I CASTELLI DELLA PROVINCIA DI CALTANISSETTA - IL “CASTELLACCIO” DI DELIA




Il "Castellaccio" di Delia

Indice:

1.      – Ubicazione
2.      – Scavi Archeologici
3.      – Cronologia Storica
3.1.   Periodo Normanno;
3.2.   Periodo Svevo;
3.3.   Periodo Angioino;
3.4.   Periodo Aragonese;
4 – Architettura;
5 – La Leggenda del “Castellaccio;
6 – L’Antica “Mansio Petiliana” Romana è Delia? (La “Taberna” – Piazza Castello )
7 – Siti Romani nel Territorio di Delia
8 – La regia Trazzera;
9 – Le Tegole Romane con Bolli rinvenute a Delia

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  1. Ubicazione





Il castello, detto anche “Lu Castiddrazzu”” o “Sabuci” si trova ad ovest del centro di Delia (in Provincia di Caltanissetta) su un colle calcareo posto al confine tra la Val di Mazara e la Val di Noto ed è raggiungibile grazie alla Strada Statale “SS190”. Il paesaggio agricolo è tipico delle colline del Nisseno con colture di mandorli, pistacchi, ulivi e fico d’India. Dal castello un panorama ampio con la visione dell’Etna, l’acrocoro di Enna e poi Mussomeli, Sutera, Canicattì e Naro.

L’edificio si trova sulla sommità di un serra di calcari che è disposta parallelamente al corso del fiume Gibbesi che è un affluente del Salso.
La sua ubicazione, proprio al confine delle due suddette Valli, gli conferì un indubbio valore strategico militare lungo l’antica strada che collegava Agrigento con Catania.
Si tratta dell’antica strada romana “Catina – Agrigentum”, lungo l’”Itinerarium Antonini” che cita , fra le 8 “staziones” presenti, la “statio Petiliana”. Gli storici hanno collegato l’antica “stationes” al centro di Delia e al vicino fiume “Gibbesi”, affluente del Salso che allora era navigabile e permetteva di raggiungere i centri posti nel centro dell’isola.



Il “Castellaccio”, com’è chiamato dalla popolazione locale, sorge in Contrada “Calaciura”, detta anche “Rocchicelle”,  che è un termine di probabile derivazione araba.

“Calaciura” sarebbe una parola composta dall’etimo arabo “Qal’At” cioe “rocca o altura fortificata” e “Ciura” che sarebbe il nome della collina. “Ciura” in siciliano significa “fiore” e fiore in arabo è “Zahr”. Gli Arabi spesso quando conquistavano un luogo fortificato aggiungevano al nome antico del sito la parola “Qal’At” e “Ciura” in questa ipotesi potrebbe essere l’antico nome siculo-bizantino del luogo.

2 - SCAVI  ARCHEOLOGICI
Nel 1981 e dal 1987 al 1995, furono condotte campagne di scavi che misero in evidenza come il sito del “Castellazzo” fu abitato nel terzo millennio a.C.
I reperti ceramici indicarono un originaria appartenenza dell’abitato alla fase di  Castelluccio (numerose tombe a grotticella ricavate nelle pareti della serra e le tracce di capanne rinvenute nella zona sottostante) (“Delia. Il Castellazzo. Scavi e restauri”).
Furono rinvenuti anche frammenti di ceramica indigena, ceramica corinzia, vasi a vernice nera, anfore greco italiche ed altri reperti riferibili all’età arcaico-classica ed ellenistica. Un ampio quadro abitativo e quindi costituito da diverse fasi di vita che si sovrapposero.
Non furono trovati reperti romani mentre l’epoca medievale fu caratterizzata da una serie di oggetti che misero in evidenza una fase abitativa tra la seconda metà del X secolo e la prima metà del XII secolo, da collegare alla dominazione araba e con un tenore di vita, che fu definito dagli archeologi, medio alto. Un materiale rinvenuto nella discarica sul lato est.
Gli arabi costruirono il castello su una preesistente struttura bizantina ? Gli scavi, secondo le notizie in mie possesso, non hanno restituito reperti di epoca bizantina.  Gli arabi fortificarono il sito per la sua importanza strategica e diedero vita ad un piccolo casale che prese il nome di “Sabuci”. Molte contrade circostante presero una denominazione che risale proprio al periodo arabo.
Questa fase abitativa araba si concluse, dopo la seconda metà del XII secolo, con la conquista del sito da parte dei Normanni. Il castello durante la conquista subì un incendio con successivo ripristino dell’edificio. Fu forse anche ampliato perché gli scavi permisero di mettere in rilievo una nuova fase abitativa normanna come dimostrarono i cocci di vasellame normanna ritrovati durante gli scavi. Tra i reperti la ghiera in pietra lumachella esposta sotto il portico, subito dopo l’ingresso a destra, è un espressione artistica normanna.

La fase abitativa normanna si concluse nel XIII secolo  con una nuova distruzione. Una distruzione avvenuta nel 1362 ed ordinata dal Re Federico III d’Aragona per paura che il castello potesse servire da covo per eventuali ribelli.
Nel 1436 Guglielmo Raimondo Moncada chiese la ricostruzione del castello che subì un ampliamento. Una fase contraddistinta da un momento di massima abitazione e di maggiore splendore del castello. Il Moncada ampliò il castello nella sua parte occidentale creando una piazza d’armi e nella zona ad oriente una nuova entrata coperta da un tetto a colta e con una rampa di scale che porta al 2° livello del castello.
Un periodo che non durò a lungo perché nel XVI secolo non c’è traccia di abitazione. Già alla fine del XV secolo le numerose cisterne e i profondi pozzi furono riempiti con materiali abitativi circostanti.


3 - CRONOLOGIA STORICA

3.1 – Periodo Normanno

Il castello arabo fu espugnato dai Normanni e subito ampliato e fortificato.
Al Idrisi, geografo di origine marocchina alla corte del re normanno Ruggero II di Sicilia, nel suo libro “La delizia di chi desidera attraversare la terra” e noto anche come “Libro di re Ruggero” del 1154, citò Delia.. “ da Naro a Canicattì vi sono, in direzione nord, 10 miglia e fino a Sabuci ne corrono 10 in direzione est. Uguale distanza tra Canicattì e Sabuci, questa posta a levante di quella; al- Minshar dista invece da Sabuci 11 miglia in direzione sud est. Sabuci è castello elevato, prospero e popoloso; alla ricchezza delle sue terre si devono le doviziose derrate una vera benedizione di Dio e le infinite distese delle colture”.”.


L’unica anomalia è legata alla distanza che Al –Idrisi cita tra Canicattì e Sabuci  che è di circa 6 miglia contro i 10 dello storico musulmano.  Bisogna d’altra parte affermare che ad Sud-Est di Naro c’è una contrada denominata “Sabuci” che lo storico Giuseppe Candura nel suo libro “Naro, il Santo – La Comarca”  citò come centro di produzione della “cannamele”.
Gli scavi archeologici penso che abbiano cancellato i dubbi sul sito dell’antica “Sabuci”. Scavi che dimostrarono una effettiva presenza araba nel sito   che si rileva anche dalla denominazione di alcune contrade poste vicino al Castello come ad esempio la contrada “Sciabani”.
 Al Idrisi chiamò il castello “Sabuci”. Un termine di derivazione araba “As Sabuqac” che significa “olivo selvatico” per la presenza di queste piante attorno al sito.


Con la morte di Guglielmo II “Il Buono”, re di Sicilia dal 1166  al 1189, il casale subì un decadimento a causa della guerra civile contro i Musulmani che furono uccisi in massa dopo il 1189. La protezione reale, di cui avevano goduto venne meno e si diede vita nell’isola ad incontrastate aggressioni contro la comunità musulmana che fece sparire ogni residua speranza di coesistenza malgrado la loro totale subordinazione all’elemento cristiano.

Il castello e il casale, proprio per la sua importanza strategia, fu sempre una proprietà demaniale e probabilmente presidiato dai musulmani fedeli al re e con la loro cacciata iniziò il processo di decadimento del sito.

3.2 – Periodo Svevo
L’abate Vito Amico nel suo Dizionario Topografico “Lexicon” citò il castello ed il casale arabo di Sabuci che furono concessi alla Chiesa di Palermo. Una concessione che fu confermata nel 1211 durante la reggenza del piccolo Federico II di Svevia che era stato incoronato Re di Sicilia nel 1198.

3.3 – Periodo Angioino
Nel 1265 papa Clemente IV nominò re Carlo I D’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX. L’Angioino era sceso in Italia, chiamato dal pontefice, per porre fine alla dinastia Sveva e conquistò il Regno di Sicilia. Regno di Sicilia che terrà dal 6 gennaio 1266 al 26 settembre 1282.
1271- il castello e il casale di Delia, un gruppo di case che costituiranno in futuro l’attuale centro, furono assegnati a Rinaldo de Pluyna e Peregrin de Gaylen (Scuto – Florilla, 2010).
1272 – Il castello e il casale passarono a Pierre de Carfagno.


“Carfagno” o “Garfagni” fu un antica famiglia di origine francese  scesa nel
Regno di Napoli a seguito degli Angioni. Nel corso dei secoli la famiglia si
diffuse in altre regioni d’Italia. Il termine potrebbe derivare da un ignoto
capostipite “Carfanius”.
La documentazione storica cita nel 1272 un Pierre de Carfagno che successe ai su citati R. de Pluyna e
P. de Gaylen  anche nei feudi di Melguna; Dieso, forse da identificare con
l’attuale Comune di Aragona; Comiso, da identificare con la baronia di Comiso o Fontanafredda.

1277 – vicino al “Castellaccio” è attestata la presenza del nascente casale di Delia in cui viene registrata l’esistenza di “trenta fuochi”.

3.4 - Periodo Aragonese

Tra il 1282 e il 1285, Pietro III d’Aragona , subentrato agli Angioini e Re di Sicilia dal 1282 al 1285 con il nome di Pietro I, concesse ad  Alaimo da Lentini il castello e feudo di Delia.

“Lentini” o “Leontini” è una famiglia di origini normanne il cui primo ramo risalirebbe all’anno 813.
Il primo Lentini di cui si ha notizia, su indicazione del Mugnos, fu un Lanfranco che
difese con grande valore la sua città di Lentini dall’attacco dei Musulmani.
Grazie a quell’impresa assunse il cognome di “Lentini”.
I suoi figli furono Riccardo e Gerardo.  Nel 1123 Nicolò e Gerardo furono straticoti di Messina e grazie
al loro consapevole operato ottennero i castelli di “Buccherio e Palizzolo”.
L’imperatore Carlo V nominò un Giovanni Lentini vicerè d’Abruzzo e “maestro della regia Dogana
Secretis di Messina”. Nel 1270 per il suo operato ebbe in concessione il Casale di
“Cassisia nella Baronia di Ragusa” e “Climastado nell’area di Camastra”.
In merito ad Alaimo il Mando di Casalgerardo riportò nel suo Nobiliario di Sicilia che
Alaimo, discendente dai precedenti, per i servizi prestati alla casa d'Aragona in occasione dei celebri “Vespri Siciliani” ottenne dal re Pietro la signoria di Butera, le terre di Palazzolo e di Buccheri e, per la moglie Macalda Scaletta, possedette la terra di Ficarra. Fu egli governatore di Messina, Maestro Giustiziere del Regno di Sicilia, ecc. e infine tradì la fede del re Aragonese e passò al partito degli Angioini ma pagò il tradimento con la vita".
Alaimo da Lentini possedeva per successione ereditaria, come riporta San Martino
De Spuches, Scaletta. In età sveva fu mandato in esilio da Manfredi. Ritornò in Sicilia con
Carlo D’Angiò che nel 1266 gli concesse la Terra di Militello.
Terra di Militello che era appartenuta ad un ramo estinto della sua famiglia.
Ricoprì importanti cariche nel regno ma la sua importanza fu legata alla partecipazione attiva nei Vespri Siciliani.
Per aver sostenuto la causa aragonese Re Pietro I gli concesse il data 23 ottobre 1282
Le “Terre di Palazzolo e di Buccheri”, il “Casale  Odogrillo (o Dirillo) nella Val di Noto.
Il 22 ottobre 1282 il re gli concesse  “a vita la carica di maestro giustiziere” che mantenne
fino al 1285 quando fu accusato di tradimento.
Per questo motivo gli furono confiscati i beni feudali e alla morte del re Pietro I
fu fatto annegare da re Giacomo II. La moglie di Alaimo, Macalda, fino al 14 ottobre 1308
“risultava vivente”. Le figlie di Alaimo, Nicolia ed Eufemia, nel luglio 1294 ottennero da
Giacomo II la restituzione dei beni confiscati nel 1285 ed in particolare quelli in possesso
di Pietro Ansalone, Riccardo Passaneto e del maestro Virgilio di Catania.

1286 - Alla morte di re Pietro I (Pietro III d’Aragona), Alaimo da Lentini fu ucciso, per annegamento, da re Giacomo II d’Aragona (Giacomo I Re di Sicilia). Il  “Castellazzo” e il casale di Delia furono concessi a Corrado Lancia.


Corrado Lancia (? – Capo D’Orlando 1299) fu il primo Conte di Caltanissetta.

Discendente della nobile famiglia Lanza, di origine piemontese, visse la sua infanzia
in Catalogna dove intraprese gli studi. Nel 1278 fu nominato Ammiraglio del Regno di Valencia dal Re Pietro III d’Aragona.  Fu “armato” cavaliere dallo stesso re insieme a Ruggiero di Lauria di cui diventerà, più tardi
“due volte cognato” (entrambi sposarono l’uno la sorella dell’altro).
Nel 1279 guidò la spedizione in Nord Africa dove sconfisse i marocchini. Per questa impresa il sovrano
donò al Lancia il castello e la città di Albaida (Valencia). Nel 1280 fu governatore del Regno
di Valencia e, come difensore della bandiera aragonese, partecipò ai Vespri Siciliani nel 1282.
Dopo i Vespri ricoprì in Sicilia la carica di maestro razionale e nel 1283 fu ammiraglio della flotta aragonese,
insieme al fratello Manfredi, che assediò Malta riuscendo a liberarla dal dominio angioino.
Alla  morte di re Pietro III (Pietro I di Sicilia) diventò diplomatico al servizio
del nuovo re aragonese Giacomo II.


