Campofranco - Destinazione turistica d'infinite scoperte.


CAMPOFRANCO -  Provincia di Caltanissetta



Indice
1.      La Storia del Centro
a)      Origini – La Famiglia del Campo
b)      Eleonora Del Campo;
c)      Francesca lucchesi Del Campo fu costretta a farsi suora;
d)     I primi Principi di Campofranco – 1° parte fino al 1864 - Don Ettore Lucchese (Lucchesi) Palli;
e)      Campofranco sotto i Lucchese;
f)       Lo scandalo che coinvolse don Ettore Lucchese per il suo matrimonio con Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Borbone, Principessa delle Due Sicilie;
g)      Maria Carolina, una donna forte;
h)      Don Ettore Lucchese e Maria Carolina;
i)        I Principi di Campofranco fino al 1924 - da don Adinolfo Lucchese a don Enrico Lucchese;
j)        I Principi di Campofranco a Bolzano – Don Enrico Lucchesi e   , una storia d’amore con Raniera Maria d'Aburgo -Lorena;
k)      Bolzano – Il Ginkgo Biloba di Palazzo Campofranco- Un Regalo della Principessa Sissi - Il Palazzo Campofranco oggi;
l)        I Principi di Campofranco da Don Enrico Lucchese ad oggi;
2.      Il Ponte “Romano”;
3.      La Riserva Naturale Integrale di Monte Conca;
a)      Caratterizzazione Schematica della Riserva;
b)      Descrizione Geologica della RNI;
c)      Storia della Riserva;
d)     L’Inghiottitoio;
e)      La Risorgenza e la Paleorisorgenza;
f)       La Flora e la Fauna;
g)      Testimonianze Archeologiche (cenni);
h)    Video - L?Inghiottitolio di Monte Conca
4.      L’Attività Mineraria;
a)      La Miniera Zolfifera di Cozzo Disi - Dall'Abbandono a Museo;
b)      La Storia della Miniera - Il Conte della Bastiglia (Orioles e Gaetani Vanni);
c)      La Miniera tra il 1833 e il 1871 - Luigi Sanfilippo e la Richiesta per l'utilizzo della polvere da sparo;
d) Lavorazione del Minerale dal 1800; Calcheroni e Macchine a Vapore;
e) L'attività della Miniera dal 1891 al 1916
f) La Sciagura del 1916 - 89 morti - La Sentenza: Tutti Assolti;
f) 1930; Lettera di un medico del "Posto di Soccorso" della Miniera, alla fidanzata;
g) Momenti di vita della Miniera dal 1935 al 1948;
h) La Miniera dal 1950 al 1988 (anno di chiusura);
i) I "Carusi"  della Miniera... dimenticati - Il loro lavoro nelle miniere - il racconto di un "caruso"- il Contratto di Mutuo Soccorso - il lavoro minorile nell'arte.. una denuncia del problema - le prime leggi... inconcludenti - la tratta dei bambini nel 1866 in Italia.. pagina di storia dimenticata - le norme giuridiche
j) Le Donne nelle Miniere;
k) Momenti di Vita nelle Miniere raccontate dai protagonisti;

        5 - L'Industria della Montecatini - La teleferica - Villaggio faina
        6 - Video " L'Industrializzazione della Sicilia" - Istituto Luce Cinecittà - 10/05/1962
        7 - Video "Un Mestiere per Tututzzu".

Note: La Protesta del Duca d'Orleans (testo in francese e italiano)
          Accordo tra inglesi e Regno delle Due Sicilie per l'estrazione dello zolfo.
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1.a – Origini – La famiglia Del Campo

 Il casale di Campofranco fu fondato nel 1573 dal barone Giovanni del Campo grazie ad una licenza regia per poi passare ai Lucchese Palli che lo elevarono a Principato.
Nel 1549 la famiglia Del Campo perse l’importante baronia di Mussomeli per una serie di eventi e disavventure causate dagli intrighi di Cesare Lanza. Al barone Del Campo rimasero quattro feudi: Zubbio (Monte Conca), Castelmauro, San Biagio e Fontana di Rose.


Secondo il Galluppi la famiglia sarebbe originaria di Treviso mentre il Minutolo pone la sua origine a Firenze.
 Famiglia nobile a Messina e a Palermo. Federico Campo sotto re Pietro I d’Aragona possedeva Bivona e Caltabellotta.
Un Pietro, milite, figlio di Luigi, maestro razionale del Regno, acquistò nel 1463 Vicari e nel 1467 Mussomeli,
venduto da un Andreotto nel 1541, eccettuati però i feudi di Castelmagro,  S. Blasi, Lo Zubbio e Fontana delle Rose; che un Giovanni, a dicembre 1571, ottenne di popolare.
Un Francesco, barone di Mussomeli, a 23 giugno 1498 fu nominato capitano d’armi di Girgenti;
un Girolamo fu senatore di Palermo 1527-28 ma morì prima di prender possesso di tale carica;
un Pietro Antonio tenne la stessa carica negli anni 1556-57-58 e quella di capitano di giustizia nell’anno 1524-25; carica occupata da un Giovanni nel 1528-29, da un Francesco, barone di Campofranco e cavaliere dell’ordine di S. Giacomo della Spada, nel 1581-82 e 1590-91.


I signori Del Campo furono proprietari di Mussomeli fino al 1548, quando con la morte dell'ultimo barone Andreotta e a causa delle molte passività che gravavano sulla baronia, cedettero la terra di Mussomeli a don Cesare Lanza barone di Castania e di Trabia, che dall’1 Febbraio 1550 divenne ufficialmente barone di Mussomeli.

Trabia (Pa) - Castello dei Lanza

Il Castello di Mussomeli (Caltanissetta) – ex proprietà dei Del Campo

Nel 1549 i Del Campo si ritirarono a vita privata e Giovanni Del Campo decise, per risollevare le sorti della nobile casata, di popolare uno dei suoi feudi. Il 10 febbraio 1573, Filippo II di Spagna, figlio di Carlo V, diede la “licentia populandi” per edificare un casale che si sarebbe chiamato “Campofranco”.
“Campo”  in riferimento alla nobile casata e “franco” perché il nuovo casale era dotato di “franchigie” e terreni gratuiti che vennero concessi per 10 anni ai contadini ed agli artigiani che si recarono sul poggio del Feudo “Funtana di li Rosi”
Nel feudo di Fontana di Rose era già presente un piccolo casale. Un casale costituito da case, per lo più capanne di pastori e contadini, magazzini. Il villaggio era difeso da una torre.
Il barone Giovanni Del Campo stipulò infatti  “i capitoli della baronia” con alcuni cittadini di Sutera per un buon rapporto sociale. Si concordarono le gabelle, franchigie, agevolazioni, censi, privilegi, diritti e doveri. La presenza di questi capitoli, contenenti numerose agevolazioni, attirò altra gente dai piccoli centri vicini. Il borgo naturalmente s’ampliò con la costruzione di chiese, mulino, forni, ecc.
La vita del paese cominciò ad assumere gli aspetti sociali ed economici tipici di tutti i comuni. Il Governatore don Giovanni Lo Burgio, per rendere più accogliente il nuovo borgo, spianò il terreno davanti al castello, destinandolo a piazza grande, mentre di fronte, in leggero pendio, sorse la chiesa Madre, dedicata a San Giovanni Evangelista. Cominciarono a costruirsi le prime case. Ai lati della piazza grande, sorsero il forno, il macello, qualche bottega e il fondaco, che erano costruzioni di proprietà del Barone.
L'amenità del luogo e la bellezza del paesaggio contribuirono al progressivo espandersi della popolazione: nel 1583 il primo censimento della popolazione registrava 117 fuochi cioè famiglie, e 462 anime; poco più di dieci anni dopo, nel 1595, erano salite a 910.
I Campo  tennero il paese fino al 1622.. un possesso contrastato da liti familiari.
Nel 1622 la giovanissima Eleonora Del Campo ( Lo Campo), Baronessa e Signora di Campofranco con investitura dell’11 dicembre 1609,  sposò a Palermo, il 22 gennaio 1618, Don Fabrizio Lucchesi Palli (nobile di Sciacca e Naro).
Eleonora era figlia unica del terzo barone di Campofranco, Ercole del Campo e di Francesca Grimaldi.
Ercole Del Campo, prima di morire, il 9 dicembre 1608, pregò la figlia di seppellirlo senza abito con un canale di terracotta per cuscino e con la tunica di frate cappuccino, in uno spazio segreto dell’altare della Chiesa di S. Francesco di Assisi.

Campofranco – Chiesa di san Francesco detta localmente Chiesa di San Calogero.
.Fu edificata, con annesso convento, nel 1573 e affidata ai frati Francescani.
All’interno una tela seicentesca, “L’Andata al Calvario” e la statua di
San Calogero opera dello scultore di Gangi, Filippo Quattrocchi, famoso
la produzione di statue in legno e colorate a tempera.
(Gangi, 13 febbraio 1738; Palermo, 1813)

https://www.ebay.it/itm/CAMPOFRANCO-Piazza-Crispi-e-Chiesa-Madre-1931-/232920894140

Don Fabrizio Lucchesi diventò barone di Campofranco per “maritali nomine”, giurò fedeltà al re di Spagna il 17 luglio 1625 e fu primo Principe di Campofranco con privilegio del 13 luglio 1625, esecutivo dal 30 luglio 1625. (Morirà a Naro il 13 ottobre 1631).


1.b – ELEONORA  DEL CAMPO
Eleonora, dopo la morte del padre e il successivo matrimonio  nel 1610 della madre Francesca Grimaldi con don Francesco de Bonomia, venne affidata ai suoi tutori che concessero in gabella il Principato di  Campofranco a Matteo Lucchese. Matteo Lucchese, ricco ed influente barone della Damisa (Sciacca), pensò di accasare la giovane Eleonora facendola sposare con Fabrizio Lucchese, figlio del cugino. Un matrimonio legato ad interessi come era consuetudine nelle nobili famiglie.
Don Fabrizio dovette ricomprare, con le sue risorse finanziarie, le soggiogazioni che si erano accumulate nella baronia di Campofranco e per fare ciò verso una somma non indifferente per renderla libera…11.929 onze.
Francesco, fratello di Fabrizio,  aveva sposato il 3 febbraio 1609 Francesca Perollo, Baronessa della Culla (un feudo vicino Caltabellotta) ricevendo in dote la baronia con successiva investitura.
Ricevette dal padre Antonino II la Baronia della Grazia, il territorio di Montalto di Jacone Filippo posto nel territorio di Licata e onze 1.000annuali di varie soggiogazioni sopra il patrimonio immobiliare di Palermo dal giorno del suo matrimonio. Tutte queste donazioni vincolate “con la stretta proibizione di non poterli alienare, ma con l’obbligo di farli restare vincolati e soggetti alla restituzione del fidecommisso, con la successione di figli, nipoti e pronipoti legittimi e naturali in perpetuo. Nel caso di morte di Francesco senza figli maschi, o femmine sarebbe succeduto lo stesso Antonino II ed infine Fabrizio, l’altro figlio o i figli di lui, eredi, nipoti o pronipoti. Quindi sarebbero succedute le figlie Caterina ed Elisabetta, in egual parte, ed i figli delle stesse, nipoti e pronipoti in infinito” .Nel 1611 lo stesso Antonino II Lucchese stipulò anche una donazione (e atto d’emancipazione) in favore del figlio Fabrizio a cui concedeva i territori di Mangiavitale, Iazzovecchio e Falzina, con mulino d’acqua nel territorio di Naro e che “morto Fabrizio senza figli, o con figli, e quelli morti senza figli, che successo avesse in detti beni coll’istesso vincolo, Francesco suo secondogenito”.
Il 22 gennaio 1618, come abbiamo visto, Fabrizio sposò Eleonora Lo Campo con “dotali di nozze” stipulati dal notaio Allegra.
Il 10 marzo 1621 moriva a Naro Don Antonio II Lucchese Alotto e Fexon, Barone della Gresta e Grazia dei Baroni di Delia.
Don Antonino II Lucchese Palli

http://www.igtodaro.it/25VICOL/sito28/ANTONINO%20L.P.ALOTTO.htm

Nel 1622 Fabrizio prestò giuramento sulla baronia acquisita sposando Eleonora mentre il fratello Fabrizio era perseguitato dalla giustizia per la morte del “miserando” Ottavio Buglio e per questo motivo spodestato dei titoli. Per sfuggire al carcere si mise alla “macchia” e probabilmente, a causa delle ripetute fatiche, prese una polmonite e morì il 6 agosto 1624.
Fabrizio, dopo la morte del fratello che era Marchese di Lucca, si oppose alla pretese della cognata Francesca Perollo. Si giunse alle vie giudiziarie dove Fabrizio affermava come i “possedimenti del fratello fossero di sua pertinenza secondo la legge del fidecommisso”.
Il 13 giugno 1625 Fabrizio venne nominato Principe di Campofranco “anche nei suoi eredi e nei suoi successori con tutte le prerogative, diritti e dignità” con Reale Diploma di Filippo IV.
Concessione che procedeva per principe, suoi eredi e successori, con ordine di primogenitura.
Nel 1627 Fabrizio e Francesca Perollo raggiunsero un accordo. Il Marchesato di Lucca sarebbe rimasto alla Perollo con altre soggiogazioni mentre la baronia delle Grazie con le case di Naro a Fabrizio.  Il 30 novembre 1630 Fabrizio con la moglie Eleonora ricevette l’investitura della Baronia delle Grazie. Con Eleonora ebbe due figli, il primogenito Antonino e Francesca. Disgraziatamente fu colpito da una terribile malattia  e, nel giro di pochi giorni prima di morire, chiese di “essere sepolto vestito da Cappuccino nella Chiesa del Collegio della Compagnia del Gesù di Naro”. Morì il 14 ottobre 1631 dopo aver nominato la moglie Eleonora tutrice dei figli.
Eleonora fu una donna saggia ma sfortunata, perché dopo appena un anno dalla morte del marito, morì il 31 maggio 1632.
Lasciò come eredi i suoi due figli: Antonino sotto la tutela dello zio Girolamo Grimaldi, che in nome del piccolo nipote, prese l’investitura delle terre il 24 ottobre 1632 e Francesca, che dallo stesso zio, fu “istituita sua erede particolare, nella dote di pareggio, alla medesima dovuta sopra lo stato di Campofranco”.

2.c  – Francesca Lucchesi Del Campo fu costretta a farsi suora

Don Antonino (nato dopo il 1618; morto nel 1652) – 2° principe Campofranco con investitura del 22 settembre 1636, prese l’amministrazione dei suoi feudi. Tutto il patrimonio del fu Don Antonino II Lucchese fini nel potere del nipote Don Antonino.  L’immenso patrimonio economico della famiglia scatenò la cupidigia di Don Antonino mentre la sorella Francesca, ancora bambina, era amorevolmente accudita dalla nonna materna Donna Francesca Grimaldi Bologna, marchesa d’Altavilla
La Grimaldi, figlia di Giulio Grimaldi barone di Santa Caterina e di Risichillia, rimasta vedova di Ercole Del Campo, si era risposta il 5 maggio 1610 con Francesco Maria Bologna (Capitano di Giustizia,  Maestro razionale del Real Patrimonio e proprietario di innumerevoli feudi)  marchese d’Altavilla. Dal loro matrimonio nacquero: Antonino, Pietro, Giulio, Agata e Francesca Eleonora che si fece suora nel monastero di Santa Caterina “le donne” in Palermo.
Stemma della famiglia Bologna (Beccadelli) Grimaldi

Altavilla Milicia (Palermo)



Altavilla Milicia – Torre di Guardia

Don Antonino Lucchese, reso cieco dall’avidità di ricchezza, si lasciò andare ad un azione da vero e proprio crimine. Prese la sorella Francesca con la violenza e, contro la volontà della nonna e di altri parenti, la rinchiuse nel Monastero di Badia Nuova a Palermo. Era consuetudine che gli zii, Baroni di Delia Damisa e Camastra, andassero a soggiornare per un po’ di tempo a Campofranco come ospiti dei Lucchese. In quelle occasioni Francesca aveva conosciuto il cugino Salvatore. I due avevano un buon rapporto, erano bambini e si lasciavano andare a lunghe cavalcate. Lo sguardo del fratello Antonino non era compiaciuto. Li spiava e sperava che gli zii andassero via al più presto. Una volta rinchiusa in convento, furono forti le pressioni del fratello per convincerla a prendere i voti. Il comportamento del fratello era legato alla sete di potere economico… non voleva dividere il suo patrimonio familiare. Francesca non voleva farsi suora, non aveva alcuna vocazione per la religione, ma lui usò tutto il potere,, anche con violenze, per costringerla a prendere i voti e a professare le regole del monastero. Francesca diventò, contro il suo volere, educanda nel Monastero di Monte Uliveto della Badia Nuova di Palermo dove rimase fino all’età di 18 anni.


Si spogliò di tutti i suoi beni.. l’eredità paterna e materna, tolta la dote monastica che peraltro era molto scarsa, per rinunzia passò al fratello. Francesca dopo un anno di noviziato fu avviata alla professione di religiosa contro il suo volere.

 La  piccola chiesa del Monastero di S. Maria di Monte Oliveto, a destra della Cattedrale.
Sede dell’antico Arcivescovado, fu fatto edificare da Gualtiero Offamilio e poi abbandonato nel
XV secolo. Nel 1512 le suore Olivetane ripristinarono il complesso e,  tra il 1622 e il 1624,
affidarono il progetto di ampliamento a Mariano Smiriglio.
L’edificio fu restaurato nel dopoguerra ed è oggi sede  del Seminario Arcivescovile di Palermo.
http://www.terradamare.org/badianuova-serale/


 Don Antonino sposò il 3 giugno 1651, nella Chiesa di S. Croce a Palermo, donna Flavia Alliata (Agliata) e Bellacera, figlia di don Giuseppe Alliata e Casani, barone della Scannatura, e Margherita Bellacera.
La coppia abitava nella strada “Lo inciacato della Bandiera”, un tenimento di grandi case in più corpi, nel quartiere “Siralcadi” di Palermo.

 Un quartiere fondato dagli Arabi,noto anche con l’appellativo di “Il capo”. Si entra nel quartiere
attraverso la Porta Carini.  È una delle zone preferite dai turisti perché
il mercato conserva ancora oggi molte delle sue caratteristiche originarie.
A sinistra la chiesa del Monastero di S. Maria di Monte Oliveto.

Palermo - Porta Carini
http://palermo.gds.it/2016/10/22/il-mercato-del-capo-ripulito-per-la-visita-di-renzi-a-palermo-le-foto-prima-e-dopo_580432/

Per uno strano gioco del destino abitavano nello stesso quartiere in cui era situato il Monastero dove don Antonino aveva rinchiuso la sorella.
Una vita tranquilla per Don Antonino avvolto dalle sue immense ricchezze fino a quando, improvvisamente, fu colpito da una grave morbo.  Tra sofferenze, anche morali per il lascito di tutto quelle ricchezze di cui aveva privato anche la sorella, fece testamento lasciando il tutto alla moglie ed al figlio… un figlio che non nacque. Morì il 2 aprile 1652 e fu sepolto a Palermo nella cripta della chiesa di San Giuseppe dei Teatini, Non ebbe quindi eredi legittimi, si cita solo un figlio naturale Fabrizio che, dopo aver avuto le sue spettanze secondo le leggi del tempo, svanì nel nulla. La linea maschile del casato si estinse… ci fu un momento di sbandamento… si aspettava un figlio ma tutti sapevano come la moglie di Don Antonino fosse falsa e solo compiaciuta dell’aumento delle sue risorse finanziarie. Dopo poco tempo sposò Antonio Romano Colonna, Duca di Reitano. Ma per ironia della sorte donna Flavia Alliata rimase delusa se non defraudata. Nei suoi stolti programmi c’era la progettata vendita del principato di Campofranco, con relativo titolo, a Don Stefano Riggio che era parente per discendenza dei Del Campo e in possesso della Baronia della Grazia su sue direttive. Lungo il tortuoso progetto s’inserì improvvisamente il cugino di Francesca, don Gaspare Maria Fardella, figlio della zia Caterina Lucchese, figlia di Antonino II e sorella di Fabrizio che ne pretendeva giustamente il possesso. Era l’unico discendente più prossimo della linea di Caterina  che era stata chiamata alla successione dietro l’estinzione della linea maschile (investito della Grazia nel 1653).

Donna Francesca, “Suor Eleonora”, subito dopo la morte del fratello si sentì libera da ogni impegno e cominciò a rivedere dopo tanto tempo il cugino Salvatore. Tra i due s’instaurò un rapporto profondo e mise nelle mani del cugino il suo destino. Grazie ad una suora, Francesca riuscì ad avere un incontro con l’avvocato Campanella  a cui rilevò la sua situazione. Gli chiese di interessarsi per chiedere la nullità della sua professione come “principio ed impedimento a riconquistare le terre di Caampofranco e delle Grazie”. Un possesso che era contrastato da tutti i suoi parenti che erano interessati alla successione dei beni. Promise all’avvocato lauti compensi che al momento non poteva concedere.
Per l’avvocato una causa difficile anche per i suoi risvolti extragiudiziari che avrebbe avuto a corte, nella nobiltà e nella Corte Arcivescovile. Nonostante i problemi la giustizia, stavolta, riuscì a trionfare. Eleonora Lucchese riuscì con il suo coraggio a sfuggire anche alle accuse di un possibile processo da parte del tribunale dell’Inquisizione.
Bisogna ricordare che lo stesso tribunale fu sciolto il 6 marzo 1782 con un decreto Regio di Ferdinando III di Sicilia dopo 500 anni di continui soprusi e omicidi velati da una falsa ideologica cristiana. Nel 1658  fu liberata dai voti monacali con la sentenza di nullità della sua professione e Don Salvatore chiese alla Corte Pontificia la dispensa necessaria per sposare la cugina.
Il giorno 11 maggio 1658 nella Chiesa di San Giacomo alla Marina, Francesca sposò il cugino Salvatore, figlio di Nicola Antonio Lucchese dei Baroni di Delia e Laura Valdina Ventimiglia. (L’atto venne registrato  nel 1661.)

Planimetria della distrutta chiesa di San Giacomo la Marina

Palermo – Piazza San Giacomo – Chiesa di Santa Maria La Nova (fine Ottocento)
La Chiesa di San Giacomo alla Marina sorgeva su una precedente moschea ed era adiacente alla
Chiesa di Santa Maria La Nova formando un unico edificio
La chiesa fu demolita nel 1860 in seguito ai danni causati dai forti e devastanti bombardamenti
borbonici. Bombardamenti legati ai moti rivoluzionari della Gancia.

Contratto di Matrimonio tra Salvatore Lucchese e Francesca Del Campo Lucchese
Registro 1657- 1658: f. 28
“hic intrat matrimonium D. Salvatoris Luchisi”
14 Ind. 1661 sub die 6 Januarij”.

Dopo il matrimonio il barone e l’avvocato prepararono l’iter procedurale, con testimoni e documenti, per il recupero del principato.
Nel 1659 dopo lunghi dibattimenti, avvolti da azioni da accesi diatribe, la corte con una sentenza definitiva condannò  al risarcimento tutti coloro che avevano avanzato pretese e relativi diritti sul principato.
Francesca e Salvatore presero possesso della Baronia della Grazia il 20 febbraio 1663 con investitura del 18 luglio 1667;  Francesca del titolo di 3° Principessa di Campofranco nel 1668 ed investita con il marito il 2 febbraio 1679 (nomine maritali). Una donna  che salvò la famiglia e la discendenza, sfidando la chiesa, le istituzioni e i parenti grazie al suo coraggio e alla sua dignità.
Si trasferirono a Palermo dove tennero corte accanto a quella del vicerè e inaugurando un periodo felice della loro storia.
Dal matrimonio nacquero quattro figli: Giovanni, Fabrizio, Antonino e Domenico.
Francesca morì il 24 ottobre 1683 e venne sepolta nella cripta della Chiesa di San Giuseppe dei Teatini a Palermo. Salvatore morì il 18 agosto 1694 e per testamento chiese di essere sepolto accanto alla moglie.

Lettera della Regina di Spagna che accorda 6 mesi di proroga per causa
possessoria Stato di Campofranco


 Recupero del Principato di Campofranco
Lettera riconoscente del Vicerè di Sicilia – 29 Aprile 1662





Il figlio Giovanni fu IV principe di Campofranco.

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1.d – I Principi di  Campofranco fino a Don Ettore Lucchese (1° parte  fino al 1864)

-       -          Don Giovanni ( 1658 ?, 15/12/1694) – 4° principe di Campofranco, con investitura del 15 dicembre 1694 (capitano di Giustizia di Palermo nel 1691, Pretore di Palermo nel 1692, Governatore della Compagnia di carità di Palermo nel 1692) – si sposò il 21 ottobre 1695 con Donna Stefania del Bosco, figlia di Don Vincenzo, 2° Principe di Belvedere, e di Donna Eleonora Beccadelli Bologna;

-          Don Emanuele (postumo 1696 + Palermo 28-11-1719), 5° Principe di Campofranco alla nascita (investito il 7-9-1696), investito della baronia di Regalmallina il 15-6-1698. Sposò a Palermo l’8-4-1712, Donna Domenica Gallego, figlia di Don Gaetano, 4°Principe di Militello, e di Donna Melchiorra Moncada (+ Palermo 30-5-1790);

-          Don Antonio ( Palermo 26-7-1716 + Napoli 28-10-1803), 6° Principe di Campofranco dal 1719 (investito il 20-11-1720) e 2° Duca della Grazia dal 1729; (Capitano di Giustizia di Palermo nel 1738 e 1739, Colonnello di fanteria e cavalleria siciliana, Gentiluomo di Camera con esercizio del Re di Napoli e Sicilia, Maestro Razionale di Cappa in soprannumero del Tribunale del Real Patrimonio nel 1754, Cavaliere dell'Ordine di San
Gennaro dal 2-2-1766, Brigadiere dal 1772, Maggiordomo Maggiore della Regina di Napoli e Sicilia nel 1786, Maresciallo di Campo dal 1775, Tenente Generale dal 1790.
Sposò il  9-6-1734 Donna Anna Maria Tomasi, figlia di Don Ferdinando, Principe di
Lampedusa (+ Palermo 10-1-1751)

-          Don Antonio (Palermo 17-5-1781 + Napoli 26-4-1856), 7° Principe di Campofranco e 3° Duca della Grazia dal 1803 (investito il 26-7-1805),
( Senatore di Palermo nel 1800, Luogotenente Generale di Sicilia nel 1822 e 1832, Ministro delle finanze, degli esteri e della guerra, Presidente della Consulta Generale del Regno delle Due Sicilie, Senatore di Palermo e Gentiluomo di Camera del Re delle Due Sicilie.)
Sposò a  Palermo il 30-7-1800 Donna Maria Francesca Pignatelli Tagliavia d'Aragona
Cortés, figlia di Don Ettore 9° Principe di Noia e 12° Duca di Monteleone.
(* Barra 2-9-1784 + Palermo 21-4-1837) (Dal Matrimonio: Don Emanuele Lucchese Palli, 8° principe di Campofranco; Donna Bianca Lucchese Palli,  duchessa della Grazia; Don Ettore Carlo Lucchese Palli.

-          Don Emanuele (1803 + 9-1-1891), 8° Principe di Campofranco dal 1856 rinuncia al  
titolo Ducale in favore del fratello Ettore; ( Cavaliere dell'Ordine di San Gennaro,
Gentiluomo di Camera con esercizio del Re delle Due Sicilie.
Sposò il  31-5-1818 Donna Emanuela Marziani, figlia di Don Salvatore, Principe di
Furnari, e di Donna Bernarda Inveges e Valguarnera

-          Conte Don Ettore Carlo (Palermo 2-8-1806 + Brunnsee 1-4-1864), 9° Principe di Campofranco, 4° Duca della Grazia dal 1856 per rinuncia del fratello; ( diplomatico napoletano; Gran Croce di Giustizia dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio, Balì Gran Croce d'Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta.
Sposò a Roma il 14-12-1831 Carolina di Borbone Principessa delle Due Sicilie
(*Caserta 5-11-1798 + Brunnsee 16-4-1870), già vedova di Carlo di Borbone Principe di Francia e Duca di Berry - Dama dell'Ordine della Croce Stellata, Dama di Croce di Giustizia dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio. Dal matrimonio: Donna Anna Maria Rosalia Lucchesi Palli; Donna Clementina Maria Lucchesi Palli; Don Mario Adinolfo, 10° principe di Campofranco)
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1.e – Campofranco sotto  i  Lucchesi

Sotto i Lucchesi il paese non mostrò grandi segni di vitalità. I soprusi, le angherie diedero origine ad una serie di ribellioni che vennero stroncate con la forca che era impressa all’ingresso del paese. Il bandito Testalonga, il colera e la peste compresa quella del 1867 non influirono positivamente sullo sviluppo sociale del centro.
 I principi Lucchesi Palli risiedevano stabilmente a Palermo, nel palazzo omonimo in Piazza Croce dei Vespri. Un palazzo fatto costruire da  Don Ettore su progetto di Emmanuele Palazzotto.  A Campofranco i Lucchese avevano il palazzo baronale e lo stesso Don Ettore fece ristrutturare nel 1859 la piccola chiesa con convento intitolata a S. Francesco d’Assisi  su progetto di Giovan Battista Palazzotto, figlio di Emmanuele Palazzotto.

Don Ettore Carlo Lucchesi Palli

Palermo – Palazzo Lucchesi Palli

Campofranco – Palazzo Lucchesi Palli

Il paese era ricordato per le scarse contribuzioni. Ci fu qualche caso di rivolta nei confronti dei feudatari. Rivolte che furono stroncate con la forza il cui emblema sinistro della forca sorgeva alla periferia del paese.

1.f - Lo  scandalo che coinvolse Don Ettore Lucchese Palli per il suo matrimonio con Maria   
        Carolina Ferdinanda Luisa di Borbone, Principessa delle Due Sicilie

Don Ettore era rappresentante della corte napoletana in Brasile e in Spagna. I suoi rapporti con la regina Maria Cristina spinsero il ministro F. Calomarde a farlo allontanare. Fu inviato nel 1832 a  l’Aia dove incontrò e sposò segretamente, a Massa, la figlia di Francesco I di Borbone, Maria Carolina che era vedova del duca di Berry. Nel 1833 Maria Carolina rilevò il matrimonio segreto perdendo la sua posizione di prestigio nel partito legittimista francese.  Don Ettore lasciò la diplomazia per ritirarsi a Brunnesee.

Maria Cristina Ferdinanda di Borbone,  fu la quarta moglie del re Ferdinando VII di Spagna.

Maria Cristina  de Borbòn – Dos Sicilias
(Palermo, 27 aprile 1806 – Le Havre, 22 agosto 1878)
Autore: Vicente Lòpez y Portana
Dipinto  del 1830 – olio su tela – dimensioni: (96 x 74) cm
Collezione: Museo Nacional del Padro - Madrid

Ferdinando VII di Spagna era lo zio di Maria Cristina, in quanto fratello maggiore della madre della ragazza. Tra i due c’erano ventidue anni di differenza e si sposarono a Madrid l’11 dicembre 1829.
Dal matrimonio nacquero: Isabella, futura regina Isabella II di Spagna e l’infanta donna Maria Luisa Fernanda.
Ministro di Grazia e Giustizia del re Ferdinando VII era il nobile Francisco Tadeo Calomarde di Retascòn e Arria  (Villel, ottobre-febbraio 1773 – Tolosa, 19 luglio 1842). Il ministro s’accorse della relazione tra Maria Cristina e Don Ettore Lucchese. Alla fine costrinse Ettore ad abbandonare le sue cariche a corte per trasferirsi a l’Aia. Per dovere di cronaca .. quando Ferdinando VII morì, Maria Cristina diventò reggente in nome della figlia Isabella. Un titolo che fu contrastato da Carlo, fratello di Ferdinando VII. Un lungo contrasto, condito da accuse, false leggi, che causò le guerre “carliste” anche con il supporto della chiesa. Maria Cristina con il suo forte temperamento riuscì a mantenere la reggenza.
Ma avvenne qualcosa.. Maria Cristina sposò segretamente un ex-sergente della guardia reale, Augustin Fernandez Munoz, nominato in seguito duca. Dal matrimonio segreto ben sette figli. La scoperta del matrimonio le resero impopolare e determinarono la sua caduta.

Maria Carolina Ferdinanda Luisa di Borbone,
Principessa delle Due Sicilie , per nascita, e duchessa di Barry per matrimonio
(Caserta, 5 novembre 1798; Castello di Brunnsee, 16 aprile 1870)

Decisamente più ricca di spunti la relazione tra don Ettore Lucchese Palli e Maria Carolina  di Borbone.

1.g – Maria Carolina di Borbone, una donna forte 
Maria Carolina era figlia del re delle due Sicilie, Francesco I, e dell’arciduchessa Maria Clementina d’Asburgo-Lorena.
La giovane Maria Carolina passò la sua infanzia e adolescenza a Palermo e a Napoli per poi recarsi in Francia per sposare Carlo Ferdinando d’Artois, duca di Berry. 
Carlo Ferdinando d’Artois (Versailles, 24 gennaio 1778; Parigi, 14 febbraio 1820) era il figlio secondogenito del Conte d’Artois, cioè il futuro re Carlo X ( re di Francia e di Navarra dal 1824 al 1830) e fratello del re Luigi XVIII (in carica dal 6 aprile 1814 al 16 settembre 1824). Il matrimonio, nel 1816 nella cattedrale di Notr-Dame aveva alla base una sua origine politica, il conte era più anziano di vent’anni. Risiedevano nel palazzo dell’Eliseo e la loro vita di coppia fu molto unita.

Napoli - Museo Capodimonte – Dipinto di Louis Lemasle
Matrimonio di Maria Carolina con il duca di Berry, celebrato nella Cappella Palatina di Palazzo Reale
nel 1816 davanti ad una folla costituita da dignitari e ministri.
Sono presenti anche degli artisti fra cui sono riconoscibili in primo piano:
il violinista Paganini, il musicista Paisiello, il pittore Angelini.
Sulla prima colonna a sinistra è posta la data del dipinto che è posteriore all’avvenimento: 1822-23.
Un pittore famoso per dipinti della corte murattiana e poi ferdinadea.

