I CASTELLI DELLA PROVINCIA DI CALTANISSETTA - IL “CASTELLACCIO” DI DELIA
Il "Castellaccio" di Delia
Indice:
1. – Ubicazione
2. – Scavi Archeologici
3. – Cronologia Storica
3.1. Periodo Normanno;
3.2. Periodo Svevo;
3.3. Periodo Angioino;
3.4. Periodo Aragonese;
4 –
Architettura;
5 – La Leggenda
del “Castellaccio;
6 – L’Antica
“Mansio Petiliana” Romana è Delia? (La “Taberna” – Piazza Castello )
7 –
Siti Romani nel Territorio di Delia
8 – La regia
Trazzera;
9 – Le Tegole
Romane con Bolli rinvenute a Delia
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- Ubicazione
Il
castello, detto anche “Lu Castiddrazzu””
o “Sabuci” si trova ad ovest del
centro di Delia (in Provincia di Caltanissetta) su un colle calcareo posto al
confine tra la Val di Mazara e la Val di Noto ed è raggiungibile grazie alla
Strada Statale “SS190”. Il paesaggio agricolo è tipico delle colline del
Nisseno con colture di mandorli, pistacchi, ulivi e fico d’India. Dal castello
un panorama ampio con la visione dell’Etna, l’acrocoro di Enna e poi Mussomeli,
Sutera, Canicattì e Naro.
L’edificio
si trova sulla sommità di un serra di calcari che è disposta parallelamente al
corso del fiume Gibbesi che è un affluente del Salso.
La
sua ubicazione, proprio al confine delle due suddette Valli, gli conferì un
indubbio valore strategico militare lungo l’antica strada che collegava
Agrigento con Catania.
Si
tratta dell’antica strada romana “Catina – Agrigentum”, lungo l’”Itinerarium
Antonini” che cita , fra le 8 “staziones”
presenti, la “statio Petiliana”. Gli
storici hanno collegato l’antica “stationes”
al centro di Delia e al vicino fiume “Gibbesi”, affluente del Salso che allora
era navigabile e permetteva di raggiungere i centri posti nel centro
dell’isola.
Il
“Castellaccio”, com’è chiamato dalla popolazione locale, sorge in Contrada
“Calaciura”, detta anche “Rocchicelle”, che è un termine di probabile derivazione
araba.
“Calaciura”
sarebbe una parola composta dall’etimo arabo “Qal’At” cioe “rocca o altura
fortificata” e “Ciura” che sarebbe il nome della collina. “Ciura” in siciliano
significa “fiore” e fiore in arabo è “Zahr”. Gli Arabi spesso quando
conquistavano un luogo fortificato aggiungevano al nome antico del sito la
parola “Qal’At” e “Ciura” in questa ipotesi potrebbe essere l’antico nome
siculo-bizantino del luogo.
2 - SCAVI ARCHEOLOGICI
Nel 1981 e dal 1987 al 1995, furono condotte campagne di
scavi che misero in evidenza come il sito del “Castellazzo” fu abitato nel
terzo millennio a.C.
I reperti ceramici indicarono un originaria appartenenza
dell’abitato alla fase di Castelluccio
(numerose tombe a grotticella ricavate nelle pareti della serra e le tracce di
capanne rinvenute nella zona sottostante) (“Delia. Il Castellazzo. Scavi e
restauri”).
Furono rinvenuti anche frammenti di ceramica indigena,
ceramica corinzia, vasi a vernice nera, anfore greco italiche ed altri reperti
riferibili all’età arcaico-classica ed ellenistica. Un ampio quadro abitativo e
quindi costituito da diverse fasi di vita che si sovrapposero.
Non furono trovati reperti romani mentre l’epoca
medievale fu caratterizzata da una serie di oggetti che misero in evidenza una
fase abitativa tra la seconda metà del X secolo e la prima metà del XII secolo,
da collegare alla dominazione araba e con un tenore di vita, che fu definito
dagli archeologi, medio alto. Un materiale rinvenuto nella discarica sul lato
est.
Gli arabi costruirono il castello su una preesistente
struttura bizantina ? Gli scavi, secondo le notizie in mie possesso, non hanno
restituito reperti di epoca bizantina.
Gli arabi fortificarono il sito per la sua importanza strategica e
diedero vita ad un piccolo casale che prese il nome di “Sabuci”. Molte contrade
circostante presero una denominazione che risale proprio al periodo arabo.
Questa fase abitativa araba si concluse, dopo la
seconda metà del XII secolo, con la conquista del sito da parte dei Normanni.
Il castello durante la conquista subì un incendio con successivo ripristino
dell’edificio. Fu forse anche ampliato perché gli scavi permisero di mettere in
rilievo una nuova fase abitativa normanna come dimostrarono i cocci di
vasellame normanna ritrovati durante gli scavi. Tra i reperti la ghiera in
pietra lumachella esposta sotto il portico, subito dopo l’ingresso a destra, è
un espressione artistica normanna.
La fase abitativa normanna si concluse nel XIII secolo con una nuova distruzione. Una distruzione
avvenuta nel 1362 ed ordinata dal Re Federico III d’Aragona per paura che il
castello potesse servire da covo per eventuali ribelli.
Nel 1436 Guglielmo Raimondo Moncada chiese la
ricostruzione del castello che subì un ampliamento. Una fase contraddistinta da
un momento di massima abitazione e di maggiore splendore del castello. Il
Moncada ampliò il castello nella sua parte occidentale creando una piazza
d’armi e nella zona ad oriente una nuova entrata coperta da un tetto a colta e
con una rampa di scale che porta al 2° livello del castello.
Un periodo che non durò a lungo perché nel XVI secolo
non c’è traccia di abitazione. Già alla fine del XV secolo le numerose cisterne
e i profondi pozzi furono riempiti con materiali abitativi circostanti.
3 - CRONOLOGIA STORICA
3.1 – Periodo Normanno
Il castello arabo fu espugnato dai Normanni e subito
ampliato e fortificato.
Al Idrisi, geografo di origine marocchina alla corte
del re normanno Ruggero II di Sicilia, nel suo libro “La delizia di chi desidera attraversare la terra” e noto anche come
“Libro di re Ruggero” del 1154, citò
Delia.. “ da Naro a Canicattì vi sono, in
direzione nord, 10 miglia e fino a Sabuci ne corrono 10 in direzione est. Uguale
distanza tra Canicattì e Sabuci, questa posta a levante di quella; al- Minshar
dista invece da Sabuci 11 miglia in direzione sud est. Sabuci è castello
elevato, prospero e popoloso; alla ricchezza delle sue terre si devono le
doviziose derrate una vera benedizione di Dio e le infinite distese delle
colture”.”.
L’unica anomalia è legata alla distanza che Al –Idrisi
cita tra Canicattì e Sabuci che è di
circa 6 miglia contro i 10 dello storico musulmano. Bisogna d’altra parte affermare che ad
Sud-Est di Naro c’è una contrada denominata “Sabuci” che lo storico Giuseppe
Candura nel suo libro “Naro, il Santo –
La Comarca” citò come centro di
produzione della “cannamele”.
Gli scavi archeologici penso che abbiano cancellato i
dubbi sul sito dell’antica “Sabuci”. Scavi che dimostrarono una effettiva
presenza araba nel sito che si rileva
anche dalla denominazione di alcune contrade poste vicino al Castello come ad
esempio la contrada “Sciabani”.
Al Idrisi
chiamò il castello “Sabuci”. Un
termine di derivazione araba “As Sabuqac”
che significa “olivo selvatico” per la
presenza di queste piante attorno al sito.
Con la morte di Guglielmo II “Il Buono”, re di Sicilia
dal 1166 al 1189, il casale subì un
decadimento a causa della guerra civile contro i Musulmani che furono uccisi in
massa dopo il 1189. La protezione reale, di cui avevano goduto venne meno e si
diede vita nell’isola ad incontrastate aggressioni contro la comunità musulmana
che fece sparire ogni residua speranza di coesistenza malgrado la loro totale
subordinazione all’elemento cristiano.
Il castello e il casale, proprio per la sua importanza
strategia, fu sempre una proprietà demaniale e probabilmente presidiato dai
musulmani fedeli al re e con la loro cacciata iniziò il processo di decadimento
del sito.
3.2 – Periodo Svevo
L’abate Vito Amico nel suo Dizionario Topografico “Lexicon” citò il castello ed il casale
arabo di Sabuci che furono concessi alla Chiesa di Palermo. Una concessione che
fu confermata nel 1211 durante la reggenza del piccolo Federico II di Svevia
che era stato incoronato Re di Sicilia nel 1198.
3.3 – Periodo Angioino
Nel 1265 papa Clemente IV nominò re Carlo I D’Angiò,
fratello del re di Francia Luigi IX. L’Angioino era sceso in Italia, chiamato
dal pontefice, per porre fine alla dinastia Sveva e conquistò il Regno di
Sicilia. Regno di Sicilia che terrà dal 6 gennaio 1266 al 26 settembre 1282.
1271- il castello e il casale di Delia, un gruppo di
case che costituiranno in futuro l’attuale centro, furono assegnati a Rinaldo
de Pluyna e Peregrin de Gaylen (Scuto – Florilla, 2010).
1272
– Il castello e il casale passarono a Pierre
de Carfagno.
“Carfagno”
o “Garfagni” fu un antica famiglia di origine francese scesa nel
Regno
di Napoli a seguito degli Angioni. Nel corso dei secoli la famiglia si
diffuse
in altre regioni d’Italia. Il termine potrebbe derivare da un ignoto
capostipite
“Carfanius”.
La
documentazione storica cita nel 1272 un Pierre de Carfagno che successe ai su
citati R. de Pluyna e
P.
de Gaylen anche nei feudi di Melguna;
Dieso, forse da identificare con
l’attuale
Comune di Aragona; Comiso, da identificare con la baronia di Comiso o Fontanafredda.
1277
– vicino al “Castellaccio” è attestata la presenza del nascente casale di Delia
in cui viene registrata l’esistenza di “trenta
fuochi”.
3.4 - Periodo
Aragonese
Tra
il 1282 e il 1285, Pietro III d’Aragona , subentrato agli Angioini e Re di
Sicilia dal 1282 al 1285 con il nome di Pietro I, concesse ad Alaimo da Lentini il castello e
feudo di Delia.
“Lentini” o
“Leontini” è una famiglia di origini normanne il cui primo ramo risalirebbe
all’anno 813.
Il primo Lentini
di cui si ha notizia, su indicazione del Mugnos, fu un Lanfranco che
difese con grande
valore la sua città di Lentini dall’attacco dei Musulmani.
Grazie a
quell’impresa assunse il cognome di “Lentini”.
I suoi figli
furono Riccardo e Gerardo. Nel 1123
Nicolò e Gerardo furono straticoti di Messina e grazie
al loro
consapevole operato ottennero i castelli di “Buccherio e Palizzolo”.
L’imperatore Carlo
V nominò un Giovanni Lentini vicerè d’Abruzzo e “maestro della regia Dogana
Secretis di
Messina”. Nel 1270 per il suo operato ebbe in concessione il Casale di
“Cassisia nella
Baronia di Ragusa” e “Climastado nell’area di Camastra”.
In merito ad
Alaimo il Mando di Casalgerardo riportò nel suo Nobiliario di Sicilia che
“Alaimo, discendente dai precedenti, per i
servizi prestati alla casa d'Aragona in occasione dei celebri “Vespri Siciliani” ottenne dal re Pietro la signoria
di Butera, le terre di Palazzolo e di Buccheri e, per la moglie Macalda Scaletta, possedette la terra
di Ficarra. Fu egli governatore di Messina, Maestro Giustiziere del Regno di
Sicilia, ecc. e infine tradì la fede del re Aragonese e passò al partito degli
Angioini ma pagò il tradimento con la vita".
Alaimo da Lentini
possedeva per successione ereditaria, come riporta San Martino
De Spuches,
Scaletta. In età sveva fu mandato in esilio da Manfredi. Ritornò in Sicilia con
Carlo D’Angiò che
nel 1266 gli concesse la Terra di Militello.
Terra di Militello
che era appartenuta ad un ramo estinto della sua famiglia.
Ricoprì importanti
cariche nel regno ma la sua importanza fu legata alla partecipazione attiva nei
Vespri Siciliani.
Per aver sostenuto
la causa aragonese Re Pietro I gli concesse il data 23 ottobre 1282
Le “Terre di
Palazzolo e di Buccheri”, il “Casale
Odogrillo (o Dirillo) nella Val di Noto.
Il 22 ottobre 1282
il re gli concesse “a vita la carica di
maestro giustiziere” che mantenne
fino al 1285
quando fu accusato di tradimento.
Per questo motivo
gli furono confiscati i beni feudali e alla morte del re Pietro I
fu fatto annegare
da re Giacomo II. La moglie di Alaimo, Macalda, fino al 14 ottobre 1308
“risultava vivente”. Le figlie di Alaimo, Nicolia ed
Eufemia, nel luglio 1294 ottennero da
Giacomo II la
restituzione dei beni confiscati nel 1285 ed in particolare quelli in possesso
di Pietro
Ansalone, Riccardo Passaneto e del maestro Virgilio di Catania.
1286
- Alla morte di re Pietro I (Pietro III d’Aragona), Alaimo da Lentini fu
ucciso, per annegamento, da re Giacomo II d’Aragona (Giacomo I Re di Sicilia).
Il “Castellazzo” e il casale di Delia
furono concessi a Corrado Lancia.
Corrado Lancia (?
– Capo D’Orlando 1299) fu il primo Conte di Caltanissetta.
Discendente della nobile famiglia Lanza, di origine
piemontese, visse la sua infanzia
in Catalogna dove intraprese gli studi. Nel 1278 fu
nominato Ammiraglio del Regno di Valencia dal Re Pietro III d’Aragona. Fu “armato” cavaliere dallo stesso re insieme
a Ruggiero di Lauria di cui diventerà, più tardi
“due volte cognato” (entrambi sposarono l’uno la
sorella dell’altro).
Nel 1279 guidò la spedizione in Nord Africa dove sconfisse
i marocchini. Per questa impresa il sovrano
donò al Lancia il castello e la città di Albaida
(Valencia). Nel 1280 fu governatore del Regno
di Valencia e, come difensore della bandiera
aragonese, partecipò ai Vespri Siciliani nel 1282.
Dopo i Vespri ricoprì in Sicilia la carica di maestro
razionale e nel 1283 fu ammiraglio della flotta aragonese,
insieme al fratello Manfredi, che assediò Malta
riuscendo a liberarla dal dominio angioino.
Alla morte di
re Pietro III (Pietro I di Sicilia) diventò diplomatico al servizio
del nuovo re aragonese Giacomo II.