Valle de Albaida – Bocairent - (Spagna)


Canillas de Albaida

1293 – Giacomo II d’Aragona
Dal matrimonio di Re Pietro III d’Aragona (Pietro I di Sicilia) con Costanza II di Sicilia ( figlia di Manfredi di Hohestaufen e di Beatrice di Savoia, quindi nipote dell’Imperatore Federico II di Svevia) nacquero, come riporta nella sua “Crònica”, Ramon Muntaner, “Anfòs, Jacme, Frederis e Pere”. in realtà a questi quattro figli machi, di cui l’ultimo Pietro morì in giovane età, si dovrebbero aggiungere “Elisabeth”,  canonizzata dalla Chiesa nel 1625 con il nome di “Sant’Elisabetta di Portogallo, Regina” e Violante. Una discendenza confermata da Bartolomeo di Neocastro nella sua “Historia Sicula”…” Alfonsus, Elisabeth regina Portugalli… Rex Iacobus, Dominus Fridericus, domina Violanta et dominus Petrus.”

Santa Elisebetta di Portogallo

http://it.arautos.org/view/viewPrinter/17182-sant-elisabetta-di-portogallo-regina

Il figlio primogenito di Pietro III, Alfonso III, morì improvvisamente lasciando la Corona d’Aragona al figlio secondogenito. Giacomo II “Il Giusto”. Alfonso III nel suo testamento dispose che la Sicilia fosse assegnata al fratello Federico. Giacomo II d’Aragona si fece incoronare  nel mese di luglio dell’anno 1291 a Saragozza e prese il titolo come “successore di Pietro III e non di Alfonso III”, trascurando quindi le disposizioni testamentarie del fratello.  Giacomo, assumendo quindi il titolo di Re Della Sicilia, come Giacomo I, inviò il giovane Federico, sempre nel 1291, in Sicilia come luogotenente  a Palermo dove raggiunse la madre Costanza.
Uno dei propositi di Giacomo II fu quello di porre fine alla lunga lotta contro il papato e gli Angioini. Una disputa che spesso ebbe dei tonni accesi in mare dove la flotta aragonese, comandata dall’ammiraglio Ruggiero di Lauria, riportò numerose vittorie contro la flotta papale e angioina.

Trattative tra il Re d’Aragona Giacomo II (Giacomo I di Sicilia ) e Carlo II D’Angiò per la cessione della Sicilia – Federico III D’Aragona –Gli Ambasciatori del Regno di Sicilia in Spagna  a Lerida
Nella primavera del 1293, era in vigore una tregua sul mare con il Re di Napoli (Carlo D’Angiò) e l’ammiraglio Ruggero di Lauria si preparava  a qualche altra impresa contro gli Angioini.
Nei primi giorno d’Aprile giunse a Messina  … “Jasberro Castellet Cavaliere Catalano inviato espressamente dal Rè D. Giacomo, per dar parte all’Infante suo fratello, all’Almirante, ed a tutti gli altro del Consiglio di Stato (Sicilia) di alcune condizioni di pace, che gli erano state proposte dal Rè di Castiglia, e di Francia, le quali non erano molto vantaggiose all’interesse della Sicilia, e che conteneano in sostanza la cessione di essa (Sicilia) al Rè Carlo II di Angiò.”
(Carlo d’Angiò II “Lo Zoppo” figlio di Carlo I D’Angiò).
“A tale notizia non può credersi quale fosse l’alterazione, e quante le querele di tutti i Siciliani contro del Rè D. Giacomo, che vi aveva dato orecchio, e perché temeasi giustamente, che si accordasse egli co’ nemici, sacrificando alla loro vendetta la liberta della Sicilia, fù risoluto d’inviare una numerosa Ambasceria,, per rappresentare al Rè, e protestargli, che non averebbono mai i Siciliani riconosciuto il dominio, ò come essi diceano, la tirannide degli Angioini.”
“Furono dunque eletti per Ambasciatori a nome di tutta l’Isola, Federico di Balzo, uno de’ più qualificati Signori del Regno, tre Palermitani, cioè a dire, Ugo Talach, Giovanni Caltagirone, e Tommaso Grillo, e due Messinesi, cioè a dire Gandolfo Falcone, e Ruggiero di Geremia.”
“Trovarono costoro il Rè D. Giacomo in Lerida, ove era egli andato per dare l’ultima mano assieme al Rè di Castiglia (Sanchio IV “l’Ardito”), e col Principe della Morea all’accennata pace col re di Francia, e di Napoli.”
(Il termine “Morea” nel Basso Medioevo, cioè dopo l’anno 1000, designò prima l’Elide e poi tutto il Peloponneso).

“Udite però le istanze de’ Siciliani assicurò il Rè D. Giacomo agli Ambasciatori, che quando fusse forzato egli a cedere l’Isola della Sicilia, averebbe fatto in maniera, che restasse ella sotto il dominio dell’Infante suo fratello (Federico III d’Aragona), quando non altro a titolo di dote di una delle figlie del Rè Carlo da maritarsi a Don Federico; e per facilitare maggiormente questo aggiustamento, offerirebbe egli di restituire agli Angioni quanto aveano perduto in Calabria, e di più l’Isole di Ischia, di Procida, e di Capri. Ma non ostante la ragionevolezza di questo accordo, e non ostante ancora, che non potesse il Rè Carlo essere assistito come prima dalla Francia per cagione della guerra ultimamente  rotta tra il Rè Filippo, e il Rè d’Inghilterra,  ostinatosi l’Angioino a non voler cedere a chi che sia l’Isola di Sicilia, restò rotto il trattato, e ritornossene il Rè D. Giacomo da Lerida in Barcellona, per prepararsi a mover l’armi contro la Francia.”
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Il tradimento di Re Giacomo II d’Aragona (Giacomo I di Sicilia) –
Federico (III d’Aragona) Luogotenente di Sicilia incontra a Velletri Papa Bonifacio VIII
Corrado Lancio richiamato in Spagna – Raimondo Alamanna de Cervellon –
Gli Ambasciatori del Regno di Sicilia si recano in Spagna, a Lerida, per incontrare Giacomo II.
L’accorato discorso dell’Ambasciatore Siciliano Cataldo Rosso e la risposta di re Giacomo II
“Ritornarono ancora gli Ambasciatori in Sicilia, e riferito ciò, che aveva successo nel trattato di Lerida, assicurarono i nostri di non essere più abbandonati dal Rè D. Giacomo, e di aver in suo luogo l’Infante D. Federico; ma non passò molto tempo, che restarono tutti delusi; poi che per più di un motivo, che non è della nostra Istoria, rotta ogni corrispondenza tra il Rè D. Giacomo, e quello di Castiglia, ed in conseguenza ancora gli sponsali (matrimonio) poco prima stabiliti da lui coll’Infanta D. Isabella sua figlia, venne il Rè D. Giacomo ad una conferenza particolare tra Panisa, e Junquera co’l Rè Carlo, e fermò alli 14 di Novembre dell’anno suddetto 1293 con lui la pace con alcuni articoli secreti da publicarsi, quando sarebbono confermati dal futuro Pontefice.”
“Non ostante però la secretezza di questo trattato, si dubitò da’ più accorti, che fusse in pregiudizio de’ Siciliani, ed il primo sospetto, che essi ne ebbero, fù con la venuta in Messina di D. Raimondo di Villanova Gentiluomo della Camera del Rè D. Giacomo; ed in vero dubitanto questo Principe, che non averebbono i Siciliani acconsentito all’obedienza del Rè Carlo, appuntata, come si è detto, negli articoli del trattato di Junquera, e che si sarebbero opposti sopra di tutti Corrado Lanza Maestro Giustiziere del Regno, e D. Blasco di Alagona, il quale secondo avea permesso all’Infante, era ritornato in Sicilia, e godea non poca parte nella sua grazia, risolvè di chiamare in Aragona questi due principali soggetti, ed a questo fine inviò il Villanova in Sicilia a persuadere l’Infante di non opporsivi; e perché Corrado Lanza non differisse la sua partenza sotto pretesto dell’esercizio della sua carica, venne sostituito in essa D. Raimondo Alaman de Cervellon nobilissimo tra i Baroni Catalani, ch’erano in Sicilia, e del quale egli molto fidavasi.”
“Tale era lo stato delle cose, quando dopo 18 mesi di Sede vacante su nel mese di Luglio dell’anno 1234, assunto al Sommo Ponteficato il celebre Pietro da Morone, che Celestino V, si disse. Egli però dopo cinque mesi rinunziatolo per godere la pace, e la tranquillità d’animo della religiosissima sua vita, si venne a nuova elezione, e fù acclamato in sua vece a’ 24. Di Dicembre il cardinale Benedetto Gaetano, che prese il nome di Bonifazio Ottavo. Erasi egli impegnato con Carlo Rè di Napoli, la di cui autorità nel Collegio de’ cardinali avea molto contribuito alla sua elezione, di confirmare quanto erasi stabilito nel trattato di Junquera, e principalmente, che fusse restituita agli Angioini l’Isola di Sicilia.”
“Avutasi la notizia della sua elezione fù consigliato l’Infante D. Federico a congratularsene, inviando in Roma Manfredo Lanza, e Rugiero di….. Furono costoro benignamente ricevuti da Bonifazio, e nel licenziarsi dichiarossi con essi, che averebbe egli desiderato di vedersi coll’Infante per trattare con lui cose di sommo suo vantaggio, e di beneficio comune a tutti i Siciliani”.
“Onde ritornati gli Ambasciadori in Messina, e riferito all’Infante il buon trattamento ricevuto da essi nella Corte del Papa, e ‘l desiderio da lui mostrato di trattare con lui di faccia, a faccia, non fù piccola perciò la curiosità di D. Federico, e si accrescè maggiormente, quando arrivò in Messina Bernardo da Camerino spedito espressamente dal Pontefice, per invitarlo ad abboccarsi seco, ed a condurre con lui il Grande Almirante Loria, e ‘l Gran Cancelliero Giovanni di Procida, concedendosi perciò da Bonifazio un salvacondotto, ed una intiera sicurezza per questi due, e per quanti altri Baroni l’accompagnassero in questo suo viaggio.”
“Insospettiti allora assai più di prima i Siciliani di ciò, che potea trattarsi con un Pontefice conosciuto apertamente parziale del loro nemico, averebbono voluto, che l’Infante non intraprendesse questo viaggio, ed il Senato di Palermo con una assai discreta lettera cercò con varie ragioni di persuaderlo a non confidarsi così leggiermente nelle mani de’ nemici. D. Federico però mosso dalla curiosità, ed informato, che il Rè suo fratello desiderava ancora, che si vedesse egli col Papa, risolvè di partirsi da Messina accompagnato da gran numero di Baroni assieme con il Grande Almirante Loria, e ‘l Gran Cancelliero Procida. Postossi dunque alla vela con una squadra di Galere, ed arrivato alla spiaggia Romana scese a terra l’Infante, e saputo, che il Pontefice dopo di averlo quivi aspettato alcun tempo, erasi incamminato verso Anagni, andò a trovarlo colà, e lo raggiunse 4 miglia lontano da Velletri.”
“Grandi allora furono le dimostrazioni di affetto, e di cortesia usate dal Pontefice con D. Federico, confessando di aver avuto un gusto particolare di conoscere un Principe sì ben fatto di persona, e che in sì florida gioventù mostrava tanto senno, e tanta prudenza. Quindi vedutosi vicino l’Almirante Loria, non potè contenersi il Pontefice di richiederlo, se era egli quel sì celebre nemico della Chiesa, che avea sparso tanto sangue, ed apportato tanto danno a’ Cristiani: dopo di che dissimulando l’ardita risposta, che gli fù data dall’Almirante, introdusse altri discorsi, e ritirossi da solo a solo con l’Infante; chiamati poscia i più principali Baroni, ch’erano seco venuti, disse loro, che essendo i Siciliani Vassalli della Chiesa, e da lui particolarmente stimati, volea egli non solo scusare quanto aveano fatto contro i Francesi, ma confessare ancora, che si meravigliava più tosto, che non l’avessero prima intrapreso; con tuttociò non avendo essi alcun diritto di eleggersi un nuovo Principe, e spettando, come ei diceva, ai Pontefici Romani di regolare lo stato di un Regno Feudatario della Chiesa, dichiarava lor, che siccome non averebbe egli mai permesso, che il Rè Carlo usasse con loro alcun rigore per il passato trascorso, così imponea ad essi di riconoscerlo per legittimo Principe, assicurandoli, che averebbe egli regolato in tal maniera le cose, che non averebbono avuto di che lagnarsi ò di lui, ò de’ suoi successori”.
“Licenziatosi dopo di ciò dal Pontefice l’Infante Don Federico, venne il Pontefice a più strette conferenze con due Ministri designati a ciò dall’Infante, prima di ritornarsene nella Siciia, li quali furono il Gran  Cancelliero, e Monfredo Lanza. Dichiarò loro il Pontefice, che nella pace stabilita tra il Rè D. Giacomo, e ‘l Rè Carlo, aveasi dal primo ceduto il dominio della Sicilia in ricompensa dell’Investitura della Sardegna, e della Corsica, e che avea a ciò acconsentito ancora  l’Infante D. Federico, compromettendosi egli di fargli sposare Caterina, nipote di Baldovino già Imperatore di Costantinopoli, e che il Rè Carlo Cuggino (cugino) di questa Principessa averebbe fatto tutto il possibile, per riacquistare l’Impero ad essa dovuto, cacciandone l’usurpatore Andronico Paleologo. Per quello poi, che toccava a' Siciliani disse il Pontefice, che oltre l’assoluzione dell’Interdetto, concedeasi loro una generale amnistia, dalla quale solamente fussero esclusi alcuni Prelati, ed Ecclesiastici. Permetteasi ancora a chi  volesse di uscire fuori della Sicilia, vendendo i loro beni, e ricavandone liberamente il prezzo. Che comprendeasi in questa pace Conrado di Antiochia unico rampollo, benchè illegittimo della Casa Imperiale di Svevia, il quale, restato prigioniero del Re Carlo primo, avea ad istanza del Pontefice Clemente IV, ottenute alcune Terre, e Castelli nel Regno di Napoli, ma che dopo il Vespro Siciliano, dichiarandosi a favore degli Aragonesi, fu percò scomunicato, e privo de’ beni.”
“Publicati gli Articoli di questa pace, spedì il Papa nella Sicilia due Frati minori, uno de’ quali era il Provinciale di Romagna, e l’altro un tal Alamano di Bagnarea. Portavano costoro un breve Pontificio, nel quale dichiarava Bonifazio di voler riformare gli abusi introdotti in tempo del governo di Carlo D’Angiò, al di cui figlio Carlo Secondo dovea giurarsi da’ Siciliani l’obbedienza, come feudatario della Chiesa; ed acciocchè avessero essi il tempo di ravvedersi per uscire di un stato sì miserabile, qual’era il loro fuori dell’obbedienza del Papa, e riconoscessero nel tempo istesso la clemenza paterna del Pontefice verso di loro, sospendea egli l’Interdetto nell’Isola sino alla solennità del vicino Natale del Redentore, ammonendo tutti a  desistersi di qualunque novità, che potesse turbare una pace tanto tempo desiderata, e stabilita con le consapute condizioni.”
“Arrivati i due Nunzj in Melazzo (Milazzo), ove allora trovavasi l’Infante D. Federico, e appena penetratasi quale fusse la loro incombenza, che corsero essi un grande pericolo di restar lapidati da Melazzesi; quindi accertatisi tutti l’altri Siciliani di ciò, che prima aveano dubitato, cioè a dire di dover essere abbandonati dal Re D. Giacomo, risolverono in un general Parlamento, tenuto nell’accennata Città, di riconoscere per loro Signore in vece del Fratello l’Infante Don Federico. Ma oppostasi a ciò la regina, fu alla fine stabilito, che s’inviassero prima cinque Ambasciatori al re Don Giacomo, e furono questi, Gualtiero Fisaula, Pietro del Filosofo Palermitano, santo Biscala, Cataldo Rosso, e Gualtieri di Bonifazio Messinesi, li quali rappresentar gli dovettero in nome di tutto il regno, esser quivi venuto a notizia, che fra gli articoli della pace ultimamente conchiusa, vi era quello di cedere il dominio della Sicilia a Carlo D’Angiò, pregavano perciò, che sua Maestà dovesse ricordarsi della promessa fatta a’ Siciliani di non dover giammai abbandonarli, e che per maggior sicurezza avesse ella la bontà di assicurarli con giuramento, che non dividerebbe dalla sua corona l’Isola nostra, e le adiacenti ad essa soggette; che giurassero l’istesso 50 principali Baroni insieme con l’Infante suo Fratello; che inviasse il Re uno de’ tre Figli di Carlo D’Angiò, e la metà degl’altri ostaggi, per far dimora in Sicilia, finchè fusse stabilita la pace senza l’articolo tanto odioso della cessione di un Regno sì benemerito; che si mettessero in mano de’ naturali dell’Isola tutti quei Castelli, ne’ quali erano Governatori Catalani, e forastieri; che tutti gl’altri stranieri, che teneano feudi in Sicilia li perdessero in caso, che non volessero restarvi, o che acconsentissero alla pace; e finalmente che si sospendesse il matrimonio contratto tra sua Maestà, e la Principessa Bianca Figlia di Carlo D’Angiò”.
“Tali furono le istruzioni date all’Ambasciatori, e da esse può conoscersi quale fusse l’odio de’ nostri contro degli Angioini, e quanto grande l’abborrimento di ritornare sotto il loro dominio: Ed in vero non solo era l’animo de’ Siciliani sommamente alterato per quello, che fin’ora abbiamo riferito, ma temeasi ancora da’ Catalini, e principalmente dalla Regina Costanza, che non si suscitasse sotto questo pretesto una guerra civile, parendo a non pochi incredibile che il Re D. Giacomo volesse accordarsi co’ suoi nemici nella maniera, che si pubblicava, e, sospettosi da’ più affezionati al Re D. Giacomo, che sotto colore della rinunzia potesse innalzarsi al Trono l’Infante D. Federico, onde alcuni principali di essi per non mancare alla fedeltà dovuta, al lor Principe, si ritirarono ne’ loro feudi, e ne’ castelli di loro governo, seguendo l’esempio di Don Ramondo de Cervellon, di Giovanni di Procida, di Matteo di Termine, e di Manfredo di Chiaramonte.”
“Arrivati in tanto gl’Ambasciatori Siciliani in Lerida, dove trovavasi allora il Re Giacomo aspettandovi la Sposa co’l Re Carlo suo Suocero, e con il Cardinale di S. Clemente Legato del Papa, furono trattenuti senza alcuna positiva risposta fino a tanto, che annullato già il primo contratto con Isabella di Castiglia, sposò il Re publicamente alli 23 Ottobre la Principessa Bianca, imperocchè non potendo allora egli più sfuggire di manifestare il trattato, dichiarò agli Ambasciatori Siciliani, che era stato necessitato a  cedere alla Chiesa, ed al re Carlo suo Suocero l’Isola di Sicilia, e cercò di colorire una tale dichiarazione nella migliore maniera che seppe, rappresentando, che non senza grave rammarico era stato obbligato ad una tal cessione, e dalla volontà del Pontefice, e dall’amor della pace, ed assicurando per altro i Siciliani che il re Carlo begnissimo di sua natura aveagli promesso di non tenerpiù memoria alcuna di aveasi fatto contro di lui, e contro del Padre: Udita una tale risposta rappresentarono gli Ambasciatori, che abbandonati già i Siciliani dal legittimo suo re all’arbitrio de’ loro nemici, ed essendo così sciolti dal giuramento di fedeltà, che gl’aveano giurato, protestavansi essi in nome del regno tutto, che era libero a loro di eleggersi per Signore, e per Re colui, che sarebbe stimato per loro più conveniente; ed essendo stata ammessa dal Re questa proposta, e fattone un pubblico istrumento, richiesero che fussero loro consegnati da suoi Alcajdi Castellani tutte le Terre, che si custodivano in suo nome nella Sicilia, acciò che fusse ella ridotta nello stato, nel quale aveala trovato il Re Don Pietro suo Padre; questo ancora loro concesso, non potè trattenersi Cataldo Rosso, uno de’ principali fra gli Ambasciatori, di manifestare il suo dolore, e maraviglia de’ suoi Compatrioti con questi sensi: E chi crederebbe, eggli disse, che dopo tanti giuramenti, e tante promesse fatte da’ Principi Aragonesi per la difesa di un regno s’ nobile, ed a loro si benemerito dovessero i Siciliani essere abbandonati quasi vilissimi Schiavi alla servitù di un Principe, e di una nazione  implacabilmente irritata contro di essi ? Chi mai tra posteri crederà, che dopo tante vittorie, con le quali si era vigorosamente difesa da suoi nemici l’Isola di Sicilia, e dopo essersi conquistata ancora gran parte della Calabria, e della Puglia, e della Basilicata avesse il Re D. Giacomo, scordato dalla generosità del suo sangue, venuto a tale risoluzione, e mostrata una sì grande indifferenza per una nazione, che si era offerta liberamente, al Re D. Pietro suo Padre, e quel, che è più introdurvi la tirannia del Figlio di colui, il quale aveva ingiustamente tolto la corona, e la vita a Re Manfredi, ed a Corradino, Avo materno l’uno, e l’altro Cuggin Germano di chi facea una tal cessione.”
“ A così ardite, e così pungenti parole dell’Ambasciatore Siciliano nulla si mosse il Re D. Giacomo, anzi non potendo far di meno di non lodare il zelo, e l’affetto di tutti gl’altri suoi nazionali, raccomandò loro quanto più caldamente potè la Regina sua Madre, e l’Infante D. Violante sua Sorella, aggiungendo al fine queste notabili parole. In quanto all’Infante D. Federico niente io vi chiedo, poiche essendo egli Cavaliero saprà ben ciò che debbia operare, e sapranno ancora i Siciliani ciò, che gli spetta.”




