Milena - Il Castello di Milocca - Le Robbe e il Monastero di San Martino
I Castelli della provincia di Caltanissetta
Indice
1.
Origine del Nome
2.
Il Castello – I Siti Archeologici – I Reperti (cenni) – Il tarì di Ruggero
II
3.
I Feudatari del Castello;
4.
Il Monastero di San Martino;
a)
La Fondazione;
b)
Le Vertenze giudiziarie con le città vicine;
c)
Lo sviluppo del Feudo;
d)
Le Ricerche Minerarie;
e)
La Ristrutturazione del Monastero;
f)
Descrizione Architettonica del Monastero;
g)
La nascita delle Robbe – il Monastero in Abbandono;
h)
Il Bandito Testalonga;
i)
La Robba San Miceli.
5.
Le Donne di Milocca e il loro coraggio – Il Fascio dei Lavoratori;
6.
La Miniera Giona – La disgrazia del 14 maggio 1900;
7.
La “Tegula Mancipum Sulfuris”;
8.
Le Robbe e le loro “canzuni”;
9.
L’Mbriulata , un prodotto tipico di Milena – Ricetta
10.
Cartine (Google maps)
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1 - Origine del nome
Milena, l’antica Milocca, è un centro di circa 3000 abitanti posto in Provincia
di Caltanissetta ad est del Fiume Platani.
Il termine “Milocca”
è di derivazione araba “Mulok”(ciliegio). Il centro nacque nel
1924 grazie ad un Decreto Regio (n. 3023 del 30 dicembre 1923) di Vittorio
Emanuele III di Savoia.
In base al decreto
venivano staccate la frazione di Milocca dal Comune di Sutera e quella di San
Biagio dal Comune di Campofranco. Le due frazioni costituivano un nuovo Comune
denominato Milocca
Nel 1933 il comune fu
ribattezzato “Littoria Nissena” e nello stesso anno il nome fu cambiato in
Milena, in omaggio alla regina Milena del Montenegro, madre della regina Elena,
moglie di Vittorio Emanuele III.
Milena Vukotic. Regina del Montenegro
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2 – Il Castello
- i Siti Archeologici – I Reperti
– Il Tarì di Ruggero II
Sul Monte Conca (437
m s.l.m.), posto tra la contrada Amorella e il fiume Gallo D’Oro, si trova un
vasto pianoro che domina il paesaggio fino al Monte San Paolino di Sutera. Sul pianoro la Sovrintendenza ha effettuato
degli scavi archeologici, iniziati nel 1977 e non so se proseguiti, portando
alla luce i resti di una fortificazione.
Si dice che fu
stilata una carta archeologica della zona.. ma è introvabile…..
Fu portata alla luce
la pianta quadra di una torre, (25 x 27)m, costruita con massi parallelepipedi.
Non so se gli scavi
siano continuati perché la scoperta meriterebbe, data anche l’importanza della
zona, di ulteriori studi e anche di visibilità comunicativa. Una torre a
presidio probabilmente dell’antica strada, che da Sutera portava a Milocca
passando per l’antico ponte romano, e del casale Milocca che sorgeva sul Monte
Amorella che fu indagine di scavo nel lontano 2000 e di cui i risultati, anche
in questo caso, non sono mai stati pubblicati (almeno su internet non c’è
traccia se non in qualche pubblicazione…. a pagamento).
Monte Conca è dal
1995 Riserva Naturale Orientata (RNO). Una Riserva che descriverò nella
prossima ricerca dedicata al centro di C.ampofranco.
Monte Conca
Monte Conca e il Fiume Gallo d’Oro
La
dott.ssa Lucia Arifa citò le origini del casale tardo-romano in contrada
Amorella e riscontrò nei documenti della
fine del 1200 e del 1300 vari riferimenti a due importanti assi viari pubblici.
Uno, il più importante che da Grotte portava a Sutera ed uno che da Racalmuto
portava a Milocca e da qui si innestava nel precedente, verso Sutera. “Lungo il
tracciato Grotte – Milocca – Sutera c’è una continuità di vita che è molto
chiara a partire dall’età romano-imperiale fino ad età normanna. Ne sono una
testimonianza i resti di una fortificazione dell'XI - ’II secolo trovati sul
Monte Conca a dominio della Valle del Gallo D’oro, proprio nel punto in cui
sono i resti d’un cospicuo ponte di attraversamento del fiume. I predetti assi
viari dovevano risalire ad epoche precedenti alla medievale e ipotizza che in
epoca romano imperiale la viabilità nella zona fosse in qualche modo innestata
all’Itinerarium Antonini. La ragione di tale deviazione sarebbe legata alla presenza
dell’attività estrattiva dello zolfo nei dintorni di Milena, un tempo
territorio di Sutera. Lo sbocco commerciale del prodotto verso la costa
agrigentina avrebbe richiesto, fin dall’epoca tardo romana, una specie di
bretella di collegamento all’asse viario principale. Grazie a questo
collegamento lo zolfo avrebbe potuto
facilmente raggiungere Agrigento e poi Porto Empedocle per essere imbarcato per
le varie destinazioni anche extra-isolane. L’attività estrattiva è testimoniata
dal ritrovamento in contrada Amorella di una lastra di terracotta, uno stampo
per pani di zolfo, in cui si cita il “liberto imperiale” M. Aurelio Commodiano.
La contrada Amorella fu abitata dai
romani in età imperiale come testimoniano le ceramiche, le tegole,
i vetri e gli oggetti metallici rinvenuti
negli scavi.
Furono trovati anche reperti medievali
come alcune anforette invetriate e decorate in
verde e bruno con motivi a
mandorla, bocchette in ceramica, lucerne.
È testimoniata anche una presenza arabo-normanna
con frammenti di ceramica solcata e invetriata verde e
fondi di scodelle con stemmi
nobiliari.
Fu anche rinvenuto un tarì d’oro
del periodo di Ruggero I – Ruggero II.
In Contrada Serra del Palco-Mandria
gli scavi hanno riportato alla luce delle ceramiche a
decorazione incisa ed impressa con
motivi semplici. Motivi costituiti da solcature, reticoli,
tratteggi, bande rosse alternate a
fasci di linee nere.
Negli insediamenti risalenti all’età
del rame, in contrada Monte Grande-Fontanazza, sono stati
rinvenuti corredi funerari, anse e
tazze.
A sinistra: “al –malik Rujar al-mu’tazz
billah”
(“Re Ruggero, potente per grazia di
Dio”), intorno ad un cerchio delimitato da sei cerchi più piccoli
con al centro un cerchio più
grande.
Il testo in caratteri arabi,
attribuisce al re Ruggero due titoli:
-
“immaginifico”(potente), cioè un titolo di tradizione occidentale
ma che viene attribuito anche ai
sovrani musulmani;
-
“Esaltato di Dio” (Per Grazia di
Dio), un titolo islamico.
La zecca e la data di emissione nel
bordo esterno
A destra: IC/XC
NI/KA
in due linee nel campo al fianco della
Croce
ΙΗCOYC XPICTOC (Iesoùs
Christòs Vine): Gesù Cristo in greco
Zecca e data nel
bordo esterno
(diametro 13 mm –
peso 1,47 g)
La moneta fu
coniata tra il 1130 e il 1140 d.C. (525 – 535 dell’Egira)
Sulle due facce
appare, per la prima volta, il nome con cui la città di
Palermo era nota
nel Mediterraneo arabo: “Màdina
Siquillyya”
la “Medina di
Sicilia”
A sud di Milena sul
Monte Campanella furono rinvenute due tombe a thòlos, la prima nel 1949 e la
seconda nel 1971, che risalgono alla tarda età del Bronzo (XIII secolo a.C.). Tombe
che furono rinvenute casualmente.
Una scoperta che conferma l’ipotesi
dell’insediamento di colonie Cretesi, in Sicilia, verso il 1200 a.C., prima per
rapporti commerciali e poi in forma definitiva.
Le tombe si trovano sulle pareti ovest del Palco
Campanella e la gente del luogo li
chiama “grotte dei Saraceni”.
La tomba a Thòlos trovata nel 1971.
Thòlos: interno
Secondo lo studioso Arturo Petix si tratta di
espressioni di gente egeo-cretese che abitarono la Valle del Platani verso la
fine del secondo millennio a.C.
La prima thòlos fu trovata casualmente nel 1949 e
sembrava un caso isolato, in ogni caso era un indizio importante perchè
espressione di una civiltà. La scoperta della seconda thòlos, dopo 22 anni,
fece capire agli archeologi che nel sito giunsero verso la fine del 1200 a.C.
delle colonie cretesi e instaurarono con i sicani, del preesistente villaggio,
un rapporto di pacifica convivenza.
