Milena - Il Castello di Milocca - Le Robbe e il Monastero di San Martino

I Castelli della provincia di Caltanissetta 





Indice

1.      Origine del Nome
2.      Il Castello – I Siti Archeologici – I Reperti (cenni) – Il tarì di Ruggero II
3.      I Feudatari del Castello;
4.      Il Monastero di San Martino;
a)      La Fondazione;
b)      Le Vertenze giudiziarie con le città vicine;
c)      Lo sviluppo del Feudo;
d)     Le Ricerche Minerarie;
e)      La Ristrutturazione del Monastero;
f)       Descrizione Architettonica del Monastero;
g)      La nascita delle Robbe – il Monastero in Abbandono;
h)      Il Bandito Testalonga;
i)        La Robba San Miceli.
5.      Le Donne di Milocca e il loro coraggio – Il Fascio dei Lavoratori;
6.      La Miniera Giona – La disgrazia del 14 maggio 1900;
7.      La “Tegula Mancipum Sulfuris”;
8.      Le Robbe e le loro “canzuni”;
9.      L’Mbriulata , un prodotto tipico di Milena – Ricetta
10.  Cartine (Google maps)

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1 - Origine del nome
Milena, l’antica Milocca, è un centro di circa 3000 abitanti posto in Provincia di Caltanissetta ad est del Fiume Platani.
Il termine “Milocca” è  di derivazione araba “Mulok”(ciliegio). Il centro nacque nel 1924 grazie ad un Decreto Regio (n. 3023 del 30 dicembre 1923) di Vittorio Emanuele III di Savoia.
In base al decreto venivano staccate la frazione di Milocca dal Comune di Sutera e quella di San Biagio dal Comune di Campofranco. Le due frazioni costituivano un nuovo Comune denominato Milocca
Nel 1933 il comune fu ribattezzato “Littoria Nissena” e nello stesso anno il nome fu cambiato in Milena, in omaggio alla regina Milena del Montenegro, madre della regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III.

 Milena Vukotic. Regina del Montenegro

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2 – Il Castello  -  i Siti Archeologici – I Reperti – Il Tarì di Ruggero II

Sul Monte Conca (437 m s.l.m.), posto tra la contrada Amorella e il fiume Gallo D’Oro, si trova un vasto pianoro che domina il paesaggio fino al Monte San Paolino di Sutera.  Sul pianoro la Sovrintendenza ha effettuato degli scavi archeologici, iniziati nel 1977 e non so se proseguiti, portando alla luce i resti di una fortificazione.
Si dice che fu stilata una carta archeologica della zona.. ma è introvabile…..
Fu portata alla luce la pianta quadra di una torre, (25 x 27)m, costruita con massi parallelepipedi.
Non so se gli scavi siano continuati perché la scoperta meriterebbe, data anche l’importanza della zona, di ulteriori studi e anche di visibilità comunicativa. Una torre a presidio probabilmente dell’antica strada, che da Sutera portava a Milocca passando per l’antico ponte romano, e del casale Milocca che sorgeva sul Monte Amorella che fu indagine di scavo nel lontano 2000 e di cui i risultati, anche in questo caso, non sono mai stati pubblicati (almeno su internet non c’è traccia se non in qualche pubblicazione…. a pagamento).
Monte Conca è dal 1995 Riserva Naturale Orientata (RNO). Una Riserva che descriverò nella prossima ricerca dedicata al centro di C.ampofranco.

Monte Conca

Monte Conca e il Fiume Gallo d’Oro


La  dott.ssa Lucia Arifa citò le origini del casale tardo-romano in contrada Amorella  e riscontrò nei documenti della fine del 1200 e del 1300 vari riferimenti a due importanti assi viari pubblici. Uno, il più importante che da Grotte portava a Sutera ed uno che da Racalmuto portava a Milocca e da qui si innestava nel precedente, verso Sutera. “Lungo il tracciato Grotte – Milocca – Sutera c’è una continuità di vita che è molto chiara a partire dall’età romano-imperiale fino ad età normanna. Ne sono una testimonianza i resti di una fortificazione dell'XI - ’II secolo trovati sul Monte Conca a dominio della Valle del Gallo D’oro, proprio nel punto in cui sono i resti d’un cospicuo ponte di attraversamento del fiume. I predetti assi viari dovevano risalire ad epoche precedenti alla medievale e ipotizza che in epoca romano imperiale la viabilità nella zona fosse in qualche modo innestata all’Itinerarium Antonini. La ragione di tale deviazione sarebbe legata alla presenza dell’attività estrattiva dello zolfo nei dintorni di Milena, un tempo territorio di Sutera. Lo sbocco commerciale del prodotto verso la costa agrigentina avrebbe richiesto, fin dall’epoca tardo romana, una specie di bretella di collegamento all’asse viario principale. Grazie a questo collegamento  lo zolfo avrebbe potuto facilmente raggiungere Agrigento e poi Porto Empedocle per essere imbarcato per le varie destinazioni anche extra-isolane. L’attività estrattiva è testimoniata dal ritrovamento in contrada Amorella di una lastra di terracotta, uno stampo per pani di zolfo, in cui si cita il “liberto imperiale” M. Aurelio Commodiano.
La contrada Amorella fu abitata dai romani in età imperiale come testimoniano le ceramiche, le tegole,
i vetri e gli oggetti metallici rinvenuti negli scavi.
Furono trovati anche reperti medievali come alcune anforette invetriate e decorate in
verde e bruno con motivi a mandorla, bocchette in ceramica, lucerne.
È testimoniata anche una presenza arabo-normanna con frammenti di ceramica solcata e invetriata verde e
fondi di scodelle con stemmi nobiliari.
Fu anche rinvenuto un tarì d’oro del periodo di Ruggero I – Ruggero II.



In Contrada Serra del Palco-Mandria gli scavi hanno riportato alla luce delle ceramiche a
decorazione incisa ed impressa con motivi semplici. Motivi costituiti da solcature, reticoli,
tratteggi, bande rosse alternate a fasci di linee nere.
Negli insediamenti risalenti all’età del rame, in contrada Monte Grande-Fontanazza, sono stati
rinvenuti corredi funerari, anse e tazze.

A sinistra: “al –malik Rujar al-mu’tazz billah”

(“Re Ruggero, potente per grazia di Dio”), intorno ad un cerchio delimitato da sei cerchi più piccoli
con al centro un cerchio più grande.
Il testo in caratteri arabi, attribuisce al re Ruggero due titoli:
-          immaginifico”(potente), cioè un titolo di tradizione occidentale
ma che viene attribuito anche ai sovrani musulmani;
-          “Esaltato di Dio” (Per Grazia di Dio), un titolo islamico.
La zecca e la data di emissione nel bordo esterno

A destra: IC/XC
                NI/KA
in due linee nel campo al fianco della Croce
ΙΗCOYC XPICTOC (Iesoùs Christòs Vine): Gesù Cristo in greco
Zecca e data nel bordo esterno
(diametro 13 mm – peso 1,47 g)
La moneta fu coniata tra il 1130 e il 1140 d.C. (525 – 535 dell’Egira)
Sulle due facce appare, per la prima volta, il nome con cui la città di
Palermo era nota nel Mediterraneo arabo: “Màdina Siquillyya”
la “Medina di Sicilia”


A sud di Milena sul Monte Campanella furono rinvenute due tombe a thòlos, la prima nel 1949 e la seconda nel 1971, che risalgono alla tarda età del Bronzo (XIII secolo a.C.). Tombe che furono rinvenute casualmente.


Una scoperta che conferma l’ipotesi dell’insediamento di colonie Cretesi, in Sicilia, verso il 1200 a.C., prima per rapporti commerciali e poi in forma definitiva.
Le tombe si trovano sulle pareti ovest del Palco Campanella e  la gente del luogo li chiama “grotte dei Saraceni”.
La tomba a Thòlos trovata nel 1971.
Thòlos: interno
Secondo lo studioso Arturo Petix si tratta di espressioni di gente egeo-cretese che abitarono la Valle del Platani verso la fine del secondo millennio a.C.
La prima thòlos fu trovata casualmente nel 1949 e sembrava un caso isolato, in ogni caso era un indizio importante perchè espressione di una civiltà. La scoperta della seconda thòlos, dopo 22 anni, fece capire agli archeologi che nel sito giunsero verso la fine del 1200 a.C. delle colonie cretesi e instaurarono con i sicani, del preesistente villaggio, un rapporto di pacifica convivenza.
La thòlos trovata nel 1949


Monte Campanella – Le Thòlos
Sempre in Contrada Campanella e nelle contrade di Rocca Grande e Serra del Palco furono rinvenuti
corredi funerari del periodo greco costituiti da bocchette e piccoli vasi attici a vernice nera.
Reperti databili tra il V ed il IV secolo a.C.