Bonifacio VIII (Benedetto Caetani)
(Agnani, 1230 circa – Roma, 11 ottobre 1303)
Il papa che fu preso a schiaffi da Sciara Colonna per
gli abusi subiti dalla sua nobile famiglia


Dante Alighieri, ambasciatore dei Fiorentini, si presenta a Bonifacio VIII.
(Incisore: Ulacacci, Nicola . post 1851 – Musra: (23,5 x 29) cm – Lodi – Bibliot. Comunale laudense)

Dante colloca Bonifacio VIII , assieme a Niccolo III e Clemente V, nell’Inferno tra i “simoniaci”.
Dante fu accusato di baratteria quando era ambasciatore dei fiorentini presso il papa Bonifacio VIII.
Per questa accusa, per altro falsa, sarebbe rimasto in esilio fino alla morte.
Dante scrisse la Divina Commedia nel 1300, marzo o aprile, e Bonifacio VIII era ancora in vita.
Il poeta utilizza un piccolo accorgimento per collocare il papa tra i morti, facendo profetizzare da
un altro dannato l’arrivo del papa una volta morto.
Il profeta….. un altro papa.
Il termine “simoniaci, deriva da Simon Mago, un personaggio degli Atti degli Apostoliche intendeva
acquistare con il denaro la facoltà di fare prodigi da San Pietro.
Dante mette in risalto la lotta del tempo tra Papato ed Impero, e colpisce coloro che approfittando
della loro posizione e delle cariche ricoperte si sono arricchiti.
Le anime sono collocate a testa in giù in buche da cui escono solo le estremità delle gambe.
Dante, accompagnato da Virgilio, vede una delle buche più grandi delle altre e Virgilio gli
rivela che è quella dedicata ai papi. Dalla buca emergono le gambe e il poeta sente l’anima piangere.
Gli rivolge alcune parole e il dannato, non sapendo chi abbia di fronte esprime:
"Se' tu già costì ritto, / se' tu già costì ritto, Bonifazio?"
L’anima dannata è il papa Niccolò III e sarà Bonifacio VIII, che con il suo arrivo,
lo ricaccerà completamente nella buca.
Niccolò III esclama:
“…Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio ?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio,
per lo qual non temnesti
tòrre a’nganno la bella donna,
e poi di farne strazio?”
Niccolo III all’inizio del suo discorso ripete due volte la domanda se la persona davanti a lui è Bonifacio.
Infatti aggiunge che forse si è sbagliato lo “scritto”, cioè il libro del futuro che i
dannati possono comprendere e che gli prediceva la sua venuta tra molti anni.
(papa Bonifacio è ancora in vita e morirà nel 1303).
Nella buca dove si trovano i papi vige la regola che stanno in superficie solo gli ultimi arrivati che poi sprofonderanno nelle viscere dopo l’arrivo del nuovo dannato.
Con questo stratagemma Dante può collocare all’inferno anche i papi non ancora morti e in particolare
l’odiato Bonifacio VIII che Dante giustamente vedeva come uno dei personaggi
causa delle disgrazie dei suoi tempi.
La “bella donna”, alla quale allude Niccolò III, è la Chiesa Latina nel matrimonio tra
Pontefice e Santa Romana Chiesa. La “torre con inganno” allude al “prendere” e si riferisce alla
contestata elezione di Bonifacio VIII che fece abdicare il suo predecessore Celestino V.
Il dannato profetizza inoltre l’arrivo, dopo Bonifacio VIII, di Clemente V, papa dal 1305 al 1314, che sarà
responsabile dell’inizio della cattività avignonese per la Curia romana..”un pastor sanza legge”.
Dante ricorda  a Niccolò III “che Gesù non ha mai chiesto denari ai suoi discepoli, ma
solo la disponibilità  a segurlo”.
“Gli apostoli quando scelsero Mattia per sostituire Giuda, non gli chiesero oro e argento. L’avidità degli uomini di Chiesa troppo spesso il mondo attrista, /calcando i buoni e sollevando i pravi”.
“Perciò ti sta bene che tu venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati,
che ti misero contro Carlo l’Ardito (Carlo D’Angiò)”.

Dante e Virgilio nell’Inferno dei simoniaci.


Sandro Botticelli – disegni per la Divina Commedia – i simoniaci

Dal 1294 al 1296 il feudatario del “Castellazzo” e del feudo era Raimondo Alamannon de Cervellon. Corrado Lancia fu infatti chiamato presso la corte di re Giacomo II in Catalogna.

Gli storici spagnoli indicano la famiglia Cervellòn “esser antiqua e real nobiltà dè primi
Rè Goti in Spagna”. È citata da Giacomo de Narquilles, antico scrittore Catalano, che nella
sua opera “Storia de los antiquos Y nobles Solares de Cataluna” citò Paphilao fratello di Costa, e
figlio di Recisuindo Re di Spagna. Paphilao nell’anno 693 del Signore..”seguì a piedi un grosso
Cervo.. lo raggiunse e le prese per le corna. L’animale diventò mansueto e umile al suo padrone.
Senza legamenti lo seguì e  visse con Paphilao. Il cervo morì nello stesso giorno
in cui morì il suo padrone…”
Guillem Ramon costituisce forse il più antico e certo stipite dei Cervellon che poi
si stabilirono in Sardegna. Di Gullem Ramon è noto un documento per la
concessione di franchigie emesso il 7 maggio 1267 gli abitanti del Castello di Cervellò.
Guillem Ramon sposò Elissenda, figlia di Xinnen Cornel e di Violante Palas.
Il figlio Guillem Cervellon Cornel giunse in Sardegna con la spedizione dell’Infante Alfonso nel 1323
e qui mori in battaglia.
Nella famiglia Cervellòn troviamo in Spagna un Garau Alemany Cervellon Amat.
In Catalogna spesso i Cervellò continuavano a chiamarsi con l’antico nome, o appellativo, di Alemany.
Garau fedele alla dinastia aragonese nel 1410 fu Governatore Generale di Catalogna. Aveva sposato Aldonsa di Cardona, figlia di Ugo Folch II e della sua terza moglie, Isabella di Urgell.
Era quindi strettamente legato al più legittimo dei pretendenti al trono, il Conte di Urgell.

Altri storici collegano il cognome Cervellòn al lignaggio “Alemany” (tedesco)
 ed esattamente proveniente
dalla Murcia con un certo Guerao Alamàn che sposò Saurina Cervellòn.


