MUSSOMELI - IL CASTELLO ... "UN NIDO D'AQUILA"
I CASTELLI DELLA PROVINCIA DI CALTANISSETTA
I
mercanti Pisani erano soliti acquistare notevoli quantità di grano in Sicilia
creando quasi un monopolio. Da questi commerci la Sicilia guadagnò una notevole
quantità di moneta (fiorino, genoino, zecchino) che arricchirono le casse dello
Stato.
INDICE
1.
Ubicazione;
2.
Storia;
a)
Origini;
b)
Manfredi III Chiaramonte;
c)
Re Federico IV (Il Semplice) – Regina Maria di Sicilia
– Manfredi III, Vicario del Regno – I Sarcofagi dei re Aragonesi nella
Cattedrale di Catania;
d)
La Regina Maria di Sicilia sotto la tutela di Artale
Alagona (1375);
e)
Riunione dei Nobili di Sicilia nel Castello di
Caltanissetta (1378);
f)
Artale Alagona medita di far sposare Maria di Sicilia
con Gian Galeazzo Visconti;
g)
L’intervento degli Aragonesi in Sicilia;
h)
1391 – Riunione a Castronovo dei nobili di Sicilia;
i)
La riunione di Castronovo e le sue conseguenze;
j)
L’arrivo in Sicilia di Martino “Il Giovane” e della
moglie Maria di Sicilia;
k)
1392 – Andrea Chiaramonte condannato a morte – La sala
dello Steri (affreschi);
l)
1393 – Enrico Chiaramonte e Artale Alagona contro
Martino “Il Vecchio”;
m)
1408 - Il Regno
di Martino “Il Vecchio” colpito da tragici eventi – Bianca di Navarra;
n)
Mussomeli- Terra di Donazioni e Contenziosi (1392 –
1467);
o)
La Famiglia Del Campo – Mercanti Pisani – La coltivazione
delle “cannemele”;
p)
L’ascesa sociale di Pietro Del Campo – L’acquisizione
delle “Terra di Mussomeli” – Il prestito di Don Antonio Barresi, Barone di
Pietraperzia;
q)
La crisi economica della famiglia Del Campo – La “banca” Alliata;
r)
Andreotto Del Campo si rivolge al “banco” Mahona e
Minocchi di Palermo – I “banchi” e la rete creditizia nel 1500;
s)
Il “banco” notifica al Barone Del Campo la diminuzione
delle entrate – Nuova richiesta di credito – L’inserimento nel credito di una “figura
degna” – I Lanza
t)
1548 – Il “banco” cede al Lanza l’arrendamento della “Terra
diu Mussomeli” – Il passaggio della “Terra di Mussomeli” a don Cesare Lanza;
u)
Le altre “malefatte” di Don Cesare Lanza – L’assassinio
della figlia e del suo amante – L’uccisione di un giurato
v)
Cronologia Storica
3.
Struttura Architettonica;
4.
I Fantasmi del Castello – Leggende o realtà ? - Il Fantasma della Baronessa di Carini – L’uomo
della Valle…. Il suo nome ..- La leggenda “di li tre donni”.
1. 1. UBICAZIONE
Il Castello di Mussomeli sorge su uno sperone di roccia calcarea, alto 80 metri, a circa due chilometri dall’omonimo
paese.
Un centro posto nell’estrema punta nord-occidentale della provincia di
Caltanissetta. È uno dei castelli meglio conservati
della Sicilia e definito come un “nido
d’aquila fuso nella rupe”.
Nelle cartine è indicato con il termine di “Castello Manfredonico” perché
fu Manfredi III Chiaramonte a volere la sua costruzione.
Sin dalla sua fondazione questo meraviglioso castello, le cui strutture si
sono sapientemente adeguate alla morfologia della roccia, per la posizione, la
storia, le sensazioni che emana e per le leggende che vi sono state
ambientate, ha sempre goduto di una grande fama e popolarità.
Una costruzione ricca di fascino non solo storico ma anche leggendario
perché nei sotterranei, secondo le voci popolari, venivano custoditi
meravigliosi tesori e accadevano misteriose vicende.
Tra le 200 fortezze presenti in Sicilia è senza dubbio al Castello di
Mussomeli che spetta la palma della rocca più inaccessibile e inespugnabile, un
capolavoro d'architettura militare del XIV e XV sec.
Le stanze del Castello Chiaramontano, oltre che per le decorazioni delle
loro mura, si fanno interessanti anche per le oscure vicende che in essi si
svolsero in passato e che hanno da sempre alimentato la fantasia popolare,
dando vita a racconti a metà tra la storia e la leggenda.
Dal Castello la vista spazia sul Monte San Paolino, ai cui piedi si
stende Sutera, “la Sottilissima”;
mentre a destra del castello è, invece, Mussomeli.
Quando visitai il Castello, tanti anni, il custode della struttura era il
Sig. Messina.
2.a - ORIGINI
Il Castello fu edificato nel 1370, secondi altri tra il 1364 e il
1367, per volere di Manfredi III Chiaramonte, Conte di Modica,
probabilmente sui resti di una fortezza araba di cui furono cancellate le
tracce.
È probabile l’esistenza di un precedente castello o torre araba ?
Secondo gli studiosi mussomelesi Sorce e Calà, il termine Mussomeli ha un
origine araba.
Il termine sarebbe “Menzil-al- Amir”
ovvero “Stazione dell’Emiro”, una struttura probabilmente presente nel
territorio durante la dominazione araba e destinata ad essere la sede di un
pubblico funzionario arabo per il governo e controllo della zona.
Nel 1923 un contadino di Mussomeli trovò nelle pendici orientali del
castello un contenitore di terracotta con 124 monete arabe d’oro che furono
conservate al Museo Nazionale di Palermo.
Manfredi III Chiaramonte entrando in possesso della “Terra di Mussomeli” si
rese conto delle grandi possibilità politiche che essa gli offriva;
una presenza emblematica dei Chiaramonte nel “cuore” della Sicilia in una zona
ricca di tradizionale prestigio e di grande validità strategica.
L’aspetto economico, un feudo o una “terra” in più o in meno, aveva per lui
poca importanza dato che era in possesso di una fortuna economica immensa
disseminata in varie zone dell’isola.
Il Chiaramonte fu colpito, probabilmente, dai ruderi della
fortezza che gli arabi avevano costruito alcuni secoli prima. L’effetto
continuo e devastante degli agenti atmosferici legato all’abbandono avevano
determinato un logorio del fortilizio. Eppure “dovevano essere delle tracce così importanti da indurre Manfredi a
conservare la pianta originale del castello per erigerne uno nuovo eminente e
bello, unico nel suo genere in questa regione” espressione della grande
importanza del Casato dei Chiaramonte.
La citazione, su espressa, fu di Giovanni Adria, medico di Carlo V,
rilevata da un manoscritto del XVI secolo conservato presso la
Biblioteca Comunale di Palermo.
Manfredi nella costruzione riuscì ad unire le esigenze artistiche con
quelle politico-militari e questo in un periodo dove l’importanza del
feudatario si “misurava” anche in base al numero e alla magnificenza dei suoi
castelli.
Il castello riuscì a influenzare l’aspetto economico di un vasto territorio
a tal punto da prendere il nome di “Terra Manfrine” e la città il nome di
“Manfreda”.
Gli otto anni di lavoro necessari per il completamento del castello
determinarono una “migrazione interna” che fece crescere il numero di persone
che si spostarono dalle campagne per prestare la
propria opera nella costruzione. Una migrazione che finì con
l’incrementare la piccola colonia che già risiedeva a poca distanza
dalla rocca.
Il nucleo originario del paese, che i documenti citano come “Terra
Manfrine”, conservò invece nel linguaggio comune il termine di Mussomeli.
Castello di Mussomeli …. “ un vero nido
d’aquila”
2.b - Ma chi era Manfredi III
Chiaramonte ?
I Chiaramonte discendevano da Carlo Magno e giunsero in Sicilia con i
Normanni ottenendo le Signorie di Castronovo e Mussomeli. Il suo antenato,
Manfredi, aveva costruito il famoso Palazzo Steri di Palermo.
Manfredi III visse in un periodo in cui la Sicilia era colpita da
lotte politiche e militari legate alla divisione dell’importante impero di
Federico II di Svevia. A Federico II erano subentrati nel dominio dell’isola
gli Angioini e successivamente gli Aragonesi.
Secondo gli storici francesi derivò “di sangue Reale e della schiatta del Rè
Pipino”.
Sembra che siano originari di Clermont
en Beauvaisis, zona di Beaauvais, nella Piccardia.
Una famiglia che nei secoli XI e XV
ebbe, soprattutto in Sicilia, vasti feudi e una grande notorietà.
Risalgono all’XI secolo circa la presenza di
“Edgardus di Capua” e di Ugo, signore di Colubraro e di
Policoro in Basilicata nel 1087-112. I figli
di Ugo, Alessandro e Riccardo, furono proscritti entrambi da Ruggero II.
Riccardo tornò nelle grazie del sovrano
riavendo i suoi feudi che per successione passarono a Riccardo II (1235).
L’Imperatore Federico II di Svevia gli
alienò i beni forse per tradimento. Carlo D’Angiò restituì le terre a Riccardo
III (nipote di Riccardo II). Nel 1315 con Ugo III sembra che si sia estinto il
rame maschile.
I Chiaramonte di Sicilia sarebbero
quindi un ramo collaterale provenienti dalla Contea Francese, passata nel1218
di pertinenza dei Borboni. Il primo Chiaramonte di Sicilia fu Manfredi I, morto
nel 1321, Sinisclaco del Regno,
Conte di Modica e Signore di Caccamo.
Lo Stemma del Casato secondo l’Istituto
di Araldica
https://www.heraldrysinstitute.com/cognomi/Chiaramonte/Italia/idc/18912/
La lunga ed estenuante Guerra del Vespro aveva più volte cambiato l’aspetto
politico dell’isola modificando le alleanze e determinando il sorgere di due schieramenti
aristocratici siciliani : i Latini (di tradizione locale) e i Catalani (di
origine spagnola).
Manfredi fu sempre un sostenitore del “blocco” Latino,( anche se con
cautela filo angioino) e non esitò a schierarsi e complottare contro i deboli
sovrani del tempo rischiando la confisca dei beni e ottenendo, in cambio, un
grande prestigio politico tra la popolazione e gli stessi baroni locali.
(Manfredi III era figlio di Giovanni II “De Chiaramonte, Conte di Modica e
de Chiaramonte” e di una certa Eleonora. Si sposò due volte. Da primo matrimonio
con Margherita Passaneto non ebbe figli. Si risposò con Eufemia Ventimiglia,
figlia di Francesco II Ventimiglia, 6° Conte di Geraci, e di Elisabetta di
Lauria, dei Signori della Porta di Taormina.
Da questo matrimonio nacquero: Isabella che diventò Contessa di Malta;
Eleonora , Andrea e Costanza. A quanto sembra aveva un'unica sorella,
Margherita.)
Divenuto re Federico IV il Semplice, Manfredi si avvicinò alla corte per
diventare il suo “paladino” ottenendo in cambio privilegi e concessioni.
Nel novembre del 1374 il castello era già ultimato tanto da ospitare il Re
di Sicilia, Federico IV , con la regina Antonia Del Balzo e, naturalmente, la
corte al seguito.
La conferma dell’avvenuta costruzione è confermata da una lettera scritta
dallo stesso re, il 16 novembre: “apud
terram Manfridae”.
Il castello entrò subito al centro di importanti avvenimenti storici della
Sicilia.
2.c – Periodo da
Federico IV d’Aragona (Il Semplice)
Nel novembre del 1374,come detto. il Castello di Mussomeli aveva ospitato
il Re Federico IV “Il Semplice” con la
famiglia e la Corte.
Una strana personalità quella del Manfredi III. Anche se investito da
Federico IV d’Aragona della Contea di Modica, allora il più importante stato
feudale dell’isola, “uno stato nello
stato”, mostrava spesso degli atteggiamenti ostili agli
Aragonesi di Sicilia. Era più vicino agli Angiò anche per le origini
francesi del suo casato.
Nel 1377 Federico IV era in gravi condizioni fisiche e a causa della minore
età della figlia, Maria di Sicilia, per disposizione testamentaria nominò
Manfredi III Chiaramonte “Vicario del Regno”.
Maria era figlia del re Federico IV d’Aragona (Il Semplice)(figlio di
Pietro II di Sicilia e di Elisabetta di Carinzia) e di Costanza d’Aragona (Figlia primogenita
del re d’Aragona - di Valencia, di Majorca, di Sardegna, di Corsica e Conte di
Barcellona - Pietro IV il Cerimonioso e della sua prima moglie Maria di
Navarra).
La madre Costanza era sorella di Martino “il Vecchio”, anche lui figlio di
Pietro IV. Martino “il Vecchio” e il figlio Martino “Il Giovane”, quindi cugino
di Maria (Regina di Sicilia), saranno responsabili di tragiche pagine di storia
della Sicilia.
Costanza era nata a Poblet nel 1343 e si sposò con Federico IV l’11 aprile
1361 (aveva 18 anni) nella Cattedrale di Catania. Costanza visse nel castello
di Maniace a Siracusa e diede alla luce il 2 o 18 luglio 1363 la figlia Maria
nel castello Ursino di Catania. Morì durante il parto e il suo sarcofago è
collocato nella cattedrale nella cappella dell’Adorazione. Sepolture aragonesi,
di grandi valore storico e artistico, dimenticate dai catanesi.
Il ritrovamento delle sepolture della famiglia reale Aragonese nella
Cattedrale di Catania,
fu merito dell’allora rappresentante della Sovrintendenza, Letterio de
Gregorio.
Il De Gregorio basò le sue ricerche su una relazione risalente al 28
gennaio 1589 e scritta
da Guglielmo Policastro, in occasione della visita di Mons. Frabrizio
Mandosio.
Le sepolture erano poste nelle pareti interne dell’abside centrale , sopra
il coro ligneo e coperte dagli stucchi. Dopo il ritrovamento, avvenuto nel
1958, i due sarcofagi aragonesi furonocollocati nella Cappella della Madonna.
Entrando nella Cappella si notano a destra i due sarcofagi posti l’uno di
fronte all’altro.
La sepoltura grande contiene le spoglie dei Re Federico III d’Aragona, del
figlio Giovanni;
del nipote Ludovico, della pronipote Maria ( trattata nelle ricerca) e di
suo figlio
Federico morto a meno di due anni.
Si tratta di una pregevole opera d’arte, sarcofago “Sidamara”, datato al
III sec. a.C., lavorato su tre lati e chiuso da un coperchio che non è
pertinente.
Per la sua collocazione nell’abside fu a suo tempo, nel 1628, danneggiato
per farvi aderire
gli stucchi della parete di copertura del sarcofago.
Nella ricognizione del 1958 fu confermata all’interno del sarcofago la
presenza di scheletri pertinenti quindi alla storia della Sicilia.
Nell’altro sarcofago c’è invece la Regina Costanza d’Aragona, madre di
Maria, e che morì di parto nel darla alla luce. Un sarcofago medievale decorato
su due lati e con un coperchio sul
quale è scolpita la figura della regina sul letto di morte e con ai piedi
una corona ed un cane.
Sulla parete del sarcofago è raffigurata la piazza del Duomo di Catania e
la
Loggia dei Giurati e al centro della scena è presente la regina che prega
ai
piedi della Madonna. Anche questo sepolcro, per essere collocato
nell’abside centrale,
fu oggetto di scalpellamento, per fortuna solo sul cuscino e non sul volto.
Un danneggiamento risalente sempre al
1628 per fare aderire gli stucchi della parete che dovevano ricoprire il
sarcofago.
Sembra che il volto della
regina Costanza sia stato copiato per il volto del busto reliquario di
Sant’Agata
Dopo
circa dieci anni, il 26 novembre 1373, Federico IV sposò Antonia del Balzo
figlia di Francesco del Balzo , Duca d’Andria e di Marguerite di Taranto. Dopo
circa due anni, sembra uno strano destino, anche lei morì per una tremenda
fatalità. Fu colpita a morte durante un attacco navale del potente Enrico III
Rosso, Conte di Aidone. Antonia fi sepolta nella cattedrale di Messina. Nei due
anni di matrimonio la coppia non ebbe figli.
Nello stesso anno il re moriva, lasciando l’unica figlia Maria sotto la
tutela di Artale d’Alagona, molto legato alla casa d’Aragona, “Gran Giustiziere
del Regno” e grande nemico di Manfredi III.
Artale assunse la carica di reggente con Maria di Sicilia appena dodicenne.
2.d – Maria, Regina di Sicilia, sotto la tutela di Artale Alagona (1375)
Ma qual’era la situazione politica della Sicilia ?
Quando la giovane Maria prese le redini del regno, la Sicilia non
presentava una forte unità politica che aveva contraddistinto le epoche
anteriori. Mancava l’autorità sovrana e regnava una diffusa anarchia legata ai
vari comportamenti dei nobili di Sicilia.
Artale non poteva consegnare la Sicilia con una tale situazione politica a
Maria e si rese conto che era necessario intervenire per ristabilire l’ordine e
l’autorità sovrana.
Ma sulla Sicilia era presente una minaccia che veniva da lontano, dalla
Spagna e in particolare dalla casa d’Aragona.
Re Pietro IV d’Aragona, alla morte di Federico IV “il
Semplice”, aveva nominato nel 1378 come “Signore e
reggente della Sicilia” il figlio Martino “Il Vecchio” dato che la nipote,
Maria di Sicilia, aveva solo 15 anni. La sua elezione a “Signore di Sicilia”
aveva dei risvolti.