Valle de Albaida –
Bocairent - (Spagna)
Canillas de Albaida
1293 – Giacomo II
d’Aragona
Dal
matrimonio di Re Pietro III d’Aragona
(Pietro I di Sicilia) con Costanza II di Sicilia ( figlia di Manfredi di
Hohestaufen e di Beatrice di Savoia, quindi nipote dell’Imperatore Federico II
di Svevia) nacquero, come riporta nella sua “Crònica”,
Ramon Muntaner, “Anfòs, Jacme,
Frederis e Pere”. in realtà a questi quattro figli machi, di cui l’ultimo
Pietro morì in giovane età, si dovrebbero aggiungere “Elisabeth”, canonizzata
dalla Chiesa nel 1625 con il nome di “Sant’Elisabetta di Portogallo, Regina” e
Violante. Una discendenza confermata da Bartolomeo di Neocastro nella sua “Historia Sicula”…” Alfonsus, Elisabeth
regina Portugalli… Rex Iacobus, Dominus Fridericus, domina Violanta et dominus
Petrus.”
Santa Elisebetta di Portogallo
http://it.arautos.org/view/viewPrinter/17182-sant-elisabetta-di-portogallo-regina
Il figlio primogenito di Pietro III, Alfonso
III, morì improvvisamente lasciando la Corona d’Aragona al figlio
secondogenito. Giacomo II “Il Giusto”.
Alfonso III nel suo testamento dispose che la Sicilia fosse assegnata al
fratello Federico. Giacomo II d’Aragona si fece incoronare nel mese di luglio dell’anno 1291 a Saragozza
e prese il titolo come “successore di
Pietro III e non di Alfonso III”, trascurando quindi le disposizioni
testamentarie del fratello. Giacomo,
assumendo quindi il titolo di Re Della Sicilia, come Giacomo I, inviò il
giovane Federico, sempre nel 1291, in Sicilia come luogotenente a Palermo dove raggiunse la madre Costanza.
Uno dei propositi di Giacomo II fu quello di
porre fine alla lunga lotta contro il papato e gli Angioini. Una disputa che
spesso ebbe dei tonni accesi in mare dove la flotta aragonese, comandata
dall’ammiraglio Ruggiero di Lauria, riportò numerose vittorie contro la flotta
papale e angioina.
Trattative tra il
Re d’Aragona Giacomo II (Giacomo I di Sicilia ) e Carlo II D’Angiò per la
cessione della Sicilia – Federico III D’Aragona –Gli Ambasciatori del Regno di
Sicilia in Spagna a Lerida
Nella
primavera del 1293, era in vigore una tregua sul mare con il Re di Napoli (Carlo
D’Angiò) e l’ammiraglio Ruggero di Lauria si preparava a qualche altra impresa contro gli Angioini.
Nei
primi giorno d’Aprile giunse a Messina … “Jasberro Castellet Cavaliere Catalano
inviato espressamente dal Rè D. Giacomo, per dar parte all’Infante suo
fratello, all’Almirante, ed a tutti gli altro del Consiglio di Stato (Sicilia) di alcune condizioni di pace, che gli
erano state proposte dal Rè di Castiglia, e di Francia, le quali non erano
molto vantaggiose all’interesse della Sicilia, e che conteneano in sostanza la
cessione di essa (Sicilia) al Rè Carlo II di Angiò.”
(Carlo
d’Angiò II “Lo Zoppo” figlio di Carlo I D’Angiò).
“A tale notizia
non può credersi quale fosse l’alterazione, e quante le querele di tutti i
Siciliani contro del Rè D. Giacomo, che vi aveva dato orecchio, e perché
temeasi giustamente, che si accordasse egli co’ nemici, sacrificando alla loro
vendetta la liberta della Sicilia, fù risoluto d’inviare una numerosa
Ambasceria,, per rappresentare al Rè, e protestargli, che non averebbono mai i
Siciliani riconosciuto il dominio, ò come essi diceano, la tirannide degli
Angioini.”
“Furono dunque
eletti per Ambasciatori a nome di tutta l’Isola, Federico di Balzo, uno de’ più qualificati Signori del Regno, tre
Palermitani, cioè a dire, Ugo Talach,
Giovanni Caltagirone, e Tommaso Grillo, e due Messinesi, cioè a
dire Gandolfo Falcone, e Ruggiero di Geremia.”
“Trovarono costoro
il Rè D. Giacomo in Lerida, ove era egli andato per dare l’ultima mano assieme
al Rè di Castiglia (Sanchio
IV “l’Ardito”), e col Principe della
Morea all’accennata pace col re di Francia, e di Napoli.”
(Il
termine “Morea” nel Basso Medioevo, cioè dopo l’anno 1000, designò prima
l’Elide e poi tutto il Peloponneso).
“Udite però le
istanze de’ Siciliani assicurò il Rè D. Giacomo agli Ambasciatori, che quando
fusse forzato egli a cedere l’Isola della Sicilia, averebbe fatto in maniera,
che restasse ella sotto il dominio dell’Infante suo fratello (Federico III
d’Aragona), quando non altro a titolo di dote di una delle figlie del Rè Carlo
da maritarsi a Don Federico; e per facilitare maggiormente questo
aggiustamento, offerirebbe egli di restituire agli Angioni quanto aveano
perduto in Calabria, e di più l’Isole di Ischia, di Procida, e di Capri. Ma non
ostante la ragionevolezza di questo accordo, e non ostante ancora, che non
potesse il Rè Carlo essere assistito come prima dalla Francia per cagione della
guerra ultimamente rotta tra il Rè
Filippo, e il Rè d’Inghilterra,
ostinatosi l’Angioino a non voler cedere a chi che sia l’Isola di
Sicilia, restò rotto il trattato, e ritornossene il Rè D. Giacomo da Lerida in
Barcellona, per prepararsi a mover l’armi contro la Francia.”
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Il tradimento di
Re Giacomo II d’Aragona (Giacomo I di Sicilia) –
Federico (III d’Aragona)
Luogotenente di Sicilia incontra a Velletri Papa Bonifacio VIII
Corrado Lancio
richiamato in Spagna – Raimondo Alamanna de Cervellon –
Gli Ambasciatori del
Regno di Sicilia si recano in Spagna, a Lerida, per incontrare
Giacomo II.
L’accorato
discorso dell’Ambasciatore Siciliano Cataldo Rosso e la risposta di re Giacomo
II
“Ritornarono
ancora gli Ambasciatori in Sicilia, e riferito ciò, che aveva successo nel
trattato di Lerida, assicurarono i nostri di non essere più abbandonati dal Rè
D. Giacomo, e di aver in suo luogo l’Infante D. Federico; ma non passò molto
tempo, che restarono tutti delusi; poi che per più di un motivo, che non è
della nostra Istoria, rotta ogni corrispondenza tra il Rè D. Giacomo, e quello
di Castiglia, ed in conseguenza ancora gli sponsali (matrimonio) poco prima
stabiliti da lui coll’Infanta D. Isabella sua figlia, venne il Rè D. Giacomo ad
una conferenza particolare tra Panisa, e Junquera co’l Rè Carlo, e fermò alli 14 di Novembre dell’anno suddetto 1293 con lui la pace con alcuni
articoli secreti da publicarsi, quando sarebbono confermati dal futuro
Pontefice.”
“Non ostante però
la secretezza di questo trattato, si dubitò da’ più accorti, che fusse in
pregiudizio de’ Siciliani, ed il primo sospetto, che essi ne ebbero, fù con la
venuta in Messina di D. Raimondo di Villanova Gentiluomo della Camera del Rè D.
Giacomo; ed in vero dubitanto questo Principe, che non averebbono i Siciliani
acconsentito all’obedienza del Rè Carlo, appuntata, come si è detto, negli
articoli del trattato di Junquera, e che si sarebbero opposti sopra di tutti Corrado Lanza Maestro Giustiziere del Regno,
e D. Blasco di Alagona, il quale secondo avea permesso all’Infante, era
ritornato in Sicilia, e godea non poca parte nella sua grazia, risolvè di
chiamare in Aragona questi due principali soggetti, ed a questo fine inviò il
Villanova in Sicilia a persuadere l’Infante di non opporsivi; e perché Corrado
Lanza non differisse la sua partenza sotto pretesto dell’esercizio della sua
carica, venne sostituito in essa D.
Raimondo Alaman de Cervellon nobilissimo tra i Baroni Catalani, ch’erano in
Sicilia, e del quale egli molto fidavasi.”
“Tale era lo stato
delle cose, quando dopo 18 mesi di Sede vacante su nel mese di Luglio dell’anno 1234, assunto al Sommo
Ponteficato il celebre Pietro da Morone, che Celestino V, si disse. Egli però
dopo cinque mesi rinunziatolo per godere la pace, e la tranquillità d’animo
della religiosissima sua vita, si venne a nuova elezione, e fù acclamato in sua
vece a’ 24. Di Dicembre il cardinale
Benedetto Gaetano, che prese il nome di Bonifazio Ottavo. Erasi egli impegnato
con Carlo Rè di Napoli, la di cui autorità nel Collegio de’ cardinali avea
molto contribuito alla sua elezione, di confirmare quanto erasi stabilito nel
trattato di Junquera, e principalmente, che fusse restituita agli Angioini
l’Isola di Sicilia.”
“Avutasi la
notizia della sua elezione fù consigliato l’Infante D. Federico a
congratularsene, inviando in Roma Manfredo
Lanza, e Rugiero di….. Furono costoro benignamente ricevuti da Bonifazio, e
nel licenziarsi dichiarossi con essi, che averebbe egli desiderato di vedersi
coll’Infante per trattare con lui cose di sommo suo vantaggio, e di beneficio
comune a tutti i Siciliani”.
“Onde ritornati
gli Ambasciadori in Messina, e riferito all’Infante il buon trattamento
ricevuto da essi nella Corte del Papa, e ‘l desiderio da lui mostrato di
trattare con lui di faccia, a faccia, non fù piccola perciò la curiosità di D.
Federico, e si accrescè maggiormente, quando arrivò in Messina Bernardo da Camerino spedito
espressamente dal Pontefice, per invitarlo ad abboccarsi seco, ed a condurre
con lui il Grande Almirante Loria, e
‘l Gran Cancelliero Giovanni di Procida,
concedendosi perciò da Bonifazio un salvacondotto, ed una intiera sicurezza per
questi due, e per quanti altri Baroni l’accompagnassero in questo suo viaggio.”
“Insospettiti
allora assai più di prima i Siciliani di ciò, che potea trattarsi con un Pontefice
conosciuto apertamente parziale del loro nemico, averebbono voluto, che
l’Infante non intraprendesse questo viaggio, ed il Senato di Palermo con una
assai discreta lettera cercò con varie ragioni di persuaderlo a non confidarsi
così leggiermente nelle mani de’ nemici. D. Federico però mosso dalla
curiosità, ed informato, che il Rè suo fratello desiderava ancora, che si
vedesse egli col Papa, risolvè di partirsi da Messina accompagnato da gran
numero di Baroni assieme con il Grande Almirante Loria, e ‘l Gran Cancelliero
Procida. Postossi dunque alla vela con una squadra di Galere, ed arrivato alla
spiaggia Romana scese a terra l’Infante, e saputo, che il Pontefice dopo di
averlo quivi aspettato alcun tempo, erasi incamminato verso Anagni, andò a trovarlo
colà, e lo raggiunse 4 miglia lontano da Velletri.”
“Grandi allora
furono le dimostrazioni di affetto, e di cortesia usate dal Pontefice con D.
Federico, confessando di aver avuto un gusto particolare di conoscere un
Principe sì ben fatto di persona, e che in sì florida gioventù mostrava tanto
senno, e tanta prudenza. Quindi vedutosi vicino l’Almirante Loria, non potè
contenersi il Pontefice di richiederlo, se era egli quel sì celebre nemico
della Chiesa, che avea sparso tanto sangue, ed apportato tanto danno a’
Cristiani: dopo di che dissimulando l’ardita risposta, che gli fù data
dall’Almirante, introdusse altri discorsi, e ritirossi da solo a solo con
l’Infante; chiamati poscia i più principali Baroni, ch’erano seco venuti, disse
loro, che essendo i Siciliani Vassalli della Chiesa, e da lui particolarmente
stimati, volea egli non solo scusare quanto aveano fatto contro i Francesi, ma
confessare ancora, che si meravigliava più tosto, che non l’avessero prima
intrapreso; con tuttociò non avendo essi alcun diritto di eleggersi un nuovo
Principe, e spettando, come ei diceva, ai Pontefici Romani di regolare lo stato
di un Regno Feudatario della Chiesa, dichiarava lor, che siccome non averebbe
egli mai permesso, che il Rè Carlo usasse con loro alcun rigore per il passato
trascorso, così imponea ad essi di riconoscerlo per legittimo Principe,
assicurandoli, che averebbe egli regolato in tal maniera le cose, che non
averebbono avuto di che lagnarsi ò di lui, ò de’ suoi successori”.
“Licenziatosi dopo
di ciò dal Pontefice l’Infante Don Federico, venne il Pontefice a più strette
conferenze con due Ministri designati a ciò dall’Infante, prima di ritornarsene
nella Siciia, li quali furono il Gran
Cancelliero, e Monfredo Lanza. Dichiarò loro il Pontefice, che nella pace
stabilita tra il Rè D. Giacomo, e ‘l Rè Carlo, aveasi dal primo ceduto il
dominio della Sicilia in ricompensa dell’Investitura della Sardegna, e della
Corsica, e che avea a ciò acconsentito ancora
l’Infante D. Federico, compromettendosi egli di fargli sposare Caterina,
nipote di Baldovino già Imperatore di Costantinopoli, e che il Rè Carlo Cuggino
(cugino) di questa Principessa averebbe fatto tutto il possibile, per
riacquistare l’Impero ad essa dovuto, cacciandone l’usurpatore Andronico
Paleologo. Per quello poi, che toccava a' Siciliani disse il Pontefice, che
oltre l’assoluzione dell’Interdetto, concedeasi loro una generale amnistia,
dalla quale solamente fussero esclusi alcuni Prelati, ed Ecclesiastici.
Permetteasi ancora a chi volesse di
uscire fuori della Sicilia, vendendo i loro beni, e ricavandone liberamente il
prezzo. Che comprendeasi in questa pace Conrado di Antiochia unico rampollo,
benchè illegittimo della Casa Imperiale di Svevia, il quale, restato
prigioniero del Re Carlo primo, avea ad istanza del Pontefice Clemente IV,
ottenute alcune Terre, e Castelli nel Regno di Napoli, ma che dopo il Vespro
Siciliano, dichiarandosi a favore degli Aragonesi, fu percò scomunicato, e
privo de’ beni.”
“Publicati gli
Articoli di questa pace, spedì il Papa nella Sicilia due Frati minori, uno de’
quali era il Provinciale di Romagna, e l’altro un tal Alamano di Bagnarea.
Portavano costoro un breve Pontificio, nel quale dichiarava Bonifazio di voler
riformare gli abusi introdotti in tempo del governo di Carlo D’Angiò, al di cui
figlio Carlo Secondo dovea giurarsi da’ Siciliani l’obbedienza, come feudatario
della Chiesa; ed acciocchè avessero essi il tempo di ravvedersi per uscire di
un stato sì miserabile, qual’era il loro fuori dell’obbedienza del Papa, e riconoscessero
nel tempo istesso la clemenza paterna del Pontefice verso di loro, sospendea
egli l’Interdetto nell’Isola sino alla solennità del vicino Natale del
Redentore, ammonendo tutti a desistersi
di qualunque novità, che potesse turbare una pace tanto tempo desiderata, e
stabilita con le consapute condizioni.”