Stemma dei Cervellòn di Sardegna


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Federico III d’Aragona nominato dal Parlamento Siciliano Re di Sicilia
La guerra contro il fratello Giacomo II e gli Angioini di Carlo II D’Angiò (Lo Zoppo)
Ruggiero di Lauria – Il suo tradimento alla causa Aragonese – I suoi Castelli
Il commento di Michele Amari

Corrado Lancia si schierò con il fratello di Re Giacomo, Federico III d’Aragona futuro re di Sicilia, e quindi perse i beni del Regno di Valencia e anche il castello e Casale di Delia che rimase al Cervelon.
Giacomo II, re di Spagna, voleva concedere la Sicilia a Carlo II d’Angiò “Lo Zoppo”. Una decisione che fu subito contrasta dai Siciliani. Gli ambasciatori Siciliani si recarono in Spagna per fare chiarezza sulla complicata vicenda.
“Licenziati dopo di ciò gli Ambasciatori, e ritornati nella Sicilia vestiti scorruccio (indignati per la risposta del re Giacomo), trovarono l’Infante D. Federico in Palermo, e riferitoli quanto aveva dichiarato il Rè suo fratello fu convocata allora un’assemblea di tutti li Baroni del Val di Mazara per risolversi ciò, che doveasi operare, e manifestatasi ad essi il giorno 11 di Dicembre la rinunzia di Rè Giacomo a favore di Carlo Secondo d’Angiò, e le proteste autentiche fatte in nome del Regno dagli Ambasciatori Siciliani fù risoluto concordemente di riconoscere l’Infante D. Federico non più Luogotenente del Rè suo fratello, ma come Principe Sovrano, e come legittimo erede alla Corona. Si ordinò ancora, che convocatosi nel prossimo mese di Gennaio un generale Parlamento di tutti tre Bracci, ò vogliam dire Stati del Regno nella Città di Catania si presentasse quivi il giuramento di fedeltà al nuovo principe, il che fatto venisse egli a coronarsi a Palermo.
Si diede poscia incombenza all’Almirante Loria ed a Vinciguerra, Palici, Cavaliere Messinese, riguardevole non solo per la chiarezza del sangue, che per seno, e per eloquenza, di andar a ritrovare D. Raimondo Alamano de Cervellon, il quale, come si disse, erasi ritirato nella Terra di Caltanissetta con altri Signori Catalani, per manifestargli l’indubitata rinunzia fatta dal Rè Giacomo, e per persuaderlo, che volesse ancor’egli aderire al comun consentimento de’ Siciliani, e per riconoscere l’Infante D. Federico per Rè di Sicilia.
Allora non potendo più replicare cosa alcuna, acconsentì il Cervellon, e seco poi tutti gli altri, che eransi ritirati per aspettare la certezza di una tale rinunzia, che si unissero in Catania su’l principio del nuovo anno 1296, li Baroni, lì Prelati, e li Sindaci del Regno, per venire all’ultima determinazione sopra un punto così importante”.
“ Quivi dunque uniti già tutti i Parlamentari fu proposto dall’Almirante Loria di riconoscere Rè, e Signore, e di giurare Fedeltà a D. Federico d’Aragona, il quale per disposizione del cielo, e per quella del Rè D. Alfonso, suo fratello, non meno che per generale consetimento dè Siciliani, era chiamato alla Corona della Sicilia.
Dopo l’Almirante dichiarandosi del medesimo sentimento Vinciguerra Palici, Matteo di Termine, e così di mano in mano tutti gli altri Parlamentari; quindi prestato l’omaggio al nuovo Rè, fù stabilito il giorno della sua Coronazione per li 25 di Marzo. Ciò seguito senz’alcun disturbo, volle poi il nuovo Rè D. Federico altre molte altre grazie, ed esenzioni concedute a’ Siciliani, armare di sua mano 300 Cavalieri; confirmò a Ruggiero di Lauria la carica di Grand’Ammiraglio, e dichiarò Luogotenenti Generali delle sue armi Blasco Alagona, Guglielmo Calcerano Conte di Catanzaro, e Fra Rainaldo de Pons Priore di S. Eufemia; diè il titolo di Conte di Caltanissetta a Pietro Lanza, figliuolo di Corrado (Pietro era nipote di Corrado) Maestro Giustiziere del regno, e li concesse il dominio dell’accennata Terra, che apparteneva prima a D. Raimondo Almanno di Cervellon. Era già partito dalla Sicilia il Cervellon suddetto, che n’era stato prima Signore, e con lui Berengario di Villaragut, e molti altri catalani, li quali per ordine espresso del Rè Giacomo furono richiamati in Aragona; ma non abbandonarono il Rè D. Federico la maggior parte degli altri loro nazionali, mossi non solo dall’esempio di D. Blasco Aragona, e di Ugo di Ampurias, ma da un punto d’onore di correre con lui l’istessa fortuna, e non meno ancora dagl’interessi di non perdere li Feudi e le Baronie, che posedevano nella Sicilia”.

. Quando Federico III d’Aragona fu incoronato nel 1296 Re di Sicilia, Corrado lancia ricevette in dono per la sua fedeltà e coraggio la terra e il Castello di Caltanissetta che fu elevata a Contea, i proventi della “Terra di Naro” e la carica di Cancelliere che tenne fino al 1299.Nello stesso anno gli
concesse i proventi del casale di Sabuci e di Delia. Era un periodo di forti contrasti tra la Chiesa e il Re aragonese che fu più volte scomunicato e l’azione di rivalsa del casale di Sabuci e di Delia deve inserirsi proprio in quel clima di contrasti e nello stesso anno i beni vennero ceduti al nipote di Corrado, Pietro che fu nominato Conte di Caltanissetta. Pietro si sposò con una Alagona ed ebbe due figlie, Eleonora e Cesarea (Giovanna)
(Secondo alcuni storici Pietro era nipote di Corrado e figlio di Manfredi. Il figlio di Corrado, Federico, quindi suo cugino, fu invece nominato Vicerè di Sicilia da re Federico III d’Aragona.
Nei primi anni del 1300 fu costruita nel territorio del castello e del casale una chiesa che fu dedicata a San Nicola di Bari ed officiata da un monaco greco.
Nonostante i successi militari la situazione politica di Federico III non era delle migliori. Numerosi nemici, tra cui una parte della nobiltà, li tramavano contro. Lo stesso ammiraglio Ruggero di Lauria “prestava orecchio” alle offerte del re d’Aragona Giacomo II. Nello scenario Carlo II D’Angiò si preparava ad armare un nuovo esercito e il Papa mandava maledizioni e soffiava sul fuoco della guerra. Il Re D’Aragona , prima di intraprendere la guerra contro il fratello, cercò la via della persuasione e fisso un incontro ad Ischia. Federico III convocò a Piazza (Armerina) il Parlamento e disse: “Tra la Sicilia e i suoi nemici non c’è via di messo; o libera come oggi o calpestata oltre ogni antico strazio di servitù”.
Il Parlamento vietò al Sovrano di recarsi all’incontro.
Nel 1297 Giacomo II ricevette in Italia dal Papa la bolla d’investitura della Corsica e della Sardegna  e il comando supremo delle forze papali. Stipulò un’alleanza con Carlo II d’Angiò, fidanzò la sorella Jolanda con Roberto d’Angiò (figlio di Carlo II) e strinse una strana amicizia con Ruggiero di Lauria.  Il valoroso ammiraglio, da sempre fedele alla casa Aragonese  era pronto a passare dalla parte dei nemici Angioini. Il definitivo passaggio dell’ammiraglio sotto la bandiera angioina avvenne per un litigio con Federico III. “In piena corte non si lasciò baciare da lui la mano, com’era usanza, accusandolo di tramare con i nemici, e gli ordinò di non muoversi dalla sala”.

Ruggiero di Lauria (Lauria o Scalea, 17 gennaio 1250; Cocentaina (Valencia), 19 gannaio 1305)
Figlio di Riccardo di Lauria, alla corte di Manfredi di Sicilia e di Donna Bella, nutrice di
Costanza di Hohenstaufen. Sembra che Ruggiero sia nato nel castello normanno di Scalea come
Risulterebbe da un documento latino conservato, ma mai trovato, negli archivi della Corona
D’Aragona a Barcellona. Un documento che lo stesso Ruggiero avrebbe inviato al re Giacomo II
(“Asi consta de una carta Latina que se conserva en el Archivio Real de la Corona de
Aragòn,m escritta por Roger al Rey Don Jayme II”.

Castello di Lauria (Potenza)


Castello Normanno di Scalea (Cosenza)

Barcellona – Monumento a Ruggiero di Lauria

L’insegna della brigata (brigada) paracadutista “Roger de Lauria”
della fanteria Spagnola.

Tranquillizzato da due nobili, Vinciguerra Palizzi e Manfredi Chiaramonte, il sovrano successivamente lasciò libero l’ammiraglio che tornato a casa, montò a cavallo e si chiuse nel suo castello di Castiglione.  Attraverso i suoi armati mise in guardia i suoi castelli (Novara, Tripi, Ficarra, Aci e Francavilla).

 Castello di Castiglione (Catania)








Castello di Tripi (Messina)
https://mapio.net/pic/p-77738878/



Castello di Novara di Sicilia (Messina)


Castello di Acicastello (Catania)
https://www.esplorasicilia.com/cosa-vedere-in-sicilia/itinerario-dei-castelli-siciliani/fortezza-di-aci-castello-catania/
Federico III, non per debolezza, ma rispondendo alla sua indole di bontà, non fece nulla contro il Lauria anzi fece accompagnare la madre Costanza dal Lauria e da Giovanni da Procida, anche lui in rapporti con il nemico, a Roma per assistere alle nozze della figlia Jolanda o Violante. Dopo il matrimonio della sorella Giacomo tornò in Catalogna per prepararsi a nuove dispute mentre Ruggero di Lauria fu “benedetto dal Pontefice” e poi da Carlo II D’Angiò nominato ammiraglio del reame di Napoli.
Interessante il commento che fece lo storico Michele Amari nel XVII secolo: “così lasciavano insieme la Sicilia entrambi da nemici, i due diventati tanto famosi nella Rivoluzione del Vespro, legati strettamente dalla comune fortuna e dalla comune ambizione, compagni nell’esilio, nelle speranze, nella fazione della nuova dinastia in Sicilia, e finalmente nella tradizione. Ruggero era stato allevato fin da fanciullo alla corte di Pietro, fu un uomo di animo smisurato, ma avaro, superbo, insaziabile di benefici; di altissime capacità nelle cose di guerra, il primo ammiraglio dei tempi, gran capitano d’eserciti, ma anche lui sanguinario ed efferato. Restaurò la riputazione delle armi navali in Sicilia; educò i Siciliani alle vittorie e fu un potentissimo sostegno nel nuovo Stato. Iniziò andargli contro quando ebbe i rivali nel potere, forse invidioso o forse perché troppo invidiato; ma è una macchia al suo nome quest’abbandono di Federico quando la sua fortuna stava precipitare”. “L’abbiamo visto padrone dei mari in Sicilia, poi perfino dominatore del mare Mediterraneo dopo la famosa battaglia alle Formiche del 1285, con Pietro quand’era ancora contro i Francesi-Angioini”.”Minore di lui come figura fu Giovanni da Procida anche se sembra il suo un nome più famoso. Ministro abilissimo del re d’Aragona, nelle ma non sempre corrette tradizioni storiche lo hanno sempre celebrato liberatore di popoli, l’hanno posto accanto ai Timoleoni ed ai bruti; fatto di lui il simbolo delle passioni e della necessità di tutto il popolo siciliano contro la dominazione straniere, e poi lo ritroviamo ad affiancare lo straniero. Come virtù ebbe la sagacità, l’ardire, la prontezza, l’esperienza negli intrighi di Stato, ma non si aggiunsero le virtù cittadine, che anzi violò, tramando prima con i nemici Angioini, poi sfacciatamente contro la rivoluzione siciliana e la Repubblica Siciliana, per poi finire contro Federico III. Morì a Roma oscuramente all’inizio dell’anno 1299, pagando con la vita il prezzo d’infamia”.

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Lo Scontro Navale di Ponza – Gli Angioini in Sicilia
Il Triste Episodio del “Castellaccio” di Delia
La Pace di Caltabellotta e la cacciata degli Angioini dalla Sicilia

Nel 1300 dopo l’uccisione del castellano del “Castellaccio, vassallo di Pietro Lancia, la fortezza venne nuovamente conquistata e liberata dai fedeli del re Federico III d’Aragona.
L’episodio s’inserisce nello scenario politico che vide Federico III d’Aragona ancora in guerra contro il fratello Giacomo, re di Spagna” e Carlo II d’Angiò “Lo Zoppo”.  Dopo l’ennesimo scontro, questa volta navale al largo di Ponza, 14 giugno 1300,  i fedeli di Federico III subirono una pesante sconfitta. Il Niccolò Speciale riportò l’episodio nel 1300 nel suo libro “Historia Sicula dal 1282 al 1337” che fu ripreso da Michele Amari. (Niccolò Speciale fu un cronista e politico di Noto vissuto tra il 13-14° secolo).

“Armate dunque né nostri porti (27) venzette galee con cinque più de’ Ghibellini di Genova, vi montavano Giovanni Chiaramonte, Palmiero Abate, Arrigo d’Incisa, Peregrino da Patti, Benincasa di Eustasio, Ruggier di Martino e altri molti, fior della nobiltà siciliana; il supremo comando tenea Corrado Doria, genovese. Navigaron depredando e guastando la riviera infino a Napoli, ove Ruggier Loria  mettea in punto da quaranta galee del regno e spagnuole. Mandarono un legno (una nave) a portargli la sfida: ed ei, c’aspettava le dodici galee tastè rifuggite a Catania, freddo rispondea, non esser pronto per anco a battaglia. Indi la nostra flotta, per vanto di chiudere in porto un tal ammiraglio, soprastette tra le isole del golfo; bramando, senza assalire, né stringere il nemico, che rinforzavasi. Scorsero i Siciliani una scura notte infino a Ponza; e le dodici galee di Catania a vele gonfie presero il golfo: giunsevi nel medesimo tempo inatesso aiuto di sette galee genovesi dei Grimaldi, anelanti di bagnarsi nel sangue de’ Doria. Con cinquantotto galee allora uscì Ruggier Loria contro la nostra flotta di trentadue.”
“A tal disparità di numero, i baroni dell’armata siciliana consultavano in fretta sulla nave dell’ammiraglio, per onestare, non la brama di ritrarsi, ma la temerità che accendeali a combattere. Perciò fu vana la saviezza di Palmiero Abate, uomo di gran cuore e nome, invecchiato nelle guerre del Vespro, il quale scongiuravali; che di soverchio non tentassero la fortuna; non mettessero a certissima perdita quell’armata, e con essa le speranze tutte della Patria; niun rossore, diceva, al ritrarsi con forze sì disuguali; si specchiassero nel gran Loria, che testè n’aveva maggiori, e pur non tenne l’invito, ma combatter volle a suo comodo.”
“Questa sentenza di Palmiero tutti approvavano in sé medesimi, con le parole di contrario, per parere più bravi. Ma Benincasa di Eustasio, dissensato oltre tutti, proruppe: non per isguizzar come delfini innanti il navilio nemico, averli mandato la patria e il re: il mare che solcavamo vide già due splendide vittorie dei Siciliani, sopra numero di nemici doppio del loro; ed or da questi mezzi uomini fuggirebbero ? “No, si combatta”, finì, “ e i tralignanti Siciliani che tremano, fuggan pur ora; non ci rovinino con l’esempio, ingaggiata che sarà la battaglia !”.
“E Palmiero con ferocissimo sguardo: “A me”, gli disse, “a me Benincasa, accenni ! Or tempo non è di parole, perché incalzano i fatti, e mostreremo tra noi chi fugga o chi stia. Ma poiché voglion questo i Cieli, o compagni, d’altro ormai non si parli; alla battaglia apprestiamoci con l’usato coraggio”.
“Saltò sul palischermi, piccolo e lesto; e montata la sua galea, armossi da capo a piè. Alacremente tutti correano alla prova disperata. Corrado Doria, ammiraglio, che non ebbe principal parte nel consultare, la cercò bene al combattere, drizzandosi risolutamente a ferir di costa, al primo scontro, la capitana nemica. Fu combattuta il 14 giugno del 300 questa infelice battaglia, in cui le cinque galee genovesi ch’eran per noi, si trasser da canto, e venzette sole siciliane affrontarono tutta la flotta nemica, con molta strage scambievole; finchè accerchiate, soverchiate e peste, s’accorser tardi di loro temerità. Benincasa d’Eustasio, c’alla prima avea preso una galea nemica, ne tolse bottino quanto seppe, e diè l’esempio della fuga. Sei galee il seguirono; le altre, dopo ferocissima lotta, furono prese co’ baroni, i guerrieri, i marinai, tutti carichi di ferite. e Doria solo pur non calava stendardo, ancorchè trovatosi nel più fitto de’ nemici dal principio della battaglia, quando il nocchier di Loria destro cansò l’urto del genovese; e tutti allor gli furono intorno, gli squarciavan co’ rostri i fianchi della galea, salivano all’abbordo, ed erano rincacciati in mare, inchiodati da’ valentissimi balestrieri genovesi. Loria alla fine, tirate indietro tutte le galee, gli spiccò addosso un brulotto. Così avuto prigione Corrado Doria, onorò questa bella virtù con aggravar lui di catene; e  a’ balestrieri diè peggio cento volte che morte, fatto lor cavare gli occhi e mozzar le mani”.


