LA TORRE DI MANFRIA E IL VILLAGGIO PREISTORICO
CASTELLI E TORRI DELLA PROVINCIA DI CALTANISSETTA
TORRE DI MANFRIA - COMUNE DI GELA (CL)
Il
prospetto sud-est presenta al primo piano una finestra rettangolare al centro
della parete (posta a circa 1 metro dal cordone marcopiano). In questo lato
l’intonaco originario era ben conservato soprattutto al piano terra. La mia
visita alla torre risale al 1995…
Il territorio è
tutelato dalla Comunità Europea come:
TORRE DI MANFRIA - COMUNE DI GELA (CL)
User:Luca83
Manfria è una località balneare posta sul Golfo
di Gela, provincia di Caltanissetta, da cui dista circa 12 km.
Una
zona dalla grande valenza storica, archeologica e naturalistica.
Nella
località è presenta una Torre costiera, posta su una collina sovrastante il
Golfo, che fu costruita su indicazione dell’architetto militare Camillo
Camilliani.
Dalle
notizie in mio possesso è ancora di proprietà privata e fino ad un paio d’anni
fa si trovava in discrete condizioni strutturali tranne per la terrazza e per
alcuni cornicioni.
È
una delle torri costiere più grandi e più importanti dell’isola. Francesco
Maria Emanuele Gaetani, Marchese di Villabianca, nei suoi “Diari Palermitani”, la cita con il termine di “Torre di Sferracavallo” e
spesso anche come “Torre d’Ossuma”
dal nome di un vicerè.
Molti
storici collocano la sua costruzione nel1549 e cioè durante il viceregno di
Giovanni De Vega. Una struttura progettata dal Camilliani che aveva avuto
incarico dalla “Deputazione del Regno”,
di fortificare le coste della Sicilia. Sulla data non si è certi perché è
probabile che almeno il basamento fosse già presente da prima. Infatti in un
precedente censimento delle torri costiere era stata citata da Tiburzio
Spannocchi..”presenta un basamento tronco
conico simile alla Torre Mulinazzo di Cinisi”. Torre Mulinazzo che fu
costruita nel 1552 sempre sotto il
viceré Giovanni De Vega.
Nel
1578 è citata in Contrada Sferracavallo e “non
completata” e si consigliava che..”et
sarà bisogno fornirla alzandola circa dui canne di più”.
Nel
1578 la costruzione venne ripresa e completata proprio sul disegno del
Camilliani che nei suoi studi progettuali, proprio per la sua importanza
militare, l’aveva citata due volte. Disegnò un acquarello che raffigurava la
torre a pianta circolare con basamento a scarpata e parapetto con merli.
Disegni di Camillo
Camilliani (seconda metà del XVI secolo)
Da sinistra a
destra: Il progetto di completamento delle Torri di Falconara e di Manfria;
edificazione della
Torre “alla foce del fiume Dirillo”
Una
“torre assai adatta alla difesa perché in
comunicazione con il Castello di Butera a nord, con il Castello di Gela ad est
ed a ovest con la Torre di Falconara (poi castello)”.
Intorno
al 1620 (primo quarto del XVII secolo) fu ricostruita o comunque subì delle
modifiche strutturali per assumere l’aspetto attuale. Secondo il Villabianca
una ricostruzione voluta dal viceré Pedro Giron, duca di Ossuna.
Negli
archivi della “Deputazione del Regno”,
si cita che a partire dal XVIII secolo (anni 1717, 1757 e 1797) la guarnigione
che presidiava la torre era costituita da quattro soldati ed un sovrintendente
( “torrari”) che era scelto tra i
cavalieri della città di Terranova (Gela).
Nel
1804 sempre dagli archivi della “Deputazione
del Regno”, si cita come sovrintendente “Don
Mariano Carpinteri e Gravina, di Terranova”. Don Mariano fece costruire una
scala esterna d’accesso, costituita da due rampe, che è ancora oggi visibile.
Nel 1867 è citata nelle opere militari da dismettere.
I
“Torrari” erano retribuiti dal Comune
di Terranova (l’antica Gela) e provvedevano a segnalare le scorrerie dei pirati
dal mare e ad effettuare una prima difesa militare con l’uso di archibugi, una
bombarda e liquidi bollenti che venivano versati sugli assalitori dalle
balconate o dalla caditoia posta sopra l’unico ingresso della torre.
Dalla
Torre segnalavano il pericolo con l’uso di specchi e produzione di fumi durante
il dì e con fuochi (fani) durante la notte. I segnali venivano percepiti dalle
torri vicine: Falconara ad ovest, il Castello di Butera a Nord e dalla Chiesa
di Santa Maria di Platea, ad est, il cui campanile aveva anche funzioni di
torre secondaria di avvistamento e segnalazione.
Castello di
Falconara
Castello di Butera
Gela – La Chiesa
Madre, fine Ottocento
La Chiesa Madre fu
costruita nel 1766 sul sito dove sorgeva
la trecentesca Chiesa di Santa Maria de Platea.
Il termine “Santa
Maria de Platea” è legato alla conservatoria dei documenti. Nella Chiesa si
conservavano i documenti di proprietà dei beni e delle persone, tra cui schiavi
e servi. Luogo che era chiamato “platea”.
La nuova chiesa fu
completata nella prima metà dell’Ottocento ed è dedicata alla Vergine Assunta
Madre di Gesù..Nella Cattedrale si trova anche un pregiato dipinto su tavola,
con fondo in oro, raffigurante Maria SS. dell’Alemanna (o della Manna), patrona
di Gela, che viene festeggiata l’8 settembre.
Foto dal sito: http://www.gelabeniculturali.it/CHIESE-CHIESA%20MADRE.htm
L’Icona della
Madonna dell’Alemanna (o della Manna).
Una tradizione
cita che fu portata da alcuni viandanti ebrei che furono ospitati nel
territorio gelese. Come ringraziamento donarono ai Terranovesi un’ icona che
era legata al miracolo del cibo ricevuto dal cielo, da Dio, agli israeleti
durante l’attraversamento del deserto. Per questo motivo la chiamarono Madonna
della Manna.