“Arrivati i due
Nunzj in Melazzo (Milazzo), ove allora trovavasi l’Infante D. Federico, e
appena penetratasi quale fusse la loro incombenza, che corsero essi un grande
pericolo di restar lapidati da Melazzesi; quindi accertatisi tutti l’altri
Siciliani di ciò, che prima aveano dubitato, cioè a dire di dover essere
abbandonati dal Re D. Giacomo, risolverono in un general Parlamento, tenuto
nell’accennata Città, di riconoscere per loro Signore in vece del Fratello
l’Infante Don Federico. Ma oppostasi a ciò la regina, fu alla fine stabilito,
che s’inviassero prima cinque Ambasciatori al re Don Giacomo, e furono questi, Gualtiero Fisaula, Pietro del Filosofo
Palermitano, santo Biscala, Cataldo Rosso, e Gualtieri di Bonifazio Messinesi, li
quali rappresentar gli dovettero in nome di tutto il regno, esser quivi venuto
a notizia, che fra gli articoli della pace ultimamente conchiusa, vi era quello
di cedere il dominio della Sicilia a Carlo D’Angiò, pregavano perciò, che sua
Maestà dovesse ricordarsi della promessa fatta a’ Siciliani di non dover
giammai abbandonarli, e che per maggior sicurezza avesse ella la bontà di
assicurarli con giuramento, che non dividerebbe dalla sua corona l’Isola
nostra, e le adiacenti ad essa soggette; che giurassero l’istesso 50 principali
Baroni insieme con l’Infante suo Fratello; che inviasse il Re uno de’ tre Figli
di Carlo D’Angiò, e la metà degl’altri ostaggi, per far dimora in Sicilia,
finchè fusse stabilita la pace senza l’articolo tanto odioso della cessione di
un Regno sì benemerito; che si mettessero in mano de’ naturali dell’Isola tutti
quei Castelli, ne’ quali erano Governatori Catalani, e forastieri; che tutti
gl’altri stranieri, che teneano feudi in Sicilia li perdessero in caso, che non
volessero restarvi, o che acconsentissero alla pace; e finalmente che si
sospendesse il matrimonio contratto tra sua Maestà, e la Principessa Bianca
Figlia di Carlo D’Angiò”.
“Tali furono le
istruzioni date all’Ambasciatori, e da esse può conoscersi quale fusse l’odio
de’ nostri contro degli Angioini, e quanto grande l’abborrimento di ritornare
sotto il loro dominio: Ed in vero non solo era l’animo de’ Siciliani sommamente
alterato per quello, che fin’ora abbiamo riferito, ma temeasi ancora da’
Catalini, e principalmente dalla Regina Costanza, che non si suscitasse sotto
questo pretesto una guerra civile, parendo a non pochi incredibile che il Re D.
Giacomo volesse accordarsi co’ suoi nemici nella maniera, che si pubblicava, e,
sospettosi da’ più affezionati al Re D. Giacomo, che sotto colore della
rinunzia potesse innalzarsi al Trono l’Infante D. Federico, onde alcuni
principali di essi per non mancare alla fedeltà dovuta, al lor Principe, si
ritirarono ne’ loro feudi, e ne’ castelli di loro governo, seguendo l’esempio
di Don Ramondo de Cervellon, di Giovanni di Procida, di Matteo di Termine, e di
Manfredo di Chiaramonte.”
“Arrivati in tanto
gl’Ambasciatori Siciliani in Lerida, dove trovavasi allora il Re Giacomo
aspettandovi la Sposa co’l Re Carlo suo Suocero, e con il Cardinale di S.
Clemente Legato del Papa, furono trattenuti senza alcuna positiva risposta fino
a tanto, che annullato già il primo contratto con Isabella di Castiglia, sposò
il Re publicamente alli 23 Ottobre la Principessa Bianca, imperocchè non
potendo allora egli più sfuggire di manifestare il trattato, dichiarò agli
Ambasciatori Siciliani, che era stato necessitato a cedere alla Chiesa, ed al re Carlo suo
Suocero l’Isola di Sicilia, e cercò di colorire una tale dichiarazione nella
migliore maniera che seppe, rappresentando, che non senza grave rammarico era
stato obbligato ad una tal cessione, e dalla volontà del Pontefice, e dall’amor
della pace, ed assicurando per altro i Siciliani che il re Carlo begnissimo di
sua natura aveagli promesso di non tenerpiù memoria alcuna di aveasi fatto
contro di lui, e contro del Padre: Udita una tale risposta rappresentarono gli
Ambasciatori, che abbandonati già i Siciliani dal legittimo suo re all’arbitrio
de’ loro nemici, ed essendo così sciolti dal giuramento di fedeltà, che
gl’aveano giurato, protestavansi essi in nome del regno tutto, che era libero a
loro di eleggersi per Signore, e per Re colui, che sarebbe stimato per loro più
conveniente; ed essendo stata ammessa dal Re questa proposta, e fattone un
pubblico istrumento, richiesero che fussero loro consegnati da suoi Alcajdi
Castellani tutte le Terre, che si custodivano in suo nome nella Sicilia, acciò
che fusse ella ridotta nello stato, nel quale aveala trovato il Re Don Pietro
suo Padre; questo ancora loro concesso, non potè trattenersi Cataldo Rosso, uno
de’ principali fra gli Ambasciatori, di manifestare il suo dolore, e maraviglia
de’ suoi Compatrioti con questi sensi: E chi crederebbe, eggli disse, che dopo
tanti giuramenti, e tante promesse fatte da’ Principi Aragonesi per la difesa
di un regno s’ nobile, ed a loro si benemerito dovessero i Siciliani essere
abbandonati quasi vilissimi Schiavi alla servitù di un Principe, e di una
nazione implacabilmente irritata contro
di essi ? Chi mai tra posteri crederà, che dopo tante vittorie, con le quali si
era vigorosamente difesa da suoi nemici l’Isola di Sicilia, e dopo essersi
conquistata ancora gran parte della Calabria, e della Puglia, e della
Basilicata avesse il Re D. Giacomo, scordato dalla generosità del suo sangue,
venuto a tale risoluzione, e mostrata una sì grande indifferenza per una
nazione, che si era offerta liberamente, al Re D. Pietro suo Padre, e quel, che
è più introdurvi la tirannia del Figlio di colui, il quale aveva ingiustamente
tolto la corona, e la vita a Re Manfredi, ed a Corradino, Avo materno l’uno, e
l’altro Cuggin Germano di chi facea una tal cessione.”
“ A così ardite, e
così pungenti parole dell’Ambasciatore Siciliano nulla si mosse il Re D.
Giacomo, anzi non potendo far di meno di non lodare il zelo, e l’affetto di
tutti gl’altri suoi nazionali, raccomandò loro quanto più caldamente potè la
Regina sua Madre, e l’Infante D. Violante sua Sorella, aggiungendo al fine
queste notabili parole. In quanto all’Infante D. Federico niente io vi chiedo,
poiche essendo egli Cavaliero saprà ben ciò che debbia operare, e sapranno
ancora i Siciliani ciò, che gli spetta.”
Bonifacio VIII
(Benedetto Caetani)
(Agnani, 1230
circa – Roma, 11 ottobre 1303)
Il papa che fu
preso a schiaffi da Sciara Colonna per
gli abusi subiti dalla
sua nobile famiglia
Dante Alighieri,
ambasciatore dei Fiorentini, si presenta a Bonifacio VIII.
(Incisore:
Ulacacci, Nicola . post 1851 – Musra: (23,5 x 29) cm – Lodi – Bibliot. Comunale
laudense)
Dante colloca
Bonifacio VIII , assieme a Niccolo III e Clemente V, nell’Inferno tra i “simoniaci”.
Dante fu accusato
di baratteria quando era ambasciatore dei fiorentini presso il papa Bonifacio
VIII.
Per questa accusa,
per altro falsa, sarebbe rimasto in esilio fino alla morte.
Dante scrisse la
Divina Commedia nel 1300, marzo o aprile, e Bonifacio VIII era ancora in vita.
Il poeta utilizza
un piccolo accorgimento per collocare il papa tra i morti, facendo profetizzare
da
un altro dannato l’arrivo
del papa una volta morto.
Il profeta….. un
altro papa.
Il termine “simoniaci,
deriva da Simon Mago, un personaggio degli Atti degli Apostoliche intendeva
acquistare con il
denaro la facoltà di fare prodigi da San Pietro.
Dante mette in
risalto la lotta del tempo tra Papato ed Impero, e colpisce coloro che
approfittando
della loro
posizione e delle cariche ricoperte si sono arricchiti.
Le anime sono collocate
a testa in giù in buche da cui escono solo le estremità delle gambe.
Dante,
accompagnato da Virgilio, vede una delle buche più grandi delle altre e
Virgilio gli
rivela che è
quella dedicata ai papi. Dalla buca emergono le gambe e il poeta sente l’anima
piangere.
Gli rivolge alcune
parole e il dannato, non sapendo chi abbia di fronte esprime:
“"Se' tu già costì ritto, / se' tu già costì
ritto, Bonifazio?"
L’anima dannata è il papa Niccolò III e sarà Bonifacio VIII,
che con il suo arrivo,
lo ricaccerà completamente nella buca.
Niccolò III esclama:
“…Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio ?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio,
per lo qual non temnesti
tòrre a’nganno la bella donna,
e poi di farne strazio?”
Niccolo III all’inizio del suo discorso ripete due volte la
domanda se la persona davanti a lui è Bonifacio.
Infatti aggiunge che forse si è sbagliato lo “scritto”, cioè
il libro del futuro che i
dannati possono comprendere e che gli prediceva la sua venuta
tra molti anni.
(papa Bonifacio è ancora in vita e morirà nel 1303).
Nella buca dove si trovano i papi vige la regola che stanno
in superficie solo gli ultimi arrivati che poi sprofonderanno nelle viscere dopo
l’arrivo del nuovo dannato.
Con questo stratagemma Dante può collocare all’inferno anche
i papi non ancora morti e in particolare
l’odiato Bonifacio VIII che Dante giustamente vedeva come uno
dei personaggi
causa delle disgrazie dei suoi tempi.
La “bella donna”, alla quale allude Niccolò III, è la Chiesa
Latina nel matrimonio tra
Pontefice e Santa Romana Chiesa. La “torre con inganno”
allude al “prendere” e si riferisce alla
contestata elezione di Bonifacio VIII che fece abdicare il
suo predecessore Celestino V.
Il dannato profetizza inoltre l’arrivo, dopo Bonifacio VIII,
di Clemente V, papa dal 1305 al 1314, che sarà
responsabile dell’inizio della cattività avignonese per la
Curia romana..”un pastor sanza legge”.
Dante ricorda a Niccolò
III “che Gesù non ha mai chiesto denari
ai suoi discepoli, ma
solo la disponibilità a segurlo”.
“Gli apostoli quando
scelsero Mattia per sostituire Giuda, non gli chiesero oro e argento. L’avidità
degli uomini di Chiesa troppo spesso il mondo attrista, /calcando i buoni e
sollevando i pravi”.
“Perciò ti sta bene che
tu venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati,
che ti misero contro
Carlo l’Ardito (Carlo D’Angiò)”.
Dante e Virgilio
nell’Inferno dei simoniaci.
Sandro Botticelli – disegni per la Divina Commedia – i
simoniaci
Dal
1294 al 1296 il feudatario del “Castellazzo” e del feudo era Raimondo Alamannon de Cervellon.
Corrado Lancia fu infatti chiamato presso la corte di re Giacomo II in
Catalogna.
Gli storici
spagnoli indicano la famiglia Cervellòn “esser antiqua e real nobiltà dè primi
Rè Goti in Spagna”.
È citata da Giacomo de Narquilles, antico scrittore Catalano, che nella
sua opera “Storia
de los antiquos Y nobles Solares de Cataluna” citò Paphilao fratello di Costa,
e
figlio di
Recisuindo Re di Spagna. Paphilao nell’anno 693 del Signore..”seguì a piedi un
grosso
Cervo.. lo
raggiunse e le prese per le corna. L’animale diventò mansueto e umile al suo
padrone.
Senza legamenti lo
seguì e visse con Paphilao. Il cervo
morì nello stesso giorno
in cui morì il suo
padrone…”
Guillem Ramon
costituisce forse il più antico e certo stipite dei Cervellon che poi
si stabilirono in
Sardegna. Di Gullem Ramon è noto un documento per la
concessione di
franchigie emesso il 7 maggio 1267 gli abitanti del Castello di Cervellò.
Guillem Ramon
sposò Elissenda, figlia di Xinnen Cornel e di Violante Palas.
Il figlio Guillem
Cervellon Cornel giunse in Sardegna con la spedizione dell’Infante Alfonso nel
1323
e qui mori in battaglia.
Nella famiglia
Cervellòn troviamo in Spagna un Garau Alemany Cervellon Amat.
In Catalogna
spesso i Cervellò continuavano a chiamarsi con l’antico nome, o appellativo, di
Alemany.
Garau fedele alla
dinastia aragonese nel 1410 fu Governatore Generale di Catalogna. Aveva sposato
Aldonsa di Cardona, figlia di Ugo Folch II e della sua terza moglie, Isabella
di Urgell.
Era quindi
strettamente legato al più legittimo dei pretendenti al trono, il Conte di
Urgell.
Altri storici
collegano il cognome Cervellòn al lignaggio “Alemany” (tedesco)
ed esattamente proveniente
dalla Murcia con
un certo Guerao Alamàn che sposò Saurina Cervellòn.
Stemma
dei Cervellòn di Sardegna
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Federico III
d’Aragona nominato dal Parlamento Siciliano Re di Sicilia
La guerra contro
il fratello Giacomo II e gli Angioini di Carlo II D’Angiò (Lo Zoppo)
Ruggiero di Lauria
– Il suo tradimento alla causa Aragonese – I suoi Castelli
Il commento di Michele Amari
Corrado
Lancia si schierò con il fratello di Re Giacomo, Federico III d’Aragona futuro
re di Sicilia, e quindi perse i beni del Regno di Valencia e anche il castello
e Casale di Delia che rimase al Cervelon.
Giacomo
II, re di Spagna, voleva concedere la Sicilia a Carlo II d’Angiò “Lo Zoppo”.
Una decisione che fu subito contrasta dai Siciliani. Gli ambasciatori Siciliani
si recarono in Spagna per fare chiarezza sulla complicata vicenda.
“Licenziati dopo
di ciò gli Ambasciatori, e ritornati nella Sicilia vestiti scorruccio (indignati per la
risposta del re Giacomo), trovarono
l’Infante D. Federico in Palermo, e riferitoli quanto aveva dichiarato il Rè
suo fratello fu convocata allora un’assemblea di tutti li Baroni del Val di
Mazara per risolversi ciò, che doveasi operare, e manifestatasi ad essi il
giorno 11 di Dicembre la rinunzia di Rè Giacomo a favore di Carlo Secondo
d’Angiò, e le proteste autentiche fatte in nome del Regno dagli Ambasciatori
Siciliani fù risoluto concordemente di riconoscere l’Infante D. Federico non
più Luogotenente del Rè suo fratello, ma come Principe Sovrano, e come
legittimo erede alla Corona. Si ordinò ancora, che convocatosi nel prossimo
mese di Gennaio un generale Parlamento di tutti tre Bracci, ò vogliam dire
Stati del Regno nella Città di Catania si presentasse quivi il giuramento di
fedeltà al nuovo principe, il che fatto venisse egli a coronarsi a Palermo.