 “Fu a Corte di Napoli e per la città e per tutto il reame grande allegrezza di questa vittoria, di cui festeggiarsi nelle città Guelfe d’Italia, parendo l’ultima pinta alla rovina di Federigo (Federico IIII d’Aragona). Sopra ogni altra cosa ne sperava re Carlo (Carlo II D’Angiò) aver di questo le terre di quei baroni in Sicilia. Fattili venire quindi a Napoli, sbrancare in diverse carceri, e ad uno ad uno addur dinnanzi a sé, li tastava or a trattamenti miti, carezze, promesse, or a minacce e stretture; né mai potè spuntarne alcuno che gli facesse omaggio.”


La classe baronale siciliana fu sempre contraria a Carlo II d’Angiò.
“Allora, con nuovo argomento, serbandone altri a Napoli in catene, altri mandava in catene in Sicilia, a fin di tentare i prigionieri con la vista della patria; le cittadi con la carità di questi lor valenti; e e affidolli a Loria, vegnente a girar l’isola con la flotta col terror della recente battaglia, co’ pieni poteri che innanzi dicemmo, de’ quali fu armato appunto in questo tempo, per usarzi con sommo sforzo d’arti e d’armi la vittoria di Ponza”.
Alcuni baroni siciliani furono trattenuti nelle carceri di Napoli dal re angioino mentre altri vennero mandati, sempre come prigionieri, in Sicilia con la flotta del “traditore” Ruggero Lauria. L’obiettivo di Carlo II D’Angiò era legato alla speranza che vedendo la propria patria, i baroni siciliani si sarebbero ravveduti donandogli i beni posseduti.
In merito ai baroni siciliani che rimasero a Napoli c’è un diploma del 16 luglio 1300, foglio 280, che riporta una scritta per le “catene di ferro de’ prigioni siciliani” che erano rinchiusi nelle cripte della città di Napoli (“tunc morantibus in criptis prediche civitatis Neapolis”).
“In tal viaggio morì Palmiero Abate. Fu preso a Ponza combattendo, tutto lacero e sanguinoso; il gettarono prima in un carcere e poi in un fondo di galea; ove, ammalignatesi le ferite per disagio e niuna cura, struggendoglisi l’animo del rammarico di vedersi in tal essere, dinanzi quella patria per cui avevo speso la sua vita perigliando venti anni tra le armi e maneggi di Stato, e ora nel maggior uopo non poteala aiutare, a vista di Catania, col nome di Sicilia sulle labbre, spirò.
Fè onorare Roberto, con esequie e sepoltura nel duomo di Catania, il cadavere di quel grande.
Arrigo d’Incisa, cittadin di Sciacca, portato a zimbello del pari, ebbe libertà dal caso, che fe’ sdimenticarlo in un carcere a Catania, quando Loria ripartì con l’armata per iscorrere le costiere di Mezzogiorno. Corrado Doria intanto tra gli artigli di Ruggiero (Loria), emulo e avaro e però ti tanto più crudele, era stretto in catene, abbruciato di sete, nudrito appena di quanto bastasse a tenerlo vivo, minacciato e macerato in mille guise, perché rendesse a Loria la Terra di Francavilla.
Ei durò questo martirio gran tempo; poi scrissene a re Federigo, e assendendol questi risegnò il feudo. Ma Francavilla fu il solo acquisto, che tornò a parte angioina dallo strazio disonesto dè prigioni di Ponza. Poche altre terre guadagnò (la casa Angioina) in questo tempo, tutte senz’arme:
Asaro, dato da due omicidi per fuggir la vendetta delle leggi, e incontrarono in brev’ora quella del popolo, che li vergheggiò a morte, mentre ordiano nuova prodizione (mentre preparavano un nuovo misfatto);
Racalgiovanni, per tradizione del signore del luogo (Racalgiovanni era un castello nel giogo de’ monti che corrono ad occidente, tra i fiumi Salso e  Morcello, dal Monte Artesimo (Monte Altesina) presso Asaro e Castrogiovanni (Enna));
Taba, d’un vil soldato, che aprì una porta ai nemici e nel trambusto fu ucciso, innanzi che imborsasse i danari del tradimento (Taba era un castello ora distrutto. Sorgeva sotto il monte Tavi, rimpetto Leonforte, alla scaturigine del Dittaino);
Delia per maggior viluppo di iniquità di Giobbe e Roberto Martorana. Eran costoro amicissimi del signor della Terra, ma presi di rea passione per la moglie e la figliuola del castellano, che il signore posto avea in Delia, né potendo ottenerle per minore misfatto, il castellano trucidarono, fecero violenza alle donne e, sperando che così  n’andrebbero impuni, detter la rocca a Roberto (figlio di Carlo II D’Angiò). Ma innanzi ch’ei mandassevi maggior forza (soldati), Berengario degl’Intensi, condottier di Federigo, riprese Delia, intromesso occultamente da un cittadino; e i due scelerati, tratti a coda di cavallo, spirarono sulle forche.
In merito alla precedente città di Racalgiovanni dove era signore della terra un filo-angioino, “fu assediata da Federigo, non soccorsa dai nemici, in pochi dì si arrese”.

Malgrado la vittoria navale angioina del 14 giugno 1300 il conflitto tra Aragonesi ed Angioini si prolungò con esiti alterni. Papa Bonifacio si rivolse al re di Francia Filippo IV “Il Bello” per un aiuto risolutivo. Il re di Francia mandò Carlo di Valois che arrivò in Sicilia nel 1302 e cominciò la campagna militare tipica degli Angioini, depredando e bruciando. Il suo esercito arrivò fino a Sciacca dove fu distrutto da una terribile epidemia di malaria e per paura di un possibile attacco da parte delle truppe di Federico III d’Aragona, offri la pace. Pace che fu firmata a Caltabellotta il 30 agosto del 1303 e che portò al definitivo allontanamento degli Angioini dalla Sicilia ( con la separazione della Sicilia dal Regno di Napoli. Gli angioini persero per sempre la Sicilia).

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Pietro Lancia – Artale Alagona – I Chiaramonte
Moncada (Castel D’Els Moncades) – Pietro Mazza – Andrea Ortolano
Lucchese (Villa Palagonia e i suoi mostri ; I Palazzi di Palermo)
Francesco Ferdinando Gravina, Il Venerabile della Chiesa.



Nel 1335 morì Pietro Lancia e i Lancia non avendo eredi maschi persero i possedimenti (dal matrimonio con una Alagona aveva avuto due figlie: Cesarea ed Eleonora.
Giovanni di Randazzo intorno al 1340 sposò Cesarea o Cesarina Lancia (1320/1325 ?) ed ebbe in dote la Contea di Caltanissetta mentre Eleonora sposò Artale Alagona portandogli in dote le terre di Delia, il Castello di Sabuci, e le terre di Naro e Sambuca.
Nel 1362 Eleonora d’Aragona, figlia di Cesarea Lancia e di Giovanni d’Aragona (di Randazzo) sposò Guglielmo Peralta e gli portò in dote la Contea di Caltanissetta e nello stesso anno con la fine della guerra civile il re Federico il Semplice ordinò la distruzione del castello di Sabuci perché poteva essere un covo per possibili nuove ribellioni.
(Giovanni di Randazzo in realtà era Giovanni d’Aragona ( Catania, aprile1317- Milo, 7 aprile 1348)
Sin da giovane ebbe il titolo di Marchese di Randazzo, duca di Atene e Neopatria e reggente del regno di Trinacria dal 1342 al 1348.  Figlio  secondogenito del Re di Sicilia Federico III d’Aragona e di Eleonora D’Angiò. Il padre in giovane età gli concesse il titolo di Marchese di Randazzo).
Artale Alagona “miles” fu un personaggio politico importante perché anche se fedele alla corona aragonese cercò di affievolire il dominio aragonese sull’isola. Alla morte del padre  ereditò la carica di maestro giustiziere e un gran numero di possedimenti: la Contea di Mistretta, la Terra di Pettineo, il Casale “Rigitano” (Reitano), il casale Sparti (Motta d’Affermo), la terra e il Castello di Butera, il feudo Belmonte e il feudo La Pietra di lu Judeo. Ottenne la terra e il Castello di Naro e grazie al matrimonio con Eleonora Lanza il casale e il castello di Delia, almeno fino al 7 febbraio 1348. Ebbe diverse concessioni da Federico IV riuscendo ad accumulare un gran numero di titoli e feudi.
Federico IV d’Aragona (Il Semplice) il 16 aprile 1365 gli permise di permutare la sua Contea di Mistretta con Paternò e Francavilla per assumere il titolo di Conte di Paternò. Nel contratto di permuta la clausola che “nel caso in cui Paternò fosse rivendicata da Maria figlia del re”, l’Alagona sarebbe ritornato in possesso del titolo e della relativa Contea di Mistretta. (infatti il 25 agosto 1365 Artale Alagona figura Conte di Mistretta).
Dopo circa un anno un’altra permuta con la chiesa. L’11  aprile 1366 Artale ritornò alla curia, “in cambio di beni feudali di egual valore” la Terra di Naro e il “castello del feudo o tenimento di Delia”.
Come abbiamo visto Artale Alagona sposò Eleonora Lancia da cui non ebbe figli. In seconde nozze sposò Agata Moncada, figlia di Guglielmo Raimondo III e in terze nozze, Marchisia Abbate, figlia del Conte Enrico. Ebbe solo una figlia legittima Maria, avuta da Agata Moncada, e due figli naturali Maciotta e Giovanni. Prima di morire, nel febbraio 1389, stipulò un testamento in cui designava erede universale la figlia Maria, sotto la tutela dello zio Manfredi che era fratello di Artale.
(Maria sposò Giovanni Cruyllas e gli portò in dote la Contea di Augusta, Aci, Calatabiano, Gagliano, Mineo, Motta S. Anastasia, Mongialino, Paternò e Troina. Secondo le disposizione testamentarie di Artale Alagona: a Manfredi toccò il vicariato e la carica di maestro giustiziere, il governo di Calascibetta, Caltagirone, Castrogiovanni  e Piazza oltre alla castellania di Lentini e Siracusa; a Blasco III la Contea di Mistretta e di Butera con il patto di restituirli a un figlio cadetto di Maria che avrebbe dovuto prendere il nome di Alagona, e all’altro fratello Giacomo i proventi della secrezia di Siracusa e al fratello Matteo i proventi della secrezia di Lentini)
Come si vede non figura più il castello di Sabuci e il tenimento di Delia che nello stesso anno 1366 (l’11 aprile) furono concessi a Matteo Chiaramonte. Nominato maniscalco a vita nel 1361, Conte di Modica dal 1363, Signore di Ragusa, giustiziere del Regno nel 1365. Nello stesso anno 1366 (il 30 marzo) ebbe l’ufficio di castellano e la "capitania" con cognizioni delle cause criminali di Agrigento col privilegio di trasmetterlo agli eredi.
Chiaramonte famiglie d’origine Normanna ed una delle più nobili famiglie Francesi.
Secondo gli storici era imparentata con il Re Pipino “Il Breve” e scese in Sicilia al seguito dei Normanni

Il castello con il casale passarono quindi al nipote Manfredi Chiaramonte e alla sua morte, novembre 1391, ad Andrea Chiaramonte che fu giustiziato per tradimento, l’1 giugno 1392, a Palermo mediante impiccagione davanti al suo palazzo lo “Steri”.
Nel 1392 dopo la morte di Andrea Chiaramonte il casale e il castello tornarono al regio Demanio e vennero concessi dal re Martino a Guglielmo Raimondo III Moncada.



La famiglia Moncada ebbe origine in Spagna nel V secolo da Dapifero.
Dapifero, figlio di Teodone Duca di Baviera, fu un valoroso capitano che uccise tre Re Mori sotto i Pirenei.
Giovanni Agostino della Lengueglia nel suo libro “Ritratti della prosapia et heroi Moncadi nella Sicilia” (del 1657) citò Dapifero nell’uccisione di tre Re Mori. Riuscì ad arginare l’espansione territoriale dei Mori
incatenando due monti della Catalogna, in mezzo ai quali vi costruì alcune fortificazioni tra cui
un importante castello che prese il nome di Montecateno
…. “cognomatosi Montecateno, poi corrotto in Montcada e infine Moncada… combattè al seguito di
Otogerio Catalò, al quale succedette nel comando delle milizie cristiane dopo la sua morte”.
Il nome reale di Dapifero sarebbe Otto, e la sua paternità fu attribuita a Grimaldo di Baviera, ucciso
nel 725 da Carlo Martello. Ottogerio ed Otto per sfuggire al Re dei Franchi, si rifugiarono in
Catalogna dove combatterono i Mori.
Secondo le ricerche dello storico americano J.C. Shideler la dinastia Moncada non sarebbe esistita
prima dell’anno 1000. Il primo membro della famiglia risalirebbe al 1002  con un
Guglielmo di Vacarisses, vicario delle Signorie di Muntanyola e Vacarisses, e figlio di un nobile
Tedesco, Seniofredo, visconte di Girona. Seniofredo tra il 1023 e il 1025, in seguito al matrimonio
con la nobildonna Adelaide di Claramunt, acquisì il possesso del castello di Montcada e ne prese il cognome.




http://montcadapost.blogspot.com/2008/02/la-mare-de-du-del-castell-de-montcada.html

Guglielmo Raimondo III Moncada fu giustiziere del Regno e nella notte del 23 gennaio 1379 rapì dal Castello Ursino di Catania, la principessa Maria di Sicilia, figlia di Federico IV il Semplice e di Costanza d’Aragona. Un rapimento voluto dal re Pietro IV d’Aragona per evitare le nozze della principessa con Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Bianca, allora quindicenne, si trovava rinchiusa nel Castello Ursino sotto la tutela di Artale Alagona e dopo la sua liberazione fu trasferita nel castello di Licata dove rimase due anni. 
L’impresa gli valse l’appellativo di “Il Conquistatore” e divenne il più ricco feudatario di Sicilia attraverso l’assegnazione dei beni confiscati agli Alagona e ai Chiaramonte. Lo stesso Moncada successivamente portò Bianca  nel suo castello di Augusta dove rimase assediata per altri due anni dall’Alagona prima di essere liberata dalla flotta aragonese e diventare moglie del futuro re Martino  Il Giovane.
Il Moncada fu successivamente accusato di aver cospirazione contro il re Martino I di Sicilia (padre di Martino il Giovane) e con una sentenza emessa dal Tribunale della Gran Corte nel 1396, fu dichiarato “fellone” e tutti i suoi beni gli furono confiscati.
 Nel 1396 il governo del castello e del casale fu affidato a Pietro Mazza.