Carlo Ferdinando fu pugnalato all’uscita del teatro dell’Opera di Rue Richelieu da un fanatico operaio. Un sellaio, Louis Pierre Louvel, che voleva contribuire, a suo modo, all’estinzione della dinastia dei Borbone. Il duca Carlo Ferdinando, in punto di morte, perdonò cristianamente il suo assassino. Il funerale si svolse nell’abbazia di Saint Denis, in cui venne sepolto, e durante la funzione venne seguito il “Requiem in do minore” di Luigi Cherubini. Il suo assassino fu condannato a morte  e affermò di non avere avuto complici nella sua azione criminale.
Maria Carolina, dopo la morte del marito si trasferì alle Tuileries.

Tuileries

Il suo comportamento s’allontanava da quello tipico della corte. Amava invitare gente, era poco incline all’etichetta, molto legata  alla moda ed amava circondari di letterati, pittori e musicisti.
Faceva frequenti viaggi e amava passare lunghi periodi nelle zone balneari a tal punto che inaugurò una spiaggia, dedicata proprio ai bagni estivi, nel “canale della Somme”.
Dopo la Rivoluzione di Parigi, 27/28/29 luglio 1830, seguì Carlo X e la corte in esilio cercando di farsi nominare reggente del figlio Enrico V, Conte di Chambord.
Maria Carolina con il Duca di Barry ebbe quattro figli:
-          Luisa Elisabetta Principessa di Francia, nata il 13 luglio 1817 e morta l’indomani;
-          Principe Luigi di Francia, nato e morto il 13 settembre 1818;
-          Luisa Maria Teresa d’Artois (21 settembre 1819; 1 febbraio 1864);
-          Enrico D’Artois, Duca di Bordeaux e Conte di Chambord (29 settembre1820 – 24 agosto 1883) che non conoscerà suo padre dato che era stato ucciso il 14 febbraio 1820.
Una donna dal temperamento forte. Ritornò clandestinamente in Francia nel 1832, due anni dopo la fuga, e tentò di rilanciare le guerre di Vandea. Il suo tentativo non ebbe seguito e la duchessa fu costretta alla fuga per rifugiarsi in una casa a Nantes.
(Le guerre di Vandea furono una serie di conflitti scoppiati al tempo della Rivoluzione Francese che videro le popolazioni della Vandea e di altri dipartimenti vicini insorgere contro il governo rivoluzionario per ristabilire la monarchia assoluta e o opporsi alle misure restrittive imposte al culto cattolico. Le guerre di Vandea finirono con la firma dell’armistizio sottoscritto il 24 giugno 1815 a Tessoualle).
Fu tradita da un certo Deutz.. la casa fu circondata e cercò di fuggire attraverso il camino ma venne arrestata dalla polizia comandata dal ministro degli interno Thie

Maria Carolina, Duchessa di Barry
Dipinto di Jean Baptiste Guerin

Con l’arresto di Maria Carolina si scatenò un grande scandalo.  Agiva come vedova del figlio di Carlo X, considerato alla stregua di un martire della casa reale, e come madre dell’erede al trono cioè del figlio Enrico. Ma durante la prigionia nella fortezza di Blaye accadde qualcosa di incredibile,… diede alla luce una bambina a cui fu dato il nome di Anna Maria che però  morì subito dopo la nascita. 

 Fortezza di Blaye

1.h – Il Matrimonio di Maria Carolina di Borbone con Don Ettore Carlo Lucchese Palli
Chi era il padre dato che era vedova da circa 12 anni ?
La duchessa ammise l’esistenza di un matrimonio segreto con il duca Don Ettore Lucchese Palli.
L’avvenimento destò un ulteriore scandalo e fu abilmente sfruttato dal punto di vista politico dal governo di Luigi Filippo (di Borbone-Orlèans , re dei Francesi dal 1830 al 1848 con il nome di Luigi Filippo I). Luigi Filippo ebbe diede ordine di assistere al parto a dei testimoni fra cui il maresciallo Bugeaud. Un comportamento irriguardoso che il duca evidenziò chiaramente anche nella nascita di Enrico. Infatti quando si constatò che la vedova Maria Carolina aspettava un bambino venne protetta. Il marito era morto a febbraio e lei doveva essere già al primo mese di gravidanza. Nel mese di aprile due uomini fecero esplodere una bomba sotto le finestre della residenza di Maria Carolina per procurarle un aborto. Il tentativo falli e avvicinandosi la data del parto vennero adottate delle strane decisioni.  Si voleva garantire la veridicità del parto che tutti definivano “miracolosa”…
Re Luigi XVIII, che risiedeva nel Palazzo “P fosse avillon de Flore delle Tuillers” stabilì che la duchessa si trasferisse nell’appartamento a lei destinato posto nell’estremità dello stesso palazzo, “Pavillon de Marsan”. Diede inoltre l’incarico a due ufficiali, il maresciallo Suchet, duca d’Albufèera, e al duca de Coigny, di controllare il susseguirsi degli eventi.

Pavillon de Marsan, sulla sinistra.

Il bambino nacque alle 2,30 del 29 settembre 1820 e la nascita, cosa assurda, venne dettagliatamente trascritta dal visconte de Reiset, un ufficiale delle Guardie del Re che viveva nelle vicinanze delle Tuillers e della Senna.
Ma malgrado tutte gli accorgimenti e le precauzioni adottate… non vi furono testimoni alla nascita.
La duchessa era andata a letto verso mezzanotte avvertendo dei brevi e leggeri dolori.
Alle 2,20 ebbe una contrazione più forte e chiamo subito due damigelle: Madama de Vathaire e Madame Borgeois.
Madame Vathaire chiamò subito la prima dama di compagnia mentre madame Bourgeois si precipitò nella stanza della duchessa che aveva già partorito senza nessuna difficoltà il bambino, già alla seconda contrazione.
Dopo quindici minuti arrivò l’ostetrico Deneux e la duchessa gli chiese se il bambino poteva rimanere con il cordone ombelicato non tagliato. La risposta dell’ostetrico fu immediata e le consentì di rimanere in quello stato ancora per un’ora. Avuta la risposta, la duchessa ordinò al chirurgo di non tagliare il cordone ombelicale fino all’arrivo dei “testimoni”.
Madame de Vathaire ritornò con la Guardia del Re, Reiset, ma non era solo….era accompagnato dalla duchessa di Reggio ( Marie Charlotte Eugènie de Coucy, seconda moglie dell’ex maresciallo napoleonico Oudinot), dalla contessa de Gontaut e da cinque guardie nazionali che il Reset aveva scelta a causo….. tutti per assistere e fare da testimoni all’evento. Furono nel frattempo chiamati il Conte d’Artois, che abitava al piano di sopra, e il conte d’Albufèra a cui venne mostrato il nascituro ancora con il cordone ombelicale attaccato.
Il cordone ombelicale venne tagliato e l’ostetrico Deneux, questa volta in privato, eseguì le medicazioni.
Nel frattempo arrivarono il duca di Coigny, il duca e la duchessa d’Angoulème, il conte d’Artois…. la stanza era piena di gente e il nascituro venne portato in un’altra stanza per essere mostrato in pubblico. Alle 3,15 giunse il Re… il bambino venne restituito alla madre, e lo stesso sovrano avvicinandosi al latto della duchessa, prese il bambino in braccio e riprendendo la leggenda della nascita di Enrico IV, strofinò uno spicchio d’aglio, appositamente mandato da Pau, sulle labbra del nascituro e alcune gocce di vino “juracon”. Il re Luigi XVIII rimase nella camera fino alle 4,30 ricevendo le congratulazioni dei numerosissimi visitatori: ministri, duchi, marescialli, ecc.
Il duca d’Orleans (Luigi Filippo) si rivolse al duca duca d’Albufèra per avere delle rassicurazioni sulla nascita del bambino e se fosse veramente della duchessa… la risposta fu immediata….”Per quanto voi siete il padre del duca de Chartres”. Luigi Filippo… a malincuore…. Accettò in silenzio la risposta. Dopo pochi giorni fu redatto il certificato di nascita. Il duca d’Orleans, con un forte disagio, firmò il documento che rappresentava l’accettazione ufficiale della nascita. Nascita che venne annunciata pubblicamente alle 5 del mattino del 29 settembre con 24 salve di cannone.
Poche settimane più tardi comparve una pubblicazione che era intitolato «Protestation de S. A. S. le Duc d'Orléans», probabilmente stampate verso metà ottobre a Londra. Molte copie furono sequestrate a Calais ma altre circolarono clandestinamente, e i giornali inglesi, quali il Morning Chronicle, la riprodussero "con soddisfazione" [Morning Chronicle del 10 novembre 1820, pagina 3, colonna b;Annual Register, sezione "Chronicle" dell'11 novembre 1820, parte I, pg. 484].

Versailles – dipinto di Charles Nicolas Lafond
Presentazione a corte del piccolo Enrico, duca di Bordeaux, il “figlio del miracolo”
Si riconoscono: il re, Luigi XVIII; il fratello Carlo, conte d’Artois; il nipote, Luigi d’Angouleme e la moglie
Maria Teresa; la madre del piccolo, Maria Carolina



Enrico di Bordeaux, erede al trono di Francia fino al 1830, quando la Rivoluzione di Luglio portò
sul trono Luigi Fillippo d'Orleans.
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Torniamo alla relazione tra Maria Carolina e don Ettore Lucchese.
Fu liberata e le fu concesso il permesso di lasciare la Francia, l’8 giugno 1833. Si recò a Palermo e successivamente a Praga. Carlo X  dettò delle condizioni ben precise per accoglierla.  Il suo comportamento era molto criticato dal sovrano perché vedova del figlio e madre dell’erede al trono. Carlo X pretese la prova dell’esistenza di un regolare atto di matrimonio con il duca Ettore Lucchese Palli e affidò la delicata ricerca a due ministri:  il ministro degli Interni Montbel e il ministro degli esteri Ferron.
I due ministri fermarono Maria Carolina a Firenze, settembre 1833, e ottennero la consegna del contratto che era conservato in Vaticano. Successivamente Maria Carolina incontrò un messaggero di Carlo X, l’ex ministro Chateubriand, a Venezia il 18 settembre e dopo due giorni seppe che l’udienza con Carlo X era stata rifiutata. Non venne quindi ammessa alla presenza del suocero dal 13 al 18 ottobre a Lubiana. Fu quindi allontanata dalla famiglia reale che le rifiutò, addirittura , la direzione dell’educazione del figlio.
In realtà studi recenti hanno dimostrato che il padre della bambina, nata in carcere e morta dopo il parto, non era figlia di Don Ettore Lucchesi Palli ma di un capo della rivolta ideata (guerra di Vandea) da Maria Carolina.
Don Ettore era innamorato della duchessa e acconsentì al matrimonio per coprire lo scandalo.
Venne accolta da Don Ettore Lucchese  in Belgio e successivamente  si trasferirono in  Austria.
Nel 1837 Maria Carolina e Don Ettore acquistarono il castello di Brunnsee, presso Ganz (Austria) dove nacquero e si sposarono i loro figli. Nel castello morì Don Ettore e qualche anno dopo nel 1870 la duchessa. Un castello che passo in eredità all’unico figlio maschio della coppia, il conte Adinolfo, e da questi ai suoi discendenti.

Castello di Brunnsee



Maria Carolina nel 1837 acquistò a Venezia il Palazzo Vendramin Calergi, sede oggi del Casinò.


La stessa Maria Carolina era probabilmente proprietaria di altri due immobili, sempre a Venezia.
Nel 1847 il figlio Enrico acquistò  Palazzo Franchetti e Palazzo Giustinian, da parte di Luisa Maria (figlia del Duca di Barry).

 Palazzo Franchetti

Palazzo Giustinian

Don Ettore Lucchesi Palli

Dal matrimonio tra Don Ettore Lucchese Palli e Maria Carolina nacquero:

-          Anna Maria Rosalia Lucchesi-Palli (10 maggio 1833 – ottobre 1833);
-          Maria Bianca Lucchesi Palli (8 dicembre 1834 - 15 dicembre 1834);
-          Clementina Lucchesi-Palli (19 novembre 1835 – 22 marzo 1925) sposò il Conte Camillo Zileri dal Verme degli Obbizi;
-          Francesca di Paola Lucchesi-Palli (12 ottobre 1836 – 10 maggio 1923); suo figlio Camillo Massimo, Principe di Arsoli fu suocero della Principessa Adelaide di Savoia, figlia del Principe Tommaso, Duca di Genova e di sua moglie la Principessa Isabella di Baviera; l'altro suo figlio Fabrizio Massimo, Principe di Roviano sposò Beatriz di Spagna, figlia di Carlos, Duca di Madrid e della sua prima moglie la Principessa Margherita di Parma);
-          Maria Isabella Lucchesi-Palli (18 marzo 1838 – 1º aprile 1873), sposò in prime nozze Massimiliano dei Marchesi Cavriani e in seconde nozze il Conte Giovanni Battista de Conti;
-          Adinolfo Lucchesi-Palli, Duca della Grazia (10 marzo 1840 – 4 febbraio 1911), sposò Lucrezia Nicoletta Ruffo di Bagnara; suo figlio Pietro Lucchesi-Palli sposò Beatrice Colomba Maria di Borbone Principessa di Parma, figlia di Roberto I, Duca di Parma e della sua prima moglie la Principessa Maria Pia delle Due Sicilie).

Clementina, Francesca e Maria Isabella Lucchesi Palli figlie di Maria Carolina e
di Don Ettore Lucchesi Palli.

Lettera Firmata dal politico Don Ettore Lucchesi Palli, principe di Campofranco
Data : Brandeis, 24 dicembre 1834
Obbligazione di pagamento per una rendita annuale di 150 franchi per i figli del generale Briecke”
Il Lucchesi-Palli si ccuperà dell’amministrazione del fondo
Il notaio Champion di Parigi

Il tavolo da toilette di Maria Carolina conservato al Louvre.

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1.i – I Principi di Campofranco fino al 1924 - da Don Mario Adinolfo a Don Enrico (1924)

-          Don Mario Adinolfo (Graz 10-3-1840 + Brunnsee 4-2-1911), 10° Principe di Campofranco,  5° Duca della Grazia dal 1864, rinuncia al titolo principesco in favore del figlio nel 1891. I suoi titoli sono stati riconosciuti in Italia il 27-6-1892 e il titolo di Conte per maschi il 3-10-1897; (Balì Gran Croce del Sovrano Militare Ordine di Malta).
Sposò a Brunnsee il 7-10-1860 Donna Nicoletta Lucrezia Ruffo dei Duchi di Bagnara
(* Napoli 7-12-1841 + Venezia 17-4-1931)

Adinolfo Lucchesi Palli (1840-1911), X principe di Campofranco, l'unico maschio di Ettore e Maria Carolina, e la moglie Lucrezia Ruffo (1841-1931).

-          Don Enrico Lucchesi Palli (figlio di Adinolfo Lucchesi Palli) (Brunnsee 19-8-1861 + castello di Galleg 1-3-1924), 11° Principe di Campofranco dal 1891, 6° Duca della Grazia dal 1911, (Balì Gran Croce d'Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta).
Sposò a Vienna il 26-7-1892 Maria Raniera Contessa (dal 18-2, diploma imperiale
austriaco 8-3-1892) von Waideck, figlia di Enrico d'Asburgo-Lorena Arciduca
d'Austria e di Leopoldina Hofmann Baronessa von Waideck (* Lucerna 21-7-1872
+ Gries 17-2-1936).

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1.j – I Principi di Campofranco  a  Bolzano - Don Enrico Lucchesi – Una Storia  d’Amore con  
        Raniera Maria d’Asburgo-Lorena

A  Bolzano, nel cimitero militare di San Giacomo, c’è la cappella dei principi di Campofranco. Una cappella che presenta ancora oggi le schegge di una bomba caduta durante la seconda gerra mondiale.
Nella cappella sono sepolti i principi di Campofranco che abitarono a lungo nella bella città bolzanina e che tra l’altro costruirono il palazzo gentilizio posto in via della Mostra.

Bolzano – Palazzo Campofranco

Una storia d’altri tempi e soprattutto una storia d’amore.
Nel 1848 il vicerè del Lombardo –Veneto, Ranieri Giuseppe Giovanni Michele Francesco Geronimo d’Asburgo, in carica dal 1818, dopo le cinque giornate di Milano, lasciò Milano per rifugiarsi a Bolzano. Con lui la moglie Elisabetta di Savoia – Carignano, sorella di Carlo Alberto re di Sardegna.


Ranieri Giuseppe Giovanni… D’Asburgo, Arciduca d’Austria
(Pisa, 30 settembre 1783 – Bolzano, 16 gennaio, 1853)
Secondo vicerè del Lombardo – Veneto

Maria Francesca Elisabetta Carlotta Giuseppina di Savoia – Carignano
(Parigi, 13 aprile 1800 – Bolzano, 25 dicembre 1856)
La storia ci tramanda bellissime figure femminili.
Maria sposò a Praga l’arciduca Ranieri.
Un matrimonio politico, gli Asburgo volvano tenere sotto controllo
l’irrequieta casa Savoia e gli sposi si conobbero alla vigilia delle nozze.
Il famoso principe Metternich scrisse di Maria:
"Il matrimonio dell'Arciduca Ranieri con la Principessa Carignano ha avuto luogo oggi.
La sposa è meravigliosamente bella. E' alta una mezza testa più di me, cosa che non le impedisce
di avere un aspetto grazioso. Il volto è improntato a notevole nobiltà".
La dolcezza di Elisabetta, il suo modo di fare,  fece nascere
un grande sentimento d’amore. La coppia ebbe 8 figli.
Ranieri era vicerè del Regno Lombardo-Veneto ed Elisabetta diventò viceregina.
Ma non fu una posizione di prestigio. La politica del tempo  non concedeva spazio ad entrambi.
Il kaiser non teneva molto in considerazione il Ranieri e la stessa Elisabetta non era ben vita
dalla nobiltà milanese perché aveva sposato un oppressore asburgico.
Dopo la rivolta delle Cinque Giornate di Milano la coppia fuggì a Bolzano.
Perché proprio a Bolzano ?
Il kaiser Guglielmo Francesco non li volle a Vienna.
Abitarono nel palazzo costruito nel 1764 dai Mayrl, ricca famiglia di commercianti di Bolzano
e successivamente denominato Palazzo Campofranco, in piazza Walther, dove sette anni dopo Ranieri morì.
Elisabetta diede vita ad opere di assistenza sociale..
dette vita ad una pia opera che aveva come scopo quello di educare e di
assistere le fanciulle bisognose”.
Era l’istituto “Elisabethinum” e successivamente creò anche “l’istituzione del Rainerum”.
Con la perdita anche della madre e del fratello rimase ancora più sola e si ritirò
sempre più ad una vita riservata.
Il 23 dicembre 1865 si recò all’istituto di via della Roggia per aiutare
le sue assistite a fare l’albero di Natale.
Due giorni dopo, a Natale, morì.
La coppia è sepolta nell’ambulacro del Duomo di Bolzano, dietro all’altare maggiore.
L’istituto della Roggia fu intitolato ad Elisabetta e il nome rimase anche
quando fu trasferito in via Castel Romolo, dove oggi si trova sin dal 1902.

Ranieri ed Elisabetta ebbero ben otto figli tra cui Enrico d’Austria ( arciduca “Heinrich von Osterreich”).

Enrico Antonio Carlo Gregorio Raniero Maria d’Asburgo-Lorena
(Milano, 9 maggio 1828 – Vienna, 30 novembre 1891)
Arciduca d’Austria e feldmaresciallo dell’esercito austriaco.

Enrico il 4 febbraio 1868, a Bolzano, sposò la cantante e borghese, Leopoldine Hofmann (1842 -1891). Un matrimonio effettuato contro la volontà del kaiser Francesco Giuseppe.
Alcune fonti citano un matrimonio morganatico anche se nel 1879, la Hofmann ebbe il titolo di baronessa von Waideck.

Leopoldine Hofmann

Ci fu un grande scandalo a corte e il kaiser privò  Enrico dei titoli nobiliari. Si trasferirono a Lucerna dove nel 1872 nacque la loro unica figlia Raniera Maria (1872 – 1936).
Ci fu una riappacificazione in casa d’Asburgo e la coppia tornò a vivere a Bolzano nel palazzo di via della Mostra. L’ex cantante fu nel frattempo elevata al rango di baronessa di Waideck nel 1879.
Era solo una riappacificazione virtuale perché la coppia aveva l’accesso negato a corte.
Enrico e Leopoldine vissero felici a Bolzano dove l’arciduca si dedicava ad una delle sua attività preferite: la floricultura.  Una passione che regalò alla città di Bolzano bellissimi aspetti ambientali che affascinano ancora oggi. La passeggiata del Guncina (“Erzherzo – Rainer-Promenade”) arricchita da bellissime piante mediterranee e le prime mostre floreali, nel mese di maggio al palazzo Mercantile e poi anche in Piazza delle Erbe e via Argentieri. Mostre che si svolgono ogni anno, nella prima domenica di maggio, nella bella piazza Walther.

Bolzano – Passeggiata  Guncina




Bolzano – Piazza delle Erbe

Piazza Walther

In una delle rare visite a Vienna, la coppia si ammalò di polmonite e morirono entrambi nella stessa notte. (Vienna, 30 novembre 1891)
Furono sepolti anche loro nel Duomo di Bolzano acanto alla madre e al padre di Enrico.
Rimase la ventenne Raniera (o Rainiera) che nel 1892 sposò Enrico Lucchesi – Palli Principe di Campofranco, figlio di Don Mario Adinolfi Lucchesi.
La coppia visse a Bolzano, circondata dall’affetto della città, nel palazzo di via della Mostra e nelle tenute del Caldarese. Con la loro carrozza Enrico e Raniera inaugurarono nel 1900 il nuovo ponte Talvera, tra suoni di bande e gli evviva della folla. Il principe Enrico morì nel 1924 nel castello di Salleg, a Caldaro. Raniera a Gries nel 1936. Del palazzo di via della Mostra sono oggi proprietari i conti von Kuenburg, avendolo ereditato da Maria Renata figlia di Enrico e Raniera, che aveva sposato a Graz nel 1922 il conte Siegfried von Kuenburg. 


Castello di Sallegg

Seduta Raniera principessa di Campofranco, tra i suoi genitori
 l'Arciduca Enrico d'Austria e la contessa di Waideck.



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1.k – Bolzano - Il Ginkgo Biloba di Palazzo Campofranco. Un Regalo della Principessa Sissi -
          Il Palazzo Campofranco oggi

Un bellissimo ginkgo biloba, dalla chioma dorata, si trova al centro della corte di Palazzo Campofranco.  Fu regalato dalla principessa Sissi, Elisabetta di Baviera, allo zio l’arciduca Heinrich, padre di Rainera che sposò don Enrico Lucchesi.
I primi esemplari furono portati in Europa nel settecento nei giardini botanici di Innsbruck e Parigi. In Italia il primo ginkgo biloba arrivò nel 1750 nell’orto botanico di Padova. Era una tradizione dal fascino esotico molto diffusa nelle corti europee donare degli alberi e fiori  orientali.
Alla delicata bellezza della pianta Goethe dedicò un piccolo componimento: “La foglia di quest’albero, dall’oriente affidato al mio giardino, segreto senso fa assaporare così come al sapiente piace fare. E’ una sola cosa viva, che in se stessa si è divisa? O son due, che scelto hanno, si conoscan come una? In risposta a tal domanda, trovai forse il giusto senso. Non avverti nei miei canti ch’io son uno e doppio insieme?".
Sissi era solita soggiornare in questi luoghi nei suoi trasferimenti verso Merano.


Il Palazzo Campofranco è oggetto di riqualificazione e il ginkgo biloba diventerà il centro  del progetto. Per salvaguardarlo è stato creato un vaso decorato con il motivo della foglia dell’albero. Un vaso dal diametro di dieci metri sulle cui pareti si snoderà una doppia scala che condurrà ad un area commerciale sotterranea.
Attorno alla pianta è stato effettuato uno scavo di 12 metri nel quale sono stati rinvenuti preziosi sedimenti del complesso vulcanico Atesino. Ciottoli che prelevati e stoccati verranno inseriti nel giardino che ospiterà la pianta.



Bolzano - Il progetto



Progetto

Foto prese dal sito : http://www.altoadige.it/cronaca/bolzano/nuova-piazza-walther-gru-di-80-metri-per-campofranco-1.535957
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1.l – I Principi di Campofranco da Don Enrico Lucchesi ai nostri giorni

-          Don Carlo (Brunnsee 22-12-1868 + Portobuffole 18-8-1951), 12° Principe di
Campofranco e 7° Duca della Grazia dal 1924 (titoli confermati in Italia nel 1925); (Balì Gran Croce d'Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta e Commendatore di Borbon.
Sposò a Praga il 25-10-1893 Sidonia Contessa von Fuenfkirchen, figlia del Conte Ferdinando e di Antonia Contessa Czernin von und zu Chudenitz (* castello di Wimar, presso Praga 25-7-1872 + Brunnsee 29-5-1902). In seconde nozze sposò nel castello di Anholt il 15-1-1907 S.A.S. Enrichetta Principessa zu Salm und Salm-Salm, figlia di S.A.S. Alfredo 12° Principe (Fuerst) zu Salm e 7° Principe Fuerst) zu Salm-Salm e di Rosa Contessa von Luetzow (* castello di Anholt 25-6-1875 + Bolzano 2-7-1961).




-          Don Roberto (Brunnsee 5-1-1897 + Pully, presso Losanna 24-2-1979), 13° Principe di Campofranco e 8° Duca della Grazia dal 1951; (Balì Gran Croce d'Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta, Commendatore di Borbone, Cameriere segreto di cappa e spada del Papa.
Sposò a Londra il 6-11-1924 Lady Hermione Herbert, figlia di Lord George 4° Conte di Powis e dell'Onorevole Violet Lane Fox 16° Baronessa Darcy;

-          Don Alfredo (Weinburg 30-1-1916 + Ehrenshoven 1-5-1986), 14° Principe di Campofranco e 9° Duca della Grazia dal 1979; (Balì Gran Croce d'Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta, Commendatore di Borbone). Sposò a Praga il 7-2-1952 Helena Pastipanova (* Praga 26-1-1913). ( Alfredo 14° P.pe di Campofranco non ha avuto figli. I titoli sono stati refutati ad uno dei 4 figli del cugino Ludovico Roberto Luigi sposato con Stefania Ruffo di Calabria dei Principi di Scilla.


-          Don Pietro Roma 4-1-1943), 15° Principe di Campofranco e 10° Duca della Grazia dal 1986.
-          Conte Don Umberto (* San Gimignano 5-10-1944); Sposo a  Sticciano il 10-11-1973 Maria Clara Maglietta (* Roma 21-10-1945).

-          Conte Don Adinolfo (* San Gimignano 20-7-1946), Sposò Elizabeth Gartner - Conte Don Adinolfo Roberto ha sposato un’americana, Elizabeth Gartner e ha un figlio: il Conte Enrico nato l’1-10-1999 (dovrebbe essere il prossimo a succedere al titolo di 16° Principe di Campofranco

-           Conte Don Enrico (Poggibonzi (SI) il 1-10-1999). Residente a Certaldo (FI).

-           Conte Don Ferrante (Graz 11-1-1952). Sposò ad Acqui Terme 8-10-1983 Camilla Massucco (* Acqui Terme 14-6-1951). Conte Don Ferrante ha avuto un figlio: Conte Don Ludovico nato il 13-9-1985

-          Conte Don Ludovico (Vienna 13-9-1985). Il primogenito Pietro è il 15° Principe di Campofranco 

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2 - IL PONTE ROMANO

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Il ponte è conosciuto come “ponte romano” e si trova sul Fiume Gallo d’Oro. È posto a circa 2 km a sud di Campofranco ed oggi rimangono dei consistenti ruderi come si nota dalla foto.


Il ponte si trova sul fiume Gallo d’Oro, in arabo “wadi ad-daur” cioè “fiume torto” e in siciliano “Uaddu dauru”. Il fiume nasce da Serra Gazzola, a circa 597 m s.l.m in territorio di Canicattì, scorre da Est verso Ovest lungo la Riserva Naturale Integrale di Monte Conca ed è un affluente di sinistra del Fiume Platani. Attraversa un territorio costituito da arenarie cementate associate ad argille sabbiose. Lungo le sue sponde un areale costituito da salici, pioppi neri ed ontani. Ha la sua importanza anche dal punto di vista speleologico perché in una delle sue anse si trova la grotta della Risorgenza o Grotta Carlazzo.

il fiume Gallo D'Oro e sulla destra Monte Conca





Il ponte prima del crollo



Il fiume Gallo d'Oro in piena

Il ponte probabilmente faceva parte dell’Itinerarium Antonini ovvero dell’importante nodo stradale d’epoca romana che conduceva ad Agrigento. Fu probabilmente costruito dopo il crollo di un altro ponte, “Cantarella, posto a SO del “Passo Funnuto” sul Fiume Platani.
(Il termine “cantara”, dall’arabo “qantar”, ponte) nell’isola è stato sempre associato all’esistenza di un ponte preesistente alla dominazione musulmana dell’isola e quindi sicuramente  riferibile al periodo romano o bizantino).
La sua origine potrebbe risalire all’epoca romana.  Nelle contrade vicino al ponte sono state rinvenute delle tracce di costruzioni romane tra cui una “stazione di servizio” con case, magazzini e stalle. Questi rinvenimenti hanno quindi rafforzato l’ipotesi che il ponte si trovasse proprio sull’Itinerarium Antoni ed esattamente lungo la “viam publicam qua itur Racalmuti Mulocean” (tra Sutera e Milocca).
Il suo aspetto originario era probabilmente ad una campata a sesto ribassato e questo per la notevole lunghezza in relazione all’altezza delle sue sponde.

Percorso Antonini

Il ponte nel corso dei secoli fu ricostruito perché era un’importante via di comunicazione tra il feudo Milocca e il territorio circostante. Secondo alcuni storici il ponte fu ricostruito nel 1582 su strutture preesistenti medievali, probabilmente legate alla reggenza di Federico II di Svevia.
Nel 1732, probabilmente un alluvione, causò la caduta del ponte. La Deputazione del regno di Sicilia nel 1742 diede incarico per la ricostruzione del ponte che fu definito “nuovo” perché venne modificata la campata centrale per rendere il ponte carrozzabile. Per la sua ricostruzione vennero utilizzati i primitivi grossi conci romani per gli archi delle estremità mentre  nella volta centrale venne probabilmente adoperato materiale di dimensione minore e anche malamente messo in opera con  troppa malta. Questi aspetti determinarono una lenta ma progressiva rovina della struttura.
Nel 1815 altro intervento effettuato dal principe di Campofranco, Don Antonino Lucchesi Palli.
Nel 1931 il ponte subì un nuovo crollo. Nuova ricostruzione nel 1935 con una campata a tutto sesto per alleggerire il carico in caso di piena del fiume con la speranza di riuscire a superare le piene del fiume. Nel 1958 nuovo crollo con ennesima ricostruzione.Dopo appena 19 anni dalla sua ricostruzione, nel 1977 nella struttura erano visibili delle lesioni nell’arco centrale… un chiaro avvertimento sulla precarietà della struttura che crollò il 22 luglio 1980 (secondo altri fonti il 20 luglio) e rimasero in piedi solo i due tronconi iniziali sulle sponde opposte del fiume.

“DESCRIZIONE (Ing. Luigi Santagati)
È oggi largo alle due estremità, dopo le trasformazioni del XVIII secolo, circa m
5,40 al lordo dei due parapetti di m 0,65 cadauno, nonostante i previsti 7,70 al muro
d’appoggio del progetto del 1742. La misura dell’unico arco a sesto ribassato, desunta
dai disegni di trasformazione del 1742, era pari a m 35,10 circa e non 37,26 (18 canne),
come il progettista si vanta. Dal modus costruendi (ponti Riggieri, Caronia, Pollina, etc,
ma soprattutto Militello 2° della luce di m 26,40) ritengo possa essere una costruzione
del II secolo. Escludo che l’arco potesse essere già all’origine a tutto sesto perchè, dalla
ricostruzione grafica del ponte da me disegnata, si arriverebbe ad avere una pendenza
delle rampe intorno al 30%.
Oggi si possono ammirare solo le due spalle del ponte, sulle sponde opposte del fiume, e la strada lastricata che lo percorreva.”


“Alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso, la Soprintendenza di Caltanissetta fece dei
saggi di scavo nella zona quando dirigente del settore era l’archeologa Rosalba Panvini
con l’aiuto del geometra Giuseppe Vitale. I risultati non sono mai stati pubblicati pur
confermando l’antichità del manufatto”.

 L’origine del ponte pone interrogativi ancora oggi  che non sono stati svelati. Era inserito nel percorso che portava negli importanti porti di Agrigento e di Licata ?
Al Tempo di El Idrisi il percorso sembra prevedere il guado del fiume Platani a Sud di Campofranco, “Passu Funnut”, per poi fare un ampio giro per Bompensiere, Montedoro, Racalmuto, Castrofilippo. In epoca sveva è probabile che si sia ricostruito il ponte sul Gallo D’Oro per abbreviare il tracciato e per evitare il guado di “passo Funnuto” dove probabilmente  erano esistenti le rovine di un antico ponte.

Campofranco – “Passu Funnuto” sul Fiume Platani

Diversi indizi  potrebbero testimoniare, come afferma il prof. Santagati, la sua esistenza: la fortificazione alto-medievale sul Monte dello Zubbio, oggi Monte Conca (sulla cima del colle, fra i resti dell’abitato, si è rinvenuto il sigillo in piombo di epoca araba e la moneta di Guglielmo II); il toponimo “Minzioni”, a sud del Monte, che potrebbe fare riferimento ad una antica “mansione”; i resti di una strada selciata che si dirige verso il casale arabo normanno di Milocca, sorto su un sito di un abitato romano.
La strada oltrepassato il ponte sul Gallo d’Oro proseguiva per Gibillina (Racalmuto) dove nel castello svevo era possibile immagazzinare il grano prodotto nella fertile Alta Valle del Fiume Platani. Castello di Racalmuto che si trovava a due giornate da Licata ed una da Agrigento. La strada sveva da Racalmuto si dirigeva verso il porto di Licata anche se a distanza maggiore rispetto a quello di Agrigento.
Il motivo potrebbe essere storico.
Il caricatore di Licata era privilegiato per l’ammasso del grano perché il suo porto era inserito fra quelli demaniali (portibus nostris) e per la sua difesa fu edificato un castello a mare. L’imperatore con questo forte presidio poteva benissimo controllare il commercio del grano per sottrarlo allo spietato monopolio delle repubbliche marinare soprattutto pisane.
È anche vero che pure Agrigento, con il suo porto, era dotata di una “turris maritima” a guardia del caricatore, citato anche da Idrisi, ma fu trascurato dagli Svevi. La città rimase non affidabile per l’Imperatore perché ” aveva osato allearsi con i saraceni in rivolta”  (durante l’infanzia di Federico II, o forse perché la città risentiva dei danni dovuti agli eventi bellici legati alle insurrezioni dei musulmani).