Un'altra
tradizione la lega all’ordine religioso dei Teutonici di Santa Maria de
Alemanna (Ordo domus Sanctae Mariae
Teutonicorum) che fu fondato a S, Giovanni d’Acri (Israele) nel 1190 da
cittadini della Lubecca e Brema. Nel 1198 l’ordine religioso fu trasformato in
ordine cavalleresco. Secondo l’abate Rocco Pirri l’ordine Teutonico fondò a
Terranova un tempio ed una casa, dipendente della Magione di Palermo, per
alloggiare i pellegrini che si
Recavano a
Gerusalemme. Un analoga fondazione avvenne anche nella città di Messina e il
tempio
dedicato a Maria
SS. dell’Alemanna.
La Magione di Palermo
cioè la Basilica della SS. Trinità del Cancelliere
Nel 1197 fu
concessa all’Ordine Teutonico
http://www.ilgeniodipalermo.com/itinerari/il-circuito-del-sacro/chiesa-della-magione.html
L’antico Santuario
del XIII secolo dedicato a Maria SS. dell’Alemanna fu demolito intorno
al 1860 per essere
ricostruito nel 1865. Durante la pestilenza dovuta al colera il Santuario fu
adibito a lazzaretto.
Nel luglio 1943,
durante lo sbarco alleato, fu colpito dai bombardamenti e saccheggiato dalle
truppe!!!!!!!!!. Fu abbandonato e chiuso al culto nel 1969 e demolito nel 1973
per le sue precarie condizioni strutturali. Fu ricostruito e riaperto al culto
il 15 settembre 1985. L’icona della Madonna, chiamata dal popolino “Saccaredda,
cioè “acquaiola” perché dispensatrice
di pioggia, era conservata in questo Santuario ed oggi si trova nella Chiesa
Madre.
Foto dal sito: https://gela.italiani.it/festa-maria-ss-alemanna-patrona-gela/
Santuario della Madonna dell’Alemanna
La botola dove fu rinvenuta la Sacra Icona
Locandina con i
festeggiamenti del 1898 in onore della Madonna “della Manna”
Foto dal sito: http://www.gelabeniculturali.it/CHIESE-CHIESA%20MADRE.htm
Gela, Chiesa Madre
– Cripta della navata sud
Durante i lavori
di rifacimento della pavimentazione della Cattedrale vennero alla luce diverse
cripte. Si trattava di sepolture di nobili risalenti al ‘700. Gli scavi hanno anche restituito diversi
reperti di epoca greca e
anche il basamento
appartenente ad un tempio greco.
http://www.gelabeniculturali.it/CHIESE-CHIESA%20MADRE.htm
“L’avviso d’aiuto”, emesso dalla
Torre di Manfria, arrivava fino a Cammarana, a est di S. Croce di Camerina, e
con gradualità alle altre torri. Nel giro di un’ora circa le segnalazioni
arrivavano nei porti delle principali città dove erano ormeggiate le navi da
guerra pronte a salpare in caso di azione militare.
Le
segnalazioni erano inoltre dovevano raggiungere anche le città interne, le
campagne, i casali, ecc.
Questo
avveniva grazie alla presenza di torri secondarie come quella dell’Insegna e
del Convento dei Padri Cappuccini.
La Torre Insegna
di cui non c’è traccia.
Gela – La Chiesa e
il Convento dei Padri Cappuccini, con i
frati e i seminaristi, negli anni ’50.
I Padri Cappuccini
vennero a Gela nel 1574 prendendo possesso dell’antico convento abbandonato dei
Frati Minori conventuali che risaliva al 1262. La chiesa, con pregevoli opere
d’arte, risale allo stesso periodo. Il convento dopo la soppressione degli
ordini religiosi ( R.D.3036 del 7 luglio 1866)
e durante la pestilenza di colera del 1867 fu prima trasformato in
lazzaretto e poi nel 1870 in ospedale e ricovero per trovatelli. L’antico
convento venne demolito negli anni ’50 per essere ricostruito con l’annesso
Seminario Serafico.
http://www.gelabeniculturali.it/CARTOLINE%20RICOLORATE.htm
STRUTTURA ARCHITETTONICA
Piante, sezione e
prospetto della Torre Manfria
(https://www.icastelli.it/uploaded/castelli/1314953368.jpg)
(Torre di Manfria
Fronte Nord-Est
con la scala del 1805 – Caditoia con finestrella e due mensole –
Finestra sulla
sopraelevazione della terrazza)
Il
primo piano è quasi interamente occupato da una cisterna e fungeva anche da
deposito di legna, munizioni, spingarde, schioppi, polvere da sparo e palle da
cannone.
Le
pareti del piano terra sono a scarpata e prive di aperture.
Il
fronte nord-est presenta una scala in muratura a due rampe che fu realizzata
nel 1804 dal sovrintendente della torre Don Mariano Carpinteri e Gravina, di
Terranova. Scala in muratura che sostituiva delle corde o una scala in legno
amovibile.
La
seconda rampa, appoggiata direttamente alla parete della torre, è sorretta da
due archi. Permette, attraverso una porta con arco a tutto sesto, posta a
livello del cordone bombato marcopiano, l’accesso diretto all’unico ambiente che
costituisce il primo piano.
La
porta è protetta da una caditoia con finestrelle di cui restavano due mensole.
La
sopraelevazione sulla terrazza presenta una finestra rettangolare.
Sullo
spigolo est della terrazza sono visibile tre mensole litiche di una originaria
piattaforma aggettante.
Il
successivo fronte sud-ovest presenta anch’esso una finestra rettangolare, posta
al centro della parete del primo piano, che è incorniciata da conci, mentre
all’altezza delle terrazza erano visibili i tre mensoloni litici della
piattaforma sullo spigolo ovest. Su questo lato il prospetto della terrazza era
scomparso.
Il
fronte nord-ovest è privo di aperture.
Il
primo piano presenta un unico vano quadrato (5, 73 metri x lato) coperto da una
volta a botte impostata sui muri sud-est e nord-ovest (lo spessore dei muri è
di 1,90 metri).
Il
vano porta, di metri 0,90 all’ingresso, si allarga verso l’interno fino a
raggiungere la larghezza di 1,80 metri. Vano che presenta l’alloggiamento per
la robusta stanga di chiusura.
Al
centro della stanza si apre la botola circolare di collegamento alla cisterna.
Al centro della parete nord-ovest c’è un ampio camino ad arco ribassato alto
1,90 metri e largo 1,65, mentre una finestra (larghezza del vano finestra:
esterna 0,90 metri ed interna di 1,55 metri) si apre rispettivamente al centro
dei lati sud-est e sud-ovest.