Si diede poscia
incombenza all’Almirante Loria ed a Vinciguerra, Palici, Cavaliere Messinese,
riguardevole non solo per la chiarezza del sangue, che per seno, e per
eloquenza, di andar a ritrovare D.
Raimondo Alamano de Cervellon, il quale, come si disse, erasi ritirato
nella Terra di Caltanissetta con altri Signori Catalani, per manifestargli
l’indubitata rinunzia fatta dal Rè Giacomo, e per persuaderlo, che volesse
ancor’egli aderire al comun consentimento de’ Siciliani, e per riconoscere
l’Infante D. Federico per Rè di Sicilia.
Allora non potendo
più replicare cosa alcuna, acconsentì il Cervellon,
e seco poi tutti gli altri, che eransi ritirati per aspettare la certezza di
una tale rinunzia, che si unissero in Catania su’l principio del nuovo anno 1296, li Baroni, lì Prelati, e li
Sindaci del Regno, per venire all’ultima determinazione sopra un punto così
importante”.
“ Quivi dunque
uniti già tutti i Parlamentari fu proposto dall’Almirante Loria di riconoscere
Rè, e Signore, e di giurare Fedeltà a D. Federico d’Aragona, il quale per
disposizione del cielo, e per quella del Rè D. Alfonso, suo fratello, non meno
che per generale consetimento dè Siciliani, era chiamato alla Corona della
Sicilia.
Dopo l’Almirante
dichiarandosi del medesimo sentimento Vinciguerra Palici, Matteo di Termine, e
così di mano in mano tutti gli altri Parlamentari; quindi prestato l’omaggio al
nuovo Rè, fù stabilito il giorno della sua Coronazione per li 25 di Marzo. Ciò
seguito senz’alcun disturbo, volle poi il nuovo Rè D. Federico altre molte
altre grazie, ed esenzioni concedute a’ Siciliani, armare di sua mano 300
Cavalieri; confirmò a Ruggiero di Lauria la carica di Grand’Ammiraglio, e
dichiarò Luogotenenti Generali delle sue armi Blasco Alagona, Guglielmo
Calcerano Conte di Catanzaro, e Fra Rainaldo de Pons Priore di S. Eufemia; diè
il titolo di Conte di Caltanissetta a
Pietro Lanza, figliuolo di Corrado (Pietro era nipote di Corrado) Maestro Giustiziere del regno, e li concesse
il dominio dell’accennata Terra, che apparteneva prima a D. Raimondo Almanno di Cervellon. Era già partito dalla Sicilia il Cervellon suddetto, che n’era stato
prima Signore, e con lui Berengario di Villaragut, e molti altri catalani, li
quali per ordine espresso del Rè Giacomo furono richiamati in Aragona; ma non
abbandonarono il Rè D. Federico la maggior parte degli altri loro nazionali,
mossi non solo dall’esempio di D. Blasco Aragona, e di Ugo di Ampurias, ma da
un punto d’onore di correre con lui l’istessa fortuna, e non meno ancora
dagl’interessi di non perdere li Feudi e le Baronie, che posedevano nella
Sicilia”.
.
Quando Federico III d’Aragona fu incoronato nel 1296 Re di Sicilia, Corrado lancia ricevette in dono per la sua
fedeltà e coraggio la terra e il Castello di Caltanissetta che fu elevata a
Contea, i proventi della “Terra di Naro” e la carica di Cancelliere che tenne
fino al 1299.Nello stesso anno gli
concesse i proventi del casale di Sabuci e di Delia. Era un periodo di
forti contrasti tra la Chiesa e il Re aragonese che fu più volte scomunicato e
l’azione di rivalsa del casale di Sabuci e di Delia deve inserirsi proprio in
quel clima di contrasti e nello stesso anno i beni vennero ceduti al nipote di
Corrado, Pietro che fu nominato Conte di Caltanissetta. Pietro si sposò con una
Alagona ed ebbe due figlie, Eleonora e Cesarea (Giovanna)
(Secondo alcuni storici Pietro era nipote di Corrado e
figlio di Manfredi. Il figlio di Corrado, Federico, quindi suo cugino, fu invece
nominato Vicerè di Sicilia da re Federico III d’Aragona.
Nei primi anni del 1300 fu costruita nel territorio
del castello e del casale una chiesa che fu dedicata a San Nicola di Bari ed
officiata da un monaco greco.
Nonostante i successi militari la situazione politica
di Federico III non era delle migliori. Numerosi nemici, tra cui una parte
della nobiltà, li tramavano contro. Lo stesso ammiraglio Ruggero di Lauria
“prestava orecchio” alle offerte del re d’Aragona Giacomo II. Nello scenario
Carlo II D’Angiò si preparava ad armare un nuovo esercito e il Papa mandava
maledizioni e soffiava sul fuoco della guerra. Il Re D’Aragona , prima di
intraprendere la guerra contro il fratello, cercò la via della persuasione e
fisso un incontro ad Ischia. Federico III convocò a Piazza (Armerina) il Parlamento e disse: “Tra
la Sicilia e i suoi nemici non c’è via di messo; o libera come oggi o
calpestata oltre ogni antico strazio di servitù”.
Il Parlamento vietò
al Sovrano di recarsi all’incontro.
Nel 1297 Giacomo II ricevette in Italia dal Papa la
bolla d’investitura della Corsica e della Sardegna e il comando supremo delle forze papali. Stipulò
un’alleanza con Carlo II d’Angiò, fidanzò la sorella Jolanda con Roberto
d’Angiò (figlio di Carlo II) e strinse una strana amicizia con Ruggiero di Lauria. Il valoroso ammiraglio, da sempre fedele alla
casa Aragonese era pronto a passare
dalla parte dei nemici Angioini. Il definitivo passaggio dell’ammiraglio sotto
la bandiera angioina avvenne per un litigio con Federico III. “In piena corte non si lasciò baciare da lui
la mano, com’era usanza, accusandolo di tramare con i nemici, e gli ordinò di
non muoversi dalla sala”.
Ruggiero di Lauria (Lauria o Scalea, 17 gennaio 1250; Cocentaina
(Valencia), 19 gannaio 1305)
Figlio di Riccardo di Lauria, alla corte di Manfredi di Sicilia e di Donna
Bella, nutrice di
Costanza di Hohenstaufen. Sembra che Ruggiero sia nato nel castello
normanno di Scalea come
Risulterebbe da un documento latino conservato, ma mai trovato, negli
archivi della Corona
D’Aragona a Barcellona. Un documento che lo stesso Ruggiero avrebbe inviato
al re Giacomo II
(“Asi consta de una carta
Latina que se conserva en el Archivio Real de la Corona de
Aragòn,m escritta por Roger al
Rey Don Jayme II”.
Castello di Lauria (Potenza)
Castello Normanno di Scalea (Cosenza)
Barcellona – Monumento a Ruggiero di Lauria
L’insegna della brigata (brigada) paracadutista “Roger de Lauria”
della fanteria Spagnola.
Tranquillizzato da due nobili, Vinciguerra Palizzi e
Manfredi Chiaramonte, il sovrano successivamente lasciò libero l’ammiraglio che
tornato a casa, montò a cavallo e si chiuse nel suo castello di
Castiglione. Attraverso i suoi armati
mise in guardia i suoi castelli (Novara, Tripi, Ficarra, Aci e Francavilla).
Castello di Ficarra (Messina)
http://www.scomunicando.it/notizie/ficarra-finanziati-gli-interventi-recupero-sistemazione-della-via-accesso-dellarea-esterna-pertinenza-del-castello/
Castello di Novara di Sicilia (Messina)
Castello di Acicastello (Catania)
https://www.esplorasicilia.com/cosa-vedere-in-sicilia/itinerario-dei-castelli-siciliani/fortezza-di-aci-castello-catania/
Federico III, non per debolezza, ma rispondendo alla
sua indole di bontà, non fece nulla contro il Lauria anzi fece accompagnare la
madre Costanza dal Lauria e da Giovanni da Procida, anche lui in rapporti con
il nemico, a Roma per assistere alle nozze della figlia Jolanda o Violante.
Dopo il matrimonio della sorella Giacomo tornò in Catalogna per prepararsi a
nuove dispute mentre Ruggero di Lauria fu “benedetto
dal Pontefice” e poi da Carlo II D’Angiò nominato ammiraglio del reame di
Napoli.
Interessante il commento che fece lo storico Michele
Amari nel XVII secolo: “così lasciavano
insieme la Sicilia entrambi da nemici, i due diventati tanto famosi nella
Rivoluzione del Vespro, legati strettamente dalla comune fortuna e dalla comune
ambizione, compagni nell’esilio, nelle speranze, nella fazione della nuova
dinastia in Sicilia, e finalmente nella tradizione. Ruggero era stato allevato
fin da fanciullo alla corte di Pietro, fu un uomo di animo smisurato, ma avaro,
superbo, insaziabile di benefici; di altissime capacità nelle cose di guerra,
il primo ammiraglio dei tempi, gran capitano d’eserciti, ma anche lui
sanguinario ed efferato. Restaurò la riputazione delle armi navali in Sicilia;
educò i Siciliani alle vittorie e fu un potentissimo sostegno nel nuovo Stato.
Iniziò andargli contro quando ebbe i rivali nel potere, forse invidioso o forse
perché troppo invidiato; ma è una macchia al suo nome quest’abbandono di
Federico quando la sua fortuna stava precipitare”. “L’abbiamo visto padrone dei
mari in Sicilia, poi perfino dominatore del mare Mediterraneo dopo la famosa
battaglia alle Formiche del 1285, con Pietro quand’era ancora contro i
Francesi-Angioini”.”Minore di lui come figura fu Giovanni da Procida anche se
sembra il suo un nome più famoso. Ministro abilissimo del re d’Aragona, nelle
ma non sempre corrette tradizioni storiche lo hanno sempre celebrato liberatore
di popoli, l’hanno posto accanto ai Timoleoni ed ai bruti; fatto di lui il
simbolo delle passioni e della necessità di tutto il popolo siciliano contro la
dominazione straniere, e poi lo ritroviamo ad affiancare lo straniero. Come
virtù ebbe la sagacità, l’ardire, la prontezza, l’esperienza negli intrighi di
Stato, ma non si aggiunsero le virtù cittadine, che anzi violò, tramando prima
con i nemici Angioini, poi sfacciatamente contro la rivoluzione siciliana e la
Repubblica Siciliana, per poi finire contro Federico III. Morì a Roma
oscuramente all’inizio dell’anno 1299, pagando con la vita il prezzo
d’infamia”.
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Lo Scontro Navale di Ponza – Gli Angioini in Sicilia
Il Triste Episodio del “Castellaccio” di Delia
La Pace di Caltabellotta e la cacciata degli Angioini dalla Sicilia
Nel 1300 dopo l’uccisione del castellano del
“Castellaccio, vassallo di Pietro Lancia, la fortezza venne nuovamente
conquistata e liberata dai fedeli del re Federico III d’Aragona.
L’episodio s’inserisce nello scenario politico che
vide Federico III d’Aragona ancora in guerra contro il fratello Giacomo, re di
Spagna” e Carlo II d’Angiò “Lo Zoppo”.
Dopo l’ennesimo scontro, questa volta navale al largo di Ponza, 14 giugno 1300, i fedeli di Federico III subirono una pesante
sconfitta. Il Niccolò Speciale riportò l’episodio nel 1300 nel suo libro “Historia Sicula dal 1282 al 1337” che fu
ripreso da Michele Amari. (Niccolò Speciale fu un cronista e politico di Noto
vissuto tra il 13-14° secolo).
“Armate dunque né nostri porti (27) venzette galee con cinque più de’
Ghibellini di Genova, vi montavano Giovanni
Chiaramonte, Palmiero Abate, Arrigo d’Incisa, Peregrino da Patti, Benincasa di
Eustasio, Ruggier di Martino e altri molti, fior della nobiltà siciliana; il
supremo comando tenea Corrado Doria, genovese. Navigaron depredando e guastando
la riviera infino a Napoli, ove Ruggier Loria
mettea in punto da quaranta galee del regno e spagnuole. Mandarono un
legno (una nave) a portargli la sfida: ed ei, c’aspettava le dodici galee tastè
rifuggite a Catania, freddo rispondea, non esser pronto per anco a battaglia.
Indi la nostra flotta, per vanto di chiudere in porto un tal ammiraglio,
soprastette tra le isole del golfo; bramando, senza assalire, né stringere il
nemico, che rinforzavasi. Scorsero i Siciliani una scura notte infino a Ponza;
e le dodici galee di Catania a vele gonfie presero il golfo: giunsevi nel
medesimo tempo inatesso aiuto di sette galee genovesi dei Grimaldi, anelanti di
bagnarsi nel sangue de’ Doria. Con cinquantotto galee allora uscì Ruggier Loria
contro la nostra flotta di trentadue.”
“A tal disparità di numero, i baroni dell’armata siciliana consultavano in
fretta sulla nave dell’ammiraglio, per onestare, non la brama di ritrarsi, ma
la temerità che accendeali a combattere. Perciò fu vana la saviezza di Palmiero
Abate, uomo di gran cuore e nome, invecchiato nelle guerre del Vespro, il quale
scongiuravali; che di soverchio non tentassero la fortuna; non mettessero a
certissima perdita quell’armata, e con essa le speranze tutte della Patria;
niun rossore, diceva, al ritrarsi con forze sì disuguali; si specchiassero nel
gran Loria, che testè n’aveva maggiori, e pur non tenne l’invito, ma combatter
volle a suo comodo.”
“Questa sentenza di Palmiero tutti approvavano in sé medesimi, con le
parole di contrario, per parere più bravi. Ma Benincasa di Eustasio, dissensato
oltre tutti, proruppe: non per isguizzar come delfini innanti il navilio
nemico, averli mandato la patria e il re: il mare che solcavamo vide già due splendide
vittorie dei Siciliani, sopra numero di nemici doppio del loro; ed or da questi
mezzi uomini fuggirebbero ? “No, si combatta”, finì, “ e i tralignanti
Siciliani che tremano, fuggan pur ora; non ci rovinino con l’esempio,
ingaggiata che sarà la battaglia !”.
“E Palmiero con ferocissimo sguardo: “A me”, gli disse, “a me Benincasa,
accenni ! Or tempo non è di parole, perché incalzano i fatti, e mostreremo tra
noi chi fugga o chi stia. Ma poiché voglion questo i Cieli, o compagni, d’altro
ormai non si parli; alla battaglia apprestiamoci con l’usato coraggio”.