Un antica foto del ponte sul fiume Gallo D’Oro.
Oggi è mancante della parte centrale che crollò durante una piena del fiume.


Milena – Museo Petix




3 – I Feudatari del Castello
Del castello di Milocca non si hanno in realtà molte notizie. È documentato nella seconda metà del 1200 anche se i materiali ceramici che sono venuti alla luce negli scavi, come citano le scarse fonti, datano l’area abitata risalente all’XI secolo quindi in epoca normanna.
Schematicamente  le fasi storiche del castello sono:
fino al 1270 ( dal 1266 al 1282 la Sicilia era sotto la dominazione Angioina di Carlo I D’Angio) il “casale e il feudo di Milloca” erano soggetti a Niccolò d’Aspello e Guglielmo di Fazzarabia;

I “de Aspello”, (forse originari di Noto e Siracusa) furono dei nobili protagonisti dei Vespri Siciliani
Niccolò Aspello possedeva con Guglielmo Fazzarabia, il casale di Molotta (Milocca) nel territorio
di Agrigento. Nel 1528 aveva occupato indebitamente i casali Chinens ( Chinesi, presso
Alessandria della Rocca), Avnramil (forse Ramilia, Motta di Camstra) e Fonterosso.
Tutti feudi e casali appartenenti alla chiesa agrigentina. Il 15 maggio 1266, assieme alla moglie
Serena, li restituì al vescovo Gottifredo. Per riparare all’usurpazione assegnò al vescovo una vigna,
“in compenso dei frutti ricavati da essi e delle decime non pagate”.

In un procura di Donna Damigella, del 20 marzo 1307 in Siracusa si legge:
figlia del fu Giordano da Canelli e di Tomasia de Aspello - in capo a Guglielmo di Ventimiglia, suo marito,
per trasferirsi nelle parti della Liguria, e specialmente in Canelli e Loazzolo, per prender
possesso dei beni tanto feudali sia allodiali, posti in quelle terre e castelli, spettanti
a Damigella per l'eredità del Dominus Giordano da Canelli, suo padre
La suocera del Conte Guglielmo di Ventimiglia era una de Aspello e la sua famiglia
fu beneficiata l’1 giugno 1271 dall’infante Pietro D’Aragona
nelle persone di Nicolò e Francesco fratelli de Aspello, già vassalli di re
Manfredi di Svevia e poi alla corte della figlia Costanza di Svevia in Barcellona”
Infatti nel privilegio si legge che “(l’Infante) concede ai fratelli 200 soldi
barcellonesi mensili, per remissione di un debito dell’infante, nei confronti degli Aspello,
di 6000 soldi” (Barcellona, Archivio de la Corona de Arago).

In merito a Guglielmo Fazzarabia forse era un nobile con avi arabi.
Il suo nome era probabilmente Guglielmo di Al Fazz.
Al Fazz è un villaggio nell’ovest dell’Arabia Saudita. La regione è Makkah (o La Mecca)
e la sua capitale è proprio La Mecca.

Dopo la rivolta del 1267 il casale di Milocca fu confiscato all’Aspello e nel 1270 fu assegnato da Carlo I D’Angiò a Jean de Roux di Avignone e a Guglielmo de Raimondo de Bellomonte.

Non è facile stabilire l’origine dei “de Roux”.
Alcuni testi parlano di una loro origine a Borg-d’Oisans.
Si stabilirono a Chomèrac e infine a Lione.
Il Jean le Roux citato potrebbe essere Jean (I) le Roux (in brettone Yann Iana r Ruz) (Giovanni I Il Rosso)
(1217 – castello de L’Isle, 8 ttobre 1286) –
Chiamato le “Roux” per il colore della sua barba. Fu Duca di Bretagna dal 1237  fino alla sua morte.
Nel 1270 partecipò con San Luigi (Luigi IX di Francia, passato alla storia con l’appellativo di “Il Santo” e
canonizzato da papa Bonifacio VIII nel 1297) all’ottava crociata del 1270.
Famoso per l’editto che prescriveva l’espulsione degli ebrei dal ducato con
la cancellazione dei debiti contratti con loro.
Sposò, nel 1236,  la principessa Bianca, figlia del re Teobaldo I di Navarra.


Giovanni I Il Rosso




In merito a Guglielmo de Raimondo de Bellomonte (Beaumont – Belmont – Bellomont) sarebbe
una nobile famiglia originaria di Beaumont-le-Roger in Normandia


La famiglia francese scese in Italia, come cita l’Inveges, prima del XII secolo, ponendo
la propria residenza in Sicilia. Figura un Goffredo (Gottifredo), arcivescovo di Messina, e nel 1263
un Guglielmo che ricoprì nel 1265 la carica di Grande Ammiraglio di Sicilia.
Il casato pose successivamente la sua residenza a Sutera ove nacque Padre Luigi Belmonte che
fu provinciale del Convento di Palermo dal 1715 al 1761. La famiglia da Sutera si
trasferì  nella seconda metà del 1600 a Favara.

Il 13 gennaio 1278 il casale fu diviso fra Jean (I) de Roux ( Giovanni Rubeo o il Rosso) e Perrono de Bellomonte, figlio quattordicenne del defunto Guglielmo Raimondo ( che ricopriva, come abbiamo visto nella descrizione della famiglia, la carica di Grande Ammiraglio di Sicilia).
Sempre nel 1278 il casale di Milocca è indicato come “quoddam casale nomine Muloc”.. un villaggio di pagliai protetto da un castello come si rileva da un documento dell’epoca che cita l’esistenza di “paliarii” e di un “castellum”.

Dopo le giornate del Vespro (iniziato il giorno di Pasqua del 1282) c’è un periodo dove le fonti storiche sono assenti. Il casale fu restituito agli Aspello  e risulta che una Serena de Aspello, già morta il 24  aprile 1332, (altre fonti citano il 16/6/1332 - Asp, Tab. Magione, 608), aveva sposato Marino “Capichi” cioè Mariano Capizzi che nel 1335 risulta titolare di Milocca.


Un antica e nobile famiglia di Messina, di origine italiana e sparsa in varie città.
Alcuni studiosi citano la famiglia di origine lombarda. Nel 1151 un barone “Gigaren di Capitzio” (Girardo di Capizzi)
figura nella corte del Conte Simone Aleramico e nel 1445 frà
Giovanni de Capisio fu testimone di un atto relativo all’elezione di un Magistrato cittadino.
La famiglia Capizzi  “stipulò” molti matrimoni con la nobile famiglia Cesareo.
Martio Capizzi fu cavalier fidelissimo al Re Federico II, e difese la città
di Licata insieme con Pietro Lanza contro l’armata francese guidata da
Giovanni Chiaramonte, che l’aveva dal re rubata, per il ripudio della
sorella Costanza, che fece Francesco Ventimiglia Conte di Geraci”.
Martio sposò la sorella di Nicolò Cesareo e nacquero Nicolò,ed Andrea Capizzi, che nel regno del
Re Martino ebbe per un anno il governo della città di Lentini, per un altro anno la città di
Catania. Giovanni Pietro, suo figlio, ebbe dal Re Alfonso quello della città di Augusta.

Serena de Aspello portò in dote il “casale di Milocca” al marito Mariano Capizzi (“dominus Marino Capichi”).
Mariano Capizzi sposò in seconde nozze Albamonte, figlia di Nicola Abate. Dal matrimonio nacquero i figli Giacomo e Pandolfina. Nonostante fosse analfabeta, fu stratigoto di Messina il 9  aprile 1334 e nel giugno 1335 difese Licata durante l’incursione angioina. Nel 1335 ricavava un reddito di 350 onze dai Casali: Rachalmali, Bucali (Ex feudo Vocale, presso S. Elisabetta), Comertino ( Comitini), Milocca e Diesi.
1355 (circa) – “castrum dictum Milocca” è citato in una lista di castelli e terre siciliane;
Mariano trasmise il casale al figlio Giacomo che fu l’ultimo barone di Milocca.
Il barone Giacomo il 4 febbraio 1363 donò il casale ai Padri Cassinesi del Monastero di San Martino delle Scale.
(Il Barberi – III, 207  cita il sito come “casale” nel 1335 e poi come “feudo” nel 1363. Dopo Giacomo Capichi cita come barone Nicola (II) Abate, subito dopo la Curia e successivamente Guglielmo Ventimiglia nel 1397. Probabilmente il vastissimo feudo, prima della donazione del barone Giacomo, fu diviso. In ogni caso il Nicola II era un parente della madre del barone Giacomo)
Nel 1500 è citato solo il “feudum Mulocce” e del castello, probabilmente in rovina, non si fa alcuna citazione.