Il figlio maggiore del Re (Pietro IV d’Aragona), Giovanni, era
rimasto vedovo nel 1378 e lo stesso re, avendo l'obiettivo di
estendere i domini della Corona d'Aragona anche sulla Sicilia, spinse Giovanni
a sposare la regina di Trinacria, Maria di Sicilia, affinché non sposasse il
duca di Milano, Giangaleazzo Visconti, con cui i notabili siciliani erano
in contatto. Giovanni rifiutò, obbligando il Re aragonese a intervenire in
Sicilia.
2.e - RIUNIONE DEI NOBILI DI SICILIA A CALTANISSETTA (1378)
Con grande diplomazia Manfredi III riunì, nel 1378, i nobili di Sicilia
nel Castello di Caltanissetta.
Probabilmente era presente anche il Vescovo di Pozzuoli, mandato da Papa
Bonifacio che cercava di instaurare rapporti amichevoli con classe baronale
siciliana.
Castello di Pietrarossa – Caltanissetta
– un platico del castello conservato a Siviglia
Il Castello di Pietrarossa ..oggi
http://www.visitsicily.info/en/10cosea/caltanissetta/
La riunione stabilì che il “Regno
fosse governato nel nome della Regina Maria, da quattro vicari Generali”.
I Vicari eletti, tra i nobili di Sicilia, furono:
Artale Alagona;
Manfredi III di
Chiaramonte, Conte di Modica
Francesco Ventimiglia,
Conte di Geraci;
Guglielmo Peralta,
Conte di Caltabellotta.
Erano i baroni più potenti del Regno, due di parte latina (Chiaramonte e
Ventimiglia) e due di parte catalana (Alagona e Peralta).
Il loro compito ?
Interessarsi del buon governo d’isola e creare quella pace politica con il
superamento delle ostilità e degli interessi economici tra le avverse fazioni
nobiliari.
Era un vero e proprio governo collettivo per cui ognuno sotto la formula, “cum sociis vicarius generalis”,
governava una determinata “provincia”:
Alagona, nella Sicilia Orientale;
Chiaramonte, in buona parte della Val di Mazara;
Ventimiglia, nelle Madonie;
Peralta, nel territorio di Sciacca.
Le radici della discordia, tra i nobili, non potevano essere superati da
questa nuova situazione politica se non cancellando decenni di storia e
affrontando la realtà con umiltà. Una discordia legata a radici culturali
(provenienza diversa: catalana, aragonese, latina); radici economiche (la
spartizione del territorio con acquisizione di nuovi feudi e terre); storiche
(spesso i baroni erano stati in lotta tra di loro e assediati nei loro
castelli); morali ( matrimoni ripudiati, come nel caso di una figlia dei
Chiaramonte con un Ventimiglia e tradimenti).
Maria di Sicilia
2.f – Artale Alagona
medita di far sposare Maria di Sicilia con Gian Galeazzo Visconti
Vi fu un breve periodo di pace fin quando Artale, ancora nella veste di
tutore della Regina Maria di Sicilia, meditò di darla in sposa ad un nobile di
origine latina. I pretendenti erano due, Ottone III dei marchesi di Monferrato
e Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano (il secondo era leggermente favorito).
https://www.milanopost.info/2017/06/29/i-visconti-stirpe-di-serpenti-il-tradimento-di-gian-galeazzo/
Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, figlio di Galeazzo II Visconti e di
Bianca di Savoia (sorella di Amedeo IV detto il “Conte Verde), nato a Milano il
16 ottobre 1351.(nel 1378 Maria aveva 15 anni mentre il Visconti era ventisettenne).
Una famiglia importante. A quattro anni fu nominato cavaliere
dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo e nel 1360… all’età di nove anni, sposò
Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni II. Un matrimonio che
costò una fortuna ai Visconti…fra i 400.000 e i 600.000 scudi….un cronista
dell’epoca, Matteo Villani di Firenze, disse indignato: “il re di Francia aveva venduto la propria carne”. La sposa portò
in dote la Contea di “Vertus” e per questo motivo Gian Galeazzo acquisì il
titolo di Conte “di Virtù”. Un matrimonio da cui nacquero cinque figli. Rimase
in vita solo la figlia Valentina che sopravvisse ai fratelli e alla stessa
madre che morì di parto nel dare alla luce l’ultimogenito.
Con la morte del padre avvenuta nel 1378 si trovò a dividere la difficile
gestione del vasto Stato con lo zio Bernabò. Tra i due nacquero subito dei
conflitti. Il primo diverbio fu proprio legato alle ambizioni siciliane dei
Visconti. Un progetto a cui la mobile famiglia ambiva da tempo.
Bernabò avvio trattative con Artale Alagona per sposare Maria, regina di
Sicilia, con uno dei propri figli. Un progetto che era contrastato dal papa
Gregorio XI che voleva impedire un rafforzamento del potente signore di Milano.
Davanti a questo veto papale s’intromise Gian Galeazzo Visconti che si dichiarò
pronto a ricevere le continue proposte di matrimonio che giungevano dalla
Sicilia.
L’atteggiamento e le mire di Gian Galeazzo preoccuparono lo zio Bernabò che
cercò d’agire con furbizia cercando di portare a suo vantaggio la situazione.
Costrinse il nipote ad accettare il matrimonio fra il suo secondogenito Azzone,
ancora giovanissimo, visse solo 13 anni, e la figlia dello zio, Antonia. Il
progettato matrimonio tra Gian Galeazzo e Maria di Sicilia non andò in porto
per la contrapposizione degli Aragonesi, del papato ( papa Gregorio XI era
succeduto Urbano VI) e anche della Casa di Baviera (Bernabò era suocero di
Stefano di Baviera). Le forti ambizioni politiche di Gian Galeazzo svanirono
nel nulla e si ritrovò legato alle scelte politiche dello zio.
In un susseguirsi di intense vicende politiche alla fine Gian Galeazzo
decise di eliminare lo zio.
Il 6 maggio 1385, fingendo un pellegrinaggio alla Madonna del Monte, sopra
Varese, fece sapere allo zio di volergli rendere visita senza entrare in Milano
perché non aveva molto tempo. Bernabò, senza scorta, solo in compagnia dei
figli Ludovico e Roberto, raggiunse il nipote alla porta di Sant’Ambrogio. Iacopo Dal Verme e Ottone da Mandello, compagni di Gian Galeazzo, immobilizzarono lo
zio mentre altri militi arrestarono i due figli.
Tumulti
di popolo - che portarono alla distruzione di parte dell'archivio visconteo -
salutarono la fine di Bernabò e l'avvento di G., cui il Consiglio generale di
Milano conferì il titolo di dominus,
sanzionando formalmente il mutato reggimento politico. Il 25 maggio Bernabò
venne condotto nel castello di Trezzo, dove rimase fino al 19 dicembre, quando
- racconta il Corio - "fugli dato il
tosico in una scodella di fagioli" .
Forte fu l’opposizione dei Vicari e di alcuni baroni, fra cui i Palizzi e i
Moncada, che preferivano la corte catalana.
Artale fece frequenti viaggi a Messina per incontrare gli ambasciatori di
Gian Galeazzo Visconti: Riccardo Ferusino d’Alessandria, Sezadio, giureconsulto
e Antonioìo da Luchino “comaschi”.
Furono ospitati in modo sontuoso a Messina e poco dopo a Catania dove
probabilmente videro Maria. Gli ambasciatori firmarono, “a nome del proprio signore lo stabilito contratto” e riferirono
che il loro Signore “s’impegnava di
venire in un anno e mandare frattanto trecento lance ed ottocento fanti”.
Gli ambasciatori ripartirono ed effettivamente, secondo le gli accordi, cominciarono
a giungere alcune “pedestri compagni del
Visconte ch’ei sceglieva tra le milizie di ventura da lui tenute a’ suoi
soldi”. Sbarcarono a Messina e poi percorrendo la litoranea (“lungo il lido”) si radunarono a
Taormina.
Artale con il suo esercito corse a raggiungerli per formare una schiera e
per iniziare la sua guerra contro il Moncada e
gli altri baroni nemici. In una delle sue numerose sortire riuscì ad
impadronirsi di “Rametla” (Rametta) (“raunitissima
terra tra i Paleritani Occidentali”.
Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Augusta, pur “patteggiando per i Latini” non era ben visto nell’ambito della
fazione per la parentela con Artale Alagona che aveva sposato, in seconde nozze
Agata Moncada. (L’Artale Alagona sposò in prime nozze Eleonora Lancia, figlia
di Pietro, Conte di Caltanissetta e in terze nozze Marchisia Abbate, figlia del
Conte Enrico. Ebbe solo una figlia legittima, Maria e due figli naturali,
Maciotta e Giovanni).
Era il più animoso e forse ispirato anche dalla possibilità di sfruttare la
situazione per opportuni vantaggi anche
economici, decise di arruolare un esercito. Dal suo castello di Augusta, posto
in una situazione topografica eccellente per poter operare nella Val di Noto,
tra Siracusa e Catania, iniziò le ostilità contro Artale.
Guglielmo Raimondo Moncada, di origine catalana e da sempre acerrimo nemico
dell’Alagona, con l’aiuto di Manfredi III riuscì a rapire, la notte del 23
gennaio 1379, la Regina Maria .che si trovava nel Castello Ursino di Catania
sotto la sorveglianza di Artale Alagona.
Un ardita azione che aveva alla base l’approvazione del re Pietro IV
d’Aragona che già nel 1378 aveva mandato una flotta in Sicilia per vigilare
sugli eventi. Il re perse poi di mano la situazione politica dell’isola e fu
costretto a nominare vicerè il figlio Marino il Vecchio (zio della regina Maria
di Sicilia).
Catania – Castello Ursino
La riuscita dell’impresa fu agevolata dall’assenza dell’Alagona che si
trovava a Messina per accordarsi con il Duca di Milano.
Messina - Forte Blasco - Ai tempi dell'Alagona era presente una torre
All’inizio del 1379 Artale si trovata a Messina e la notte del 23 gennaio, “favorite dal buio, due galeotte si
appressavano nelle acque di Catania agli scogli tra cui grandeggiava la rocca
Orsina; e su battelli, che calavansi in mare, ne smontavano uomini imbacuccati
ed armati. Pare che nella rocca si facesse mala guardia, o che i nuovi arrivati
vi avessero qualche intelligenza al di detro (qualche traditore). Gli
aggressori penetravano per una postierla nel murato reconto, imponevano il
silenzio agli sbigottiti custodi, e il loro capo, andando innanzi ad ogni
altro, si facea dritto condurre alla camera abitata dalla regina Maria. La
regina stava immersa nel sonno. Svegliata e tratta a forza dalle coltrici, si
diede invano a gridare ed a piangere. Il condottiero dell’assalatrice
masmada la tolse nelle robuste sue
braccia e la menò ad imbarcare”.
Fortificazioni del castello Ursino prima di essere sommerse dalla lava del 1669
https://www.apartmentcatania.com/quanta-storia-in-questa-parte-di-catania/
L’assalitore ed audace condottiero era il conte Guglielmo Raimondo III
Moncada che riuscì ad eseguire in modo perfetto il suo progetto . alcuni
storici riportano che fu aiutato nell’impresa da Manfredi III Chiaramonte.
Comunque una volta trasferita la regina a bordo delle navi.. “le galeotte, preso il largo, vogavano ad ostro nella direzione di
Pachino”.
La giovane regina fu condotta nel Castello di Augusta che apparteneva ai
Moncada.
Augusta – Castello Svevo
L’iniziativa del Moncada fu approvata dal papa Urbano VI che tra l’altro
aveva in progetto di dare in sposa la Regina Maria di Sicilia al proprio nipote
Francesco Prignano e sollecitò lo stesso Moncada di non darla in sposa ad un
aragonese.
Naturalmente la reazione
dell’Alagona non si fece attendere e ritornando da Messina assediò il castello
di Augusta..
il Moncada temendo una reazione dell’Alagona portò Maria nel Castello di
Licata dove restò segregata per due anni,(1381)
Il succedersi degli eventi favorirà quello che i baroni siciliani non
avrebbero voluto che si verificasse.
Guglielmo Raimondo Moncada partì alla volta di Barcellona per incontrare Re
Pietro IV d’Aragona.
Lo scopo del viaggio ?
Convincere il Re d’Aragona a “trafugare
in Ispana” l’augusta fanciulla, impedendo, di fatto, il progettato
matrimonio con Gian Galeazzo Visconti.
Mosse, atteggiamenti, avvenimenti che colpiranno la Sicilia facendogli
perdere la sua “autonomia” dato che Re Pietro IV d’Aragona, non
aveva mai cancellato dalle sue ambizioni le pretese sul Regno di Sicilia.
Accettò, quindi, “l’offerta” del Moncada. Un Moncada che non operò
da vero cavaliere perché chiesi al re dei riconoscimenti.
Dopo due anni, Re Pietro IV mandò dalla Spagna una piccola
flotta che giunse a Licata prese in consegna dal Moncada la regina.
Ma avvenne qualcosa di strano.
La consegna di Maria venne osteggiata dall’Alagona, che rimproverava il
sopruso ricevuto con il rapimento, e da Manfredi Chiaramonte, che grazie alla
propria maturità politica vedeva nella consegna al Re spagnolo, il pericolo di
una futura sottomissione del Regno di Sicilia agli Aragonesi.
L’Artale e Manfredi erano incoraggiati nel loro rifiuto dalle idee di Papa
Urbano VI, contrario alla casa aragonese che riconosceva come Papa Clemente VII
(antipapa).
Il trasferimento della regina in Spagna fallì. Artale e Manfredi, uniti
malgrado le ideologie diverse, si prepararono ad assaltare il Castello di
Licata per mettere al sicuro Maria. Il Moncada, prevedendo la mossa dei due
vicari, decise di spostare la regina in un luogo più sicuro: il Castello di
Augusta.
Artale si spostò ad Augusta cingendo d’assedio il Castello per ben due anni
ma senza successo.
Una squadra aragonese nel 1383, giunta dalla Spagna in soccorso del Moncada nel 1382 e che aveva avuto uno scontro la flotta milanese di Gian Galeazzo Visconti , riuscì a superare l’assedio dell’Artale e a prelevare Maria per condurla in Sardegna, a Cagliari e quindi in “Ispana” alla Corte di re Pietro IV d’Aragona.
Una squadra aragonese nel 1383, giunta dalla Spagna in soccorso del Moncada nel 1382 e che aveva avuto uno scontro la flotta milanese di Gian Galeazzo Visconti , riuscì a superare l’assedio dell’Artale e a prelevare Maria per condurla in Sardegna, a Cagliari e quindi in “Ispana” alla Corte di re Pietro IV d’Aragona.
2.g - L’INTERVENTO DEGLI ARAGONESI IN SICILIA
Il disegno politico sulla Sicilia del Re Pietro IV d’Aragona era pronto per
la sua realizzazione.
L’esecutore del disegno politico….Martino “Il Vecchio” o “L’Umanista”,
dal 1396 re d’Aragona, figlio secondogenito del re Pietro IV
d’Aragona e di Eleonora di Sicilia, sua terza moglie.
Martino Il Vecchio, Duca di Monblanch , decise di fare sposare il figlio,
Martino Il Giovane, di circa 17 anni, con la Maria (20 anni) . Vista la
parentela, Martino il Giovane era quindi nipote del defunto Re Pietro IV.
La data del matrimonio non è sicura. Alcuni storici indicano l’anno 1391
come data dell’evento.
Secondo l’Inveges, Martino il Vecchio, nell’agosto del 1390, comunicava ai
nobili siciliani, tra cui figurano Manfredi III ed Andrea Chiaramonte, “concluso il matrimonio fra il figlio
Martino e la Regina Maria”.
Altre lettere verranno inviate, sempre da Martino il Vecchio, a Manfredi
III fino al 2 marzo 1391.
La Sicilia (o regno di Trinacria) con questo matrimonio
perdeva l’indipendenza e diventava un “feudo” dei discendenti dei Martino.
Le proteste dei baroni siciliani e del Papa Urbano VI, da sempre
antiaragonese, furono vivaci.
Il Papato era contrario alla corona aragonese perché avevano riconosciuto
l’antipapa Clemente VII e il matrimonio fu celebrato proprio dall’antipapa
Clemente VII (era necessaria la dispensa papale dato che i due sposi erano
cugini)
I Baroni siciliani, Papa Bonifacio IX e la famiglia Alagona decisero di opporsi
alla corona aragonese. I Vicari del Regno di Sicilia e i Baroni siciliani
decisero di riunirsi per intraprendere un piano d’azione e chiarire le
direttive da seguire per impedire che la Sicilia diventasse un “feudo” dei
Martini Aragonesi.
La riunione si svolse il 10 luglio 1391.
2.h - 1391 – RIUNIONE TRA I NOBILI DI SICILIA
Anche il Papato interverrà nella riunione. Papa Bonifacio IX inviò un
nunzio, Nicolo Sommaria, per unire contro i Martini i quattro vicari del
Regno di Sicilia e gli Arcivescovi di Palermo e Monreale. Dei quattro
vicari primi eletti al governo dell’isola era rimasto solo Guglielmo
Peralta.
Manfredi Chiaramonte era stato sostituito da Andrea;
Artale d'Alagona era stato sostituito dal fratello Manfredi;
Francesco Ventimiglia dal primogenito Antonio.