La thòlos trovata nel 1949
Monte Campanella – Le Thòlos
Sempre in Contrada Campanella e nelle contrade di Rocca Grande e Serra del
Palco furono rinvenuti
corredi funerari del periodo greco costituiti da bocchette e piccoli vasi
attici a vernice nera.
Reperti databili tra il V ed il IV secolo a.C.
Un antica foto del ponte sul fiume Gallo D’Oro.
Oggi è mancante della parte centrale che crollò durante una piena del
fiume.
Milena – Museo Petix
3 – I Feudatari del Castello
Del castello di
Milocca non si hanno in realtà molte notizie. È documentato nella seconda metà
del 1200 anche se i materiali ceramici che sono venuti alla luce negli scavi, come
citano le scarse fonti, datano l’area abitata risalente all’XI secolo quindi in
epoca normanna.
Schematicamente le fasi storiche del castello sono:
fino al 1270 ( dal
1266 al 1282 la Sicilia era sotto la dominazione Angioina di Carlo I D’Angio)
il “casale e il feudo di Milloca” erano soggetti a Niccolò d’Aspello e
Guglielmo di Fazzarabia;
I “de Aspello”, (forse originari di
Noto e Siracusa) furono dei nobili protagonisti dei Vespri Siciliani
“Niccolò Aspello possedeva con Guglielmo Fazzarabia, il casale di
Molotta (Milocca) nel territorio
di Agrigento. Nel 1528 aveva occupato indebitamente i casali Chinens (
Chinesi, presso
Alessandria della Rocca), Avnramil (forse Ramilia, Motta di Camstra) e
Fonterosso.
Tutti feudi e casali appartenenti alla chiesa agrigentina. Il 15 maggio
1266, assieme alla moglie
Serena, li restituì al vescovo Gottifredo. Per riparare all’usurpazione
assegnò al vescovo una vigna,
“in compenso dei frutti ricavati da essi e delle decime non pagate”.
In un procura di Donna Damigella, del 20 marzo 1307 in Siracusa si legge:
figlia del fu Giordano da Canelli e di Tomasia de
Aspello - in capo a Guglielmo di Ventimiglia, suo marito,
per trasferirsi nelle parti della Liguria, e
specialmente in Canelli e Loazzolo, per prender
possesso dei beni tanto feudali sia allodiali, posti
in quelle terre e castelli, spettanti
a Damigella per l'eredità del Dominus Giordano da
Canelli, suo padre
La suocera del Conte Guglielmo di
Ventimiglia era una de Aspello e la sua famiglia
fu beneficiata l’1 giugno 1271
dall’infante Pietro D’Aragona
“nelle persone di Nicolò e Francesco fratelli de Aspello, già vassalli
di re
Manfredi di Svevia e poi alla corte della figlia Costanza di Svevia in
Barcellona”
Infatti nel privilegio si legge che
“(l’Infante) concede ai fratelli 200
soldi
barcellonesi mensili, per remissione di un debito dell’infante, nei
confronti degli Aspello,
di 6000 soldi” (Barcellona, Archivio de la Corona de Arago).
In merito a Guglielmo Fazzarabia
forse era un nobile con avi arabi.
Il suo nome era probabilmente
Guglielmo di Al Fazz.
Al Fazz è un villaggio nell’ovest
dell’Arabia Saudita. La regione è Makkah (o La Mecca)
e la sua capitale è proprio La
Mecca.
Dopo la
rivolta del 1267 il casale di Milocca fu confiscato all’Aspello e nel 1270 fu
assegnato da Carlo I D’Angiò a Jean de Roux di Avignone e a Guglielmo de
Raimondo de Bellomonte.
Non è facile stabilire l’origine dei “de Roux”.
Alcuni testi parlano di una loro origine a Borg-d’Oisans.
Si stabilirono a Chomèrac e infine a Lione.
Il Jean le Roux citato potrebbe essere Jean (I) le Roux (in brettone Yann
Iana r Ruz) (Giovanni I Il Rosso)
(1217 – castello de L’Isle, 8 ttobre 1286) –
Chiamato le “Roux” per il colore della sua barba. Fu Duca di Bretagna dal
1237 fino alla sua morte.
Nel 1270 partecipò con San Luigi (Luigi IX di Francia, passato alla storia
con l’appellativo di “Il Santo” e
canonizzato da papa Bonifacio VIII nel 1297) all’ottava crociata del 1270.
Famoso per l’editto che prescriveva l’espulsione degli ebrei dal ducato con
la cancellazione dei debiti contratti con loro.
Sposò, nel 1236, la principessa
Bianca, figlia del re Teobaldo I di Navarra.
Giovanni I Il Rosso
In merito a Guglielmo de Raimondo de
Bellomonte (Beaumont – Belmont – Bellomont) sarebbe
una nobile famiglia originaria di
Beaumont-le-Roger in Normandia
La famiglia francese scese in
Italia, come cita l’Inveges, prima del XII secolo, ponendo
la propria residenza in Sicilia.
Figura un Goffredo (Gottifredo), arcivescovo di Messina, e nel 1263
un Guglielmo che ricoprì nel 1265 la
carica di Grande Ammiraglio di Sicilia.
Il casato pose successivamente la
sua residenza a Sutera ove nacque Padre Luigi Belmonte che
fu provinciale del Convento di
Palermo dal 1715 al 1761. La famiglia da Sutera si
trasferì nella seconda metà del 1600 a Favara.
Il 13
gennaio 1278 il casale fu diviso fra Jean (I) de Roux ( Giovanni Rubeo o il
Rosso) e Perrono de Bellomonte, figlio quattordicenne del defunto Guglielmo
Raimondo ( che ricopriva, come abbiamo visto nella descrizione della famiglia,
la carica di Grande Ammiraglio di Sicilia).
Sempre nel
1278 il casale di Milocca è indicato come “quoddam casale
nomine Muloc”.. un villaggio di
pagliai protetto da un castello come si rileva da un documento dell’epoca che
cita l’esistenza di “paliarii” e di
un “castellum”.
Dopo le giornate del
Vespro (iniziato il giorno di Pasqua del 1282) c’è un periodo dove le fonti
storiche sono assenti. Il casale fu restituito agli Aspello e risulta che una Serena de Aspello, già
morta il 24 aprile 1332, (altre fonti
citano il 16/6/1332
- Asp, Tab. Magione, 608), aveva sposato
Marino “Capichi” cioè Mariano Capizzi che nel 1335 risulta titolare di Milocca.
Un antica e nobile famiglia di
Messina, di origine italiana e sparsa in varie città.
Alcuni studiosi citano la famiglia
di origine lombarda. Nel 1151 un barone “Gigaren di Capitzio” (Girardo di
Capizzi)
figura nella corte del Conte Simone
Aleramico e nel 1445 frà
Giovanni de Capisio fu testimone di
un atto relativo all’elezione di un Magistrato cittadino.
La famiglia Capizzi “stipulò” molti matrimoni con la nobile
famiglia Cesareo.
“Martio Capizzi fu cavalier fidelissimo al Re Federico II, e difese la
città
di Licata insieme con Pietro Lanza contro l’armata francese guidata da
Giovanni Chiaramonte, che l’aveva dal re rubata, per il ripudio della
sorella Costanza, che fece Francesco Ventimiglia Conte di Geraci”.
Martio sposò la sorella di Nicolò
Cesareo e nacquero Nicolò,ed Andrea Capizzi, che nel regno del
Re Martino ebbe per un anno il
governo della città di Lentini, per un altro anno la città di
Catania. Giovanni Pietro, suo
figlio, ebbe dal Re Alfonso quello della città di Augusta.
Serena de
Aspello portò in dote il “casale di Milocca” al marito Mariano Capizzi (“dominus Marino Capichi”).
Mariano
Capizzi sposò in seconde nozze Albamonte, figlia di Nicola Abate. Dal
matrimonio nacquero i figli Giacomo e Pandolfina. Nonostante fosse analfabeta,
fu stratigoto di Messina il 9 aprile
1334 e nel giugno 1335 difese Licata durante l’incursione angioina. Nel 1335
ricavava un reddito di 350 onze dai Casali: Rachalmali, Bucali (Ex feudo
Vocale, presso S. Elisabetta), Comertino ( Comitini), Milocca e Diesi.
1355 (circa) – “castrum dictum Milocca” è citato in una
lista di castelli e terre siciliane;
Mariano
trasmise il casale al figlio Giacomo che fu l’ultimo barone di Milocca.
Il barone
Giacomo il 4 febbraio 1363 donò il casale ai Padri Cassinesi del Monastero di
San Martino delle Scale.