4 – Il MONASTERO DI  SAN MARTINO


4a – La Fondazione
Il barone Giacomo Capizzi, facendosi monaco, donò il feudo ai monaci benedettini dell’Abbazia di San Martino alle Scale di Palermo.  Nel feudo era presente una  fattoria con una piccola torre.

Monreale (Pa) – Abbazia di San Martino alle Scale


Stampa del 1877
Il complesso abbaziale benedettino fu fondato da Papa Gregorio Magno nel VI secolo.
Fu distrutto dagli Arabi nell’837 e riedificato nel 1347 dal benedettino Angelo Senesio e
dedicato a San Martino, vescovo di Tours. Nel corso dei secoli l’abbazia ha subito notevoli
interventi architettonici.

San Benedetto di Nursia scrive la  Sua regola.
Chiesa di Heiligenkreus AbbeynearBaden , Lower – Austria
Dipinto di Hermann Nieq (1849 – 1928)

 “Il Barone Giacomo andò al Monastero di San Martino delle Scale, chiese di essere accolto in quella comunità… Richiesto cosa lasciava dietro di sé, rispose che possedeva tre piccole chiuse … e nient’altro”.
Nel XIII secolo il Casale di Milocca venne diviso in due parti: una ad occidente e l’altra ad oriente.
Una divisione che caratterizzò il territorio per ben sette secoli, sino al 1923 quando nacque il centro di Milena.
La parte ad occidente apparteneva ad Antonio de Milocca e l’altra a Mariano Capizzi. Fu proprio il figlio di Mariano, Giacomo,  che decise di farsi monaco donando i suoi averi, 900 salme di terra, con ratifica nel dicembre 1363, al Convento di San Martino delle Scale di Palermo. Una donazione che legherà i padri al territorio di Milocca caratterizzando la storia del centro.
Un lascito importante per il tessuto sociale di Milocca perché il paese ebbe uno sviluppo economico notevole. Il feudo malgrado, fosse un importante centro agricolo, rimase privo di insediamenti tranne qualche piccolo casolare. Era circondato da altri feudi: Delle Rose, dove sorse Campofranco; la città demaniale di Sutera e di Racalmuto.
Nel’ 400 i Benedettini, entrati in possesso del feudo, cedettero ai contadini le terre, che furono oggetto di migliorie, con contratti d’enfiteusi. Venne costruito un luogo idrico , Musa, costituito da un abbeveratoio, una fontana ed un lavatoio.

4b – Le vertenze giudiziarie con le città vicine
Lo storico Arturo Petix, nella sua pregevole ed attenta opera di ricerca storica su Milocca, mise in risalto come i monaci Benedettini di San Martino alle Scale di Palermo, da cui dipendeva il monastero di Milocca, dovettero affrontare delle dure vertenze giudiziarie con le città di Racalmuto e di Sutera per gli usi civici. Usi civici che le due città dichiaravano di esercitare da tanto tempo nel feudo di Milocca e che naturalmente i monaci Benedettini di Palermo contestavano.
Il primo tentativo di affermare il diritto agli usi civici, da parte del barone di Racalmuto, si verificò nel 1482.
Il barone di Racalmuto, secondo le mie ricerche, doveva essere Giovanni II del Carretto.
Ci fu un immediato intervento della Regia Magna Curia con relativa diffida, rivolta al Del Carretto, di “non molestare nei feudi di Milocca, l’autorità del Balio  e la vita degli stessi coloni”.
Il “balio (baiulo o baglio)” era l’ufficiale che teneva rinchiuso il bestiame errante e che quindi provocava dei danni nelle terre altrui. Il luogo dove veniva rinchiuso il bestiame era detto “erranteria”. Quando il proprietario del bestiame andava a ritirare il bestiame errante doveva pagare al “balio” una somma giornaliera detta “diritto di baglia”.


Aliminusa (Palermo) – il Baglio
Presenta una pianta rettangolare con una corte interna divisa dal palazzo signorile (a destra).
I fabbricati laterali servivano per l’abitazione della servitù, per i granai e le scuderie.
Nella parte posteriore vi era un giardino con un pozzo d’acqua e l’erranteria.

Poco dopo anche il Segreto di Butera, cioè il governatore della terra baronale alle dipendenze o direttive del barone, pretese anche lui di avere diritto agli usi civici sul feudo di Milocca.   Il Segreto rivendicava ill feudo di Milocca “di sua generazione”.
I monaci si rivolsero al Regio Patrimonio e nel 1500 il Segreto di Sutera venne obbligato a rispettare l’autorità del “Baiulo” di Milocca “nell’esercizio delle proprie competenze e nell’ambito dei feudi della baronia”.
Il Regio Patrimonio diede incarico agli ufficiali di comunicare nella città di Sutera il banco con cui veniva imposto “il riconoscimento legale dei diritti di baiulazione, di carcere proprie, di dogana e quanti altri diritti venivano esercitati in Milocca, dalla autorità di Baronia”.
I cittadini di Sutera furono inoltre obbligati a pagare l’uso del pascolo e per quell’anno 1515, l’estaglio dell’uso doveva essere pagato al Giudice della baronia di Milocca cioè al Notaro Bernardo Schillaci.
Le sentenze e i bandi spesso non furono rispettati dagli abitanti di Sutera e Racalmuto.
Nel 1522 una nuova vertenza giudiziaria  con la sentenza in cui veniva imposto agli ufficiali delle due citta usurpatrici di “non ostacolare nelle loro competenze il Giudice, il Balio, gli ufficiali e arrendatori di Milocca”.
“Il 15 settembre 1566 il capitano della città di Sutera dovette rimandare al foro di San Martino di Milocca il processo contro il balio stesso della Baronia arrestato a seguito di denuncia presentato contro lo stesso, Mariano Catarrasi, dal suterese Bernardo Lo Puzzo, per il furto di quattro buoi e di quattro vacche che il Catarrasi aveva preso al Lo Puzzo e portato a San Martino a Milocca nella erranteria della baronia. L’ufficiale venne assolto perché aveva agito nella giurisdizione di Milocca”.

4c – Lo sviluppo del Feudo
Nel 1546 il monastero cedette per intero le terre alla famiglia Lo Puzzo di Sutera. Con il passare degli anni il contratto fu discusso dalla Congregazione Cassinense e giustamente l’affare venne valutato in negativo. Dopo circa 13 anni dalla concessione delle terre, nel 1559, le terre vennero riscattate.

I monaci ripresero la concessione in enfiteusi dei terreni ai contadini che provenivano da Sutera, Campofranco e, anche se in misura minore, da Grotte, Aragona e Racalmuto. Avevano la possibilità di coltivare i terreni con superfici che permettevano una sufficiente sussistenza. I contadini  non abitarono nel feudo ma edificarono solo dei magazzini e delle stalle. Verso la fine del 1700, tramite sopraelevazioni, costituirono delle unità abitative per gruppi familiari dando origine alla costituzione delle “Robbe” che si raggrupparono in ben quindici villaggi.



4d – Le Ricerche Minerarie
Nel 1722 i monaci avviarono le ricerche per trovare lo zolfo nel feudo “Cimicìa” che diedero esito positivo. I monaci del monastero concessero il diritto al alcuni operai di ricercare lo zolfo e quindi di aprire un miniera concedendo, in caso di risultati positivi, l’uso di due salme di terra contigua all’area per l’esercizio della miniera stessa.
Il contratto della gabella aveva una validità di sei anni e alla scadenza la gestione della stessa miniera sarebbe passata direttamente al Monastero.
Nel 1780 era in attività una fiorente miniera che dava lavoro a molti operai con un reddito consistente.
L’esito positivo della ricerca diede l’avvio ad altre ricerche con alterni successi.
Le terre continuarono ad essere concesse in affitto per il pascolo, mentre il monastero gestiva in proprio le terre seminate a grano o bonificate. Furono impianti degli oliveti e dei vigneti mentre nelle terre, che non erano adatte al miglioramento agrario, vennero impiantati dei boschi con piante tipiche del luogo..
L’abate Vito Amico cita nel suo “Dizionario Topografico” che nella “contrada Cimicia del territorio di Sutera (oggi del territorio di Milena)  si hanno in attività sei solfare, denominate Cozzo tondo, Grotta Nera, Giona, Cinquegrani, Pietra bianca, possedute dal Monastero di San Martino della Scale di Palermo, non soggette ad inondazione e con zolfo di 2°  qualità che si cava nell’intero anno”.