 Il Galluppi cita la famiglia come originaria  della Spagna e decorata della baronia di Sellia.
Un Blasco Mazza, nel 1156 risulta annoverato fra i baroni di Catalogna e d’Aragona.
Nel 1287, con un altro Blasco Mazza, la famiglia passò in Sicilia al seguito del re Giacomo
D’Aragona ed esattamente a Messina. Sembra che la famiglia si sia poi trasferita
a Napoli ottenendo dal re Giacomo la baronia di Sellia ma senza abbandonare la città di Napoli.

Nel 1399 Pietro Mazza permutò il feudo ed il castello con il feudo di Condoverno che era in possesso di Andrea Ortolano.



Famiglia di origine pisana, probabilmente ricchi commercianti.
Il primo Ortolani sarebbe un Guido, vicario dell’imperatore Federico II che lo cita come “suo amico
Anziano” ricordando “d’aver mantenuto a sue spese per giorni dieci tutto l’esercito
Imperiale. L’imperatore lo dichiarò “d’antica nobiltà” come si rileva da un antico privilegio spedito
In Barletta il 24 luglio 1235 e in favore del figlio di Guido, Gualdo vessilliero del su indicato imperatore”.
Documento che si conserva nell’archivio di Cefalù del vivente D. Carlo Ortolani, barone di Bordonaro.
Questa famiglia passò in Sicilia nel XIII secolo e tra le città siciliane ebbe la residenza in Cefalù

Nel 1436/37 Guglielmo Raimondo Moncada ottennè la licenza regia per costruire il castello di Sabuci che era stato distrutto durante la guerra civile del 1361/62.
Nel 1516 Pompeo Ortolano vendette  a Bernardo Lucchese il feudo e il castello di Delia e nel 1596 il castello, nella documentazione relativa alla fondazione della nuova terra di Delia, risulta abbandonato.
Il 23 marzo 1596 don Gaspare Lucchese rivolse al Presidente del Regno  di Sicilia Giovanni Ventimiglia, Marchese di Geraci e Principe di Castelbuono, la richiesta di poter «abitare e fare abitare» il feudo disabitato “dela Delia” dove sorgono già “un castello, una chiesa, resti di edifici in rovina e traccia di antichi insediamenti”..

Nel 1596 - il secretus di Licata in una lettera indirizzata al viceré, Enrico Guzman conte di Olivares, descrivendo il feudo di Delia disse che "...vi è nel centro di detto fegho, sopra un monte, un castello antiquo forte di mano et dimostra, per ruina di fabbriche antique essergli stata altra volta habitatione. Vi sono nel proprio castello alcuni dammusi dove dimostrano essere state carceri...".
 Nel dicembre 1597 - Gaspare Lucchese ricevette lo jus populandi per abitare e popolare il feudo di Delia. Il centro abitato fu fondato da Don Gaspare Lucchese dopo aver ottenuto l'autorizzazione “edificandi et populandi” nel 1597 da Filippo II (1527-1598), re di Spagna


Il capostipite fu un Adinolfo, figlio di una sorella del re dei Longobardi, Desiderio, e signore
di un castello detto “dei tre Palli”. I di discendenti di Adinolfo governarono la
Repubblica di Lucca e si narra che un Andrea Palli sia stato il primo a portare la
famiglia in Sicilia dove, in memoria della patria di detto Andrea, si chiamò Lucchese.
Godette nobiltà in Palermo, Messina, Naro, Noto, ecc.; possedette il principato di Campofranco, le ducee di Alagona, di Camastra, della Grazia, di Castelmonte, e il titolo di duca Lucchese, i marchesati di Casalgerardo, di Delia e di Mezzoiuso; la contea di Calatarosato; i feudi di Bertolino o Mezzo Catuso, Bibino Magno, Burgio Mancino, Castelluzzo, Castelnormanno, Dammisa, Donna Maria, S. Fratello, Gebbiarossa e Grasta, Giardinello e Perrana, Moriella, Palazzolo, Pantano, Suttafari, Valle dell’Olmo, ecc. ecc.

Licenza che diventò esecutoria nell’aprile del 1598 dietro il pagamento della relativa tassa di 1000 scudi.. ma per avere la licenza si doveva adempiere  all’obbligo di “prestare servizio militare con un cavallo” e la condizione di “popolare la nuova terra con almeno 100 fuochi”.
Già nel 1608, in seguito ad una visita del Vescovo di Agrigento, i “fuochi” erano già circa 250 a cui si aggiungevano anche quattro chiese ed un convento carmelitano.
La famiglia Lucchese_Palli aveva già un suo posto autorevole nella nobiltà siciliana e la richiesta della “licentia populandi” va ricercata sia nel miglioramento dello sfruttamento delle risorse agricole del suo vasto e fertile feudo, condotto da “massari” provenienti da Naro, Caltanissetta ed Enna, sia per raggiungere posizioni di maggiori prestigio nella nobiltà siciliana.
Nel 1596 il figlio Giuseppe sposò Vincenza Spatafora, figlia del pretore e secreto di Palermo Colantonio. Infatti per intervenire presso il sovrano i Lucchese si rivolgeranno proprio a Colantonio a cui rimetteranno la pratica.. come si evince anche dal particolare contratto di matrimonio dove l’unione è condizionata all’ottenimento del titolo di marchese e della “licentia populandi” di Delia.

Mappa di Delia nel 1800
http://147.163.1.169/Delia.html

Dopo la fondazione di Delia è probabile che il castello non sia stato più frequentato e cadde in abbandono e alla fine del XVI secolo era semidistrutto.
Il 24 marzo 1604, dopo la morte di Filippo Il e l'ascesa al trono di Filippo III, don Gaspare Lucchesi si reinvestì della terra e del castello di Delia. A don Gaspare Lucchesi successe il figlio Giuseppe, il quale entrò in possesso della baronia di Delia il 7 dicembre 1609. Il16 giugno 1623 venne onorato dei titolo di marchese di Delia con privilegio dato a Madrid dal Re Filippo IV. Sposò donna Margherita Filingeri Spucches e dal matrimonio nacque Gaspare, che assunse il titolo di marchese di Delia nel 1662. La famiglia Lucchesi, con Pietro, Giulia, Nicolò e Anna Maria, tenne il marchesato di Delia fino al 1753. In quell'anno entrò in possesso dei titolo di marchese di Delia don Ferdinando Francesco Gravina Alliata principe di Palagonia, erede universale della nonna Anna Maria Lucchesi al quale successe Maria Provvidenza Gravina Gaetani, che portò il marchesato in dote al marito Salvatore Gravina Cottone nel 1789.
Anna Maria Lucchese e Lucchese, V Principessa di Palagonia e figlia di Nicolò Lucchese, sposò Ferdinando Francesco Gravina Crujllas Bonanni (Pa, 15/09/1677 – Pa, 4/2/1736)  da cui ebbe due figli:
-          - Ignazio Sebastiano Gravina Crujllas Lucchese, VI Principe di Palagona;
-         -  Marianna Gravina Lucchese.

Francesco Gravina Crujllas (1677 – 1736)
Il Principe diede inizio ai lavori di Villa Palagonia – Bagheria


Bagheria (Pa) - Villa Palagonia

https://www.ioamolasicilia.com/villa-palagonia-a-bagheria-la-villa-dei-mostri/

Salone degli Specchi
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Ignazio Sebastiano Gravina Crujllas e Lucchese ( 1699 – Villa dei Portici-Na – 29/5/1746) sposò Margherita Agliata e Bonannida cui nacque Ferdinando Francesco Gravina Crujllas Agliata.
Ferdinando Francesco Gravina Crujllas Agliata (1722 – 1788) sposò Maria Gioacchina Gaetani e Buglio, Principessa di Lercara). Dal matrimonio nacque Provvidenza (1774 – 1805), VII Principessa di Palagonia, che portò, come detto prima, il marchesato di Delia al marito Salvatore Gravina Cottone (1742 – 1826).
Ferdinando Francesco Gravina (1722 – 1788) – VII Principe di Palagonia
Il principe intervenne nella Villa di Bagheria disseminando il giardino di mostruose figure in pietra.
Goethe visitò la villa e la considerò come “l’opera di un folle”.
In realtà la storia ci restituisce un uomo lucido, ciambellano personale del re di Napoli e Grande di Spagna.



Affresco di anonimo nella Villa dei mostri - Maria Gioacchina Gaetani (1735-?), unica figlia ed erede universale del duca di Valverde.

Bagheria (Pa) – I mostri di Villa Palagonia


Villa Palagonia in una gouache di J. Houël, Voyage pittoresque des isles de
Sicilie, de Lipari, de Malta, Paris 1782-87.

Bagheria – Villa Palagonia – il Vestibolo con gli affreschi delle fatiche d’Ercole
https://www.ioamolasicilia.com/villa-palagonia-a-bagheria-la-villa-dei-mostri/

Palermo – Palazzo Gravina Palagonia
Posto nell’antica Kalsa fra Via IV Aprile – Via Alloro e Vicolo Palagonia all’Alloro
Fu acquistato dalla famiglia Gravina nel XVIII secolo e oggetto di lavori nel XIX secolo.
Oggi sede del Museo del Vino e della Civiltà Contadina

Palermo – Palazzo Gravina Palagonia
Posto nell’antica Kalsa fra Via IV Aprile – Via Alloro e Vicolo Palagonia all’Alloro

Provvidenza Gravina Gaetani sposò lo zio, Salvatore Gravina e Cottone, tra i due c’erano 32 anni di differenza. Un matrimonio che doveva garantire la continuità del titolo di principe poiché Provvidenza era l’unica figlia del principe Ferdinando Francesco. Alla base del matrimonio c’era una norma testamentaria ben precisa, voluta dal nonno Ignazio Sebastiano, che aveva creato questo meccanismo in previsione dell’assenza di eredi maschi.
Salvatore Gravina Cottone – Il Marito di Provvidenza (sua nipote)

Palermo – Palazzo Gravina Palagonia – Corso Calatafimi
Costruito nel’ 700 da Salvatore Gravina e Cottone

Paolo Francesco fu l’ultimogenito della coppia, nacque nel 1800, dopo due gemelli purtroppo nati morti e quattro sorelle nate tra il 1792 e il 1797: Agata, Francesca Paola, Giulia e Gioacchina. Agata sposerà il principe di Partanna, Vincenzo Grifeo, mentre le altre sorelle prenderanno i voti entrando in convento.

Francesco di Paola Ferdinando Gravina.

La famiglia Gravina aveva una grande devozione per San Francesco di Paola tanto che il figlio maschio si chiamava in realtà Francesco di Paola Ferdinando Gravina.
A Palermo avevano due palazzi, uno nel Corso Calatafimi e l’altro in Via IV Aprile alla Kalsa. Francesco Ferdinando nel 1819 sposò la coetanea Maria Nicoletta Filangeri, figlia del principe di Cutò. La donna tradì ben presto il marito con il figlio del principe di Sciara, Francesco Paolo Notarbartolo.
L’avvenimento diede naturalmente origine ad un grande scandalo e dato il perdurare dell’infedeltà, il Gravina nel 1829, dopo dieci anni dal matrimonio, ordinò all’uscire di Palazzo Comitini di non fare entrare più in casa la moglie.
La relazione matrimoniale svanì nel nulla.  I due non s’incontrarono più e la donna, dopo la morte del marito, sposò l’amante Notarbarolo.
 Dopo la rottura matrimoniale il principe Francesco non riuscì ad affrontare la sua nuova condizione di separato e si ritirò a meditare. Aveva davanti a sé due nuove possibilità di vita: divorziare e quindi rifarsi una nuova vita anche per garantire il meccanismo di successione oppure rimanere coerente al suo spirito religioso e quindi rifiutare il divorzio, agli insegnamenti del Vangelo, e affrontare la vita con nuovi stimoli ed iniziative diverse.
Non divorziò ed iniziò un vero e proprio apostolato di carità e beneficenza nella città di Palermo. Tutti i suoi beni immobili, edifici sparsi nella città, diventarono centri di accoglienza per i poveri, per gli emarginati.
Il suo attivismo cristiano sociale lo portò tra il 1832 ed il 1834 ad assumere l’incarico di pretore (sindaco) di Palermo. Negli anni 1836/37 la Sicilia fu sconvolta da un epidemia di colera e il principe si attivò  negli aiuti creando un Deposito di Mendicità cioè un vero e proprio ente  per il ricovero degli indigenti. Un lavoro sociale immenso e dietro una sua richiesta riuscì ad ottenere per il Deposito di mendicità il distaccamento di un gruppo di suore.

