad epoca sveva.


http://www.siciliafotografica.it/homesic/index.php/reportage-mainmenu-81/nella-storia-mainmenu-86/162-lantico-grassuliato
La proprietà è pubblica.

(Nella stessa contrada Salomone è visibile una struttura a pianta circolare dove furono rinvenuti frammenti di età castelluciana, Bronzo Antico databile tra il 2200 – 1400 a.C.; frequentazione di età greca con abitato (edificio di culto e cisterna campaniforme)

VIDEO SUL CASTELLO DI GRASSULIATO 
https://www.youtube.com/watch?v=P2l__8dDdmg&t=48s








http://mazzarino.altervista.org/archivio/opuscolo/opu34.htm





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