“Saltò sul palischermi, piccolo e lesto; e montata la sua galea, armossi da
capo a piè. Alacremente tutti correano alla prova disperata. Corrado Doria,
ammiraglio, che non ebbe principal parte nel consultare, la cercò bene al
combattere, drizzandosi risolutamente a ferir di costa, al primo scontro, la
capitana nemica. Fu combattuta il 14 giugno del 300 questa infelice battaglia,
in cui le cinque galee genovesi ch’eran per noi, si trasser da canto, e
venzette sole siciliane affrontarono tutta la flotta nemica, con molta strage
scambievole; finchè accerchiate, soverchiate e peste, s’accorser tardi di loro
temerità. Benincasa d’Eustasio, c’alla prima avea preso una galea nemica, ne
tolse bottino quanto seppe, e diè l’esempio della fuga. Sei galee il seguirono;
le altre, dopo ferocissima lotta, furono prese co’ baroni, i guerrieri, i
marinai, tutti carichi di ferite. e Doria solo pur non calava stendardo,
ancorchè trovatosi nel più fitto de’ nemici dal principio della battaglia,
quando il nocchier di Loria destro cansò l’urto del genovese; e tutti allor gli
furono intorno, gli squarciavan co’ rostri i fianchi della galea, salivano
all’abbordo, ed erano rincacciati in mare, inchiodati da’ valentissimi
balestrieri genovesi. Loria alla fine, tirate indietro tutte le galee, gli
spiccò addosso un brulotto. Così avuto prigione Corrado Doria, onorò questa
bella virtù con aggravar lui di catene; e
a’ balestrieri diè peggio cento volte che morte, fatto lor cavare gli
occhi e mozzar le mani”.
“Fu a Corte di Napoli e per la città e per
tutto il reame grande allegrezza di questa vittoria, di cui festeggiarsi nelle
città Guelfe d’Italia, parendo l’ultima pinta alla rovina di Federigo (Federico
IIII d’Aragona). Sopra ogni altra cosa ne
sperava re Carlo (Carlo II D’Angiò)
aver di questo le terre di quei baroni in Sicilia. Fattili venire quindi a
Napoli, sbrancare in diverse carceri, e ad uno ad uno addur dinnanzi a sé, li
tastava or a trattamenti miti, carezze, promesse, or a minacce e stretture; né
mai potè spuntarne alcuno che gli facesse omaggio.”
La classe baronale siciliana fu sempre contraria a
Carlo II d’Angiò.
“Allora, con nuovo argomento, serbandone altri a Napoli in catene, altri
mandava in catene in Sicilia, a fin di tentare i prigionieri con la vista della
patria; le cittadi con la carità di questi lor valenti; e e affidolli a Loria,
vegnente a girar l’isola con la flotta col terror della recente battaglia, co’
pieni poteri che innanzi dicemmo, de’ quali fu armato appunto in questo tempo,
per usarzi con sommo sforzo d’arti e d’armi la vittoria di Ponza”.
Alcuni baroni siciliani furono trattenuti nelle
carceri di Napoli dal re angioino mentre altri vennero mandati, sempre come
prigionieri, in Sicilia con la flotta del “traditore” Ruggero Lauria.
L’obiettivo di Carlo II D’Angiò era legato alla speranza che vedendo la propria
patria, i baroni siciliani si sarebbero ravveduti donandogli i beni posseduti.
In merito ai baroni siciliani che rimasero a Napoli
c’è un diploma del 16 luglio 1300, foglio 280, che riporta una scritta per le “catene di ferro de’ prigioni siciliani”
che erano rinchiusi nelle cripte della città di Napoli (“tunc morantibus in criptis prediche civitatis Neapolis”).
“In tal viaggio morì Palmiero Abate. Fu preso a Ponza combattendo, tutto
lacero e sanguinoso; il gettarono prima in un carcere e poi in un fondo di
galea; ove, ammalignatesi le ferite per disagio e niuna cura, struggendoglisi
l’animo del rammarico di vedersi in tal essere, dinanzi quella patria per cui
avevo speso la sua vita perigliando venti anni tra le armi e maneggi di Stato,
e ora nel maggior uopo non poteala aiutare, a vista di Catania, col nome di Sicilia
sulle labbre, spirò.
Fè onorare Roberto, con esequie e sepoltura nel duomo di Catania, il
cadavere di quel grande.
Arrigo d’Incisa, cittadin di Sciacca, portato a zimbello del pari, ebbe
libertà dal caso, che fe’ sdimenticarlo in un carcere a Catania, quando Loria
ripartì con l’armata per iscorrere le costiere di Mezzogiorno. Corrado Doria
intanto tra gli artigli di Ruggiero (Loria), emulo e avaro e però ti tanto più
crudele, era stretto in catene, abbruciato di sete, nudrito appena di quanto
bastasse a tenerlo vivo, minacciato e macerato in mille guise, perché rendesse
a Loria la Terra di Francavilla.
Ei durò questo martirio gran tempo; poi scrissene a re Federigo, e
assendendol questi risegnò il feudo. Ma Francavilla fu il solo acquisto, che
tornò a parte angioina dallo strazio disonesto dè prigioni di Ponza. Poche
altre terre guadagnò (la casa Angioina) in questo tempo, tutte senz’arme:
Asaro, dato da due omicidi per
fuggir la vendetta delle leggi, e incontrarono in brev’ora quella del popolo,
che li vergheggiò a morte, mentre ordiano nuova prodizione (mentre preparavano un nuovo misfatto);
Racalgiovanni, per tradizione del signore
del luogo (Racalgiovanni era un castello nel giogo de’ monti che corrono ad
occidente, tra i fiumi Salso e Morcello,
dal Monte Artesimo (Monte Altesina)
presso Asaro e Castrogiovanni (Enna));
Taba, d’un vil soldato, che aprì
una porta ai nemici e nel trambusto fu ucciso, innanzi che imborsasse i danari
del tradimento (Taba era un castello ora distrutto. Sorgeva sotto il monte
Tavi, rimpetto Leonforte, alla scaturigine del Dittaino);
Delia per maggior viluppo di
iniquità di Giobbe e Roberto Martorana. Eran costoro amicissimi del signor della Terra, ma
presi di rea passione per la moglie e la figliuola del castellano, che il
signore posto avea in Delia, né potendo ottenerle per minore misfatto, il
castellano trucidarono, fecero violenza alle donne e, sperando che così n’andrebbero impuni, detter la rocca a
Roberto (figlio di Carlo II D’Angiò). Ma innanzi ch’ei mandassevi maggior forza
(soldati),
Berengario degl’Intensi, condottier di Federigo, riprese Delia, intromesso
occultamente da un cittadino; e i due scelerati, tratti a coda di cavallo,
spirarono sulle forche.
In merito alla precedente città di Racalgiovanni dove
era signore della terra un filo-angioino, “fu
assediata da Federigo, non soccorsa dai nemici, in pochi dì si arrese”.
Malgrado la vittoria navale angioina del 14 giugno
1300 il conflitto tra Aragonesi ed Angioini si prolungò con esiti alterni. Papa
Bonifacio si rivolse al re di Francia Filippo IV “Il Bello” per un aiuto
risolutivo. Il re di Francia mandò Carlo di Valois che arrivò in Sicilia nel
1302 e cominciò la campagna militare tipica degli Angioini, depredando e
bruciando. Il suo esercito arrivò fino a Sciacca dove fu distrutto da una
terribile epidemia di malaria e per paura di un possibile attacco da parte
delle truppe di Federico III d’Aragona, offri la pace. Pace che fu firmata a
Caltabellotta il 30 agosto del 1303 e che portò al definitivo allontanamento
degli Angioini dalla Sicilia ( con la separazione della Sicilia dal Regno di
Napoli. Gli angioini persero per sempre la Sicilia).
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Pietro Lancia – Artale Alagona – I Chiaramonte
Moncada (Castel D’Els Moncades) – Pietro Mazza – Andrea Ortolano
Lucchese (Villa Palagonia e i suoi mostri ; I Palazzi di Palermo)
Francesco Ferdinando Gravina, Il Venerabile della Chiesa.
Nel 1335 morì Pietro
Lancia e i Lancia non avendo eredi maschi persero i possedimenti (dal
matrimonio con una Alagona aveva avuto due figlie: Cesarea ed Eleonora.
Giovanni di Randazzo intorno al 1340 sposò Cesarea o
Cesarina Lancia (1320/1325 ?) ed ebbe in dote la Contea di Caltanissetta mentre
Eleonora sposò Artale Alagona
portandogli in dote le terre di Delia, il Castello di Sabuci, e le terre di
Naro e Sambuca.
Nel 1362 Eleonora d’Aragona, figlia di Cesarea Lancia e di Giovanni
d’Aragona (di Randazzo) sposò Guglielmo Peralta e gli portò in dote la Contea
di Caltanissetta e nello stesso anno con la fine della guerra civile il re
Federico il Semplice ordinò la distruzione del castello di Sabuci perché poteva
essere un covo per possibili nuove ribellioni.
(Giovanni di Randazzo in realtà era Giovanni d’Aragona
( Catania, aprile1317- Milo, 7 aprile 1348)
Sin da giovane ebbe il titolo di Marchese di Randazzo,
duca di Atene e Neopatria e reggente del regno di Trinacria dal 1342 al
1348. Figlio secondogenito del Re di Sicilia Federico III
d’Aragona e di Eleonora D’Angiò. Il padre in giovane età gli concesse il titolo
di Marchese di Randazzo).
Artale
Alagona “miles” fu un personaggio politico importante perché anche se fedele
alla corona aragonese cercò di affievolire il dominio aragonese sull’isola.
Alla morte del padre ereditò la carica
di maestro giustiziere e un gran numero di possedimenti: la Contea di
Mistretta, la Terra di Pettineo, il Casale “Rigitano” (Reitano), il casale
Sparti (Motta d’Affermo), la terra e il Castello di Butera, il feudo Belmonte e
il feudo La Pietra di lu Judeo. Ottenne la terra e il Castello di Naro e grazie
al matrimonio con Eleonora Lanza il casale e il castello di Delia, almeno fino
al 7 febbraio 1348. Ebbe diverse concessioni da Federico IV riuscendo ad
accumulare un gran numero di titoli e feudi.
Federico
IV d’Aragona (Il Semplice) il 16 aprile 1365 gli permise di permutare la sua
Contea di Mistretta con Paternò e Francavilla per assumere il titolo di Conte
di Paternò. Nel contratto di permuta la clausola che “nel caso in cui Paternò fosse rivendicata da Maria figlia del re”,
l’Alagona sarebbe ritornato in possesso del titolo e della relativa Contea di
Mistretta. (infatti il 25 agosto 1365 Artale Alagona figura Conte di
Mistretta).
Dopo
circa un anno un’altra permuta con la chiesa. L’11 aprile 1366 Artale ritornò alla curia, “in cambio di beni feudali di egual valore”
la Terra di Naro e il “castello del feudo
o tenimento di Delia”.
Come
abbiamo visto Artale Alagona sposò Eleonora Lancia da cui non ebbe figli. In
seconde nozze sposò Agata Moncada, figlia di Guglielmo Raimondo III e in terze
nozze, Marchisia Abbate, figlia del Conte Enrico. Ebbe solo una figlia
legittima Maria, avuta da Agata Moncada, e due figli naturali Maciotta e
Giovanni. Prima di morire, nel febbraio 1389, stipulò un testamento in cui
designava erede universale la figlia Maria, sotto la tutela dello zio Manfredi
che era fratello di Artale.
(Maria
sposò Giovanni Cruyllas e gli portò in dote la Contea di Augusta, Aci,
Calatabiano, Gagliano, Mineo, Motta S. Anastasia, Mongialino, Paternò e Troina.
Secondo le disposizione testamentarie di Artale Alagona: a Manfredi toccò il
vicariato e la carica di maestro giustiziere, il governo di Calascibetta,
Caltagirone, Castrogiovanni e Piazza
oltre alla castellania di Lentini e Siracusa; a Blasco III la Contea di
Mistretta e di Butera con il patto di restituirli a un figlio cadetto di Maria
che avrebbe dovuto prendere il nome di Alagona, e all’altro fratello Giacomo i
proventi della secrezia di Siracusa e al fratello Matteo i proventi della
secrezia di Lentini)
Come
si vede non figura più il castello di Sabuci e il tenimento di Delia che nello
stesso anno 1366 (l’11 aprile) furono concessi a Matteo Chiaramonte. Nominato maniscalco a vita nel 1361, Conte di
Modica dal 1363, Signore di Ragusa, giustiziere del Regno nel 1365. Nello
stesso anno 1366 (il 30 marzo) ebbe l’ufficio di castellano e la "capitania" con
cognizioni delle cause criminali di Agrigento col privilegio di trasmetterlo
agli eredi.
Chiaramonte
famiglie d’origine Normanna ed una delle più nobili famiglie Francesi.
Secondo gli
storici era imparentata con il Re Pipino “Il Breve” e scese in Sicilia al
seguito dei Normanni
Il
castello con il casale passarono quindi al nipote Manfredi Chiaramonte e alla sua morte, novembre 1391, ad Andrea Chiaramonte che fu giustiziato
per tradimento, l’1 giugno 1392, a Palermo mediante impiccagione davanti al suo
palazzo lo “Steri”.
Nel
1392 dopo la morte di Andrea Chiaramonte il casale e il castello tornarono al
regio Demanio e vennero concessi dal re Martino a Guglielmo Raimondo III Moncada.
La famiglia
Moncada ebbe origine in Spagna nel V secolo da Dapifero.
Dapifero, figlio di
Teodone Duca di Baviera, fu un valoroso capitano che uccise tre Re Mori sotto i
Pirenei.
Giovanni Agostino
della Lengueglia nel suo libro “Ritratti
della prosapia et heroi Moncadi nella Sicilia” (del 1657) citò Dapifero
nell’uccisione di tre Re Mori. Riuscì ad arginare l’espansione territoriale dei
Mori
incatenando due
monti della Catalogna, in mezzo ai quali vi costruì alcune fortificazioni tra
cui
un importante
castello che prese il nome di Montecateno
…. “cognomatosi Montecateno, poi corrotto in
Montcada e infine Moncada… combattè al seguito di
Otogerio Catalò, al quale succedette nel comando delle
milizie cristiane dopo la sua morte”.
Il nome reale di
Dapifero sarebbe Otto, e la sua paternità fu attribuita a Grimaldo di Baviera,
ucciso
nel 725 da Carlo
Martello. Ottogerio ed Otto per sfuggire al Re dei Franchi, si rifugiarono in
Catalogna dove
combatterono i Mori.
Secondo le
ricerche dello storico americano J.C. Shideler la dinastia Moncada non sarebbe
esistita
prima dell’anno
1000. Il primo membro della famiglia risalirebbe al 1002 con un
Guglielmo di
Vacarisses, vicario delle Signorie di Muntanyola e Vacarisses, e figlio di un
nobile
Tedesco,
Seniofredo, visconte di Girona. Seniofredo tra il 1023 e il 1025, in seguito al
matrimonio
con la nobildonna
Adelaide di Claramunt, acquisì il possesso del castello di Montcada e ne prese
il cognome.
http://montcadapost.blogspot.com/2008/02/la-mare-de-du-del-castell-de-montcada.html
Guglielmo
Raimondo III Moncada fu giustiziere del Regno e nella notte del 23 gennaio 1379
rapì dal Castello Ursino di Catania, la principessa Maria di Sicilia, figlia di
Federico IV il Semplice e di Costanza d’Aragona. Un rapimento voluto dal re
Pietro IV d’Aragona per evitare le nozze della principessa con Gian Galeazzo
Visconti, duca di Milano. Bianca, allora quindicenne, si trovava rinchiusa nel
Castello Ursino sotto la tutela di Artale Alagona e dopo la sua liberazione fu
trasferita nel castello di Licata dove rimase due anni.