La
scala di collegamento alla terrazza, posta in corrispondenza dell’angolo est, è
ricavata nello spessore murario. Presenta una larghezza di 0,76 metri ed è
costituita da 24 gradini. Una finestrella le dava luce e permetteva l’utilizzo
della caditoia.
La
terrazza è costituita da una rialzamento impostato sul parapetto. Lo spessore
murario è di 0,50 metri ed ha chiuso o obliterato l’accesso alle due
piattaforme angolari.
La
sopraelevazione al tempo del sopralluogo regio di Mazzarella e Zanca, era
ancora dotata di copertura a due falde anche se parzialmente semidistrutta.
Quasi integro il pavimento della terrazza realizzato in belle mensole calcaree.
LE SEGNALAZIONI :
I FANI SULLA TORRE
L’uso
di fuochi e dei fumi emessi da una sommità naturale o artificiali (le torri),
era una tecnica per comunicare a distanza molto diffusa nell’antichità.
Cicerone la cita nel quinto libro delle “Verrine”
come “un sistema precedente del tempo”.
Nel
Mediterraneo il perfezionamento della tecnica e dei modi dei segnali è da
attribuire ai greci.
È
probabile che siano riusciti ad organizzare prima un sistema di
alfabetizzazione dei segni capace di formare singole sillabe e successivamente
vere e proprie frasi di senso compiuto.
La
mitologia e la letteratura greca, da Eschilo ad Omero, sono ricche di
riferimenti su questo tipo di trasmissione di messaggi.
Clitennestra,
nell’Agamennone di Eschilo, risponde al coro che le chiedeva come fosse
riuscita ad avere così presto le notizie sulla caduta di Troia. Risponde
dicendo avere avuto la notizia da Vulcano che grazie allo splendore dei suoi
fuochi aveva propagato il messaggio sino ad Argo:
Coro : “ma quale messaggio potrebbe arrivare così
presto di là ?”
Clitennestra: “Efesto, splendendo dall’Ida bagliore di
fiamma/e fiammate fin qui suscitando fiammata/e il fuoco è il corriere……”
Siracusa – Teatro
Greco – “Agammenone” di Eschilo
Omero
nell’Iliade “trasforma” più volte
Achille in una sorta di “emittente” luminosa. Questo avviene, ad esempio, quando Achille
adopera il suo elmo per chiamare a soccorso i popoli vicini:
“… compariva la fiamma che aggirandosi intorno alla
testa di Achille/ spargeva da
lontano il suo splendore…”
e poi ancora
quando paragona il suo scudo:
“….(scudo) grande e pesante/ da cui lontano arriva il
chiarore, come di luna/
come quando splende in mano ai naviganti il chiarore/
d’un fuoco accesso, ch’arde in alto sui monti/
in una stalla solinga, e i turbini loro malgrado/
li portan sul mare pescoso, lontano dagli amici/
così saliva all’etere il lampo dello scudo di Achille/
bellissimo, adorno, infine alzando l’elmo/
potente se lo calò sulla testa; come stella splendeva/
l’elmo coda equina, la chioma d’oro ondeggiava”
(Omero, Iliade, canto XIX, vv. 373-382).
Dante
nella Divina Commedia, nel canto VIII dell’Inferno, descrivendo il proprio
arrivo con Virgilio sulle rive dello Stige (uno dei fiumi degli inferi dove
Teti immerse il neonato Achille per
dargli l’invulnerabilità. Non immerse il tallone, che non essendo
toccato dall’acqua, rimase vulnerabile). Dante osservò i fuochi che dalle torri
di vedetta segnalavano l’arrivo di due stranieri alla città di Dite:
“lo dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo
al pié de l’alta torre,
li nostri n’andar suso a lima per due fiammette che i
vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno, tanto ch’a pena il
potea l’occhio tòrre. E io mi volsi
al mar di tutto ‘l senno; dissi”Questo che dice ?
e che risponde quell’altro foco? E chi son quei che ‘l fenno?”
(La Divina Commedia, Inferno, VIII, 1-9)
I
“diavoli” accendono “due fiammette” per comunicare che gli estranei in arrivo
sono due. Nel periodo era presente un
codice ben preciso di comunicazione per fornire le maggiori informazioni
possibili. Nei presidi costieri il numero dei fuochi equivaleva al numero delle
navi in avvicinamento. Era necessario evitare equivoci ed errori, come citavano
le istruzioni impartite, ad esempio, ai “torrari” genovesi nel 1449…
«vigilino con attenzione e scrutino fuochi e fumi che
fossero fatti da occidente, e se vedranno un fumo esser fatto di giorno anche
loro di giorno facciano un gran fumo così che la torre del Capo di Faro possa
vederlo. E se vedranno tre falò fatti di notte anch’essi facciano tre fuochi
insieme e contemporaneamente, ma divisi in modo che da lontano appaiano
distinti, per evitare che a causa della vicinanza possano magari indurre in
errore».
Interessante
un disegno di Lucca, risalente al 1692, che illustra un ingegnoso sistema di
traguardi per riconoscere al buio la provenienza dei segnali.
La prestigiosa
Repubblica di Lucca già agli inizi del XVI secolo aveva modificato radicalmente
il sistema difensivo
della città.
Furono realizzate imponenti mura di cinta ( sempre più condizionate
dall’evoluzione delle marmi da fuoco)
e anche una nuova
organizzazione delle milizie. Nel 1532 fu riorganizzata la Milizia del Contado,
nel 1541 venne
istituita la Milizia della Montagna e nel 1570 venne riformata la Milizia
Urbana.
Per il territorio
molto accidentato si rese necessaria anche una radicale revisione del vecchio
sistema di comunicazione ottica che era basato sulla solita rete di torri
visibili tra loro e strategicamente ubicate sul territorio dello
Stato Lucchese. Il
sistema poneva al centro la Torre del Bargiglio che, grazie alla sua posizione
sul monte che sovrasta
il Borgo a
Mozzano, comunicava con la Torre del Palazzo di Lucca e con gran parte delle
torri “delle sei miglia” e per questo motivo veniva
chiamata “L’Occhio
di Lucca”.
Torre del Bargiglio
foto di:Riccardo
Iacomini
Torre del
Bargiglio
le segnalazioni
venivano fatte di giorno con il fumo e la notte con i fuochi dalla torre di
Bargiglio.
La Torre del
Palazzo degli Anziani a Lucca, rasa al suolo nel 1807, aveva tre fanali alla
sua sommità e sotto la terrazza c’era la “stanza delle vedette”. Qui 4
“torrari” si alternavano giorno e notte per vigilare sui segnali delle torri
del territorio.