4e – La Ristrutturazione del Monastero
Nel settecento la struttura aveva bisogno d’interventi conservativi. La torre, risalente alla fine Trecento – inizio Quattrocento, era in precarie condizioni statiche. I padri diedero vita ad un nuovo edificio senza tralasciare il senso della fattoria e aggiunsero un mulino, il palmento, l’oleificio, ecc.
Il progetto fu affidato agli architetti Giuseppe Venanzio Marvuglia ed Ignazio Marabitti e altre maestranze intervennero nelle pitture. I due portali scolpiti (foresteria e Chiesa) sono del Marabutti mentre il progetto in generale e la scala centrale sono del Marvuglia.



4f – Descrizione architettonica del Monastero
Il risultato finale fu la creazione di una fattoria fortezza con compiti di avvistamento. I monaci infatti avviarono una importante e notevole opera di edificazione seguendo un modello delle fattoria fortificata della Sicilia Occidentale che organizzava i vari ambienti attorno ad una grande corte, baglio, che fungeva quindi da centro propulsore della struttura.
La foresteria ed una piccola chiesa  costituivano il prospetto principale che era orientato a nord.
Chiesa dal tetto a crociera e ornata da un bel portale d’ingresso sovrastato dallo stemma dei cassinensi. La foresteria,  ornata da un bel portale, era divisa in due parti da un grande arco a sesto acuto ed era un luogo d’incontro tra i monaci e la comunità.
Appena superato l’arco d’entrata, che era sormontato da un piccolo corpo che aveva funzione di guardia, si raggiungeva la vasta corte interna dalla pianta regolare. Il lato più lungo della corte presentava un edificio più alto degli altri. In questo edificio al primo piano si trovavano le celle dei monaci ed un locale adibito ad ufficio amministrativo. Un piano che si raggiungeva grazie ad una scala monumentale costituita da due rampe. All’incrocio delle due ampie scalinate si trovava la porta d’accesso alle celle dei monaci sulla quale era posta una lapide che ricordava la costruzione della fattoria ed i suoi scopi. Una lapide, scritta in latino e scomparsa da tempo, che era sormontata da un piccolo bassorilievo che raffigurava la Vergine Immacolata. Alcuni storici di Milena nel lontano 1950 trascrissero l’epigrafe:

Lapide di San Martino

Provvidus iste Pater fundens sua flumina cuncta dona dabit rectis uberiore manu ut tamen infeste tradent formidine entes en baculo reprobis incutit ipse metum at malis et urget permista superbia fastu infernum metuint. Hoc monet ense reos. ANNO MDCCX ut secum pauperes saturarentur panibus et ne sectantes suam operam Monachi Cassinenses. Decrevere ex cap. XII vers. XI.”

“Provvido questo Padre che effonde i suoi fiumi e darà a tutti i suoi doni, con mano generosa affinché le genti con ostile paura tramandino quanto egli incute timore ai reprobi col bastone e li opprima con avversità a causa della superbia mista a prodigalità e temano l’inferno. Con questa spada ammonisce i rei. ANNO 1740. affinchè i poveri si saziassero con esso di pane e seguendo l’ozio non fossero i più stolti di tutti, i Monaci cassinnesi decretarono col capitolo XII verso XI la lavorazione della loro terra”.



Alla fine delle due rampe della scala monumentale c’era un ballatoio e attraversa una porta si accedeva in una sala d’attesa. A sinistra c’erano probabilmente le piccole stanze dei monaci. Le stanze erano disposte su un corridoio che, grazie ad ampie finestre, si affacciava sul cortile. A testa dell’ingresso c’erano invece la stanze degli affittuari e delle autorità del feudo.
Tutte le stanze avevano un soffitto a crociera arricchito da stucchi ed erano arricchiti da quadri  che avevano delle cornici a stucco.
 Dalla grande corte, tramite un passaggio simile al primo, si accedeva in un’altra corte dalle dimensioni più piccole della prima. A sinistra il lato più corto presentava una parte con un sistema di archi a tutto sesto forse adibite a stalle dove in seguito si sarebbero costruiti una serie di abitazioni simili a quelle che furono costruite intorno alla fattoria.

4g – La Nascita delle Robbe – Monastero in abbandono
Con tutti questi lavori, ricerca dello zolfo e nuovo edificio, altre famiglie si aggiunsero a quelle preesistenti stabilendosi definitivamente nel feudo Milocca e dando origine a quegli agglomerati i piccoli villaggi che presero il nome di “Robbe”. “Robbe “ costruite da contadini che comprarono o ereditarono le terre dei vecchi censuari e che erano anche attratte dal lavoro che l’imprenditoria dei monaci proponeva., il monastero aveva bonificato tanti terreni e impianto uliveti e vigneti e le terre che erano adibite al pascolo furono sostituite dal maggese per meglio preparare il terreno per la semina del grano.
 La fattoria come nucleo principale contava alla fine degli anni sessanta qualche gruppo abitativo. Oggi è tutto nell’incuria e nell’abbandono… un patrimonio che s’è perso e che aveva bisogno di interventi periodici perché costruito con la pietra da gesso come gran parte del patrimonio edilizio di Milena.
Le terre rimasero al monastero fino alla famosa soppressione dei beni ecclesiastici del 1866.
Il sito è in abbandono..





4h – Il Bandito “Testalonga”
La presenza dei monaci e le loro attività fecero nascere nuove imprese. Nel 1724 sorse vicino al torrente Nadore il mulino di San Francesco di Paola che resterà, per circa due secoli, uno dei più importanti del territorio. I mulini di S. Giorgio e di Fontanafredda non erano facilmente raggiungibili a causa delle piena del fiume.
Tra il 1766 ed il 1767 il territorio subiva le gesta della famosa banda di Antonio di Blasi detto “Testalonga”.  Il territorio di Caltanissetta era sotto le mire della banda e spesso si recava anche a Milocca dove si fermava lungo il fiume Platani a conversava amichevolmente con i pescatori di anguille. Allora il fiume era ricco di pesci e le anguille erano numerosissime. I villaggi, “Le Robbe” erano già presenti ma gli abitanti del luogo non subirono violenze da parte del bandito .. erano ben altri i suoi obiettivi non certo quelli di colpire la povera gente che andava avanti con sacrifici.


La storia del banditismo in Sicilia ha origini complesse.. non basterebbe un trattato a spiegarne i motivi della sua nascita e diffusione. Il “Testalonga” diventò un bandito perché il bargello gli uccise la madre. Da quel momento diventò il bandito più temuto della Sicilia riuscendo ad organizzare una banda che divise in tre gruppi. Un gruppo fu affidato al cognato Antonino Romano di Barrafranca, uno a Giuseppe Guarnaccia di Regalbuto e l’altro era sotto il suo comando.
Nei suoi territori si passava grazie ad un lasciapassare a pagamento che veniva emesso dai suoi uomini. Infatti la strada regia che da Palermo portava a Catania, nel tratto di Caltanissetta, Pietraperzia, Barrafranca, P. Armerina, Mirabella Imbaccari, ecc. era impossibile percorrerla senza un suo permesso.
Il vicerè Giovanni Fogliani, spinto dalle naturali lamentele della nobiltà e della stessa corte di Spagna, cercò con ogni messo di risolvere il problema e decise di affidare l’eliminazione del brigantaggio ad uno dei primi esponenti della mafia siciliana: il principe Don Giuseppe Lanza di Trabia. Un personaggio che vedremo nella storia del Castello di Mussomeli dove addirittura ispirò degli intrighi bancari per appropriarsi della baronia di Mussomeli.
Le cronache di allora sono molto esplicite nel raccontare i metodi adottati dal “principe”:
“mise al suo comando qualsiasi Capitano d’Armi e qualsiasi Capitano di Giustizia delle Città e Terre di questo Regno, dover assistere con i loro soldati e Provvisionati sin tanto che da Vei saranno licenziati”.
Il 24 dicembre 1766 fece pubblicare un bando in cui si prometteva "a chiunque consegnerà vivo o morto nelle mani della giustizia Antonino Di Blasi Testalonga, onze 400, 100 per Antonino Romano, onze 100 per Giuseppe Guarnaccia ed onze 200 a chi li consegnerà morti, mentre, per chi segnerà la loro presenza e s’adopererà per la loro cattura, onze 50".
La repressione del banditismo non dipese solo dalle azioni militari  ma fu agevolata dalle delazioni, dai problemi che sorsero all’interno delle stesse bande con spaccature e tradimenti. Proprio a causa delle spaccature  la banda cominciò a perdere la sua imbattibilità e molti briganti vennero catturati ed impiccati. Il Guarnaccia venne catturato il 24 ottobre 1766 ed impiccato con alcuni suoi compagni (Michele Daidone, Stefano Santocono e Giacomo D’Amico). Le loro teste vennero inviate a Palermo… un atteggiamento che il Lanza avrebbe potuto fare a meno di evidenziare ma era abituato ai crimini… il 12 febbraio 1767 caddero a Mussomeli Arcangelo Di Vita, Raimondo Ciaccio, Antonio Vizzini e Raimondo Lo Presti. Romano, Testalonga ed altri tre, i più pericolosi, vennero catturati il 18 febbraio 1767 vicino al Lago di Pergusa e giustiziati. Le loro teste mozzate furono portate in giro per le strade e poi mandati nei loro paesi d’origine e poste davanti al castello perché facessero da monito !!!!!!