Tracciato “Idrisi” (?)


Tracciato “Svevo”(?)

Licata – Castel san Giacomo
Il terzo castello più importante della Sicilia, dopo il castello a mare di Palermo e il castello
Maniace di Siracusa, nel periodo compreso tra il XII e il XIII secolo.
Si decise di demolirlo tra il 1870 e il 1929 per la costruzione del porto.
Si cancellò una importantissima testimonianza culturale anche se gli obiettivi erano legati alla
Costruzione del porto per agevolare il commercio dello zolfo.

Resti spagnoli del castello prima della sua distruzione.

Licata nell’ 800
Licata nel 1570
Licata – Antiche mura del Castello di San Giacomo prima della demolizione

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3 - RISERVA  NATURALE INTEGRALE  “MONTE  CONCA”

3.a – Caratterizzazione Schematica della Riserva

CODICE  EUAP :  EUAP 1107
PROVINCIA : CALTANISSETTA
COMUNE : CAMPOFRANCO

CODICE PROVINCIALE : CL4
TIPO : R.N.I. (RISERVA NATURALE INTEGRALE)
RISERVA : MONTE  CONCA
ZONA (A) (SUPERFICIE IN ETTARI) : 0 ha
ZONE (B) (SUPERFICIE IN ETTARI) : 245 ha
SUPERFICIE TOTALE (IN ETTARI)  :  245 ha
CARATTERIZZAZIONE DELLA  RISERVA : CA +  AF (CAVITA’ + ASTE FLUVIALI)
CODICE SIC (SITO  IMPORTANZA COMUNITARIA) : ITA 050006

CODICE ZPS (ZONA PROTEZIONE SPECIALE):
DECRETO MINISTERIALE DI DESIGNAZIONE- 21/12/2015
ATTO DI APPROVAZIONE: DDG  858/2010
DENOMINAZIONE : COMPLESSI  GESSOSI (MONTE CONCA)
ENTE GESTORE : C.A.I.
v  L’Area della Riserva è costituita dai 5,00 metri di raggio attorno agli ingressi delle Grotte e dai 245 ha di Preriserva.

DECRETI ISTITUITIVI:
Decreto Assessoriale: 294/44 DEL 16/05/1995
Integrazione- Decreto Assessoriale : n. 531 dell’11/08/1995
- S.O. in G.U.R.S. n. 4  del 20/01/1996
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3.b – DESCRIZIONE DELLA RISERVA  NATURALE INTEGRALE
Una Riserva Naturale Integrale perché non è ammessa alcuna attività antropica di nessun tipo ad eccezione della sola ricerca scientifica.
Monte Conca si erge a Sud di Campofranco e alla sinistra idrografica del fiume Gallo d’Oro, che taglia da Est ad Ovest l’intera area protetta.

Una mappa dettagliata della Riserva è introvabile.  Ho cercato di ricostruire i limiti della Riserva che potrebbero non corrispondere con quelli stabiliti dal Decreto Istitutivo.

Si tratta di un massiccio calcareo-gessoso esteso circa un chilometro quadrato che si spinge fino alla quota massima di 437 m, ricco di cavità e di fenomeni carsici superficiali che rappresentano importanti esempi di studio sugli effetti delle acque nei gessi e sulla circolazione idrica nelle rocce evaporitiche.
A Nord del fiume sono presenti i rilievi di Cozzo Don Michele, Rocche di Don Michele e Rocche di Tullio.


Il Monte Conca con la sua altezza di 437 m s.l.m. per la sua costituzione geologica è una delle aree più interessanti della Sicilia.
Un monte fatto di gesso. Il gesso è un particolare tipo di roccia sedimentaria che fa parte del gruppo degli evaporiti.
Non sono un esperto in geologia… mi potrei definire un autodidatta e cercherò di spiegare il fenomeno in maniera semplice per rendere l’argomento comprensibile  per tutti.
 Le rocce del gruppo degli evaporiti, si sono formante per evaporazione dell’Antico Mediterraneo, quando circa 6 milioni d’anni fa subì una crisi termica e parzialmente si prosciugò.
In tale frangente cominciarono a depositarsi e a cristallizzare i Sali contenuti nelle sue acque. Sali che in ordine di sedimentazione furono: il carbonato da calcio (calcare); il carbonato doppio di calcio e magnesio (dolomia); il solfato di calcio (gesso); il cloruro di sodio (salgemma) e il cloruro di potassio (silvite).
 A questi Sali si aggiunse successivamente lo zolfo. Sotto l’effetto di fenomeni tellurici, alcuni di questi sedimenti – i calcari, i gessi e le dolomie – emersero in superficie sotto forma di rocce compatte. Rocce compatte che andarono soggette all’azione degli agenti atmosferici e diedero origine a straordinarie geomorfologie che sono dette “fenomeni carsici”.
Nei calcari l’acqua piovana, ricca di acido carbonico, intacca e dissolve la roccia, creando dei solchi, buche (doline), inghiottitoi e caverne.
Nei gessi si hanno azioni simili, anzi ancora più marcati dato che il solfato di calcio si dissolve nell’acqua senza bisogno dell’acido carbonico.
Nel Monte Conca, che è geologicamente di gesso, questi fenomeni sono ben evidenti. Da qui la necessità di salvaguardare la zona con l’istituzione della Riserva Integrale.
Il più alto sviluppo della formazione gessosa-solfifera è raggiunto in Sicilia nelle province di Caltanissetta, Enna ed Agrigento. Proprio in queste zone sono presenti gli stati produttivi più estesi che sono stati coltivati negli ultimi due secoli. L’Isola per la sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo è la regione dove la serie gessosa solfifera affiora in maniera estesa con oltre 2 kmq cioè pari al 4% del suo intero territorio e soprattutto, come abbiamo visto, nella successione più completa.
È naturale chiedersi come si sia formata questa serie gessosa-solfifera. Abbiamo visto come il suo formarsi dipenda dalla sedimentazione ossia dalla precipitazione di Sali.
La causa scatenante fu determinata da qualcosa che 5 milioni d’anni fa sconvolse il Bacino del Mediterraneo: la chiusura dello Stretto di Gibilterra, a causa dell’avvicinamento della Spagna all’Africa. Lo Stretto di Gibilterra era come un diaframma che separava le acque dell’Oceano Atlantico dal bacino del Mediterraneo.
Questa chiusura avvenne nel Miocene Superiore (detto anche Messiniano) e quasi tutta l’area del Mediterraneo fu colpita da una radicale variazione ambientale che fu il risultato sia della chiusura dei rapporti idrici tra Mediterraneo ed Atlantico sia di radicali cambiamenti climatici.

La Sicilia …da 18 a 7 milioni d’anni fa.. prima della chiusura dello Stretto di Gibilterra.


Questa evaporazione determinò la deposizione dei sedimenti evaporitici. Oltre alla sedimentazione il Mediterraneo entrò in una grave crisi ambientale con l’aumento delle temperature, quindi ulteriore evaporazione dell’acqua, e la relativa concentrazione. Questo particolare aspetto geologico è chiamato nella letteratura geologica come “Crisi di Salinità del Messineo”. Clima arido, mancanza di adeguati rapporti idrici portò quindi il Mediterraneo ad assumere l’aspetto di una serie di bacini a carattere lagunare.  Le acque evaporarono e le sostanze in essa disciolte precipitarono sul fondo a seguito del raggiunto grado di saturazione. In relazione alla propria solubilità infatti precipitarono per primi i Sali meno solubili e successivamente quelli più solubili. Per questo motivo la serie evaporitica è contraddistinta da un insieme di livelli salini.
 Nel Pliocene Inferiore, circa 5,3 milioni d’anni fa, dei fortissimi fenomeni tettonici provocarono l’abbassamento della soglia di Gibilterra. Questo determinò il ristabilirsi della comunicazione tra Oceano Atlantico e Mar Mediterraneo.



In queste condizioni si verificò la deposizione di trubi o marme costituiti da roccia sedimentaria di calcare ed argilla mescolati. Proprio dall’analisi di questo strato geologico gli studiosi hanno potuto ricostruire i fenomeni e la storia del Mediterraneo. La nuova deposizione è ricchissima di microforaminiferi e di sedimenti calcareo marmosi. Questi sedimenti indicano il ritorno alla normalità del Bacino del Mediterraneo. I trubi rappresentano quei sedimenti che si sono depositati durante una fase di trasgressione per effetto della quale il dominio marino si riestese in aree che precedentmente erano venute a trovarsi in emersione o in condizioni di acque poco profonde (evento evaporitico del Messiniano). Sono di colore biancastro e appaiono sovrapposti ai calcarei evaporitici o sui gessi. Da questo momento in posi si assisterà ad una graduale tendenza all’emersione del bacino, evidenziata dalla deposizione dei sedimenti.


La Sicilia geologicamente appartiene in parte alla placca sicula-iblea, a sua volta appartenente alla placca africana, e alla placca euroasiatica per una piccola area nord-orientale. Lo scorrimento della placca africana che per subduzione si immerge sotto quella euroasiatica, ha determinato la creazione dei rilievi montuosi della Sicilia. 

In modo grossolano questo dovrebbe essere lo schema di immersione
della placca africana sotto quella euroasiatica.

Questi fenomeni di sollevamento ebbero inizio subito dopo la riapertura dello stretto di Messina. In origine le uniche parte zone emerse della Sicilia, come si vede dalla cartina del periodo Tortoniano,  erano: i monti di Palermo, i Nebrodi e Peloritani settentrionali.


Già alla fine del Pliocene la Sicilia era quasi del tutto emersa e cominciava ad assumere una forma simile a quella attuale. Mancava ancora un'importante struttura che iniziava a formarsi circa 570.000 anni fa: l’Etna. Il processo che portò l’Etna ad essere il più grande e più attivo vulcano d’Europa fu lento e graduale, con eruzioni esplosive alternate a fasi effusive.
Nel Pleistocene Medio, la Sicilia assumeva la forma che oggi conosciamo.


Il contrasto tra la Placca Africana e quella Euroasiatica


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3.c – STORIA  DELLA  RISERVA

L’area protetta fu esplorata, per la prima volta, negli anni settanta dagli speleologi del Club Alpino Italiano di Palermo per la presenza di un inghiottitoio, detto appunto, di Monte Conca.

Si tratta di una cavità assorbente che riceve le acque superficiali di un vasto territorio ed era conosciuta solo parzialmente. Per la sua esplorazione erano necessarie delle attrezzature tecniche per la presenza di suggestivi ed impegnativi salti verticali che raggiungevano delle profondità notevoli di oltre 100 metri.
Lo spettacolo naturale che si offrì ai primi esploratori fu di notevole bellezza e fascino. Per la prima volta si aveva modo di osservare una grotta in roccia gessosa con caratteristiche molto simili a quelle dei calcari. Infatti, se da un lato notevoli erano i depositi di argilla e sedimenti trasportati dal torrente sotterraneo, tipici di questi ambienti, d’altro canto del tutto inusuali e di grande effetto spettacolare erano i pozzi-cascata, con alla base piccoli laghetti scavati dal continuo lavorio delle acque e dei detriti da queste trasportati. Dopo accurata esplorazione e rilevamento della grotta gli speleologi allargarono le ricerche alle aree circostanti, scoprendo la Risorgenza connessa con l’inghiottitoio, la Grotta di Carlazzo, situata alla base del versante Nord di Monte Conca apposto al punto di scomparsa delle acque superficiali. Con il proseguire delle indagini scientifiche gli speleologi, consapevoli della notevole importanza e peculiarità dei fenomeni studiati insieme ad altre aree carsiche nei gessi della Sicilia, segnalarono nel 1985 il territorio di Monte Conca all’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente. La motivazione della segnalazione come “emergenza naturalistica meritevole di protezione e pertanto da inserire nell’allora redigendo Piano Regionale dei Parche e delle Riserve Naturali”.
    A seguito di ulteriori segnalazioni da parte dei medesimi appassionati locali, il geologo dott. Salvatore Maria Saia e il Presidente della Pro Loco di Milena Giuseppe Palumbo, furono individuate molte altre cavità sia all’interno dell’area oggi posta sotto tutela che nei territori circostanti.
    Oggi, a distanza di tanti anni da quelle prime esplorazioni, è possibile affermare che la ricerca speleologica in aree gessose della Sicilia ha avuto, grazie alla scoperta delle grotte del  Monte Conca, un eccezionale impulso che ha portato all’individuazione di decine e decine di cavità di grande interesse scientifico e naturalistico.
    Nel 1985, per la notevole importanza e peculiarità dei fenomeni studiati, il territorio del Monte Conca venne segnalato all’Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente quale emergenza naturalistica meritevole di protezione e pertanto da inserire nell’allora redigendo Piano Regionale dei Parchi e delle Riserve Naturali.
    A seguito del completamento del lungo itinere preparatorio, a cura degli uffici dell’Assessorato e del Consiglio Regionale per la Protezione del Patrimonio Naturale, con decreto assessoriale n° 294/44 del 16/05/1995 veniva formalmente istituita la “Riserva Naturale Integrale Monte Conca”, affidata in gestione al Club Alpino Italiano – Sicilia.
    La Regione Siciliana, grazie alla Legge n° 98 del 1981 modificata dalla Legge n° 14 del 1988, è stata tra le prime regioni a legiferare in materia di protezione dell’ambiente in maniera innovativa, grazie anche ad una sempre crescente coscienza ambientale dei cittadini ed alla pressione ed attività propositiva delle diverse associazioni ambientaliste.
    Le sopra citate leggi prevedono, tra l’altro, l’istituzione di riserve naturali in quei “luoghi, sia in superficie che in profondità, nel suolo e nelle acque, che per ragioni di interesse generale, specialmente d’ordine scientifico, estetico ed educativo vengono sottratti all’incontrollato intervento dell’uomo e posti sotto il controllo dei poteri pubblici, al fine di garantire la conservazione e la protezione dei caratteri naturali fondamentali”.
    Gli ambienti ipogeici, oltre ad essere degli ecosistemi estremamente vulnerabili, rappresentano delle vere miniere di informazioni scientifiche sotto i più differenti aspetti: geologici, idrogeologici, geomorfologici, biologici, antropici, ecc..
    L’area del Monte Conca venne pertanto individuata quale Riserva Naturale Integrale, tipologia di massima salvaguardia prevista dalla normativa,  finalizzata alla conservazione dell’ambiente naturale nella sua integrità, con l’ammissione di soli interventi a carattere scientifico, con alla base la motivazione di costituire ”area carsica di grande importanza per la possibilità di studio del sistema idrologico sotterraneo, completo ed attivo, e di paleoreticoli fossili”.
    Al contorno delle zone delimitate come riserva (Zona A) sono state individuate delle aree di protezione o aree di pre-riserva (Zona B), a sviluppo controllato, allo scopo di integrare il territorio circostante nel sistema di tutela ambientale.
    In area di pre-riserva pertanto è possibile continuare le tradizionali attività agro-pastorali, mentre sono vietati tutti quegli interventi che possano essere distruttivi per l’ambiente.
    Al fine di meglio rimarcare i molteplici interessi culturali del territorio, l’area  della riserva è tutelata, per gli aspetti paesaggistici, dalle leggi n. 1497 del 1939 e n. 431 del 1985 (Legge Galasso).



3.d – L’INGHIOTTITOIO
L’”Inghiottitoio”, che si apre sul versante sud di Monte Conca, e la sua “Risorgenza” danno vita ad un importante sistema idrico, attualmente attivo e tra i più suggestivi del nostro territorio. L’acqua meteorica viene raccolta dai pendii “imbutiformi” di una valle chiusa (lo “Zubbio”) in un ripido torrente, che si riversa nell’imboccatura dell’inghiottitoio.
La grotta si apre con una suggestiva galleria levigata dalla forza delle acque; al termine della galleria inizia una successione di quattro grandi pozzi verticali (rispettivamente di 9,12, 31 e 26 metri) che si aprono in grandi saloni a campana.
Al  fondo dell’ultimo pozzo, la forza delle acque ha scavato una galleria che termina in un stretto meandro “sifonato”, impraticabile dall’uomo, attraverso cui le acque defluiscono verso la Risorgenza (Grotta di Carlazzo).
Le acque assorbite dall’inghiottitoio infatti, dopo aver attraversato il rilievo gessoso, tornano alla luce dalla Risorgenza di Monte Conca, localizzata alla base della scarpata settentrionale del rilievo. Da qui le acque confluiscono nel Fiume Gallo d’Oro, affluente del più noto Fiume Platani.

 In rosso le linee di rilevamento dell’Inghiottitoio (A);
(B) – Grotta della Risorgenza (Grotta Carlazzo) di Monte Conca
(C) - Paleorisorgenza
https://www.researchgate.net/figure/Inghiottitoio-di-monte-Conca-cave-map-with-extended-profile-and-cross-sections-modified_fig4_233851817




 L’Inghiottitoio di Monte Conca è conosciuto dalla gente del luogo e come tutte le cavita ha dato origine a leggende per la presenza di misteriosi tesori. La grotta fu segnalata agli speleologi solo verso la fine del 1970 e solo dietro questa segnalazione fu censita con rilievi topografici e fotografici.

Le prime attività degli speleologici portarono alla scoperta di circa 500 metri di gallerie e di quattro pozzi per una profondità complessiva di ben 108 metri.

La grotta risultava composta da:
-          una galleria superiore;
-          una rapida sequenza di pozzi indicati con le profondità di, 12,35 e 26 metri;
-          una galleria inferiore che terminava in corrispondenza di un sifone colmo di acqua e fango.
Nel 1999 si effettuarono nuovi rilievi con l’utilizzazione di strumenti più moderni  e riuscendo a superare qualche sifone furono aggiornati i dati della cavità che raggiungeva una profondità di 132 metri ed uno sviluppo di ben 640 metri.






Inghiottitoio di monte Conca, mappa delle grotte con profilo esteso e sezioni trasversali (modificato da Vattano 2008).
Con il nuovo rilievo , senza dubbio più accurato, la grotta risultava formata nell’ordine:

-          dalla galleria superiore sub-orizzontale, lunga circa 100 metri e larga mediamente 2,00 metri, che presentava una serie di incavi nelle pareti. Incavi causati dai diversi livelli di scorrimento dell’acqua o anche da segni di dissoluzione selettiva degli strati di gesso e dei livelli meno solubili;
-          alla fine della galleria si trova il primo pozzo di 11 m;
-          in rapida sequenza si trovano il secondo e il terzo pozzo. Il terzo pozzo è il più complesso per la presenza di una marmitta nella sua porzione superiore che fu chiamata ironicamente dagli esperti speleologici “bidet”. Gli stessi speleologici rimasero esterrefatti dalla notevole dimensione del pozzo. Il dislivello dalla galleria superiore è di 35 metri, di cui 24 direttamente nel vuoto. Alla base l’ambiente misura ( 22 x 10 )m.
-          dopo una galleria con molti massi di crollo, si raggiunge il quarto pozzo. Anch’esso ha notevoli dimensioni con una verticale di 26 metri.
Tutti e quattro i pozzi presentano lungo le pareti e alla loro base imponenti concrezionamenti carbonatici e splendidi laghetti all’interno d grandi marmitte.
-          Dalla base dell’ultimo salto ha inizio la galleria inferiore che con un andamento influenzato da discontinuità dell’ammasso roccioso e per una lunghezza di circa 400 metri, alterna altezze variabili: da 1 m ad altezze di 3 – 4 metri. Lungo questa galleria, larga in media 2 metri, è possibile osservare la sottile stratificazione della roccia gessosa. Questa aspetto regalò agli speleologici degli splendi effetti al passaggio delle luci e bellissime cupole di evorsione  (particolare forma di erosione della roccia dovuta all’erosione turbinosa dell’acqua) di svariate dimensioni sul tetto della stessa galleria. Lungo questo passaggio s’incontrarono anche due piccole sorgenti sulfuree dal classico odore di “uova marce”.
Grazie anche all’attrezzatura, tra cui lampade molto potenti, in diversi punti della grotta lungo i pozzi e le gallerie, vennero notate delle finestre a diversa quota.
Nel 2003 venne effettuato un tentativo di raggiungere con un traverso una finestra ubicata in cima al terzo pozzo. Purtroppo un cammino parallelo al pozzo stesso rese molto sottile la porzione di roccia in cui s’inizia a chiodare, tanto da farla vibrare al solo peso dello speleologo. S’abbandonò questa via e si puntò immediatamente su un’altra piccola finestra tra il terzo e il quarto pozzo. Dopo una risalita di circa 6 metri, si trova una stretta e bassa galleria sub-orizzontale. Anche se di modeste dimensioni, la galleria è la via di accesso a tutti i rami nuovi che, da questo momento in poi, costituiranno la parte più estesa della grotta.
La galleria s’imposta su discontinuità in direzione nord-sud. Ha un pavimento sabbioso/argilloso e termina cieca, fra strettoie e massi crollati, dopo circa 100 metri.

Nella sua zona più interna si connettono altri due passaggi diretti rispettivamente verso ovest e verso est. Quello che si sviluppa verso ovest presenta diverse diramazioni. Dopo brevi tratti di strette gallerie si accede a una sala e da questa, verso nord vi è il “Laminatoio dei Poligoni”, esplorato nel 2008 dopo aver scavato uno stretto passaggio per riuscire a rendere umanamente percorribile il suo accesso. Il laminatoio, lungo circa 120 m e con uno sviluppo parallelo alla Galleria degli Sbadigli, è da affrontare strisciando sul fango compatto, fino a una stanza di maggiori dimensioni chiusa da grossi blocchi di crollo. Verso sud, dopo un’arrampicata su uno spesso deposito alluvionale, è possibile raggiungere i “Rami Ascendenti”, due passaggi circa paralleli tra loro a sviluppo nord-sud che terminano in corrispondenza di una zona in frana. Dopo 50 m sotto questi, si trova un passaggio in discesa che conduce ad altri ambienti: “Il Meandro” e le “Gallerie Pezzi di Vetro”. Il Meandro costituisce una galleria con andamento sinuoso e con cospicui depositi di fango sul pavimento; termina dopo circa 90 m in corrispondenza di un laghetto, a pochi metri di distanza da una pozza presente in un ramo laterale della galleria inferiore della grotta. Le “Gallerie Pezzi di Vetro” sono invece un complesso reticolo di passaggi formati da strette gallerie, pozzi da risalire (Budello) e da scendere (Pozzo Stefano) e sale interessate da ingenti crolli.
Ritornando nella galleria scoperta con la risalita, verso est si diparte una strettoia in discesa, battezzata “La Tana del Bianconiglio”, caratterizzata alla sua fine da un piccolo salto da scendere in corda. Oltre il salto, si possono percorrere gallerie fangose, con le pareti caratterizzate dalla presenza di “mensole” legate alla dissoluzione differenziale, fino a raggiungere una finestra su un pozzo, le cui dimensioni e morfologia sono nascoste da un setto formato da materiale alluvionale, proveniente da un’altra galleria ad andamento nord sud che si apre lungo la parete meridionale del pozzo stesso. La discesa verso la base del pozzo avviene quindi per buona parte nel deposito alluvionale reinciso dall’acqua, fino alla roccia gessosa nell’ultima porzione, dove si sviluppa una piccola galleria a forra che dà accesso alla base del “Pozzo delle Conuliti”. Anche il Pozzo delle Conuliti è un pozzo cascata, caratterizzato da una sezione a campana e lisce pareti. Presenta una base di 12×10 m e un’altezza di 22 m e il suo fondo è ricoperto da uno spesso deposito argillo limoso, in cui le gocce di stillicidio hanno dato origine a spettacolari conuliti allineate, e a numerose picco - le piramidi di terra, laddove tra le particelle finissime sono presenti clasti di dimensioni maggiori. Alla base della parete est del pozzo si apre una stretta galleria che dopo una ventina di metri è tappata da fango e a circa 20 m di altezza si apre una finestra, oggetto delle ultime esplorazioni realizzate nell’Inghiottitoio di Monte Conca. Dopo una faticosa risalita, effettuata vincendo la poca resistenza delle pareti gessose coperte di fango, si è raggiunta la finestra che ci ha dato la possibilità di esplorare un’altra breve galleria conducendoci fino alla base di un altro pozzo, il “Pozzo Aracuan”. Anche questo pozzo costituisce un pozzo cascata, presenta le pareti molto lisce e un’altezza di 20 m. Il “Pozzo Aracuan” lasciava intravedere nella sua parte superiore, due gallerie ubicate rispettivamente a sud e a nord. La presenza di questi due passaggi ci aveva entusiasmato parecchio, facendoci immaginare l’esistenza di diversi nuovi ed estesi ambienti. Effettuata anche questa risalita, sempre sul gesso, abbiamo trovato le due gallerie entrambe da ascendere. La galleria a nord, raggiunta per prima, si sviluppa per circa 25 m chiudendo tra massi di crollo; quella a sud, raggiunta con un traverso in cima al pozzo, si estende per circa 50 m ed è caratterizzata da alte pareti nella sua prima parte, mentre subisce un progressivo abbassamento fino a chiudere tra i crolli. Di notevole bellezza sono i concrezionamenti carbonatici che si presentano sotto forma di colate e pisoliti. Tutte le gallerie ascendenti esplorate in questi rami nuovi sono caratterizzate da un andamento circa nord-sud, da un pavimento argilloso e terminano in corrispondenza di depositi alluvionali o di crollo. Verosimilmente svolgevano il ruolo di punti di alimentazione del sistema carsico, fino al momento della loro occlusione. Con le nuove esplorazioni l’Inghiottitoio di Monte Conca raggiunge uno sviluppo di circa 2.2 km. (https://www.researchgate.net/publication/270575736_Il_sistema_carsico_di_Monte_Conca)



http://letaddarite.blogspot.com/2015/07/inghiottitoio-di-monte-conca-e-forse.htm



Scorrimento idrico nella galleria superiore 



3.e – LA RISORGENZA E LA PALEORISORGENZA

La Risorgenza di Monte Conca, denominata localmente Grotta di Carlazzo, è localizzata alla base del versante nord di Monte Conca, in prossimità di un’ansa del Fiume Gallo d’Oro. La grotta, prevalentemente orizzontale, ha uno sviluppo di circa 260 m, un dislivello di +10 m ed è costituita da due livelli principali sovrapposti, di cui uno attivo e l’altro, quello superiore, attivo solo in occasione di particolari eventi meteorici. La galleria superiore ha direzione NNE-SSW, presenta un’altezza compresa tra 1 e 6 m e una larghezza variabile tra 0,7 e 2 m. Il ramo attivo è percorribile solo per alcuni metri, è sempre interessato dallo scorrimento delle acque, anche quando queste hanno una bassissima portata, ed è collegato alla galleria superiore tramite un pozzo di circa 5 m, localizzato nella parte più interna della grotta. L’andamento generale della cavità è influenzato dai principali sistemi di frattura, aventi direzioni NE-SW e NW-SE. L’ingresso della cavità è di modeste dimensioni ed è ubicato a una quota di circa 2 m superiore rispetto a quella del letto del Fiume Gallo d’Oro. La prima parte della grotta, dopo una breve galleria, è interessata da crolli che hanno creato un ambiente costituito da due sale di ridotte dimensioni e collegate da un piccolo corridoio, in cui si congiungono i due livelli della cavità. Le acque provenienti dal livello attivo inferiore, infatti, vengono a giorno in corrispondenza di un piccolo laghetto presente in quest’ambiente dove è stato anche realizzato un pozzo in muratura che fino a qualche decennio addietro veniva utilizzato per il prelievo delle acque del sistema carsico grazie ad una senia.
Queste acque erano le uniche, oltre a quelle della Sorgente Fontana di Rose, utilizzabili a scopi agricoli.
Queste acque, pur essendo ricche di solfati, sono qualitativamente migliori di quelle dell’adiacente Fiume Gallo d’Oro che, attraversando depositi salini, sono ricche in cloruri. Superato il laghetto ha inizio il ramo inattivo che può essere schematicamente suddiviso in tre settori. Il primo settore è caratterizzato da una galleria risultante dall’anastomosi di due condotte a pieno carico sovrapposte, come testimoniato dalle caratteristiche sezioni a otto. Il fondo, costituito da gesso macrocristallino, è a luoghi inciso da un solco legato a un approfondimento del livello di base carsico, mentre le pareti appaiono lisce e levigate. Il secondo settore della galleria è contraddistinto da un andamento meandriforme concordemente ai sistemi di discontinuità con porzioni a forra alta fino a circa 7 m. La galleria mostra lungo una parete evidenti morfologie legate all’azione di scorrimento delle acque, assenti sulla parete opposta costituita dal piano di faglia. Sono inoltre frequenti numerosi massi disarticolati che tendono ad abbassare la volta in cui si riconoscono pendenti in roccia a testimoniare fasi paragenetiche della cavità. La grotta, da questa zona fino al sifone terminale, presenta un fondo argilloso su cui sono rinvenibili poligoni da essiccamento, ripples e impronte da corrente. Il terzo settore è caratterizzato da più livelli di piccole condotte a pieno carico sovrapposte, su cui confluiscono condotte minori ortogonali a esse e attualmente sigillate da sedimenti. Oltre questa zona, in corrispondenza di un’ansa di meandro, si apre il pozzo che mette in comunicazione i due livelli principali della grotta. La genesi del pozzo è legata a fenomeni di crollo favoriti dall’intersezione di due fratture con andamento NE-SW e NW-SE. La parte finale della grotta è ricca di sedimenti di natura argillosa che riducono progressivamente le dimensioni della galleria fino a renderla non più percorribile. Tuttavia, la presenza di una cospicua corrente d’aria lascia presupporre l’esistenza di altri ambienti.
Le cavità sin qui descritte appartengono all’attuale stato evolutivo del sistema idrografico sotterraneo del Monte Conca; per quanto riguarda il passato, non precisamente quantificabile al momento in termine di anni, rimangono a testimonianza di antichi livelli di scorrimento idrico altre due cavità, ancora non del tutto esplorate, ubicate rispettivamente sul versante occidentale della montagna ed immediatamente sopra la grotta di Carlazzo.
La prima cavità, nota come Grotta del Mortaio, si sviluppa per circa cinquanta metri con andamento orizzontale lungo una frattura tettonica ancora facilmente riconoscibile e solo parzialmente modificata dallo scorrimento delle acque che, in origine, certamente percorrevano. Attualmente la grotta si presenta ingombra di grandi massi oltre che quasi interamente ricoperta concrezioni e cristallizzazioni di gesso di svariate morfologie.
Circa venti metri al di sopra della Risorgenza di Monte Conca si apre in parete un’altra cavità senza denominazione, di modesto sviluppo, la cui esplorazione completa è attualmente impedita dalla ridotta sezione di un cunicolo parzialmente ostruito da depositi detritici,
Una forte corrente d’aria proveniente dall’interno, lascia ipotizzare la presenza di ulteriori ambienti, la cui futura esplorazione potrebbe contribuire a chiarire l’evoluzione idrologica e speleogenetica dell’intero monte. La grotta ci indica, allo stato delle conoscenze, la posizione del reticolo idrografico preeesistente a quello dell’attuale risorgenza.
In entrambe queste due ultime grotte sono presenti tracce di frequentazione umana consistenti in cocci di vasellame e nicchie scavate nella roccia, probabilmente con lo scopo di chiuderne l’accesso con tronchi d’albero, oltre che in rudimentali gradini ed appigli realizzati per agevolare gli spostamenti all’interno delle cavità o per migliorarne l’accessibilità. In particolare nella Grotta del Mortaio si è avuto modo di constatare una divisione dell’ambiente ipogeo in due porzioni: quella più profonda destinata ad ovile,mentre quella più prossima all’ingresso finalizzata alla frequentazione umana.
Nella medesima porzione di riserva sono presenti altri inghiottitoi che seppure di ridotte dimensioni contribuiscono allo sviluppo del circuito idrogeologico dell’area di Monte Conca.




https://www.researchgate.net/profile/Marco_Vattano/publication/270575736/figure/fig1/AS:614000555487258@1523400548300/figure-fig1_Q320.jpg


La Paleorisorgenza di Monte Conca è localizzata nel versante nord dell’omonimo rilievo, a circa 40 m di altezza rispetto all’attuale Risorgenza e di poco spostata dalla sua verticale. La cavità si sviluppa per circa 40 m seguendo delle discontinuità orientate prevalentemente N-S e termina biforcandosi in due rami. Il più breve, allineato con la porzione iniziale della galleria, risulta sigillato dopo pochi metri da depositi alluvionali che presentano all’interno delle fratture da essiccamento, piccole ricristallizzazioni gessose del tipo gypsum flowers; il ramo che si spinge più in profondità s’imposta per un breve tratto lungo una discontinuità diretta circa E-W per poi riprendere la direzione N-S, e terminare con un restringimento dovuto sia all’abbassamento della volta gessosa sia alla presenza di spessi depositi alluvionali di diversa natura e granulometria. L’ingresso della grotta, di dimensioni 6×2 m, è ubicato all’intersezione tra una discontinuità con direzione N-S e una superficie di strato blandamente inclinata e molto incisa dai paleoflussi idrici. La prima porzione della galleria è caratterizzata dalla presenza di più livelli di mensole da dissoluzione differenziata che si presentano immergenti verso l’interno della grotta, concordemente alla stratificazione. A circa 20 m dall’ingresso si osservano all’altezza di 1,5 m dal piano di calpestio, dei sedimenti ciottolosi legati a fasi di riempimento della cavità. Il pavimento della grotta è costituito sia da materiale detritico a spigoli vivi che da depositi argillosi. Sia all’interno della cavità che lungo il versante gessoso si rinvengono numerose testimonianze antropiche, quali: intagli a pedarole, mensole e fori probabilmente di età neolitica, analogamente ai numerosi siti archeologici presenti nell’area. Il sistema carsico di Monte Conca è a oggi il più esteso e profondo nei gessi siciliani, raggiungendo una profondità di circa 130 m e uno sviluppo complessivo di oltre 2,5 km. L’intero sistema rispecchia la classica struttura in condizioni di carso nei gessi esposto, caratterizzato da una condotta attiva principale e da numerosi tributari non più attivi, spesso sigillati da depositi alluvionali o di crollo. Le diverse gallerie disposte su più livelli, interconnesse da profondi pozzi, indicano che il sistema si è originato durante l’alternarsi di fasi di stazionamento e abbassamento del livello di base carsico. Tuttavia, la normale evoluzione speleogenetica sembra essere stata complicata dal verificarsi di diversi fenomeni franosi in superficie che avrebbero occluso gli antichi punti di assorbimento (testimoniati dalle gallerie ascendenti dei rami nuovi), e favorito la formazione della galleria superiore che attualmente viene percorsa dalle acque assorbite dall’Inghiottitoio di Monte Conca. Ringraziamenti Seppur sinteticamente e non potendo elencare tutti i nomi di chi ha condiviso le emozioni e le fatiche delle esplorazioni e partecipato alle attività di documentazione di questo sistema carsico, un doveroso ringraziamento va a tutti gli speleologi de “Le Taddarite” e del GS Speleopetra che hanno passato ore, giorni in queste grotte, tra acqua, fango e gesso.


modello morphoevolution del sistema carsico del monte Conca. 1: argilla marnosa; 2: gesso; 3: pendio e depositi alluvionali; 4: Guasto; 5: livello piezometrico. I: genesi del livello intermedio di gallerie collegate al Paleorisorgenza. II: abbassamento dell'abbassamento del livello di base carsico - genesi della galleria inferiore (collegata alla Risorgenza di monte Conca) e del 4 °, Conulites e Stefano. III: processi di pendenza in salita, accumulo di depositi in pendio e sigillatura di punti di affondamento che alimentavano le gallerie intermedie; genesi del punto di caduta effettivo e degli alberi 1 °, 2 ° e 3 °.
https://www.researchgate.net/profile/Marco_Vattano/publication/233851817/figure/fig7/AS:667855968280582@1536240679732/morphoevolution-model-of-the-monte-Conca-gypsum-karst-system-1-marly-clay-2-gypsum_W840.webp

Anche il settore ubicato a Nord del Fiume Gallo D’Oro presenta cavità sia naturali che di origine antropica. Le prime son0oo ubicate sulle Rocche di Tullio oltre che sulle Rocche di Don Michele. Tali cavità, allo stato attuale delle conoscenze, rivestono un’eccezionale importanza al fine di ricostruire il circuito idrogeologico della sorgente di Fontana di Rose.
La presenza di cavità antropiche, ubicate in particolar modo nell’area di Cozzo Don Michele, si ricollega all’attività di coltivazione di materiale lapideo da costruzione, costituito dai livelli calcarei.   
3.f – LA FLORA E  LA FAUNA

La flora è costituita in prevalenza da specie erbacee ed arbustive come il timo, l’euforbia (“cammarruneddu”),  e l’ampelodesma. Nelle zone umide si trovano esemplari di pioppo nero chiuppu nìuru e di salice mentre dove c’è ristagno d’acqua c’è il predominio della cannuccia di palude e la Canna del Reno che è presente soprattutto nei valloni umidi. Davanti alla Grotta della Risorgenza c’era una volta un lussureggiante boschetto di olmi, non so se ancora presente. Lungo le sponde del fiume Gallo d’Oro prevale lo sviluppo dei Tamerici. In primavera fiorisce l’Orchidea spontanea (“apària spuntania”) cioè l’Orchidea Italica e la Damigella (Nigella Sativa) che si distingue per i grandi fiori di colore violaceo. Le pendice del monte sono predominio della Bocca di leone, del tarassaco, della perlina minore, ecc.
Riguardo alla fauna, la diminuzione della pressione venatoria ha favorito il moltiplicarsi di alcuni mammiferi come il coniglio, la lepre, l’istrice porcu spinu “, la volpe e anche il gatto selvatico “ jattu sarvaggiu “ che è in via di estinzione. Non mancano i rapaci che trovano il loro habitat naturale sulle pareti rocciose come il gheppio (“cacciaventu”), il falco pellegrino albaneddu/falcuni pepiddirinu”)., la poiana (“arbaneddu mìula”)(.  L’usignolo di fiume, il beccamoschino, il pendolino  presente tra i fitti tamerici del fiume Gallo d’Oro.  Cannaiola  (“  ‘a acidduzzu di bona nova”)(Acrocephalus scirpaceus), l’Usignolo di fiume  (“  lu aciduzzu di cannitu”)(Cettia cetti), il piccolo Beccamoschino  ( “ lu acidduzzu  di fenu, “rijiddu di pantanu”)(Cisticola juncidis) e il Pendolino (remix pendulinus).
Era tornato a nidificare sulle pareti di  Monte Conca, delle Rocche di Don Michele e di Don Tullio anche il Gracchio Corallino (Pyrrhocorax pyrrohocorax) e il Corvo Imperiale.