L’impresa
gli valse l’appellativo di “Il Conquistatore” e divenne il più ricco feudatario
di Sicilia attraverso l’assegnazione dei beni confiscati agli Alagona e ai
Chiaramonte. Lo stesso Moncada successivamente portò Bianca nel suo castello di Augusta dove rimase
assediata per altri due anni dall’Alagona prima di essere liberata dalla flotta
aragonese e diventare moglie del futuro re Martino Il Giovane.
Il
Moncada fu successivamente accusato di aver cospirazione contro il re Martino I
di Sicilia (padre di Martino il Giovane) e con una sentenza emessa dal
Tribunale della Gran Corte nel 1396, fu dichiarato “fellone” e tutti i suoi
beni gli furono confiscati.
Il Galluppi cita la famiglia come
originaria della Spagna e decorata della
baronia di Sellia.
Un Blasco Mazza,
nel 1156 risulta annoverato fra i baroni di Catalogna e d’Aragona.
Nel 1287, con un
altro Blasco Mazza, la famiglia passò in Sicilia al seguito del re Giacomo
D’Aragona ed
esattamente a Messina. Sembra che la famiglia si sia poi trasferita
a Napoli ottenendo
dal re Giacomo la baronia di Sellia ma senza abbandonare la città di Napoli.
Nel 1399 Pietro Mazza permutò il feudo ed il
castello con il feudo di Condoverno che era in possesso di Andrea Ortolano.
Famiglia di origine pisana, probabilmente ricchi
commercianti.
Il primo Ortolani sarebbe un Guido, vicario dell’imperatore
Federico II che lo cita come “suo amico
Anziano” ricordando “d’aver mantenuto a sue spese per giorni
dieci tutto l’esercito
Imperiale. L’imperatore lo dichiarò “d’antica nobiltà” come
si rileva da un antico privilegio spedito
In Barletta il 24 luglio 1235 e in favore del figlio di
Guido, Gualdo vessilliero del su indicato imperatore”.
Documento che si conserva nell’archivio di Cefalù del vivente
D. Carlo Ortolani, barone di Bordonaro.
Questa famiglia passò in Sicilia nel XIII secolo e tra le
città siciliane ebbe la residenza in Cefalù
Nel 1436/37 Guglielmo Raimondo Moncada ottennè la licenza regia per
costruire il castello di Sabuci che era stato distrutto durante la guerra
civile del 1361/62.
Nel 1516 Pompeo Ortolano vendette a Bernardo Lucchese il feudo e il castello di Delia e nel 1596 il castello,
nella documentazione relativa alla fondazione della nuova terra di Delia,
risulta abbandonato.
Il
23 marzo 1596 don Gaspare Lucchese rivolse al Presidente del Regno di Sicilia Giovanni Ventimiglia, Marchese di
Geraci e Principe di Castelbuono, la richiesta di poter «abitare e fare
abitare» il feudo disabitato “dela Delia”
dove sorgono già “un castello, una
chiesa, resti di edifici in rovina e traccia di antichi insediamenti”..
Nel 1596 - il secretus di Licata in una
lettera indirizzata al viceré, Enrico Guzman conte di Olivares, descrivendo il feudo di Delia disse che "...vi è nel centro di detto fegho,
sopra un monte, un castello antiquo forte di mano et dimostra, per ruina di
fabbriche antique essergli stata altra volta habitatione. Vi sono nel proprio
castello alcuni dammusi dove dimostrano essere state carceri...".
Nel dicembre 1597 - Gaspare Lucchese ricevette lo jus populandi per
abitare e popolare il feudo di Delia. Il centro abitato fu fondato da Don
Gaspare Lucchese dopo aver ottenuto l'autorizzazione “edificandi et populandi” nel 1597 da Filippo II (1527-1598), re di
Spagna
Il capostipite fu un Adinolfo, figlio di una sorella del re dei Longobardi,
Desiderio, e signore
di un castello detto “dei tre Palli”. I di discendenti di Adinolfo
governarono la
Repubblica di Lucca e si narra che un Andrea Palli sia stato il primo a
portare la
famiglia in Sicilia dove, in memoria della patria di detto Andrea, si
chiamò Lucchese.
Godette nobiltà in Palermo, Messina, Naro, Noto, ecc.; possedette il
principato di Campofranco, le ducee di Alagona, di Camastra, della Grazia, di
Castelmonte, e il titolo di duca Lucchese, i marchesati di Casalgerardo, di
Delia e di Mezzoiuso; la contea di Calatarosato; i feudi di Bertolino o
Mezzo Catuso, Bibino Magno, Burgio Mancino, Castelluzzo, Castelnormanno,
Dammisa, Donna Maria, S. Fratello, Gebbiarossa e Grasta, Giardinello e Perrana,
Moriella, Palazzolo, Pantano, Suttafari, Valle dell’Olmo, ecc. ecc.
Licenza che diventò esecutoria nell’aprile del 1598
dietro il pagamento della relativa tassa di 1000 scudi.. ma per avere la
licenza si doveva adempiere all’obbligo
di “prestare servizio militare con un
cavallo” e la condizione di “popolare
la nuova terra con almeno 100 fuochi”.
Già nel 1608, in seguito ad una visita del Vescovo di
Agrigento, i “fuochi” erano già circa 250 a cui si aggiungevano anche quattro
chiese ed un convento carmelitano.
La famiglia Lucchese_Palli aveva già un suo posto autorevole
nella nobiltà siciliana e la richiesta della “licentia populandi” va ricercata sia nel miglioramento dello
sfruttamento delle risorse agricole del suo vasto e fertile feudo, condotto da “massari”
provenienti da Naro, Caltanissetta ed Enna, sia per raggiungere posizioni di maggiori
prestigio nella nobiltà siciliana.
Nel 1596 il figlio Giuseppe sposò Vincenza Spatafora,
figlia del pretore e secreto di Palermo Colantonio. Infatti per intervenire
presso il sovrano i Lucchese si rivolgeranno proprio a Colantonio a cui rimetteranno
la pratica.. come si evince anche dal particolare contratto di matrimonio dove
l’unione è condizionata all’ottenimento del titolo di marchese e della “licentia
populandi” di Delia.
Mappa di Delia nel 1800
http://147.163.1.169/Delia.html
Dopo la
fondazione di Delia è probabile che il castello non sia stato più frequentato e
cadde in abbandono e alla fine del XVI secolo era semidistrutto.
Il 24
marzo 1604, dopo la morte di Filippo Il e l'ascesa al trono di Filippo III, don
Gaspare Lucchesi si reinvestì della terra e del castello di Delia. A don
Gaspare Lucchesi successe il figlio Giuseppe, il quale entrò in possesso della
baronia di Delia il 7 dicembre 1609. Il16 giugno 1623 venne onorato dei titolo
di marchese di Delia con privilegio dato a Madrid dal Re Filippo IV. Sposò
donna Margherita Filingeri Spucches e dal matrimonio nacque Gaspare, che
assunse il titolo di marchese di Delia nel 1662. La famiglia Lucchesi, con
Pietro, Giulia, Nicolò e Anna Maria, tenne il marchesato di Delia fino al 1753.
In quell'anno entrò in possesso dei titolo di marchese di Delia don Ferdinando
Francesco Gravina Alliata principe di Palagonia, erede universale della nonna
Anna Maria Lucchesi al quale successe Maria Provvidenza Gravina Gaetani, che
portò il marchesato in dote al marito Salvatore Gravina Cottone nel 1789.
Anna
Maria Lucchese e Lucchese, V Principessa di Palagonia e figlia di Nicolò
Lucchese, sposò Ferdinando Francesco Gravina Crujllas Bonanni (Pa, 15/09/1677 –
Pa, 4/2/1736) da cui ebbe due figli:
- - Ignazio
Sebastiano Gravina Crujllas Lucchese, VI Principe di Palagona;
- - Marianna
Gravina Lucchese.
Francesco Gravina
Crujllas (1677 – 1736)
Il Principe diede
inizio ai lavori di Villa Palagonia – Bagheria
Bagheria (Pa) - Villa Palagonia
https://www.ioamolasicilia.com/villa-palagonia-a-bagheria-la-villa-dei-mostri/
Salone degli
Specchi
https://www.ioamolasicilia.com/villa-palagonia-a-bagheria-la-villa-dei-mostri/
Ignazio
Sebastiano Gravina Crujllas e Lucchese ( 1699 – Villa dei Portici-Na –
29/5/1746) sposò Margherita Agliata e Bonannida cui nacque Ferdinando Francesco
Gravina Crujllas Agliata.
Ferdinando
Francesco Gravina Crujllas Agliata (1722 – 1788) sposò Maria Gioacchina Gaetani
e Buglio, Principessa di Lercara). Dal matrimonio nacque Provvidenza (1774 –
1805), VII Principessa di Palagonia, che portò, come detto prima, il marchesato
di Delia al marito Salvatore Gravina Cottone (1742 – 1826).
Ferdinando
Francesco Gravina (1722 – 1788) – VII Principe di Palagonia
Il principe
intervenne nella Villa di Bagheria disseminando il giardino di mostruose figure
in pietra.
Goethe visitò la
villa e la considerò come “l’opera di un
folle”.
In realtà la
storia ci restituisce un uomo lucido, ciambellano personale del re di Napoli e
Grande di Spagna.
Affresco di
anonimo nella Villa dei mostri - Maria Gioacchina
Gaetani (1735-?), unica figlia ed erede universale del duca di Valverde.
Bagheria (Pa) – I
mostri di Villa Palagonia
Villa Palagonia in
una gouache di J. Houël, Voyage pittoresque des isles de
Sicilie, de
Lipari, de Malta, Paris 1782-87.
Bagheria – Villa
Palagonia – il Vestibolo con gli affreschi delle fatiche d’Ercole
https://www.ioamolasicilia.com/villa-palagonia-a-bagheria-la-villa-dei-mostri/
Palermo – Palazzo
Gravina Palagonia
Posto nell’antica
Kalsa fra Via IV Aprile – Via Alloro e Vicolo Palagonia all’Alloro
Fu acquistato
dalla famiglia Gravina nel XVIII secolo e oggetto di lavori nel XIX secolo.
Oggi sede del
Museo del Vino e della Civiltà Contadina
Palermo – Palazzo Gravina Palagonia
Posto nell’antica Kalsa fra Via IV Aprile – Via Alloro e Vicolo Palagonia all’Alloro
Provvidenza
Gravina Gaetani sposò lo zio, Salvatore Gravina e Cottone, tra i due c’erano 32
anni di differenza. Un matrimonio che doveva garantire la continuità del titolo
di principe poiché Provvidenza era l’unica figlia del principe Ferdinando
Francesco. Alla base del matrimonio c’era una norma testamentaria ben precisa,
voluta dal nonno Ignazio Sebastiano, che aveva creato questo meccanismo in previsione
dell’assenza di eredi maschi.
Salvatore Gravina
Cottone – Il Marito di Provvidenza (sua nipote)
Palermo – Palazzo
Gravina Palagonia – Corso Calatafimi
Costruito nel’ 700
da Salvatore Gravina e Cottone
Paolo Francesco fu l’ultimogenito della coppia, nacque nel 1800, dopo
due gemelli purtroppo nati morti e quattro sorelle nate tra il 1792 e il 1797:
Agata, Francesca Paola, Giulia e Gioacchina. Agata sposerà il principe di
Partanna, Vincenzo Grifeo, mentre le altre sorelle prenderanno i voti entrando
in convento.
Francesco di Paola
Ferdinando Gravina.
La
famiglia Gravina aveva una grande devozione per San Francesco di Paola tanto
che il figlio maschio si chiamava in realtà Francesco di Paola Ferdinando Gravina.
A
Palermo avevano due palazzi, uno nel Corso Calatafimi e l’altro in Via IV
Aprile alla Kalsa. Francesco Ferdinando nel 1819 sposò la coetanea Maria
Nicoletta Filangeri, figlia del principe di Cutò. La donna tradì ben presto il
marito con il figlio del principe di Sciara, Francesco Paolo Notarbartolo.
L’avvenimento
diede naturalmente origine ad un grande scandalo e dato il perdurare
dell’infedeltà, il Gravina nel 1829, dopo dieci anni dal matrimonio, ordinò
all’uscire di Palazzo Comitini di non fare entrare più in casa la moglie.
La
relazione matrimoniale svanì nel nulla.
I due non s’incontrarono più e la donna, dopo la morte del marito, sposò
l’amante Notarbarolo.
Dopo la rottura matrimoniale il principe
Francesco non riuscì ad affrontare la sua nuova condizione di separato e si
ritirò a meditare. Aveva davanti a sé due nuove possibilità di vita: divorziare
e quindi rifarsi una nuova vita anche per garantire il meccanismo di
successione oppure rimanere coerente al suo spirito religioso e quindi
rifiutare il divorzio, agli insegnamenti del Vangelo, e affrontare la vita con
nuovi stimoli ed iniziative diverse.
Non
divorziò ed iniziò un vero e proprio apostolato di carità e beneficenza nella
città di Palermo. Tutti i suoi beni immobili, edifici sparsi nella città,
diventarono centri di accoglienza per i poveri, per gli emarginati.
Il
suo attivismo cristiano sociale lo portò tra il 1832 ed il 1834 ad assumere
l’incarico di pretore (sindaco) di Palermo. Negli anni 1836/37 la Sicilia fu
sconvolta da un epidemia di colera e il principe si attivò negli aiuti creando un Deposito di Mendicità
cioè un vero e proprio ente per il
ricovero degli indigenti. Un lavoro sociale immenso e dietro una sua richiesta
riuscì ad ottenere per il Deposito di mendicità il distaccamento di un gruppo
di suore.
Palermo – Villa
Sperlinga - Prima sede del Deposito di
Mendicità
Palermo – Villa
Sperlinga
https://www.balarm.it/guida-ai-luoghi-di-sicilia/cosa-vedere-a-palermo/ville-parchi-e-riserve/villa-sperlinga-2462
Nel
1839 diventò responsabile del Reale Albergo dei Poveri , un ente pubblico di
assistenza. I suoi palazzi diventarono strutture di accoglienza e lui con
grande spirito cristiano dormiva in una stanza che divideva con il suo
segretario. La sua giornata era solo dedicata ai ricoveri dei bisognosi.
Nel
1847 riuscì ad ottenere la concessione ecclesiastica per il nuovo ordine delle
“Suore di Carità - del principe di Palagonia” che lui aveva chiamato invece di
“S. Vincenzo de’ Paoli”.
È
considerato come l’unico laico ad aver istituito un ordine religioso e rimase
non realizzato il suo segno di creare un analogo ordine maschile.
La
sua opera non si fermò a Palermo. A
Lercara Friddi aveva dei beni immobili avuti dalla nonna materna e anche
in questo centro attivò la sua attività sociale e cristiana verso i bisognosi
soprattutto durante le epidemie di colera. A
Lercara il principe era proprietario di una miniera di zolfo oltre a vari
edifici e terreni. Si adoperò per migliorare le condizioni ambientali di coloro
che lavoravano nelle miniere. Destinò degli edifici a funzione pubblica con la
creazione del teatro “Principe di Palagonia”
e del palazzo comunale. Edifici che dopo la sua morte furono acquisiti
dal Comune di Lercara.