Manfredi III Chiaramonte, dopo aver fatto testamento l’8 settembre, morirà
a novembre dello stesso anno. Andrea era figlio di Matteo Chiaramonte, Duca di
Modica
Era presente alla riunione anche se non in perfette condizioni fisiche? Non
si sa. Il nipote aveva sempre appoggiato lo zio e lo spirito di partecipazione
alla riunione lo renderà famoso per il suo fermo atteggiamento antiaragonese.. Fra
i quattro vicari mancava l'accordo; ma prima ancora che il Sommaria fosse
arrivato, fu Andrea Chiaramonte a parlare auspicando un ravvicinamento tra i
convenuti per il raggiungimento d’un patto comune. Un patto che, composti i
contrasti, unisse insieme gli animi e le armi nell’isola contro il
nemico comune.
Dove avvenne la riunione ?
Nel territorio di Castronovo, dipendente dalla casa Chiaramonte, in una
chiesa campestre dedicata a S. Pietro, detto “Casale di San Pietro”, di cui
esiste memoria fin dall'età dei Normanni.
Il Casale è posto a circa 5 km da Castronovo e lungo le rive del fiume
Platani.
Un casale risalente al periodo bizantino e probabilmente, secondo alcuni
storici, sede dell’antica “staziones Comicia” che era posta lungo il percorso
romano che collegava Agrigento con Palermo. La chiesa rimase aperta al culto
fino agli inizi dell’800 e al suo interno si trovava la statua di San Pietro in
cattedra, attribuita Ad Antonello o Domenico Gagini, e che oggi si trova nella
Chiesa Madre di Castronovo.
Durante gli scavi sono stati recuperate reperti ceramici del IX –X secolo
oltre a strutture
Murarie del periodo bizantino, arabo, normanno.
La riunione
fu un'assemblea dei più illustri magnati. La solenne occasione
avrebbe in altri tempi indotto a convocare un” legai Parlamento”, ove si
trovasse debitamente rappresentato il paese; allora non poteva aversi che una
piccola “convenzione” prettamente feudale.
“V'intervenivano
gl'invitati dalle estremità più lontane: quella pianura deserta sulle rive del
Platani, circondata da monti, animavasi e popolavasi a un tratto di signori,
scudieri, famigli, cavalli, procedenti a comitive ed a frotte: giungevano con
amiche intenzioni. Coi Vicari v'erano tra gli altri il Conte Enrico
Ventimiglia, (fratello del Vicario), Guglielmo Ventimiglia Signore di
Ciminna, Bartolomeo e Federico d'Aragona discendenti per linea bastarda dal re
Federico , Guglielmo Rosso, Blasco Alagona Barone di Monforte”.
La riunione fui immortalata anche in un canto popolare siciliano che fu
raccolto dal Vigo:
A Castrunovu cinquanta baruna
di Lutti li paisi e li citati
ecu arceri, ccu cavaddi e ecu piduna
juraru supra di li spati.
Po’, mannaru un curreri a la Curuna:
Semu cca, tutti pronti e boni armati
a sirvimentu di la Sacra Curuna,
a difesa di Vostra Maistati.
Uno dei primi punti dibattuti nella riunione fu il non riconoscimento del
matrimonio della Regina Maria con Martino il Giovane. Con l’appoggio del Papa
Bonifacio IX riuscirono a fare dichiarare nullo il matrimonio in quanto Maria
era procugina di Martino. L’unico disposto a concedere la dispensa,
necessaria per il matrimonio, fu proprio l’antipapa Clemente VII che celebrò
l’unione fra i due sposi. “ In nome
proprio e in nome dei propri fratelli, parenti, amici, aderenti e seguaci quei
feudatari facevano una confederazione reciproca per procurare (siccome
asserivano) l'onore e il servizio della regina Maria sovrana legittima, la sua
restituzione in Sicilia, la sicurezza e la quiete del Regno secondo i voleri e
i comandi della Chiesa: revocato perciò qualunque accordo che si fosse
individualmente e separatamente fatto col re di Aragona, col duca e colla
Duchessa di Monblanc ; non si ammetterebbe alcun principe, o signore, o esercito
straniero che intendesse occupare la signoria dell'isola: e poiché era di
pubblica fama che il Duca di Monblanc avesse determinato di recarsi con
poderosa oste in Sicilia, sotto colore di metterne in possesso la regina,
giuravano di non ricevere il duca né le genti di lui:... se il re di Aragona ed
il Duca credessero bene astenersi, e permettessero alla regina venir sola nel
paese, l'accoglierebbero sì come buoni vassalli; e se costei vi giungesse in
effetto e risalisse nel soglio dei propri antenati, si " reggerebbe col
consiglio dei quattro vicari” . L'Amico, parlando “di Mussomeli e della rocca ivi presso fabbricata da Manfredi di
Chiaramonte”, afferma “ che questi
raccolse in essa un'adunanza di signori siciliani, istigando anche papa
Bonifacio”. Una riunione avvenuta nella famosa “sala dei baroni”,
posta a sinistra dell’atrio del castello di Mussomeli. Castello che era di
proprietà dei Chiaramonte. La narrazione degli storici si basa sull’epoca in
cui i baroni giurarono di mantenersi fedeli a Maria e di respingere l’imminente
sbarco del duca di Momblanc che avverrà nel 1392. Una riunione che fu guidata
dal fiero Andrea Chiaramonte dato che Manfredi ormai era morente o in cattive
condizioni di salute. E’ quindi probabile che prima di giungere alla riunione
di Castronovo ci sia stata una precedente iniziativa di confronto tra i nobili
e i vicari proprio nel castello di Mussomeli. Le decisioni sarebbero state
dibattute nella successiva riunione di Castronovo. Bisogna d’altra parte
dire che per la notevole affluenza dei baroni, alla riunione nella vicina
Castronovo, abbia spinto Andrea Chiaramonte, Signore della famosa terra di
“Manfreda”, a dare ospitalità nel suo castello ai baroni che nella giornata del
10 luglio si recarono al convegno con un folto seguito di cavalieri e militi.
La distanza tra Castronovo e Mussomeli, lungo la vecchia strada, è di
circa 33 km.
2.i - LA RIUNIONE DI CASTRONOVO E LE SUE CONSEGUENZE
La riunione che passerà alla storia come il “Giuramento di Castronovo” non
ebbe, malgrado i seri propositi, gli effetti desiderati. Il Duca di Monblanc,
Martino il Vecchio, astutamente riuscì con diplomazia a piegare le
resistenze dei baroni. La diplomazia di Martino il Vecchio aveva come base
il “rispetto” delle posizioni sociali che i baroni “siciliani” avevano
raggiunto negli anni. Baroni che, d’altra parte, erano preoccupati non tanto
dell’indipendenza politica dell’isola ma della possibile perdita delle
posizioni economiche raggiunte e delle cariche sociali che potevano andare a
favore dei “nemici” spagnoli. Martino Il Vecchio preparò il suo arrivo con la corte
in Sicilia.
Inviò, con ampi poteri, Caldo di Queralta e Berengario di Cruillas. I due
“ambasciatori” riuscirono, con diplomazia, a piegare le resistenze dei baroni
siciliani e gli unici nobili siciliani che mantennero una decisa
posizione antiaragonese furono: Andrea Chiaramonte “Conte di Modica E Signore
di Mussomeli” e Manfredi d’Alagona.
Sembra che i due nobili abbiano, in un momento di sconforto, mandato i “propri omaggi in Ispana” per poi “pentitene, avevano rivòcata la nave”.
2.j - 1392 – L’ARRIVO IN SICILIA DI MARTINO “IL GIOVANE” E DELLA MOGLIE
MARIA
Nel marzo 1392, Martino Il Giovane con la moglie la Regina Maria,
Martino il Vecchio , con una numerosa nobiltà spagnola e con una “potentissima armata” s’imbarcarono per
prendere possesso del Regno di Sicilia. Una vera e propria azione rivolta ad
una terra da conquistare. Tra la nobiltà spagnola figuravano il Grande
Almirante Bernardo Caprera, istigatore e promotore dell’impresa; Don Pietro e
Don Iacopo figli del Conte di Prades e anche dei siciliani !!!!
Con i reali spagnoli giunse ancheGuglielmo Raimondo Moncada, Conte di Augusta,
con i suoi fratelli e figli (Giovanna; Giovanni, conte di Adernò; Matteo II, IV
conte di Agosta e Simone, signore di Castelluccio). Quel Moncada che in un
certo senso fu responsabile del succedersi degli eventi.
L'armata giunse a Marsala il 22 marzo 1392, ricevuta con devota accoglienza
dai due vicari Peralta e Ventimiglia, e da non pochi feudatari.
“Signori e
rappresentanti delle città venivano a fare omaggio ai nuovi sovrani; ed a quei
che non venivano, come al Conte di Modica, il Duca di Momblanco scriveva,
tacendone i titoli, di venire a prestare a Mazzara il militare servizio, pena
la confisca dei beni”. Andrea Chiaramonte, in accordo con gli
Arcivescovi di Palermo e di Monreale, inviò dei messaggeri per tentare un
negoziato con gli spagnoli. I messaggeri non tornarono e ricevette delle
risposte evasive. Chiese un salvacondotto per inviare altri ambasciatori ma non
gli fu concesso. Martino il Vecchio marciò verso Palermo e, nel frattempo,
intimò ad Andrea di “tenergli ubbidienti
e pronte le città demaniali”. Per punire i pochi nobili contrari alla
corona e acquistare nuovi favori da parte della nobiltà faceva “larghe concessioni di feudi ai secondi togliendoli
ai primi”. Il 4 aprile, ad Alcamo, “gratificò
Guglielmo Raimondo Moncada Conte d' Agosta della contea di Malta e del
Gozzo e delle terre di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Gibellini, Favara, Mussaro,
Guastanella e Misilmeri, togliendole fin d'allora ad Andrea di Chiaramonte che
dopo la morte di Manfredi le possedeva; ed a favore dello stesso Conte d'Agosta
dispose di tutte indistintamente le terre pertinenti ad Andrea, come se fosse
stata pronunziata contro di lui la confisca dei beni”.
Il 5 aprile la corte era a Monreale, e nella Domenica delle Palme “l'esercito regio scendeva a Palermo,
ove Andrea Chiaramonte con 500 cavalli e numerosi fanti trovavasi preparato
alla difesa”. Palermo rappresentava la coscienza dell’isola e quindi
fu assediata dal forte esercito spagnolo:“
Si misero in uso le artiglierie del tempo, e non si risparmiarono i vandalici
guasti alle circostanti campagne. II Conte di Modica, pare che non
si risparmiasse più che l'ultimo dei suoi uomini d'arme
: difendeva una causa che era proprio per lui, e
nondimeno poteva vantarsi quasi campione e vindice della causa
nazionale dell'isola. L'esercito regio andava sempre più ingrossando per
l'accorrere dei baroni, e Manfredi di Alagona, che finora non era uscito in
campo, venne anch'esso da Catania a portare i suoi soccorsi. Le città demaniali
inviavano ambasciatori a fare atto di omaggio ; le terre che erano sotto il
rettorato o la signoria dei Chiaramonte cadevano, come Licata, o vacillavano,
come Girgenti, certo non soccorrevano ; e si può dire che tutta la
Sicilia era oramai a favore degli Aragonesi e ai danni d' un solo”. Andrea,
ormai solo e tradito anche dal Pretore della città, per liberare la città
dall’ingiusto assedio, inviò dei giudici del Comune per aprire delle
trattative con Martino. Si arrivò ad una conciliazione: “ Andrea
assolto ritornar doveva all'obbedienza sovrana, e un indulto doveva coprire il
passato ed estendersi sulla città di Palermo e sugli altri luoghi che non
avessero fatto atto di sudditanza formale”. Il 17 Maggio Andrea apparve al
cospetto della Regina, che aveva preso alloggio in una villa dei Chiaramonte a
S. Erasmo, per renderle omaggio.
L’atteggiamento di Martino non era reale e il suo perdono era una vera e propria
menzogna. L'indomani Andrea e l'arcivescovo di Palermo vennero ricevuti dal Duca
che con un vile pretesto li fece arrestare. Il Duca, Martino il Vecchio, ordinò
che fosse arrestato anche il fratello di Andrea Chiaramonte, Enrico. La
motivazione dell’arresto era legata ad una vera e propria bugia: “nel giorno, dello ingresso a Palermo della
Regina, avevano i Chiaramonte preparata una sommossa contro i Catalani”. Gli
spagnoli con astuzia politica annunziarono alla città di Palermo e “alle terre del Regno” la “presa di Palermo
e la cattura di Andrea Chiaramonte”. La Regina e i Duchi aragonesi
entrarono solennemente a Palermo “fra gli
applausi della marmaglia " che "
sempre ed ovunque ha per chi soccombe un insulto, per chi vince un applauso”. Martino
il Giovane e Maria vennero incoronati nella Cattedrale di Palermo.
Martino cominciò a concedere concessioni agli avventurieri catalani a tal
punto da sostituire l’Arcivescovo di Palermo, Ludovico Bonit, con un certo
Alberto di Villamarin e dei magistrati e giuristi, naturalmente catalani,
ricevettero l’incarico di giudicare Andrea.
2.k - 1392 –
ANDREA C. CONDANNATO A MORTE
Il primo
Giugno 1392 i Giudici “emisero la loro relazione. Fu condanna di morte,
decapitazione, come doveva aspettarsi, e venne eseguita lo stesso giorno nella
piazza Marina di Palermo, innanzi a quello Steri (Palazzo Chiaramonte-Steri),
che “era stato per tanti anni la sede
prediletta della di lui famiglia”.
Palermo - Piazza Marina vista dallo "Steri"
Palermo – Piazza Marina – Villa Garibaldi – “Ficus macrophylla”
Palermo - Il Palazzo dei Chiaramonte - Lo steri
La Sala Magna dello Steri O sala dei baroni, presenta un soffitto ligneo
dipinto che fu eseguito
tra il1377 e il 1380 che fu realizzato da Cecco di Naro, Simone da Corleone
e Pellegrino Darena da Palermo.
Un soffitto ligneo che raffigura varie scene rappresentanti il senso della
giustizia.
Una di queste scene è la storia di Elena di Narbona che si unisce ad altre
scene che riportano le storie
di Susanna e Giuditta, le due eroine bibliche.
Le tre storie sono legate da un’identica trama.. il senso di giustizia.
L’artista del tetto nel raffigurare la storia di Elena si servì di un testo
trecentesco.
Un testo che parla di giustizia e degli effetti negativi della falsa
testimonianza.
La scena prende spunto da un’antica leggenda cavalleresca ambientata alla
corte di Carlo Magno.
I membri della corte sono invitati, dall’Impeatore, a cimentarsi sul motivo
letterario del vanto.
Si fa avanti Ruggiero, pieno d’orgoglio per la bellezza della moglie Elena.
Davanti a lui il perfido Guarnieri d’Oltremare che si vanta di essere l’amante
di Elena e per dimostrare la verità delle sue affermazioni,
consegna i figli come pegno. Alle spalle di Gualtiero, Ruggiero giura al
cospetto di un notaio
appoggiando la mano sull’elsa della sua spada.
La scena è solenne. Carlo Magno è seduto su una panca (o sedia) priva di
schienale ed
ha i simboli del potere: lo scettro e la corona.
Il perfido Gualtieri arriva al castello dove, con la complicità
dell’ancella o cameriera di donna Elena,
riesce ad avere in consegna le prove del tradimento della donna (nel testo
le prove sono
costituite da gioielli e ornamenti preziosi).
Nella raffigurazione le prove del tradimento sono invece rappresentate da
indumenti intimi di donna Elena.
Indumenti che vengono portati alla presenza dell’Imperatore Carlo Magno.
Ruggiero rischia di perdere la vita ingiustamente con una falsa accusa ed
in preda all’ira
si reca al castello e con una rabbia irrefrenabile uccide i suoi figli.
(un grande abilità del “maestro” degli affreschi che conosce perfettamente
il testo trecentesco e
lo riporta con grande arte e sintesi
nelle travi della grande sala).
L’ultima vittima dell’ira di Ruggiero è la moglie che viene defenestrata
(buttata dalla finestra o
perdere la sua funzione). La forte Elena riesce a salvarsi con le proprie
virtù e cerca di
farsi giustizia da sola… una giustizia che gli uomini non sono riusciti a
rendergli.
Elena insegue a cavallo Gualtieri riuscendo a raggiungerlo. Obbliga il suo
malvagio delatore a
confessare davanti all’Imperatore per poi decapitarlo.
Elena tanto nei gesti che nella narrazione si unisce ad altri episodi
raffigurati nelle travi.
Scene che faranno parte di altre mie ricerche e della stesura di un
Percorso Turistico a tema….. “La Via dei Chiaramonte”…
Per concludere questa descrizione riporto l’iscrizione in latino che fa da
cornice all’episodio:
GUARNERIUS: KAROLUS MAGNUS: GUARNERIUS: MALIGNUS:
PRODITOR: COLLOQUIUM PRODITIONIS HELENAE
-
KAROLUS MAGNUS: FALSA ET INIQUA
PROBACIO
GUARNIERII: DOMINUS ROGERIUS: NOBILIS
DOMINA HELENA
INTERFECIT GUARNERIUM: NOBILIS HELENA
DECOLLAVIT
GUARNERIUM.
Grande Casata
i Chiaramonte… hanno lasciato ai Siciliani un
Patrimonio
Culturale immenso…..