4i – La Robba San Miceli
Verso la fine del 1700 la “Robba” di San Miceli s’ingrandì per la presenza di nuovi coloni giunti dai paesi vicini  e richiamati dalla concessione delle terre della piccola baronia di Don Francesco Amorelli.  L’Amorelli aveva comprato nel 1781 la baronia da Don Francesco Paolo Cammarota, barone di San Miceli.

Stemma famiglia Amorelli ?
Una nobile famiglia oriunda della Calabria e che si stabilì ad Alessandria della Rocca


La famiglia Cammarota è citata dall’Inveges, dal Mugnos e dal Minutoli.
Sembra che sia originaria della Sicilia e residente a Palermo.
Famiglia nobile messinese del XVII secolo che ebbe
“un vescovo di Bova in Calabria”.

5 – Le Donne di Milocca e il loro coraggio – il Fascio dei Lavoratori

Disegno dell’arch. Salvatore Magro

Luigi Pirandello nel suo “I Giovani e i Vecchi” fece un elogio delle donne di Milocca per la loro rivolta. Un racconto in cui 500 donne seppero , in un sperduto villaggio della Sicilia centrale, alzare la voce di fronte alle angherie del padrone:





Per la speciosa denuncia di un mucchio di concime sparso non già fuori, ma nelle terre medesime d’un proprietario che non aveva voluto arrendersi ai nuovi patti colonici dei contadini del Fascio, la forza pubblica aveva tratto in arresto iniquamente e sottoposto a processo per associazione a delinquere il presidente e i quattro consiglieri del Fascio stesso.
E allora le donne del villaggio, in numero di cinquecento, indignate dell’ingiustizia e della prepotenza, s’erano scagliate come tante furie contro la caserma dei carabinieri, ne avevano sfondato la porta e tratto fuori i cinque arrestati; poi, ebbre di gioja per la liberazione dei prigionieri, avevano condotto in trionfo sulle braccia, per le vie del paese, uno dei carabinieri e le armi strappate loro dalle mani”.
(Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani)

3 Novembre 1893 le donne assaltarono la caserma dei Carabinieri e liberarono i loro uomini e i militanti del Fascio dei Lavoratori Siciliani. Le donne conquistarono, anche se per pochi minuti, la locale caserma.
Alla base della rivolta c’era anche il comportamento dell’Autorità Militare di Caltanissetta che, in base ai poteri conferiti dal Regime di Stato d’assedio, proclamato dal Governo del Regno d’Italia  per reprimere le agitazioni sindacali in atto in Sicilia, avevano proceduto all’arrest, come prigionieri di guerra, degli uomini validi del paese.  Uomini che erano stati tutti considerati militanti del Movimento Siciiano dei Fasci dei Lavoratori.
La sommossa coinvolse tutta la cittadinanza anche perché alla base c’era una forte crisi economica ed occupazionale. Ad incrementare il malcontento c’era la mancata distribuzione delle terre demaniali,  la mancata applicazione della legislazioni sugli usi civici e l’arroganza degli agrari. I proprietari  imponevano ai lavoratori un trattamento intriso di vessazioni e sfruttamento. Agrari che si avvalevano dell’apporto di uomini mafiosi e della complicità dei partiti dominanti e del Governo Italiano.
A Milocca le donne, molte delle quali mogli e figlie dei prigionieri, non si scoraggiarono. Si organizzarono segretamente e, creando una vera e propria strategia d’attacco, fecero un  improvviso assalto contro la caserma carcere. Irruppero inferocite, con grande coraggio riuscendo a soprendere ed a immobilizzare i carcerieri. Riuscirono a liberali tutti anche se incatenati.
Lo storico Santi Correnti scrisse in proposito: che le stesse donne, in molti casi, per fare prima, si caricarono sulle spalle gli uomini.
(Santi Correnti, “Calendario Siciliano”, Tringale Editrice, Catania, 1989, pag. 308).

Giovanni Cassenti, nato a Sutera nel 1886, fu testimone di quei fatti e scrisse una memoria su quegli avvenimenti dal titolo “Storia di un grande coraggioso Uomo”:

 “(Dopo l’arresto del Presidente Giuseppe Cannella) …si tiene una breve riunione alla Sezione, vengono inviati degli uomini nelle varie Robbe per chiamare tutti gli altri. Si decide di dividersi in gruppi e vigilare attorno alla Caserma. Si stabiliscono i segnali. Ormai è certo che il Cannella è stato arrestato. Domani dovrebbero tradurlo a Campofranco. Tutti sono d’accordo di impedire che questo avvenga. Ma nessuno vuole esporsi personalmente, non per paura ma perché sarebbe poi stato arrestato frustrando lo scopo che si prefiggevano. Decidono allora di fare intervenire le donne, tutte le loro donne, come se gli uomini fossero andati nei campi, mentre le donne avrebbero chiesto a gran voce: ‘restituiteci il nostro Presidente!’
Sul fare dell’alba una trentina di donne sono già nel piccolo cortile e trovano che al sommo della scala di accesso c’è un carabiniere di sentinella col fucile in mano e la baionetta innestata. Le donne, gridando, cominciano a chiedere la liberazione del loro presidente, qualcuna porta un bastone e minaccia. Il carabiniere con cenni della mano tenta di rassicurarle smentendo l’arresto del Cannella. Le donne né gli credono, né gli prestano attenzione e continuando a gridare, invocano la liberazione del loro Presidente.
Le  donne restano dove sono e riprendono il loro grido: “Liberateci  il Presidente!”. Il brigadiere rientra. Sono quasi le dieci antimeridiane; gli eventi precipitano, le minacce crescono e le donne sono più decise che mai ad ottenere la liberazione del loro Presidente. Ed ecco le prime che incominciano a salire gli scalini della scale di accesso.
Il carabiniere di guardia, vistosi minacciato così da vicino, fa partire un colpo di fucile a scopo intimidatorio, l’effetto però è diametralmente opposto di quanto sperasse: queste gli sono già addosso, lo disarmano e  poi lo trascinano giù per le scale. Si impossessano della sua arma e lo trattengono come ostaggio. Poi incominciano a chiamare il brigadiere proponendo uno scambio tra il loro ostaggio e il Cannella: solo così ritorneranno alle loro case, altrimenti… resteranno li fino a quando avranno ottenuto ciò che chiedono… tanto  i loro mariti, sono nei campi e torneranno la sera.
Il brigadiere che scruta attraverso i vetri della finestra, si rende subito conto che la situazione è divenuta insostenibile e che necessita prendere una decisione. Ad un tratto si spalanca la porta della caserma e compare assieme al Cannella. Le donne trattengono il fiato. Poi, quasi come Pilato, esclama: “Ecco il vostro presidente!”. Poi voltandosi verso il Cannella glidice: ”Lei è libero; può tornare a casa!”. Le donne lasciano libero il carabiniere che risale la scala, mentre il Cannella scende verso il cortile dove le donne intonano gli inni e i canti che conoscono; è un vociare festoso, un grido di giubilo di chi ha ottenuto vittoria. Il Cannella caricato sulle spalle delle donne viene portato in trionfo fino alla sezione. Il Villaggio (Balilla) in un batter d’occhio si spopola: tutti sono andati via e così anche i militi prendono la strada per Campofranco.
Di certo il comportamento della Sezione non fu un’ azione degna di lode, ma piuttosto un volere male al Presidente, la soddisfazione misera di godere di poche ore di trionfo, poiché il fatto non avrebbe cancellato i motivi dell’arresto e nessuno poteva illudersi che tutto ciò non avrebbe avuto gravi conseguenze.
Alcuni consigliavano al Cannella di rendersi irreperibile, altri di restare a casa, altri ancora di continuare la sua azione. La Sezione Socialista di Grotte, interpellata consigliava al Cannella di consegnarsi alla Stazione dei Carabinieri di Campofranco e chiedere clemenza per le donne e per i fatti accaduti. I consigli non furono ascoltati e tutto sembrava dimenticato quando tre giorni dopo questi fatti, tutte le strade di accesso alla frazione di Milocca furono bloccate. La sera verso le  22, guidati dai loro superiori erano arrivati più di cento tra Carabinieri e Bersaglieri…, procedendo all’arresto dei presenti alla manifestazione.
I loro informatori avevano svolto un buon lavoro: Erano le 11 dell’indomani e ben 13 donne e 47 uomini erano stati arrestati e portati in caserma. La paura s’impadronì della popolazione che fuggì per le campagne. Furono arrestati il Cannella e la moglie, in avanzato stato di gravidanza.
Nessun mezzo di trasporto fu apportato; neppure per le donne incinte. La colonna partì da Milocca  alle 12,30 verso Campofranco tra lo sgomento di tutti. Da qui venne  tradotta a Mussomeli. Durante la detenzione tre donne partorirono: la moglie del Cannella, la moglie di Giuseppe Diliberto inteso ‘Cartucciu’ e la moglie di Paolino Tona inteso ‘Burduni’. Il processo si celebrò dopo tre mesi:non si ebbero grave condanne, ma gli strascichi furono dolorosi, e per le borgate di Milocca e San Biagio fu un periodo di lutto.”