Gracchio Corallino

Numerose le specie di insetti, farfalle e coleotteri mentre nelle acque salmastre del fiume sembrano essere ritornate le anguille e i gamberetti oltre a rane e tartarughe.

3.g – TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE

Le testimonianze archeologiche sono numerose. Sembra esistente sul Monte un villaggio risalente al periodo neolitico. Di epoca medievale, come citato nella ricerca dedicata al Centro di Milena, i resti del castello di Milocca che sembra costruito in epoca bizantina e poi distrutto dagli arabi per essere poi ripreso, anche se solo come presidio e probabilmente con una torre dai normanni (è stata rivenuta la pianta di una torre e alcune resti di fortificazione).
La presenza, ai piedi del Monte delle rovine di un ponte che attraversava il fiume Gallo d’Oro, è la testimonianza della presenza, oltre al rinvenimento di alcuni tratti di strada lastricata; di un asse viario che risale probabilmente all’epoca romana.
Ad epoche più recenti risalgono le opere di presa e conduzione delle acque dolci che scaturiscono dalla Risorgenza.
All’interno dell’area protetta sono state rinvenute tracce di insediamenti abitativi.
Sulle zone medio-sommitali dei versanti meridionali e orientali di Monte Conca sono state rinvenute numerose tombe “a forno” e a “pianta circolare”, che testimoniano la presenza dell’uomo sin  dall’antichità. Tali ipotesi nascono grazie alla localizzazione dei resti di capanne e al rinvenimento di importante materiale fittile risalente all’Età del Bronzo e allo studio dell’orografia dei luoghi.



    Nel suo interagire con il territorio l’uomo lascia oggi tracce, spesso sotto forme distruttive e quindi in contrasto con l’ambiente naturale, un tempo invece maggiormente inserite negli ecosistemi circostanti.
    A causa della posizione, dominante la confluenza di importanti vie di comunicazione fluviali (Fiume Platani, Fiume Gallo d’Oro) e terrestri (itinerario congiungente Palermo con Agrigento), l’area della riserva ha sempre avuto una rilevante importanza strategica rispetto ad altre porzioni del territorio, come testimoniano le molteplici emergenze storiche, archeologiche ed antropiche riscontrabili all’interno dell’area protetta.
    Le prime tracce dell’uomo all’interno del territorio oggi posto sotto tutela risalgono all’epoca Neolitica, cui sono da ricondurre i due villaggi di capanne individuati in località Mezzebbi e lungo il versante occidentale del Monte Conca, nei pressi della regia trazzera.
    Ancora in località Mezzebbi è stato rinvenuto sia materiale fittile dell’età del bronzo, sia un villaggio con capanne aventi diametro di 4-5 metri. Si ritiene che la frequentazione continua del sito di Mezzebbi sia riconducibile alla presenza della via di comunicazione fluviale rappresentata dal Fiume Gallo d’Oro.
    Ancora lungo il versante orientale, sudorientale e meridionale del Monte Conca si riscontrano tredici tombe, sia del tipo a forno che a pianta circolare con tetto piano, scavate nella roccia gessosa.
    Numerose grotte (Grotta del Mortaio, cavità sopra la risorgenza di Monte Conca) presentano tracce di frequentazione umana consistente in resti fittili, nicchie realizzate nella roccia, rudimentali gradini e appigli.
La Grotta del Mortaio è per tali aspetti di notevole importanza didattica, infatti, si è avuto modo di constatare una divisione dell’ambiente ipogeo in due porzioni: quella più profonda destinata ad ovile, con la roccia delle pareti particolarmente abrasa e con interventi finalizzati alla recinzione di questo settore della cavità, mentre quella più prossima all’ingresso finalizzata alla frequentazione umana, con vistose tracce di fumo sulla volta, incisioni sulle pareti, fori e resti fittili.
    L’area della riserva è inoltre interessata dalla presenza di un tratto di un itinerario che già si riscontra in documenti della fine del 1200 d.C., anche se solo un secolo più tardi (1363), in un documento di Federico III, viene esplicitamente citata la “viam publicam qua itur Mulocca Suteram usque ad Flumen Salsum”: dunque un importante asse di comunicazione che intersecava la Baronia di Milocca e che da Sutera, attraversando il Salito (oggi Gallo d’Oro) nel punto su cui s’impianterà il ponte di Campofranco, costeggiava il casale di Milocca in direzione Grotte, reinnestandosi poi verosimilmente sull’asse viario Palermo – Agrigento.
    Va inoltre osservato come la viabilità medievale sia sostanzialmente rimasta immutata nei secoli, dal momento che la via “publica Milocca – Sutera” coincide perfettamente con la moderna trazzera demaniale n° 682 Campofranco – Grotte. Questo tracciato doveva quasi certamente esistere già prima del periodo medievale, ma non se ne sono riscontrate che poche labili tracce.
    Nella cartografia ottocentesca l’itinerario di cui sopra viene indicato con l’eloquente termine di via regia, che va a sostituire la più antica denominazione di via consolare, riferito alle cosiddette strade di prima classe, ossia quelle finalizzate a facilitare la difesa ed il governo dello Stato.
    Si deve ritenere che a causa delle difficoltà di attraversamento del Fiume Platani con l’itinerario di fondo valle, quello che attraversa l’area protetta abbia avuto una notevole importanza, testimoniata anche dalla presenza sulla cima del monte Conca di un insediamento militare dell’ XI – XII secolo d. C., verosimilmente a guardia del sottostante e strategico guado.
    Diverse anche le tracce lasciate dall’uomo in epoche più recenti, dalle miniere di zolfo presenti lungo il versante occidentale del Monte Conca, agli interventi antropici realizzati presso la Risorgenza di Monte Conca al fine di consentire il prelievo ad uso irriguo delle acque dolci, che fuoriescono dalla cavità. A tal fine l’ingresso naturale della cavità veniva ostruito ottenendo in tal modo l’innalzamento artificiale del livello piezometrico. L’acqua poteva quindi essere estratta agevolmente mediante una senia attraverso il pozzo artificiale, precedentemente ricordato, che intercetta la grotta sottostante. Era possibile in tal modo irrigare ampie aree di terreno con acqua dolce, non essendo utilizzabile per tale scopo quella del Fiume Gallo d’Oro, caratterizzata da un elevato tasso di salinità.
    Di notevole interesse poi le antiche cave di calcare presenti sia sul Monte Conca, sia sulle Rocche di Don Michele e su Cozzo di Don Michele; in particolare in queste due ultime aree le cave furono realizzate in sotterraneo al fine di seguire più proficuamente il banco roccioso.

3.h - Video -  L'Inghiottitoio di Monte Conca


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 4 - L’ATTIVITA’ MINERARIA


4.a – LA  MINIERA COZZO DISI


La solfara Cozzo di Disi o miniera di Cozzo Disi è posta nella provincia di Agrigento fra i Comuni di Casteltermini e di Campofranco lungo la SS 189 della Valle del Platani.
La miniera si trova in Contrada Monte Lungo nei terreni dell’ex feudo Chipirdia che apparteneva, prima del 1839, ai fratelli Gaetani Bastiglia. Una volta scoperto il prezioso minerale venne data in gabella ai fratelli Pace. Fu una delle miniere più importanti d’Italia e dopo la chiusura di Perticara e di Cabernardi era la più grande in assoluto. Fu l’ultima miniera a chiudere nel 1988  (Legge Regionale n. 34 del 1988).


Malgrado la chiusura del 1988, come riferisce il sito del Comune di Campofranco, la miniera fu tenuta in manutenzione fino al 1992 per provvedere anche all’eduzione delle acque.
Nel novembre del 1990 l’Ente Minerario Siciliano, in possesso di tutte le miniere di zolfo, consegnò, sottoscrivendo un atto amministrativo, all’Assessorato Regionale alla Presidenza il bene quale proprietario di tutti i beni demaniali regionali.
L’Ente Minerario Siciliano abbandonò la manutenzione della miniera ma non l’eduzione delle acque che svolse normalmente fino al 1991 quando per un guasto alle pompe abbandonò definitivamente la miniera ritirando il personale. La miniera fu così abbandonata al saccheggio ed alla devastazione più completa e naturalmente le gallerie si allagarono.
La legge regionale n. 17 del maggio 1991 aveva permesso  alla regione di costituire quattro musei minerari:  Gessolungo e La Grasta di Caltanissetta, Trabia e Tallarita di Rieti e Sommatino, Ciavalotta di Favara.
La stessa legge aveva istituito la miniera museo di Cozzo Disi che necessitava però di interventi finanziari. Solo nel 1966, con la nuova legge regionale 3/96, fu stanziato un miliardo di lire per la “salvaguardia delle infrastrutture in sotterraneo della miniera museo di Cozzo Disi”.
Questo primo finanziamento consentì di ripristinare la galleria di “flottazione” e un’altra galleria, posta quindici metri più in basso, che è collegata  a questa con una discenderia. Si costituiva in questo modo un primo circuito sotterraneo, in entrata ed in uscita, fruibile per i visitatori.
Nel 2001 fu stanziato un altro miliardo che fu utilizzato per il ripristino degli impianti, funzionanti fino al 1992, e che dopo l’abbandono dell’Ente Minerario Siciliano erano stati semidistrutti.
Dopo vari anni di attese finalmente nel 2018 la miniera è diventata fruibile al pubblico.
Una miniera  che è un vero gioiello del territorio.
Il suo sotterraneo è ben conservato, arriva all’ottavo livello,  230 metri di profondità … un vero e proprio viaggio nelle viscere della terra dove si ammirano le pareti coperte da immensi cristalli di gesso di eccezionale purezza e trasparenza. Le fonti citano cristalli di dimensioni superiori ai due metri. La miniera arriva al dodicesimo livello dove il giacimento solfifero è quasi intatto.
Bisogna dare atto al Comune di Campofranco di aver sempre creduto nel progetto di valorizzazione
 superando anche il problema di pompaggio delle acque che dal 1992 avevano invaso le gallerie dal nono al dodicesimo livello.



La miniera è oggi una delle tappe fondamentali dell’itinerario museale  l’”Età dello Zolfo”.
È stata ripristinata la funzionalità dell’impianto estrattivo, dei quadri elettrici, delle gabbie che scendono nei pozzi, delle funi e di tutte la macchine che erano ferme ed abbandonate da più di 10 anni. I lavori si sono eseguiti grazie a finanziamenti ed hanno avuto alla base  la volontà da parte delle amministrazioni di Casteltermini e di Campofranco che hanno fortemente creduto nel valido progetto. La preziosa collaborazione del Distretto Minerario di Caltanissetta, della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Agrigento attraverso personale qualificato hanno consentito di conseguire degli importanti obiettivi di riqualificazione della stessa miniera.
Nei difficili lavori di recupero hanno prestato la loro professionalità anche i fratelli Sebastiano e Santino Infantino che da giovani avevano lavorato per anni nella miniera.



Zolfo su Aragonite



Sono stati ripristinati alcuni armamenti lignei delle antiche gallerie “Canalotto” e “Flottazione” che erano fortemente degradati ed è stata collocata una pompa centrifuga al settimo livello, sotto la superfice del piano di campagna, alfine di convogliare le acque sotterranee all’esterno. Si evita in questo modo la progressiva sommersione delle discenderie a causa dell’innalzamento delle acque sotterranee in particolare dopo le piogge invernali. Questo evita anche il danneggiamento delle opere che sono state eseguite per riqualificare il sito.
I lavori hanno interessato sei livelli, sempre sotto la superfice del piano di campagna,  sino ad una profondità di 287 metri.  Una quota raggiungibile , non solo attraverso le ripristinate discenderie, ma anche attraverso il pozzo principale che è profondo complessivamente 410 metri.
È una delle poche miniere nazionali in cui il visitatore può tranquillamente scendere i sei livelli sotto il paino di campagna ed apprezzare l’antico ripristino del ciclo produttivo per l’estrazione dello zolfo che per qualità era uno dei più apprezzati al mondo.
La miniera dista circa un chilometro dalla SS 189 Palermo-Agrigento e circa 200 metri dalla stazione ferroviaria di Campofranco. Un sito quindi anche facilmente raggiungibile per chi è diretto da Palermo ad Agrigento tramite ferrovia.

Il 26 maggio 2018, in occasione della “X Giornata Nazionale delle Miniere” fu organizzata una visita al Parco Minerario delle Zolfare (Comitini- Agrigento) e alla Miniera Museo di Cozzo Disi
Una giornata promossa dall’ISPRA, , ReMi, AIPAI, ANIM, Geologia & Turismo, Assomineraria con il patrocinio di Eurogeosurveys, l'Ordine Nazionale dei Geologi e la Fondazione FS.











4.b - LA STORIA  DELLA  MINIERA – Il Conte della Bastiglia – (Orioles e Gaetani Vanni)
La miniera di “Montelongo” iniziò i lavori di scavo per la ricerca del minerale di zolfo tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800.  La data è rilevabile dal contenzioso, iniziato nel 1805, tra il Comune di Campofranco e il Conte della Bastiglia che era proprietario della miniera.

“Nella Val di Mazara, territorio di Sutera, si trova la Baronia di Xhomiso che si compone dei feudi: Stritto, Chiperdia e Mandravecchia. In essa si trovano due molini e godevano del mero e misto impero. In detta baronia sorgeva la Rocca di Fontanafredda o Bastiglia. La baronia appartenne alla famiglia Chiaramonte. Giovanni Chiaramonte nel 1296 l’acquisto da Berengario de Lubera. Dopo la decapitazione di Andrea Chiaramonte la baronia passò a Guglielmo Moncada e Peralta, conte di Augusta (Agosta) con investitura del 28 luglio 1392. Dichiarato “fellone” la baronia di Xhomiso o Fontanafredda fu concessa a Calogero Crisafi, di Messina, e a Giovanni Riccio, castellano del Palazzo di Messina. Ottennero l’investitura il 18 ottobre 1398. Nicolò Crisafi e Giovanni Riccio vendettero la baronia a Giacomo Arezzo con atto del notaio  Lorenzo Noto di Catania il 29 luglio 1406 per il prezzo di onze 130. Vendita che fu confermata da re Martino l’uno ottobre 1406(Regia Cancelleria 1406, foglio 58).
Nel 1700 la rocca di “Filippo IV” (Fontanafredda o Bastiglia) doveva essere ancora esistente. La baronia fu elevata a Contea e concessa a Gaspare Orioles e Spinola con privilegio emesso nella Regia del Pardo il 20 gennaio 1625 ed esecutorio in Palermo l’8 aprile 1625 (Protonotaro del regno, registro 535, foglio 184). L’Orioles, conte di Alcantara “poeta e mecenate di letterati”, sposò Maria Pellegrino. “Morì senza figli in Palermo il 31 dicembre 1651 e fu sepolto ai Cappuccini di Palermo”.
Come mai la Contea di Fontanafredda o Bastiglia passò agli Orioles ?
Alla morte di Giacomo Arezzo la baronia passò al figlio Niccolò  per poi giungere al nipote di quest’ultimo, Pirruccio (o Perruccio) Lanza.
Il Conte don Perruccio Lanza la donò come dote a sua figlia Saurina che sposò Manfredo Orioles, figlio di Berengario Orioles, fra l’altro barone anche di San Piero, e di Biancafiore Valguarnera.
Il figlio della coppia, Pietro Matteo Orioles, nel 1496 fu investito della Contea. Nel 1514 il conte era Giovan Francesco Orioles, figlio di Pietro Matteo, che con il figlio Benedetto, litigarono  nel 1517 con l’Università di Sutera.
Da Benedetto nacquero Pier Matteo e Manfredo.
Pier Matteo sposò la figlia di Matteo Pujades di Agrigento: Giovan Battista, barone di Fontanefredda; Vincenzo e Fabrizio.

Vincenzo Orioles sposò donna Porzia d’Albergo con figli: donna Margerita, don Carlo, don Giuseppe e don Francesco;

Fabrizio Orioles sposò donna Antonia Manno ed ebbero un'unica figlia, Celestina, “monaca nel Monasterio del Cancelliero”.
Giovan Battista si sposò con donna Vittoria Spinola: don Gaspare, barone di Fontanafredda e Conte di Bastiglia, Cavaliere dell’Alcantara; donna Melchiora, moglie di don Pietro Salazar; don Baldassare, don Alessandro che si fece monaco Cassinese ed abate; don  Ottavio, vivente che successe alla baronia.
Don Gaspare Orioles prese per moglie, come abbiamo visto,  Maria Pellegrino, da cui non ebbe figli.
Don Ottavio Orioles  ebbe due matrimoni:
-           Donna Laura del Pozzo con figli: don Giovan Battista; don Alessandro, monaco Benedettino; donna Melchiorra che sposò don Francesco Gaetani e Morra;
-           ?

Una ricerca difficile perché nel 1703 figura titolare della baronia Francesco Gaetani e Stella come “erede di Blasco” forse un secondo nome di Ottavio Orioles. Manca l’appellativo “Morra” che è sostituito da “Stella”.  (La famiglia Morra apparteneva all’Ordine Militare della Stella).
Francesco Gaetani Stella ricevette il titolo della Contea di Bastiglia il 15 gennaio 1703 e dei feudi il 25 agosto 1735.
Si sposò due volte:
-          Bartolomea Landolina;
-          Caterina Vanni e Setajoli, figlia di Carlo Vanni e Bellacera e di Anna Setajoli e Giglio.



Nel 1800 il Conte della Bastiglia doveva essere Emmanuello Gaetani e Vanni quale successore primogenito nell’investitura del Feudo dopo la morte dei suoi genitori o il figlio Francesco Gaetani e Vanni.
Il padre conte Francesco Gaetani e Stella, morto a Palermo il 19 dicembre 1760 e sepolto nella chiesa di “Nostra Signora degli Agonizzanti” e la madre, contessa Caterina Vanni e Sitajolo, “morta in essa Motropoli” (Palermo) il 10 febbraio 1773 e sepolta alle “Cappuccinelle”.
Il Conte Emmanuello Gaetani e Vanni..”siegue esso a vivere in concetto di Cavalier di talento, e benefattore di sua Famiglia, maritato colla stessa Dama Caterina Vanni e Zappino di Roccabianca (figlia di Placido Vanni e di Rosalia Zappino e Termine). Col nome di Francesco Gaetani e Vanni vien conosciuto il giovinetto maggior de’ suoi figli”.

ISCRIZIONE DI  FAMIGLIA

Nel più bel fiore de’ sui giovenil anni
Gioseppe d’Orioli ha spento morte,
L’Alma però nella Superna Corte
Riposa sciolta da terrestri affanni.
Obiit die 28. Julii 1551
(Lapide alla Kalsa in Palermo)


Famiglia Orioles


Famiglia Gaetani


Dal 1808-1810 l’estrazione di zolfo in Sicilia ebbe un notevole aumento. L’estrazione e la relativa commercializzazione era nelle mani di capitalisti inglesi. Il materiale estratto non veniva trasformato in Sicilia ma all’estero infatti gli inglesi non ritenevano conveniente creare un industria chimica sul luogo d’estrazione.
Un censimento del 1834 riportava oltre 200 miniere in attività che esportavano in minerale grezzo in tutta Europa e in America. Un trasporto grazie all’efficiente flotta inglese.
La Sicilia aveva quindi il monopolio dello zolfo che arricchiva, grandi capitalisti inglesi.
Ferdinando II di Borbone aveva stabilito un versamento al fisco, da parte dei proprietari delle miniere, della “decima parte dello zolfo estratto”. Una norma fiscale che venne dallo stesso Ferdinando in un diritto fisso, detto “diritto di apertura”, pari a 10 once. Un diritto che era pagato dai proprietari delle miniere una sola volta, cioè alla loro apertura, al Reale Patrimonio.
Gli inglesi erano presenti nell’isola a seguito delle guerre napoleoniche e fecero vivere all’industria siciliana una particolare rivoluzione.
Tra il 1816 ed il 1817 il regno delle Due Sicilie stipulò importanti rapporti commerciali per lo zolfo con la Francia, la Gran Bretagna e, a quanto sembra, anche con la Spagna. Stati Europei che avevano goduto di antichi diritti di bandiera. Il trattato con la Gran Bretagna venne ratificato dal parlamento inglese il 26 settembre 1816. Un trattato che aboliva i diritti di bandiera e le esenzioni garantite dai precedenti trattati e garantiva agli inglesi la massima libertà d’impresa sul suolo siciliano.

(L’accordo, in italiano ed  inglese, è riportato in appendice)

Paolo Ruffo di Bagnaria, Prince of Castelcicala
Ambasciatore del regno delle Due Sicilie in Gran Bretagna
William Salter - Oil On Canvas - 54 x 43 cm

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I benefici per l’isola furono ben pochi e fu caratterizzata da uno sfruttamento spietato e selvaggiodelle risorse umane. I braccianti lasciarono i campi per lavorare nelle miniere… per un pezzo di pane… almeno come certezza…Un fenomeno ddi emigrazione dai campi che influì sulla produzione cerealicola dell’isola.
Le statistiche risalenti al 1860 parlano di ben 16.000 unità lavorative nelle miniere… 16.000 sfruttati… è l’immagine di una Sicilia coloniale. Il prodotto finiva all’estero allo stato grezzo e la relativa commercializzazione in mano ad operatori stranieri (inglesi) che tra l’altro si occupavano anche dell’aspetto creditizio assicurando un pagamento anticipato sulle consegne.
I vantaggi delle miniere in mano ai proprietari terrieri… ai gabelloti a cui era affidato lo “sfruttamento” e la gestione degli impianti…. agli operatori commerciali inglesi.
Metodi di estrazione primitivo…. Lavorazione all’estero….. i baroni proprietari e ancora di più i gabelloti non avrebbero mai investito su quelle miniere perché preferivano i guadagni immediati per tesorizzare… ma alla fine furono solo gli inglesi che ebbero la capacità di assimilare grandi guadagni.
Nel 1836 la produzione di minerale fu così elevata che l’offerta superò di molto la domanda di mercato portando ad una crisi del settore.
I ministri di Ferdinando II di Borbone nel 1838 cercarono di risolvere il problema proponendo un accordo con la società francese “TAIX-AYCARD &C”.
I ministri di Ferdinando offrivano nell’accordo:
-          Il monopolio del commercio degli zolfi per 10 anni;
-          L’acquisto di un quantitativo di zolfo pari ai 2/3 di quello estratto dalla miniere siciliane nell’anno precedente a quello della firma del contratto, ma con un limite massimo di produzione annua.
-          (i francesi avrebbero dovuto comprare 600.000 cantari di zolfo l’anno( ogni cantaro circa 90 kg) al presso di 23 carlini al cantaro e pagando un indennizzo di 4 carlini al cantaro per i 300.000 cantari annui non estratti).



La “Taix-Aycard &C” (società di Marsiglia)  s’impegnava a:
-          Fornire gratuitamente all’Amministrazione militare di Agrigento lo zolfo necessario;
-          Realizzare una moderna  raffineria di zolfo con due camere di sublimazione;
-          Un impianto industriale per la produzione di acido solforico e soda solforata;
-          Addestrare manodopera locale;
-          Costruire, per tutto il periodo di validità del contratto, venti miglia di strade carraie all’anno;
-          Versare, annualmente, al sovrano la somma di 400.000 ducati da utilizzare per la realizzazione di opere di pubblica utilità.

Una proposta valida, vantaggiosa per entrambe le parti, che avrebbe permesso anche uno sviluppo viario ed industriale dell’isola. L’accordo aveva anche come obbiettivo di diminuire la pressione inglese sul commercio degli zolfi. La proposta venne accettata nel maggio 1838 e come riportano le fonti storiche anche con l’aiuto di qualche ministro o consigliere corrotto. Il prezzo alla fine venne posto a 43 carlini al cataro, ovvero più del triplo del prezzo dello zolfo degli anni precedenti, e con una tassa di esportazione (compresa nei 43 carlini) di 20 carlini al cantaro che prima era inesistente.
La TAX pagava per 1/3 la tassa di esportazione.  Quindi all’imprenditore sarebbero rimasti  circa 30 carlini al cantaro mentre gli acquirenti avrebbero dovuto pagare alla TAX i 43 carlini più il costo di esportazione alla società (in totale ben 63 carlini al cantaro).


Avvenne qualcosa di incredibile… si formò una forte coalizione tra gli inglesi, i proprietari delle miniere ed anche i mafiosi gabelloti… contro il progetto di accordo con i francesi.
Il governo borbonico si trovò tra due schieramenti… gli inglesi che minacciavano di ricorrere alle armi e i baroni con i mafiosi gabelloti.
La diplomazia borbonica cercò aiuto all’Austria ed alla stessa Francia per risolvere la questione. Si fecero anche delle proteste pubbliche contro gli inglesi disponendo l’embargo delle loro navi.
F lo stesso sovrano scese in Sicilia per meglio gestire il problema ma senza risultati apprezzabili.
Gli inglesi protestarono energicamente e secondo Lord Lynghurst…”perdevano mille sterline al giorno” e promettevano di agire con la forza. Si arrivò all’assurdo… la flotta inglese comandata dall’ammiraglio Robert Stepford, assediò il porto di Napoli catturando delle navi francesi.
La Corte di Napoli inviò in Francia, che era disposta a mediare, il conte Ferdinando Lucchesi Palli dei Principi di Campofranco (fratello di Don Antonino o Antonio – 7° Principe di Campofranco).
Dopo i colloqui diplomatici fu redatto un documento, firmato da ministro Thiers, con il quale gli Inglesi restituirono le navi catturate ai francesi  e fu dichiarato “ che pur non essendo stato violato alcun trattato non era conforme al sistema di buona economia quanto era stato praticato per il commercio dello zolfo”.
Con questo decreto la società fu sciolta e Ferdinando dovette risarcire economicamente sia i francesi che gli inglesi.
Nel 1896 sotto la direzione di Ignazio Florio fu costituita una società con gli inglesi la “The English Sicilian Sulphur Company”. Una società che per dieci anni terrà il monolpolio nella produzione e commercio dello zolfo. Alla società aderrono solo il 60% dei produttori di zolfo e a quanto mi risulta la Miniera di Cozzo Disi non rientrava nella società inglese.

4.c – La Miniera  tra il 1833 e il 1871 (Luigi Sanfilippo – La Richiesta per utilizzare polvere

         da sparo)
Il contenzioso tra la famiglia Gaetani e il Comune di Campofranco andò per le lunghe. Nel 1833 il sindaco del Comune,  Giuseppe Sorce, convocò una seduta straordinaria del decurionato per discutere in merito al contenzioso che andava avanti dal 1805  e che aveva come oggetto il “bruciamento degli zolfi dalla miniera di Montelongo, per i danni che creava all’agricoltura ed ai cittadini che lavoravano le terre nelle vicinanze”.
I lavori di estrazione del minerale si rilevarono subito difficili per la mancanza di adeguati mezzi meccanici adatti a lavori nel sottosuolo ed alla forte durezza della roccia che doveva essere staccata con colpi di piccone. I proprietari si trovarono subito in difficoltà e il 24 maggio 1875 fecero domanda all’ing. del Distretto Minerario di Caltanissetta per essere autorizzati all’uso della polvere da sparo. Nella domanda specificarono di aver rinvenuto nell’ex feudo “Chipirdia”, contrada “Montelongo, nominata Cozzo- Disi”  di Casteltermini di proprietà di Luigi Sanfilippo e di altri “coeredi ultrageniti del fu Conte della Bastiglia”:
“E’ stato trovato il minerale attaccato al calcinare e talmente duro che non permette la estirpazione col piccone. Gli è necessario pregare la S.V. di dolergli concedere permesso di fare uso della polvere di sparo per estirpare lo zolfo di cui in parola. Casteltermini, li 24 maggio 1871 – Firmato: Luigi Sanfilippo”.
(Luigi Sanfilippo, mi sembra ex sindaco di Casteltermini, già prima del 1857 era comproprietario delle zolfare di Cozzo-Disi, Serralonga, Ferro-Roveto. Il figlio Ignazio, nato nel 1857, laureatosi in ingegneria all’Università di Roma, diventò direttore delle miniere di Cozzo Disi, Scioronello, San Giovannello, Pintacuda, Accia e Lo Bue. Una carica che mantenne tra il 1886 ed il 1909 per poi figurare come comproprietario).
Il 7 giugno 1871 la risposta del Distretto Minerario fu positiva per l’uso della polvere da sparo.


I “carusi” nelle miniere siciliane… schiavi del XIX e XX secolo
Un prete osserva la scena….

https://www.vanillamagazine.it/i-carusi-delle-zolfare-gli-schiavi-bambini-siciliani-del-xix-e-xx-secolo/


4.d  Lavorazione dello Zolfo dal 1800 –Calcheroni e Macchine a Vapore
Estratto il minerale, dal 1800 al 1891, veniva fuso in calcheroni e dal 1891 in poi  la stessa fusione avveniva con l’uso dell’apparecchio a vapore.

 Calcarone – Miniera Apaforte-Stincone (Caltanissetta)
L’uso del calcherone nelle miniere di zolfo sembra sia collegato ad un vento casuale.
Nel 1842 furono incendiati per vendetta alcuni cumuli di minerale nella miniera di
Chimento (Favara). Gli operai cercarono di spegnere l’incendio gettando cumuli
Di terra sullo zolfo per evitare la rovina totale delle colture circostanti.
Dopo alcuni mesi gli operai si accorsero che nel punto in cui era scoppiato l’incendio
colava dell’olio di ottima qualità.    L’uso del calcherone si diffuse nella seconda metà dell’Ottocento.