La morte di
Andrea di Chiaramonte, “ardito cavaliere,
rimasto in quei tempi, fra tante viltà e tristizie, una fugace manifestazione
del valore siciliano, segnò il crollo di quella nobile famiglia, che per tanto
tempo aveva influito sui destini dell' isola”.
Tutti i beni
che appartenevano ad Andrea furono confiscati e concessi a persone legate alla
Corte.
La vedova,
Isabella, si ritirò a Girgenti (Agrigento) nel monastero di Santo Spirito che,
per ironia della sorte, era stato fondato da una Chiaramonte. Morì nel
monastero? Si sa solo che visse nel monastero “fin dopo il 1434”.
Agrigento – Monastero di Santo Spirito
Un vero gioiello architettonico di origine medievale
Il Monastero fu fondato con il titolo “Beata
Maria Virginis et sanctis Spiritus” nel 1299 dalla
Marchesa Rosalia Prefoglio moglie di Federico I di Chiaramonte. La
nobildonna, negli ultimi anni della sua
vita, decise di donare la struttura alle monache benedettine dell’ordine
cistercense a lei molto care.
Come riporta lo studioso agrigentino Elio Di Bella, l’atto di donazione del
27 agosto 1299 fu stipulato
presso il notaio Giovanni Amarea di Girgenti..
”Ea propter nos Marchisia de
Prefoglio… de nostro patrimonio fundavimus seu fundari facimus
in praedicta civitate
agrigentina infra eius moenia quoddam Monasterium Sancti Spiritus noncupatum”
Quella dinanzi a noi Marchisia
Prefoglio… del nostro patrimonio abbiamo fondato e faremo fondare in detta
città agrigentina dentro le sue mura un Monastero di Santo Spirito).
Il monastero era stato già costruito per suo volere e lo stesso atto,
riportato integralmente dall’Inveges,
attesta che nel 1299 erano presenti nel monastero delle suore ..” (“in quo quamplures mulieres moniales et
honestae commoratur”: in esso si fermano molte monache nobildonne e oneste).
La donazione venne fatta a favore di Roberto, abate di santo Spirito di
Palermo e a frate Taddeo
di Aversa, priore del monastero di Casamari. Oltre al Monastero venivano
donate delle case e
delle terre comprese una bottega e due mulini; i censi di 28 case ubicate
nei pressi del Monastero,
cinque schiavi e vari capi di bestiame (ovini, suini, cavalli, buoi, ecc.).
Rimase come filiazione di Casamari fino al 1572 circa. Nel 1866 un regio
decreto espropriò
la struttura che fu convertita prima in orfanotrofio e poi in mensa per
poveri.
Oggi è sede del Museo Civico.
https://www.lab24.it/progetti/monastero-santo-spirito-agrigento/
Monastero di Casamari (Frosinone)
L’unico
figlio, Giovanni, ancora fanciullo, era stato promesso, da Martino il Vecchio,
alla figlia di D. Ferrante Lopez De Luna. Alla morte del padre Andrea fu dato
in consegna al Capitano della città di Catania e, successivamente alla zia
ovvero la moglie di Guglielmo Ventimiglia, Barone di Ciminna,
Del giovane
Giovanni si perderanno le tracce. Nel 1414 venne ricordato nel testamento di
Antonio Moncada, Conte di Adornò, genero del padre di Andrea, Matteo
Chiaramonte.
Delle cugine
di Andrea, ovvero le figlie di Manfredi si hanno delle notizie certe.
Elisabetta
ed Eleonora riuscirono a sfuggire alla fine della loro casate. Elisabetta, la
maggiore, si sposò con Nicolo Peralta, Conte di Caltabellotta. Filippo
Chiaramonte, stratega di Messina nel 1384, “montato a cavallo andò a tutta
corsa a precipitarsi nel mare”.
L’unico che
cercò di tenere alto il nobile blasone dei Chiaramonte fu Enrico, fratello di
Andrea.
Enrico si
trovava a Palermo per aiutare nella giusta causa il fratello Andrea e nel
giorno della sua cattura riuscì a fuggire.
2.l - 1393 –
ENRICO C. E ARTALE ALAGONA CONTRO MARTINO “IL VECCHIO”
Si recò a
Napoli da dove agì contro i Martini.
Nell’aprile
1393 Martino il Vecchio si trovava ad Aci (Acicastello) per assediare Artale
Alagona che aveva mantenuto la sua fede antiaragonese.
Approfittando
dell’assenza del Duca, che si trovava a Palermo, Enrico con una galea armata
salpò da Pozzuoli per “presentarsi a Palermo”
I
Palermitani, incoraggiati dalla presenza del Chiaramonte, si sollevarono e “
per contagio, agitosi tutto il Val. di Mazzara, e alcune terre degli altri
valli”.
I siciliani
erano ormai consapevoli che il governo dei Martini sarebbe stato un preludio
alla dominazione straniera. Una dominazione che avrebbe reso la
Sicilia una provincia “d'un lontano regno”.
I nobili
feudatari siciliani “si erano accorti che i principali feudi, le cariche più
importanti erano state affidate ai Catalani ; tutti poi, nobili e plebei, e
quelli specialmente di timorata coscienza, mal soffrivano che i Martini
tenessero la Sicilia ancora nella via dello scisma”.
“In quéste
condizioni d"animo potè facilmente Enrico ritornare a capo della città di
Palermo, che conservava ancora grata memoria della famiglia Chiaramonte, per le
prove di magnanima generosità che essa le diede. Ed Enrico infatti fu subito
acclamato, come i suoi predecessori, Rettore della città, non disturbato
nemmeno dal Duca di Momblanco, che aveva per le mani la sottomissione della
Sicilia orientale”.
Ma la scena
politica internazionale si apprestava a dare un duro colpo alle giuste
intenzioni di Enrico. Moriva Giovanni, re d’Aragona, e gli succedeva
il fratello Martino il Vecchio, Duca di Monblanc.
La notizia
spaventò i palermitani e le altre città sollevate. Tutti abbandonarono i
propositi di riscossa. Il Senato palermitano, addirittura, presentò
al Duca di Momblanc i “capitoli di sottomissione e di pace”.
“Enrico, non
avendo più nulla a sperare dalla sua Palermo, dopo di avere tentato ancora
invano di eccitare lo spirito d'indipendenza e di rivolta, abbandonato dai suoi
e minacciato dalla mutevole plebe, trovò lo scampo nella fuga. Arroccatosi nel
castello di Caccamo, ove tenne per tanto tempo testa ai suoi nemici; ma anche
di là dovette partirsene ed esulare, come sembra, a Gaeta, ove finì i suoi
giorni”. Gli ultimi sussulti di “indipendenza della Sicilia” finirono con
la presa del Castello di Acicastello, dove era arroccato Artale Alagona, nel
1396.
Si narra che
il re di Sicilia riuscì nell'impresa guastando il sistema di
approvvigionamento idrico del castello (una serie di cisterne). Artale che
tentò invano di raggiungere con la propria flotta il castello subirà l'arresto
della moglie e del figlio, la confisca totale dei beni, l'annullamento di buona
parte dei privilegi di cui aveva usufruito e l'esilio a Malta. Anche i degli
Uberti si opposero ed il “rampollo
Giovanni assediato da Martino nel 1396 all'interno del castello di Assoro perì”.
2.m – 1400;
IL REGNO DI MARTINO IL “VECCHIO” COLPITO DA TRAGICI EVENTI
- BIANCA DI
NAVARRA
Ma il Regno
di Martino il “Vecchio” fu funestato da tragici eventi.
Il 25 luglio
1409 moriva, di malaria, Martino il Giovane (Martino I di Sicilia)
che era vedovo di Maria di Sicilia (morta a Lentini il 25 maggio 1401).
La morte
della Regina Maria aveva decretato l’estinzione della linea diretta
della casa di Aragona-Sicilia.
Martino Il
Giovane regnò sulla Sicilia assieme a Maria fino alla morte della moglie
avvenuta nel 1401.
Quando morì
la moglie ripudiò il Trattato di Avignone e governò la Sicilia da solo.
Nel 1402 si
risposò con l’erede della famiglia Evreux e futura regina di Navarra, Bianca di
Navarra.
Nessuno dei
figli nati sia dal matrimonio con Maria che con Bianca riuscirono a
sopravvivere all’infanzia. L’unico discendente fu un figlio
“bastardo”, Federico De Luna, che venne escluso dalla successione. Federico era
il frutto di una relazione con Tarsia Rizzari di Catania.
Martino il
Vecchio diventava pretendente al trono di Sicilia, in quanto figlio di Eleonora
di Sicilia (Leonora di Trinacria) che era la zia di Maria, ossia la
sorella di suo padre. Martino il Vecchio divenne quindi anche re di Sicilia
(col nome di Martino II di Sicilia). Con la morte di Martino I il Giovane
(1409), re di Sicilia o di Trinacria, la Sicilia, entrando a far parte
della corona di Aragona, perse definitivamente l'indipendenza politica (se
non altro teorica), e, dopo la riunificazione col Regno di Napoli, seguirà
le sorti politiche del resto dell'Italia Meridionale per poi giungere all'Unità
d'Italia nel 1861.
Martino “il Vecchio”
Quadro di Josep Vergara Gimeno (1726-1799)
Museo delle Belle Arti di Castellò
(olio su tela - (130 x 390) cm
La firma di Martino il Vecchio
Barcellona – Piazza del re – Residenza dei Conti di Barcellona dal secolo
XIII
La torre è detta di Martino I
Con la fine
dei Chiaramonte scompare dai documenti la famosa citazione “Terra Manfrine” e
il territorio riprese il suo nome originale di Terra di Mussomeli.
2.n –
MUSSOMELI: TERRA DI DONAZIONE E CONTENZIOSI
1392 - 1467
La “ Terra
di Mussomeli” diventa oggetto di donazioni, contenziosi tra fisco e feudatari,
passaggi al demanio, contrattazioni, scambi e compravendite tra signori che
spesso, impegnati nelle mansioni politiche e militari, non prendevano possesso
reale della terra ed erano costretti a gestirla con incarico a terza persona.
Malgrado
questo aspetto negativo il paese si sviluppò.
Il Castello
e la “Terra di Mussomeli dagli anni 1392 al 1467:
§ XIII (secolo) – Mussomeli fa parte
della signoria di Castronovo ed è in possesso della famiglia D’Auria (Armò,
1911); per poi passare a Manfredi III
Chiaramonte con privilegio reale
(Signoria di Castronovo e Mussomeli)
Nel Nobiliario Siciliano viene indicata come “Doria, ab Auria, Auria”.
La cita come una delle più illustri famiglie di Genova e che “godette anche nobiltà in
Roma, Napoli, Palermo e molte
altre città e possedette ovunque un gran numero di feudi e titoli”.
Il 9 novembre 1338 re Pietro II concedette ad Ottobono de Aurea l’incarico
di Ammiraglio del
Regno di Sicilia “nell’assenza di suo
padre Raffaele e di esercitare detto ufficio morto il padre”.
Re Federico confermò la stessa carica al figlio di Ottobono, Antonio, il
quale possedette
“il territorio di Rieni ed il
molino del Barone”. Un Emanuele ottenne da re Federico la
concessione dei feudi di Castellammare e di Calattubo e dell’isola di
Pantelleria o “Pantagia”.
“Il Mongitore vuole che siano
appartenuti alla stessa nobile famiglia Doria di Genova, quel
Giovan Francesco Auria,
dottore in leggi, giudice pretoriano di Palermo nel 1626, 1629, 1633 e
1639, avvocato dei poveri,
uditore generale delle triremi sicule, e consultore del tribunale
del S. Ufficio in Sicilia;
quel Vincenzo Auria, pubblicista, autore, tra l’altro della
Historia cronologica delli
signori vicerè in Sicilia e molti altri”.
Gli Auria siciliani erano forse
imparentati con la nobile famiglia napoletana “de Auria” ?
Gli storici napoletani citano come
il cognome “de Auria” abbia avuto origine da una
Auria, “vivente in Lucera” che è citata in un documento cioè in una pergamena
Conservata nell’Archivio dei Benedettini di Cava dei Tirreni e che risale
all’anno 990.
Nella stessa pergamema si fa menzione di un “Optabiano” (forse un antenato
del nostro “Ottobono”),
discendente di Auria e che viene poi nominato in una “antiqua cartula in archivio monasterii Sante Sofie
urbis beneventane”: “Imperii basilii et cum eo regnante Costantino frate eius,
mense februario, II indictione,
Luceriae … Castaldi Polcari, Joannes, Iduini,
Optabiano ordinati a Theodoro imperiali ex cubido
longobardie sumus residentes in ista civitate Lucerie
ad senorantum iudicantum,
regendum, tunc ad nostrae potestatis palatium cecidit
una casa”.
Un “Optabiano”
funzionario della Corte Regia in Lucera nel 1013.
La famiglia Auria
napoletana è poi filo Angioina e ottenne importanti concessioni sia da
Carlo I d’Angiò
che dal figlio Carlo II.
Probabilmente gli
Auria siciliani farebbero parte di un ramo collaterale dei “de Auria”
napoletani.
1391 – questa “terra” con tutti gli altri possedimenti
chiaramontani, venne concessa – ma solo formalmente - a Guglielmo
Raimondo Moncada, Conte d’Agosta (Augusta) (di antica origine catalana) per i
grandi servigi resi alla corona prima e dopo la ribellione del Chiaramonte.
Il Moncada aveva nel frattempo aumentato la sua importanza
nel regno ottenendo il titolo di Marchese. Non venne mai a Mussomeli, neanche a
prendere possesso del castello e delle sue terre. Affidò l’amministrazione del
vastissimo Feudo ad un castellano.
Nel 1397 fu accusato di cospirazione contro il re e
quindi subì la confisca di tutti i beni. Nello stesso anno morì con la nota di
“fellone”.
1398 - Nel Parlamento di Catania del 1398 vennero dichiarare
Demaniali “47 luoghi” Città demaniali) di Sicilia. tra queste città troviamo
Castroreale e Sutera.
1407 - Mussomeli appare figura in
possesso di Giamo (o Giamo) De Prades,
di nobile famiglia spagnola, figlio di don Pietro Conte di Prades, imparentato
col Re d’Aragona, in qualità di terzogenito. Il De Prades accompagnò i Martini
nel loro arrivo in Sicilia ottenendo concessioni e privilegi.
Visconti e Huberi nel 1875 la citano come “Famiglia d’antica e alta
nobiltà aragonese, perhè scrive Inveges, appogiata al Surita, l’infante D.
Pietro terzogenito
di re Giacomo II ne fu primo Ceppo.
Fu trapiantata in Sicilia da D. Giaime Prade e Aragona secondogenito del 3°
conte diPrades,
allorchè accompagnò il re Martino”.
Francesco Maria Gaetani di Villabianca Emanulele..”Real famiglia Pdrades,
colla quale
gli antichi Signori Ventimiglia ebbero un dì attacchi di parentele, se non
vogliam
dire che ne furon gli eredi, tutti i diritti adottandone, e i reali onori
dopo
l’estinzione della linea dei Serenissimi Conti di Prades e di Margherita di
Prades
Regina d’Aragona moglie del nostro Re Martino il Vecchio”.
Nello stesso
anno, il 27 giugno, Giamo vendette, con licenza di re Martino, la “terra” di
Mussomeli a Giovanni Castellar di Valenza per il prezzo di 980 onze, con atto
del notaio Lorenzo di Noto.. Anche lui venuto in Sicilia al seguito dei Martini
e con questi in intima relazione. Quando alla morte della regina Maria, re
Martino si risposò con Bianca di Navarra, il Castellar non abbandonò la
Corona. Accompagnò Martino nella riconquista
della Sardegna (che si era ribellata) e fu tra i suoi testimoni
testamentari. In seguito si schierò sempre a fianco della Regina Bianca di
Navarra nelle grandi dispute o traversie in cui fu trascinata da una parte
della nobiltà siciliana. Sembra accertata una sua presenza, anche se
discontinua, nel Castello di Mussomeli. L’atto di vendita venne confermato con
privilegio reale emesso a Catania il 2/4/1408.
“attesi lunghi servizi prestai
alla corona da Bernardo –Berengario Castellar alias Perapertusa,
e la rinunzia fatta dallo
stesso di annue onze duecento a lui dovute sulle tratte del porto di
Girgenti, il re Martino gli
concedette, con privilegio dato in Catania a 16 gennaro 1397, il feudo di Tavi
(Leonforte), feudo che
pervenuto in potere di un Guglielmo castellar, investito a 1 novembre 1480, fu
da
questi venduto a Pietro del
Campo. Un Giovanni, di Valenza, regio uxerio, a 7 aprile 1408 ebbe confermata
la terra di Mussomeli e
Manfrida; un Ingastone a 3 marzo 1475 fu investito dei feudi di Riesi e
Cipolla e fu giurato di
Palermo nel 1481-82”.
Da un testo di araldica spagnolo i Castellar sembrano originari della
regione Basca e scesi in Aragona
per prendere possesso di Huesca nell’anno 1096 e successivamente aver
ereditato varie terre e la
torre Castellar. Un Roman Castellar, “guerriero” era signore della Torre a
Huesca e al servizio del re
Giacomo I d’Aragona nella conquista
di Valencia. Un dato che è riportato nei documenti dell’archivio
di San Juan de la Pena. Lo stesso Giacomo I premiò il Ramon C con i feudi
di Cati e Beniarjo, alcuni
villaggi vicino alle porte di Ferrizas di Valencia e altri feudi.