Per rendere più facile e più attento il lavoro dei “torrari”, nelle quattro
pareti della “stanza delle vedette” furono fissati dei tubi di ottone, detti
“mire o traguardi”, che erano puntati sulle torri del distretto delle “sei
miglia”.
Un sistema di
comunicazione ottica, un importante tassello nell’imponente fortificazione
dello Stato della Nobile Lucca.
Lucca – Borgo
Mozzano – Il Ponte del Diavolo
https://www.toscanaovunquebella.it/it/borgo-a-mozzano/il-capomastro-e-il-viandante
Interessante
un documento che riporta i codici di segnalazione risalente al 1260…
«Se verrà avvistata gente nemica, qualunque sia il
numero (...) si faccia un solo falò. Se invece verrà un piccolo drappello,
duecento uomini poco più (…) si facciano due falò contemporaneamente, e li si
alzi e abbassi due volte. Ma se contro di noi verrà moltissima gente o un
esercito numeroso, si facciano tre falò contemporaneamente, e li si alzi e li
si abbassi per tre volte».
Il
Bono cita che le comunicazioni in Sicilia si avvalevano dei “mazzoni” (fasci di legna) posti sull’
“astracu” (terrazza) di ogni singola torre:
“avvistata un’imbarcazione o una squadriglia corsara,
gli uomini della torre davano l’allarme. Di giorno si faceva una fumata
bianca, provocata dalla bruciatura di fieno e arbusti cosparsi di bitume e un
po’ inumiditi. A questo scopo su ogni torre erano predisposte grandi pignatte o cesti
metallici al cui interno poggiava una graticola. In questi contenitori, che venivano
fatti scorrere lungo dei pennoni perché raggiungessero un altezza maggiore, quando era
buio si accendeva un
fuoco, che poteva essere visto dalle torri contigue.
Servendosi del numero, in genere da uno a tre e della
durata di accensione dei fuochi, si poteva trasmettere qualche informazione
sulle navi corsare”.
Di
giorno l’elemento essenziale per il messaggio era il fumo. Era indispensabile
porre un sistema idoneo per produrre molto fumo per un certo periodo. Costruire
una camera di combustione era una necessità. Camera di combustione che poteva
essere costituita anche da un grande recipiente. La buca o recipiente limita al
combustibile la quantità di ossigeno occorrente per una buona alimentazione
della fiamma e costituisce, pertanto, un adattissima fonte per la produzione di
alte colonne di fumo, ottime per segnalazioni a grande distanza.
Era
questo un sistema adottato dai Cartaginesi nell’età punica. Scavano profonde
buche sulle montagne per produrre fumo con una visibilità a 360°.
Nella
seconda metà del secolo XVI fu sperimentata una particolare codificazione
curata dalla “Deputazione del Regno di
Sicilia”.
Un
messaggio militare che venne trasmesso per mezzo di un dispaccio con l’ordine
di comunicarlo a tutti i “torrari”:
“…et vedendo una infin a quattro vele facciate
incontinente sendo di giorno un fumo;
et di quattro in
otto vele due fumi et essendo da otto in dodici et più vele tre fumi;
et essendo di
notte o di giorno nevoloso et oscuro facciate i midisimi segni con fuoco
inalzando et
abbassando lume acceso tante fiate quanti segni v’occorrerà fare;
et acciochè
abbiate pronta comodità di fare i sudetti segni terrete fatta provvigione
di frasca et anco
vi potrete servire secondo il bisogno delli capi di canapo
che vi fanno
assegnare”.
C’era
poi i “fani di sicurtà o di sicuranza”
che erano quei fuochi che restavano sempre accesi o restavano luminosi per
lunghi periodi, a significare che in quell’area non esisteva alcun pericolo.
Questi
fani potevano anche essere accesi sui campanili o sui luoghi elevati e
facilmente avvistabili.
Un antica foto della Torre munita ancora della sua copertura.
La Proprietà fino al maggio
2016 era ancora privata (fratelli Sig.ri Jacono)
Il
Comune di Gela fece una proposta ai proprietari della torre e di alcuni terreni
limitrofi per una permuta tra volumi
identici e aree compatibili. Non so se la proposta fu accettata dai
proprietari.
La
proposta non fu accettata … Il “Quotidiano di Gela” il 21 giugno 2018 riportò
la notizia “Pali e Cemento armato a ridosso della Torre di Manfria”.
Si
trattava di una recinzione e naturalmente la polizia Municipale fece subito un
sopralluogo e inoltrò una missiva alla Soprintendenza ai Beni Culturali perché
il sito non solo è di alto valore
turistico ma è anche sottoposto a vincoli come pure l’area balneare.
Come riporta il Quotidiano, la messa in opera dei pali sembra
sia stato ordinata dai legittimi proprietari di un podere limitrofo alla torre
di Manfria. (con esattezza sono stati collocati delle travi con base in cemento
armato).
Sul posto si sarebbero recati, oltre agli
agenti della municipale, anche alcuni esponenti del consiglio comunale.
“Ho avvisato il proprietario Fabrizio Iacona – assicura il professore Nuccio Mulè – Era all’oscuro. Domattina andrà a vedere cosa sta realmente accadendo. Naturalmente sarò presente anche io”.
https://www.quotidianodigela.it/pali-e-cemento-armato-a-ridosso-della-torre-di-manfria-indaga-la-polizia-municipale/“Ho avvisato il proprietario Fabrizio Iacona – assicura il professore Nuccio Mulè – Era all’oscuro. Domattina andrà a vedere cosa sta realmente accadendo. Naturalmente sarò presente anche io”.
Il territorio è
tutelato dalla Comunità Europea come:
ZPS – Zona di Protezione
Speciale
(Zone
di Protezione poste lungo le rotte di migrazione dell’avifauna. L’obiettivo
dell’istituzione di queste zone è il mantenimento di idonei habitat per la
conservazione e gestione delle popolazioni di uccelli migratori- (Direttiva
79/409/CEE- Rete Natura 2000)
Codice
: ITA050012
Denominazione:
Torre di Manfria; Biviere e Piana di
Gela
Superficie
: 25057 ha
----------------------------------
SIC – Sito di
Interesse Comunitario o Sito di Importanza Comunitaria – Direttiva 92/43/CEE
(Direttiva
del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali
e della flora e della fauna selvatica, nota anche come Direttiva Habitat.