Vicino al calcherone c’era un piccolo vano per l’arditore e per i suoi attrezzi.
Il calcherone è legato ad una vasta letteratura mineraria in cui sono riportate i modi di carico e le persone che
erano addette al suo riempimento/svuotamento.
Gli operatori che erano addetto al riempimento prendevano il nome di “inchitura”,
spesso presi dall’azienda a cottimo, ed
avevano alle loro dipendenze un certo numero di “carusi” (ragazzi).
Il compito dei “carusi” era quello di prendere il minerale accatastato e di portarlo nei calcheroni.
Calcheroni che avevano un diametro di circa 20 m e una capacità di circa 250.000 mcdi minerale.
Un lavoro massacrante che richiedeva per il riempimento completo del calcherone diverse
settimane mentre per la fusione erano necessari parecchi mesi.
Il riempimento doveva essere effettuato con la massima attenzione e scrupolosità.
I pezzi più grossi venivano  in basso e lungo il perimetro e dovevano formare i
“curritura”  cioè le vie che la massa fusa doveva attraversare. Il resto della massa veniva
ammassata avendo cura di lasciare gli “pupalori” (sfiatatoi) che alimentavano
l’accensione della vasta massa.
C’erano poi gli “arditura” che controllavano la fusione e infine gli “scarcaratura” o
“scarcarunara”  che avevano il compito di svuotare il calcherone.
In Internet ho trovato  una pagina con cui il presbitero e letterato Francesco Pulci
descrisse il riempimento di un calcherone:
Il partitante, che ha l'impresa di riempire il calcherone, ha sotto di se dei riempitori
(inchitura) che preparano il carico, ed ognuno di questi dispone a sua volta di due
carusi pel trasporto di minerale dal punto dell'impostazione al calcarone.
Il partitante, postosi a sedere presso il calcarone, tieni innanzi a se tanti berretti
di vario colore quanti sono i riempitori.
I carusi, che fanno il trasporto, dividono la giornata in nove tagliate, una tagliata comprende cinquanta viaggi, per la brevissima distanza che corre tra il calcarone ed il punto dov'è l'impostazione del minerale. Il caruso ogni volta che arriva scarica il suo viaggio nel calcarone e grida ad alta voce al partitante il colore del berretto che appartiene al riempitore da cui egli dipende. Il partitante per marcare questi viaggi si serve di una quantità di noccioli di uliva. Così appena il caruso grida: russu, biancu, niuru, ecc., il partitante mette un nocciolo nel berretto corrispondente.
Se per caso i berretti sono tutti di un colore, i riempitori allora si servono di diversi segnali per distinguerli, così mettono un pezzo di zolfo, di rosticcio, una scorza d'arancia (se è d'inverno), de' baccelli di fava (s'è di primavera), un pezzo di cetriolo, una scorza di popone (s'è di estate un raspo d'uva, il torso di una pera s'è di autunno) e una scarpa, un truciolo di legno, via dicendo.
Il caruso allora invece di gridare il nome del berretto grida il nome dell'oggetto che vi è dentro, così una squadra di 40 carusi e 20 riempitori si sentono senza interruzione a mano a mano che quelli arrivano al calcarone le grida: favina a ... a! racina ... a ... a ! ginisi ... i ... i! aranciu ... u ... u!
Dei due carusi del riempitore uno solo deve gridare il nome (dell'oggetto) che gli appartiene, e ciò perché non succeda imbroglio o confusione.
I carusi così facendo sanno regolarsi alla fine della loro giornata di lavoro, e allora chiedono al partitante di contare i noccioli contenuti nel berretto che ad essi appartiene.

 Il calcherone veniva usato per fondere lo zolfo: il minerale veniva collocato su una piattaforma inclinata,
disponendo sul fondo quello di dimensione maggiore e poi via via quello sempre più minuto,
fino ad ottenere un monte conico

dopo aver colmato il calcherone, facendogli assumere una caratteristica forma a cono,
si ricopriva con materiale di scarto di zolfo (rosticci) (residuo di precedenti fusioni e detto “ginisi” ).
Si lasciava allo scoperto solo alcune piccole zone, due o tre, dalla pianta circolare,
dove con l’aiuto di fascine, imbevute di minerale, si procedeva alla loro accensione.
Durante il periodo della fusione era necessario regolare la copertura della massa
’ncammisata”, alleggerendola nei periodi di umidità per favore l’accensione o
aumentandola quando c’era vento per evitare che si perdesse molto
materiale sotto forma di anidride solforosa. Anidride solforosa che ricopriva, sottoforma di finissima
polverina di colore giallo, zolfo finissimo,  la zona circostante.
Zolfo che era detto   “ciuri di surfaru o surfaru virgini”.
Dopo qualche giorno gli “arditori”, grazie anche all’aumento della temperatura della parete
del calcherone, capivano che il materiale fuso si preparava ad uscire. La colata di zolfo liquido scorreva quindi
una canaletta fissa, generalmente in lamiera, dove alle estremità venivano poste delle forme a casse in legno,
“gavite”, in precedenza bagnate in abbondanza per evitare che lo zolfo si attaccasse alle pareti e per
accelerare il raffreddamento dello stesso zolfo.
Riempito il recipiente, grazie ad una canaletta mobile, il liquido veniva versato
in un altro recipiente, anch’esso in legno.
La “gavita” aveva una forma tronco piramidale ed i pani di zolfo che si ricavavano avevano
un peso oscillante tra i 50 e gli 80 kg.
Spesso nel calcherone, per vari motivi, la fusione procedeva a rilento  con la minaccia di
un possibile spegnimento della massa. In questo caso si aveva il “calcherone’ntrunatu o
‘ncannaruzzatu”. Per riavviare la combustione si scopriva in qualche punto la massa, asportando la copertura, e favorendo quindi la penetrazione dell’ossigeno necessario per la combustione.
Il danno maggiore si aveva quando a causa dei forti venti la combustione avveniva rapidamente.
Un abbondante emissione di fumo e un elevata temperatura circostante erano
gravi indizi di una imperfetta combustione. Il calcherone era detto, in questo caso,
“calcaruni ‘nfucatu” e si cercava di porre rimedio versando sulla massa
grandi quantità d’acqua e di terra.


Dal 1891 la fusione dello zolfo veniva effettuata con macchine a vapore.
Miniera di Grottacalda – Macchine a vapore per la fusione dello zolfo


4.e – L’attività  della miniera dal 1891 al 1916 

In 16 anni l’attività della miniera ebbe un incremento produttivo vertiginoso… eppure non aveva i grandi “manager” dei nostri giorni superpagati e protetti dallo Stato… il problema allora era legato ad una classe operaia sfruttata e che non lavorava in condizioni di sicurezza e che potrebbero in qualche modo essere paragonati ai lavoratori extracomunitari e anche agli stessi italiani:


Anno
Prodotto
Tonn.
Prodotto
Fusione
Tonn.
Prodotto
Fusione a
Vapore
Tonn.
Operai
interni
Operai
Temporanei
Lavoratori
Diversi
Esterni
Operai
Totali
1891
18.700
18.700
--------
150
18
38
206
1907
127.000
11.500
116.000
820
246
70
1136

I forni Grill entrarono in funzione  nel 1901 fino alla messa a punto della flottazione.


Miniera Cozzo Disi – Forni a Grill

-          Nel 1914 una ditta di Caltanissetta, dei cav. Guglielmo Crescimanno e dell’Ing. Augusto Rigoletti, eseguono i lavori di fusione dei rosticci della miniera. Ditta che era nata nel 1891 per merito dell’Ing. Carlo Fiocchi.

“COZZODISI – Provincia di AGRIGENTO – Zolfara/Miniera di zolfo - Scoppio di grisou - Anno 1916 – 89 vittime “.
Con questa piccola frase è riporta la sciagura nel Registro della Reali Miniere.
(Nella sentenza è riporta la miniera “Serralonga” che era situata sull’estremità settentrionale della miniera di Cozzo Disi. Facevano quindi parte di un unico complesso pur avendo una denominazione differente).
4 luglio 1916 – esordisce la sentenza – verso le ore 13 e trenta, mentre gli operai – in numero di oltre cinquecento – delle due miniere di Cozzo Disi e Serralonga di Casteltermini lavoravano si udì un primo formidabile boato con un violento colpo d’aria, contemporaneo sviluppo di idrogeno solforato (agro) e di grisou (antinomio) il quale a contatto delle lampade a fiamma libera degli operai diede luogo a ripetute esplosioni.
Gli operai che lavoravano al primo e al terzo livello della Cozzo Disi, spaventati fuggirono; molti di essi riuscirono a mettersi in salvo per la via di sicurezza e gli altri che presero vie diverse vennero fuori per lo più ustionati dal grisou. Gli operai che lavoravano nella sezione Giambrone, in numero di 66 perirono, com’è da ritenere, per ustioni, per asfissia, per avvelenamento prodotto dall’idrogeno solforato e per traumi. Gli operai che, in numero di ventitré, lavoravano nella vicinante e comunicante miniera di Serralunga, al primo fragore della Cozzo Disi, fuggirono pel piano inclinato e percorsi appena 90 metri incontrarono il grisou dal quale furono investiti e perirono. In tutto le vittime furono novantanove (n.d.r. qui l’autore ha commesso un errore: le vittime furono 89, si comprende anche anche sommando 66 e 23) oltre 34 feriti. “.
Questa pagina su descritta è riportata nella sentenza emessa nelle aule del  Tribunale Penale di Girgenti (Agrigento).
La sentenza riporta anche i primi immediati ed improvvisati interventi di soccorso. I soccorritori non poterono procedere oltre la sezione “Giambrone” per la forte presenza di idrogeno solforato.
Tra i primi a scendere nella miniera ed avventurarsi in quella zona da dove provenivano sicuramente terrificanti grida d’aiuto, fu il capomastro Todaro Giovanni che pagò con la vita il suo coraggioso intervento d’aiuto. I boati si susseguirono per ore ed un alta colonna di fumo si sprigionò dalle ciminiere di Serralonga.
Alle 15,00 si formò una squadra di salvataggio ma senza esiti positivi perché nel suo procedere si dovette fermare al secondo livello perché c’era una forte presenza di idrogeno solforato.
Alle 17,00,  si formò una seconda squadra di soccorso. Perché nel primo tentativo qualcuno rdei soccorritori, ritornando indietro, sentì chiaramente del lamenti. La squadra entrò attraverso la galleria principale e stava per introdursi nella direzione della settima traversa, quando, aperta la porta, avvenne una forte esplosione di gas grisou che colpì ustionando i componenti della squadra. Due dei soccorritori successivamente morirono.
Un ulteriore tentativo di soccorso fu effettuato dai minatori della vicina miniera zolfata di Sciorinello che accorsero appena sentiti i primi boati. Ma anche questo tentativo fu inutile.
Il giorno seguente giunsero a Cozzo Disi i funzionari dell’Ufficio Minerario di Caltanissetta con il direttore ing. Pompei e l’ing. Mazzelli, ispettore superiore delle miniere.
Fu organizzata una nuova squadra per un ulteriore tentativo di soccorso e finalmente vennero trovati vivi due operai, uno dei quali dopo poche ore morì.
Dopo nove giorni i tecnici capirono le cause della disgrazia. Nella miniera si era sviluppato un incendio e si abbandonò l’idea di organizzare altri tentativi di salvataggio.
Il 13 luglio fu decisa la chiusura delle buche della miniera per impedire che l’incendio si propagasse assumendo proporzioni pericolose ed ampie.
La sentenza cita che “ un ragazzo, certo Bufera Vincenzo, che era riuscito a passare dalla Cozzo Disi alla Serralonga si era rifugiato nella sala caldaia, praticando un foro nella muratura dell’imbocco, all’undicesimo giorno, uscì miracolosamente vivo”. (Il ragazzo si chiama in realtà Vutera Vincenzo)
Lo storico di Casteltermini Francesco Lo Bue molti anni dopo raccolse la toccante testimonianza di questo sopravvissuto ( che in realtà si chiama Vutera Vincenzo ). Testimonianza che è riportata nelle ultime pagine del primo volume del suo libro “Uomini e fatti di Casteltermini nella storia moderna e contemporanea”.
La sentenza riporta anche i danni subiti dalle struttura della miniera. Danni evidenti e accertati dai tecnici dell’ufficio delle miniere. Sono riportate anche le dure accuse dei testimoni ai concessionari della miniera che erano accusati di “ingordigia per lauti guadagno e non avevano condotto a regola d’arte ed eseguiti i necessari riempimenti dove si lavorava ad esaurimento, per cui, da qualche tempo si erano fatte delle sinistre previsioni”.
Fu ricordato nella fase processuale un avvenimento cioè lo stacco di un blocco di minerale per un crollo e tredici operai erano rimasti feriti e di cui, dopo pochi giorni, era morto. Un crollo avvenuto tre mesi prima del tragico 4 luglio.

Molti testimoni a discarico vennero in aiuto degli imputati, tra cui autorevoli esperti come il presidente del Sindacato per gli infortuni delle miniere, gli ingegneri del reale corpo delle miniere, e tutti gli ispettori che nei mesi precedenti alla tragedia avevano visitato la miniera. Turante il dibattimento risposero più volte che “la miniera era condotta regolarmente ed in perfette condizioni di stabilità… né vi era stato alcun segno premonitore”.


Le immagini sono emblematiche  sulle condizioni di lavoro dei minatori



Il Regio Ufficio delle Miniere presentò il 24 luglio 1916 al Tribunale di Girgenti una dettagliata relazione in cui si spiegava che “il centro del movimento e dello sviluppo del gas solforato (agro) fu la sezione Giambrone della Cozzo Disi, mentre nessuna notizia si potè averre intorno al punto in cui si sviluppò il grisou (antinomio)”.
“In ragione di tempo prima avvennero i boati, poi comparve l’idrogeno solforato e in ultimo il grisou che dovette essere in enorme quantità…..I colpi d’aria succeduti durante il movimento e più di tutto gli scoppi di grisou scompaginarono le correnti d’aria del sotterraneo, ruppero e distrussero le separazioni fra i diversi circuiti, le varie discenderie, accomunate per tal fatto alla ventilazione del sotterraneo perdettero la loro primitiva efficacia e le ispezioni perciò non potevano completarsi senza mettere in serio pericolo la vita delle persone”.
Alla base di quanto detto la conclusione della sentenza fu scontata: “impossibile un sicuro giudizio sulle cause del disastro”.
Nei mesi successivi vennero presentate altre relazioni e una di queste fu ordinata dal Pretore di Casteltermini e giunse ai giudici del Tribunale penale di Girgenti il 31 dicembre 1917.
Anche queste perizie arrivavano alla conclusione di “non avere tale sicurezza di fatti da poter con coscienza giudicare sulle cause del disastro”.
Per gli ingegneri minerari non era chiaro se il “grisou fu causa o conseguenza del crollo della miniera” e se il gas si sia sprigionato per “fenditura prodotta dal lavoro di qualche operaio o per il franamento generale della miniera”.
Quest’ultima relazione poneva in evidenza la probabile mancanza di stabilità della miniera e che i pilastri non erano integri e i riempimenti sufficienti. Se fosse stata stabile “gli effetti del grisou non avrebbero potuto essere così disastrosi come furono”. I periti quindi sostenevano che la “miniera non era affatto in condizioni di perfetta stabilità, che i vuoti erano irrazionali e contro legge e quindi anche ammesso che il disastro fu dovuto a sviluppo di grisou, tale gas non trovò nella miniera quella resistenza che avrebbe dovuto altrimenti trovare e il disastro sarebbe stato più limitato”.
Una perizia attenta e scrupolosa dove si evidenziano i fatti senza incolpare nessuno o dare certezze.
Per i giudici questa perizia esprimeva solo delle ipotesi perché i periti che avevano redatto la relazione non avevano potuto in realtà constatare l’effettivo stato della miniera prima del disastro e si erano quindi lasciati forviare dalle contraddittorie testimonianze dei familiari delle vittime.
I giudici erano ormai conquistati dall’idea del disastro per cause naturali e accentuarono questa loro  convinzione con un assurdo riferimento alle condizioni meteorologico del giorno del disastro e non solo…” quel giorno per abbassamento barometrico ed elevata temperatura (il bollettino meteorologico indicava nel giorno del disastro una temperatura massima di 43 gradi e mezzo) il grisou “dall’alto potè abbassarsi ed accumularsi anche nelle parti alte del piano inclinato della Serralonga, determinando a Cozzo Disi… al contatto colla fiamma libera delle lampade (degli operai), una prima formidabile esplosione, seguita da forte scuotimento della montagna, su cui perciò apparvero nuove fenditure, da boati violenti, colpi d’aria … I cadaveri e i feriti presentavano le tracce dei terribili effetti del grisou, di idrogeno solforato, di violenti atterramenti e di traumi”. Viene ricordato infine che un’ora prima del disastro, era avvenuta una violenta eruzione dello Stromboli e ciò può avere esercitato ” una sua influenza nello sprigionamento del grisou nella miniera di Cozzo Disi”.
La sentenza…emessa il 3 luglio 1919 dal Tribunale Penale di Girgenti composto dai Signori Argento Salvatore, presidente ed estensore e dai giudici Bagarella Giuseppe e Alabiso Alfredo ” gli elementi del processo non sono sufficienti a far ritenere che il disastro della Cozzo Disi sia da attribuire ad imperizia, negligenza ed inosservanza di regolamenti da parte di alcuni degli imputati nella sfera delle rispettive mansioni direttive e di vigilanza”…. Gli imputati assolti…
Dimenticavo…. Gli imputati:
Alla sbarra Cordaro Giuseppe, di 62 anni di Caltabellotta, direttore della miniera, il cav. Parisi Attilio di anni 67 di Casteltermini, esercente della miniera; Cordaro Antonino, di anni 63, di Casteltermini, capomastro; Papalino Ignazio, di anni 53 di Casteltermini, capomastro; Palumbo Macrì Vincenzo di anni 68 di Casteltermini, esercente della miniera. Dovevano rispondere dell’accusa di negligenza ed imperizia nella propria professione e per inosservanza di regolamenti, avendo cagionato il disastro della miniere Cozzo Disi e Serralonga, in conseguenza del quale il 4 luglio 1916 perirono 89 persone. (l’archivio di Stato di Agrigento, inventario 9, fascicolo 53, fondo tribunale di Agrigento. Sentenze penali, anno 1919. (Autore dell’accurata e approfondita ricerca: Elio Di Bella).

89 operai deceduti e 34 feriti non ebbero giustizia






4.f – 1930, La lettera scritta da un medico, del Posto di Soccorso della miniera, alla fidanzata.
Agli inizi degli anni ’30 i dottori Salvatore Gucciardo e Giovanni Villani, fra loro cognati, 
erano medici del Posto di Soccorso della zolfara di Cozzo Disi. I Posti di Soccorso nelle zolfare furono istituiti nel 1901 dalla Croce Rossa e fondati dal Capitano Medico Ignazio di Giovanni. Il primo Posto di Soccorso istituito fu quello di Juncio, nei pressi della miniera di Gessolungo. Gucciardo fu medico presso le miniere di Trabia, Grottacalda e Cozzo Disi  e successivamente Ufficiale Sanitario Comunale di Caltanissetta. Giovanni Villani fu nominato a Roma Ispettore Generale dell’Istituto Fascista Infortuni sul Lavoro (oggi INAIL).I familiari del Gucciardo trovarono una lettera di quattro pagine, scritta dal giovane medico dalla miniera di Cozzo Disi alla fidanzata. Una lettera, di appena quattro pagine, ma ricca di sentimento, di respiri malinconici e che mette in evidenza  l’ambiente e i sentimenti di chi è vissuto in miniera.
-          “ Se ti fermi per un poco senti che la terra che ti sta sopra si muove, il pavimento che ti sta sotto si scuote: è la gente che lavora al piano superiore e a quello inferiore. Ogni uomo quaggiù ha la sua lanterna che sempre porta con sé per illuminare il cammino e per fare luce nei cantieri di lavorazione; le rosse fiamme si riflettono sui muri ricchi di cristalli di minerali, sui corpi nudi e angolosi degli operai, facendo assumere all’ambiente l’aspetto tetro e pauroso di una visione dantesca. Dei forti boati si odono e tu hai quasi paura; ti sembra che il tetto da un momento all’altro ti seppellisca inesorabilmente cadendoti sulle curve spalle: sono le mine che scoppiano e il materiale staccandosi abbondantemente si abbatte con fragoroso rumore: un denso fumo allora si sprigiona, avvolge tutto l’ambiente, gli occhi irritati lacrimano e la gola irritata tossisce; gli uomini che ti sono vicini assistono impassibili allo spettacolo, sorridono e i loro sorrisi sono accompagnati da bestemmie. È l’ora della colazione: per pochi minuti il lavoro è sospeso; pane asciutto imbevuto di saliva e parole oscene costituisce il magro nutrimento di quegli uomini; le briciole cadute per terra sono divorate da grossi sorci e da vermi schifosi.
In un impeto d’ira vidi un uomo nudo di forza erculea slanciarsi contro un suo simile e con un colpo di martello fracassargli una costola.
Curvi e silenziosi di avanza, la fanghiglia ti insozza; bisogna fermarsi e cedere il passo: sono lunghe teorie di carrelli colmi di minerale spinti avanti da uomini e da animali ciechi; se ti volti a guardare quegli individui vedi solo delle gambe e dei mezzi busti, la testa e le spalle sono appuntellate ai ferri di spinta dei carri.
Qui non è mai giorno, mai notte, mai festa, mai riposo; le squadre si alternano sempre, e sempre dura è la solita scena, la solita vita.
Hai voglia di uscire presto, e presto raggiungi la prima traversa che ti conduce ai pozzi. Qui senti uno stridor di macchine e di catene; entri in gabbia, suona la campana che dà il segnale della partenza e subito incomincia l’ascesa; mentre il buio ti circonda intravedi la luce che scende dall’alto e ti si apre il cuore alla speranza.
Sei finalmente arrivato all’uscita, la gabbia si ferma, scendi sulla piattaforma e la viva luce ti abbaglia; istintivamente chiudi gli occhi e li riapri per abituarti al nuovo ambiente.
Guardi intorno e ti avvii istintivamente verso il sole; ma ti si stringe il cuore; vedi e senti di essere ancora in potere della valle maledetta: non uccelli, non alberi e verdura, non latrati di cani, non grida di bambini; ma sempre quel denso fumo che si sprigiona dai forni e che rende l’aria bassa e irritante, che rende la vita mesta e pensierosa.
Una casa grande e vecchia, circondata da un cumulo di casupole basse e malsane, sorge alle falde del monte: questa è la direzione e gli uffici; più in basso a ridosso di una roccia vi è la centrale elettrica.
Gli impiegati, elementi eterogenei e di scarso valore, sono molti, di ogni regione d’Italia ed anche stranieri: tolto qualcuno che sta a capo dell’azienda e ch’è scaltro, furbo, intelligente e disonesto, gli altri  sono i vinti, i falliti, i rifiuti della società che hanno scelto questa residenza come ultima prima della tomba.
Ci sono degli artisti bocciati, dei commercianti falliti, dei capitani degradati, dei disillusi; unico conforto per loro, finito il giornaliero lavoro, è il vino e il gioco.
Alcune donne scarmigliate e lacere, verdi e secche per la malaria che le tormenta, hanno seguito quegli uomini nella valle per morire lontano dalla società che le ha vilmente ripudiate.
Il medico che abita qui perennemente è un omaccione corpulento, olivastro in viso, maldicente ed ignorante: anche lui è un rifiuto della vita.
L’infermiere, un uomo sulla quarantina, ricercato e pulito, ha una voce di donna; sa parlare il russo per essere stato molti anni in Siberia; non bestemmia perché la moglie, polacca di origine, lo batterebbe a sangue; suona il mandolino e gioca a carte; è affetto da mania di grandezza.
La mattina appena scendi nell’ambulatorio già trovi gente che ti aspetta silenziosa e muta: sono gli operai infortunati della notte (nei sotterranei si lavora anche di notte), che forse ti stanno ad aspettare dalla sera precedente.
Essi sono pazienti e sopportano il dolore con rassegnazione.
Nessuna idea di soprannaturale, vita futura, divinità o altro alberga
Il livello morale è molto basso; tutti hanno una famiglia, ma considerano ciò un dovere egoistico come il mangiare e il dormire.
L’idea del buono e del bello è poco sviluppata; forte è l’istinto della vendetta e dell’odio.
E così il tempo passa e lascia un solco nell’anima perché si vive la vita di chi soffre o di chi, vinto dalle forze brute e avverse della natura, soccombe col grido di rivolta sulle labbra.
Firmato: Salvatore Gucciardo
P.S. – Scritto in un momento di malo umore, così per passar tempo.



4.g – Momenti di Via della Miniera dal 1935 

-          Nel 1935 gli ingegneri Enrico Fuselli e Carlo Zampari, direttori della miniera di zolfo della SAIM di Altavilla Irpina, per interessamento del Corpo Reale delle Miniere di Napoli, visitarono la miniera di Cozzo Disi per “osservare i forni fusori, nonché quelli di raffinazione, onde studiare la possibilità di ventuali miglioramenti dei propri forni”.
L’ing. Carlo Zampari era figlio dell’ing. Francesco zampari che, proveniente da Cividale del Friuli e in possesso di grandi risorse finanziarie, nel 1869 costituì una società per lo sfruttamento dei giacimenti di zolfo di Altavilla. Lo stesso ingegnere, già del Real Corpo delle Miniere, fu molto famoso in Puglia per aver progettato “quell’opera faraonica”  dell’Acquedotto del Sele che fu realizzato solo nei primi decenni del Novecento.

-          Nel 1935 Ignazio Sanfilippo si trovava in Tripolitania per ricerche minerarie. Prese una malattia che lo obbligò a rientrare in Italia con un aereo messo a disposizione da Italo balbo, Governatore della Tripolitania. Rientrato a Casteltermini si dedicò nuovamente alle sue miniere  con la carica di Rappresentante Unico. Una lavoro che fa con impegno e con professionalità che lo portarono ad inventare il “Forno Continuo Sanfilippo”. Un forno che permette di ottenere con la distillazione la totalità dello zolfo contenuto nei minerali solfiferi. La sua invenzione fu portata direttamente a Mussolini, il Sanfilippo era stata più volte ricevuto dal duce, ed il Ministero delle Comporazioni, una volta esaminato il progetto, trasmise il fascicolo all’Ente Per il Progresso dell’Industria Solfifera  per il relativo finanziamento per la costruzione del forno nella miniera Ferro Roveto. Nel 1941 scoppiò la guerra e il progetto svanì. Nel 1943 si chiuse serenamente la vita di Ignazio Sanfilippo, un uomo forte e modesto.


Ignazio Sanfilippo


-          Nel 1938 venne pubblicata una nota dell’ing. De Lisi, vice direttore della miniera Cozzo Disi ai tempi in cui era direttore l’ing. Verderame (1925). La relazione cita “la coltivazione della miniera al 1°-2°3° livello con il vecchio metodo per archi e colonne e pasture senza riempimenti”. L’ing. De Lisi citò anche il tragico incidente del 4 luglio 1916 in cui morirono 98 lavoratori.  Nella relazione mise in risalto che “un focolaio d’incendio era già preesistente nel 1913, nelle zone alte della miniera. Le cause furono ufficialmente attribuite a scoppio di grisou, ma a prescindere dall’incendio che provocò la catastrofe, la proporzione che assunse fu la conseguenza del modo con cui era stata coltivata la miniera”.
Antonio Pisciotta (1898 – 1973) pluridecorato al valore civile per aver salvato dei minatori in diverse miniere, fu consulente con l’Ente Minerario dal 1959 per la Miniera Cozzo Disi.
Giuseppe Pisciotta (1895 – 1982) fratello del precedente, dopo una vita trascorsa nell’esercito, rientrò dalla prigionia in India congedandosi nel 1946 con il grado di colonnello. Trovò difficoltà, data l’età avanzata, a trovare lavoro.

La vedova di uno dei suoi comandanti di reggimento, la contessa Perrier, proprietaria e concessionaria della miniera di Cozzo Disi, gli offrì la gestione del trasporto su camion dello zolfo prodotto nella sua miniera al porto di Porto Empedocle.
-          La miniera aveva iniziato la lavorazione dello zolfo prima utilizzando i calcheroni e successivamente i forni Grill. I lavoratori che erano addetti al caricamento e allo svuotamento dei forni lavoravano a continuo contatto con l’aria inquinata. Un’aria ricca di anidride solforosa causata dalla combustione del minerale. I lavoratori erano costretti a lavorare coprendo la bocca con una tovaglia. Una precauzione che, secondo i dirigenti della miniera, impediva l’inalazione dell’anidride. La realtà mostrava invece come tutti i lavoratori fossero affetti da bronchiti. Al procedimento di fusione dello zolfo erano addetti i lavoratori di Campofranco. Il 2 settembre 1947 il direttore della miniera, l’ing. Giuseppe D’Ippolito, la commissione interna, i segretari di categoria di Casteltermini e di Campofranco, fecero una riunione per risolvere un difficile vertenza nata tra i caricatori e gli scaricatori dei forni Grill. Dopo una lunga discussione la Dirigenza della miniera riuscì a risolvere la questione. Venne redatto un verbale a firma dell’ing. D’Ippolito e controfirmato dai Signori: Del popolo Angelo, Russo Pietro, Conti Calogero, Maratta Vincenzo, Quasto Salvatore, Valentino Vincenzo e Nicastro Luigi.
-          dal 1951 al 1955 si ebbero trasferimenti di minatori da Cabernardi verso le miniere di zolfo della Montecatini di Passarello (Licata), di Bosco e di Stincone (San Cataldo - Serradifalco), ma anche a Cozzo Disi, a Trabonella…

-          fino agli inizi degli anni  ’50 i salari nelle miniera erano molto bassi, non proporzionati e molto distanti dal caro vita.
Il 25 giugno 1954, l’ing. G. Lampasona, capo Reggente del Distretto Minerario di Caltanissetta, fece un sopralluogo nella miniera per verificare le condizioni di sicurezza ed il programma dei lavori che si stavano eseguendo. Nella miniera era già avviato l’inserimento nel ciclo produttivo dell’impianto di flottazione. Erano state necessarie delle modifiche e dei suggerimenti forniti dal sig. Bernardini. L’impianto si poteva considerare già pronto per entrare in funzione.




Il Sistema di Flottazione permetteva di sottoporre il minerale appena estratto, prima ad una frantumazione e
macinazione, ad un forte lavaggio in acqua. Il lavaggio avveniva nelle celle dove si otteneva la “torbida”.
“Torbida” che veniva  successivamente agitata meccanicamente fino alla formazione di un’abbondante schiuma che permetteva la separazione dello zolfo dalla “ganga” cioè dal materiale “sterile”.
Nel processo lavorativo era necessario introdurre dei reattivi ad azione fisico-chimica come la nafta,
l’olio di pino, l’olio di trementina nella proporzione di 100 grammi per tonnellata di minerale grezzo.
L’impasto così preparato fa imbibire in maniera differente il minerale dal resto della ganga
e questo permette una perfetta separazione fisica. Mi sembra che furono gli americani
a scoprire le proprietà che alcune schiume avevano nel captare in modo selettivo i granuli di
alcuni minerali e di rifiutarne invece altri. Il successivo addensamento della schiuma, raschiata
dalla “torbida” con pale meccaniche, permetteva di ottenere il minerale sotto l’aspetto fisico di polvere.
 Un sistema che consentiva di raggiungere un tenore di zolfo pari al 99,5% di zolfo.
Inoltre il procedimento garantiva anche dei notevoli
vantaggi ambientali: le esalazioni di anidride solforosa, sempre presenti nei sistemi di fusione con calore, diventavano esigue permettendo la coltivazione agricola dei terreni vicini alla miniera.
Un problema che era stato sempre presente, e mai superato, nei territori in cui erano le presenti le miniere.
Un sistema di produzione che richiedeva sensibili spese d’impianto, la presenza di energia elettrica e la
disponibilità di molta acqua. Questo determinò in molte miniere la possibilità
di introdurre il sistema di flottazione nella produzione di zolfo.

Il primo impianto di flottazione fu messo a punto proprio nella miniera di Cozzo Disi e solo nel 1959, a quanto sembra, fu inserito nella miniera Trabia Tallarita (Riesi) e nel 1957 dalle miniere della Montagna Mintina (Aragona) e della Trabonella (Caltanissetta).
L’Ing. Lampasona verbalizzò la sua visita alla miniera: “I rendimenti e la capacita di trattamento corrispondono alle previsioni, per che il bilancio economico corrisponde pure alle previsioni, e necessario che il programma di produzione della miniera sia adeguato alle necessita dell’impianto di trattamento cioè sia garantito con continuità della produzione di 400 tonnellate giornaliere di Minerale di zolfo. L’impianto di flottazione che è il primo del genere ad entrare m esercizio m Sicilia, contribuirà a ridurre il prezzo di costo del prodotto è sarà di valido aiuto per superare la difficoltà derivante della crisi.. I forni Gill tutti in pessime condizioni debbono essere messi fuori esercizio. Firmato: l’ingegnere G. Lampasona”.
La lavorazione dello zolfo nella Miniera di Cozzo Disi fu oggetto di una tesi che fu presentata agli esami di Macchine…
La flottazione consiste nella separazione della polvere di zolfo da quella del materiale inerte col quale si trova combinato lo zolfo nelle miniere siciliane sfruttando la diversa facilità di adesione dei due materiali a delle bolle di aria fatte gorgogliare in una vasca che contiene acqua trattata con speciali sostanze coagulanti e tensioattive e la polvere del materiale estratto dai giacimenti sottoterra e finemente frantumato. Le bolle d’aria con la polvere di zolfo aderente alla loro superficie vengono poi scremate una volta pervenute in galleggiamento (“floating” donde flottazione) e la risultante poltiglia viene disidratata ed asciugata per ottenere i pani di zolfo arricchito. La polvere d’inerte non adesiva alle bolle d’aria precipitava sul fondo della vasca. Questo procedimento, molto più pulito ed igienico ed ad alto rendimento, era destinato a soppiantare il vecchio metodo tradizionale di separazione dello zolfo dal materiale estratto tal
quale, mediante la fusione nei “calcheroni” e nei forni Gill.
Proprio dell’apparecchiatura per la triturazione minuta a polvere del materiale zolfifero estratto era oggetto il mio progetto di Macchine presentato al prof. Giordano dell’Università di Palermo. L’apparecchiatura era il Mulino a Palle, un grosso cilindro d’acciaio (con le pareti longitudinali traforate da minuscoli fori calibrati), che, ruotando, ad alta velocità, attorno ad un asse longitudinale inclinato, faceva rotolare al suo interno delle palle di ferro della grossezza di un’arancia o più. Le palle, sbattendo tra loro, trituravano il materiale caricatovi dentro. La polvere

mista di zolfo ed inerti fuoriusciva dai fori calibrati del diametro voluto, veniva raccolta in un involucro esterno al cilindro e successivamente avviata alle vasche di flottazione.”
 Con l’introduzione del sistema di flottazione cambiò anche  l’organigramma produttivo della miniera. I lavoratori che erano addetti agli scavi nelle gallerie erano generalmente provenienti da vari centri della provincia di Caltanissetta, di Agrigento mentre i lavoratori di Casteltermini e di Campofranco, tranne pochi, erano addetti ai lavori “esterni”.
 Con il nuovo sistema produttivo molti lavoratori di Campofranco furono inquadrati a lavorare nel sottosuolo. Andarono naturalmente incontro a tante difficoltà, a cui non erano abituati. Circuito di ventilazione carente che metteva il lavoratore nella condizione di non poter lavorare vestito a causa della temperatura che sperava i  35 – 40 gradi ed era quindi costretto a lavorare nudo e scalzo; pericoli causati dai diversi tipi di coltivazione con conseguenti franamenti di cantieri che causavano morti e, per i più fortunati, infortuni.
Con lo scoppio della guerra in Corea, aumentò la richiesta di zolfo e la società riuscì a pagare i quattro mesi di arretrati di salario ai lavoratori. Successivamente attraverso azioni di sciopero e con l’intervento della regione, i salari e le condizioni di sicurezza dei minatori migliorarono. Si raggiunse l’accordo interconfederale del 14 giugno 1952, per l’indennità di contingenza che rimase efficace fino l 1984. Il 10 ottobre 1952 fu emessa la legge per la malattia professionale causata per inalazione di anidride solforosa. I lavoratori e le famiglie con quella legge riuscirono ad avere un po’ di luce che fu spenta con la Legge Regionale n. 34/1988.