(Il Barberi
– III, 207 cita il sito come “casale”
nel 1335 e poi come “feudo” nel 1363. Dopo Giacomo Capichi cita come barone
Nicola (II) Abate, subito dopo la Curia e successivamente Guglielmo Ventimiglia
nel 1397. Probabilmente il vastissimo feudo, prima della donazione del barone
Giacomo, fu diviso. In ogni caso il Nicola II era un parente della madre del
barone Giacomo)
Nel 1500 è citato
solo il “feudum Mulocce” e del
castello, probabilmente in rovina, non si fa alcuna citazione.
4 – Il MONASTERO
DI SAN MARTINO
4a – La Fondazione
Il
barone Giacomo Capizzi, facendosi monaco, donò il feudo ai monaci benedettini
dell’Abbazia di San Martino alle Scale di Palermo. Nel feudo era presente una fattoria con una piccola torre.
Monreale (Pa) – Abbazia di San
Martino alle Scale
Stampa del 1877
Il complesso abbaziale benedettino
fu fondato da Papa Gregorio Magno nel VI secolo.
Fu distrutto dagli Arabi nell’837 e
riedificato nel 1347 dal benedettino Angelo Senesio e
dedicato a San Martino, vescovo di
Tours. Nel corso dei secoli l’abbazia ha subito notevoli
interventi architettonici.
San Benedetto di Nursia scrive
la Sua regola.
Chiesa di Heiligenkreus
AbbeynearBaden , Lower – Austria
Dipinto di Hermann Nieq (1849 –
1928)
“Il Barone Giacomo andò al Monastero di San
Martino delle Scale, chiese di essere accolto in quella comunità… Richiesto
cosa lasciava dietro di sé, rispose che possedeva tre piccole chiuse … e
nient’altro”.
Nel XIII secolo il Casale di Milocca venne diviso in due parti: una ad
occidente e l’altra ad oriente.
Una divisione che caratterizzò il territorio per ben sette secoli, sino al
1923 quando nacque il centro di Milena.
La parte ad occidente apparteneva ad Antonio de Milocca e l’altra a Mariano
Capizzi. Fu proprio il figlio di Mariano, Giacomo, che decise di farsi monaco donando i suoi
averi, 900 salme di terra, con ratifica nel dicembre 1363, al Convento di San
Martino delle Scale di Palermo. Una donazione che legherà i padri al territorio
di Milocca caratterizzando la storia del centro.
Un
lascito importante per il tessuto sociale di Milocca perché il paese ebbe uno
sviluppo economico notevole. Il feudo malgrado, fosse un importante centro
agricolo, rimase privo di insediamenti tranne qualche piccolo casolare. Era
circondato da altri feudi: Delle Rose, dove sorse Campofranco; la città
demaniale di Sutera e di Racalmuto.
Nel’ 400 i Benedettini, entrati in possesso del feudo, cedettero ai
contadini le terre, che furono oggetto di migliorie, con contratti d’enfiteusi.
Venne costruito un luogo idrico , Musa, costituito da un abbeveratoio, una
fontana ed un lavatoio.
4b – Le vertenze
giudiziarie con le città vicine
Lo
storico Arturo Petix, nella sua pregevole ed attenta opera di ricerca storica
su Milocca, mise in risalto come i monaci Benedettini di San Martino alle Scale
di Palermo, da cui dipendeva il monastero di Milocca, dovettero affrontare
delle dure vertenze giudiziarie con le città di Racalmuto e di Sutera per gli
usi civici. Usi civici che le due città dichiaravano di esercitare da tanto
tempo nel feudo di Milocca e che naturalmente i monaci Benedettini di Palermo
contestavano.
Il
primo tentativo di affermare il diritto agli usi civici, da parte del barone di
Racalmuto, si verificò nel 1482.
Il
barone di Racalmuto, secondo le mie ricerche, doveva essere Giovanni II del
Carretto.
Ci
fu un immediato intervento della Regia Magna Curia con relativa diffida,
rivolta al Del Carretto, di “non
molestare nei feudi di Milocca, l’autorità del Balio e la vita degli stessi coloni”.
Il
“balio (baiulo o baglio)” era
l’ufficiale che teneva rinchiuso il bestiame errante e che quindi provocava dei
danni nelle terre altrui. Il luogo dove veniva rinchiuso il bestiame era detto “erranteria”. Quando il proprietario del
bestiame andava a ritirare il bestiame errante doveva pagare al “balio” una somma giornaliera detta “diritto di baglia”.
Aliminusa
(Palermo) – il Baglio
Presenta una
pianta rettangolare con una corte interna divisa dal palazzo signorile (a
destra).
I fabbricati laterali
servivano per l’abitazione della servitù, per i granai e le scuderie.
Nella parte
posteriore vi era un giardino con un pozzo d’acqua e l’erranteria.
Poco
dopo anche il Segreto di Butera, cioè il governatore della terra baronale alle
dipendenze o direttive del barone, pretese anche lui di avere diritto agli usi
civici sul feudo di Milocca. Il Segreto
rivendicava ill feudo di Milocca “di sua
generazione”.
I
monaci si rivolsero al Regio Patrimonio e nel 1500 il Segreto di Sutera venne
obbligato a rispettare l’autorità del “Baiulo” di Milocca “nell’esercizio delle proprie competenze e nell’ambito dei feudi della
baronia”.
Il
Regio Patrimonio diede incarico agli ufficiali di comunicare nella città di
Sutera il banco con cui veniva imposto “il
riconoscimento legale dei diritti di baiulazione, di carcere proprie, di dogana
e quanti altri diritti venivano esercitati in Milocca, dalla autorità di
Baronia”.
I
cittadini di Sutera furono inoltre obbligati a pagare l’uso del pascolo e per
quell’anno 1515, l’estaglio dell’uso doveva essere pagato al Giudice della
baronia di Milocca cioè al Notaro Bernardo Schillaci.
Le
sentenze e i bandi spesso non furono rispettati dagli abitanti di Sutera e
Racalmuto.
Nel
1522 una nuova vertenza giudiziaria con
la sentenza in cui veniva imposto agli ufficiali delle due citta usurpatrici di
“non ostacolare nelle loro competenze il
Giudice, il Balio, gli ufficiali e arrendatori di Milocca”.
“Il 15 settembre
1566 il capitano della città di Sutera dovette rimandare al foro di San Martino
di Milocca il processo contro il balio stesso della Baronia arrestato a seguito
di denuncia presentato contro lo stesso, Mariano Catarrasi, dal suterese
Bernardo Lo Puzzo, per il furto di quattro buoi e di quattro vacche che il
Catarrasi aveva preso al Lo Puzzo e portato a San Martino a Milocca nella
erranteria della baronia. L’ufficiale venne assolto perché aveva agito nella
giurisdizione di Milocca”.
4c – Lo sviluppo del
Feudo
Nel 1546 il monastero cedette per intero le terre alla famiglia Lo Puzzo di
Sutera. Con il passare degli anni il contratto fu discusso dalla Congregazione
Cassinense e giustamente l’affare venne valutato in negativo. Dopo circa 13
anni dalla concessione delle terre, nel 1559, le terre vennero riscattate.
I
monaci ripresero la concessione in enfiteusi dei terreni ai contadini che provenivano
da Sutera, Campofranco e, anche se in misura minore, da Grotte, Aragona e
Racalmuto. Avevano la possibilità di coltivare i terreni con superfici che
permettevano una sufficiente sussistenza. I contadini non abitarono nel feudo ma edificarono solo dei
magazzini e delle stalle. Verso la fine del 1700, tramite sopraelevazioni,
costituirono delle unità abitative per gruppi familiari dando origine alla
costituzione delle “Robbe” che si raggrupparono in ben quindici villaggi.
4d – Le Ricerche
Minerarie
Nel
1722 i monaci avviarono le ricerche per trovare lo zolfo nel feudo “Cimicìa”
che diedero esito positivo. I monaci del monastero concessero il diritto al
alcuni operai di ricercare lo zolfo e quindi di aprire un miniera concedendo,
in caso di risultati positivi, l’uso di due salme di terra contigua all’area
per l’esercizio della miniera stessa.
Il
contratto della gabella aveva una validità di sei anni e alla scadenza la
gestione della stessa miniera sarebbe passata direttamente al Monastero.
Nel
1780 era in attività una fiorente miniera che dava lavoro a molti operai con un
reddito consistente.
L’esito
positivo della ricerca diede l’avvio ad altre ricerche con alterni successi.
Le
terre continuarono ad essere concesse in affitto per il pascolo, mentre il
monastero gestiva in proprio le terre seminate a grano o bonificate. Furono
impianti degli oliveti e dei vigneti mentre nelle terre, che non erano adatte
al miglioramento agrario, vennero impiantati dei boschi con piante tipiche del
luogo..