Raimon Castellar sposò una figlia di Miguel Perez Zapata e successivamente,
a quanto sembra, si spostò
in Catalogna.
Famiglia Castellar ?
Castellar de la Frontera - Cadiz
1430 - Signore di Mussomeli era Giovanni Castellar Perapertusa, barone di
Favara, figlio di una sorella di Giovanni castellar di Valenza.
1451 - Giovanni
Castellar Perapertura dovette sostenere una lite con il fisco che lo obbligava
a restituire al Regio Demanio le terre di Mussomeli. Il Perapertura pretendeva
un adeguato corrispettivoma il Real Patrimonio gli diede torto.
1451 – Re Alfonso, con atto del 29/4/1451, concesse
che la “terra” e il Castello di Mussomeli fossero rivenduti in
perpetuo a Giovanni Perapertusa Castellar (nipote di Giovanni Castellar) ed ai
suoi successori dietro il pagamento di 29.700 ducati (16.000 fiorini) di cui
una parte in contanti e la parte residua in rate.. Il Perapertusa, pagato il
primo acconto dovuto, ne riprese possesso senza mai riuscire a saldare l’intera
somma dovuta. Proprio quando stava per ottenere il “mero e misto impero”, fu
costretto a rivendere la baronia per pagare il debito. Con atto del 14 maggio,
pubblicato il 24 maggio del 1451, il Pietrapertusa non “potendo adempiere agli obblighi contrattuali” fu costretto a
rivendere il tutto a Federico Ventimiglia, Signore di Manforte (Monforte San
Giorgio – Me), di illustre famiglia. Tra le clausole del contratto, il
Perapertusa riservò per sé e per i suoi discendenti, il diritto di ricompera
(jus luendi). Il compratore s’impegnava a saldare il debito che il
Pietrapertusa aveva con la Regia Corona. Pagato il
prezzo convenuto, Federico Ventimiglia ottenne il regio assenso dal vicerè Don
Ugo Ximenes d’Urrea e mantenne il possesso del feudo fino al 1453, anno della
sua morte.
1453 –
Federico Ventimiglia, tra i suoi titoli vantava anche quello di Conte di
Geraci. Lasciò i suoi vasti possedimenti al figlio Giovanni Giacomo
Ventimiglia. Il minorenne Giovanni, malgrado la sua giovane età, riuscì ad
ottenere l’investitura del Feudo da parte del Presidente del Regno, Simone di
Bologna. Il giovane rimase in possesso del Feudo di Mussomeli fino al 1467.
1466 – Il
Perapertusa diede in sposa la propria figlia Isabella al facoltoso Pietro del
Campo, di nobile ed “industriosa famiglia”. Il Perapertusa cedette al genero il
diritto di ricompera della “Terra di Mussomeli”. La famiglia Perapertusa,
ancora in precarie condizioni economiche, non riusciva a riacquistare, come
decretava l’atto del 29 aprile 1452, la terra ed il castello di Mussomeli. Il
riacquisto del castello avvenne grazie all’’aiuto economico del genero.
1467 – Il Procuratore di Giovan Giacomo Ventimiglia fece
atto di rivendita a Pietro del Campo per la somma di 37.245 fiorini.
L’11/12/1467, il genero di Perapertusa. Pietro del Campo, riuscì ad
ottenere il riconoscimento del privilegio d’investitura dal vicerè con la
successiva conferma del 6 agosto 1468.
Giovan Giacomo Ventimiglia consegnò a Pietro del Campo
non solo una vasto ed ricco territorio, una baronia costituita da ben 29 feudi
e con il castello, ma anche una università ben ordinata. Il paese aveva
raggiunto, ed era ancora in crescita, uno sviluppo economico e
culturale di gran rilievo. Un livello di benessere che permetteva al centro
di essere annoverato tra le più importanti e progredite università
feudali del Regno.
Il compratore, davanti a questo aspetto della “terra”
di Mussomeli, pensò di fare i propri interessi concludendo un “affare”
vantaggioso che aveva, però, dei rischi. Il del Campo con l’acquisto creò un
enorme debito di cui dovette farsi carico e che era destinato a complicargli
parecchio la sua vita e quella della sua famiglia.
La famiglia Del Campo tenne fino al 1548 quando passò
a Don Cesare Lancia, barone di Trabia e Castania, l’1 febbraio 1550.
2.O – La Famiglia
Del Campo – Mercanti Pisani – la Coltivazione delle “cannemele”
Ma
chi erano i Del Campo ? Una famiglia che sembra lontana dall’albo della nobiltà
siciliana.
Secondo il Galluppi la famiglia sarebbe originaria di
Treviso mentre il Minutolo pone la sua origine a Firenze.
Famiglia nobile a Messina e a Palermo. Federico Campo
sotto re Pietro I d’Aragona possedeva Bivona e Caltabellotta.
Un Pietro, milite, figlio di Luigi, maestro razionale del Regno, acquistò
nel 1463 Vicari e nel 1467 Mussomeli,
venduto da un Andreotto nel 1541, eccettuati però i feudi di
Castelmagro, S. Blasi, Lo Zubbio e Fontana delle Rose; che un Giovanni, a
dicembre 1571, ottenne di popolare.
Un Francesco, barone di Mussomeli, a 23 giugno 1498 fu nominato capitano
d’armi di Girgenti;
un Girolamo fu senatore di Palermo 1527-28 ma morì prima di prender
possesso di tale carica;
un Pietro Antonio tenne la stessa carica negli anni 1556-57-58 e quella di
capitano di giustizia nell’anno 1524-25; carica occupata da un Giovanni nel
1528-29, da un Francesco, barone di Campofranco e cavaliere dell’ordine di S.
Giacomo della Spada, nel 1581-82 e 1590-91.
Sembra
che con la conquista normanna dell’isola, i mercanti pisani abbiano instaurato
dei forti commerci con la città di Palermo.
I
Pisani crearono a Palermo e a Trapani delle basi commerciali che facilitavano i
commerci con i Paesi Africani in merito
ai manufatti tessili come stoffe, panni, tele per le navi.
Gli
stessi mercanti acquistavano nei vasti latifondi siciliani materie prime
importanti per l’economia urbana. A Palermo fu costruita la famosa Torre Pisana
che sorge sul luogo della carcerazione di Santa Ninfa e l’attuale via della
Loggia che costituiva l’antica “ruga
pisarum” risalente al XII secolo.
Palermo – Palazzo
dei Normanni – Torre Pisana detta anche di Santa Ninfa.
Nella “Vitae Sanctorum Siculorum” del P.
Gaetani la cripta della Cattedrale di Palermo, fondata nel
III secolo, era
ritenuta la sede delle riunioni dei primi Cristiani di Palermo.
Una cripta che non
era sotterranea ma a livello stradale. Era denominata “Cimitero di tutti i
Santi” perché
vi si custodivano
i primi martiri della Fede. Mamiliano, secondo la tradizione, nella cripta
insegnava la dottrina
cristiana e celebrava
l’Eucarestia. Da quelle riunioni usciva un giovane /(diacono?): Golbodeo.
Lo vide più volta
da una finestra del suo appartamento Ninfa, figlia del Prefetto della Città,
Aureliano.
La fanciulla
viveva in una torre del palazzo chiamata ancora oggi con il suo nome (Torre di
S. Ninfa).
La tradizione
popolare vuole che la Santa abitasse accanto alla Cattedrale e fosse rinchiusa
successivamente
nella torre, con
molte compagne. Fece chiamare Golbodeo e gli manifestò il proposito di essere
battezzata.
Portata da Mamiliano fu catechizzata e battezzata con le sue ancelle.
Quando ciò arrivò
alle orecchie del padre, per l’infamia della figlia (il Cristianesimo) la
fece rinchiudere
nella torre.
In epoca
successiva la Torre fu destinata alla custodia dei tesori e venne edificata da
Guglielmo II di Sicilia
(sovrano dal 1166 al 1189) con il contributo di maestranze pisane. Con Federico
II di Svevia era il luogo di riunione della scuola poetica siciliana.
Palermo – Torre
Pisana – Sala Pompeiana
Palermo – Via
della Loggia
Nel corso del XII
secolo le città siciliane si popolarono di mercanti provenienti dalle città marinare.
Mercanti che abitavano nei luoghi dove
svolgevano i loro affari, generalmente vicino ai porti, e
formarono nelle
città delle vere e proprie corporazioni rette da propri “consoli”.
I mercanti pisani,
proprio per la loro cultura ghibellina, ebbero in Sicilia una notevole
diffusione e
riuscirono ad
inserirsi nel mondo sociale e anche politico.
A Trapani, ad
esempio, avevano diversi consolati con le rispettive chiese o cappelle.
Avevano altresì le
loro “logge”, poste per lo più vicino ai porti, e le loro strade.
La “Via della
Loggia”, a Palermo, era una delle sedi
pisane.
A Trapani il loro
consolato era posto in Via Torrearsa dove oggi c’è l’androne
del Palazzo
Comunale (ancora oggi è detta “La Loggia”). La loro cappella
era quella di
Maria Santissima del Soccorso.
Le Logge erano
delle vere e proprie borse medievali. Piazze di scambi e luoghi dove si
concordavano e si
esiguivano i pagamenti della merce in vendita o oggetto di scambio. Erano
presenti
anche gli uffici dei
“cambiatori” o “cambia-monete” e aveva
la sua sede il
pubblico pesatore
delle monete
Trapani – La
“Loggia” (Palazzo Cavarretta)
Trapani – Chiesa
di Maria SS del Soccorso
L’edificio attuale
risale al 1460 e successive ristrutturazioni
La definizione di
Repubbliche Marinare sembra che sia nata nell’Ottocento per indicare
quelle città
portuali che godevano di una certa autonomia politica e di
forte prosperità economica.
La tradizione storica
ha sempre citato
quattro principali città: Amalfi, Genova, Pisa e Venezia.
Gli stemmi della
città su indicate si trovano nella Bandiera della Marina Militare.
Oltre alle quattro
Repubbliche Marinare erano note anche Ancona, Gaeta, Noli e la Repubblica
Dalmata di Ragusa,
che in alcuni periodi storici, ebbero una certa importanza storica.
Gli elementi che caratteizzarono una Repubblica Marinara
erano:
-
l’indipendenza (de iure e/o de
facto);
-
l’autonomia economica, la politica e
la cultura che erano basate sulla
navigazione e sugli scambi marittimi;
-
il possesso di una flotta di navi;
-
il nascere e il costituirsi come
città-stato, salvo poi espandersi maggiormente;
-
la presenza nei porti mediterranei di
propri fondachi e consoli così come
nel proprio porto;
-
l’uso di moneta propria che era
accettata in tutto il Mediterraneo;
-
l’uso di proprie leggi marittime;
-
governo di carattere repubblicano;
-
la partecipazione alle Crociate e/o
alla repressione della pirateria.
Stemma della
Repubblica Marinara di Pisa
In base a questo
codice medievale sembra che lo stemma della Repubblica
Marinara di Pisa
fosse rosso senza alcuna croce impressa
http://www.paginaq.it/2015/02/22/la-croce-pisana-un-mezzo-falso-storico/index.html
Nel
1130 fiorirono in Sicilia molte associazioni di mercanti genovesi, pisani
veneziani, lucchesi.
Federico
II di Svevia concesse ai Pisani numerosi privilegi tra cui esenzioni d’imposta
e un’ampia libertà di commercio a Messina e nella stessa Palermo. Molti pisani
si trasferirono in Sicilia ed alcuni finirono con l’abbandonare l’attività
commerciale per entrare nell’apparato statale come funzionari e spesso anche
come feudatari. Già ai primi anni del 1200 erano presenti nel tessuto sociale
dell’isola i Bonanno, gli Alliata, i Settimo, gli Alberti ed i Vernagallo. Un
mercante Pietro Campo era presente a Naro nel 1266 e un Giovanni Campo nel 1282
era tra i Consiglieri della città. Ma un vero e proprio trasferimento dei Campo
mercanti in Sicilia si verificò nel 1406 quando Pisa fu conquistata dalla
guelfa Firenze. I Fiorentini imposero ai Pisani un catasto degli immobili con
conseguente forte tassazione sulle ricchezze immobiliari e sui commerci. I
mercanti pisani per reazione abbandonarono la città e si trasferirono in
Sicilia da sempre Stato ghibellino. Pietro Campo si stabilì a Palermo ed operò
nel commercio delle stoffe, nei banchi privati e nell’industria delle
cannamele. Disponeva di forti capitali e acquistò vasti canneti e trappeti a
Ficarazzi cioè a pochi chilometri da Palermo. La coltivazione delle cannamele
fu portata in Sicilia dagli Arabi,(come i gelsi, gli agrumi, le piante tessili) e richiedeva notevoli quantità d’acqua. Le
stesse colture furono introdotte anche nell’Andalusia. La lavorazione ed il
commercio dello zucchero, che si ricavava dalla cannamele, esigevano forti
capitali d’investimento. I trappeti per la lavorazione dovevano lavorare a
ciclo continuo, giorno e notte, perché la canna matura appena tagliata doveva
essere subito spremuta e il succo cotto immediatamente. Erano necessarie nuove
piantagioni periodiche, una grande quantità di legna come combustibile e abbondante
acqua per l’irrigazione.
Coltivazione di
Canna da Zucchero nell’Isola di Negros nelle Filippine
Raccolta Canna da
Zucchero in Cambogia
Una misteriosa
nefropatia cronica, a eziologia sconosciuta, sta colpendo soprattutto in
America
Centrale i
braccianti agricoli impiegati nella coltivazione della canna da zucchero.
Una malattia che
colpisce in modo devastante i reni e le cui cause sono ancora sconosciute.
Alcuni scienziati sono propensi nell’identificare la cause della malattia nella
disidratazione cronica dovuta alla lunga
esposizione al
sole dei braccianti per i lavori agricoli oppure all’esposizione prolungata ai
pesticidi che vengono impiegati nelle colture. Ma i dati finora raccolti non
sembrano stabilire con certezza le cause della malattia.
Canna Da Zucchero
– Stampa del 1895
Nella
sola Palermo nel 1410 erano attive ben 30 raffinerie per lo zucchero e a
Siracusa era presente anche una “Porta degli Zuccari”. La raffinazione dello
zucchero diventò così importante per l’economia siciliana che i sovrani
l’agevolarono con appositi decreti. I sovrani aragonesi stabilirono addirittura
l’acquisto forzo di terre da destinare alla coltivazione di cannamele mentre la notevole acqua necessaria poteva
essere prelevata da qualsiasi fonte. Gli
atti notarili del 1432 citano un Pietro Campo come il maggiore produttore di
zucchero con un giro d’affari di circa 40.000 fiorini. Per avere una adeguata
quantità d’acqua per le sue coltivazioni e per ridurre i costi di produzione,
costruì anche un acquedotto che ancora oggi è una vera e propria opera di
grande ingegneria idraulica.
l’acquedotto si
trova sul fiume Eleuterio. L’edificazione della struttura fu attribuita a
Pietro
Campo, Pietro
Speciale e Umbertino Imperatore. Umbertino Imperatore aveva ottenuto
l’investitura del
Feudo di Ficarazzi
e il diritto di censo sulle acque del fiume. Una costruzione risalente al XV
secolo
finalizzata per
l’irrigazione dei vasti terreni destinati alla coltivazione della canna da
zucchero.
L’acquedotto fu
realizzato dall’ingegnere catalano Antonius Zorura di Barcellona.
Convogliava le
acque attraverso un viadotto facendo giungere l’acqua nell’’antico borgo
dove si trovavano
i trappeti ( facevano muovere le grosse macine per la spremitura
della canna).
L’acquedotto è composto da ben 17 campate, leggermente ogivali,
che poggiano su pilastri a pianta
quadrangolare.
Lo stemma dei
Campo si trova tra due arcate sul lato orientale.
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2.p – L’ascesa
sociale di Pietro Del Campo – L’acquisizione della “Terra di Mussomeli –
Il
prestito finanziario di Don Antonio Barresi, Barone di Pietraperzia
L’ascesa
di Pietro Campo cominciò a recargli dei privilegi. Riuscì ad ottenere una
cappella per la sepoltura riservata ai nobili nella basilica di San Francesco e
cominciò a dedicarsi ad iniziative culturali favorendo pittori e scultori
siciliani come il Laurana e il Gagini. Per 2.000 onze d’oro acquistò la baronia
e il castello di Vicari.
«CAESAR LANCEA CONJUNCTIS SCOPULIS ARCEM HANC EXTRUXIT. MDLXXV».
Vicari (Pa) -
Castello
https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g14180075-d14168667-Reviews-Castello_di_Vicari-Vicari_Province_of_Palermo_Sicily.html#photos;aggregationId=101&albumid=101&filter=7&ff=323364461
L’acquisto
del castello fu gravato da una particolare condizione. Il venditore, il barone
Talamanca, si riservò il diritto “lo jus
luendi” cioè la facoltà di riacquistare il feudo per la stessa somma. Un
diritto che eserciterà nel 1480. Pietro Campo preoccupato per la possibile perdita
della baronia e anche di un certo
prestigio, decise di sposare una nobile ereditiera con l’obiettivo di
incrementare la sua posizione nella classe baronale. Il suo interesse si
rivolse verso la famiglia di Don Giovanni Castellar Perapertusa, di origine
catalana, barone di Mussomeli e di Favara. Il Castellar era barone di Mussomeli
solo in apparenza perché il feudo era stato venduto ai Ventimiglia di Geraci
con riserva di ricompra al prezzo di 6.600 onze d’oro.
https://www.turismoambientalesicilia.it/castello-di-mussomeli-e-rocca-di-sutera-itinerario/
Nell’agosto
del 1464 Pietro Campo, barone di Vicari, sposò Isabella Castellar e nel
dicembre del 1467 riacquistò la baronia di Mussomeli con il vasto feudo, “terre vassalli e “misto impero”. Ma alla base dell’acquisto c’era una grande
contraddizione… Pietro Campo non aveva a disposizione la somma stabilita, 6.600
onze d’oro, e la ricevette in prestito, a forte interesse, da don Antonio Barresi,
barone di Pietraperzia.