Palermo – Villa Sperlinga  - Prima sede del Deposito di Mendicità

Palermo – Villa Sperlinga
https://www.balarm.it/guida-ai-luoghi-di-sicilia/cosa-vedere-a-palermo/ville-parchi-e-riserve/villa-sperlinga-2462

Nel 1839 diventò responsabile del Reale Albergo dei Poveri , un ente pubblico di assistenza. I suoi palazzi diventarono strutture di accoglienza e lui con grande spirito cristiano dormiva in una stanza che divideva con il suo segretario. La sua giornata era solo dedicata ai ricoveri dei bisognosi.
Nel 1847 riuscì ad ottenere la concessione ecclesiastica per il nuovo ordine delle “Suore di Carità - del principe di Palagonia” che lui aveva chiamato invece di “S. Vincenzo de’ Paoli”.
È considerato come l’unico laico ad aver istituito un ordine religioso e rimase non realizzato il suo segno di creare un analogo ordine maschile.
La sua opera non si fermò a Palermo. A  Lercara Friddi aveva dei beni immobili avuti dalla nonna materna e anche in questo centro attivò la sua attività sociale e cristiana verso i bisognosi soprattutto durante le epidemie di colera. A Lercara il principe era proprietario di una miniera di zolfo oltre a vari edifici e terreni. Si adoperò per migliorare le condizioni ambientali di coloro che lavoravano nelle miniere. Destinò degli edifici a funzione pubblica con la creazione del teatro “Principe di Palagonia”  e del palazzo comunale. Edifici che dopo la sua morte furono acquisiti dal Comune di Lercara.
Eppure l’8 maggio del 1849 fu assalito dalla folla e da quel momento solo raramente si recò nel centro e presiedeva alle sue opere direttamente da Palermo.
Fu un acceso sostenitore dell’indipendenza dell’isola e quindi sostenne, anche come esponente del Parlamento Siciliano, la rivoluzione antiborbonica creandosi delle forti antipatie da parte della corte borbonica.
Morì all’età di 54 anni e prima di morire chiese che la “sua salma fosse vestita di un saio e trasportata col capo appoggiato su una tegola come San Francesco… e delle preghiere per lui e la sua ex moglie”
Il suo funerale fu seguito da una folla immensa. La sua salma fu prima deposta nella chiesa di Baida, fuori Palermo e nel 1958 venne traslata nella casa madre delle Suore di Carità.
Il 9 ottobre 2017, dopo un lungo iter burocratico, Papa Francesco dichiarò Francesco Paolo Gravina Venerabile della Chiesa.
Ultimo marchese di Delia fu  dunque don Francesco Paolo Ferdinando Gravina, il quale lasciò tutti i suoi averi ai poveri.
Nella prima metà del secolo XIX - il castello era in rovina: "...rimangono solamente alcune grotte e muraglie ad atrii appartenenti, e merli e avanzi di torre rotonda, la quale sovrastava qual vedetta all'intero castello" - Amico 1855-56,1, p. 368.

Nel 1653 Delia contava 1071 abitanti distribuiti in 288 case. La popolazione registrò un continuo aumento, passando dai 1717 abitanti dei 1748, ai 3101 dei 1831, ai 3560 dei 1861, ai 3642 dei 1871, ai 4705 dei 1901, ai 7279 dei 1951. In base ai dati del censimento dei 1981 la popolazione di Delia conta 4923 abitanti.


Famiglia Gravina discendente dai sovrani Normanni. In Italia il primo Gravina
fu Silvano, signore di Gravina con “castello e terra nella Provincia di Bari da cui prese il nome”.
Era figlio di Crispino, Signore d’Arnes, disceso da Rollone o Roberto primo duca di Normandia.
Giacomo di Gravina fu il “progenitore” dei Gravina di Sicilia con un diploma di Re Martino
emesso in Catana il 20 novembre 1405.
“Dominatori della Sicilia. Godette nobiltà in Caltagirone, Catania, Messina, Palermo;
possedette i principati di Alcara o Lercara, Castelforte, Comitini, S. Flavia, Gravina, Montevago,
Palagonia, Rammacca,  Val  di  Savoja;  le ducee di Alcara, Castel d’Aci, Cruillas,
San Michele, Valverde; i marchesati di Antella, Bifara, Cadera, Delia, S. Elisabetta,
Francofonte, San Germano; le contee di S. Giovanni la Punta, Sittafari;
le baronie di Arbiato, Armicci, Bifara, Belmonte, Buonvicino, Calatabiano, Cattasi, Cugno,
Fanaco, Favarotta, Fiumefreddo, San Basile e Lenza, San Fratello, Gibellini, Iroldo,
Marabino, Murgo, Piedimonte, Pozzo, Ramione, Rincioli, Scordia Soprana, Stellaini, Suvarita, ecc. ecc.


Nel XIX secolo il castello subì parziali modifiche per l’insediamento di un mulino a vento e nel 1878 venne inserito fra i monumenti del regno. Fu interessato da un primo restauro con l’eliminazione delle strutture pertinenti al mulino a vento e ripristino delle strutture originarie.
Nel 1987 – 1995 il castello fu oggetto di restauri e di scavi da parte della Soprintendenza e alla fine dei lavori fu aperto al pubblico.


4 - ARCHITETTURA



Lo sperone roccioso costituisce il basamento naturale della struttura muraria. Sono presenti numerose cavità naturali che furono utilizzate come cisterne d’acque. Con la fine dell’utilizzo del castello le cisterne furono colmate con materiali da costruzione e materiali ceramici in disuso.
Planimetricamente è articolato su vari livelli. La lunga rampa di accesso conduce ad un grande piazzale (che nella parte orientale doveva essere occupato da un villaggio medievale), tre larghi gradini in pendenza immettono, attraversato il vano d’ingresso, piccolo ambiente voltato con sedili laterali, al piano della piccola corte. Questo spazio, non definito architettonicamente, doveva comprendere degli ambienti di servizio. Al di sotto sono scavati nella marna tre ambienti sotterranei, di forma irregolare, con funzione di deposito delle derrate, probabilmente successivamente reimpiegati come prigione.



Negli scavi dell’ultimo intervento di restauro sono emersi quattro livelli, Il primo, più basso a nord-est, sale verso l’ingresso coperto con una volta a botte archiacuta tramite una rampa dove si sono ritrovate consistenti tracce della vecchia costruzione che testimoniano un’abitazione del castello antecedente la ricostruzione del Moncada.
In particolare è emersa l’esistenza di un pendio molto ripido e scosceso che testimonia che in origine il castello dovette essere una costruzione quasi a nido d’aquila e di conseguenza perfettamente inaccessibile se non in qualche punto di più facile passaggio che poteva essere facilmente controllato e difeso dalle milizie della guarnigione.


Il secondo livello corrisponde all’estradosso della volta d’ingresso.
Nel terzo livello, a settentrione, è stato recuperato l’unico ambiente interno del castello coperto con una volta fortemente archiacuta e nel quale si aprono cinque feritoie: due ad occidente e tre ad oriente.
Da qui una scaletta sale al quarto livello caratterizzato, sul lato meridionale, da un camminamento merlato che conduce ad una struttura absidata che fa pensare alla cappella dei feudatari. Sul lato settentrione sempre del quarto livello sono presenti i resti della torre nord con un ambiente destinato alla residenza del castellano con quattro magnifiche finestre sulla parete occidentale.
I ritrovamenti venuti fuori dagli ultimi scavi archeologici consistono in manufatti dell’ XI e inizio del XII secolo che sono di natura più che normanna quasi sicuramente del periodo arabo del castello.
Sono invetriate piombifere che confrontate con altri ritrovamenti nella zona di Agrigento sono da collegare ad una produzione di ceramiche a boli gialli proveniente dalla Sicilia centrale.
L’enorme quantità di ceramiche ritrovate nel castellazzo databili tra il XII e il XVI secolo sono la dimostrazione che esso durante i secoli fu adibito, più che come centro abitativo e residenziale, come luogo dove venivano concentrate le riserve idriche e soprattutto quelle alimentari.

5 - LA  LEGGENDA   DEL  “CASTELLACCIO”
Nascondere i propri averi all’arrivo di una dominazione straniera è una consuetudine che si perde nei secoli.  Anche nel XX secolo , quando i contadini riuscivano a costruire o a ristrutturare i casolari erano soliti occultare le somme rimaste in piccole nicchie ricavate nello spessore delle mura del fabbricato.
Gli arabi al sopraggiungere dei Normanni nascosero i loro tesori nelle grotte  o in altri luoghi.
Numerose sono leggende in merito e chiamate in lingua siciliana  “i Truvaturi”.
Anche il “castellaccio di Delia” non sfugge alla tradizione e si narra di un favoloso tesoro nascosto detto dalla fantasia popolare “lu tesoru di lu castiddrazzu”,
leggenda che è riportata nel libro dello storico prof. Luigi La Verde nel testo “Folklore di Delia”.
Un tesoro custodito da “un rignanti saracinu cc unna mazza ‘mmanu e cruna ‘ntesta” (un saraceno posto a guardia del tesoro con una mazza nella mano e una nella testa).

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6 - L’ANTICA  “MANSIO PETILIANA”  ROMANA  E’  DELIA ?
La "Taberna" e la "Mansio" in Piazza Castello
Pietro Carrera  (scrisse anche un libro sul gioco degli scacchi)
Piazza Castello - Quarto (Na), La Mansio Romana - I Proprietari Romani della Mansio di Delia 
All’inizio della mia ricerca ho citato come l’antica “Petiliana”, identificata da alcuni storici con il centro di Delia, sia stata una delle “mansio” riportate dall’”Itinearium Antonini” sulla strada romana “Catina-Agrigentum”.
Ho anche citato che negli scavi effettuati dalla Sovrintendenza nel “castellaccio” di Delia non furono trovati reperti romani. La presenza romana a Delia è invece attestata dai numerosi rinvenimenti in alcune contrade e anche nel centro cittadino.
Il prof. Paolo Busub, Presidente “Sicilia Antica” sezione di Delia, ha svolto delle interessanti ricerche in merito e pubblicate nel sito  storiadidelia.blogspot.com/
Un lavoro attento e scrupoloso dove il  prof. Basub dimostra un grande desiderio di conoscenza e di amore verso il proprio paese. Ricerche che unite alla immense risorse del centro fanno di Delia una vera e propria perla della Provincia di Caltanissetta.
Dopo questo breve excursus  è importante affermare che l’identificazione di Delia con Petiliana non è stato ancora pienamente confermato. Alla base c’è una mancata coincidenza delle distanze riportate dall’Itinerarium Antonini.
In base alle sue attente ricerche, il prof. Basub ha ipotizzato la presenza a Delia di una “Cauponae” cioè di un “ristorante privato”  forse collegato ad una “mansiones”.
Gli scavi di Pompei hanno riportato alla luce diverse “cauponae” che erano presenti lungo le strade di maggiore traffico e la cui insegna si trovava trascritta sul muro della facciata o su tavole di legno affisse.
Da qui l’usanza medievale di riportare il nome delle locande come al tempo dei Romani cioè con insegne.
E qui la prima notizia storica che lascia quasi esterefatti…. A Delia c’era l’”Hospitatoria Taberna Petiliana”…
Il famoso Abate Vito Maria Amcio che nel suo “Lexicon Topographicum Sicilum” del 1749 (Dizionario Topografico della Sicilia)  ha tramandato un patrimonio storico di grandissimo valore, cita lo storico Pietro Carrera (1571 – 1647) che “passando per Delia a qualche decennio d’anni dalla sua fondazione” , avvenuta nel 1622 (con licenza esecutoria nell’aprile del 1598), la “identificò con l’antica Petiliana poiché sull’insegna di una locanda vi era scritto “Hospitatoria Taberna Petiliana”.


Pietro Carrera era un illustre sacerdote
nato a Militello in Val di Catania il 12 luglio 1574 . Morì a Messina il 18 settembre 1647.
Visse molto tempo a Pietraperzia dove fu cappellano di corte di Don Francesco Branciforte
dove aveva a disposizione una biblioteca di 10.000 volumi.
Da storico e archeologo girò la Sicilia per le sue ricche ricerche.
A Canicattì diventò segretario di Don Giacomo Bonanno, duca di Moltalto, 
vivendo alla sua corte dal 1622 al 1639.
La distanza tra Canicattì e Delia è di appena quattro miglia, circa sei chilometri e
Don Pietro Carrera accompagnava spesso il Duca di Montalto a Delia.
Il duca era parente dei Lucchese di Delia. Come storico fu il primo a identificare Delia
con l’antica Petiliana romana.
Riferì nei suoi scritti di aver visto l’insegna in una locanda, tra il 1622 e il 1639 che diceva
testualmente:
“... PROPE EST HOSPITALEM TABERNA ADUC PETILIANA APPELLATUR”.
Don Pietro Carrera non avrebbe avuto alcun interesse a localizzare una
Petiliana in quel luogo.
Don Pietro Carrera sacerdote, storico, archeologo, scrittore, poeta,
mastro notaro e anche un abile giocatore di scacchi.
Tra i suoi scritti anche un testo sul “Gioco degli Scacchi” (1616).

Un testo dedicato al Principe D. Francesco Branciforte.
Lo stemma del principe  era sul retro della copertina.




La pubblicazione di questa notizia  non permette di confermare le eventuali origini romane del centro, però possono essere le basi di una importante indagine storica e archeologica.
Il prof. La Verde, storico di Delia, nell’anno accademico 1953-54 presentò la sua tesi di laurea dal titolo “Folklore di Delia”.  Nel primo capitolo della sua tesi, “Cenni Storici”, riportò le sempre interessanti tradizioni orali locali che i contadini si erano tramandati di generazione in generazione.
Tradizioni orali spesso cancellate nella nostra società consumistica che tra i propri obiettivi non ha certo quello di valorizzare gli antichi messaggi delle passate generazioni.
“Sino ad un secolo fa, nei pressi della diroccata Chiesa della Madonna, sullo stradale che va a Canicattì, sorgeva un’osteria detta appunto Petiliana”.
È la seconda testimonianza sulla presenza dell’Osteria.  Dal 1660 (Pietro Carrera) al 1953 (La Verde) sono passati quasi tre secoli a dimostrazione di una tradizione orale immutata nei secoli…un osteria importante, forse anche l’unica di Delia a tal punto che il suo ricordo ha superato lo scorrere inesorabile del tempo. Ma c’è un altro aspetto da rilevare legato all’attività di questa “hosteria” che durò a lungo a tal punto che il suo ricordo non svani nel nulla.  E fa ancora più riflettere come il nome si sia tramandato senza alterazioni come spesso avviene nell’espressione delle tradizioni orali.
Il prof. Poalo Busb, ha quindi cercato di identificare il sito della “taberna” partendo dall’ 800.
Sembra quasi un romanzo e penso che i cittadini di Delia siano orgogliosi nel vedere rinascere momenti di storia attraverso la sapiente e ricca opera di un loro concittadino.Il tratto di strada indicato dal prof. La Verde era quello compreso tra l’ex Chiesa della Madonna delle Grazie (Via Armando Diaz – uscita per Canicattì) e Sant’Antonio, in direzione est verso il paese. 

Nel 1850 oltre alla Chiesa della Madonna delle Grazie, in questa zona del paese erano presenti poche case e forse solo l’edificio dell’osteria. Infatti l’abitato in quel periodo si fermava poco più oltre la Chiesa di Sant’Antonio.
La mappa borbonica del tempo risalente alla prima metà dell’Ottocento, anche se importante dal punto di vista storico e topografico, è deficitaria per alcuni aspetti.
Nel 1737 la Chiesa di S. Maria delle Grazie nell’inventario dei beni riportò una breve descrizione sulla sua ubicazione con la distanza dal centro abitato..” la suddetta Chiesa di S.M. delle Grazie è situata in questo stato e feudo nominato Delia, lontano da questa terra 200 passi incirca…”.
Un passo corrisponde a circa 74 cm e quindi in totale la distanza della Chiesa dal centro è di 148 metri (s’incontrava la prima casa di Delia antica).
Un'altra mappa risalente al 1830 e disegnata da F. Pulizia evidenzia come il paese di Delia si estendeva oltre la Chiesa di S. Antonio.