Eppure
l’8 maggio del 1849 fu assalito dalla folla e da quel momento solo raramente si
recò nel centro e presiedeva alle sue opere direttamente da Palermo.
Fu un
acceso sostenitore dell’indipendenza dell’isola e quindi sostenne, anche come
esponente del Parlamento Siciliano,
la rivoluzione antiborbonica creandosi delle forti antipatie da parte della
corte borbonica.
Morì
all’età di 54 anni e prima di morire chiese che la “sua salma fosse vestita di un saio e trasportata col capo appoggiato
su una tegola come San Francesco… e delle preghiere per lui e la sua ex moglie”
Il
suo funerale fu seguito da una folla immensa. La sua salma fu prima deposta
nella chiesa di Baida, fuori Palermo e nel 1958 venne traslata nella casa madre
delle Suore di Carità.
Il
9 ottobre 2017, dopo un lungo iter burocratico, Papa Francesco dichiarò
Francesco Paolo Gravina Venerabile della Chiesa.
Ultimo
marchese di Delia fu dunque don
Francesco Paolo Ferdinando Gravina, il quale lasciò tutti i suoi averi ai
poveri.
Nella prima metà del secolo XIX - il castello era in
rovina: "...rimangono solamente alcune grotte e muraglie ad atrii
appartenenti, e merli e avanzi di torre rotonda, la quale sovrastava qual
vedetta all'intero castello" - Amico 1855-56,1, p. 368.
Nel
1653 Delia contava 1071 abitanti distribuiti in 288 case. La popolazione
registrò un continuo aumento, passando dai 1717 abitanti dei 1748, ai 3101 dei
1831, ai 3560 dei 1861, ai 3642 dei 1871, ai 4705 dei 1901, ai 7279 dei 1951.
In base ai dati del censimento dei 1981 la popolazione di Delia conta 4923
abitanti.
Famiglia Gravina
discendente dai sovrani Normanni. In Italia il primo Gravina
fu Silvano,
signore di Gravina con “castello e terra
nella Provincia di Bari da cui prese il nome”.
Era figlio di
Crispino, Signore d’Arnes, disceso da Rollone o Roberto primo duca di
Normandia.
Giacomo di Gravina
fu il “progenitore” dei Gravina di
Sicilia con un diploma di Re Martino
emesso in Catana
il 20 novembre 1405.
“Dominatori della Sicilia. Godette nobiltà in Caltagirone,
Catania, Messina, Palermo;
possedette i principati di Alcara o Lercara,
Castelforte, Comitini, S. Flavia, Gravina, Montevago,
Palagonia, Rammacca, Val di
Savoja; le ducee di Alcara, Castel d’Aci, Cruillas,
San Michele, Valverde; i marchesati di Antella,
Bifara, Cadera, Delia, S. Elisabetta,
Francofonte, San Germano; le contee di S. Giovanni la
Punta, Sittafari;
le baronie di Arbiato, Armicci, Bifara, Belmonte,
Buonvicino, Calatabiano, Cattasi, Cugno,
Fanaco, Favarotta, Fiumefreddo, San Basile e Lenza,
San Fratello, Gibellini, Iroldo,
Marabino, Murgo, Piedimonte, Pozzo, Ramione, Rincioli,
Scordia Soprana, Stellaini, Suvarita, ecc. ecc.
Nel
XIX secolo il castello subì parziali modifiche per l’insediamento di un mulino
a vento e nel 1878 venne inserito fra i monumenti del regno. Fu interessato da
un primo restauro con l’eliminazione delle strutture pertinenti al mulino a
vento e ripristino delle strutture originarie.
Nel
1987 – 1995 il castello fu oggetto di restauri e di scavi da parte della
Soprintendenza e alla fine dei lavori fu aperto al pubblico.
4 - ARCHITETTURA
Lo
sperone roccioso costituisce il basamento naturale della struttura muraria.
Sono presenti numerose cavità naturali che furono utilizzate come cisterne
d’acque. Con la fine dell’utilizzo del castello le cisterne furono colmate con
materiali da costruzione e materiali ceramici in disuso.
Planimetricamente
è articolato su vari livelli. La lunga rampa di accesso conduce ad un grande
piazzale (che nella parte orientale doveva essere occupato da un villaggio
medievale), tre larghi gradini in pendenza immettono, attraversato il vano
d’ingresso, piccolo ambiente voltato con sedili laterali, al piano della
piccola corte. Questo spazio, non definito architettonicamente, doveva
comprendere degli ambienti di servizio. Al di sotto sono scavati nella marna
tre ambienti sotterranei, di forma irregolare, con funzione di deposito delle
derrate, probabilmente successivamente reimpiegati come prigione.
Negli scavi dell’ultimo intervento di restauro sono emersi quattro livelli,
Il primo, più basso a nord-est, sale verso l’ingresso coperto con una volta a
botte archiacuta tramite una rampa dove si sono ritrovate consistenti tracce
della vecchia costruzione che testimoniano un’abitazione del castello
antecedente la ricostruzione del Moncada.
In particolare è emersa l’esistenza di un pendio molto ripido e scosceso
che testimonia che in origine il castello dovette essere una costruzione quasi
a nido d’aquila e di conseguenza perfettamente inaccessibile se non in qualche
punto di più facile passaggio che poteva essere facilmente controllato e difeso
dalle milizie della guarnigione.
Il secondo livello corrisponde all’estradosso della volta d’ingresso.
Nel terzo livello, a settentrione, è stato recuperato l’unico ambiente interno del castello coperto con una volta fortemente archiacuta e nel quale si aprono cinque feritoie: due ad occidente e tre ad oriente.
Da qui una scaletta sale al quarto livello caratterizzato, sul lato meridionale, da un camminamento merlato che conduce ad una struttura absidata che fa pensare alla cappella dei feudatari. Sul lato settentrione sempre del quarto livello sono presenti i resti della torre nord con un ambiente destinato alla residenza del castellano con quattro magnifiche finestre sulla parete occidentale.
I ritrovamenti venuti fuori dagli ultimi scavi archeologici consistono in
manufatti dell’ XI e inizio del XII secolo che sono di natura più che normanna
quasi sicuramente del periodo arabo del castello.
Sono invetriate piombifere che confrontate con altri ritrovamenti nella
zona di Agrigento sono da collegare ad una produzione di ceramiche a boli
gialli proveniente dalla Sicilia centrale.
L’enorme quantità di ceramiche
ritrovate nel castellazzo databili tra il XII e il XVI secolo sono la
dimostrazione che esso durante i secoli fu adibito, più che come centro
abitativo e residenziale, come luogo dove venivano concentrate le riserve
idriche e soprattutto quelle alimentari.
5 - LA
LEGGENDA DEL “CASTELLACCIO”
Nascondere i propri averi all’arrivo di una
dominazione straniera è una consuetudine che si perde nei secoli. Anche nel XX secolo , quando i contadini
riuscivano a costruire o a ristrutturare i casolari erano soliti occultare le
somme rimaste in piccole nicchie ricavate nello spessore delle mura del
fabbricato.
Gli arabi al sopraggiungere dei Normanni nascosero i
loro tesori nelle grotte o in altri
luoghi.
Numerose sono leggende in merito e chiamate in lingua
siciliana “i Truvaturi”.
Anche il “castellaccio di Delia” non sfugge alla
tradizione e si narra di un favoloso tesoro nascosto detto dalla fantasia
popolare “lu tesoru di lu castiddrazzu”,
leggenda che è riportata nel libro dello storico prof.
Luigi La Verde nel testo “Folklore di Delia”.
Un tesoro custodito da “un rignanti saracinu cc unna mazza ‘mmanu e cruna ‘ntesta” (un
saraceno posto a guardia del tesoro con una mazza nella mano e una nella
testa).
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6 - L’ANTICA “MANSIO PETILIANA” ROMANA
E’ DELIA ?
La "Taberna" e la "Mansio" in Piazza Castello
Pietro Carrera (scrisse anche un libro sul gioco degli scacchi)
Piazza Castello - Quarto (Na), La Mansio Romana - I Proprietari Romani della Mansio di Delia
All’inizio
della mia ricerca ho citato come l’antica “Petiliana”,
identificata da alcuni storici con il centro di Delia, sia stata una delle “mansio” riportate dall’”Itinearium Antonini” sulla strada
romana “Catina-Agrigentum”.
Ho
anche citato che negli scavi effettuati dalla Sovrintendenza nel “castellaccio”
di Delia non furono trovati reperti romani. La presenza romana a Delia è invece
attestata dai numerosi rinvenimenti in alcune contrade e anche nel centro
cittadino.
Il
prof. Paolo Busub, Presidente “Sicilia
Antica” sezione di Delia, ha svolto delle interessanti ricerche in merito e
pubblicate nel sito storiadidelia.blogspot.com/
Un
lavoro attento e scrupoloso dove il prof. Basub dimostra un grande desiderio di
conoscenza e di amore verso il proprio paese. Ricerche che unite alla immense
risorse del centro fanno di Delia una vera e propria perla della Provincia di
Caltanissetta.
Dopo
questo breve excursus è importante
affermare che l’identificazione di Delia con Petiliana non è stato ancora
pienamente confermato. Alla base c’è una mancata coincidenza delle distanze
riportate dall’Itinerarium Antonini.
In
base alle sue attente ricerche, il prof. Basub ha ipotizzato la presenza a
Delia di una “Cauponae” cioè di un “ristorante privato” forse collegato ad una “mansiones”.
Gli
scavi di Pompei hanno riportato alla luce diverse “cauponae” che erano presenti
lungo le strade di maggiore traffico e la cui insegna si trovava trascritta sul
muro della facciata o su tavole di legno affisse.
Da
qui l’usanza medievale di riportare il nome delle locande come al tempo dei
Romani cioè con insegne.
E
qui la prima notizia storica che lascia quasi esterefatti…. A Delia c’era l’”Hospitatoria Taberna Petiliana”…
Il
famoso Abate Vito Maria Amcio che nel suo “Lexicon
Topographicum Sicilum” del 1749 (Dizionario Topografico della Sicilia) ha tramandato un patrimonio storico di grandissimo
valore, cita lo storico Pietro Carrera (1571 – 1647) che “passando per Delia a qualche decennio d’anni dalla sua fondazione”
, avvenuta nel 1622 (con licenza esecutoria
nell’aprile del 1598), la “identificò con
l’antica Petiliana poiché sull’insegna di una locanda vi era scritto
“Hospitatoria Taberna Petiliana”.
Pietro Carrera era un illustre sacerdote
nato a Militello in Val di Catania il 12 luglio 1574 . Morì a Messina il 18
settembre 1647.
Visse molto tempo a Pietraperzia dove fu cappellano di corte di Don
Francesco Branciforte
dove aveva a disposizione una biblioteca di 10.000 volumi.
Da storico e archeologo girò la Sicilia per le sue ricche ricerche.
A Canicattì diventò segretario di Don Giacomo Bonanno, duca di Moltalto,
vivendo alla sua corte dal 1622 al 1639.
La distanza tra Canicattì e Delia è di appena quattro miglia, circa sei
chilometri e
Don Pietro Carrera accompagnava spesso il Duca di Montalto a Delia.
Il duca era parente dei Lucchese di Delia. Come storico fu il primo a
identificare Delia
con l’antica Petiliana romana.
Riferì nei suoi scritti di aver visto l’insegna in una locanda, tra il 1622
e il 1639 che diceva
testualmente:
“... PROPE EST HOSPITALEM TABERNA ADUC
PETILIANA APPELLATUR”.
Don
Pietro Carrera non avrebbe avuto alcun interesse a localizzare una
Petiliana
in quel luogo.
Don
Pietro Carrera sacerdote, storico, archeologo, scrittore, poeta,
mastro
notaro e anche un abile giocatore di scacchi.
Tra i
suoi scritti anche un testo sul “Gioco degli Scacchi” (1616).
Un testo dedicato al Principe D. Francesco Branciforte.
Lo stemma del principe era sul retro
della copertina.
La
pubblicazione di questa notizia non
permette di confermare le eventuali origini romane del centro, però possono
essere le basi di una importante indagine storica e archeologica.
Il
prof. La Verde, storico di Delia, nell’anno accademico 1953-54 presentò la sua
tesi di laurea dal titolo “Folklore di Delia”.
Nel primo capitolo della sua tesi, “Cenni Storici”, riportò le sempre
interessanti tradizioni orali locali che i contadini si erano tramandati di
generazione in generazione.
Tradizioni
orali spesso cancellate nella nostra società consumistica che tra i propri
obiettivi non ha certo quello di valorizzare gli antichi messaggi delle passate
generazioni.
“Sino ad un secolo
fa, nei pressi della diroccata Chiesa della Madonna, sullo stradale che va a
Canicattì, sorgeva un’osteria detta appunto Petiliana”.
È
la seconda testimonianza sulla presenza dell’Osteria. Dal 1660 (Pietro Carrera) al 1953 (La Verde)
sono passati quasi tre secoli a dimostrazione di una tradizione orale immutata
nei secoli…un osteria importante, forse anche l’unica di Delia a tal punto che
il suo ricordo ha superato lo scorrere inesorabile del tempo. Ma c’è un altro
aspetto da rilevare legato all’attività di questa “hosteria” che durò a lungo a
tal punto che il suo ricordo non svani nel nulla. E fa ancora più riflettere come il nome si sia
tramandato senza alterazioni come spesso avviene nell’espressione delle
tradizioni orali.
Il
prof. Poalo Busb, ha quindi cercato di identificare il sito della “taberna”
partendo dall’ 800.
Sembra
quasi un romanzo e penso che i cittadini di Delia siano orgogliosi nel vedere
rinascere momenti di storia attraverso la sapiente e ricca opera di un loro
concittadino.Il
tratto di strada indicato dal prof. La Verde era quello compreso tra l’ex
Chiesa della Madonna delle Grazie (Via Armando Diaz – uscita per Canicattì) e
Sant’Antonio, in direzione est verso il paese.
Nel
1850 oltre alla Chiesa della Madonna delle Grazie, in questa zona del paese
erano presenti poche case e forse solo l’edificio dell’osteria. Infatti
l’abitato in quel periodo si fermava poco più oltre la Chiesa di Sant’Antonio.
La
mappa borbonica del tempo risalente alla prima metà dell’Ottocento, anche se
importante dal punto di vista storico e topografico, è deficitaria per alcuni
aspetti.
Nel
1737 la Chiesa di S. Maria delle Grazie nell’inventario dei beni riportò una
breve descrizione sulla sua ubicazione con la distanza dal centro abitato..” la suddetta Chiesa di S.M. delle Grazie è
situata in questo stato e feudo nominato Delia, lontano da questa terra 200
passi incirca…”.
Un
passo corrisponde a circa 74 cm e quindi in totale la distanza della Chiesa dal
centro è di 148 metri (s’incontrava la prima casa di Delia antica).
Un'altra
mappa risalente al 1830 e disegnata da F. Pulizia evidenzia come il paese di
Delia si estendeva oltre la Chiesa di S. Antonio.