Direttiva recepita in Italia dal 1997.
Codice:
ITA 050011
Denominazione
: Torre di Manfria
Superficie:
720 ha
Problematiche
ambientali: numerosi interventi (villaggi turistici, lidi, gasdotti, cave, aree
industriali ecc.) senza Valutazione di Incidenza o con Valutazioni di Incidenza
difformi dall’art. 6 comma 3 della Direttiva Habitat. Grave nocumento dei
numerosi habitat e specie prioritarie. Imminenti nuovi progetti a forte impatto
negativo ( impianto fotovoltaico di enormi dimensioni ?).
Codice:
ITA050001
Denominazione:
Biviere e Macconi di Gela
Superficie:
3663 ha
REGIONE SICILIA
DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE
PUBBLICO DELLA LOCALITA’ MANFRIA
Decreto 21 gennaio 1987
GURS – PART. I N.9 – 28/02/1987
COMUNE DI GELA
Piano Regolatore del Comune di Gela
GURS Part. I , N. 51 – 24/11/2017
LA LEGGENDA
" LA TORRE E MANFRINO, IL GIGANTE BUONO”
La
torre è legata ad una leggenda secondo la quale il gigante Manfrino, buono e
fortunato, era a guardia di un tesoro che era stato nascosto nel luogo. Una
leggenda legata al ritrovamento di monete greche e romane in un sperone
roccioso della zona. Sperone che oggi non è più visibile e che era
interpretato, nella fantasia popolare,
come la sua orma lasciata proprio sulla roccia.
Il
gigante aveva un bella sorella che per riservatezza non usciva mai dalla sua
terra. La gente del luogo non sapeva nemmeno quale fosse il suo nome, era solo
chiamata da tutti “la bella Castellana
della Torre”.
Raccontando la leggenda mi è venuto in mente una
figura del passato anche se collegata ad un film…
Il gigante buono, Michael Clarke Duncan, interprete
del “Miglio Verde” e scomparso nel 2012.
Nel film vittima dell’invidia e della crudeltà umana.
Il
feudo della Torre di Manfria arrivava vicino al castello di Falconara con cui
confinava. Il castello di Falconara era
circondato da un bellissimo giardino con grandi alberi fruttiferi, palme, orti
rigogliosi, ruscelli d’acqua limpidissima e una grande distesa di fiori. Fiori
che il Gigante, dall’animo gentile, avrebbe voluto raccogliere per la gioia
della sorella a cui piacevano.
La
leggenda dice che il ricco Signore di Falconara aveva eredito tutto ciò da un
Cavaliere di Malta di cui non si conosce il nome. Manfrino era sempre in giro
per il suo feudo con il suo cavallo e un giorno vide in lontananza una
bellissima figura femminile. Aveva una folta chioma bionda, vestiva con
eleganza e mostrava una grande grazia, dolcezza nel muoversi. Una donna unica
ricca di aspetti esteriori che non aveva visto in altre donne del luogo. La donna camminava nei suoi campi in modo
strano come se si fosse perduta. Manfrino spronò il cavallo per andarle
incontro e quando stava per raggiungerla la bella figura femminile… svanì nel
nulla.
“La Castellana di
Manfria”,
vedendo il fratello tanto afflitto dal ricordo di quella bella figura
femminile, svanita nel nulla, che
ripetutamente cercava nel suo feudo, decise di organizzare una festa con la
speranza di vedere tra gli invitati la ragazza
che il fratello adorava..
Alla
festa parteciparono principi e nobili da tutti i luoghi della Sicilia… e
proprio dopo pochi attimi dall’inizio della festa apparve, quasi furtivamente,
la donna che il Manfrino aveva visto nel feudo.
Una
figura così bella, cara e forse tanto distante dalle altre donne che ambivano
alle ricchezze del gigante.
La
torre con il suo feudo era conosciuta ed ambita da molti nobili. Nobili che
nella loro avidità non si sarebbero fermati davanti a nulla pur di entrarne in
possesso. Manfrino però per la sua forza, per la sua altezza, metteva paura e
nessuno si azzardava di molestarlo per non subire gravi conseguenze.
Ma
quella sera tutta la nobiltà, tanti uomini e anche armati, intuì che era forse
il momento migliore per agire contro Manfrino.
Alcuni
nobili, dopo un conciliabolo, decisero di agire.. sprangarono la porta
d’accesso alla Torre e uccisero tutti gli invitati e per ultima, mostrando una feroce crudeltà,
uccisero la “Castellana di Manfria”.
Il
Gigante buono non aveva tenuto conto
dell’avidità, dell’invidia e della
superbia umana. Nel suo sogno d’inseguire un amore sfuggente finì con l’essere
ucciso crudelmente da chi invece bramava, la fanciulla tanto amata e cercata
aiutò con il suo comportamento i carnefici, tutto ciò che il Gigante buono
possedeva.. “Uccisero il Manfrino, il
Gigante buono ma non poterono uccidere il suo
ricordo e quelle grida d’aiuto che ancora oggi nelle notti serene, nella quiete
silente del sito, ad orecchie attente non possono sfuggire”.
Fonte nord-ovest
Le
foto evidenziano, purtroppo, uno stato di degrado. Non so se la situazione sia
cambiata. Al momento della mia visita, nel 2012, la strada era costellata di
rifiuti e la stessa torre, davanti allo scenario del Mediterraneo, l’antico
“Mare Nostrum”, era in completo abbandono e questo malgrado la presenza di un
cancelletto probabilmente più volte aperto. I muri pieni di graffiti,
immondizia e tanto altro che testimoniano un incuria perenne.
MANFRIA
LA ZONA ARCHEOLOGICA
La
zona di Manfria è costituita, dal punto di vista planialtimetrico, da un gruppo
di colline di varia altezza e di varia natura geologica che delimitano verso
occidente la Piana di Gela.
Colline
che raggiungono l’altezza di circa 120 m s.l.m. e che si trovano tra la linea
ferrata ed il mare intervallati dal passaggio della SS 115.
Dal
punto di vista geologico la zona non è uniforme. Il gruppo di colline a Nord
sono costituite da calcarei sabbiosi del Pleistocene mentre il gruppo di
colline, compreso tra la Strada Statale e il mare, è costituito da strati di
gesso (era del Miocene) alternati a strati argillosi e calcarei di tipo
marmoso.
La
loro posizione di privilegio sul mare e sulla Piana di Gela, ha consentito
l’insediamento dell’uomo dall’età preistorica al Medioevo. Dai primi villaggi
della prima età del Bronzo si passa alla successiva era media del Bronzo.