Antonio
Barresi, Signore di Pietraperzia, in cambio del prestito fece istituire dal
Campo una soggiogazione: “per la
sicurtà del pagamento si convenne che il segreto e il castellano
dovessero eleggersi dal Barone di Pietraperzia, rimanendo al Campo l’obbligo di
pagarne i salari…”.
Con
l’acquisto di Mussomeli il Campo pensò subito di aver raggiunto un posto
importante nella nobiltà siciliana. Ma
il forte debito stipulato con il
Barresi e la sopraggiunta crisi della
cannamela dovuta alla concorrenza dell’America Latina, cominciarono a minare il prestigio economico
della famiglia.
Pietraperzia (Enna) – Il
castello
https://www.fondoambiente.it/luoghi/castello-barresi?ldc
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2.q – La crisi
economica della famiglia Del Campo – La Banca Alliata -
Alcuni
aspetti economici del tempo influirono sulla
parabola discendente della famiglia perché proprio in quel periodo si
verificò una grave crisi monetaria con conseguente riforma che portò al
fallimento di due banche. Malgrado la crisi economica della famiglia, Pietro Campo riuscì ad acquisire importanti
cariche statali come “Milite regio”,
“Cavaliere Armato” e anche fregiarsi di un blasone.
Sembra che a
Palermo fosse presenta una Banca “Alliata” di Pietro che nel
XV secolo “esercitò la banca e la mercatura in società
con Filippo
nel 1441-44, con Francesco nel 1466 – 1472 ed infine
dal 1478 fino al 1488 con
la denominazione “Pietro A. e socii”.
Una banca che a
appare di primaria importanza. Sono segnalate operazioni di
cambio per conto
della corte nel 1466 (1.500 fiorini), di Bernardo Requesens nel 1467 e per
conto di persone ed enti nel 1480 e 1486.
Si registrano anche pagamenti effettuati per conto del
Tesoriere del Regno
nel 1484 e 1485 e per conto del Senato di Palermo nel 1490.
Si ha anche
traccia di un operazione di deposito avvenuta nel 1488.
Nella Banca
svolsero le loro attività altri Alliata, sempre imparentati con Pietro:
Filippo, Battista, Benedetto.
Alliata che erano
originari di Siena ed
entrati nella vita
sociale di Palermo come mercanti.
Nella prima metà
del Trecento c’erano stati numerosi fallimenti fra le quale due
aziende
fiorentine, Bardi e Peruzzi, tra il 1343 ed il 1346. Queste fallimenti
fecero nascere un
nuovo tipi di “banche” basate su una diversa struttura organizzativa
basata su più
società dotate di autonomia gestionale.
Un accorgimento
necessario per evitare che il crollo finanziario di un agenzia
coinvolgesse anche
le altre.
Nel Quattrocento
nacque una delle più importanti società , il Banco dei Medici.
Una società
fondata da Giovanni Bicci de’ Medici nel 1397 insieme al alcuni membri
della famiglia
Bardi. Un concetto moderno di società composta da diversi filiali, ciascuna
giuridicamente
autonoma, ma sotto controllo della famiglia madre.
Società che
raggiunse il massimo splendore con Cosimo de’Medici, figlio del fondatore.
Il “gruppo”
comprendeva il “banco” di Firenze le filiali fuori città che erano
presenti sia in
Italia che all’estero.
L’ultimo dei
Medici Lorenzo, che per il suo amore per l’arte e per gli interessi in politica
fu
chiamato il
Magnifico, delegò il suo ministro Francesco Sassetti per la direzione del
banco.
Le cose andarono
male, perché fallirono molte filiali all’estero proprio per la cattiva
amministrazione del Sassetti. Lo stesso Lorenzo fu costretto a razziare la
Tesoreria di stato
di Firenze e a defraudare il Monte della Dote che era un fondo caricatevole.
Il figlio di
Lorenzo, Pietro, non aveva le conoscenze per gestire il banco soprattutto alla
luce delle sue
immense problematiche finanziarie. La pressione politica di Carlo VIII di
Francia, con
l’invasione dell’Italia del 1494, obbligò Pietro di Lorenzo de’ Medici a
cedere alle sue
direttive e all’insolvenza, ormai vicina del Banco.
I beni del banco
vennero distribuiti ai creditori e tutte le filiali vennero dichiarate fallite.
Era presente una
filiale del banco de’ Medici anche a Palermo ? E’ probabile perché la
Città allora era
una delle più importanti d’Europa.
Il
barone di Mussomeli era riuscito ad avere ben 18 figli in vent’anni di
matrimonio. Il primogenito Francesco
ebbe l’investitura della baronia appena vent’enne, il 6 marzo del 1486, dal
vicerè Gaspare de Spes. Il barone Pietro Del Campo, per una clausola convenuta
con il suocero Giovanni Perapertusa, nei “capitoli Matrimoniali”, assegnava la
baronia ai figli primogeniti, istituendo un fidecommesso in favore di tutti i
primogeniti maschi della discendenza. Gli altri figli furono inseriti nell’attività
delle cannamele, in attività della baronia (agricoli, ecc.). Il barone riuscì inoltre
a combinare per i propri figli dei matrimoni vantaggiosi. Il secondogenito
Antonio sposò donna Bartolomea de Bonomia, baronessa di Sambuca, di Cefalà
Diana, di Montefranco. Un matrimonio di grande prestigio…. Le figlie femmine
alterne fortune… Elisabetta sposò il barone di Isnello e Apollonia cioè il
nobile Nicola d’Afflitto mentre Agata, Catarinella e Margaritella, che le
cronache del tempo citano come bellissime, finirono suore nei monasteri di
Palermo e Bagheria..
Don
Pietro Campo nella sua Signoria di Mussomeli diede un forte impulso al
rinnovamento edilizio ed agricolo della terra, abbellì e donò molte chiese…
Mussomeli diventò, grazie al Campo, una delle più importanti Università di
Sicilia.
Il
figlio barone Francesco, tre anni dopo l’investitura, sposò Laura Statella, figlia
di Heraldo Statella, Gran Siniscalco del Regno. Dal matrimonio nacquero: Ercole
e Giovanni. La Statella gli portò in
dote 567 onze d’oro che svanirono nel nulla qualche anno dopo a causa del
fallimento del banco di Pietro Agliata presso il quale la somma era stata
depositata. Il debito con il Barresi non era stato ancora estinto, gli
interessi maturati erano altissimi, e Francesco fu costretto a prendere
immediati provvedimenti. Riuscì a combinare un matrimonio perfetto… il suo
primogenito Ercole sposò donna Emilia Barresi, secondogenita del principale
creditore del Campo, cioè il Barone di Pietraperzia.
Alla
base del matrimonio, la non svelata speranza
che la ricca dote della Barresi potesse colmare le casse finanziarie dei Campo
e quindi risollevare la Baronia di Mussomeli.
I
13.000 onze d’oro, una somma notevole, che costituivano la dote di donna Emila
Barresi erano una dote virtuale….. con quella somma i Campo avrebbero dovuto
pagare il debito contratto con i Barresi. Ercole fu investito della baronia di
Mussomeli mentre il padre Francesco si riserbò l’usufrutto. Ma per ironia della
sorte avvenne una tragedia… Ercole morì improvvisamente (1518) lasciando erede della futura investitura il figlio
Giovannello che fu affidato alla tutela dello zio Matteo Barresi. La situazione
economica di Francesco Campo subì un colpo che potremo definire mortale perché
doveva restituire alla nuora il dotario con la conseguente rivendicazione del
Barresi al possesso della terra e dello Stato di Mussomeli.
Il
comportamento di Francesco Campo fu quella di un uomo in preda alla
disperazione.. assumendo atteggiamenti chiaramente illegali. Annullò la prima
investitura fatta al figlio Ercole defunto, calpestando le norme del
fidocommisso e passò ad una seconda donazione della baronia di Mussomeli nei
confronti del secondogenito Giovanni con investitura del 9 novembre 1520.
In
pratica il barone Francesco Del Campo, padre di Ercole e nonno di Giovannello,
alla morte del figlio avrebbe dovuto assicurare la baronia, in base anche al
fidecommesso, a Giovannello.
Invece,
non osservando le norme, fece un atto di donazione al suo secondogenito
Giovanni.
Naturalmente
seguirono delle liti con la nuora Emilia Barresi, vedova di Ercole, in difesa
del proprio figlio Giovannello.
La
situazione diventò ancora più complicata con la morte del barone Francesco
perché il figlio Giovanni s’intestò la baronia. Un atto anche questo contestato
per vile legali dal nipote Giovannello che giustamente si vedeva defraudato dei
sui legittimi diritti.
Iniziò
una lunga causa con la famiglia Barresi di Pietraperzia.
Iniziò
una lunga causa con il Barresi davanti al vicerè Don Ettore Pignatelli.
Francesco Campo riuscì, con l’aiuto dei suoi legali, ad influenzare il
comportamento, che avrebbe dovuto essere imparziale, del Vicerè che mostrava
così un comportamento non onesto. Riuscì ad ottenere una transazione con la
nuora…” la baronia rimane al
secondogenito Giovanni con il solo obbligo di una soggiogazione annuale in
favore del nipote a misura del capitale della terra, pagata al 6%.”
Giovanni
s’impegna a versare al nipote Giovannello “la metà di quanto restava di netto
del valore capitale della baronia”.
La
baronia di Mussomeli rimaneva a Giovanni Campo, secondogenito del Casato.
Una
vertenza che fu risolta nel 1531. Ebbe una tale risonanza giuridica che fu
emanata un’ apposita legge che potesse regolare in futuro la successione
feudale.
Purtroppo
la situazione dei Campo era ormai compromessa.
Il feudo era colpito da ingenti debiti, dalle soggiogazioni, dalle
costose spese giudiziarie con relative transazioni ed inoltre l’agricoltura era in crisi.
Giovanni
Campo non riuscì a fare nulla per salvare l’industria dei trappeti delle
cannamele a causa anche della fine dei rapporti con i parenti zuccherieri di
Palermo e Ficarazzi.
Eppure
Giovanni Campo con grande intraprendenza riuscì risollevare le sorti economiche
della famiglia sempre, però, affidandosi ad accorti e mirati matrimoni.
Nel
1521 sposò donna Giovannella Anzalone, figlia di Francesco, barone di Pettineo,
che gli portò in dote il ricco feudo “Li Russi”. Dal matrimonio ebbe ben otto
figli tra cui Franceschiello e Andreotto. Dopo la morte della moglie
Giovannella sposò in seconde nozze, il 3 giugno 1535, la ricchissima donna Elisabetta
Alliata, dalla quale ebbe un figlio. Un figlio che Giovanni Campo non riuscirà
a vedere perché morì improvvisamente un mese prima della sua nascita. Il terzo
barone di Mussomeli morì il 4 settembre 1536.
Nel
1535, cioè un anno prima, era morto anche il nipote Giovannello.
Lasciò
una cospicua eredità in terre, denaro, argenti, ori, diamanti, smeraldi e
pietre preziose. Decretò erede della baronia il figlio Francesco, con un legato
di ben 12.000 fiorini e nominò erede particolare il secondogenito Andreotta.
Donò anche cospicui legati in onze d’oro a numerose chiese e conventi di
Mussomeli e Palermo.
Nessuno
riuscì a svelare il mistero per cui Don Giovanni Campo non pagò i debiti
contratti da suo nonno Pietro nei confronti del Barresi e il motivo per cui
quest’ultimo non avanzò delle pretese. Questo malgrado le ricchezze che riuscì
ad accumulare don Giovanni.
Il
figlio Francesco, chiamato Franceschiello per la sua giovane età, fu il quarto
barone di Mussomeli. Sposò Beatrice Ventimiglia, da cui non ebbe figli, e morì
giovane all’età di vent’anni. Di lui si sa ben poco e dopo la sua morte
immatura il feudo passò per successione al fratello Andreotta. Nacquero dei sospetti ma tutto rimase avvolto
nel mistero.
Dopo
l’investitura di Andreotta i nipoti (figli di Giovannello) ripresero le
ostilità contro lo zio rivendicando la baronia davanti alla Gran Corte. I creditori cominciarono a fare forti
pressioni e l’economia dei Campo era nuovamente vicino al collasso.
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2.r – Andreotta
del Campo si rivolge al “banco – Mahona e Minocchi di Palermo”-
I “banchi” – La rete creditizia nel
1500 -
Nell’agosto
del 1546, Andreotto Campo fu costretto a dare la baronia in affitto (in
arrendamento) al banco Mahona e Minocchi di Palermo. Il “banco” prese
l’arrendamento dell’intero Stato di Mussomeli con “
«con tutte e
singole gabelle, totha feuda, tutti e singoli introiti, frutti e singole
pertinenze, nihil escludendo, se non il mero e misto imperio»; per nove anni,
per la somma di onze 2060 annuali, da pagare: onze 1960 ai creditori e le
restanti cento onze al Barone".
Venezia – “Rialto”
– La Prima banca Pubblica garanzia per i risparmiatori – 1500
(Gabriel Bella;
Venezia, 1730 – Venezia, 2 giugno 1799)
“ Il “Bancogiro”
di Rialto – 1779 -1792
Dipinto di Metsys
Quentin – Il “Giotto fiammingo”
(Lovanio,1466-
Anversa, 1530) – “Il Cambiavalute e sua moglie” – 1514 –
Olio su tavola –
(71 x 67)cm – Parigi, Museo de Louvre
La figura maschile
è una cambiovalute.. in atteggiamento molto concentrato nel pesare,
con un bilancino,
i suoi averi (ori, oggetti preziosi, perle denaro. S’inchina leggermente
verso la moglie
per chiederle un consiglio.
La donna tiene la
mano su un libro per non perdere la pagina…. È un libro di preghiere forse
la “Sacra Bibbia”,
si vedono immagini di Santi. Il suo volto è triste… è probabilmente
consapevole che
non c’è niente di divino nel commercio.
Un quadro che
evidenzia mirabilmente le gli atteggiamento contrapposti della coppia:
la scaltrezza,
tipica dei mercanti-banchieri, da parte dell’uomo; l’umiltà della fede da parte
della donna.
Una
contrapposizione tra scaro e profano che è evidenziata in altri aspetti del
quadro.
Uno specchio
convesso sul tavolo riflette l’immagine di una persona seduta, accanto ad una
finestra a forma
di croce.. una croce che è un evidente richiamo alla religione.
A destra
s’intravedono due figure, piccolissime e all’esterno della stanza, che simboleggiano il mondo
economico
circondato sempre da curiosità e da commenti.
La stanza è un
modo dove le due figure sono quasi imprigionate dal potere denaro.
Nello scaffale,
tra i libri simboli dell’intelligenza umana e oggetti d’uso quotidiano, nota
la presenza di una
mela…. simbolo del peccato.
Dipinto di Metsys
Quentin – Il “Giotto fiammingo”
Un altro
capolavoro del pittore fiammingo che presenta un aspetto tipico dei suoi tempi.
Due
mercanti-banchieri, il bello e il brutto, che raccolgono i soldi delle tasse di
cui sono “appaltatori”
Il “brutto”, il
più anziano, ed il “bello”, il più giovane” sono avvolti nei loro turbanti ed
esprimono
nei loro volti la
corruzione del tempo. Sul loro lavoro pende una forbice che sempre quasi
minacciare di morte le
due figure… un
evidente allusione alla precarietà della vita.
La porta, sulla
destra, è aperta ed esprime un concetto di libertà ovvero la possibilità della
salvezza.
Gli stessi
turbanti raffigurano, a detta degli critici, il disprezzo per l’Oriente e le
sue religioni.
Trotter
Christie
Feudalità
e reti di credito costituivano nel 500 un binomio indissolubile per la gestione
e la commercializzazione sui mercati internazionali dei cereali. Un mercato che
agevolava l’inserimento di mercanti-banchieri stranieri e italiani nella
gestione della finanza pubblica dell’isola.
I mercanti-banchieri del tempo avevano un loro
“credo” con il quale consideravano fondamentale, per il loro inserimento e
consolidamento, il controllo della filiera cerealicola. La casa madre, cioè il
Banco, e i banchi secondari si supportavano a vicenda controllando così in modo
capillare il commercio dei cereali.
I
feudatari avevano le terre ma spesso non avevano la disponibilità di capitali
per produrre e quindi si rivolgevano ai mercanti-banchieri che con le proprie
risorse riuscivano a finanziare il ciclo produttivo.
Ma
alla base di questo rapporto capillare tra feudatario e mercante-banchiere c’era
un sottile gioco finanziario che sa tanto di “ricatto”…
Non
veniva erogato al feudatario un credito……il mercante-banchiere assumeva
personalmente la conduzione del ciclo produttivo con contratti detti di
“arrendamento” o di “concessione in gabella”.