L’abate Vito Amico
cita nel suo “Dizionario Topografico” che nella “contrada Cimicia del territorio di Sutera (oggi del territorio di Milena)
si
hanno in attività sei solfare, denominate Cozzo tondo, Grotta Nera, Giona,
Cinquegrani, Pietra bianca, possedute dal Monastero di San Martino della Scale
di Palermo, non soggette ad inondazione e con zolfo di 2° qualità che si cava nell’intero anno”.
4e – La Ristrutturazione
del Monastero
Nel settecento la struttura aveva bisogno d’interventi conservativi. La
torre, risalente alla fine Trecento – inizio Quattrocento, era in precarie
condizioni statiche. I padri diedero vita ad un nuovo edificio senza tralasciare
il senso della fattoria e aggiunsero un mulino, il palmento, l’oleificio, ecc.
Il progetto fu affidato agli architetti Giuseppe Venanzio Marvuglia ed
Ignazio Marabitti e altre maestranze intervennero nelle pitture. I due portali
scolpiti (foresteria e Chiesa) sono del Marabutti mentre il progetto in
generale e la scala centrale sono del Marvuglia.
4f – Descrizione
architettonica del Monastero
Il
risultato finale fu la creazione di una fattoria fortezza con compiti di
avvistamento. I monaci infatti avviarono una importante e notevole opera di
edificazione seguendo un modello delle fattoria fortificata della Sicilia
Occidentale che organizzava i vari ambienti attorno ad una grande corte,
baglio, che fungeva quindi da centro propulsore della struttura.
La
foresteria ed una piccola chiesa costituivano
il prospetto principale che era orientato a nord.
Chiesa
dal tetto a crociera e ornata da un bel portale d’ingresso sovrastato dallo
stemma dei cassinensi. La foresteria,
ornata da un bel portale, era divisa in due parti da un grande arco a sesto
acuto ed era un luogo d’incontro tra i monaci e la comunità.
Appena
superato l’arco d’entrata, che era sormontato da un piccolo corpo che aveva
funzione di guardia, si raggiungeva la vasta corte interna dalla pianta
regolare. Il lato più lungo della corte presentava un edificio più alto degli
altri. In questo edificio al primo piano si trovavano le celle dei monaci ed un
locale adibito ad ufficio amministrativo. Un piano che si raggiungeva grazie ad
una scala monumentale costituita da due rampe. All’incrocio delle due ampie
scalinate si trovava la porta d’accesso alle celle dei monaci sulla quale era
posta una lapide che ricordava la costruzione della fattoria ed i suoi scopi.
Una lapide, scritta in latino e scomparsa da tempo, che era sormontata da un piccolo
bassorilievo che raffigurava la Vergine Immacolata. Alcuni storici di Milena
nel lontano 1950 trascrissero l’epigrafe:
Lapide di San Martino
“Provvidus iste Pater fundens sua flumina cuncta
dona dabit rectis uberiore manu ut tamen infeste tradent formidine entes en
baculo reprobis incutit ipse metum at malis et urget permista superbia fastu
infernum metuint. Hoc monet ense reos. ANNO MDCCX ut secum
pauperes saturarentur panibus et ne sectantes suam operam Monachi Cassinenses.
Decrevere ex cap. XII vers. XI.”
“Provvido questo Padre che effonde i suoi fiumi e darà
a tutti i suoi doni, con mano generosa affinché le genti con ostile paura
tramandino quanto egli incute timore ai reprobi col bastone e li opprima con
avversità a causa della superbia mista a prodigalità e temano l’inferno. Con
questa spada ammonisce i rei. ANNO 1740. affinchè i poveri si saziassero con
esso di pane e seguendo l’ozio non fossero i più stolti di tutti, i Monaci
cassinnesi decretarono col capitolo XII verso XI la lavorazione della loro
terra”.
Alla fine delle due rampe della scala monumentale
c’era un ballatoio e attraversa una porta si accedeva in una sala d’attesa. A
sinistra c’erano probabilmente le piccole stanze dei monaci. Le stanze erano
disposte su un corridoio che, grazie ad ampie finestre, si affacciava sul
cortile. A testa dell’ingresso c’erano invece la stanze degli affittuari e
delle autorità del feudo.
Tutte le stanze avevano un soffitto a crociera
arricchito da stucchi ed erano arricchiti da quadri che avevano delle cornici a stucco.
Dalla
grande corte, tramite un passaggio simile al primo, si accedeva in un’altra
corte dalle dimensioni più piccole della prima. A sinistra il lato più corto
presentava una parte con un sistema di archi a tutto sesto forse adibite a
stalle dove in seguito si sarebbero costruiti una serie di abitazioni simili a
quelle che furono costruite intorno alla fattoria.
4g – La Nascita
delle Robbe – Monastero in abbandono
Con
tutti questi lavori, ricerca dello zolfo e nuovo edificio, altre famiglie si
aggiunsero a quelle preesistenti stabilendosi definitivamente nel feudo Milocca
e dando origine a quegli agglomerati i piccoli villaggi che presero il nome di
“Robbe”. “Robbe “ costruite da contadini che comprarono o ereditarono le terre
dei vecchi censuari e che erano anche attratte dal lavoro che l’imprenditoria
dei monaci proponeva., il monastero aveva bonificato tanti terreni e impianto
uliveti e vigneti e le terre che erano adibite al pascolo furono sostituite dal
maggese per meglio preparare il terreno per la semina del grano.
La
fattoria come nucleo principale contava alla fine degli anni sessanta qualche
gruppo abitativo. Oggi è tutto nell’incuria e nell’abbandono… un patrimonio che
s’è perso e che aveva bisogno di interventi periodici perché costruito con la
pietra da gesso come gran parte del patrimonio edilizio di Milena.
Le terre rimasero al monastero fino alla famosa soppressione dei beni
ecclesiastici del 1866.
Il sito è in abbandono..
4h –
Il Bandito “Testalonga”
La
presenza dei monaci e le loro attività fecero nascere nuove imprese. Nel 1724
sorse vicino al torrente Nadore il mulino di San Francesco di Paola che
resterà, per circa due secoli, uno dei più importanti del territorio. I mulini
di S. Giorgio e di Fontanafredda non erano facilmente raggiungibili a causa
delle piena del fiume.
Tra
il 1766 ed il 1767 il territorio subiva le gesta della famosa banda di Antonio
di Blasi detto “Testalonga”. Il
territorio di Caltanissetta era sotto le mire della banda e spesso si recava
anche a Milocca dove si fermava lungo il fiume Platani a conversava
amichevolmente con i pescatori di anguille. Allora il fiume era ricco di pesci
e le anguille erano numerosissime. I villaggi, “Le Robbe” erano già presenti ma
gli abitanti del luogo non subirono violenze da parte del bandito .. erano ben
altri i suoi obiettivi non certo quelli di colpire la povera gente che andava
avanti con sacrifici.
La storia del banditismo in Sicilia ha origini complesse.. non basterebbe
un trattato a spiegarne i motivi della sua nascita e diffusione. Il
“Testalonga” diventò un bandito perché il bargello gli uccise la madre. Da quel
momento diventò il bandito più temuto della Sicilia riuscendo ad organizzare
una banda che divise in tre gruppi. Un gruppo fu affidato al cognato Antonino
Romano di Barrafranca, uno a Giuseppe Guarnaccia di Regalbuto e l’altro era
sotto il suo comando.
Nei suoi territori si passava grazie ad un lasciapassare a pagamento che
veniva emesso dai suoi uomini. Infatti la strada regia che da Palermo portava a
Catania, nel tratto di Caltanissetta, Pietraperzia, Barrafranca, P. Armerina,
Mirabella Imbaccari, ecc. era impossibile percorrerla senza un suo permesso.
Il vicerè Giovanni Fogliani, spinto dalle naturali lamentele della nobiltà
e della stessa corte di Spagna, cercò con ogni messo di risolvere il problema e
decise di affidare l’eliminazione del brigantaggio ad uno dei primi esponenti
della mafia siciliana: il principe Don Giuseppe Lanza di Trabia. Un personaggio
che vedremo nella storia del Castello di Mussomeli dove addirittura ispirò
degli intrighi bancari per appropriarsi della baronia di Mussomeli.
Le cronache di allora sono molto esplicite nel raccontare i metodi adottati
dal “principe”:
“mise al suo comando qualsiasi
Capitano d’Armi e qualsiasi Capitano di Giustizia delle Città e Terre di questo
Regno, dover assistere con i loro soldati e Provvisionati sin tanto che da Vei
saranno licenziati”.
Il 24 dicembre 1766 fece pubblicare un bando in cui si prometteva "a chiunque consegnerà vivo o morto
nelle mani della giustizia Antonino Di Blasi Testalonga, onze 400, 100 per
Antonino Romano, onze 100 per Giuseppe Guarnaccia ed onze 200 a chi li
consegnerà morti, mentre, per chi segnerà la loro presenza e s’adopererà per la
loro cattura, onze 50".