Nel 1946 venne istituita la Regione Sicilia, a Statuto Autonomo, e tutte le incombenze statali nel settore minerario furono naturalmente trasferite alla Regione.
Le elezioni politiche del 1948 videro in Sicilia una vittoria della sinistra, “Blocco del Popolo” , che portò le nuove forse sindacali ad intraprendere e a sostenere la lotta dei lavoratori nell’agricoltura e degli operai  dell’industria zolfifera, una lotta contro la classe baronale e latifondista, da sempre piaga storica e culturale della Sicilia.



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4.h – La Miniera dal 1950 al 1988 (anno di chiusura).
Nei primi anni ’50 l’industria zolfifera siciliana fu colpita da una molteplice serie di fattori che influenzeranno la sua vita futura:
-          decade e quindi non venne concesso il contributo finanziario la Regione Siciliana aveva deliberato, subito dopo l’inizio della guerra, in favore dei concessionari delle miniere di zolfo e che aveva consentito una notevole produzione di minerale che serva proprio per gli eventi bellici;
-          una notevole ripresa nella produzione di zolfo americano che provocò una forte concorrenza nei mercati internazionali che colpì anche la Sicilia;
-          la scoperta di altri nuovi giacimento zolfiferi nel mondo;
-          la possibilità di ricavare lo zolfo dal recupero dei gas naturali  e da altre materie solforose.
Sono tutti aspetti che colpiranno la Sicilia nella sua produzione perché venne meno una fetta sostanziale di esportazione.
Nel 1954 per garantire un salario sicuro agli operai, istituì presso il Banco di Sicilia un “fondo di garanzia” di ben 22,5 miliardi delle vecchie lire. Un fondo da erogare sotto forma di finanziamento a tasso zero per il settore solfifero.
Le varie miniere per decisione regionale furono commissariate, cioè su ciascuna fu posto un commissario che avrebbe dovuto collaborare con i vari concessionari della singola miniera per predisporre e presentare all’Organo Politico un valido piano di ristrutturazione aziendale.
I commissari delle miniere erano gli stessi funzionari del Corpo delle Miniere che da ente statale era diventato, con l’autonomia regionale, un Organo tecnico dell’Assessorato Regionale Industria.
Un comportamento anomalo da parte della Regione Sicilia perché alla base della gestione predisposta appunto dalla Regione, c’è una forte contraddizione. L’amministratore (commissario) della miniera è nello stesso tempo “controllore e controllato” perché i piani di ristrutturazione predisposti dallo stesso Commissario e dal Concessionario, prima di essere sottoposti all’esame dell’Organo Politico, dovevano essere approvati dal Distretto Minerario, del quale lo stesso Commissario faceva parte in quanto funzionario dello stesso Ente.
Molti storie di tangenti da parte dei gestori delle miniere del periodo e ben lontano dal periodo in cui il Regio Corpo delle Miniere vantava funzionari statali intransigenti e morigerati del tempo di Sebastiano Mottura. (Michele Curcuruto).
Sotto la spinta sindacale il governo siciliano continuò, con vari provvedimenti legislativi a garantire il salario dei lavoratori  senza tenere conto della produzione.  La produzione non veniva considerata e si cercava solo con il salario garantito di mantenere tranquilli i lavoratori.
Nel 1976 nella miniera di Cozzo Disi il direttore spronava gli operai  ad una produzione minima. Il direttore fu sostituito con la compiacenza del commissario, funzionario del Distretto Minerario, che avrebbe invece dovuto avvallare il modo di fare del nuovo direttore.
La politica era ormai entrata nelle miniere che con la loro forza lavoro, stimata nel 1960 in circa 6000 unità (Agrigento, Caltanissetta ed Enna), costituiva un bacino elettorale di notevole importanza. Ai sindacato le miniere assicuravano ingenti introiti mensili con il versamento dei contributi. Tutti gli operai per il raggiungimento dei propri desiderata erano tutti iscritti alle organizzazioni sindacali.
Non mancarono gli incontri e i dibattiti per fare fronte ad una situazione che si aggravava con il passare del tempo per le continue perdite di esportazione del prodotto. Nel 1961 ci fu un Convegno sullo zolfo e il sindacalista della CGIl, Massimiliano Macaluso, propose “ una gestione unitaria di tutte le miniere di zolfo e la creazione di una Azienda Zolfi che avrebbe dovuto avere una partecipazione prevalente di capitale pubblico…in maniera che, per la realizzazione del massimo profitto, ci sia un costante interesse ad utilizzare la maggior parte del minerale possibile”.
Un’idea che fu accolta positivamente dalla classe politica, soprattutto di sinistra, perché dichiarava la definitiva sconfitta della classe baronale, da sempre proprietari delle miniere, e della destra conservatrice a cui era collegata.
Nell’Assemblea Regionale ci fu una grande battaglia in aula, soprattutto tra la destra conservatrice e la sinistra e alla fine l’11 gennaio 1963 venne emanata la Legge N. 2 che istituiva “L’Ente Minerario Siciliano”.
Un vero e proprio sconvolgimento nell’industria mineraria siciliana. Furono subito dichiarate decadute per legge tutte le concessioni minerarie per lo sfruttamento dello zolfo; per inadempienza dei concessionari che non avessero pagato le rate di rimborso del Fondo di Rotazione e non fossero altresì in regola con le paghe degli operai.
Le concessioni vennero trasferite d’ufficio alla nuova società, SOCHIMISI S.p.A. che fu costituita per l’occasione dall’Ente Minerario Siciliano.
La SOCHIMISI  dimostrò subito la sua origine politica con la nomina dei quadri dirigenziali:
-          Il presidente ing. Sarti e successivamente l’ing. Gavotti, erano massimi dirigenti dell’ENI;
-          Il direttore generale, Gianfranco Musco, era ex Capo del Servizio Tecnico dell’Ente Zolfi Italiano;
-          Direttore generale della SOCHIMISI, l’ing. Quattrociocchi;
-          Direttore del servizio Ricerche dell’Ente Minerario Siciliano l’ing. Decima.
(l’ing Quattrociocchi e l’ing. Decima erano dirigenti dell’ANIC).

Le miniera di Sicilia diventarono subito il palcoscenico adatto per una rappresentazione teatrale, ma non di attori veri protagonisti nel proporre il modo d’essere dei vari personaggi interpretati, di falsi attori e quindi in grado di non proporre nulla..
Apparve subito chiaro quelle che erano le vere intenzioni del quadro dirigenziale della SOCHIMISI… smantellare in breve tempo, per accordi internazionali, il settore zolfifero della Sicilia.
La  società si muoveva in un ambiente ricco di problematiche.
Gli stessi operai non contribuirono certamente alla risoluzione del problema. Operai ormai in preda all’orgoglio per essere riusciti ad estromettere i privati, i nobili, dalla gestione delle miniere, cominciarono ad avanzare delle richieste, appoggiate dai sindacati, di natura economica e spesso inadatte dati i tempi di crisi: premio di produzione, indennità di presenza, indennità di viaggio, ecc.
Eppure queste richieste vennero accolte forse ben sapendo che ormai la fine, con la chiusura delle miniere, era prossima.
Ad aggravare la situazione ci fu un contenzioso con gli ex concessionari che dichiaravano ad alta voce come i motivi della decadenza dei loro titoli fossero illegali ed illegittimi… ci furono tutta una serie di azioni giudiziarie con la Regione Siciliana.
Azioni giudiziarie che non si persero nel nulla.. gli ex concessionari erano personaggi influenti, soprattutto della classe baronale, e quindi in grado di richiedere tempi veloci per le sentenze. In ogni caso dopo decenni di giudizi, perché si ricorse in tutti i gradi della Magistratura, alla fine la Regione Siciliana fu dichiarata in torto….. e condannata a pagare risarcimenti per decine e decine di miliardi di lire.
Le pagine di storia delle miniere siciliane stavano per giungere al loro drammatico epilogo.
Furono subito chiude perché “antieconomiche” alcune miniere: Lercara Friddi, Aragona, San Giovannello ed altre..
Rimasero in attività:
-          In Provincia di Agrigento: Cozzo Disi, Lucia, Ciavolotta, Gibellini e Stretto Cuvello;
-          In provincia di Caltanissetta: Gessolungo, La Grasta, Muculufa, Trabia e Trabonella;
-          In Provincia di Enna: Floristella, Giumentaro e Zimbalio-Giangagliano.

Per gli operai il dramma delle miniere chiuse.. nessuna comunicazione solo una “croce”… la “croce di Sant’Andrea”, simbolo della miniera chiusa, che veniva posta all’ingresso della miniera.

Per gli operai il dramma delle miniera chiuse. Furono organizzati per i lavoratori dei corsi di riqualificazione ma con risultati negativi. Corsi che si svolgevano in varie scuole professionali che dipendevano dai sindacati.
I corsi di elettricista, di saldatore, ecc. non riuscirono a fare presa sui minatori che da decenni aveva lavorato nelle viscere della terra.
Passarono dodici anni di inutili studi, ricerche per la riorganizzazione del settore zolfifero che avrebbero fatto arricchire i nostri manager aziendali… eppure per queli studi la Regione Siciliana pagò miliardi di lire. Dopo varie consultazioni si arrivò alla legge del 6 giugno 1975 n. 42, in cui l’Assemblea Regionale, su proposta dell’Ente Minerario Siciliano e in rispondenza alle direttive comunitarie, autorizzava lo stesso Ente a proseguire l’attività in sei miniere e nello stesso tempo stabiliva la chiusura, sempre per “antieconomicità,  di altre otto miniere.
L’elenco delle miniere in attività  diminuì paurosamente con centinaia di lavoratori senza più lavoro.
Rimasero in attività le miniere di:
-          Provincia di Agrigento: Cozzo Disi, Lucia e Ciavolotta;
-          Provincia di Caltanissetta: Gessolungo e La Grasta;
-          Provincia di Enna: Floristella, Giumentaro e Giangagliano.
È facile intuire i risvolti sociali sulla chiusura delle miniere. Miniere che si trovano nelle aree più depresse dell’isola.
Ancora una volta si cercano delle soluzioni come la riconversione professionale degli operai, ignorando i risultati degli anni precedenti (circa dieci anni prima).. sembra quasi di arrampicarsi sugli specchi…
Alla fine vennero adottati dei provvedimenti  “innovativi” che farebbero arrabbiare oggi la mitica Fornero e il “professore” Monti….. ..”prepensionamento per coloro che hanno compiuto e che man mano compiranno 50 anni di età e ciò fino al raggiungimento del diritto alla pensione”.
La base del prepensionamento “ è commisurato all’80% dell’indennità percepita, compresi tutti gli aumenti contrattuali che nel corso dell’anomalo rapporto di lavoro dovessero intervenire. Il tutto al netto delle trattenute previdenziali ed assistenziali, in quanto a carico della Regione”.
Un provvedimento che fu giudicato allora “suicida” per vari motivi:
-          Andarono in pensione i migliori elementi, molteplici professionalità da minatori ad elettricisti, fabbri, carpentieri,ecc;
-          Si creò una forte disparità e quelli che invece rimasero a lavorare nelle miniere ancora in attività. Il motivo ?  il provvedimento così com’era strutturato prevedeva per chi andava in prepensionamento un salario superiore a quello del lavoratore ancora in attività. Il famoso e teorico 80% era in realtà l’80% dell’ultimo salario percepito moltiplicato per 14 mensilità. Ciò significava un ben 21% in più rispetto al salario percepito dal minatore ancora in attività.
-          Il prepensionamento, cioè il salario garantito a 50 anni, come dimostra la storia economica nei paesi extra minerari, distrusse una buona parte di economia soprattutto nelle attività artigianali. Il motivo è semplice. L’operaio cinquantenne avendo un salario garantito, tenendo presente che ancora è in età lavorativa, iniziava a lavorare in nero. È vero era presente la decadenza del diritto al prepensionamento qualora scoperto , però esercitando la professione mise in crisi l’attività artigianale che localmente era presente e molto attiva.
La legge 42/1975 fu definita la più assurda e “deleteria” emessa dalla Regione Sicilia… decretò la fine dell’attività estrattiva dello zolfo nella regione. Attività che aveva la possibilità di continuare la sua vita se si fosse classificato lo zolfo come “minerale strategico a carattere nazionale”. Una semplice classificazione che adottò la Sardegna per la sue ricche miniere di carbone.
La stessa legge 42/1975 pose in liquidazione la SOCHIMISI.
Dopo 25 anni, cioè nel 2000, la SOCHIMISI aveva in corso un contenzioso giudiziario con una serie di dipendenti e sembra che i tre commissari liquidatori, nominati dalla Regione, siano ancora in carica.
Dal 1975, liquidazione della SOCHIMISI, AL 1988, L’Ente Minerario Siciliano subentrò per legge.
L’Ente, un enorme impalcatura in ferro ben ancorata a terra con la politica, subentrò alla ditta in liquidazione e con i suoi tecnici e consulenti, pagati dalla regione, continuò lo studio di settore per le ultime sei miniere ancora in attività.
Spesi centinaia di miliardi e per la politica e soprattutto per i sindacati, tutto rientrava nella normalità.
Il denaro pubblico latita e alla fine la Regione  con la legge 8 novembre 1988 n. 34 autorizzò l’Ente Minerario a procedere nella chiusura di tutte le miniere ancora in esercizio o in “stato di potenziale coltivazione”.
 Chiusero tutte le miniere che avevano scritto pagine di storia della Sicilia, sin dall’epoca romana e rimasero i pseudominatori assunti dall’Ente Minerario a 40 anni e andati in pensione a 45.



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4.i – I “ Carusi” della Zolfara….. dimenticati….
        Il racconto di un “caruso”; Il contratto di “Mutuo soccorso”;
        Il lavoro minorile nell’arte… una denuncia; La tratta dei bambini in Italia nel 1866;

        Le norme giuridiche dal 1859




In quei tempi vigeva un terribile contratto denominato il “soccorso morto”  cioè una vera e propria riduzione di un bambino in schiavitù. Le numerose e povere famiglie siciliane avevano spesso bisogno di un aiuto economico, sotto forma di prestito, per sopravvivere. Gli veniva concesso a patto che desse “un figlio in garanzia”. Un bambino o ragazzo che veniva sfruttato senza pietà e abbondonato a sé stesso dai suoi parenti.  Mai le famiglie avevano la possibilità di restituire il denaro e spesso quei bambini “venduti” finivano con il morire di malattie, di stenti o ancora di incidenti che erano frequentissimi. I pochi che riuscivano a raggiungere la vecchiaia restavano, perché costretti, a rimanere ed a lavorare nella miniera fino alla fine dei loro giorni. I bambini non venivano restituiti perché le varie miniere facevano spesso dei veri e propri scambi e le famiglie finivano con il perderne i contatti. Nel 1882 (governo Agostino Depetris…. Sinistra storica… almeno dichiarava di esserlo….) solo nel distretto minerario di Caltanissetta, i fanciulli sfruttati erano 6.732 per lavori interni e 2.049 per lavori esterni. Sulla morte di questi bambini, si parla di circa 500 morti fra adulti e ragazzi, ci sono grosse responsabilità su chi allora governava.
Una classe politica che proteggeva e conviveva con i grandi latifondisti e le nobili famiglie aristocratiche siciliane che condizionavano direttamente o indirettamente le istituzioni. Famiglie che vivevano nei loro palazzi (Palermo, Firenze) e che lasciavano le miniere in gestione a personaggi senza scrupoli. La mafia, già allora, faceva quindi arricchire i pochi proprietari delle miniere con la complicità ed il silenzio delle autorità, delle istituzioni e della magistratura (la sentenza sul disastro di Cozzo Disi è emblematica… tutti assolti).
Rimangono i monumenti funebri, le fotografie nei musei dello zolfo  e la letteratura a ricordare queste infelici vittime dell’avarizia umana.
Pirandello , cantastorie siciliani (Cicciu Busacca,Rosa Balistrieri, Ignazio Buttitta), letterati tra cui Sciascia che scrisse pagine sui “carusi”..”
 « Pròvati, pròvati a scendere per i dirupi di quelle scale — scrive un regalpetrese — visita quegli immensi vuoti, quel dedalei andirivieni, fangosi, esuberanti di pestifere esalazioni, illuminati tetramente dalle fuligginose fiamme delle candele ad olio: caldo afoso, opprimente, bestemmie, un rimbombare di colpi di piccone, riprodotto dagli echi, dappertutto uomini nudi, stillanti sudore, uomini che respirano affannosamente, giovani stanchi, che si trascinano a stento per le lubriche scale, giovinetti, quasi fanciulli, a cui più si converrebbero e giocattoli, e baci, e tenere materne carezze, che prestano l’esile organismo all’ingrato lavoro per accrescere poi il numero dei miseri deformi…» da Le Parrocchie di Regalpietra di Leonardo Sciascia.
La Free Green Sicilia, Associazione Ambientalista,  ha chiesto a tutte le Istituzioni italiane e alla Corte Penale Internazionale dei Diritti Umani dell’Aja di riconsiderare le gravi responsabilità di chi ha governato pro-tempore e di chi ha gestito le ex miniere di zolfo. In termini giuridici .. la proposta di dichiarazione di “crimini contro l’umanità” nei confronti della povera gente della Sicilia affinché venga riconosciuta la deportazione e lo sfruttamento di migliaia di poveri siciliani di ogni età , ma in particolare di bambini in tenera età ridotti in schiavitù. Ogni anno si festeggia a Casteltermini Maria SS. Annunziata che è considerata da sempre la protettrice dei Zolfatari. È stata sempre venerata da chi lavorava nelle miniere e dalle famiglie che con ansia e trepidazione aspettavano ogni giorno il ritorno dei propri cari sani e salvi..

Casteltermini – la Festa di Maria SS. Annunziata

Maria SS. Annunziata – Patrona dei Zolfatari


I motivi della richiesta semplice…. I fanciulli lavoravano sottoterra da 8 a 10 ore al giorno… dovevano fare un determinato numero di viaggi fino all’aria aperta trasportando sulle spalle in materiale contenuto nelle ceste. I fanciulli ”fortunati” cioè quelli che erano impiegati all’aria aperta dovevano lavorare per 11 – 12 ore….. il carico variava secondo l’età e la forza del fanciullo. I più piccoli portavano sulle spalle un peso di 25 – 30 kg di minerale mentre quelli di 16 – 18 anni portavano un peso di 70 – 80 kg…… all’interno della miniera una temperatura di 40° (gradi)……
Nel 1954 un vecchio ”caruso” ha rievocato la sua infanzia nella miniera…
Io ero addetto al trasporto dello zolfo a mezzo di caldarelli dai mucchi dove esso viene ammassato dopo che veniva scaricato dai vagoncini. Iniziavo il lavoro alle 6 e terminavo alle 18. A sorvegliarmi stavano parecchi capimastri i quali appena eravamo un po' lenti ci battevano con i tubi di gomma. Il mio salario corrispondeva a  250 lire al giorno. Avevo mezz'ora per mangiare alle 10 del mattino”.
Un lavoro minorile molto e a lungo diffuso in Italia dopo l’Unità e il termine “caruso” era proprio riferito ai bambini siciliani.

Secondo la legislazione dell'epoca, era illegale far lavorare un minore di 12 anni, anche perché una (allora) recente legge stabiliva che la scuola dovesse essere obbligatoria per i bambini fino alla seconda elementare. Questa normativa veniva, comunque, violata. In genere la situazione di sfruttamento era gestita da lavoratori adulti, che prendevano i carusi come assistenti. Ai genitori dei carusi veniva corrisposto un pagamento anticipato di circa 100, 150 lire. La paga dei carusi era, però, di pochi centesimi al giorno, quindi la situazione di semi-schiavitù poteva protrarsi per anni.
Le condizioni di lavoro erano dure e inaccettabili secondo i criteri odierni di sicurezza; e il rispetto dei diritti umani, dell'infanzia e dei lavoratori era minimo se non nullo. L'orario di lavoro poteva arrivare a sedici ore giornaliere e i poveri sfruttati potevano subire maltrattamenti e punizioni corporali se accusati di furto (il più delle volte la colpevolezza era inesistente), o di scarso rendimento.
Nel nord Itali i bambini venivano invece impiegati nel commercio minuto con un contratto simile a quello che si attuava in Sicilia. Venivano ceduti, con contratto, a padroni d’attività che li mandavano in giro nelle città a vendere mercanzia o a suonare. La letteratura e l’arte ci accompagna in questa pagina dimentica di storia… e mai raccontata nelle aule..
Lo scrittore Tarchetti Ugo Igino (1839 – 1869) lanciòsulla rivista “Emporio Pittoresco” una pesante accusa:  “in Italia si fa mercato di fanciulli; pochi lo sanno, e saranno meravigliati di apprenderlo dal nostro giornale. Ecco in qual modo principia e come continua un traffico che si basa sulla umanità nella sua forma più interessante: l’infanzia! Nell’Italia meridionale, in una provincia ricca più delle altre, la Basilicata, una gran parte degli abitanti fanno una vera industria della musica e del vagabondaggio”.
Nel 1873 il parlamento, governo Marco Minghetti…. altro personaggio illustre c che si studia nei libri di storia…. Questa volta appartenente alla destra storica… emanò una legge che cercava di arginare il problema.. Una legge dal titolo di “Proibizione dell’impego di fanciulli d’ambo i sessi in professioni girovaghe”…..norme che dovevano impedire ai giovanissimi d’esercitare una serie di attività  come venditori, suonatori, saltimbanchi, cartomanti, questuanti…ecc…
La legge non ebbe degli effetti positivi… le opere d’arte nate nel periodo in questione ci sono d’aiuto perché riferiscono o riportano immagini di fanciulli.
Un esempio, tra i tanti, è quello di Vincenzo Gemito (Napoli 1852 – 1929) che fece una statua in bronzo di un giovane acquaiolo che vendeva, per le vie della città, bicchieri d’acqua ai passanti.

Vincenzo Gemito, L’acquaiolo (1881; bronzo, 55 x 19 x 26 cm; Milano, Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)

Nel 1876 Sidney Sonnino (Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Interno del Regno d’Italia dall’8 febbraio 1906 al 29 maggio 1906 e successivamente a carico di altri ministeri; fu un acceso meridionalista e si occupò delle problematiche della classe contadina che sostenne con forza) riportò il lavoro dei fanciulli nelle miniere siciliane nel  secondo volume
della sua inchiesta in Sicilia: “
 “anche nelle zolfare dove l’estrazione del minerale fino alla bocca della miniera si faccia in tutto o in parte con mezzi meccanici, il lavoro dei fanciulli si adopera per il trasporto dello zolfo dalle gallerie di escavazione fino al punto dove corrisponde il pozzo verticale o la galleria orizzontale; come pure sopra terra per il trasporto del minerale dal luogo ove resta ammucchiato in casse, fino al calcarone, ossia la fornace dove vien fuso. In moltissime gallerie però di queste stesse grandi miniere, e in genere in tutte le altre zolfare della Sicilia, il lavoro di fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena, del minerale in sacchi o ceste, dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, fino al luogo dove all’aria aperta si fa la busterella delle casse dei diversi picconieri, prima di riempire il calcarone”.
Nell’arte il lavoro dei “carusi” fu mirabilmente espresso da un pittore siciliano, Onofrio Tomaselli (Bagheria 1866 – 1956)

 Onofrio Tomaselli, I carusi (1905 circa; olio su tela, 184 x 333,5 cm; Palermo, Galleria d’Arte Moderna)

Ma tra Nord e Sud, come sempre, c’era una sostanziale differenza: piccoli minatori in Sicilia … piccoli operai nel settentrione..
La scelta degli artisti di sviluppare l’idea dei piccoli lavoratori era dettata dalla ferma volontà d’esprimere una dura critica contro l’esistenza di questo sfruttamento.

Niccolò Cannicci, La filatrice (1885-1890; olio su cartone, 57 x 24 cm; Milano,
 Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)

Niccolò Cannicci, Le gramignaie al fiume (1896; olio su tela, 151 x 280 cm; Firenze,
Collezione Ente Cassa di Risparmio di Firenze)

Filippo Carcano, Operai in riposo (1886; olio su tela; Collezione privata)

La sensibilità nei confronti della questione minorile non fu intensa, si cercava di eludere il problema… questa è la politica… e con forte impegno la “Società di Mutuo Soccorso ed Istruzione degli Operai di Savigliano (Cuneo)” nel 1880….  (governo… un altro personaggio che si definisce di “Sinistra Storica” …Benedetto Cairoli) emanò un testo ““invero contrista l’animo il vedere tanti e tanti poveri fanciulli dall’avarizia ed ignoranza di molti genitori e dall’ingordigia degli industriali dei vari stabilimenti, condannati a fare i più faticosi lavori per molte ore della giornata senza interruzione alcuna. Poveretti! In pochi anni ne escono poi estenuati, macilenti e sfiniti, pagando molti di essi a morte il loro debito innanzi tempo. Per il benessere dei fanciulli, e per l’incremento e prosperità delle arti e delle industrie fa questa società caldi voti perché la nuova legge abbia al più presto la sua sanzione e sia posta in vigore, e cogliendo intanto la propizia occasione, essa società si permette di far sentire che sarebbe pur suo vivo desiderio che dal provvido Governo venisse regolato e fissato non solo il giornaliero orario dei fanciulli, ma ben anco quello degli adulti, e che estendesse la sua sorveglianza ed all’uopo infliggesse una multa graduale od una pena severa a quei genitori che per un nonnulla sottomettono i loro figli ai più duri trattamenti, ai padroni di bottega o capi officine ed ai loro garzoni che percuotono i piccoli apprendisti od usano un linguaggio impudico ed immorale in loro presenza, i quali ultimi divenuti poi adulti, saranno, fatte ben poche eccezioni, alla loro volta cattivi”.
Le risposte della politica…… nulla… solo una serie di balzelli inconcludenti… peraltro mai rispettati… ma questo è nella norma…….
Le prime leggi contro il lavoro minorile risalgono al periodo preunitario, cioè al governo austriaco nel 1844 e successivamente allo stato sardo nel 1859. I provvedimenti “vietavano ai minori di 9 anni di lavorare nelle miniere”. Rimasero solo carta straccia… Vennero avanzate altre proposte che avevano una funzione “palliativa” e che si limitavano “ad una riduzione  dei carichi di lavoro dei bambini, ad una alternanza ai macchinari o all’introduzione di momenti educativi nell’arco della giornata lavorativa”.
Il problema non venne risolto… mancava la volontà… ‘era un perfetto connubio tra politica e i proprietari, per lo più nobili, delle miniere, delle industrie e dei latifondi.
Nel 1866 venne emanata la prima legge organica dello Stato italiano.. n. 3657 dell’11 febbraio…. Si ribadiva..”il limite di 9 anni da elevare a 10 per cave e miniere e a 15 anni per i lavori insalubri o pericolosi. Per i minori di età compresa tra i 9 anni e i 14 anni, l’ammissione al lavoro era subordinata al possesso di certificati d’idoneità”. (Governo….. Alfonso La Marmora(Destra Storica)…Governo di Destra Storica ed Indipendenti).

I “carusi” siciliani restavano in Sicilia mentre nel 1866 si verificò in Italia l’inizio di una migrazione di fanciulli verso l’Europa. Un avvenimento forse sconosciuto a tanti…. Nel solo 1870 emigrarono ben 3000 bambini sotto i 12 anni. andavano a lavorare all’esterno con le famiglie ? non sempre… anzi raramente… venivano per lo più affidati a terze persone per essere portati all’estero ed impiegati in lavori di bassa qualifica e con finti contratti di apprendistato… insomma finivano nel mendicare o nel vagabondare.  Le industrie che li reclutavano erano quelle francesi del vetro, delle Filande  e… nelle miniere.
Le leggi esistenti, compresa quella del 1859 era ben poca cosa di fronte ad una miseria diffusa nel meridione…
Una strage dimenticata dai libri di storia…. Che dovrebbero avere la lealtà di far rivivere anche aspetti sociali delle varie epoche con i risvolti sia positivi che negativi… è una questione di obiettività..
Si verificò quindi in quegli anni una vera e propria tratta di fanciulli, dai 6 ai 15 anni, venduti dalle povere famiglie di appartenenza e portati in Francia, Inghilterra e perfino in America.
Non sempre venivano impiegati nelle fabbriche. Spesso dovevano dedicarsi a professioni girovaghe come suonatori d’organetti, saltatori di corda, ballerini di tarantelle, funamboli…. Insomma dovevano praticare l’accattonaggio.
Sembra assurdo.. ma è una triste realtà… è stata ricostruita anche la tratta …. la via dell’emigrazione di questi poveri martiri…  Percorrevano le strade lungo le coste del Mediterraneo per giungere a Nizza e a Marsiglia attraversando le Alpi da Briancon. Una volta giunti a destinazioni venivano impiegati nelle vetrerie di Lione e di Parigi .. lavorando in condizioni disumane e al limite della forze fisica.
Esistono delle due testimonianze di questi poveri fanciulli:
Fontana Liri,; alcuni ragazzi tornarono dalle vetrerie francesi, il ritorno era un eventi molto raro, in cattive condizioni di salute che in breve tempo morirono. Le famiglie assalirono il sindaco per fare tornare gli altri ragazzi.
Un ragazzo sopravvissuto raccontò..” Quando partimmo io ero scalzo; prima disse (il negriero) che mi avrebbe comprato le scarpe a Cassino, arrivati qui, disse che le avrei avute a Napoli; arrivati a Napoli sulla carretta eravamo in 24; ci imbarcò per Lione, senza scarpe, là mi mandò alla fabbrica con le scarpe di legno e così rimasi; spesso sui piedi nudi cadevano pezzi di vetro bollente, o sul petto e in faccia”.
Altre testimonianze : “La sete era tale e tanta nella vetreria, che bevevamo due bottiglie di acqua ognuno di noi ogni ora e la sete non finiva mai”. “Io ero costretto a lavorare 12 ore di continuo davanti alla fornace; non avevo altra camicia da cambiare quando ero sudato; il sudore asciugato mi produsse dei dolori alla schiena, un giorni caddi svenuto; quando rinvenni, il caporale mi obbligò a riprendere il lavoro, svenni di nuovo e mi portarono in ospedale". Questo ragazzo rientrato al paese fu dichiarato incurabile.
Un bambino scrisse al sindaco: "Noi siamo piccoli, non possiamo parlare perché il padrone ci bastona. Da quando ci hanno licenziato dalla fabbrica di Lione ci stiamo morendo di fame. Scrivete al Console che il Frezza ci ha cambiato il nome, non abbiamo a chi ricorrere perché siamo piccoli. Lavoriamo la notte e il giorno, dobbiamo andare al bosco a rubare la legna, le pulci ci mangiano.”
Un altro raccontò: “Antoniuccio, come si faceva chiamare, le monsieur, come lo chiamavano i francesi non lavorava e viveva su noi ragazzi: ne aveva tredici registrati e due clandestini; detratte le 100 lire annue, che mandava ai parenti in Italia e le spese di mantenimento, guadagnava, oziando, oltre 8.000 lire l’anno.
Un bambino di 13 anni, di Rocca d’Arce (Frosinone), gravemente ustionato al piede, non venne curato da un medico per paura di denunce… “ deve sottostare a rimedi empirici di lavaggio con petrolio”.
Il medico dell’Ambasciata Italiana a Parigi citò come “la maggior parte dei bambini che lavorano nelle fabbriche francesi presentano enfisemi polmonari, polmoniti, malattie cardiache, ustioni della pelle e denutrimento”.
Da notizie raccolte contribuirono non poco a queste crudeltà anche le Amministrazioni Comunali che dichiaravano moltissime volte età superiori ai bambini, affinché i genitori potessero inviarli a lavorare all’estero.
 Il Municipio di Roccadarce rilasciava atti di nascita in bianco, i negrieri li riempivano dei nomi e delle date a loro convenienti. Il Sottoprefetto denunziò alla giustizia il segretario Paolella Gennaro e il vicesegretario Conte Angelo, che cercarono di scagionarsi asserendo che li rilasciavano per “ordine superiore”. Un emigrazione che durò a lungo……….(Notizie tratte dal libro “Soli per il mondo” Bambine Bambini emigrati tra otto e Novecento - Di Giulia Di Bello e Vanna Nuti – dal sito: https://www.roccadarce.com/Tratta%20dei%20Bambini.htm)


https://ripost.it/2016/10/19/cianciana-libro-sulle-miniere-di-zolfo-di-eugenio-e-monica-giannone/


Nel 1869 il ministro Minghetti dispose un’inchiesta governativa sul lavoro delle donne e dei minori…. forse era l’unico a non conoscere l’esistenza del problema.
Gli industriali del settentrionale d’Italia si resero conto che un miglioramento delle condizioni sociali era fondamentale per potere avere una forze lavoro efficiente. I progressi tecnologici richiedevano una manodopera più specializzata e questo fece diminuire l’interesse per il lavoro infantile. La situazione restava grave nel sud dove il lavoro infantile continuava a vivere nelle campagne e nelle miniere.
Nel 1870 ci fu un tentativo del Ministro Giovanni Lanza per introdurre la legge che sanzionava lo sfruttamento del lavoro infantile riconducendolo al reato di “tratta dei fanciulli”.
Il tentativo falli miseramente per l’opposizione del parlamento…
Nel 1876, dopo un inchiesta sulle zolfare siciliane, fu avanzata una proposta per la riduzione dell’orario di lavoro e per l’innalzamento della soglia dell’età minima d’ammissione.
Ancora una volta tutto svanì nel nulla… Si dovrà aspettare il 19 giugno 1902 con la legge n. 242 che elevò “il limite d’età a 12 anni, 13 anni per le cave e miniere; il massimo di 8 ore lavorative per bambini fino ai 12 anni e di 11 ore per i bambini dai 12 ai 15 anni; divieto di lavoro notturno per i minori di anni 16” (Governo, Giuseppe Zanardelli (Sinistra Storica) – Governo: (Sinistra Storica – PLC Destra).
Nel 1904 si cercò di contrastare il fenomeno, ancora particolarmente vivo, con l’elevamento dell’obbligo scolastico che passò dai 9 ai 12 anni. (Giovanni Giolitti (Sinistra Storica !!!!) – Governo: Sinistra Storica – PLC Destra con l’appoggio dei Socialisti).
Una legge che non portò alcun beneficio perché non rispettata sia dalle famiglie che dagli imprenditori, entrambe soggiogate dalla possibilità di un ulteriore fonte di reddito garantita dall’impiego dei bambini.
Il Testo Unico del 1907, approvato con R.D. 10 novembre 1907 n. 818 che modificò il testo precedente introducendo numerose deroghe al divieto dell’impiego di minori…. ancora con il governo di Giovanni Giolitti…..:
-          il campo di applicazione ai solo stabilimenti industriali con macchine non mosse da operai ed a quelli che, pur non avendo macchine, occupavano più di cinque operai;
-          l’età minima di ammissione al lavoro ai 12 anni, salvo età maggiore per determinati lavori pericolosi;
-          un attestato medico di idoneità al lavoro per i minori degli anni 15;
-          i lavori vietati o ammessi con particolari cautele;
-          la disciplina del lavoro notturno;
-          la durata del lavoro normale, i riposi intermedi e settimanali;
-          le denunce che gli imprenditori che occupavano fanciulli erano tenuti a presentare ai fini della vigilanza e delle relazioni periodiche del Governo al Parlamento.
La cronica mancanza di mezzi o personale di controllo, la poca chiarezza delle norme, la forte opposizione di chi pretendeva l’abbassamento dell’età minima a 9/10 anni, minaccia l’espulsione dal mondo di lavoro di 105.000 ragazzi, stima  non veritiera dato che il numero era maggiore, che in base alla nuova legge dovevano lasciare il mondo lavorativo per adempiere agli obblighi scolastici. Il problema avrebbe avuto gravi conseguenze sia sulle produzioni economiche che sulle famiglie dei ragazzi per cui il legislatore fu costretto a concedere delle deroghe.
L’occupazione dei fanciulli sia nelle miniere che nell’agricoltura continuò  nell’indifferenza tanto che nelle fiere agricole si svolgevano i mercati dei ”monelli o dei calzoni corti, del garzonato,  del capolarato…”
Per completare il danno compiuto dal Testo Unico, nel 1914 fu anche annullato il divieto di lavoro notturno…..Governo Antonio Salandra  - Governo….Unione Liberale-Partito Democratico Costituzionale – Partito Democratico – Unione Elettorale Cattolica Italiana – Cattolici Conservatori).
Passarono alcuni anni prima di introdurre nuovamente l’obbligo del conseguimento della licenza del primo triennio elementare per l’ammissione al lavoro.