Questi
tipi di contratto furono molto frequenti nel tempo. Il barone di Prizzi,
Filippo Crispi si rivolse proprio ai due mercanti banchieri, a cui si rivolse
anche il nostro barone Del Campo, per la sua pesante posizione debitoria che
non gli permetteva di avviare la produzione cerealicola.
Prizzi (Pa) –
Castello
Prizzi (Pa) - Il Castello
Prizzi (Pa) –
Castello – Torre Nord
I
due mercanti banchieri di Palermo, Lorenzo
Mahona di Genova e Giuseppe Menocchi di Lucca, si fecero carico dei forti
debiti del barone Crispi avendo come garanzia l’arrendamento, cioè l’atto
gestionale, della “baronia, terra e
castrum Priczi”.
Ma
il Mahona e il Menocchi non chiesero solo l’arrendamento…. Infatti, forse a
causa dei troppi debiti del Crispi, costrinsero il barone a stipulare anche un
assicurazione sulla vita….. Un’assicurazione che prevedeva in caso di morte
l’erogazione di un premio assicurativo di ben 2196,20 onze.
L’arrendamento
rientrava nell’assetto patrimoniale della società costituita per la gestione
del loro banco.
Il
banco operava grazie ad una rete di credito e di produzione che in un certo
senso ricalcava la filiera di produzione del grano cioè: produzione,
commercializzazione ed esportazione.
Le
società collegate al banco Mahona e Minocchi, costituite per il operare il
credito al barone di Prizzi, erano:
-
«la ingabellazioni
di la baronia di Prizi dal primo di settembro sexte indicionis in dannanti»;
atto stipulato dal notaio Antonio Occhipinti in Palermo, l’1 aprile 1546,
vol.3711, ind.4: .
Don Filippo Crispi, barone di Prizzi, arrenda (appalta) a Lorenzo Mahona e Giuseppe
Menocchi «baroniam, terram et castrum Priczi». L’arrendamento deve durare cinque
anni e il canone è fissato in onze 829 l’anno. In realtà il barone ha una
consistente esposizione debitoria pregressa e senza l’intervento dei due
banchieri non sarebbe in grado di far fronte ai propri impegni. L’investimento
presenta un’alea di rilievo proprio per i debiti del barone dei quali si fanno
carico i due banchieri i quali sono costretti, a loro volta, a cautelarsi
mediante la stipula di un’assicurazione sulla vita del barone per un ammontare
di onze 2196.20 specificando sia che l’assicurazione copre il rischio per sei
mesi, sia che il barone «possit et valeat se exponere ad omnem periculum et
risicum et ire per mare in bello et quevis alia facere» (Ivi, 10 aprile 1546,
ind. 4, cc. 836r-838r). Altra assicurazione sulla vita del barone di Prizi per
l’ammontare di onze 813.10 è stipulata da Lorenzo Mahona il 7 marzo 1548, con
decorrenza dall’1 di aprile per la durata di un anno, con la quale si coprono
tutti i rischi compresa la morte per duello. Il 13 agosto del 1549 il portiere
(ufficiale giudiziario) del consolato della nazione dei Genovesi notifica agli
assicuratori, su istanza del Mahona, la morte del barone e la contestuale
richiesta del pagamento dell’assicurazione (Idem, vol. 3714, a data).
-
«la ingabellacioni
di li magaseni et caricaturi di Castello ad Mare del Gulfo dal primo di luglio
prossimo»; «lo arrendamento del grano di lo baruni di Prizi arrendato per isti
Lorenso et Ioseph et la compagnia dell’arrendamento et mercimonio di lo
Misirindini”;Palermo, 1 aprile 1546, cc. 810v-816v. Mahona e Menocchi prendono
in appalto «introytus et proventus dicti grani unius de summa tareni baronum
ipsi domino baroni debito set solvendos pro qualibet salma victualium
extrahendorum ex hoc regno Sicilie per extra Regnum» di pertinenza del barone
di Prizzi Filippo Crispi. 11 febbraio 1545, ind. 4, cc. 636v-641v. Arrendamento
della baronia del Miserendino con tutti i suoi feudi. I soci sono Lorenzo
Mahona, Giuseppe Menocchi, Gio «la compagnia facta fra ipsi Lorenso et Ioseph
cum Gerardo del Vulterrano» per la gestione dei magazzini e caricatore di
Termini Imerese. Palermo 30 giugno, 1546, ind. 4, cc. 1137v-1140r - I soci sono
Lorenzo Mahona, Giuseppe Menocchi e Gerardo Vulterrano i quali costituiscono
una società in «acomandita». I due banchieri conferiscono una quota di capitale
pari a onze 1200 mentre Vulterrano mette onze 400. Il 30 agosto del 1546
s’inserisce come socio con un capitale di onze 400 Pietro Mejavilla con una
quota di onze 400.
Termini Imerese –
Torre – Caricatore
Il Porto di
Termini Imerese nel 1860
Porto di Termini
Imerese nel 1900
I due banchieri s’assicurarono anche il controllo
dello sbocco al mare del frumento di Prizzi e costituirono, per l’occasione,
una compagnia che naturalmente rientrava nell’assetto finanziario del banco
anche per la gestione dei magazzini e del relativo caricatore di Termini
Imerese. Una società che controllava non solo le esportazioni fuori del Regno
di Sicilia ma che gestiva anche le forme
di credito che erano legate al rilascio delle certificazioni di deposito nelle
fosse frumentarie da parte dei baroni e rilasciate in base alle annotazioni
riportati nei registri di magazzino. Certificazioni di deposito che si
sarebbero trasformate in titoli creditizi negoziabili nel breve periodo.
Tutto
era nelle mani dei banchieri… il feudatario in pratica non poteva
commercializzare il suo prodotto né all’estero né nel Regno.
È
anche vero che per ottenere le relative autorizzazione per l’acquisizione
giuridica di “banco Pubblico” i mercanti dovevano avere dei punti di
riferimento importanti cioè persone legate al potere politico all’interno del
Regno o della stessa città di Palermo. Punti di riferimento costituiti dalla
nobiltà che occupava incarichi importanti negli uffici o nelle strutture
governative.
Generalmente
la nobiltà entrava in partecipazione nella gestione del banco. I banchi Ram e
Torongi (1522 – 1540) confermarono questo aspetto di compartecipazione. Questo
alla fine portò anche a evidenti aspetti di corruzione finanziaria e con
conseguenze negative sul mercato finanziario. Il sovrano intervenne per
arrestare la corruzione ed emanò un decreto con il quale si “proibiva a tutti quelli che gestivano
uffici pubblici di intestarsi partecipazioni a società per la gestione dei
banchi”.
Ma
le leggi hanno valore solo per la gente umile, per chi soffre quotidianamente
per procurarsi il sostentamento… infatti malgrado le proibizioni la situazione
non cambiò perché la nobiltà fece spesso anche ricorso a dei prestanome che operavano
quindi per conto del proprio referente.
Dal
1545 la situazione era così grave che i sovrani ordinarono delle visite regie
per controllare il comportamento dei vicerè e degli ufficiali regi.
La
prima visita fu quella di Diego de Cordova, giunto a Palermo il 6 novembre del
1545 su mandato di Carlo V, che suscitò una grande apprensione nel Presidente
del Regno, Giovanni d’Aragona Tagliavia, marchese di Terranova e nello stesso
vicerè Ferrante Gonzaga.
Al
visitatore Regno De Cordova bastarono solo pochi mesi ed opportuni colloqui per
rendersi conto che l’amministrazione delle risorse finanziarie del Regno era
nelle mani di un gruppo di potere.
Sembra
quasi di affrontare un tema dei nostri giorni… il potere economico mafioso…
Un
gruppo di potere che definì formato da “uomini
nuovi” che si erano consolidati nelle loro posizioni sociali e politiche
durante il regno di Ferdinando il Cattolico. Un gruppo che aveva acquisito
grandi vantaggi come sostenitori delle rivolte siciliane tra il 1516 e il 1523.
“Il governo dei centri demaniali e la
gestione dei più importanti uffici finanziari del regno è nelle mani di questi
uomini nuovi”. Quali uffici ?.....”tesoreria,
Mastro portulano con tutta la rete dei magazzene dei caricatori, le Secrezie,
la Conservatoria..”.
Don
Diego Cardona mise in risalto nelle sue relazioni anche il comportamento del
vicerè Don Ferrante Gonzaga..”contro il
quale sin dal quarto anno del suo governo si cominciarono a scorpire molte
fastidiose malignità, perché l’imputavano che havesse parte del banco, che in
quel tempo haveva aperto in Palermo Lorenzo Mahona fratello di Giovan Mahona
segretario confidentissimo di quel Signore, aggiungendo, che col mezzo di quel
banco fraudava li proventi delle tratte (commerci) de frumenti, che partecipava
nelli banchi della Corte, che intrava nei i partiti che si facevano per la
necessità del Patrimonio, e che gli uffici si vendevano pubblicamente; le quali
malignità ebbero forza di fargli venire à dosso la violenta sindicazione di Don
Diego di Cardona, il cui procedere (di Don Ferrante Gonzaga) pieno di
arroganza, et di poco rispetto, sforzò quel buon Cavaliere a far contro di
detto Sindacatore quelli risentimenti, che meritavano li suoi portamenti;
sebene quella sindicatione non impedì l’andata sua al governo di Milano, per la
gran necessità che hebbe l’Imperatore della persona del Sig. Don Ferrante, doppo la morte del
Marchese Vasto,…”
Una
grande analisi quella di don Diego De Cordova che mise in risalto anche il
connubio che si era creato tra la fine del’400 e il 500 tra i
mercanti-banchieri e i centri di potere della regia Corte o della municipalità.
Il banchiere aveva la necessità, per aprire il banco, di schierarsi a favore di
un determinato gruppo politico e questo per ottenere le fideiussioni per acquisire
la licenza di apertura del banco e per relazionarsi con le piazze finanziarie
siciliane e con i produttori di cereali.
In
merito a quest’aspetto è da porre in rilievo il grande connubio o parallelismo
tra l’amministrazione regia ed elezione del pretore di Palermo.
Un
aspetto che interessa la ricerca sul castello di Mussomeli per evidenziare il
raggiro che subì il barone Del Campo per essere privato della “Terra di
Mussomeli” da parte di Cesare Lanza.
Cesare Lanza, Antonio Statella
e Ottavio Spinola in base al loro precedente incarico di “Maestro Portulano”
ebbero modo di ricoprire la carica di Pretori di Palermo. Il pretore aveva fra
le sue competenze oltre alla municipalità della città anche quella di Maestro
Portulano.
Andreotta
Aglata, Pietro Agostino, Gerardo Bonanno, tutti “maestri Razionali”; il
“secreto” Simone Bologna; i “tesorieri” Francesco Bologna e Antonino Aglata…
occuparono la carica di Pretori di Palermo.
Sono
tutti nomi, insieme ad altri “emergenti” come il Protonotaro Aloisio Roya, che
figuravano nelle fideiussioni prestate agli atti della Corte Pretoriana per
garantire l’apertura di un banco. Il potere di uomini che riuscivano a
controllare i più importanti uffici dell’amministrazione regia e la stessa
carica di pretore, riuscendo in questo modo a diventare partecipi del funzionamento
dell’economia del Regno collegandosi anche agli importanti circuiti finanziari
internazionali.
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2.s – Il “Banco”
notifica al barone Del Campo la diminuzione delle entrate.
Nuova Richiesta di credito –
L’inserimento nel credito di una “Figura Degna” –
I Lanza di Trabia - Castania
Il
“Banco” notificò al Campo che le entrate
della Baronia si erano ridotte rispetto al passato. Il barone fu costretto a
chiedere al banco…. un vero e proprio tranello… un altro prestito di 1600 onze
d’oro (circa 18.000 fiorini) impegnandosi a restituirle con un ulteriore
soggiogazione. I “banchieri”… furbi…. fecero sapere che non avevano a
disposizione la somma richiesta ma c’era una “persona degna” che era in grado
di anticiparla.
Il
personaggio… “persona degna” era Don Cesare Lanza, Barone di Trabia, il famoso
parricida della Baronessa di Carini… un personaggio discutibile sul piano
morale.. senza scrupoli… c’era un connubio tra il banco e il Lanza per entrare,
con un vero piano criminoso, in possesso della Baronia di Mussomeli.
Don
Cesare Lanza era figlio di Blasco Lanza, primo Barone di Trabia, anche lui un
personaggio discutibile, di cattiva fama, ambizioso, un mestatore politico di
primo piano che fu coinvolto in tutti gli intrighi politici del suo tempo. Fu
il braccio destro del vicerè Moncada con cui condivise le ruberie e gli
intrighi. Eppure riuscì con grande abilità a restare vicino ai re come
Ferdinando il Cattolico e Carlo V. Blasco Lanza offrì addirittura a Francesco
I, re di Francia, la reggenza della Sicilia.
Castello di Trabia
(Pa)
Edrisi nella sua
descrizione della Sicilia citò, nel 1153, una rocca chiamata “della Trabia”.
In un diploma di
re Federico III d’Aragona si cita nel luogo un mulino della Regia Curia dato in
concessione
a Bertino Cipolla
ed alla sua morte ceduto, sempre dal re, a Lombardo de Campo. (uno dei primi
esponenti della
famiglia Del Campo presenti a Palermo). Nel 1408 il mulino e probabilmente l’annesso
feudo, forse con
una torre, era di proprietà di Guglielmo Tricotta e successivamente di Bernardo
Tricotta.
Quest’ultimo per
testamento lo trasferì al Convento di Palermo che il 21 agosto 1441 lo cedette
a
Leonardo
Bartolomeo. Atto che fu poi confermato da re Alfonso il 15 dicembre 1445.
Bartolomeo fu una
nobile famiglia nella città di Palermo. Lembo di Bartolomeo, giurista,
giudice della Gran
Cancelleria di Re Pietro nel 1340. (Ebbe
12 onze di rendita sopra
l’Università di
Palermo..”la qual somma in quei tempi passava per onze 50”). Il figlio di
Lembo, Simone di
Bartolomeo, fu pretore di Palermo nel 1414-15. Si sposò con la
figlia di Roggier
di Barleone, Barone di Zulina, un feudo nel territorio di Piazza (Piazza
Armerina).
(Feudo che era in
possesso di Giovanni Damiata. Per essersi ribellato al Re Martino perse
Il feudo che venne
concesso a Roggier di Barleone nel 1392).
Un Leonardo Di
Bartolomeo, “dottore in ambo le leggi e protonotaro del Regno” ebbe in
Enfiteusi il
tenimento di terre nominato “la Tarbia” (Trabia) che nell’anno 1444 ebbe
“confermato dal
vicerè”. Il feudo passò al figlio Narduccio (Leonardo), senatore di Palermo
nel 1475. Ebbe
un'unica figlia, Eloisa, che sposò Blasco Lancea (Lanza).
Grazie al
matrimonio il Lanza ebbe in dote la successione della Trabia, del palazzo di
Palermo, di tutti
gli altri beni e del titolo di “Trabia”. (Investitura nel 1509).
Alla morte di
Eloisa, Blasco Lanza sposò Laura Tornabene, di nobile famiglia catanese.
Nei testi di
araldica la famiglia Tornabene di Catania appare imparentata con le casate
illustri di
Firenze: “de’ Medici, de Salviati,
degl’Uberti, de Pazzi e molt’altre nobilissime della
Toscana”. “Pietro
Tornabuoni detto poi nell’idioma Siciliana Tornabene, fu colui il quale
passò da Fiorenza in Sicilia, e si stabilì nobilmente
nella città di Catania, aggregato
alla nobiltà della medesima città, e con la sua
ricchezza comprò la Baronia, e la
Terra di Castania,
e con sua moglie Agata Taranto, procreò Antonio barone di Castania,
e Governatore del Contado di Mondrea. Antonio con Isabella Gioieni sua moglie generò
Giacomo, barone di Castania, e Pietro. Da Giacomo
nacque Nicolò, barone di Castania, la cui
figlia Lauria (Laura) sposò il Dottor Blasco Lanza de’
baroni di Longi, che fu Giudice della Gran Corte.
(Castania sarebbe
l’odierna Castell’Umberto - Me)
Il castello di
Trabia prima dei restauri
Antonio Filoteo da Castiglione,
secolo XVI, nella sua descrizione
dell’isola citò la rocca della Trabia, che definì “forte” e appartenente al
barone della Castania di casa Lanza. Qui erano i trappeti “per fare i zuccheri delle cannamele e che questo castello è posto sul
lido accanto ad una bella tonnara pericciocchè in questo mare gran quantità di
tonni si piglia al tempo convenevole”.
Ferdinando II d’Aragona il 14
novembre 1509 titolò Trabia “feudo nobile”. Blasco Lanza fortificò il castello
e fece scolpire dal Gagini l’arma dei Lanza in un grande scudo che fu posto
sulle mura del castello.
I Siciliani si ribellarono al vicerè
Ugone Moncada che voleva cercare di nascondere la morte del re Ferdinando fino
a quando non avrebbe ricevuto la riconferma della sua carica dal nuovo re Carlo
V d’Austria. Il popolo era schierato con Jacopo Albata, vice Giusitiziere del
Regno, chiedendone la nomina a Vicerè. La tesnsione si fece alta perché si
verificarono degli scontri tra i partigiani del Moncada e i rivoltosi. Don
Blasco Lanza, famoso uomo di legge, era un fautore del Moncada e lo difese
andando a Bruxelles da re Carlo V.