La sede del Fascio di Milocca


6 - La Miniera Giona – La disgrazia del 14 maggio 1900

Dall’Archivio del Corpo Reale delle Miniere è trascritto: “ 14 maggio 1900 ci fu una forte emissione di anidride solforosa e il numero delle vittime non fu mai rilevato “ e aggiungerei… o comunque non fu noto.
Sempre dagli Archivi del Regio Corpo delle Miniere di Caltanissetta, “ la miniera di zolfo di Giona, allora ubicata nel territorio di Caltanissetta e vicina all’abitato di Racalmuto, si apprende che era affittata nel 1874 in gabella alla società inglese “The Giona Sulphur Company Limited”. Dal 1874 al 1885 figuravano come direttori della miniera John Barker, una figura importante perché ricopriva la stessa carica in alcune miniere della Turchia; Pietro La Mene Foster, Mr Dalgairns, Louis Chambon, Alped Skidmose, Ernest Santelli (veniva dalla città di Catifao in Corsica), Salvatore Mosca e Leone Costantini , periti minerari di Agordo. I caporali o capimastri erano Pietro e Battista Vola, fratelli ed originari di Rueglio in prov. di Torino.
Nel 1886 sempre nella stessa miniera i direttori e rappresentanti della società inglese, erano tutti siciliani diplomati alla scuola Mineraria di Caltanissetta: Vincenzo, Calogero, Giuseppe, Michele Giammusso – Oliveri (fratelli).  In quegli stessi anni il direttore della società inglese “The Giona Sulphur Company” era l’ingegnere James Cunningham, originario di Bastia in Corsica ma residente a Londra. I fratelli Giammusso si fecero apprezzare per la loro onestà e dedizione e questo fu alla base di un importante legame imprenditoriale con la compagnia agevolato anche dal fatto che i giovani nisseni conoscevano la lingua inglese.
È piacevole ricordare come le vicende umane si leghino a comportamenti ricchi di sentimento e di ospitalità che fanno risaltare le concezioni di vita dei siciliani. La nipote dei fratelli Giannusso, Maria Pacinico, ricorda come l’ingegnere Cunningham venisse spesso a visitare la miniera ed era ospitato dalla madre Giuseppina. Qualche volta l’ingegnere era accompagnato dalla sorella Nelly, una “bella ragazza dai capelli lunghi biondi ed esperta cavallerizza”.
La signora Giuseppina era una donna allegra e vivace, e gli inglesi la chiamavano per questo “cardellina”.
Nel 1893 la società inglese affittò l’esercizio della miniera ai fratelli Sterlini di Porto Empedocle. Giuseppe Giammusso aveva sposato una sorella dei fratelli Sterili, Maria. Un’altra sorella di Maria sposò un componente della famiglia Montagna che era famosa per le attività nelle miniere di Grotte ma residenti a Porto Empedocle. I Montagna presero in gabella la miniera Giona nel 1895. Matrimoni che avvenivano secondo una consuetudine legata all’imprenditoria. La figlia di Giuseppe Giammusso, Clelia, sposò a sua volta nel novecento un famoso ingegnere, Umberto Cattanìa, emiliano, che fu direttore della miniera di Trabia negli anni ’20 prima dell’arrivo dell’ing. Lorenzo Bonaccorsi.
I fratelli Giammusso seppero meritarsi la fiducia della compagnia inglese tanto che uno dei Giammusso, Giuseppe divideva la sua attività lavorativa tra Caltanissetta, Racalmuto e Londra dove la società gli aprì un ufficio al 26 di Basinghall Street. Nel 1899 Giuseppe Giammusso ricevette l’incarico dell’esercizio della miniera di Giona e, quando agli inizi del Novecento, con la scoperta degli americani del metodo Frasch, si verificò il crollo del mercato zolfifero in Sicilia, gli inglesi abbandonarono la miniera che venne acquistata dallo stesso Giuseppe nel 1910.
Nella miniera Giona gli inglesi avevano creato abitazioni accoglienti per i tecnici ed i loro familiari. Spesso le loro famiglie si recavano proprio alla miniera per le vacanze dove era anche allestita una mensa con cuochi. Si parla di ceramica dipinta inglese che faceva parte del corredo della residenza della miniera.
Sempre nei tempi di massima attività la miniera era oggetto di visita da parte di tecnici stranieri, soprattutto americani e nord-europei anche per la gentile accoglienza che veniva esercitata.
Nell’anno 1896 uno dei fratelli Giammusso, Calogero, venne assassinato con alcune coltellate alla gola, mentre assieme ad un suo aiutante si recava a cavallo in un casolare isolato della miniera. In questo casolare alcuni zolfatai, dipendenti della miniera, avevano nascosto delle “balate” di zolfo che erano state trafugate dai carri che dovevano trasportarle a Porto Empedocle.
Venne ucciso anche l’aiutante di Calogero perché vide gli assassini. I due zolfatai, di Favara, padre e figlio, di nome Piscopo, furono subito individuati e successivamente condannati all’ergastolo. Nella cappella gentilizia della famiglia Giammusso presso il cimitero degli Angeli di Caltanissetta, è riportata sua una lapide un iscrizione che riporta il tragico fatto di sangue:

Ingegner Calogero Giammusso Giovane trentaquattrenne cuore e mente di artista leale colto operoso vittima del pugnale vigliacco di uomini bruti che non sepper sotto le spoglie dell’uomo ligio al dovere discernere il loro protettore. Caltanissetta, 1 febbraio 1896

Nel 1940 i figli di Giuseppe Giammusso  e di Maria Sterlini vendettero la miniera Giona al dottor Luigi Nalbone di Racalmuto. La miniera venne definitivamente chiusa nel 1961.
Rimangono alcuni batterie di forni Gill in pietra intagliata di gesso cristallino. L’artista Michele Tripisciano, la cui sorella Maria andò in sposa ad uno dei fratelli Giammusso, Vincenzo, fece un bozzetto in gesso della testa dell’ing. Cunningham.opera che dovrebbe trovarsi in possesso dei discendenti della miniera


7 - La “Tegulae Mancipum Sulfuris”


È la “tegola degli appaltatori di zolfo” cioè una tavoletta d’argilla con incisi i caratteri latini, in scrittura destrorsa e speculare. Oltre alla scrittura è impresso anche un simbolo non alfabetico.
Tavolette d’argilla che venivano inserite sul fondo di casseformi in legno, nelle quali veniva colato lo zolfo fuso. La matrice imprimeva sui panetti di zolfo il nome del produttore in ordinaria scrittura sinistrorsa. I simboli impressi, il nome e il simbolo, avevano probabilmente una loro funzione fiscale che è simile a quella impressa nei laterizi. Permettevano di definire la “tracciabilità del prodotto”, l’imposizione e l’esazione del portorium.
La tegola sembra che sia stata trovata dall’archeologo Antonino Salinas che diede comunicazione a Theodor Mommsen del ritrovamento e della sua funzione.
Fu proprio il Mommsen a definire la categoria epigrafica all’interno del suo libro nel quale vennero inseriti ben 14 esemplari, la maggior parte dei quali pervenuti in modo frammentario.
Il nome coniato da Mommsen proveniva dall’iscrizione latina, corrotta e frammentaria, che era leggibile su una di esse, la prima inserita nella serie del Corpus Inscriptionum Latinarum “mancip(m) /sulfors/ (pro) v(inciae) Sicil(iae)
Esemplari che risalgono al II – III secolo d.C. e che provengono dai territori di Comitini e Milena.
Sembra che i romani sfruttassero lo zolfo di Comitini e di Milena a partire dal 180 d.C. In una tavola fu infatti inciso in rilevo il marchio “Officjna Commodiana” (rinvenuta presso contrada “Puzzu Rosi”).