Pianta borbonica
del territorio di Delia – 1830
(B- Contrada delle
Grazie ; C – Contrada Sant’Antonio)
Dalla
planimetria si notano un gruppo di case tra la Chiesa di S.M. delle Grazie e
quella di Sant’Antonio. Il ricercatore riuscì ad avere da un suo compaesano,
abitante in Via Diaz, delle importanti notizie in merito perchè costui ricordava da bambino l’esistenza lungo
la Via Diaz, dalla S. Croce all’ex Chiesa di S.M. delle Grazie, di soli tre
gruppi di case.
Nella
mappa catastale indicò questi tre gruppi di case con le lettere B, C e D.
(A)
–
Chiesa S.M. delle Grazie ; (B, C e D) - gruppo di case.
Gruppo di case (B)
– dal numero civico 151 sino a circa 25 m andando verso Est
Gruppo di Case “C”
- dal numero civico 117 di via A. Diaz sino al numero 133
Gruppo di case (D) –
fattoria agricola di fronte alla Santa Croce (Y), quest’ultima a fianco del
numero civico 214. Oggi il gruppo si trova in Via Torino al n. civico 77
La
particella “B” era la prima casa che s’incontrava venendo dalla Chiesa della
Madonna delle Grazie nel 1737. La posizione della locanda probabilmente si
trova nella zona compresa tra i tre gruppi di caseggiati descritti.
Spesso le Cauponae nascevano nei pressi di una Mansio.
Riuscire a identificare la Mansio e / o la locanda Petiliana, non fa che
avvalorare la presenza contemporanea dell'una e dell'altra struttura.
PIAZZA CASTELLO
Sulla
Piazza “Castello” di Delia sono interessanti le ricerche svolte dagli storici
locali Paolo Basus e Lombardo Leonardo.
Il
nome della piazza deriverebbe non tanto dalla presenza del palazzo Baronale
costruito dalla nobile famiglia Lucchese, che edificò la nuova Delia, ma dalla presenza di un antico edificio
risalente probabilmente all’epoca romana.
Palazzo Baronale
Il
palazzo baronale fu costruito probabilmente sull’antica “Statio Petiliana”
romana che si trovava sulla via “Catina –Agrigentum” dell’Itinerarium Antonini.
Delia - Piazza Matrice
(fino a poco tempo fa veniva chiamata piazza Castello)
(fino a poco tempo fa veniva chiamata piazza Castello)
Nella zona attorno a Piazza Castello, che includeva anche la Chiesa Madre,
c’era un piccolo borgo contraddistinto dalla Zona “San Vito” e dalla zona
“Piazza Castello”. Borgo che era attraversato da un piccolo torrente, l’attuale
Via Cavour, e che probabilmente era quello citato nella concessione del
“Castellaccio” a Rinaldo de Pluyna e
Peregrin de Gaylen nel 1271 e a Pierre de Carfagno nel 1272. Siamo in epoca
angioina e nel 1279 il casale di Delia “contava
trenta fuochi”.
Era il borgo più antico del centro e rimarrà distaccato con la fondazione
di Delia del 1597. Le nuove costruzioni si svilupperanno dall’attuale Corso
Umberto verso Nord e l’antico borgo rimarrà per un po’ di tempo quasi “isolato”
dando al centro la visione di una “Delia Nuova” e di una preesistente “Delia Vecchia”.
Anche in questo caso la tradizione orale influì nella ricerca storica su
Delia. Gli anziani per distinguere le due zone indicarono quella vecchia con il
termine di “lu Castieddu”.
Il
muro, posto all’angolo di Piazza Castello e di pertinenza del Palazzo Baronale,
è un risalente all’epoca romana e quindi riconducibile alla “mansio Petiliana” ?
Un
ipotesi affascinante che va d’altra parte inserita nella serie di testimonianze
risalenti all’epoca romana come l’antica “Taberna” e altri ritrovamenti della
stessa epoca sparsi nel territorio di Delia.
Il
muro apparteneva ad una “mansio” romana?
I
ricercatori per dare un risposta basarono le loro ricerche sull’analisi della
tecnica costruttiva del muro: dimensioni dei blocchi e la loro relativa
disposizione; il tipo di pietra utilizzata e comparazione, come spesso si fa
nelle ricerche archeologiche, con strutture simili e della stessa epoca, cioè
risalenti al IV secolo d.C.
Per
quanto riguarda l’analisi comparativa, i ricercatori confrontarono il muro di
Delia con quello di una struttura simile nel centro di Quarto (Campania).
Quarto,
noto anche come Quarto Flegreo, è un comune della città metropolitana di
Napoli.
Il
suo nome deriva dal latino “quartus”
e forse collegato alla frase “quarto miglio” perché proprio in riferimento a
questa distanza della via “Campana” si trova il centro.
L’iscrizione
sul cippo miliare posto sulla Via Consolare Campana (Via Consularis Puteolis Capuam”), che collegava il porto di Puteoli
alla cittadina di Capua e da Capua direttamente a Roma lungo la Via Appia,
recava l’iscrizione “ad Quartum lapidem
Campaniae Viae”.
Un
centro dalle importanti testimonianze romane come il mausoleo, a cuspide
piramidale, detto “Fèscina”.
Altra testimonianza romana è la “mansio” posta
proprio sull’importante “Via Consolare Campana”.
Un edificio di grandi dimensioni posto al
“quarto miglio” della via e costruito in “opus reticulatum e opus listatum”
destinato a luogo di sosta e di rifornimento lungo la direttrice tra Roma e
Puteoli.
(“Opus Listatum” – la struttura del muro è costituita da filari
di laterizi alternati a filari di altri materiali)
La “Mansio” di Quarto
Le “Mansiones” era delle “stazioni di servizio” che
s’incontravano ogni 25 – 30 km ed erano destinate ai dignitario ed ufficiali imperiali per la
sosta e il ristoro. Per tutti gli altri viaggiatori c’erano a disposizione le
“cauponae” e le “tabernae” che offrivano possibilità di pernottamento.
I
ricercatori misero in evidenza una certa analogia tra i muri della “mansio” di
Quarto e il muro di Piazza “Castello” di Delia.
Il
muro di sostegno di Quarto presenta una certa inclinazione ed ha anche una sua
funzione come contrafforte.
L’inclinazione
del muro di Delia presenta un inclinazione meno accentuata, legata forse ad
esigenze costruttive, e d’altra parte i muri di sostegno possono avere una
“scarpa” variabile dal 10 al 40%.
Inclinazione del
muro di “Piazza Castello” - Delia
Le
prime analogie tra le due strutture sono legate al primo filare di blocchi che
sono messi in opera in verticale senza alcuna inclinazione e alla loro funzione
come muro di sostegno per sostenere le antiche locande.
La
tecnica romana prevedeva la messa in opera nei muri di sostegno di blocchi di
pietra squadrati a forma di parallelepipedo in filari omogenei (“Opus
Quadratum”). Vitruvio nella sua scienza tecnica distinse due varianti dell’”opus
quadratum”:
-
L’opus
isodorum, quando i blocchi sono omogenei sia nella forma che nella dimensione;
-
L’opus
pseudoisodomun” quando i blocchi di ogni fila sono omogenei ma ogni fila ha
dimensioni diversa l’una dall’altra.
Il
muro di piazza Castello ha le caratteristiche di un “opus pseudoisodum” in
quanto ogni fila è caratterizzata da conci di pietra squadrata in filari
omogeni e ogni fila ha però altezze diverse. Una tecnica costruttiva che legata al cementizio si ritrova nel tardo
Impero e in province lontane anche se raramente utilizzato.
I
romani utilizzarono la pietra locale, tufo grigio che si trovava anche nei
colli attorno a Roma (chiamato “cappellaccio) e che quindi i Romani conoscevano.
I tecnici romani erano soliti collegare i conci di pietra tra di loro con
grappe metalliche che nel muro di Delia sono assenti.
Potrebbe
essere un muro medievale ?
Le
tecniche costruttive medievali riprendevano spesso le tecniche costruttive
romane ma non sempre con risultati soddisfacenti perchè si aveva un
impoverimento della qualità costruttiva legate anche a ragioni economiche.
La
definizione di Piazza Castello potrebbe essere legata all’esistenza di un
Kastron bizantino ?
Negli
scavi effettuati nel Monastero di San Nicolò l’Arena di Catania venne alla luce
un muro bizantino.
Muro bizantino di San Nicolò L'Arena (Catania)
Un
muro che potrebbe essere pertinente ad un “kastron” o ad un edificio religioso.
Guardando
la fotografia del muro di Delia, sembrano uguali sia per le dimensioni dei
conci, sia anche per il riempimento degli interstizi tra i vari conci.
In
questo caso il palazzo baronale fu costruito sui resti del kastron bizantino ?
Forse
gli aspetti sono insufficienti per accertare una simile ipotesi comunque è un
ipotesi che merita approfondimenti.
Riassumendo
i ricercatori arrivarono alle seguenti conclusioni soffermandosi nel
sottolineare i punti sull’ipotesi di un muro romano o medievale:
a)
Per
l’attribuzione del muro ad epoca romana:
-
Omogeneità
nell’altezza delle file di blocchi;
-
Variazione
di altezza tra le file di blocchi: le file A,B.C hanno tutte dimensioni
diverse;
-
L’altezza
di ogni fila di blocchi diminuisce al progredire dell’altezza del muro;
-
Le
altezze di alcune file e le larghezze dei blocchi hanno una misura multipla del
dito romano:
b)
Per
l’attribuzione del muro ad epoca medievale (Kastron bizantino)
-
Assenza
di incastri o grappe metalliche fra i conci;
-
Riempimento
interstizi tra i conci.
Misure delle file
di blocchi del muro di Piazza Castello
Due possibili
percorsi dell’ Itinerarium Antonini all’interno di Delia
La prof. Paladina ha svolto delle
ricerche sui possibili proprietari della “praedia
Petiliana” (proprietà Petiliana). Le fonti storiche attestano la presenza a
Roma in età alto-repubblicana di una “gens
Petelia o Petilia” da “Petilus” che significa “snello”. Una gens di rango
elevato con esponenti politici e militari
che arrivarono anche al titolo di console.
Titolo Livio citò numerosi
magistrati con questo “nomen gentis”, attivi nella politica romana fin dalla
prima epoca repubblicana, tra cui:
-
Quinto Petelio
decemviro, cioè
uno dei dieci membri del collegio di magistrati;
-
Gaio Petelio
Balbo, console
in due anni diversi;
-
Gaio Petelio.
Tribuno della plebe, promotore
della Lex Petelia de Ambitu, cioè una
legge sulla corruzione elettorale del 358 a.C. ( forse vicino al precedente per
famiglia o forse sono la stessa persona);
-
Marco Petelio, console durante la
guerra contro i Sanniti;
-
Gaio Petelio
Dictator, attivo
nel 313 a.C. e responsabile della presa delle città di Fregellae nel Lazio e di
Nola in Campania. Gli viene attribuita l’emanazione di una legge che porta il
nome della “gens Petelia” che
introduceva il principio secondo cui nelle obbligazioni “ex contractu”,il debitore doveva rispondere con il proprio
patrimonio e non con il “proprio corpo”. La legge passata alla storia come “Lex Poetelia Papiria de nexis”. Secondo
la ricercatrice, tenuto conto del doppio nomen
gentis, è di norma attribuita alla rogatio
di due consoli cioè C. Petelio Libone
e L. Papirio Cursore.
Per attestare la presenza in
Sicilia dei Petelii/Petilii, lsa ricercatrice
ha studiatoun passo di Cicerone che nella sua terza orazione contro Verre cita
un cavaliere romano, Marco Petilio,
membro del Consiglio di Verre e da questi nominato giudice. Una citazione che
conferma il legame dell’isola con la gens almeno dal I secolo a.C.
Alla stessa famiglia patrizia
citata da Livio si dovrebbe ricondurre il nome dei praedia Petiliana, cioè di un latifondo presente in Sicilia alla
già alla fine dell’epoca repubblicana. Una famiglia illustre e presente anche
in Calabria nella città di Petila Policastro in provincia di Crotone
C’è da rilevare che nel
“castellaccio di Delia fu ritrovato un “cippo” calcareo forse di origine romana
e che potrebbe anche indicare il limite del latifondo.
-------------------------------
7- SITI
ROMANI
Le
ricerche archeologiche hanno rilevato importanti siti di epoca romana nelle contrade di
Ramilia, Ferla e Marcatobianco.
Nel
sito di Ramilia è stato scoperto un sito che ha restituito dei reperti di
assoluto valore tra cui vetri e metalli, risalenti all’epoca greca e romana. In
contrada Ferla, a pochi chilometri a Nord di Delia, è stato riportato alla luce un insediamento
databile all’alta e media età imperiale. Nel sito di Marcatobianco sono state
rinvenute tracce greco romane con relative strutture murarie.
8 - LA
REGIA TRAZZERA
9 – TEGOLE ROMANE
CON BOLLI
Nel mese di
dicembre 2017 in contrada Cappellano, a poca distanza dal centro abitato, sono
state rinvenute delle tegole con bolli romani.
La scoperta per merito di Poaolo Busub Presidente della sezione locale
di Sicilia Antica, dell’archeologa Dominique Di Caro e da altri studiosi di
storia locale. Nel terreno sono state recuperate oltre alle tegole romane, con
il marchio “Galb”, anche del
materiale ceramico. Ben 240 reperti sparsi in una grande superficie di un terreno
arato. Un rinvenimento importante perché fino adesso non erano mai avvenuti rinvenimenti
romani in prossimità dell’abitato.
L’archeologa
Dominque Di Caro ha fatto presente che “il
materiale raccolto è essenzialmente riferibile a ceramica fine da mensa e
dispensa (coppe, piatti e scodelle) di colore rosso-arancio fine e brillante,
per lo più sigillata africana di tipo A sia liscia che decorata, di fine I -
inizi III secolo d.C. “. “E’ considerevole il numero di laterizi con bollo “Galb”
entro cartiglio rettangolare sia integro che frammentario, di diversa matrice.
Il bollo “Galb” va inteso in Galbana, da riferirsi all’appartenenza del sito ai
praedia Galbana. Il rinvenimento ci permette di estendere i confini del
latifondo, poiché le tegole con Bolli Galb
sono state rinvenute in passato a Piano Camera e Tenutella Rina presso Gela,
a Petrusa di Niscemi, in località San Michele a Canicattì, in contrada Gadira
di San Cataldo e Mecato Bianco di Sommatino. A mio parere è da escludere
l’ipotesi che si ritiene siano riferibili all’imperatore Galbo che regnò appena
sette mesi. Più probabile che esse siano da ricondurre ad un aristocratico con
lo stesso cognomen o appartenente alla famiglia cioè all’antica gens Sulpicia.
È da escludere una datazione più alta del I secolo d.C. e comunque da
confermare con analisi e ricerche”. Reperti che furono subiti affidati al
locale museo per evidenziare una pagina importante di storia. (dal sito: la
Gazzettanissena.it)
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https://storiadidelia.blogspot.com/?view=classic
Provincia di Caltanissetta
Castelli trattati nelle Note
Dal Castello Normanno di Delia al Castelluccio di Gela
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