La repressione del banditismo non dipese solo dalle azioni militari ma fu agevolata dalle delazioni, dai problemi
che sorsero all’interno delle stesse bande con spaccature e tradimenti. Proprio
a causa delle spaccature la banda
cominciò a perdere la sua imbattibilità e molti briganti vennero catturati ed
impiccati. Il Guarnaccia venne catturato il 24 ottobre 1766 ed impiccato con
alcuni suoi compagni (Michele Daidone, Stefano Santocono e Giacomo D’Amico). Le
loro teste vennero inviate a Palermo… un atteggiamento che il Lanza avrebbe
potuto fare a meno di evidenziare ma era abituato ai crimini… il 12 febbraio
1767 caddero a Mussomeli Arcangelo Di Vita, Raimondo Ciaccio, Antonio Vizzini e
Raimondo Lo Presti. Romano, Testalonga ed altri tre, i più pericolosi, vennero
catturati il 18 febbraio 1767 vicino al Lago di Pergusa e giustiziati. Le loro
teste mozzate furono portate in giro per le strade e poi mandati nei loro paesi
d’origine e poste davanti al castello perché facessero da monito !!!!!!
4i –
La Robba San Miceli
Verso la fine del 1700 la “Robba”
di San Miceli s’ingrandì per la presenza di nuovi coloni giunti dai paesi
vicini e richiamati dalla concessione
delle terre della piccola baronia di Don Francesco Amorelli. L’Amorelli aveva comprato nel 1781 la baronia
da Don Francesco Paolo Cammarota, barone di San Miceli.
Stemma famiglia Amorelli ?
Una nobile famiglia oriunda della Calabria e che si stabilì ad
Alessandria della Rocca
La famiglia Cammarota è citata dall’Inveges, dal Mugnos e dal Minutoli.
Sembra che sia originaria della Sicilia e residente a Palermo.
Famiglia nobile messinese del XVII secolo che ebbe
“un vescovo di Bova in Calabria”.
5 – Le Donne di Milocca
e il loro coraggio – il Fascio dei Lavoratori
Disegno dell’arch.
Salvatore Magro
Luigi Pirandello nel suo “I Giovani e i Vecchi” fece un elogio delle donne
di Milocca per la loro rivolta. Un racconto in cui 500 donne seppero , in un
sperduto villaggio della Sicilia centrale, alzare la voce di fronte alle
angherie del padrone:
Per la speciosa denuncia di un
mucchio di concime sparso non già fuori, ma nelle terre medesime d’un
proprietario che non aveva voluto arrendersi ai nuovi patti colonici dei
contadini del Fascio, la forza pubblica aveva tratto in arresto iniquamente e
sottoposto a processo per associazione a delinquere il presidente e i quattro
consiglieri del Fascio stesso.
E allora le donne del villaggio, in
numero di cinquecento, indignate dell’ingiustizia e della prepotenza, s’erano
scagliate come tante furie contro la caserma dei carabinieri, ne avevano
sfondato la porta e tratto fuori i cinque arrestati; poi, ebbre di gioja per la
liberazione dei prigionieri, avevano condotto in trionfo sulle braccia, per le
vie del paese, uno dei carabinieri e le armi strappate loro dalle mani”.
(Luigi Pirandello,
I vecchi e i giovani)
3
Novembre 1893 le donne assaltarono la caserma dei Carabinieri e liberarono i
loro uomini e i militanti del Fascio dei Lavoratori Siciliani. Le donne
conquistarono, anche se per pochi minuti, la locale caserma.
Alla
base della rivolta c’era anche il comportamento dell’Autorità Militare di
Caltanissetta che, in base ai poteri conferiti dal Regime di Stato d’assedio,
proclamato dal Governo del Regno d’Italia
per reprimere le agitazioni sindacali in atto in Sicilia, avevano proceduto
all’arrest, come prigionieri di guerra, degli uomini validi del paese. Uomini che erano stati tutti considerati
militanti del Movimento Siciiano dei Fasci dei Lavoratori.
La
sommossa coinvolse tutta la cittadinanza anche perché alla base c’era una forte
crisi economica ed occupazionale. Ad incrementare il malcontento c’era la
mancata distribuzione delle terre demaniali,
la mancata applicazione della legislazioni sugli usi civici e
l’arroganza degli agrari. I proprietari
imponevano ai lavoratori un trattamento intriso di vessazioni e
sfruttamento. Agrari che si avvalevano dell’apporto di uomini mafiosi e della
complicità dei partiti dominanti e del Governo Italiano.
A
Milocca le donne, molte delle quali mogli e figlie dei prigionieri, non si
scoraggiarono. Si organizzarono segretamente e, creando una vera e propria
strategia d’attacco, fecero un
improvviso assalto contro la caserma carcere. Irruppero inferocite, con
grande coraggio riuscendo a soprendere ed a immobilizzare i carcerieri.
Riuscirono a liberali tutti anche se incatenati.
Lo
storico Santi Correnti scrisse in proposito: che le stesse donne, in molti casi, per fare prima, si
caricarono sulle spalle gli uomini.
(Santi
Correnti, “Calendario Siciliano”, Tringale Editrice, Catania, 1989, pag. 308).
Giovanni
Cassenti, nato a Sutera nel 1886, fu testimone di quei fatti e scrisse una
memoria su quegli avvenimenti dal titolo “Storia di un grande coraggioso Uomo”:
“(Dopo l’arresto del Presidente Giuseppe
Cannella) …si tiene una breve riunione alla Sezione, vengono inviati degli
uomini nelle varie Robbe per chiamare tutti gli altri. Si decide di dividersi
in gruppi e vigilare attorno alla Caserma. Si stabiliscono i segnali. Ormai è
certo che il Cannella è stato arrestato. Domani dovrebbero tradurlo a
Campofranco. Tutti sono d’accordo di impedire che questo avvenga. Ma nessuno
vuole esporsi personalmente, non per paura ma perché sarebbe poi stato
arrestato frustrando lo scopo che si prefiggevano. Decidono allora di fare
intervenire le donne, tutte le loro donne, come se gli uomini fossero andati
nei campi, mentre le donne avrebbero chiesto a gran voce: ‘restituiteci il
nostro Presidente!’
Sul fare dell’alba
una trentina di donne sono già nel piccolo cortile e trovano che al sommo della
scala di accesso c’è un carabiniere di sentinella col fucile in mano e la
baionetta innestata. Le donne, gridando, cominciano a chiedere la liberazione
del loro presidente, qualcuna porta un bastone e minaccia. Il carabiniere con
cenni della mano tenta di rassicurarle smentendo l’arresto del Cannella. Le
donne né gli credono, né gli prestano attenzione e continuando a gridare,
invocano la liberazione del loro Presidente.
Le donne
restano dove sono e riprendono il loro grido: “Liberateci il
Presidente!”. Il brigadiere rientra. Sono quasi le dieci antimeridiane; gli
eventi precipitano, le minacce crescono e le donne sono più decise che mai ad
ottenere la liberazione del loro Presidente. Ed ecco le prime che incominciano a salire gli scalini della scale di
accesso.
Il carabiniere di guardia, vistosi minacciato così da vicino, fa
partire un colpo di fucile a scopo intimidatorio, l’effetto però è
diametralmente opposto di quanto sperasse: queste gli sono già addosso, lo
disarmano e poi lo trascinano giù per le scale. Si impossessano della sua
arma e lo trattengono come ostaggio. Poi incominciano a chiamare il brigadiere
proponendo uno scambio tra il loro ostaggio e il Cannella: solo così
ritorneranno alle loro case, altrimenti… resteranno li fino a quando avranno
ottenuto ciò che chiedono… tanto i loro mariti, sono nei campi e
torneranno la sera.
Il brigadiere che
scruta attraverso i vetri della finestra, si rende subito conto che la
situazione è divenuta insostenibile e che necessita prendere una decisione. Ad
un tratto si spalanca la porta della caserma e compare assieme al Cannella. Le
donne trattengono il fiato. Poi, quasi come Pilato, esclama: “Ecco il vostro
presidente!”. Poi voltandosi verso il Cannella glidice: ”Lei è libero; può
tornare a casa!”. Le donne lasciano libero il carabiniere che risale la scala,
mentre il Cannella scende verso il cortile dove le donne intonano gli inni e i
canti che conoscono; è un vociare festoso, un grido di giubilo di chi ha
ottenuto vittoria. Il Cannella caricato sulle spalle delle donne viene portato
in trionfo fino alla sezione. Il Villaggio (Balilla) in un batter d’occhio si
spopola: tutti sono andati via e così anche i militi prendono la strada per
Campofranco.