In seguito alla Conferenza di Washington nel 1919 e soprattutto in considerazione della
Convenzione n. 33 del 1932 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, fu formulata la legge n.
653 del 1934, con la quale il limite di età fu elevato a 15 anni in conformità alla legislazione
Internazionale.
Le intenzioni erano ottime, ma le eccezioni rimanevano comunque troppo numerose: la legge
non trovava applicazione per i lavori domestici, nel caso di impiego presso parenti o affini, per i
lavori a domicilio e per il lavoro agricolo nel quale il fenomeno era molto diffuso. Inoltre
l’ispettorato scolastico poteva, con una semplice dichiarazione di inidoneità alla scuola, esonerare i
minori lavoratori dall’obbligo scolastico ed anticipare, quindi, il loro ingresso nel mondo del lavoro.
Con la nascita della Repubblica, l’Assemblea Costituente, conscia dell’importanza della materia
e pressata dai numerosi impegni assunti a livello internazionale, sanciva nell’art. 37 della
Costituzione: “La repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi a
parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione” ed ancora “la legge stabilisce il limite
minimo di età per il lavoro salariato”.
Tuttavia solo nel 1967 viene promulgata la legge n. 977 (Tutela del lavoro dei fanciulli e degli
adolescenti), ancora vigente, che fissa a 15 anni l’età minima di ammissione al lavoro e in particolari condizioni anche ambientali.
La legge 977/1967 ha subito nel corso degli anni modificazioni ed aggiunte per essere migliorata ma “SAVE THE CHILDREN” nel 2018 ha lanciato un forte grido d’allarme perché in Italia il lavoro infantile è una pratica ancora lontana dall’essere cancellata. Secondo la stima sarebbero circa 260.000 i minori di sedici anni impiegati in Italia nel mondo del lavoro e rappresentano circa il 5,2% della popolazione (il 14,/% sono venditori; 13,&% che si dedica in  lavori di campagna; 18,7% nel settore della ristorazione e il 30,9% in attività domestiche).
Le condizioni naturalmente non solo quelle dell’Ottocento ma è un fenomeno complesso e che coinvolge aree geografiche differenti e in particolari condizioni economiche. I ragazzi che sono stati oggetto dell’indagine  hanno rilevato che “non vedono un futuro positivo e non hanno sogni, si accontentano, vivono alla giornata e non hanno speranze”……e magari pensioni con la quota 100.. 200 – 300  o altri balzelli dopo quelli creati da Monti e Fornero…


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4.j – Le Donne  nelle Zolfatare




Sono pochi gli studi sul lavoro delle donne nelle miniere siciliane. Secondo i registri del Distretto Minerario di Caltanissetta furono 114 e in massima parte originarie di Agrigento.
Donne che sono scomparse, anche loro come i bambini, dalla memoria.
Il loro ruolo  fu dimenticato anche dai grandi letterati del tempo come Verga e Pirandello.. e successivamente anche da Sciascia.. nessuno li cita.
Un opuscolo curato da Vittorio Savorini, nel 1881,  espressione di un inchiesta disposta dal prefetto Giorgio Tamajo, senatore del Regno d’Italia, affronta il problema del lavoro femminile nelle miniere siciliane.
La donne che lavoravano in miniera avevano un’età compresa tra i 9 e i 17 anni… le loro funzioni? Trasportare il minerale dalla bocca della solfara fino alla catasta del minerale. Un trasporto che aveva delle reminiscenze arabe legate alla capacità di portare i pesi sulla testa. Questa abitudine consentiva  alle donne di essere più veloci ed efficienti degli uomini. La paga media di una donna si aggirava intorno agli 85 centesimi x giorno. Un lavoro stagionale che evniva effettuato solo nei periodi estivi. Non entravano nelle gallerie ma questa loro posizione finiva con il condizionare la loro esistenza perché finivano con l’essere emarginate.
Lavorare vicino a uomini nudi o seminudi, per il caldo presente nelle gallerie, non era ben visto dalla gente. Queste povere donne venivano quindi marchiate come “poco serie” sia dai loro compaesani che dalle famiglie di appartenenza che finivano addirittura con sconfessarle fino ad abbandonarle al loro destino. Famiglie molto povere ma sempre orgogliose nella loro triste miseria e quindi attenti alle dicerie, ai pettegolezzi della gente. Dormivano quindi nelle mninere e spesso finivano, a causa della loro miseria, con il prostituirsi.
“Le abitudini dell’operaio siciliano – scrive Savorini - impediscono che le maritate traggono ai lavori fatti in comune. Anzi, giunte le giovanette ai 16 od a 17 anni sono per lo più ritirate nelle famiglie. Ma allora il maggior danno è già loro venuto e sono già corrotte a segno che la maggior parte di esse, anche per la disistima in cui sono poi tenute, si danno al meretricio”.
http://www.villachincana.it/villachincana/redazione-v-c/articoli-redazione/830-solfare-quelle-114-ragazze-agrigentine-della-miniera.html


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4.k - LA VITA  NELLA  MINIERA COZZO DISI RACCONTATA DA CHI L’HA VISSUTA
         LA FAMIGLIA DELL’ING. D’IPPOLITO -  Di Maria Teresa e Franco D’Ippolito

L’incontro di mio padre con lo zolfo avviene nell’Aula Magna dell’Università di Palermo.
Intanto che i professori riuniti gli conferivano la laurea in Ingegneria, uno di loro gli proponeva di andare a lavorare in una miniera di zolfo nel nisseno. Il giovane Giuseppe, già in agitazione per via dell’esame di laurea che aveva appena sostenuto, volle prendere tempo e rispose che avrebbe
dovuto consultare la fidanzata che, intanto, andava a laurearsi nella stessa Università in Matematica e Fisica. Questa ragazza bella, colta e innamorata accettò allegramente di andare a vivere in miniera. E così si celebra il doppio matrimonio di mio padre: con le miniere di zolfo che
durerà 55 anni, e con mia madre che durerà 53 anni; i due connubi avranno fine con la sua morte nel 1982.
Mio padre era figlio di Francesco D’Ippolito, ingegnere navale e, secondo le regole non scritte di quell’epoca, avrebbe dovuto continuare l’attività paterna, sviluppatasi con l’avvento delle macchine a vapore. Si occupò, infatti, della trasformazione in tal senso delle industrie siciliane
piccole e grandi. Ma mio padre si lasciò affascinare da quel mondo duro e faticoso delle miniere.
I miei ricordi rimontano agli anni 1936-37, che trovano la famiglia arricchita di quattro figli a Cozzo Disi. In quegli anni il direttore di miniera veniva immediatamente dopo Dio e lo stesso era per la famiglia. Bambini di pochi anni venivamo salutati e riveriti non solo da tutti i dipendenti
della miniera, ma anche dai contadini dei dintorni, dagli operai della fabbrica di concimi chimici della Montecatini che era ubicata nelle immediate vicinanze e da chiunque vivesse in quelle zone. Una frase di mio fratello Franco, bambino di sette anni, è rimasta nel lessico familiare e  la dice lunga su quanto detto prima. In occasione di un nostro viaggio a Palermo, ospiti dei nonni, ritornando da una passeggiata in città, Franco ebbe a dire: «Nonna, non mi piace stare qui a Palermo, nessuno mi saluta per la strada e nessuno mi dice «bacio le mani signurinu don Francuzzo».
Eravamo infatti un «signurinu» di sette anni e una «signurinedda» di sei; gli altri due erano ancora troppo piccoli; Luigi cominciava a zampettare e Anna Maria era in fasce. Mia madre viveva con grande compostezza il suo ruolo di first lady, riuscendo a riunire attorno a sè una piccola corte ed a smussare con molto garbo i pettegolezzi e le invidiuzze che regnano sempre nei piccoli nuclei provinciali. Riusciva anche a farsi perdonare la sua superiorità, bella, elegante, colta, non rimpianse mai la sua vita di ragazza cittadina e laureata.
Si lasciò cullare dall’amore di mio padre cui demandava tutti i problemi, comprese le punizioni per noi bambini e con la frase: «stasera lo dirò a vostro padre»; ci teneva ore e pomeriggi interi in stato di soggezione per la punizione che sarebbe arrivata sotto forma di schiaffo dato di striscio, perché come poi ci raccontò mio padre quando fummo grandi, era difficile colpire a sangue freddo due bambini che si presentavano stretti nelle spalle e con gli occhi serrati per ricevere la punizione. La nostra vita era estremamente interessante, diversa da quella di tutti gli altri bambini. Nostri compagni di gioco erano i cugini D’Aquila, ma soprattutto i figli del capomastro Puglisi.
Questi, vero grande mastro-zolfataio, merita un discorso a parte. Fu la prima persona che mio padre conobbe arrivando a Trabonella, la sua prima miniera, e fu subito suo maestro. Quel giovane, appena laureato, che non aveva prestato, nel corso dei suoi studi, particolare attenzione al mondo e ai problemi delle miniere, in quanto lontani dai suoi programmi di lavoro, che si trovò catapultato in quel mondo e in quella attività molto difficile, aveva certamente bisogno di un capomastro esperto e generoso che lo avviasse e gli evitasse errori, e questo fu il capomastro Puglisi, chepoi lo seguì in tutto il suo percorso minerario.
Dovunque mio padre si trasferiva (Gessolungo, Giumentaro, Trabia, Cozzo Disi), appresso veniva
il capomastro Puglisi con la sua numerosa famiglia, padre, madre e sette figli. Ognuno di noi aveva un compagno di giochi Puglisi. Per Franco c’era Filippo, per me c’era Concetta, per Luigi c’era Paolo e per Anna Maria c’era Elena.
La Puglisi madre faceva un pan di spagna che ricordo ancora ed il cui profumo riusciva a vincere il forte e tipico odore di miniera.
Bambini privilegiati, dicevo e in effetti potevamo andare in officina a cercare cuscinetti a sfera e andare in falegnameria a farci approntare dei pezzi di legno opportunamente tagliati per costruire un «carrozzone», potevamo andare alla «jssaria» a prendere gesso e, dopo averlo impastato, costruire casette con le «pantofole». Fare anche delle cose assolutamente proibite, quali andare all’interno della miniera. Per eludere il controllo, ci nascondevamo nei vagoncini che scendevano vuoti. Ma quando arrivavamo a livello zero, la nostra presenza veniva rivelata e immediatamente comunicata all’esterno e questa era la volta che leprendevamo sul serio, ma valeva la pena, soprattutto se avevamo ospiti della nostra età che restavano proprio segnati da questa esperienza, come ebbe a raccontarci un nostro cugino, tanti e tanti anni dopo. Erano tutte cose, insomma, che i bambini di città non sapevano neanche che esistessero e che in collegio suscitavano l’invidia e la meraviglia di tutti i nostri compagni.
La Cozzo Disi era tra le più grandi miniere di Sicilia. Negli anni di cui sto parlando aveva circa 1000 dipendenti e quindi era, in un certo senso, il fiore all’occhiello della Sicilia mineraria e sotto la direzione di mio padre era certamente all’ avanguardia. Ma, proprio per quello che ho detto,
attirava l’attenzione del regime fascista e non furono pochi i personaggi che vennero a visitarla, un po’ per curiosità ed interesse e un po’ per autocelebrarsi. Venne il Re, venne Cianetti, venne Starace e intanto le pareti degli edifici si riempivano di scritte quali: Viva il Duce, Vincere e
Vinceremo, Noi Tireremo Diritto, ecc.
La miniera continuò a lavorare a pieno regime anche negli anni della guerra, poiché lo zolfo era considerato materiale bellico. Nessun minatore andò a fare la guerra, erano infatti considerati «più utili da civili che da militari», come si leggeva nei loro congedi. Furono richiamati alle armi solo gli addetti ai servizi di cui si poteva fare a meno. Partirono infatti il nostro cuoco e il cameriere, i quali furono sostituiti dal vecchio «Aitano» (Gaetano), che era stato cuoco in una piccola miniera dei dintorni già chiusa, e da Carminuzzo, ragazzo di sedici anni che fungeva da cameriere. Partì anche l’addetto ai muli e pochi altri.
Pertanto la guerra ci sfiorò soltanto, anzi, l’ultimo anno fu divertente, perché sfollarono da Palermo e vennero a casa nostra i miei nonni, gli zii, i cugini; insomma per qualche mese fummo in diciotto e per noi ragazzini fu veramente una festa. La nostra dispensa era abbastanza fornita e il
pericolo era veramente lontano. Ma quando le truppe di occupazione passarono, passarono anche i marocchini, per paura dei quali le donne, piccole e adulte, fummo ospitate per qualche giorno in un convento a Campofranco, il paese più vicino alla miniera. Quel che rimase dopo il loro passaggio, come ben si sa, fu caos e disorganizzazione e tra queste disfunzioni, ci fu il rifiuto della Banca di Casteltermini di effettuare il trasferimento da Palermo del danaro per pagare gli stipendi. Quindi mio padre dovette andare a prelevarlo di persona, accompagnato dal suo autista, Guido Pagliaro, con la gloriosa Balilla. Ma al ritorno fece quello che fu definito «un cattivo incontro». Fu, infatti, rapinato dai banditi che infestavano le strade tra Agrigento e Palermo. Si vide costretto a cercare
ed ottenne un incontro con il bandito Giuliano, sì proprio Salvatore Giuliano che era considerato, come si sa, il capo assoluto di tutte le bande che imperversavano nella zona. Ottenne una sorta di lasciapassare che utilizzò per parecchi mesi, sino a quando le banche non ripresero il loro
servizio.
Ma il mondo era cambiato, nuove, strane idee andavano fermentando.
Nuove parole: sciopero, occupazione, cottimo, ma soprattutto quella che spuntò una mattina, scritta col nerofumo delle lampade ad acetilene sul muro di un edificio di fronte alle nostre finestre «Abbasso gli spruzzatori», che poi fu quasi immediatamente corretta in «Abbasso gli spruttatori». A loro giustificazione vorrei dire che nei paesi dell’agrigentino la fonetica della «f» e della «p» è molto vicina. Nacque la «Commissione Interna», che era l’antenata del comitato sindacale e che di solito trattava con i proprietari o con gli amministratori, ma alla Cozzo Disi trattava con mio
padre che proprietario non era. Entrambe le parti non avevano alcuna esperienza di questo tipo di trattative. Oggi è notorio che le parti in causa devono fare dei passettini in avanti o indietro, fino a trovare un punto d’incontro.
Ma all’epoca di cui sto raccontando questi fatti, le reciproche posizioni erano assolutamente rigide. Ognuno temeva di perdere e di dovere dar conto, rispettivamente ai proprietari e alla base. Quindi le trattative andavano avanti per giorni e giorni, per ore e ore. A volte, all’ora di pranzo, che veniva scandita dal suono della sirena, mio padre invitava i componenti la commissione a mangiare a casa nostra. Il pasto si svolgeva in una atmosfera di vago imbarazzo. Mia madre e noi bambini, un po’ impauriti dalla presenza di questi che erano diventati «nemici», e per loro il disagio per la scarsa dimestichezza con le posate e col galateo. Era un momento di tregua e la conversazione verteva sul tempo, la caccia, le zanzare ecc.
Ma, appena usciti da casa nostra, salivano sul palco, che era approntato sul piazzale nel quale aspettava una folla di operai che adesso non saprei quantificare, ma che allora mi sembrava immensa e li apostrofavano con slogan del tipo: «Ecco i vostri sfruttatori che mangiano con le posate d’argento e voi avete le posate d’argento?» «Nooo», rispondeva la folla. «Avete le tovaglie ricamate, le vasche da bagno di marmo?». «Nooo». «Sapete chi vi impedisce di averli? Gli sfruttatori.
Abbasso gli sfruttatori». E così via.


Erano tempi difficili. Una sera d’estate, in casa regnava un’atmosfera di preoccupata attesa. Si sapeva che a Casteltermini si stava svolgendo un comizio dei «comunisti». Ad una certa ora i bambini fummo mandati a letto, ma i grandi aspettavano in trepida attesa. E infatti arrivò una
camionetta dei Carabinieri di Casteltermini che prelevò mio padre e lo portò in salvo in caserma. Intanto che noi bambini venivamo svegliati allegramente da mia madre che diceva: «Andiamo bambini, vestitevi, si va in campagna a fare il pane». Ma per quanto mia madre si sforzasse,
l’allegria non regnava in questo gruppo che frettolosamente fu caricato sulla Balilla e si allontanò da casa per andare in una masseria a circa 10chilometri, in casa di Peppe Provenzano, contadino devoto a mio padre.
Gli eventi, infatti, precipitavano: poco dopo che noi avevamo lasciato la casa, arrivarono da Casteltermini gli operai avvinazzati ed eccitati da un comizio esaltato, che volevano prelevare mio padre. Intanto, sulla piazza del paese venivano approntate tre forche che dovevano servire per
impiccare l’Arciprete, il Sindaco e mio padre, perché erano «i nemici del popolo».
Noi fummo salvi perché «facevamo il pane», mio padre perché era protetto in guardina insieme al Sindaco e l’Arciprete. Ma come si può ben capire, le atmosfere erano molto tese. Al vecchio caro «baciolemani» che aveva un che di rispettoso ma anche di affettuoso, si sostituì il freddo «buon giorno» e «buona sera» e i rapporti tra operai e datori di lavoroerano diventati ruvidi.
Tuttavia risultati si ebbero. Alla lunga fila di operai che, usciti dalle miniere, si avviavano a piedi per tornare al paese attraverso una scorciatoia, si sostituirono dei camions con panche nel
cassone e infine dei pullman veri e propri o meglio corriere. E vennero le prime elezioni e i comunisti non vinsero, per fortuna. E così quelli che erano stati i caporioni e gli arruffapopolo si presentarono a mio padre dicendo: «Ora certamente ci licenzierà e non possiamo dire niente». Ma
mio padre rispose: «Se aveste vinto voi, io e la mia famiglia dovevamo scappare su un «pizzo di montagna», ma poiché ho vinto io, rimettetevi i vestiti da lavoro e scendete in miniera». Esplose un applauso liberatorio che ancora mi suona nelle orecchie. Liberatorio per loro, perché non perdevano il posto di lavoro, e per noi, perché si chiudeva questa prima esperienza sindacale con tutte le incognite che presentava. In Sicilia i comunisti della prima ora avevano fatto presa sui minatori e sugli operai dei Cantieri Navali di Palermo, erano infatti le due categorie più numerose. Queste nuove teorie, che il mio era tuo, il tuo non si sapeva di chi fosse, quello di uno era di tutti e quello di tutti era di uno, insomma questa nuova spartizione delle ricchezze, stavano sconvolgendo tutta la società italiana. Intanto si faceva la riforma agraria e quelli che erano anche proprietari della Cozzo Disi, quali i conti Bastiglia, i baroni Petix, i Lo Bue, subirono l’esproprio della terra cosiddetta «in esubero», non so bene in base a quale criterio.
Ma chi era quest’Ingegnere D’Ippolito di cui si parla? Era un grande uomo e un grande tecnico. Il suo pensiero spaziava per 360 gradi. Aveva una grande capacità di sintesi per cui di ogni problema coglieva immediatamente gli aspetti salienti, li quantificava e cominciava a studiarne la soluzione. Amava la musica lirica, amava la campagna, gli alberi, i fiori, si interessava di tutto e ci coinvolgeva sempre. Per usare una frase che ho sentito recentemente pronunciare dalla figlia sedicenne di miei amici, ci costringeva a «tenere il cervello sempre acceso». Assumeva un’aria pensosa e assente e, come se parlasse a se stesso diceva: Chissà perché il fuoco tende verso l’alto? Chi di voi lo sa? Oppure, strizzando la buccia del mandarino vicino alla candela e provocando le piccole fiammelle: Ma che cos’è questa cosa che brucia? Che cos’è un combustibile? Era una continua provocazione e ci costringeva a pensare e a cercare soluzioni. Per quanto riguarda l’attività professionale, cedo momentaneamente la penna a mio fratello Franco”.


La Gioventù nella Miniera di  Cozzo Disi – Di Franco D’Ippolito
Parlare dell’ingegner D’Ippolito, da parte del figlio che gli fu vicino nella sua attività professionale, è, senza dubbio, una sfida alla obiettività ed alla imparzialità! Tenterò di evitare i trabocchetti del sentimentalismo e della facile retorica, ma non posso esimermi dal ricordare che, praticamente, dal millenovecentotrenta ad, almeno, il millenovecentosessanta, egli dominò, incontrastato, il mondo tecnicominerario zolfifero siciliano. Responsabile delle più significative miniere siciliane per molti anni, Trabia, Trabonella, Cozzo-Disi, furono le sue aree di azione.
Non era neanche laureato in ingegneria mineraria (lo era in industriale), ma le sue realizzazioni ed intuizioni, insieme ad una incredibile capacità di lavoro, lo portarono ad essere il più qualificato
rappresentante di un mondo che le lotte di classe, le ingerenze politiche, e, soprattutto, il nefasto intervento dell’Ente Minerario Siciliano dovevano distruggere in pochi anni, annullando anche, con esso, un retaggio di competenze, tradizioni e umanità, vecchio di secoli.
I miei ricordi cominciano, praticamente a Cozzo-Disi, dove arrivammo nel 1936 (io avevo 6 anni) e dove lui affrontò un problema minerario con la P maiuscola: il 3° ed il 4° livello della miniera erano incendiati dal 1919!
Il programma era semplice: spegnerlo! Il fuoco si alimentava dello zolfo contenuto nel minerale, e l’ossigeno per la combustione, per fortuna molto limitato nella quantità che raggiungeva l’area incendiata, proveniva da piccole fratture dovute ai continui assestamenti della miniera, che era
impossibile identificare, nonostante una completa chiusura delle già esistenti gallerie sottostanti, con continua sorveglianza per evitare crepe ed escluderne l’entrata. Non si pensi a fiamme o a produzione appariscente di anidride solforosa.
Le caratteristiche della combustione erano grossomodo simili a quelle dei «calcheroni», grandi ammassi di minerale solfifero che bruciavano in condizioni controllate e che, insieme ai forni «Gill», costituivano le sole tecnologie usate per la produzione di zolfo in «balate». Di fatto, da alcune fessure nei monti che sovrastavano l’area incendiata, uscivano dei vapori solforosi che, a causa del vento, sempre presente da quelle parti, venivano dispersi rapidamente. Nessuno dei tecnici che diressero la miniera prima di mio padre ritennero di affrontare il problema, e non ne conosco il motivo; quasi certamente perché i livelli più bassi, abbastanza ricchi, permettevano una buona estrazione, concentrando le forze operative più sulla produzione che nella soluzione di problemi che, però, d’altra parte, promettevano una ampia remunerazione: il recupero dello zolfo puro, colato dal «calcherone» interno e che aveva invaso e colmato tutte le gallerie esistenti nel 3° e nel 4° livello.
Mio padre, non lo so se per iniziativa propria o per disposizione della «Amministrazione», raccolse la sfida. Non conosco la tecnica usata e, purtroppo, credo che non viva più nessuno di coloro che, insieme a lui, affrontarono la miniera.
Ricordo appena come gli operai che dovevano aprire delle rimonte dentro la roccia calda, usando i martelli perforatori, avevano dei guanti per reggere i manici evitando le ustioni ed erano costantemente innaffiati da acqua fresca sotto pressione, che i loro compagni lanciavano dal basso. I lavori in queste zone duravano dieci minuti (!!) seguiti da trenta di intervallo.
C’era un rinnovamento continuo nell’attività e numerose squadre si alternavano al lavoro che non poteva avere pause: ogni ora che passava corrispondeva ad una quantità di ossigeno che andava ad alimentare la combustione.
In quell’epoca mio padre aveva circa 35 anni, ma già il suo coraggio fisico, competenza, e resistenza al lavoro cominciavano ad entrare nell’alone della leggenda. Scendeva «all’interno» e ne usciva solo quando aveva già utilizzato tutte le sue forze ed era estenuato. Il suo sonno era leggerissimo, ed aveva dato ordine che attorno alla «casina» che era la nostra abitazione, alloggiamento degli impiegati, uffici e servizi di cucina, etc., fossero poste delle guardie per vegliare il suo riposo.
Non so se per sua iniziativa o di qualche collaboratore... collaborativo, venivano sparsi strati di paglia sul selciato della strada che correva prospicente alla sua camera da letto, in modo che i passanti, con gli scarponi chiodati dell’epoca, i cavalli ferrati ed i carretti, diminuissero al massimo il rumore del loro transito. L’incendio fu domato, portando grandi utili all’azienda
con la vendita dello zolfo «gratuito» che usciva dalle gallerie pronto per essere venduto, e la fama di mio padre assurse al livello dal quale non doveva più scendere.
L’8 luglio del 1943 gli americani sbarcarono tra Gela e Licata, a circa 70 Km. in linea d’aria da Cozzo Disi, dove eravamo tutti riuniti, ospitando parenti ed amici che erano fuggiti da Palermo, già preda di feroci bombardamenti. Tra questi, ospite gradito di mio padre, sia perché vecchio compagno di università che per il livello mentale e la competenza mineraria, c’era il professore Giuseppe Aprile, divenuto poi titolare della cattedra di arte mineraria all’Università di Palermo. La guerra per noi passò presto, perché alcuni giorni dopo lo sbarco, gli alleati raggiunsero la
nostra zona e finirono così i bombardamenti, la mancanza di sigarette, caffé, cioccolato, pane bianco, etc., che furono abbondantemente distribuiti alla popolazione da parte delle truppe che i comandi militari, con lungimiranza, avevano scelto tra i «paisà», ossia gente oriunda dalle
nostre parti, che non parlava italiano, ma si esprimeva in un gergo, facilimente comprensibile, dove si mescolava uno «slang» americano con le più caratteristiche espressioni siciliane.
Tra le truppe che attraversarono la nostra regione, arrivò, un giorno, un capitano dell’esercito «invasore» che, da civile, nel suo Paese, era un qualificato ingegnere minerario. Con la disinvoltura tipica degli americani, e l’autorità del vincitore, si presentò a mio padre, chiedendo di visitare la miniera e scambiare opinioni tecniche per mezzo di un interprete «paisà», dato che lui non era «dei nostri» e mio padre non parlava l’inglese.
Difficilmente si può immaginare un incontro più proficuo di quello avvenuto tra i due tecnici, che, dimentichi della reciproca posizione divinti e vincitori, si addentrarono in scambi di esperienze e pareri, durante i quali fu pronunziata, forse per la prima volta in Sicilia, l’espressione
«flottazione dello zolfo»!
In effetti a quel contatto ne seguirono altri, e sia per la lungimiranza e pertinacia della Amministratrice della Società Cozzo-Disi, la contessa Laura Perrier Pintacuda, donna di rara intelligenza, come anche per l’entusiasmo di mio padre e, non va dimenticato, per la collaborazione e l’iniziativa del capitano americano, del quale purtroppo non ricordo più il
nome, dopo circa due anni arrivò a Cozzo-Disi un impianto di flottazione della Denver del Colorado, una delle più importanti produttrici del mondo di macchine per trattamenti minerari. L’industria mineraria sicilianaaveva superato, di un balzo, lo spazio tra medioevo e l’età Moderna.
Erano stati tentati, per la verità, altri mezzi per la concentrazione e purificazione dello zolfo. Uno di questi, potenziato sempre da mio padre, fu la messa in marcia di un impianto a vapore, dove lo zolfo veniva fuso dentro caldaie con pressione di 3-4 atmosfere, uscendo purissimo da un foro nel fondo. L’impianto era molto vicino alla «casina» dove noi abitavamo ed era, da noi ragazzi, chiamato «la Turchia», perché l’incaricato si chiamava Turco, per cui... ! Anche lì l’ingegno di mio padre ebbe modo di manifestarsi e di rendersi utile alla comunità.
 Difatti il minerale di zolfo che era adatto alla fusione a vapore conteneva grandi quantità di bitume «leggero» che scorreva per primo durante l’operazione e che era raccolto per essere successivamente avviato alla distillazione.
Da questa distillazione, effettuata in un reparto contiguo alla fusione a vapore, si otteneva una specie di nafta, che forse oggi non raggiungerebbe gli «standard» di purezza e di antinquinamento, ma che, a quell’epoca, si dimostrò di vitale importanza perché con questa si riusciva ad alimentare
degli enormi motori diesel a bassa rotazione che azionavano delle dinamo per produrre energia elettrica la cui erogazione era stata interrotta dalla guerra.
Per mezzo di complicati collegamenti e di allacciamenti di emergenza, l’energia elettrica raggiungeva Casteltermini, in quantità sufficiente per azionare i molini del Pastificio Di Pisa, e così poterprodurre farina. In mancanza di ciò, la popolazione locale avrebbe mangiato «farro», invece di pane e pasta!
L’importanza della Cozzo-Disi, nell’ambito minerario sia per le sue dimensioni (mi pare di ricordare che vi lavoravano, in tre turni, circa mille operai, provenienti prevalentemente da Casteltermini e Campofranco, con le inevitabili brighe e campanilismi), che per il carisma emanato da mio padre e per le brillanti innovazioni tecniche, ne fecero il luogo ideale per il «tirocinio» dei diplomandi periti minerari, provenienti soprattutto dall’Istituto Minerario di Caltanisssetta, ma anche da Agordo e da altre sedi.
Ciò trasformò il nome di mio padre; non era più l’ingegner D’Ippolito, ma era, per antonomasia, «u diretturi», e non nel solo ambito della Cozzo Disi e dintorni, ma in tutto il bacino solfifero esteso tra Caltanissetta ed Agrigento.
Il fatto di essere figlio mi portava notevoli vantaggi pratici: quando a piedi, partivo alle 5,30 del mattino, per raggiungere prima delle 7 Casteltermini, dopo un’ora e mezza di salita, per prendere lezioni private (le scuole erano chiuse per via della occupazione americana), ero costretto a sostare in ogni casupola di contadini che avevano «calatu nno puzzu» un «panaru» di fichidindia appena raccolte e messe al fresco, appunto, «nno puzzu», per essermi offerte con sorrisi e cordialità. Per lungo tempo, poi,ne sopportavo le inevitabili conseguenze...!”

Impianti della Miniera Cozzo Disi
http://www.distrettoturisticodelleminiere.it/distretto/miniera-cozzo-disi/

5 - L’Industria della Montecatini – Il Villaggio Faina – La teleferica

Adiacente alla Stazione di Campofranco si trova lo stabilimento del “Gruppo Montecatini”.
Lo stabilimento era collegato all’attività di lavorazione della kainite estratta dalla miniere di San Cataldo.