Pianta borbonica del territorio di Delia – 1830
(B- Contrada delle Grazie ;  C – Contrada Sant’Antonio)


Dalla planimetria si notano un gruppo di case tra la Chiesa di S.M. delle Grazie e quella di Sant’Antonio. Il ricercatore riuscì ad avere da un suo compaesano, abitante in Via Diaz, delle importanti notizie in merito perchè  costui ricordava da bambino l’esistenza lungo la Via Diaz, dalla S. Croce all’ex Chiesa di S.M. delle Grazie, di soli tre gruppi di case.
Nella mappa catastale indicò questi tre gruppi di case con le lettere B, C e D.

(A)    – Chiesa S.M. delle Grazie ; (B, C e D) - gruppo di case.
Gruppo di case (B) – dal numero civico 151 sino a circa 25 m andando verso Est
Gruppo di Case “C” - dal numero civico 117 di via A. Diaz sino al numero 133
Gruppo di case (D) – fattoria agricola di fronte alla Santa Croce (Y), quest’ultima a fianco del numero civico 214. Oggi il gruppo si trova in Via Torino al n. civico 77

La particella “B” era la prima casa che s’incontrava venendo dalla Chiesa della Madonna delle Grazie nel 1737. La posizione della locanda probabilmente si trova nella zona compresa tra i tre gruppi di caseggiati descritti.
Spesso le Cauponae nascevano nei pressi di una Mansio. Riuscire a identificare la Mansio e / o la locanda Petiliana, non fa che avvalorare la presenza contemporanea dell'una e dell'altra struttura.



PIAZZA CASTELLO

Sulla Piazza “Castello” di Delia sono interessanti le ricerche svolte dagli storici locali Paolo Basus e Lombardo Leonardo.

Il nome della piazza deriverebbe non tanto dalla presenza del palazzo Baronale costruito dalla nobile famiglia Lucchese, che edificò la nuova  Delia, ma dalla presenza di un antico edificio risalente probabilmente all’epoca romana.

Palazzo Baronale

Il palazzo baronale fu costruito probabilmente sull’antica “Statio Petiliana” romana che si trovava sulla via “Catina –Agrigentum” dell’Itinerarium Antonini.

Delia - Piazza Matrice
(fino a poco tempo fa veniva chiamata piazza Castello)


Nella zona attorno a Piazza Castello, che includeva anche la Chiesa Madre, c’era un piccolo borgo contraddistinto dalla Zona “San Vito” e dalla zona “Piazza Castello”. Borgo che era attraversato da un piccolo torrente, l’attuale Via Cavour, e che probabilmente era quello citato nella concessione del “Castellaccio” a  Rinaldo de Pluyna e Peregrin de Gaylen nel 1271 e a Pierre de Carfagno nel 1272. Siamo in epoca angioina e nel 1279 il casale di Delia “contava trenta fuochi”.
Era il borgo più antico del centro e rimarrà distaccato con la fondazione di Delia del 1597. Le nuove costruzioni si svilupperanno dall’attuale Corso Umberto verso Nord e l’antico borgo rimarrà per un po’ di tempo quasi “isolato” dando al centro la visione di una “Delia Nuova” e di una preesistente “Delia Vecchia”.
Anche in questo caso la tradizione orale influì nella ricerca storica su Delia. Gli anziani per distinguere le due zone indicarono quella vecchia con il termine di “lu Castieddu”.




Il muro, posto all’angolo di Piazza Castello e di pertinenza del Palazzo Baronale, è un risalente all’epoca romana e quindi riconducibile alla “mansio Petiliana” ?
Un ipotesi affascinante che va d’altra parte inserita nella serie di testimonianze risalenti all’epoca romana come l’antica “Taberna” e altri ritrovamenti della stessa epoca sparsi nel territorio di Delia.



Il muro apparteneva ad una “mansio” romana?
I ricercatori per dare un risposta basarono le loro ricerche sull’analisi della tecnica costruttiva del muro: dimensioni dei blocchi e la loro relativa disposizione; il tipo di pietra utilizzata e comparazione, come spesso si fa nelle ricerche archeologiche, con strutture simili e della stessa epoca, cioè risalenti al IV secolo d.C.
Per quanto riguarda l’analisi comparativa, i ricercatori confrontarono il muro di Delia con quello di una struttura simile nel centro di Quarto (Campania).


Quarto, noto anche come Quarto Flegreo, è un comune della città metropolitana di Napoli.
Il suo nome deriva dal latino “quartus” e forse collegato alla frase “quarto miglio” perché proprio in riferimento a questa distanza della via “Campana” si trova il centro.
L’iscrizione sul cippo miliare posto sulla Via Consolare Campana (Via Consularis Puteolis Capuam”), che collegava il porto di Puteoli alla cittadina di Capua e da Capua direttamente a Roma lungo la Via Appia, recava l’iscrizione “ad Quartum lapidem Campaniae Viae”.
Un centro dalle importanti testimonianze romane come il mausoleo, a cuspide piramidale, detto “Fèscina”.

Altra testimonianza romana è la “mansio” posta proprio sull’importante “Via Consolare Campana”.

Un edificio di grandi dimensioni posto al “quarto miglio” della via e costruito in “opus reticulatum e opus listatum” destinato a luogo di sosta e di rifornimento lungo la direttrice tra Roma e Puteoli.
(“Opus Listatum” –  la struttura del muro è costituita da filari di laterizi alternati a filari di altri materiali)

La “Mansio” di Quarto
Le “Mansiones” era delle “stazioni di servizio” che s’incontravano ogni 25 – 30 km ed erano destinate  ai dignitario ed ufficiali imperiali per la sosta e il ristoro. Per tutti gli altri viaggiatori c’erano a disposizione le “cauponae” e le “tabernae” che offrivano possibilità di pernottamento.



I ricercatori misero in evidenza una certa analogia tra i muri della “mansio” di Quarto e il muro di Piazza “Castello” di Delia.
Il muro di sostegno di Quarto presenta una certa inclinazione ed ha anche una sua funzione come contrafforte.

L’inclinazione del muro di Delia presenta un inclinazione meno accentuata, legata forse ad esigenze costruttive, e d’altra parte i muri di sostegno possono avere una “scarpa” variabile dal 10 al 40%.

Inclinazione del muro di “Piazza Castello” - Delia

Le prime analogie tra le due strutture sono legate al primo filare di blocchi che sono messi in opera in verticale senza alcuna inclinazione e alla loro funzione come muro di sostegno per sostenere le antiche locande.
La tecnica romana prevedeva la messa in opera nei muri di sostegno di blocchi di pietra squadrati a forma di parallelepipedo in filari omogenei (“Opus Quadratum”). Vitruvio nella sua scienza tecnica distinse due varianti dell’”opus quadratum”:
-          L’opus isodorum, quando i blocchi sono omogenei sia nella forma che nella dimensione;
-          L’opus pseudoisodomun” quando i blocchi di ogni fila sono omogenei ma ogni fila ha dimensioni diversa l’una dall’altra.
Il muro di piazza Castello ha le caratteristiche di un “opus pseudoisodum” in quanto ogni fila è caratterizzata da conci di pietra squadrata in filari omogeni e ogni fila ha però altezze diverse. Una tecnica costruttiva  che legata al cementizio si ritrova nel tardo Impero e in province lontane anche se raramente utilizzato.
I romani utilizzarono la pietra locale, tufo grigio che si trovava anche nei colli attorno a Roma (chiamato “cappellaccio) e che quindi i Romani conoscevano. I tecnici romani erano soliti collegare i conci di pietra tra di loro con grappe metalliche che nel muro di Delia sono assenti.
Potrebbe essere un muro medievale ?
Le tecniche costruttive medievali riprendevano spesso le tecniche costruttive romane ma non sempre con risultati soddisfacenti perchè si aveva un impoverimento della qualità costruttiva legate anche a ragioni economiche.
La definizione di Piazza Castello potrebbe essere legata all’esistenza di un Kastron bizantino ?
Negli scavi effettuati nel Monastero di San Nicolò l’Arena di Catania venne alla luce un muro bizantino.

Muro bizantino di San Nicolò L'Arena (Catania)
Un muro che potrebbe essere pertinente ad un “kastron” o ad un edificio religioso.
Guardando la fotografia del muro di Delia, sembrano uguali sia per le dimensioni dei conci, sia anche per il riempimento degli interstizi tra i vari conci.
In questo caso il palazzo baronale fu costruito sui resti del kastron bizantino ?
Forse gli aspetti sono insufficienti per accertare una simile ipotesi comunque è un ipotesi che merita approfondimenti.
Riassumendo i ricercatori arrivarono alle seguenti conclusioni soffermandosi nel sottolineare i punti sull’ipotesi di un muro romano o medievale:
a)      Per l’attribuzione del muro ad epoca romana:
-          Omogeneità nell’altezza delle file di blocchi;
-          Variazione di altezza tra le file di blocchi: le file A,B.C hanno tutte dimensioni diverse;
-          L’altezza di ogni fila di blocchi diminuisce al progredire dell’altezza del muro;
-          Le altezze di alcune file e le larghezze dei blocchi hanno una misura multipla del dito romano:

b)      Per l’attribuzione del muro ad epoca medievale (Kastron bizantino)
-          Assenza di incastri o grappe metalliche fra i conci;
-          Riempimento interstizi tra i conci.

Misure delle file di blocchi del muro di Piazza Castello

Due possibili percorsi dell’ Itinerarium Antonini all’interno di Delia

La prof. Paladina ha svolto delle ricerche sui possibili proprietari della “praedia Petiliana” (proprietà Petiliana). Le fonti storiche attestano la presenza a Roma in età alto-repubblicana di una “gens Petelia o Petilia” da “Petilus” che significa “snello”. Una gens di rango elevato con esponenti politici e militari  che arrivarono anche al titolo di console.
Titolo Livio citò numerosi magistrati con questo “nomen gentis”, attivi nella politica romana fin dalla prima epoca repubblicana, tra cui:
-          Quinto Petelio decemviro, cioè uno dei dieci membri del collegio di magistrati;
-          Gaio Petelio Balbo, console in due anni diversi;
-          Gaio Petelio. Tribuno della plebe, promotore della Lex Petelia de Ambitu, cioè una legge sulla corruzione elettorale del 358 a.C. ( forse vicino al precedente per famiglia o forse sono la stessa persona);
-          Marco Petelio, console durante la guerra contro i Sanniti;
-          Gaio Petelio Dictator, attivo nel 313 a.C. e responsabile della presa delle città di Fregellae nel Lazio e di Nola in Campania. Gli viene attribuita l’emanazione di una legge che porta il nome della “gens Petelia” che introduceva il principio secondo cui nelle obbligazioni “ex contractu”,il debitore doveva rispondere con il proprio patrimonio e non con il “proprio corpo”. La legge passata alla storia come “Lex Poetelia Papiria de nexis”. Secondo la ricercatrice, tenuto conto del doppio nomen gentis, è di norma attribuita alla rogatio di due consoli cioè C. Petelio Libone e L. Papirio Cursore.
Per attestare la presenza in Sicilia dei Petelii/Petilii, lsa ricercatrice ha studiatoun passo di Cicerone che nella sua terza orazione contro Verre cita un cavaliere romano, Marco Petilio, membro del Consiglio di Verre e da questi nominato giudice. Una citazione che conferma il legame dell’isola con la gens almeno dal I secolo a.C.
Alla stessa famiglia patrizia citata da Livio si dovrebbe ricondurre il nome dei praedia Petiliana, cioè di un latifondo presente in Sicilia alla già alla fine dell’epoca repubblicana. Una famiglia illustre e presente anche in Calabria nella città di Petila Policastro in provincia di Crotone
C’è da rilevare che nel “castellaccio di Delia fu ritrovato un “cippo” calcareo forse di origine romana e che potrebbe anche indicare il limite del latifondo.


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7-  SITI  ROMANI
Le ricerche archeologiche hanno rilevato importanti  siti di epoca romana nelle contrade di Ramilia, Ferla e Marcatobianco.
Nel sito di Ramilia è stato scoperto un sito che ha restituito dei reperti di assoluto valore tra cui vetri e metalli, risalenti all’epoca greca e romana. In contrada Ferla, a pochi chilometri a Nord di Delia,  è stato riportato alla luce un insediamento databile all’alta e media età imperiale. Nel sito di Marcatobianco sono state rinvenute tracce greco romane con relative strutture murarie.




8 - LA REGIA  TRAZZERA 







9 – TEGOLE ROMANE CON BOLLI

Nel mese di dicembre 2017 in contrada Cappellano, a poca distanza dal centro abitato, sono state rinvenute delle tegole con bolli romani.  La scoperta per merito di Poaolo Busub Presidente della sezione locale di Sicilia Antica, dell’archeologa Dominique Di Caro e da altri studiosi di storia locale. Nel terreno sono state recuperate oltre alle tegole romane, con il marchio “Galb”, anche del materiale ceramico. Ben 240 reperti sparsi in una grande superficie di un terreno arato. Un rinvenimento importante perché fino adesso non erano mai avvenuti rinvenimenti romani in prossimità dell’abitato.
L’archeologa Dominque Di Caro ha fatto presente che “il materiale raccolto è essenzialmente riferibile a ceramica fine da mensa e dispensa (coppe, piatti e scodelle) di colore rosso-arancio fine e brillante, per lo più sigillata africana di tipo A sia liscia che decorata, di fine I - inizi III secolo d.C. “. “E’ considerevole il numero di laterizi con bollo “Galb” entro cartiglio rettangolare sia integro che frammentario, di diversa matrice. Il bollo “Galb” va inteso in Galbana, da riferirsi all’appartenenza del sito ai praedia Galbana. Il rinvenimento ci permette di estendere i confini del latifondo, poiché le tegole con Bolli Galb  sono state rinvenute in passato a Piano Camera e Tenutella Rina presso Gela, a Petrusa di Niscemi, in località San Michele a Canicattì, in contrada Gadira di San Cataldo e Mecato Bianco di Sommatino. A mio parere è da escludere l’ipotesi che si ritiene siano riferibili all’imperatore Galbo che regnò appena sette mesi. Più probabile che esse siano da ricondurre ad un aristocratico con lo stesso cognomen o appartenente alla famiglia cioè all’antica gens Sulpicia. È da escludere una datazione più alta del I secolo d.C. e comunque da confermare con analisi e ricerche”. Reperti che furono subiti affidati al locale museo per evidenziare una pagina importante di storia. (dal sito: la Gazzettanissena.it)


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Provincia di Caltanissetta
Castelli trattati nelle Note

Dal Castello Normanno di Delia al Castelluccio di Gela

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