Di certo il
comportamento della Sezione non fu un’ azione degna di lode, ma piuttosto un
volere male al Presidente, la soddisfazione misera di godere di poche ore di
trionfo, poiché il fatto non avrebbe cancellato i motivi dell’arresto e nessuno
poteva illudersi che tutto ciò non avrebbe avuto gravi conseguenze.
Alcuni consigliavano
al Cannella di rendersi irreperibile, altri di restare a casa, altri ancora di
continuare la sua azione. La Sezione Socialista di Grotte, interpellata
consigliava al Cannella di consegnarsi alla Stazione dei Carabinieri di
Campofranco e chiedere clemenza per le donne e per i fatti accaduti. I consigli
non furono ascoltati e tutto sembrava dimenticato quando tre giorni dopo questi
fatti, tutte le strade di accesso alla frazione di Milocca furono bloccate. La
sera verso le 22, guidati dai loro superiori erano arrivati più di cento
tra Carabinieri e Bersaglieri…, procedendo all’arresto dei presenti alla
manifestazione.
I loro informatori
avevano svolto un buon lavoro: Erano le 11 dell’indomani e ben 13 donne e 47
uomini erano stati arrestati e portati in caserma. La paura s’impadronì della
popolazione che fuggì per le campagne. Furono arrestati il Cannella e la
moglie, in avanzato stato di gravidanza.
Nessun mezzo di
trasporto fu apportato; neppure per le donne incinte. La colonna partì da
Milocca alle 12,30 verso Campofranco tra lo sgomento di tutti. Da qui
venne tradotta a Mussomeli. Durante la detenzione tre donne partorirono:
la moglie del Cannella, la moglie di Giuseppe Diliberto inteso ‘Cartucciu’ e la
moglie di Paolino Tona inteso ‘Burduni’. Il processo si celebrò dopo tre
mesi:non si ebbero grave condanne, ma gli strascichi furono dolorosi, e per le
borgate di Milocca e San Biagio fu un periodo di lutto.”
La sede del Fascio
di Milocca
6 - La Miniera Giona – La disgrazia del 14
maggio 1900
Dall’Archivio
del Corpo Reale delle Miniere è trascritto: “ 14 maggio 1900 ci fu una forte emissione di anidride solforosa e il
numero delle vittime non fu mai rilevato “ e aggiungerei… o comunque non fu
noto.
Sempre
dagli Archivi del Regio Corpo delle Miniere di Caltanissetta, “ la miniera di zolfo di Giona, allora
ubicata nel territorio di Caltanissetta e vicina all’abitato di Racalmuto, si
apprende che era affittata nel 1874 in gabella alla società inglese “The Giona
Sulphur Company Limited”. Dal 1874 al 1885 figuravano come direttori della
miniera John Barker, una figura importante perché ricopriva la stessa carica in
alcune miniere della Turchia; Pietro La Mene Foster, Mr Dalgairns, Louis
Chambon, Alped Skidmose, Ernest Santelli (veniva dalla città di Catifao in
Corsica), Salvatore Mosca e Leone Costantini , periti minerari di Agordo. I
caporali o capimastri erano Pietro e Battista Vola, fratelli ed originari di
Rueglio in prov. di Torino.
Nel
1886 sempre nella stessa miniera i direttori e rappresentanti della società
inglese, erano tutti siciliani diplomati alla scuola Mineraria di
Caltanissetta: Vincenzo, Calogero, Giuseppe, Michele Giammusso – Oliveri
(fratelli). In quegli stessi anni il
direttore della società inglese “The Giona Sulphur Company” era l’ingegnere
James Cunningham, originario di Bastia in Corsica ma residente a Londra. I
fratelli Giammusso si fecero apprezzare per la loro onestà e dedizione e questo
fu alla base di un importante legame imprenditoriale con la compagnia agevolato
anche dal fatto che i giovani nisseni conoscevano la lingua inglese.
È
piacevole ricordare come le vicende umane si leghino a comportamenti ricchi di
sentimento e di ospitalità che fanno risaltare le concezioni di vita dei siciliani.
La nipote dei fratelli Giannusso, Maria Pacinico, ricorda come l’ingegnere
Cunningham venisse spesso a visitare la miniera ed era ospitato dalla madre
Giuseppina. Qualche volta l’ingegnere era accompagnato dalla sorella Nelly, una
“bella ragazza dai capelli lunghi biondi
ed esperta cavallerizza”.
La
signora Giuseppina era una donna allegra e vivace, e gli inglesi la chiamavano
per questo “cardellina”.
Nel
1893 la società inglese affittò l’esercizio della miniera ai fratelli Sterlini
di Porto Empedocle. Giuseppe Giammusso aveva sposato una sorella dei fratelli
Sterili, Maria. Un’altra sorella di Maria sposò un componente della famiglia
Montagna che era famosa per le attività nelle miniere di Grotte ma residenti a
Porto Empedocle. I Montagna presero in gabella la miniera Giona nel 1895. Matrimoni
che avvenivano secondo una consuetudine legata all’imprenditoria. La figlia di
Giuseppe Giammusso, Clelia, sposò a sua volta nel novecento un famoso
ingegnere, Umberto Cattanìa, emiliano, che fu direttore della miniera di Trabia
negli anni ’20 prima dell’arrivo dell’ing. Lorenzo Bonaccorsi.
I
fratelli Giammusso seppero meritarsi la fiducia della compagnia inglese tanto
che uno dei Giammusso, Giuseppe divideva la sua attività lavorativa tra
Caltanissetta, Racalmuto e Londra dove la società gli aprì un ufficio al 26 di
Basinghall Street. Nel 1899 Giuseppe Giammusso ricevette l’incarico
dell’esercizio della miniera di Giona e, quando agli inizi del Novecento, con
la scoperta degli americani del metodo Frasch, si verificò il crollo del
mercato zolfifero in Sicilia, gli inglesi abbandonarono la miniera che venne
acquistata dallo stesso Giuseppe nel 1910.
Nella
miniera Giona gli inglesi avevano creato abitazioni accoglienti per i tecnici
ed i loro familiari. Spesso le loro famiglie si recavano proprio alla miniera
per le vacanze dove era anche allestita una mensa con cuochi. Si parla di ceramica
dipinta inglese che faceva parte del corredo della residenza della miniera.
Sempre
nei tempi di massima attività la miniera era oggetto di visita da parte di
tecnici stranieri, soprattutto americani e nord-europei anche per la gentile
accoglienza che veniva esercitata.
Nell’anno
1896 uno dei fratelli Giammusso, Calogero, venne assassinato con alcune
coltellate alla gola, mentre assieme ad un suo aiutante si recava a cavallo in
un casolare isolato della miniera. In questo casolare alcuni zolfatai,
dipendenti della miniera, avevano nascosto delle “balate” di zolfo che erano
state trafugate dai carri che dovevano trasportarle a Porto Empedocle.
Venne
ucciso anche l’aiutante di Calogero perché vide gli assassini. I due zolfatai,
di Favara, padre e figlio, di nome Piscopo, furono subito individuati e
successivamente condannati all’ergastolo. Nella cappella gentilizia della
famiglia Giammusso presso il cimitero degli Angeli di Caltanissetta, è
riportata sua una lapide un iscrizione che riporta il tragico fatto di sangue:
Ingegner Calogero
Giammusso Giovane trentaquattrenne cuore e mente di artista leale colto operoso
vittima del pugnale vigliacco di uomini bruti che non sepper sotto le spoglie
dell’uomo ligio al dovere discernere il loro protettore. Caltanissetta, 1
febbraio 1896
Nel
1940 i figli di Giuseppe Giammusso e di
Maria Sterlini vendettero la miniera Giona al dottor Luigi Nalbone di Racalmuto.
La miniera venne definitivamente chiusa nel 1961.
Rimangono alcuni
batterie di forni Gill in pietra intagliata di gesso cristallino. L’artista
Michele Tripisciano, la cui sorella Maria andò in sposa ad uno dei fratelli
Giammusso, Vincenzo, fece un bozzetto in gesso della testa dell’ing.
Cunningham.opera che dovrebbe trovarsi in possesso dei discendenti della
miniera
7 - La “Tegulae
Mancipum Sulfuris”
È la “tegola degli appaltatori di zolfo” cioè una tavoletta
d’argilla con incisi i caratteri latini, in scrittura destrorsa e speculare.
Oltre alla scrittura è impresso anche un simbolo non alfabetico.
Tavolette d’argilla che venivano inserite sul fondo di
casseformi in legno, nelle quali veniva colato lo zolfo fuso. La matrice
imprimeva sui panetti di zolfo il nome del produttore in ordinaria scrittura
sinistrorsa. I simboli impressi, il nome e il simbolo, avevano probabilmente
una loro funzione fiscale che è simile a quella impressa nei laterizi. Permettevano
di definire la “tracciabilità del prodotto”, l’imposizione e l’esazione del
portorium.