Dall’era
media del Bronzo si giunge ai resti di fattorie e di impianti Greci che furono
nella zona molto frequenti nel periodo che va verso la metà del IV secolo a.C.
cioè dopo la ricostruzione Timolentea di Gela.
La
zona fu abitata anche nel periodo romano ed esattamente nell’età Repubblicana e
soprattutto, con una certa espansione, nell’età Imperiale. Sono numerosi resti
rinvenuti nella località “Piano della Marina” limitrofa a Manfria. I
rinvenimenti attestano pure una frequentazione di Manfria in età Paleocristiana
e Bizantina. Non ci sono in zona resti della dominazione Araba. È questa una
caratteristica strana dato che la località si trova non solo in vicinanza della
fertile Piana di Gela ma anche in prossimità del mare.
La
zona fu distrutta da Federico II di Svevia dopo aver fondato nel 1233, nel
luogo dell’antica Gela, la città medievale di Terranova. La zona con il
progredire del nuovo Feudo di Terranova fu abbandonata. Dal punto di vista
archeologico la zona più interessante è quella posta a sud della Strada Statale
115 e costituita da tre colline in parte gessose e calcaree.
Verso
Nord la collina di Zinglinò con la sua caratteristica cresta rocciosa; verso
Est e verso Ovest da colline la cui altezza scende verso Est con un pendio in
cui s’incontrano delle fattorie che sono indicate come “Case Manfria” (non so
se ancora esistenti).
Le
pareti delle tre colline sono costellate da tombe a forno della prima età del
Bronzo e sono abbastanza numerose.. ben 125.
I
loro corredi funerari erano costituiti da vasi fittili, coltelli di selce e
ossidiana, asce di pietra, fuseruoli, chiodini, due primitive perle di bronzo,
etc.
Qui
si trova il villaggio preistorico di “Manfria” la cui posizione geografica fu
attentamente studiata dai suoi abitanti.
Esposto
ad Est e a Nord, aveva la vista sul mare e sulla piana, e coperto alle spalle
dal vento dominante di ponente da un arco chiuso di bassi costoni rocciosi che
potevano essere facilmente adoperati come necropoli.
La
zona era molto alberata dato che negli scavi furono trovati un gran numero di
ossa di daini e cinghiali.
La
stessa ubicazione del villaggio, vicino al mare e disposto sul pendio di
piccole colline, è da attribuire ad una pacifica popolazione di Sicani della
prima età del Bronzo.
Successivamente
queste popolazioni abbandonarono le pianure costiere per rifugiarsi sulle
montagne più impervie. Montagne che dal punto di vista topografico erano più
disagevoli per un vivere civile ma utile per la difesa militare da eventuali
nemici. Le stesse montagne del Diseuri, a Nord della Piana, offrirono un
rifugio sicuro.
Nel
villaggio di Manfria accanto all’insediamento abitativo si nota anche l’antica
zona degli scarichi. Tra le due zone, il villaggio e la zona degli scarichi,
esisteva, non so se ancora oggi è visibile, un sentiero che le separava.
Una
caratteristica dei villaggi Sicani era la loro reciproca vicinanza in modo da
formare una piccola catena di tribù sparpagliate ma sempre vicino alla costa o
in prossimità di sorgenti.
Famiglie
che conducevano una vita semplice, pacifica, molto diversa da quella delle
comunità della tarda età del Bronzo (Pantalica, Diseuri, Cassibile) ed il cui
sorgere segna l’abbandono quasi totale delle ridenti ma indifese zone costiere.
L’abbandono
dei villaggi è messo in relazione con l’arrivo in Sicilia dei Siculi, dei
Morgeti e degli Ausoni di Lipari, tutte popolazioni Italiche.
Il
villaggio presenta 9 capanne e doveva essere abitato da circa 50 persone, probabilmente
uno o due clan familiare.
Le
capanne sono costruite soltanto dove il terreno presenta un sottostante strato
d’argilla cristallino, nel quale scavare i profondi buchi destinati ai pali di
sostegno delle capanne.
Le
fasce di terreno prive di questo strato argilloso, sono invece destinate allo
scavo di profondi fossi.
Le
case erano costituite da pali che sorreggevano il tetto e le pareti. Un tipo di
costruzione comune ad altri villaggi dell’isola ( in età Neolitica a
Stentinello e a Megara Iblea; nell’età del Bronzo a Cannitello, a Lipari e
Morgantina; nell’età del Ferro nel Colle di Metapiccola; anche sul Colle
Palatino a Roma erano presenti simili capanne).
Le
pareti verticali erano costituite da canne, rami ed argilla mentre il tetto,
conico o a schiena d’asino, era costituito da paglia. Capanne che erano
circondate da muretti di protezione di pietre a secco.
La
pianta era generalmente di forma ovale più o meno allungata. La pianta ovale e
rettangolare delle abitazioni sono
presenti nei villaggi dell’età del Bronzo anche se la pianta ovale è
maggiormente diffusa.
Modellino
capanna - ,Museo Sant’Angelo Muxaro
Una
caratteristica di queste capanne, presenti nel villaggio di Manfria, è
l’esistenza nel vano di una o più nicchie semicircolari che potevano avere la
funzione di semplici ampliamenti della capanna o tentativi di una prima
divisione degli ambienti o di ripostigli.
Il
diametro dei buchi dimostra come queste nicchie fossero sorrette da pali più
piccoli ed esternamente le stesse nicchie dovevano avere l’aspetto di piccole
absidi con tetto semiconico appoggiato al fianco della capanna.
Un
altro aspetto è il rinvenimento di resti dei pavimenti delle capanne che è
costituito da un sottile e liscio strato d’intonaco biancastro con sottofondo
d’argilla, gettato su un riempimento misto di argilla e detrito arenario
(calcite e sabbia).
La
cronologia è varia com’è dimostrabile dall’analisi dei vari pavimenti. Alcuni
utilizzavano il fondo gessoso mentre altre ebbero sin dall’inizio il pavimento
intonacato.
In
una prima fase le capanne erano forse infossate mentre nella fase finale sono
poste a livello del piano di campagna. Si tratta di modifiche sempre avvenute
nella prima età del Bronzo.
Perché
il villaggio fu abbandonato ?
Due
capanne presentano degli strati di terra nera e grigia come se fossero state
distrutte da un incendio.