L’arte della tessitura a mano di una milocchese

8 - LE ROBBE  - Le “canzuni” delle Robbe
Circa 3000 abitanti sparsi tra un centro abitato e 14 villaggi che la gente chiama “Robbe” dove si coltiva ancora vicino casa il piccolo orto con gli aspetti quasi bucolici d’una volta.
Come abbiamo visto Milena nacque dalla fusione di due frazioni, “Milocca e San Biagio” che comprendevano ben 57 “robbe” a cui vennero dato dei nomi  legati a personaggi storici o ai soprannomi delle famiglie che l’avevano edificate.
Cascinali che erano spesso distanti tra loro qualche chilometro ma autonomi e funzionali nei propri bisogni. Quasi tutti avevano un cortile interno e strutturati in modo tale da potersi difendere dal banditismo. Il nuovo centro era quindi costituito dal centro urbano e dai villaggi di Masaniello, Cesare Battisti, Garibaldi, Grappa,, Cavour, ecc.
Molti di questi piccoli villaggi sono stati nel tempo inglobati nel centro urbano ma alcuni sono rimasti ancora come dei piccoli villaggi rurali Montegrappa, Masaniello, Bonfiglio e Liuzza) chiusi come quando erano abitati dal proprietario del fondo e dai guardiani ( rubattieri) che controllavano i fondi adempiendo all’interesse del loro padrone.

Leonardo Sciascia nel suo libro “Occhio di Capra” appella i contadini di Milena con il termine di “Milucchisi” e con “Salinaro” gli abitanti di Racalmuto per le attività minerarie.
Le sue “Robbe, sono la tipica espressione di un antica civiltà contadina.
Agli inizi del ‘900 Luigi Pirandello definiva la comunità di Milocca come “dimenticata da Dio e dagli uomini”.
Abbiamo visto come le vicende storiche abbiano consentito a tante famiglie contadine della borgata di Milocca di diventare, fin dal 1400, piccoli proprietari terrieri. Terre che erano concesse in enfiteusi perpetua dai monaci di San Martino. Famiglie che continuarono a vivere anche del lavoro autonomo per secoli, coscienti di essere responsabili delle proprie fortune espresse con la propria grande operosità. Una grande sensibilità espressa in un tempo in cui in gran parte della Sicilia era presenti le immagini atroci del latifondo  disabitato e della miseria diffusa legata ad un comportamento arrogante del governo
Il feudo di Milocca, a differenza quindi degli altri feudi, si può considerare come un feudo nobile che era esente dai balzelli onerosi del tempo e che aveva prima nella torre e successivamente nella fattoria-fortezza il suo centro amministrativo e giudiziario.
I milocchesi erano orgogliosi di essersi riusciti a creare da sé, senza la protezione ingannevole del padrone e il piccolo centro si può considerare forse come uno dei pochi in Sicilia che sia stato costruito dagli stessi contadini senza alcuna “licentia populandi”.
Costruirono la loro chiesa pietra su pietra quando guidati dal parroco, prima della messa domenicale, si recavano alla Rocca per prendere ciascuno una pietra da portare in cantiere.
Questa sensibilità, questa dignità di uomini e donne, ha permesso di dare vita a tutta una serie di “canzuni”, tipiche della comunità, nelle quali riesce si esprime il suo essere sia religioso che esistenziale.
Il grande storico di Milena, il prof. Arturo Petix, affermò che i canti “ rappresentano la caratteristica socio-culturale nella quale andava affermandosi la coscienza della propria differenziazione della società delle Robbe che, tra gli ultimi del 1400 e la prima metà del 1600, andavano formandosi nei feudi di San Biagio e di Milocca”.
Le Robbe piccoli agglomerati rurali formati dalle abitazioni che i contadini di Milocca, piccoli proprietari enfiteuti, andavano costruendo nelle terre loro assegnate. Costruzioni che si espandevano di generazione in generazione, sparse nel territorio in maniera spontanea. Formarono col tempo dei piccoli villaggi, le Robbe, che s’indentificarono con il termine di origine araba Milocca fino al 1900 quando qualcuno estraneo alla vita dell’agglomerato decise di cambiare il nome in Milena.
Nelle Robbe sono nati tanti canti popolari e diventò forse il luogo più adatto alla loro conservazione perché rappresentava spesso una base culturale del gruppo.
Le Robbe attirano studiosi stranieri e tra questi, alla fine degli anni ’30, la studiosa americana Charlotte Gower Chapman che giunse a Milocca per studiare la piccola realtà contadina di “Milocca, Villaggio Siciliano.

Charlotte Laura Gower Chapman
(Yeovil, 5 maggio 1902 – Washington, 21 settembre 1982)
Etnologa e scrittrice america.
Nel 1928 ricevette il dottorato in Antropologia all’Università di Chicago


Nel 2009 nell’ambito del Progetto Muse dell’Università del Nebraska (USA),
uscì il saggio “Living Memory Milocca’s Charlotte Gower Chapman” nel V° Volume
“Histories of Antropology Annual” a firma dei prof:
Sam Migliore, Professore di Antropologia Culturale alla Kwantlem University, College di Vancouver(Canada);
Margaret Dorazio – Migliore, antropologa in Storia delle Donne alla Colunbia University (Vancouver) e con
la collaborazione da Milena del prof. Vincenzo Ingrasci.

Alcune Note tratte dal suo libro:

 “Le canzoni (canzuni) ordinarie sono cantate, in tono minore e con note strascicate,
esclusivamente dagli uomini. Il contadino che cavalca da solo per la campagna
eleva la sua voce e canta canzoni d’amore che possono ascoltarsi a notevole
distanza: uno dei requisiti del buon canto sembra essere il volume sonoro. Le
parole della canzone possono essere di sua composizione, ma in genere sono scelte
da un lungo repertorio di versi analoghi appresi qua e la. Per le orecchie non
avvezze i motivi sembrano strani e tutti simili, ma coloro che li cantano asseriscono
che sono diversi. Somigliano molto alle melodie cantate dai mietitori, sebbene
queste abbiano parole di tipo religioso. Anche quando cantano in gruppo, gli uomini
non lo fanno all’unisono; c’e una successione di assoli cantati a turno da ognuno.
L’unica situazione in cui gli uomini cantano in coro e quella della settimana
santa: la sera del Giovedi Santo in chiesa e nella processione del Venerdi Santo.
Anche in questo caso la musica e dello stesso tipo generale che si ha nella canzuna.
Tranne che nella mietitura, dove le mani sono impegnate altrimenti, mentre si
canta si pone la mano destra di fianco alla bocca, come per amplificarne la voce.
E’ raro sentire uomini cantare arie in chiave maggiore.
Le canzoni delle donne, invece, sono piu spesso in chiave maggiore. Si cantano
di solito in coro, ad esempio quando gruppi di donne schiacciano le mandorle.
chiesa che nelle robbe. Le arie femminili possono eseguirsi pure in chiave minore,
pero senza le note strascicate tipiche delle canzoni maschili. Una ragazza mi
disse che una sera aveva cantato una canzuna nel vicinato, ma che il suo tentativo
di farlo alla maniera degli uomini cadde nel ridicolo. E’ raro che una donna intenta
a lavorare da sola canti, a meno che non si tratti di qualche nenia o ninnananna
per calmare o cullare un bambino agitato”
In merito ai temi trattati in queste canzoni, l’autrice scrive:
“In genere le parole della canzuni sono costituite da versi d’amore o di derisione
ai danni dell’ex amata. Abbastanza spesso le donne conoscono le parole di
parecchie canzoni di questo tipo, ma quelle che cantano, a parte i rosari, consistono
prevalentemente in poemi narrativi riguardanti la vita dei santi.
La musica strumentale sembra essere una prerogativa esclusivamente maschile.
Il marranzano, il piffero e la fisarmonica – strumenti dei contadini – sono
impiegati soltanto dagli uomini, al pari dei mandolini e delle chitarre, nonche degli
strumenti bandistici, prevalentemente utilizzati dagli appartenenti al ceto artigiano”.
“Le canzoni d’amore che i giovani milocchesi eseguono sono per lo piu di
autore sconosciuto. Si imparano a memoria e vengono trascritte solo dai rari individui
che ci tengono particolarmente a raccoglierle. La musica, mai scritta, e considerata
parte integrante della canzone, sebbene all’orecchio non abituato tutte la
canzuni sembrino simili. Sono nell’ottava rima tradizionale, la forma impiegata in
tutte le composizioni poetiche che abbiamo raccolto.
Nei canti d’amore ricorre ripetutamente una serie di temi: elogio dell’amata,
descrizioni dello stato d’animo dell’innamorato, promesse d’amore imperituro,
dichiarazioni di cio che l’innamorato farebbe per la sua amata se lo potesse, lamentele
per il trattamento subito dalla donna o dai suoi genitori”.
L’antica Milocca può quindi documentare un esperienza culturale propria con caratteristiche legate in maniera forte al suo passato.
Il prof.  Tullio Telmon scriveva che il compito degli studiosi è quello di “restituire un patrimonio culturale al popolo che ne è creatore….” perchè “la cultura si definisce in base all’ambito e alla scopo della sua funzione”.
Si conclude il mio viaggio a Milena con una breve filastrocca nata nelle Robbe sperando che le mie ricerche non vi abbiano stancato.. perché spero tanto che i miei scritti hanno come obiettivo quello di riproporre all’attenzione della gente il territorio con i suoi aspetti culturali e le sue tradizioni prima che se ne perda irrimediabilmente la memoria.