La tegola sembra che sia stata trovata dall’archeologo Antonino
Salinas che diede comunicazione a Theodor Mommsen del ritrovamento e della sua
funzione.
Fu proprio il Mommsen a definire la categoria epigrafica
all’interno del suo libro nel quale vennero inseriti ben 14 esemplari, la maggior
parte dei quali pervenuti in modo frammentario.
Il nome coniato da Mommsen proveniva dall’iscrizione latina,
corrotta e frammentaria, che era leggibile su una di esse, la prima inserita
nella serie del Corpus Inscriptionum Latinarum “mancip(m) /sulfors/ (pro)
v(inciae) Sicil(iae)
Esemplari che risalgono al II – III secolo d.C. e che provengono
dai territori di Comitini e Milena.
Sembra che i romani sfruttassero lo zolfo di Comitini e di Milena
a partire dal 180 d.C. In una tavola fu infatti inciso in rilevo il marchio
“Officjna Commodiana” (rinvenuta presso contrada “Puzzu Rosi”).
L’arte della tessitura a mano di una milocchese
8 - LE ROBBE - Le “canzuni” delle Robbe
Circa 3000 abitanti sparsi tra un centro abitato
e 14 villaggi che la gente chiama “Robbe” dove si coltiva ancora vicino casa il
piccolo orto con gli aspetti quasi bucolici d’una volta.
Come abbiamo visto Milena nacque dalla fusione
di due frazioni, “Milocca e San Biagio” che comprendevano ben 57 “robbe” a cui
vennero dato dei nomi legati a
personaggi storici o ai soprannomi delle famiglie che l’avevano edificate.
Cascinali che erano spesso distanti tra loro
qualche chilometro ma autonomi e funzionali nei propri bisogni. Quasi tutti
avevano un cortile interno e strutturati in modo tale da potersi difendere dal
banditismo. Il nuovo centro era quindi costituito dal centro urbano e dai
villaggi di Masaniello, Cesare Battisti, Garibaldi, Grappa,, Cavour, ecc.
Molti di questi piccoli villaggi sono stati nel
tempo inglobati nel centro urbano ma alcuni sono rimasti ancora come dei
piccoli villaggi rurali Montegrappa, Masaniello, Bonfiglio e Liuzza) chiusi
come quando erano abitati dal proprietario del fondo e dai guardiani (
rubattieri) che controllavano i fondi adempiendo all’interesse del loro
padrone.
Leonardo
Sciascia nel suo libro “Occhio di Capra” appella i contadini di Milena con il
termine di “Milucchisi” e con “Salinaro” gli abitanti di Racalmuto per le
attività minerarie.
Le
sue “Robbe, sono la tipica espressione di un antica civiltà contadina.
Agli
inizi del ‘900 Luigi Pirandello definiva la comunità di Milocca come “dimenticata da Dio e dagli uomini”.
Abbiamo
visto come le vicende storiche abbiano consentito a tante famiglie contadine
della borgata di Milocca di diventare, fin dal 1400, piccoli proprietari
terrieri. Terre che erano concesse in enfiteusi perpetua dai monaci di San
Martino. Famiglie che continuarono a vivere anche del lavoro autonomo per
secoli, coscienti di essere responsabili delle proprie fortune espresse con la
propria grande operosità. Una grande sensibilità espressa in un tempo in cui in
gran parte della Sicilia era presenti le immagini atroci del latifondo disabitato e della miseria diffusa legata ad
un comportamento arrogante del governo
Il
feudo di Milocca, a differenza quindi degli altri feudi, si può considerare
come un feudo nobile che era esente dai balzelli onerosi del tempo e che aveva
prima nella torre e successivamente nella fattoria-fortezza il suo centro
amministrativo e giudiziario.
I
milocchesi erano orgogliosi di essersi riusciti a creare da sé, senza la
protezione ingannevole del padrone e il piccolo centro si può considerare forse
come uno dei pochi in Sicilia che sia stato costruito dagli stessi contadini
senza alcuna “licentia populandi”.
Costruirono
la loro chiesa pietra su pietra quando guidati dal parroco, prima della messa
domenicale, si recavano alla Rocca per prendere ciascuno una pietra da portare
in cantiere.
Questa
sensibilità, questa dignità di uomini e donne, ha permesso di dare vita a tutta
una serie di “canzuni”, tipiche della comunità, nelle quali riesce si esprime
il suo essere sia religioso che esistenziale.
Il
grande storico di Milena, il prof. Arturo Petix,
affermò che i canti “ rappresentano la
caratteristica socio-culturale nella quale andava affermandosi la coscienza
della propria differenziazione della società delle Robbe che, tra gli ultimi
del 1400 e la prima metà del 1600, andavano formandosi nei feudi di San Biagio
e di Milocca”.
Le
Robbe piccoli agglomerati rurali formati dalle abitazioni che i contadini di
Milocca, piccoli proprietari enfiteuti, andavano costruendo nelle terre loro
assegnate. Costruzioni che si espandevano di generazione in generazione, sparse
nel territorio in maniera spontanea. Formarono col tempo dei piccoli villaggi,
le Robbe, che s’indentificarono con il termine di origine araba Milocca fino al
1900 quando qualcuno estraneo alla vita dell’agglomerato decise di cambiare il
nome in Milena.
Nelle
Robbe sono nati tanti canti popolari e diventò forse il luogo più adatto alla
loro conservazione perché rappresentava spesso una base culturale del gruppo.
Le
Robbe attirano studiosi stranieri e tra questi, alla fine degli anni ’30, la
studiosa americana Charlotte Gower Chapman che giunse a Milocca per studiare la
piccola realtà contadina di “Milocca, Villaggio Siciliano.
Charlotte Laura
Gower Chapman
(Yeovil, 5 maggio
1902 – Washington, 21 settembre 1982)
Etnologa e
scrittrice america.
Nel 1928 ricevette il
dottorato in Antropologia all’Università di Chicago
Nel 2009
nell’ambito del Progetto Muse dell’Università del Nebraska (USA),
uscì il saggio
“Living Memory Milocca’s Charlotte Gower Chapman” nel V° Volume
“Histories of
Antropology Annual” a firma dei prof:
Sam Migliore,
Professore di Antropologia Culturale alla Kwantlem University, College di
Vancouver(Canada);
Margaret Dorazio –
Migliore, antropologa in Storia delle Donne alla Colunbia University
(Vancouver) e con
la collaborazione
da Milena del prof. Vincenzo Ingrasci.
Alcune
Note tratte dal suo libro:
“Le canzoni (canzuni) ordinarie sono
cantate, in tono minore e con note strascicate,
esclusivamente
dagli uomini. Il contadino che cavalca da solo per la campagna
eleva la sua voce
e canta canzoni d’amore che possono ascoltarsi a notevole
distanza: uno dei
requisiti del buon canto sembra essere il volume sonoro. Le
parole della
canzone possono essere di sua composizione, ma in genere sono scelte
da un lungo repertorio
di versi analoghi appresi qua e la. Per le orecchie non
avvezze i motivi
sembrano strani e tutti simili, ma coloro che li cantano asseriscono
che sono diversi.
Somigliano molto alle melodie cantate dai mietitori, sebbene
queste abbiano
parole di tipo religioso. Anche quando cantano in gruppo, gli uomini
non lo fanno
all’unisono; c’e una successione di assoli cantati a turno da ognuno.
L’unica situazione
in cui gli uomini cantano in coro e quella della settimana
santa: la sera del
Giovedi Santo in chiesa e nella processione del Venerdi Santo.
Anche in questo
caso la musica e dello stesso tipo generale che si ha nella canzuna.
Tranne che nella
mietitura, dove le mani sono impegnate altrimenti, mentre si
canta si pone la
mano destra di fianco alla bocca, come per amplificarne la voce.
E’ raro sentire
uomini cantare arie in chiave maggiore.
Le canzoni delle
donne, invece, sono piu spesso in chiave maggiore. Si cantano
di solito in coro,
ad esempio quando gruppi di donne schiacciano le mandorle.
chiesa che nelle robbe. Le arie
femminili possono eseguirsi pure in chiave minore,
pero senza le note
strascicate tipiche delle canzoni maschili. Una ragazza mi
disse che una sera
aveva cantato una canzuna nel
vicinato, ma che il suo tentativo
di farlo alla
maniera degli uomini cadde nel ridicolo. E’ raro che una donna intenta
a lavorare da sola
canti, a meno che non si tratti di qualche nenia o ninnananna
per calmare o
cullare un bambino agitato”
In
merito ai temi trattati in queste canzoni, l’autrice scrive:
“In genere le
parole della canzuni sono
costituite da versi d’amore o di derisione
ai danni dell’ex
amata. Abbastanza spesso le donne conoscono le parole di
parecchie canzoni
di questo tipo, ma quelle che cantano, a parte i rosari, consistono
prevalentemente in
poemi narrativi riguardanti la vita dei santi.