Nei
buchi furono rinvenuti dei vasi fittili e non si sa per quale motivo
abbandonati nel sito. Potrebbe trattarsi di un abbandono volontario da parte
degli abitanti della capanna che diedero fuoco alla loro capanna come per un
rito propiziatorio per un nuovo trasferimento.
Il
villaggio è composto da nove capanne divise in due gruppi: uno meridionale ed uno
settentrionale. Intorno una serie di focolari e forni disposti in modo che il
villaggio fosse sopravento. A fianco vi sono le zone degli scarti.
La
zona si può quindi suddividere in:
-
Area
dell’abitato;
-
Area
dei forni;
-
Area
dei rifiuti.
-
L’area
della necropoli più discosta.
Di
grande interesse è la suddivisione delle capanne in due gruppi separati da un
grande spazio al quale ambedue hanno accesso.
Una
capanna di dimensioni maggiori delle altre è presente in ogni gruppo.
La
capanna n. 3, di abitazione perché vi sono stati trovati oggetti riguardanti la
vita dimestica (filatura, cottura dei cibi, ecc.) per il settore settentrionale
e la capanna n. 9 per quello meridionale.
Nel
primo caso in base all’elevate percentuale di coppe su piede, vaso comunemente
legato al consumo dei cibi e dei vasi per bere, doveva trattarsi di un ambiente
dove si svolgevano delle riunioni che prevedevano l’assunzione di cibi e
bevande. Il suo “proprietario” doveva rivestire un ruolo di una certa
importanza in seno alla comunità.
Il
gruppo di capanne meridionali ha un proprio spazio interno (“cortile”)
destinato alla fruizione dei suoi abitanti mentre lo spazio maggiore, “piazza”,
era fruito da tutti gli abitanti.
Al
limite occidentale, sempre del settore meridionale, è presente un’altra grande
capanna, la n. 9, che sembra posta in un modo strategico perché dà sia sul
cortile interno che sulla “piazza”. Questa capanna è la sola che è in stretto
rapporto con un focolare mentre le altre sono un po’ più discoste. Cosa
comprensibile considerando la struttura lignea delle capanne facilmente
incendiabile.
Orlandini
nel suo libretto di scavi scrisse: “il
nuovo villaggio di Manfria apparteneva dunque a una delle tante tribù sicane
fiorite nel tardo Neolitico e nella prima detà del Bronzo attorno alla Piana di
Gela e scomparse all’arrivo dei Siculi verso il 1250 a.C., allorchè al posto
dei villaggi sparsi sorse sulla montagna del Diseuri, poderosa acropoli
naturale, un nuovo e grande centro preistorico che dominerà da lontano la
deserta piana di Gela fin quasi all’arrivo dei coloni greci”.
Capanna n. 9
Una
grande capanna dalla pianta ellittica e circondata da un muretto a secco di
pietrame ancora visibile una decina
d’anni fa. Lunga 10,30 m e larga 3,25 m. presenta ben 17 buchi, poco profondi
(25 cm) di cui cinque destinati a sorreggere il tetto e disposti lungo l’asse
della capanna.
È
l’unica capanna a contatto con un vasto forno (I) che è tangente al lato ovest
della capanna. Sul fondo gessoso sono stati trovati i resti di un battuto in
argilla cotta. Per la sua grandezza era probabilmente destinata ad un esponente
importante del villaggio. Forse il capo o una persona che aveva importanti
funzioni sociali.
Nella
capanna furono rinvenuti numerosi reperti tra cui un pregiato fornello fittile:
Capanna n. 3
La
Capanna n. 3 è la più ampia ed anche la più strana per la presenza su tre lati
di nicchie dalla pianta semicircolare.
La
disposizione dei buchi per i pali, uno centrale e sette laterali, riconducono
alla pianta ellittica della capanna. Comprese le nicchie misura (9, 50 x 6,60)
m. Non vi sono state trovate tracce di pavimenti. I buchi in totale erano 15,
di cui otto per la capanna, due per la nicchia nord e 5 per quella est.
Il
fondo gessoso si trovava a 1,25 m di profondità e il buco per il palo centrale
era profondo 1,00 m e largo 0,70 m.
Le
tre nicchie semicircolari ci danno l’ida di un primitivo tentativo di
suddividere la capanna in ambienti o può anche darsi che si tratti di
successivi ampliamenti.
Si
tratta di una capanna con tre absidi che non ha riscontri in Sicilia. La
presenza di nicchie laterali si ritrova nelle planimetrie delle tombe ispirate
probabilmente alle abitazioni.
Le
tre nicchie non sono uguali fra loro. La nicchia Nord è la più regolare in quanto
il suo piano coincide con quello della capanna. Ha due buchi per pali per cui
si deve considerare come un vero e proprio ambiente collaterale.
La
nicchia Est era invece molto profonda, simile ad una piccola grotta, e
presentava sul fondo 5 buchi dal taglio molto obliquo. Probabilmente vi erano
inseriti dei pali fortemente inclinati verso l’interno della capanna.
La
terza nicchia, sul lato Ovest, era di forma molto regolare e non presentava
buchi per pali. Era costituita da una sola cavità naturale ricavata nello
strato gessoso ed era quindi un vero e proprio ripostiglio. Il pavimento della
nicchie Est ed Ovest era a circa -1,75 m dal piano di campagna. Erano state
scavate nello strato gessoso, in modo da trovarsi al di sotto del livello
superiore dei buchi per il pali della capanna (50 cm).
Nel
corpo principale della capanna furono rinvenute un gran numero di ossa, in
quantità maggiore rispetto alle altre capanne. Il maggiore quantitativo di ossa
fu rinvenuto nella nicchia ovest insieme ad una discreta quantità di cenere.
Furono
rinvenute nello strato superficiale della capanna numerose ceramiche tra cui
alcuni attingitoi.
-
Un
attingitoio di forma leggermente biconcava con decorazione quasi svanita a
linee verticali sul corpo e a zig-zag lungo l’orlo;
-
Un
altro attingitoio di forma globosa e con la stessa decorazione del precedente;
-
Attingitoio
di colore rosso vivo, decorato a linee verticali sul corpo e orizzontali lungo
l’orlo;
-
Attingitoio
dal colore rosso brillante con decorazione a linee verticali sul corpo e
rettangoli e quadrati sull’orlo.