Dittura ca la liggi studiati
mparatimi lu mpiarnu unni si trova
c’e quattu galantuamini assittati
ca nni lu miazzu u mmaistru di skola
pigliativi lu libbru e studiati
ca a foglia a foglia lu mpiarnu si trova

Dottori che studiate la legge
insegnatemi dove si trova l’inferno
ci sono quattro galantuomini seduti
e nel mezzo un maestro di scuola
prendete il libro e studiate
pagina dopo pagina l’inferno si trova
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Quannu nascisti tu stidda lucenti
‘nterra calaru tri angiuli santi
vinniru tri re di l’orienti
purtaru cosi d’oru e di brillanti
tri aquili vularu pristamenti
dannu la nova a ponenti e livanti
bedda li to billizzi su potenti
ch’avi nov’anni chi ti sugnu amanti

Quando nascesti tu stella lucente
in terra calarono tre angeli santi
vennero tre re dall’oriente
portando cose d’oro e brillanti
tre aquile volarono prestamente
dando la notizia a ponente e levante
bella le tue bellezze sono eccezionali
che da nove anni ti sono amante.

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Arvulu siccu e virdi fa la foglia
ca ogbi foglia piglia la so via
dimmi cu voglia e dimmi cu nun voglia
comu mi scurdiro d’amari a tia
tutti cridiannu vutariti foglia
sempri ti truvu nni la fantasia
quannu l’uacchi la terra ci cummoglia
tannu mi scurdiro d’amari a tia

Albero secco e verde mette foglia
che ogni foglia piglia la sua via
dimmi chi vuole e dimmi chi non vuole
come mi scordero d’amare te
tutti credono che io abbia mutato parere
sempre ti trovo nella fantasia
quando la terra mi copre gli occhi
allora finiro d’amarti.


Hanno mantenuto per certi versi il oro fascino originario il Villaggio Montegrappa, “Robba Magaru” caratterizzato da antichi manufatti in gesso e il villaggio Masaniello, “Robba Ranni”, dove si trova la “Casa Museo della Civiltà Contadina” che è stata realizzata in un antico “dammusu”. Un antica unità abitatva che custodisce antichi strumenti della civiltà contadina per la lavorazione della terra, della lana, del lino, degli utensili di lavoro delle massaie.


La Chiesa Madre fu costruita per fare fronte al numero di fedeli che non potevano essere accolti nella piccola chiesa del monastero di San Martino del secolo XV. Monastero che fino al 1860 fu l’unico vero centro di aggregazione del paese. Per realizzare la struttura ci fu una vera e propria partecipazione di fedeli. Si spesero circa 3000 lire grazie alle offerte dei fedeli che si prestarono volontariamente per il trasporto delle pietre necessarie per l’edificazione. La domenica, prima della messa, gli uomini con gli animali da soma e le donne, sotto la guida del parroco, andavano in processione alla cava di Rocca per prendere ciascuno una pietra da portare in cantiere. La prima pietra fu posata il 3 luglio 1870 e dopo 11 anni, il 19 marzo 1881, la chiesa fu aperta al culto ( anche se fu ultimata solo nel 1931 con la realizzazione di cinque altari laterali con sculture del Biangardi).

“Robba Crispi”












Villaggio Montegrappa


9 - UN PRODOTTO TIPICO DELLE  “ROBBE”
       L’ MBRIULATA


La Ricetta x 4 – 6 persone;

Ingredienti per la Pasta:
-          500 g di farina di semola(grano duro) oppure farina tipo “0”
-          300 ml d’acqua
-          3 cucchiai d’olio d’oliva
-          50 g di strutto;
-          20 g di lievito di birra (circa un cubetto);
-          Un albume;
-          Sale.


Ingredienti per il Ripieno:
-          N. 3 patate medie;
-          300 g di carne di maiale tritata o salsiccia;
-          1 cipolla dorata piccola;
-          6 olive nere snocciolate;
-          4 cucchiai di formaggio pecorino grattugiato (circa 150 g);
-          Olio d’oliva;
-          Sale e pepe.

Preparazione:
-          Setacciare la farina e disporla a fontana sul piano di lavoro. Versare al centro l’acqua in cui si sarà sciolto il lievito di birra, due cucchiai di olio extra vergine d’oliva.  Iniziare ad amalgamare i prodotti e impastare per circa 10 minuti, aggiungere il sale e impastare ancora per 10 minuti. Si dovrà ottenere un composto liscio e sodo. Se necessario aggiungere altra farina fino a quando l’impasto non si attaccherà più sul piano di lavoro.se l’impasto sembrerà asciutto aggiungere pochissima acqua fino a quando si potrà lavorarlo agevolmente senza fatica.
-          Mettere l’impasto in una ciotola e lasciare lievitare per circa un ora nel forno spento e con la luce accesa

Preparare il condimento:
-          Pelare la patate e tagliarle a tocchetti. Farle rosolare in una padella con un po’ d’olio e sale;
-          Mondare e cipolle, tagliate molto grossolanamente e lasciare imbiondire con un poco d’olio extravergine e un pizzo di sale;
-          Aggiungere la carne con un po’ di sale e pepe e fare rosolare per un altro paio di minuti- se si adopera la salsiccia  bisogna rimuovere il budello;
-          ;
preparazione dell’Mbriulata

-          Prendere l’impasto e posatelo su un piano leggermente infarinato;
-          Dividere l’impasto in 6 palline di circa 140 g ciascuna;
-          Con un mattarello stendere ogni pallina fino ad assumere una forma rettangolare, più lunghe che larghe, e dello spessore di circa 4 mm;
-          Spennellare ogni sfoglia con olio extravergine d’oliva;
-          Distribuire su ogni sfoglia in modo eguale, le patate, la cipolla la salciccia o carne, il pecorino grattugiato, le olive e una spolverata di pepe nero;
-          - arrotolare la sfoglia e poi giratela in modo da avere sei “chiocciole, rivoltando il punto estremo verso il basso;
-          Spennellare la “spirale” con l’albume sbattuto;
-          Porre le “spirali” su una teglia rivestita di carta forno;
-          Infornare in forno preriscaldato a 180° per 25 – 30 minuti, cioè fino a quando avranno assunto un bel colore dorato.

(nel condimento si può mettere anche della verdura a foglia verde che è stata ripassata in padella) 
10 – Cartine (Google maps)


Monte Conca
ROCCA AMORELLA




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MONTE  CAMPANELLA




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LE ROBBE







I CASTELLI CENSITI NELLE RICERCHE




Commenti

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