La musica
strumentale sembra essere una prerogativa esclusivamente maschile.
Il marranzano, il
piffero e la fisarmonica – strumenti dei contadini – sono
impiegati soltanto
dagli uomini, al pari dei mandolini e delle chitarre, nonche degli
strumenti
bandistici, prevalentemente utilizzati dagli appartenenti al ceto artigiano”.
“Le canzoni d’amore che i giovani
milocchesi eseguono sono per lo piu di
autore sconosciuto. Si imparano a memoria
e vengono trascritte solo dai rari individui
che ci tengono particolarmente a
raccoglierle. La musica, mai scritta, e considerata
parte integrante della canzone, sebbene
all’orecchio non abituato tutte la
canzuni sembrino simili. Sono nell’ottava
rima tradizionale,
la forma impiegata in
tutte le composizioni poetiche che abbiamo
raccolto.
Nei canti d’amore ricorre ripetutamente
una serie di temi: elogio dell’amata,
descrizioni dello stato d’animo
dell’innamorato, promesse d’amore imperituro,
dichiarazioni di cio che l’innamorato
farebbe per la sua amata se lo potesse, lamentele
per il trattamento subito dalla donna o
dai suoi genitori”.
L’antica
Milocca può quindi documentare un esperienza culturale propria con
caratteristiche legate in maniera forte al suo passato.
Il
prof. Tullio Telmon scriveva che il
compito degli studiosi è quello di “restituire
un patrimonio culturale al popolo che ne è creatore….” perchè “la cultura si definisce in base all’ambito e
alla scopo della sua funzione”.
Si
conclude il mio viaggio a Milena con una breve filastrocca nata nelle Robbe
sperando che le mie ricerche non vi abbiano stancato.. perché spero tanto che i
miei scritti hanno come obiettivo quello di riproporre all’attenzione della
gente il territorio con i suoi aspetti culturali e le sue tradizioni prima che
se ne perda irrimediabilmente la memoria.
Dittura ca la liggi studiati
mparatimi lu mpiarnu unni si trova
c’e quattu galantuamini assittati
ca nni lu miazzu u mmaistru di skola
pigliativi lu libbru e studiati
ca a foglia a foglia lu mpiarnu si trova
Dottori che studiate la legge
insegnatemi dove si trova l’inferno
ci sono quattro galantuomini seduti
e nel mezzo un maestro di scuola
prendete il libro e studiate
pagina dopo pagina l’inferno si trova
-------------------
Quannu nascisti tu stidda lucenti
‘nterra calaru tri angiuli santi
vinniru tri re di l’orienti
purtaru cosi d’oru e di brillanti
tri aquili vularu pristamenti
dannu la nova a ponenti e livanti
bedda li to billizzi su potenti
ch’avi nov’anni chi ti sugnu amanti
Quando nascesti tu stella lucente
in terra calarono tre angeli santi
vennero tre re dall’oriente
portando cose d’oro e brillanti
tre aquile volarono prestamente
dando la notizia a ponente e levante
bella le tue bellezze sono eccezionali
che da nove anni ti sono amante.
-----------------------------
Arvulu siccu e virdi fa la foglia
ca ogbi foglia piglia la so via
dimmi cu voglia e dimmi cu nun voglia
comu mi scurdiro d’amari a tia
tutti cridiannu vutariti foglia
sempri ti truvu nni la fantasia
quannu l’uacchi la terra ci cummoglia
tannu mi scurdiro d’amari a tia
Albero secco e verde mette foglia
che ogni foglia piglia la sua via
dimmi chi vuole e dimmi chi non vuole
come mi scordero d’amare te
tutti credono che io abbia mutato parere
sempre ti trovo nella fantasia
quando la terra mi copre gli occhi
allora finiro d’amarti.
Hanno mantenuto per certi versi il oro fascino originario
il Villaggio Montegrappa, “Robba Magaru” caratterizzato da antichi manufatti in
gesso e il villaggio Masaniello, “Robba Ranni”, dove si trova la “Casa Museo
della Civiltà Contadina” che è stata realizzata in un antico “dammusu”. Un
antica unità abitatva che custodisce antichi strumenti della civiltà contadina
per la lavorazione della terra, della lana, del lino, degli utensili di lavoro
delle massaie.
La Chiesa Madre fu costruita per fare fronte al numero di fedeli che non
potevano essere accolti nella piccola chiesa del monastero di San Martino del
secolo XV. Monastero che fino al 1860 fu l’unico vero centro di aggregazione
del paese. Per realizzare la struttura
ci fu una vera e propria partecipazione di fedeli. Si spesero circa 3000 lire
grazie alle offerte dei fedeli che si prestarono volontariamente per il
trasporto delle pietre necessarie per l’edificazione. La domenica, prima della
messa, gli uomini con gli animali da soma e le donne, sotto la guida del
parroco, andavano in processione alla cava di Rocca per prendere ciascuno una
pietra da portare in cantiere. La prima pietra fu posata il 3 luglio 1870 e
dopo 11 anni, il 19 marzo 1881, la chiesa fu aperta al culto ( anche se fu
ultimata solo nel 1931 con la realizzazione di cinque altari laterali con
sculture del Biangardi).
“Robba Crispi”
Villaggio
Montegrappa
9 - UN PRODOTTO
TIPICO DELLE “ROBBE”
L’
MBRIULATA
La Ricetta x 4 – 6
persone;
Ingredienti per la
Pasta:
-
500 g di farina di
semola(grano duro) oppure farina tipo “0”
-
300 ml d’acqua
-
3 cucchiai d’olio
d’oliva
-
50 g di strutto;
-
20 g di lievito di
birra (circa un cubetto);
-
Un albume;
-
Sale.
Ingredienti per il
Ripieno:
-
N. 3 patate medie;
-
300 g di carne di
maiale tritata o salsiccia;
-
1 cipolla dorata
piccola;
-
6 olive nere
snocciolate;
-
4 cucchiai di
formaggio pecorino grattugiato (circa 150 g);
-
Olio d’oliva;
-
Sale e pepe.
Preparazione:
-
Setacciare la
farina e disporla a fontana sul piano di lavoro. Versare al centro l’acqua in
cui si sarà sciolto il lievito di birra, due cucchiai di olio extra vergine d’oliva. Iniziare ad amalgamare i prodotti e impastare
per circa 10 minuti, aggiungere il sale e impastare ancora per 10 minuti. Si
dovrà ottenere un composto liscio e sodo. Se necessario aggiungere altra farina
fino a quando l’impasto non si attaccherà più sul piano di lavoro.se l’impasto
sembrerà asciutto aggiungere pochissima acqua fino a quando si potrà lavorarlo
agevolmente senza fatica.
-
Mettere l’impasto
in una ciotola e lasciare lievitare per circa un ora nel forno spento e con la
luce accesa
Preparare
il condimento:
-
Pelare la patate e
tagliarle a tocchetti. Farle rosolare in una padella con un po’ d’olio e sale;
-
Mondare e cipolle,
tagliate molto grossolanamente e lasciare imbiondire con un poco d’olio
extravergine e un pizzo di sale;
-
Aggiungere la
carne con un po’ di sale e pepe e fare rosolare per un altro paio di minuti- se
si adopera la salsiccia bisogna
rimuovere il budello;
-
;
preparazione
dell’Mbriulata
-
Prendere l’impasto
e posatelo su un piano leggermente infarinato;
-
Dividere l’impasto
in 6 palline di circa 140 g ciascuna;
-
Con un mattarello
stendere ogni pallina fino ad assumere una forma rettangolare, più lunghe che
larghe, e dello spessore di circa 4 mm;
-
Spennellare ogni
sfoglia con olio extravergine d’oliva;
-
Distribuire su
ogni sfoglia in modo eguale, le patate, la cipolla la salciccia o carne, il
pecorino grattugiato, le olive e una spolverata di pepe nero;
-
- arrotolare la
sfoglia e poi giratela in modo da avere sei “chiocciole, rivoltando il punto
estremo verso il basso;
-
Spennellare la
“spirale” con l’albume sbattuto;
-
Porre le “spirali”
su una teglia rivestita di carta forno;
-
Infornare in forno
preriscaldato a 180° per 25 – 30 minuti, cioè fino a quando avranno assunto un
bel colore dorato.
(nel condimento si
può mettere anche della verdura a foglia verde che è stata ripassata in
padella)
10 – Cartine (Google
maps)
Monte
Conca
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MONTE
CAMPANELLA
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LE ROBBE
I
CASTELLI CENSITI NELLE RICERCHE
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