I Focolari I
focolari si trovano tutti all’esterno delle capanne e sono disposti a
semicerchio verso il lato meridionale del villaggio. L’impiego di materiale
infiammabile come legno, paglia e canne per la costruzione delle capanne, può
spiegare la disposizione all’esterno del villaggio sia dei focolari che dei
forni.
I
focolari sfruttavano le cavità dello strato gessoso. La novità è data dalla
presenza dei forni che dovevano servire sia per la cottura degli animali uccisi
durante la caccia sia per la cottura dei vasi di ceramica.
Questi
forni erano profondamente scavati nell’argilla e avevano dimensioni varie (da 3
m a 10 m) e una forma caratteristica. Erano formati da due cavita del fondo più
o meno ellittica e separate da un cordone d’argilla che non fu tolto al momento
dello scavo. In alcuni casi attorno a questi forni c’era una buca circolare che
serviva forse come scarico di cenere (presente nei forni E-M) e che erano pieni
di cenere al momento del loro rinvenimento. Anche i forni al momento del
rinvenimento furono trovati pieni di cenere.
Il
forno H era il più vasto e complesso. Era formato da due profonde cavità
maggiori e da due cavità minori che avevano probabilmente la stessa funzione
delle fosse circolari degli altri forni.
Diverso
è il forno L a pianta circolare con fondo intonacato e muretti di protezione in
argilla. Questo forno era inserito in una vasta cavità ellittica e aveva
accanto un altro piccolo forno del tipo a doppia cavità. È probabile che
servisse per la cottura dei vasi. Il forno circolare era largo 2,90 m
all’esterno e 2,00 m all’interno; quello più piccolo era largo 2,00 m ed era
situato ad un livello più basso di quello principale di circa 40 cm.
Il
villaggio di Manfria risale all’antica età del Bronzo che è contraddistinta dal sorgere di comunità
organizzate dal punto di vista sociale
ed economico. La principale “facies” di
questo periodo è la civiltà di Castelluccio (Noto) che è presente in quasi
tutta la Sicilia ad eccezione delle Isole (Eolie, Pelagie, Ustica e
Pantelleria), dell’estrema punta della Sicilia Occidentale ed a una regione che
è costituita dalla provincia di Messina, lungo la costa tirrenica, sino a
giungere a Palermo. In quest’ultima
area è presente una civiltà che fu
indicata con il termine di “Rodì- Tindari-Vallelunga””RTV”. Civiltà che è legata ai rinvenimenti di importanti
reperti da parte di vari importanti archeologi:
-
Tomba
di Vallelunga, trovata da Paolo Orsi;
-
Necropoli
di Longani, scavi eseguiti da Bernabò Brea
-
Tindari.
Una
civiltà che era sconosciuta e Bernabò Brea affermò che il materiale della
“facies” si trovava in realtà in quasi tutta l’isola.
La
civiltà di “Castelluccio”, secondo gli archeologi si sviluppò nell’ambito della
“facies” di “Rodi- Tindari- Valleunga”, come un miglioramento tecnico della
produzione ceramica. Una ceramica decorata in bruno su fondo rosso, o non
decorato e comunque che non presenta incisioni. I motivi sono essenzialmente
geometri e sembrano ripetitivi ma in realtà presentano ricchissime varianti sul
tema. Si diffondono gli oggetti in metallo, in rame o bronzo come pinzette,
chiodini, pugnaletti a lama triangolare, ecc.
Il
Villaggio di Manfria è da attribuire, come rileva lo stesso Orsi, all’età del
Bronzo ed esattamente alla civiltà di Castelluccio circa cioè “1800 – 1400
a.C.”.
MANFRIA - VILLAGGIO - ANTICA PLANIMETRIA CATASTALE
In
merito ai Sicani che probabilmente abitarono il villaggio di Manfria la critica
storica ancora si confronta sulla loro origine.
Filisto di Siracusa e Tucidide affermarono che erano di origine iberica
mentre per Timeo di Tauromenio (Taormina-Me) erano di orgine autoctoma. Lo
stesso Tucidide citò i Sicani che “un
tempo erano presenti in tutta l’isola e che furono cacciati dalla loro terra a
causa dei Liguri”. I Sicani secondo queste fonti erano presenti lunga la “paralia” cioè quel territorio che
divideva l’Iberia dalla Gallia e dall’Italia. Vennero probabilmente cacciati
dai Liguri che giunsero in quel luogo.
Anche
Pausania il Periegeta affermò che in Sicilia vi giunsero tre popoli: “Sicani e Siculi e Frigi; i primi due
giunsero dall’Italia mentre il terzo dalla Troade”.
I
rinvenimenti archeologici hanno confermato quanto tramandato dalla tradizione
letteraria secondo la quale i Sicani giunsero in Sicilia prima dei Siculi (
secondo Tucidice giunsero in Sicilia intorno
al 1050 a.C.) e successivamente ci furono dei contrasti e delle lotte tra le
due etnie (come confermano le distruzioni dei villaggi di Mokarta e Sabucina).
I
Sicani giunsero in Sicilia verso la metà del XIII secolo a.C. e si stanziarono
nei settori centrale e sudoccidentale dell’isola.
PROBLEMATICHE
DEL TERRITORIO DI MANFRIA
Gli
aspetti culturali del territorio di Manfria non si limitano solo all’area del
villaggio, distribuita su una superficie di circa 3000 mq, e alla Torre. In un
area collinare prospiciente “Piano Marina”, di proprietà della famiglia
Insinga, ci sono i resti di un insediamento protostorico con una necropoli paleocristiana con tombe
rettangolari, scavate nella roccia calcarea, e in origine chiuse da lastre di
pietra. Nelle contrade Monumenti, Stallone e Mangiova, sono venuti alla luce
insediamenti riferibili ai periodi romano imperiale, tardo- romano e bizantino.
Un
patrimonio culturale nel più completo abbandono e spesso oggetto di “visita e
studio” da parte dei tombaroli. Sono aree private per cui è necessarie prima di
entrare nei terreni chiedere il permesso…..
Regione Siciliana
Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità
Siciliana
Dichiarazione di
notevole interesse pubblico ai sensi dell’art.138 del D.lg. n.42/05 (Codice dei
Beni Culturali e del Paesaggio), del tratto costiero compreso
tra le zone di “Falconara”
(Butera) e “Manfria” (Gela).
Posizione
Archivio: 9/A/CL
Comune
: Gela
Bene
: Contrada “Manfria”
Decreto:
3479 del 13/10/77
Foglio
e P.lle: 1782 del 24/07/86
Avviso:
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