Gli stabilimenti della Montecatini vicino alla Stazione di Campofranco

Tutto nasce nel 1953 quando vennero scoperti i giacimenti di kainite anche se la conoscenza del prezioso minerale era già nota da tempo.

La Kainite è un minerale composto da Sali di cloruro, potassio e solfato di magnesio.
Deriva dal greco “Kαluoζ” (recente, cioè formato da poco) e si riconosce per il suo gusto salato-amaro
a differenza del salgemma dal gusto salato-dolce.
Il minerale viene usato per la produzione di fertilizzanti potassici.
La formazione, come per lo zolfo, è avvenuta attraverso l’evaporazione di sedimenti marini.
La Sicilia è ricca di giacimenti di kainite. Oltre a San Cataldo è famoso anche il giacimento di Pasquasia.
Si trovano giacimenti anche in  Austria, Germania, Polonia, Russia, Kazakistan, Islanda, Iran e USA.

Negli stessi anni cinquanta il Governo Regionale - Presidenti: Franco Restivo (Dc); Giuseppe Alecci (DC); Giuseppe La Loggia (DC); Silvio Milazzo (Unione Siciliana Cristiano Sociale)- adattò un Piano Quinquennale che permise l’ingresso di grandi aziende nazionali, in particolare dell’ENI, nel settore dell’industria siciliana
In un atmosfera avvolta da pressioni politiche, sempre presenti, nell’isola cominciarono a presentarsi altri gruppi nazionali come la Montecatini, l’Edison, l’Italcementi.
Il piatto era ben condito…  nei confronti delle aziende, tutte nazionali, l’Istituto Regionale per il Finanziamento alle Imprese in Sicilia (IRFIS) concesse  ben 21 miliardi e 910 milioni di lire…. spiccioli…., quasi la metà delle erogazioni stabilite a tutto il 31 dicembre 1957.
In questo contesto economico, alcune aree della Sicilia diventarono protagoniste di quella che potremo definire una vera e propria “rivoluzione industriale”. Una rivoluzione che aveva, secondo l’opinione comune, due basi importanti:
-          Sfruttare le risorse naturali del territorio (oltre alle risorse minerarie c’erano anche quelle petrolifere;
-          Possibilità occupazionali in aree storicamente depresse.
Doveva essere un attività in ottica di lungo termine e… invece… nel giro di pochi decenni svanì nel nulla. Dall’attività nessun beneficio per le precarie economie locali..
Fra queste “Oasi nel Deserto”…. adatte per ricchi imprenditori… ci creò lo stabilimento per l’estrazione della kainite e la relativa produzione di fertilizzanti potassici fra San Cataldo e Campofranco, in provincia di Caltanissetta.
Miniera Bosco di San Cataldo –
La Storia della Miniera, con i suoi risvolti di natura giuridica ed ambientali, sarà oggetto di una mia
prossima ricerca. Una storia assurda dove si parlerà anche  di rifiuti tossici…

L’attività di estrazione nell’ “Oasi di Kainite” di contrada Bosco di San Cataldo, venne avviata dal gruppo Montedison con un investimento di ben 15 miliardi di lire.
Nel 1960 fu aperto lo stabilimento di Campofranco-Casteltermini dalla SALSI (Società Salifera Italiana) ovvero una filiale del gruppo Montecatini con l’obiettivo di trasformare il minerale di potassio (kainite) estratto nella miniera di San Cataldo. Lo stabilimento usava un processo studiato e brevettato dalla Montecatini che permetteva di ottenere il 50-52% di solfato di potassio da kainite minerale contenente circa il 15% di cloruro di potassio. Il prodotto era destinato per l’agricoltura, l’industria farmaceutica, ecc.
La trasformazione avveniva attraverso tre fasi:
-          Trasformazione della kainite mediante un trattamento con “liquore” medio da cui si otteneva schoenite cristallina e “liquore” finale;
-          Lisciviazione continua della schoenite con acqua calda  da cui si ottiene solfato di potassio umido e liquido medio, che dopo il raffreddamento, veniva riutilizzato in una nuova operazione su descritta;
-          Essiccazione e stoccaggio del solfato di potassio.
Poiché il liquore finale ottenuto nella prima fase conteneva circa il 30% di potassio potenzialmente recuperabile, si fecero diversi tentativi con l’obiettivo di ottenere un processo di recupero.
Il procedimento della Montecatini fu oggetto di studi e prove nel centro di ricerca “Guido Donegani” di Novara. Il procedimento fu poi migliorato ulteriormente dalla Montecatini a Campofranco nel 1965. Aggiungendo solfato di calcio solido al liquore finale si formava un doppio solfato di potassio calcio che veniva decomposto con acqua calda e reintrodotto nella seconda fase del processo di lavorazione.

La produzione di sali potassici nel 1962 raggiunse in Italia una cifra straordinaria… ben 785.000 tonnellate di prodotto, pari al 73% dell’intero ricavato nazionale.

Naturalmente le cifre fecero scalpore attirando anche i mezzi di comunicazione.
Per il Gruppo Montecatini era un motivo d’orgoglio mascherato da evidenti ragioni promozionali.
I Comuni di Campofranco e San Cataldo varcarono lo Stretto di Messina raggiungendo il territorio nazionale sia con quotidiani che con mezzi audiovisivi.
Il mensile del TCI, “Le Vie d’Italia”, il 10 luglio 1962, apparve con il titolo: “La Sicilia ha il potassio”.
L’azienda riuscì a produrre fino a un milione di tonnellate di prodotto dai tre pozzi e aspetto importante, dava lavoro a 600 persone tra San Cataldo e Campofranco dove vicino alla stazione c’era lo stabilimento di lavorazione del prodotto.
“La scoperta della kainite, l’apertura dello stabilimento per la lavorazione del minerale e per il ricavo del potassio, hanno accesso la speranza di queste popolazioni, hanno svegliato la fantasia, hanno dato una spinta alla volontà”.
Ma alla base c’era sempre una forte contraddizione: l’iniziativa privata e quella pubblica battevano strade diverse…
Nel 1965, con il nuovo processo di lavorazione su descritto, la capacità complessiva dell’impianto passò da circa 1 milione di tonnellate a 2,1 milioni d tonnellate annue. I due massicci silos parabolici in cemento armato, capaci di 200.000 tonnellate ciascuno, furono ingranditi e meglio collegati alla linea ferroviaria da cui avrebbero raggiunto la fabbrica di fertilizzanti di Porto Empedocle. Fino alla costruzione della più grande raffineria di potassio, Pasquasia, da parte della ISPEA nel 1973, la raffineria di Campofranco era l’unica del suo genere nel territorio nazionale e quindi un caposaldo importante per l’intera industria agro-chimica italiana.
Nel 1966  la Montecatini e la Edison si fusero e le attività estrattive di San Cataldo furono oggetto di accordi con la “Sali Potassici Trinacria” e con l’”Ente Minerario Siciliano”.
Nel 1978 la Montedison e la SALSI abbandonarono gli impianti e le proprietà passarono all’”ISPEA”(Industria di Sali Potassici ed Affini di Palermo), società con capitali pubblici.
Nel 1981, la miniera di San Cataldo era vicina all’esaurimento, voce forse non vera e che i documenti ritrovati nella villa “misteriosa” vicino alla miniera dovrebbero rilevare, mentre lo stabilimento di Campofranco fu assegnato a una nuova società pubblico-privata, da poco formata, e
Chiamata ITALKALI (Società Italiana Sali Alcalini). Sotto la direzione della nuova società la raffineria di Campofranco fu rinnovata  con l’aggiunta di un nuovo impianto di flottazione per il minerale grezzo di kainite. Lo sviluppo positivo dello stabilimento fu improvvisamente interrotto alla fine del 1990 per un contenzioso sorto tra la direzione dell’ITALKALI e l’EMS, che controllava il 51% dell’Italkali, per l’impianto chimico-minerario di Pasquasia. Alla fine entrambe furono chiuse nel 1991.
Nel Luglio 1988… la chiusura della miniera…  e l’abbandono delle gigantesche attrezzature oggi in stato di degrado..
Rimane viva un indagine della magistratura sulle presenza di scarti di lavorazione e anche di una probabile presenza di materiali tossici… ma questo sarà oggetto di una mia prossima ricerca.

La Teleferica

 Dalla miniera di San Cataldo allo stabilimento di Campofranco ci sono circa 35 km attraverso diversi tragitti, tutti su strade provinciali.
La Montecatini realizzò un opera imponente per accelerare e rendere più agevole il collegamento tra i due settori della produzione: una teleferica.



I lavori iniziarono nel 1957 con l’intervento di ditte specializzate nella costruzione di funivie e con un notevole numero di operai.
Nel 1960 la funivia fu completata e nello stesso anno inaugurata.. le fu dato il nome di “teleferica”.
Serviva per il trasporto della “cainite floccata”, posta in dei carrelli, dalla miniera allo stabilimento di Campofranco-Casteltermini dove il minerale veniva lavorato e convertito in solfato di potassio, fertilizzante per l’agricoltura, per le fabbriche farmaceutiche, ecc.
I dati tecnici della “teleferica”:
-          Lunghezza : 18 km;
-          Tralicci: n. 114
-          N. 4 stazioni intermedie denominate: “Partenza – Intermedia – Angolo – Arrivo”;
-          N. 9 “Dispositivi”
-          Tempo Partenza – Arrivo: 1h, 23 m
-          N. 350 carelli di portata da 1,2 T x carrello;
-          Peso di un carrello, 0,7 T
-          Tempo di  entrata nello stabilimento x carrello: 23 sec.;
-          N. 70 operai impiegati in tre turni (a pieno regime).
A causa della chiusura della miniera i tralicci si sono quasi del tutto persi (molti erano pericolanti e sono stati abbattuti) e i carrelli venduti per ferro vecchio.
Gli abitanti della zona ricordano ancora quando si vedevano sfilare, uno dopo l’altro, i carrelli carichi di minerale.
Ho cercato di ricostruire il vecchio tracciato delle teleferica attraverso l’uso di mappe satellitari. Sono riuscito ad individuare la basi dei vecchi tralicci e qualche importante stazione. Sono stati tutti elencati e catalogati in dettaglio come se fossero dei capisaldi trigonometrici. Probabilmente qualcuno mi sarà sfuggito ma penso che il tracciato dovrebbe avvicinarsi alla realtà.











Il Comune di Campofranco crede fortemente nelle sue risorse territoriali.
Un anno fa un artigiano locale, Di Marco Angelo, con ex operai della miniera, Sciortino santo e Palumbo Ignazio, sono riusciti a creare la teleferica della miniera in miniatura. Un plastico perfettamente funzionante e curato nei minimi dettagli.
I carrelli, i tralicci, i dispositivi, le corde, tutto sembra vero; l'alimentazione a corrente elettrica permette ai carrelli di muoversi così come avveniva nella vera funivia.

Campofranco - Lo stabilimento della Montecatini













Ho chiuso questa pagina con le foto  dello stabilimento di Campofranco in cui si vedono degli operai. Scende una profonda tristezza… di una delle più grandi e innovative attività minerarie d’Europa non rimangono che gli impianti corrosi dalla ruggine e i danni ambientali provocati dalla pessima gestione degli scarti di lavorazione. È strano.. sono un siciliano ed amo la mia terra…… ma c’è nella mia Isola una radicata incapacità… non so se voluta o forse perché legata a spregiudicati interessi economici che allontano dall’obiettivo… di promuovere il proprio sviluppo

Villaggio Faina


La nascita del Villaggio Faina fu legata all’attività dello stabilimento della Montecatini e alla miniera Cozzo Disi. Posto a pochi chilometri da Campofranco è forse l’emblema di una profonda crisi economica soprattutto occupazionale. Sono lontani gli anni 70-80…dall’ultimo censimento risultano residenti nel villaggio 46 abitanti (18 famiglie). Un villaggio composto da 18 edifici: un edificio costruito tra il 1946 ed il 1960; 14 tra il 1961 ed il 1970; 3 tra il 1971 ed il 1980.





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6 - video  - La industrializzazione della Sicilia - lo stabilimento di Campofranco e la
                   Miniera di Potassio di San Cataldo 
                   Istituto Luce Cinecittà -10/05/1962

7 - Video - "Un Mestiere per Tutuzzu"




NOTE
PROTESTATION DU DUC D'ORLEANS

« S. A. R. déclare par les présentes qu'il proteste formellement contre le procès-verbal daté du 29 septembre dernier , lequel acte prétend établir que l'enfant nommé Henri-Charles-Ferdinand-Dieudonné est le fils légitime de S. A. R. la duchesse de Berry.
« Le duc d'Orléans produira en temps et lieu les témoins qui peuvent faire connaître l'origine de l'enfant et sa mère. Il produira toutes les preuves nécessaures oour rendre manifeste que la duchesse de Berry n'a jamais été enceinte depuis la mort infortunée de son époux; et il signalera les auteurs de la machination dont cette très faible princesse a été l'instrument.
« En attendant qu'il arrive un moment favorable pour dévoiler cette intrigue, le duc d'Orléans ne peut s'empêcher d'appeler toute l'attention sur la scène fantastique qui , d'après le susdit procès-verbal , a été jouée au pavillon de Marsan.
« Le Journal de Paris, que tout le monde sait être un journal confidentiel, annonça le 20 août dernier le prochain accouchement dans les termes suivans :
« Des personnes qui ont l'honneur d'approcher la princesse nous assurent que l'accouchement de S.A. R. n'aura lieu que du 20 au 28 septembre.
« Lorsque le 28 septembre arriva, que se passa-t-il dans les appartemens de la duchesse ?
« Dans la nuit du 28 au 29, à deux heures du matin, toute la maison était couchée et les lumières éteintes. A deux heures et demie la princesse appela; mais la dame de Vathaire, sa première femme de chambre, était endormie; la dame Lemoine, sa garde, était absente, et le sieur Deneux, l'accoucheur, était déshabillé.
« Alors la scène changea. La dame Bourgeois alluma une chandelle, et toutes les personnes qui arrivèrent dans la chambre de la duchesse virent un enfant qui nétait pas encore détaché du sein de la mère.
« Mais comment cet enfant était-il placé?
« Le médecin Baron déclare qu'il vit l'enfant placé sur sa mère, et non encore détaché d'elle.
« Le chirurgien Bougon déclare que l'enfant était placé sur sa mère, et encore attaché par le cordon ombilical.
« Ces deux praticiens savent combien il est important de ne pas expliquer plus particulièrement comment l'enfant était placé sur sa mère.
« Madame la duchesse de Reggio a fait la déclaration suivante:
« Je fus informée sur le champ que S. A. R. ressentait les douleurs de l'enfantement. J'accourus auprès d'elle à l'instant même, et en entrant dans la chambre, je vis l'enfant sur le lit, et non encore détaché de sa mère.
« Ainsi, l'enfant était sur le lit, la duchesse dans le lit, et le cordon ombilical introduit sous la couverture.
« Remarquez ce qu'observa le sieur Deneux, accoucheur, qui, à deux heures et demie , fut averti que la duchesse ressentait les douleurs de l'enfantement, qui accourut sur-le-champ auprès d'elle sans prendre le temps de s'habiller entièrement qui la trouva dans son lit et entendit l'enfant crier.
« Remarquez ce que vit madame de Goulard qui , à deux heures et demie , fut informée que la duchesse ressentait les douleurs de l'enfantement, qui vint sur-le-champ , et entendit les premiers cris de l'enfant.
« Remarquez ce que vit le sieur Franque garde-du-corps de Monsieur, qui était en faction à la porte de S. A. R., et qui fut la première personne informée de l'événement par une dame qui le pria d'entrer.
« Remarquez ce que vit le sieur Lainé, garde national, qui était en faction à la porte du pavillon de Marsan, qui fut invité par une dame à monter, monta, fut introduit dans la chambre de la princesse, où il n'y avait que le sieur Deneux et une autre personne de la maison, et qui au moment où il entra observa que la pendule marquait deux heures trente-cinq minutes.
« Remarquez ce que vit le médecin Baron , qui arriva à deux heures trente cinq minutes , et le chirurgien Bougon, qui arriva quelques instans après le sieur Baron.
« Remarquez ce que vit le maréchal Suchet, qui était logé par ordre du roi au pavillon de Flore , et qui, au premier avis que S. A. R. ressentait les douleurs de l'enfantement, se rendit en toute hâte à son appartement, mais narriva qu'à deux heures quarante-cinq minutes, et qui fut appelé pour assister à la section du cordon ombilical quelques minutes après.
« Remarquez ce qui doit avoir été vu par le maréchal de Coigny, qui était logé aux Tuileries par ordre du roi , qui fut appelé lorsque S. A. R. était délivrée, qui se rendit en hâte à son appartement, niais qui n'arriva qu'un moment après que la section du cordon avait eu lieu.
« Remarquez enfin ce qui fut vu par toutes les personnes qui furent introduites après deux heures et demie jusqu'au moment de la section du cordon ombilical, qui eut lieu quelques minutes après deux heures trois quarts.
« Mais où étaient donc les parens de la princesse pendant cette scène qui dura au moins vingt minutes? Pourquoi, durant un si long espace de temps, affectèrent-ils de l'abandonner aux mains de personnes étrangères , de sentinelles et de militaires de tous les rangs? Cet abandon affecté n'est-il pas précisément la preuve la plus complète d'une faute grossière et manifeste? N'est-il pas évident, qu'après avoir arrangé la pièce, ils se retirèrent à deux heures et demie, et que, placés dans un appartement voisin ils attendirent le moment d'entrer en scène et de jouer les rôles qu'il s'étaient assignés.
Et, en effet, vit-on jamais, lorsqu'une femme , de quelque classe que ce soit, était sur le point d'accoucher, que, pendant la nuit , les lumières fussent éteintes ; que les femmes , placées auprès d'elles , fussent endormies; que celle qui était plus spécialement. chargée de la soigner, s'éloignât ; que son accoucheur fût déshabillé, et que sa famille habitant sous le même toît, demeurât plus de vingt minutes sans donner signe de vie.
« S. A. R. le duc d'Orléans est convaincu que la nation française et tous les souverains de l'Europe sentiront toutes les conséquences dangereuses d'une fraude si audacieuse et si contraire aux principes de la monarchie héréditaire et légitime.
« Déjà la France et l'Europe ont été victimes de l'usurpation de Bonaparte. Certainement, une nouvelle usurpation , de la part d'un prétendu Henri V, amèneraient les mêmes malheurs sur la France et sur l'Europe.
« Fait à Paris, le 30 septembre 1820. »


PROTESTA DEL DUCA DI ORLEANS

"S. A. R. dichiara formalmente protestato contro il verbale del 29 settembre, che agiscono pretesa di stabilire che il bambino di nome Henri-Charles-Ferdinand Dieudonné è il figlio legittimo di S. A. R. Duchessa di Berry.
"Il Duca d'Orleans produrrà in tempo e collocherà i testimoni che possono far conoscere l'origine del bambino e di sua madre. Egli produrrà tutte le prove necessarie per dimostrare che la duchessa di Berry non è mai stata incinta dalla sfortunata morte di suo marito; e annuncerà gli autori della macchinazione di cui questa principessa molto debole è stata lo strumento.
"In attesa di un momento favorevole per svelare questo intrigo, il Duca di Orleans non può trattenersi dal richiamare tutta l'attenzione sulla scena fantastica che, secondo i suddetti minuti, è stata giocata al Padiglione di Marsan.
"Il Journal de Paris, che tutti sanno essere un giornale confidenziale, ha annunciato il prossimo 20 agosto la seguente nascita nei seguenti termini:
"Le persone che hanno l'onore di avvicinarsi alla principessa ci assicurano che la nascita di S.A. R. avverrà solo dal 20 al 28 settembre.
"Quando è arrivato il 28 settembre, cosa è successo negli appartamenti della Duchessa?
"Nella notte tra il 28 e il 29, alle due del mattino, l'intera casa era distesa e le luci erano spente. Alle due e mezzo la principessa chiamò; ma la signora di Vathaire, la sua prima cameriera, dormiva; Lady Lemoine, la sua guardia, era assente, e il signor Deneux, l'ostetrica, era spogliato.
"Poi la scena è cambiata. La signora borghese accese una candela e tutte le persone che arrivarono nella stanza della duchessa videro un bambino che non era ancora distaccato dal grembo materno.
"Ma come è stato piazzato questo bambino?
"Il dottor Barone dichiara di vedere il bambino posto su sua madre e non ancora distaccato da lei.
"Il chirurgo Bougon dichiara che il bambino è stato messo su sua madre, e ancora attaccato dal cordone ombelicale.
"Questi due praticanti sanno quanto sia importante non spiegare in modo specifico come il bambino è stato messo su sua madre.
"La duchessa di Reggio ha fatto la seguente dichiarazione:
"Mi è stato immediatamente comunicato che S. A. R. stava vivendo il dolore del parto. Mi sono imbattuto in lei proprio allora, ed entrando nella stanza, ho visto il bambino sul letto, e non ancora distaccato da sua madre.
"Così, il bambino era sul letto, la duchessa nel letto e il cordone ombelicale introdotto sotto la coperta.
«Osserva ciò che osservò il signor Deneux, un ostetrico, il quale, alle due e mezzo, fu informato che la duchessa sentiva le pene del parto, che si affrettò a raggiungerla senza prendersi del tempo. vestirsi completamente chi l'ha trovata nel suo letto e ha sentito il bambino urlare.
Notate ciò che vide Madame de Goulard quando, alle due e mezza, fu informata che la duchessa sentiva il dolore del parto, che arrivò immediatamente e udì le prime grida del bambino.
"Notate cosa vive Sieur franco guardia del corpo signore che era in servizio al cancello di S. A. R., e fu la prima persona informata della manifestazione da una signora che gli ha chiesto di entrare.
"Si noti che cosa ha visto Laine M., Guardia Nazionale, che era in servizio alla porta del Pavillon de Marsan, che è stato invitato da una signora a salire, salito, è stato introdotto nella camera della principessa, dove c'era quel signor Deneux e un'altra persona della casa che, al momento del suo ingresso, osservò che l'orologio durava due ore e trentacinque minuti.
«Notate che dottor Barone, arrivato alle due e trentacinque minuti, e il chirurgo Bougon, che arrivò pochi minuti dopo Sieur Baron, vide.
Notate cosa vide Marshal Suchet, che era stato ospitato per ordine del re al Flore Pavilion, e che, al primo avviso che la SAR aveva sentito i dolori del parto, si affrettò verso il suo appartamento, ma venne solo a due e quarantacinque minuti, che fu chiamato a frequentare la sezione del cordone ombelicale pochi minuti dopo.
"Notate cosa deve essere stato visto dal maresciallo Coigny, che è stato depositato alle Tuileries per ordine del re, che è stato chiamato quando SAR è stato consegnato, che si è affrettato nel suo appartamento, ma che è arrivato solo un momento dopo che la sezione del cavo aveva avuto luogo.
"Si noti infine ciò che è stato visto da tutte le persone che sono state introdotte dopo due ore e mezza fino alla sezione del cordone ombelicale, che si è svolta pochi minuti dopo due ore e tre quarti.
"Ma dove erano i genitori della principessa durante questa scena che durò almeno venti minuti? Perché, durante un così lungo periodo di tempo, l'hanno lasciato nelle mani di estranei, sentinelle e soldati di ogni ordine? Non è questo l'abbandono influenzato proprio la prova più completa di un errore grossolano e manifesto? Non è forse ovvio, dopo aver sistemato la stanza, è andato due ore e mezzo e collocata in un appartamento confinante hanno aspettato il momento di intervenire e svolgere i ruoli che si erano assegnati.
E infatti, non si vive mai, quando una donna di qualsiasi classe stava per partorire, che durante la notte le luci si erano spente; che le donne, poste vicino a loro, dormivano; di quello che era più nello specifico. incaricato di curarla, se ne andò; che il suo inserviente era spogliato e che la sua famiglia viveva sotto lo stesso tetto, rimase più di venti minuti senza dare alcun segno di vita.
"S. A. R. duca d'Orléans è convinto che la nazione francese e tutti i sovrani d'Europa si sentono tutte le pericolose conseguenze di frode così audace e così in contrasto con i principi della monarchia legittima ed ereditaria.
"La Francia e l'Europa sono già state vittime dell'usurpazione di Bonaparte. Certamente, una nuova usurpazione, da parte di un finto Enrico V, porterebbe le stesse disgrazie alla Francia e all'Europa.
"Fatto a Parigi, il 30 settembre 1820."

Questo testo ricomparve dieci anni dopo, nell'Agosto del 1830, subito dopo la Rivoluzione di Luglio che con imbrogli e sotterfugi scacciò il ramo primogenito dei Borboni.
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ACCORDO TRA GLI INGLESI E IL REGNO DELLE DUE SICILIE PER L’ESTRAZIONE DELLO ZOLFO

"IO. Sua Maestà Britannica accetta che tutti i privilegi e le esenzioni che i Suoi sudditi del commercio e della navigazione hanno goduto e godano nei Dominions Ports e Domini della sua Maestà Siciliana in virtù del Trattato di Pace e Commercio concluso a Madrid il Maggio 1667 tra Grandi Gran Bretagna e Spagna dei trattati di commercio tra le stesse potenze firmate a Utrecht il 9 dicembre 1713 e a Madrid il 13 dicembre 1715 e della Convenzione conclusa a Utrecht il 25 febbraio 1712 13 tra Gran Bretagna e Kih March il Regno di Sicilia sarà abolito ed è concordato in conseguenza tra le Loro dette Maestà Britanniche e Siciliane I loro eredi e successori che i suddetti privilegi ed esenzioni sia di persone che di bandiera e spedizione sono e continueranno per sempre aboliti.

II. Sua Maestà Siciliana si impegna a non continuare né in futuro a concedere ai soggetti di qualsiasi altro Potere qualunque siano i privilegi e le esenzioni aboliti dalla presente Convenzione.

III. Sua Maestà Siciliana promette che i sudditi di Sua Maestà Britannica non saranno soggetti nei suoi domini a un sistema più rigoroso di esame e di ricerca da parte degli ufficiali delle dogane di quello a cui sono soggetti i soggetti della Sua detta Maestà Siciliana.

IV. Sua Maestà il Re delle due Sicilie promette che il Commercio Britannico in generale e i sudditi britannici che lo trasportano saranno trattati in tutta la Sua Dominazione sullo stesso piano delle nazioni più favorite non solo rispetto alla persona e alle proprietà dei suddetti Inglesi i soggetti, ma anche per quanto riguarda le specie di articoli in cui possono circolare e le tasse o altri oneri pagabili sui suddetti articoli o sulle spedizioni in cui devono essere effettuate le importazioni.

V. Rispetto ai privilegi personali di cui godono i sudditi di Sua Maestà Britannica nel Regno delle Due Sicilie, Sua Maestà Siciliana promette di avere un diritto libero e indiscusso di viaggiare e di risiedere nei Territori e nei Dominio dei Suoi detta Maestà è soggetta alle stesse precauzioni della polizia che sono praticate nei confronti delle nazioni più favorite. Essi avranno il diritto di occupare abitazioni e beni mobili e di disporre delle loro proprietà personali di ogni genere e descrizione tramite scambio di regali di vendita o volontà e in qualsiasi altro modo qualunque cosa sia con la più piccola perdita o impedimento che gli viene data su quella testa, essi non saranno obbligati a pagare sotto alcuna pretesa qualunque altra tassa o aliquota di quelle che sono pagate o che in futuro potranno essere pagate dalle nazioni più favorite nei Dominio della Sua detta Maestà Siciliana Saranno esenti da ogni servizio militare se per terra o per mare i loro magazzini di abitazione e ogni cosa appartenente o pertinente al reto per oggetti di commercio o residenza deve essere rispettato Non si deve essere sottoposti a nessuna ricerca o visita vessatoria Nessun esame o controllo arbitrario dei loro libri, libri o conti devono essere fatti sotto la pretesa della Suprema autorità dello Stato, ma questi devono da soli essere giustiziato dalla sentenza legale dei tribunali competenti Sua Maestà Siciliana si impegna in tutte queste occasioni a garantire ai sudditi di Sua Maestà Britannica che risiederanno nei suoi Stati e Dominioni la conservazione della loro proprietà e la sicurezza personale nello stesso modo in cui sono garantito ai suoi sudditi e a tutti gli stranieri appartenenti alle nazioni più favorite e più privilegiate.

VI. Secondo il tenore degli articoli I e II del presente trattato, Bis Sicilian Majesty si impegna a non dichiarare nulli e privi i privilegi e le esenzioni effettivamente esistenti a favore del commercio britannico all'interno dei suoi domini fino allo stesso giorno e ad eccezione dello stesso atto con il quale i privilegi e le esenzioni di qualsiasi altra nazione sono dichiarati nulli e nulli all'interno della stessa.

VII. Sua Maestà Siciliana promette dalla data in cui avrà luogo l'abolizione generale dei privilegi ai sensi degli articoli I II e VI al fine di ridurre del dieci per cento l'ammontare dei dazi dovuti secondo la tariffa in vigore il 1 ° gennaio 1816 sul totale delle merci o produzioni del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda le sue Colonie Possessioni e Dipendenze importate negli Stati della Sua detta Maestà Siciliana secondo il tenore dell'articolo IV della presente Convenzione essendo inteso che nulla in questo L'articolo deve essere interpretato in modo tale da impedire al Re delle Due Sicilie di concedere se riterrà adeguata la stessa riduzione del dovere nei confronti di altre nazioni straniere.
VIII. I soggetti delle Isole Ionie dovranno in effetti essere sotto la protezione immediata della Sua Britannia M irina e tutti i vantaggi che sono concessi al Commercio e ai sudditi della Gran Bretagna dal presente Trattato, essendo ben inteso che a prevenire tutti gli abusi e dimostrare la propria identità ogni nave ionica deve essere munita di un brevetto firmato dall'Alto Commissario Lord o dal suo rappresentante.

IX. La presente Convenzione sarà ratificata e le sue ratifiche saranno scambiate a Londra nell'arco di sei mesi o, se possibile, prima possibile. In fede di che, i rispettivi Plenipotenziari l'hanno firmato e appunto il sigillo delle loro armi ».

(L. S. Castelcicala, Trattato commerciale tra la Gran Bretagna e le Due Sicilie)

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I. His Britannic Majesty consents that all the privileges and exemptions which His subjects their commerce and shipping have enjoyed and do enjoy in the Dominions Ports and Domains of his Sicilian Majesty in virtue of the Treaty of Peace and Commerce concluded at Madrid the of May 1667 between Great Britain and Spain of the Treaties ot commerce between the same Powers signed at Utrecht the 9ih of December 1713 and at Madrid the 13th of December 1715 and of the Convention concluded at Utrecht the 25t February 1712 13 between Great Britain and Kih March the Kingdom of Sicily shall be abolished and it is agreed upon in consequence between Their said Britannic and Sicilian Majesties Their heirs and successors that the said privileges and exemptions whether of persons or flag and shipping are and shall continue for ever abolished.
II. His Sicilian Majesty engages not to continue nor hereafter to grant to the subjects of any other Power whatever the privileges and exemptions abolished by the present Convention.
III. His Sicilian Majesty promises that the subjects of His Britannic Majesty shall not be subjected within His Dominions to a more rigorous system of examination and search by the officers of customs than that to which the subjects of His said Sicilian Majesty are liable.
IV. His Majesty the King of the two Sicilies promises that British Commerce in general and the British subjects who carry it on shall be treated throughout His Dominions upon the same footing as the most favoured nations not only with respect to the person and property of the said British subjects but also with regard to everj species of article in which they may traffic and the taxes or other charges payable on the said articles or on the shipping in which the importations shall be made.
V. With respect to the personal privileges to be enjoyed by the subjects of His Britannic Majesty in the Kingdom of the Two Sicilies His Sicilian Majesty promises that they shall have a free and undoubted right to travel and to reside in the Territories and Dominions of His said Majesty subject to the same precautions of police which are practised towards the most favoured nations They shall be entitled to occupy dwellings and ware bouses and to dispose of their personal property of every kind and description by sale gift exchange or will and in any other way whatever with ont the smallest loss or hindrance being given them on that head They shall not be obliged to pay under any pretence whatever other taxes or rates than those which are paid or that hereafter may be paid by the most favoured nations in the Dominions of His said Sicilian Majesty They shall be exempt from all military service whether by land or sea their dwellings warehouses and every thing belonging or appertaining thereto for objects of commerce or residence shall be respected Th y shall not be subjected to any vexatious search or visits No arbitrary examination or inspection of their books papers or accounts shall be made under the pretence of the Supreme Authority of the State but these shall alone be executed by the legal sentence of the competent tribunals His Sicilian Majpsty engages on all these occasions to guarantee to the subjects of His Britannic Majesty who shall reside in His States and Dominions the preservation of their property and personal security in the same manner as those are guaranteed to His subjects and to all foreigners belonging to the most favoured and most highly privileged nations.
VI. According to the tenor of the Articles I and II of this Treaty Bis Sicilian Majesty engages not to declare null and void the privileges and exemptions which actually exist in favour of British Commerce within His Dominions till the same day and except by the same Act by which the privileges and exemptions whatsoever they arc of all other nations hall be declared null and void within the same.
VII. His Sicilian Majesty promises from the date when the general abolition of the privileges according to the Articles I II and VI shall take place to make a reduction of ten per cent upon the amount of the duties payable according to the tariff in force the 1st of January 1816 upon the total of the merchandize or productions of the United Kingdom of Great Britain and Ireland her Colonies Possessions and Dependencies imported into the States of His said Sicilian Majesty according to the tenor of Article IV of the present Convention it being understood that nothing in this Article shall be construed to prevent the King of the Two Sicilies from granting if he shall think proper the same reduction of duty to other foreign nations.
VIII. The subjects of the Ionian Islands shall in consequence of their being actually under the immediate protection of His Britannic M ijesty enj y all the advantages which are granted to the Commerce and to he subjects of Great Britain by the present Treaty it being well understood that to prevent all abuses and to prove its identity every Ionian vessel shall be furnished with a patent signed by the Lord High Commissioner or his representative.
IX. The present Convention shall be ratified and the ratifications thereof exchanged in London within the space of six months or sooner if possible In witness whereof, the respective Plenipotentiaries have signed it, and thereunto affixed the seal of their arms”
L. S. Castelcicala, Trattato commerciale tra la Gran Bretagna e le Due Sicilie


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