I rivoltosi scatenarono la loro rabbia
contro Blasco Lanza dando fuoco alla casa di Palermo e al castello di Trabia (1517). Un incendio appiccato al castello durante la notte.
Le fiamme altissime avvolsero il castello.. uno scenario terrificante, il
castello è prospicente il mare, a tal punto che il Betti immortalò in versi la
scena:
: “... una notte...
al castello incantato daremo fuoco.
Da ogni finestra una fiamma
ha da fiorire
e tutto come un sogno ha da svanire...”.
I danni furono ingenti e gli assalitori furono costretti a pagare i danni a
Don Blasco Lanza che, in cambio del danno subito, ricevette dal re nuove
cariche.
Nel 1553 morì don Blasco Lanza, definito il “primo Lanza di Trabia” e il
figlio Cesare fece ingrandire il castello e applicare la seguente iscrizione:
«CAESAR LANCEA CONJUNCTIS SCOPULIS ARCEM HANC EXTRUXIT. MDLXXV».
Il
figlio Cesare, nato a Palermo nel
1511, non fu meno del padre, acquistò il mero e misto imperio di Trabia e
ottenne la nomina Capitano d’Arme, “Maestro Portulano” di Palermo ed infine
Vicario Generale del Regno della Val di Mazara.
Il
Lanza…” compra e vende, piglia e dà a
prestito, fonda Banchi, esercita l’industria dei trappeti di cannamele, delle
tonnare, delle masserie, dei vini, dei cereali…».
Nel 1521 all’età di quindici anni,
per volontà del padre, sposò una ricca vedova catanese, Lucrezia di Gaetano o
Gaetani. Grazie alla sue ingenti risorse
economiche riuscì ad ottenere la carica di Maestro Portulano che in precedenza
era stata a carico dell’Alliata, del Pignatelli e degli Spinola. Nel 1538
acquistò dalla Regia Corte il mero e misto impero per la sua terra della Trabia
e la riconferma per la terra di Castania. Nello stesso anno venne nominato
Capitan d’Armi a guerra e vicario del vicerè per la Val di Mazara … una carica
che ricorpirà più volte. Nel 1540 fece
assassinare in pieno giorno, da una squadra di bravacci armati, il giurato di
Termini Imerese Simone Lo Pisano e nonostante le accuse riuscì ad ottenere dal re
Carlo V il perdono per il suo valido aiuto militare.
In quell’occasione dimostrò di essere
intoccabile e al di sopra della legge. Perdono che sarà esecutorio il 6 giugno
1545 e già nel 1543-44 era Governatore del Monte di Pietà e Rettore
dell’Ospedale Grande e molte volte pretore della città.
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2.t – 1548 : Il
“banco” cede a Cesare Lanza l’arrendamento della “Terra di Mussomeli”
La “Terra di Mussomeli” passa a Don
Cesare Lanza
Nel 1546 i due banchieri ottennero
l’arrendamento per nove anni della baronia… ma due anni, nel 1548, lo stesso
banco cedette al Lanza l’arrendamento.
Don Cesare Lanza chiese subito al narone Andreotta Del Campo la restituzione
delle somme dovute….
Il
Lanza, forte della sua potenza economica e politica, aveva costretto il banco
ad un deposito fittizio. In realtà Don Cesare Lanza aveva anticipato le 3660
onze ed aveva acquistato l’ultima soggiogazione nei confronti di Andreotto
Campo. Venne organizzato un piano con atti e bilanci falsi per mezzo dei quale
appariva in diminuzione il frutto della baronia, mentre aumentavano crediti ed
interessi del Lanza nei riguardi di Andreotta Campo. La situazione giunse al
punto del ventilato fallimento della baronia. Il 28 febbraio del 1548, Cesare
Lanza citò il Campo, dinnanzi alla Regia Gran Corte Pretoriana, per le
soggiogazioni non soddisfatte da quest’ultimo, ammontanti a 1341 onze. Il 15
giugno dello stesso anno segui un’altra citazione, per debiti insoluti, per
altre 214 onze. Tali citazioni furono disattese dal Barone Campo, che non si
presentò neppure in giudizio, né si fece rappresentare. L’unica azione di difesa da parte del Campo fu
un ricorso al vicerè denunciando di “essere
stato vittima di una vera e propria azione di usura”. Certamente questo
comportamento di Andreotto Campo, ultimo Barone di Mussomeli, è discutibile e
lascia perplessi perché favoriva le rivendicazione del Lanza. Probabilmente il
Barone Andreotta, stanco ormai delle lunghe liti con creditori e parenti, aveva
deciso di disfarsi della baronia, anche per non soggiacere ai ricatti del
nipote Giovannello.
Don Cesare
Lanza ebbe il castello, il 23 agosto 1549 . L’11 settembre dello
stesso anno, il nuovo signore entrò in possesso dello Stato e della “terra” e
il 23 ottobre 1549, agli atti del “notar Giacomo Schiavuzzo di Palermo, venne firmata,
fra il Campo e il Lanza, una solenne transazione, mediante la quale Andreotto
Campo vendeva la baronia “con il suo mero
e misto imperio, con tutti i diritti e le pertinenze, con feudi e terre,
tenimenti di case, fondaco, taverne, macelli, acque, molini, regio miltare
servitio, per il prezzo e capitale di onze 30628, moneta di Sicilia”.
Una
transazione che chiudeva ogni residua pendenza con l’ultimo barone della famiglia
Del Campo e che lasciava al barone Andreotto quattro feudi dei 28 che
costituivano la prestigiosa “Terra “ di Mussomeli.
L’1/2/1550
Don Cesare Lanza ottenne l’investitura del feudo da parte del vicerè.
Don Cesare
ottenne il riconoscimento della Contea di Mussomeli che diventò il principale e
più importante stato dei Lanza fino all’abolizione delle feudalità.
La
veridicità o meno della crisi economica dei Campo è una “vexata quaestio”.
All’interno della famiglia Del Campo, il ramo che rimase escluso dalla signoria
sostenne le tesi del complotto per estinguere ogni possibile motivo giuridico
di rivendicazione futura dei propri diritti, La questione fu molto dibattuta
anche in sede giudiziaria. Attualmente sono in corso degli studi per una
rivisitazione storica.
Così
i mercanti pisani, passati a baroni siciliani, conclusero la loro bella
carriera gentilizia, durata ottantadue anni: la vita di un uomo! Cesare Lanza,
quindi, diventò il “Magnifico e Nobile
Barone della terra di Mussomele”. Le
aquile rosse dei Campo, che un secolo prima avevano spiccato, orgogliosamente,
il volo dall’alto del castello Manfredonico, finirono così sepolte nella livida
polvere della vallata del Platani.
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2.u – Le altre
“malefatte” di Don Cesare Lanza – L’uccisione di un giurato –
L’assassino della figlia Laura e del
suo presunto amante Ludovico Vernagallo
Nel
frattempo morì la moglie del Lanza, Lucrezia e subito sposò Donna Castellana de
Centelles ed Emanuele, contessa di Gagliano e dama dell’Imperatrice, e figlia
del Conte di Faro. (Da questo secondo
matrimonio nacquero i figli: Ottavio, Giovanni, Laura, Giovanna, Margherita,
Diana e sembra anche un certo Blasco). Fece sposare la sorella Giovanna
con Nicolò Branciforte, barone di Mirto
e stipulò, per la figlia Laura, un matrimonio prestigioso con Vincenzo La Grua,
barone di Carini.
Nel gennaio 1563 la baronia di
Mussomeli venne elevata a Contea e naturalmente il Lanza venne investito del
nuovo titolo.
Nello stesso anno esplose la tragedia
di Carini, il 4 dicembre. Laura e il suo infelice amante Ludovico Vernagallo,
amante nell’infanzia, vennero trucidati.
Fu
accusato di un altro omicidio, come mandante, quando fece uccidere a Termine
Imerese nella pubblica Piazza uno dei giurati della città che gli aveva dato
torto in una causa per questione di confini.
Il
Vernagallo, il giurato di Termini Imerese e lo stesso barone Andreotto Del
Campo erano tutti oriundi pisani.
Tracce delle dita
insanguinate della baronessa – Castello di Carini
Impronta forse
della baronessa
Carini (Pa) - Il castello La Grua
Stranamente dopo aver ucciso i due
amanti, il giurato… il Lanza non subì alcun danno e “non venne affatto sottoposto a procedimento penale o venne assolto”.
Alcuni
critici indicano che sia sia isolato dal mondo… ma non è affatto la realtà
anzi… per quegli assassini egli venne quasi premiato perché nel 1566 fu
nominato ancora una volta Pretore, Capitan d’Armi e Vicario di Palermo e nel
1568 fu nominato Vicario a Siracusa. Un magistrato assassino è quello che ebbe
Palermo nel 1566.. un mandante dell’assassino di un pubblico amministratore ed
un esecutore del delitto della figlia e dell’amante. Nel 1570 – 71 fu
nuovamente rettore dell’Ospedale Grande e si fece anche promotore della
rappresentazione dell’atto della Pinta
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2.v - CRONOLOGIA
STORICA
§ 1549 – Don Cesare
Lanza (Barone di Trabia, di Castania, di Santa Marina) entrò in possesso dello
Stato e “terra” di Mussomeli. Dal secondo matrimonio con Donna Castellana
Centelles nacquero sette figli, tra cui il primogenito Ottavio e la sventurata
Laura, Baronessa di Carini.
§ 1567 – Ottavio,
all’età di 18 anni, sposò Donna Giovanna Ortega di Gioeni, figlia del defunto
Lorenzo Gioieni di Catania. La moglie portò in dote la Baronia ed i feudi di
Valcorrente, Pietratagliata e San Bartolomeo. Il regalo di nozze di Don Cesare
Lanza fu la donazione al figlio, ed ai suoi legittimi discendenti, della Contea
di Mussomeli e la Baronia di Trabia, riservandosi per entrambi l’usufrutto. La
famiglia Lanza risiedeva nel castello. Sin dal momento in cui don Cesare prese
possesso della “Terra di Mussomeli”, ne fece la sua residenza per curare gli
affari di un territorio vastissimo ben 24 feudi.
Stemma della Famiglia Ortega – Linea Spagnola
Stemma della Famiglia Ortega – Linea
Spagnola/Americana
Una nobile famiglia che ebbe la sua origine nella città di “Carriòn de Los
Condes”,
provincia di Palencia,(comunità Castiglia e Leon) e si diffuse in
Castiglia, Andalusia e Murcia.
Nella Comunità di Castiglia e Leon “c’erano
le case di Ortega nelle città “ di:
Amusco e Astudillo, provincia di Palencia;
Villanueva de San Mancio, distretto giudiziario di Medina de Rioseco, provincia
di Valladolid;
Torreiglesia, nella provincia di Segovia;
Candeleda, nella provincia di Avila
La famiglia Ortega che abitava ad Amusco, distretto giudiziario di
Astudillo (Palencia),
apparteneva a Gregorio de Ortega, originario di Amusco, che si trasferì a
Città del Messico dove si sposò con Dona Beatriz de castilla, “nata in
quella città”.
Dal matrimonio nacque Juan de Ortega, di Città del Messico e in seguito
capitano d’armi, che
sposò la signora Isabel de Losa, figlia di Cristobal de Tapia yLosa e della
cugina Luisa de Caceres,
nativa di Città del Messico.
Luisa de Caceres era “nipote paterna
di un altro Cristobal de Tapia y Losa e della signora
Isabel de Alcazar, anch’essa
nata in quella città; pronipote paterna di Andrès de Tapia, nativo della
Città di Medelin (Batajoz) e
Maestre de Campo, e di Isabel De Losa, originaria di Toledo, e
nipote materna di Pedro Gomez
de Caceres e della signora Antonia Sedano.”
Amusco (Spagna) – l’Eremo di Nostra Signora delle Fonti
https://www.minube.com/fotos/rincon/72916
Stemma della Famiglia Gioeni
“Antica e nobile famiglia, che vanta discendere dagli
Angioini, dominatori della Sicilia. Godette nobiltà in Messina dal secolo XV al
XVIII, in Palermo ed altrove. Possedette i principati di S. Antonino,
Castiglione, Petrulla o Solanto; le ducee di Angiò, Castellana o Ravanusa, S.
Biagio; il marchesato di Giuliana; la contea di Chiusa; le baronie di Aidone,
Bavuso, Biribbaida, Belice, Burgio, Calatamauro, Casalcarbone, Contessa,
Miraglia, Montallegro, Oliveri, Novara, Pietratagliata, San Dimitri,
Valcorrente, ecc. Un Perrono, protonotaro del Regno di Sicilia, fu il primo
possessore di Calvaruso, Bavuso, Castiglione, Rocca e Valdina, Miraglia, ecc.;
un Bartolomeo fu gran cancelliere del regno sotto i Martini; un altro
Bartolomeo, da Messina, con privilegio dato a 11 maggio 1486 esecutoriato a 15
febbraro 1486, ottenne di poter aggiungere alla propria arme gentilizia le armi
della real casa d’Aragona; un Consalvo, barone di Aidone, conservò Terranova ed
Augusta al regio dominio al tempo delle incursioni turchesche; un Lorenzo, con privilegio del 23 novembre
1528, ottenne il titolo di regio cavaliere; un Ettore, con privilegio dato in
Madrid a 10 aprile esecutoriato in Messina a 1 novembre 1571, ottenne la
concessione del detto titolo di regio cavaliere e lo stesso titolo ottenne, con
privilegio del 14 decembre 1587, un Giovanni Gioeni, barone di S. Dimitri, da
Catania; un Tommaso Gioeni e Cardona, marchese di Giuliana, fu governatore
della nobile compagnia dei Bianchi di Palermo nel 1589-90 e 1598-99, pretore di
Palermo nel 1594-95 e 1598-99 e, con privilegio dato a 20 aprile esecutoriato a
20 giugno 1602, ottenne il titolo di principe di Castiglione; un Ambrogio vestì
l’abito di Malta e fu gran priore di Pisa…..”
https://www.pinterest.it/pin/370702613054736337/
§ 1577 – Don
Ottavio, ricevette dal padre la conferma della donazione e prese l’investitura
della Contea;.
1580 – il 16 marzo, mori Don Cesare Lanza e fu sepolto
nella tomba di famiglia a Santa Cita. Gli successe il figlio Don Ottavio che
continuò a stabilire la sua residenza nel castello. Si rese artefice di una
saggia politica economica aumentando il patrimonio familiare. Fu autore di una
serie di opere di beneficenza nei confronti delle ragazze povere, dei monasteri
e anticipò all’Università di Mussomeli forti quantitativi di cereali nei
momenti di bisogni causati dalle frequenti carestie. Grazie a queste sue opere
caritatevoli, ottenne dal Re Filippo III il titolo di Principe di Trabia nel
1601. C’è un episodio nella vita di Don Ottavio Lanza su cui sarebbe necessario fare chiarezza. Fu arrestato perché mandante
dell’assassinio “del sollecitatore
fiscale Giuseppe Rayola” che suscitò un conflitto di competenze giuridiche
tra il vicerè Conte d’Albadalista (Don Diego Henriquez de Guzman) e
l’Inquisizione.
Don Ottavio Lanza e Donna Giovanna Ortega Gioeni
ebbero una prole numerosa: cinque maschi e altrettante femmine. Il primogenito Cesare morì a 21 anni; Blasco e
Lorenzo, morirono di pochi mesi; Pietro morì a Palermo all’età di 18 anni. I
diritti di successione erano quindi pertinenti al terzo figlio maschio,
Lorenzo.
Don Ottavio sul finire del 1500 spostò la sua
residenza in paese cioè nell’ex palazzo Del Campo che sorgeva presso le mura
dell’antica città (nella zona attuale dell’orologio). Da questo palazzo curò
l’amministrazione del feudo e si preoccupò dello sviluppo del paese. Il
castello venne quindi adibito a carcere.
https://www.ebay.it/itm/MUSSOMELI-palazzo-della-signoria-e-circolo-trabia-/252105433651
1603 – Don Lorenzo I, (Lanza e Ortega)
venne investito della Contea di Mussomeli in giovanissima età, per donazione
paterna, in occasione del suo matrimonio con Donna Elisabetta Barresi. vedova
di suo cugino. Abitò a Mussomeli dove si distinse per iniziative di notevole
importanza religiosa e sociale.
La coppia
ebbe due figli: nel 1605 Ottavio II (Lanza e Barresi) e Dorotea Lanza Barresi.
1612 – Morì, ancora giovane, Lorenzo I
che fu sepolto nella tomba di famiglia. Ne raccolse l’eredità Don Ottavio II
(Lanza e Barresi), sotto la tutela della madre (Barresi). Stranamente il nonno Don
Ottavio I, riprese il possesso della Contea. Un possesso che mantenne per circa
6 anni.
1612 – Dorotea Lanza, sorella di Lorenzo I,
il 16 settembre sposò a Palermo Francesco Valguarnera, primo principe di
Valguarnera e Conte di Assoro. Dal loro matrimonio: Giuseppe, secondo principe
di Valguarnera, che sposò Vittoria Arrighetti.
1617 – Morì Don Ottavio I, all’età di 68
anni, anche lui sepolto nella cripta di Santa Cita
1618 – Don Ottavio II entrò in pieno
possesso dell’eredità.
1625 – Don
Ottavio II sposò nel 1625 Donna Giovanna Lucchese Spinola Porto e Palagoniadalla
quale ebbe ben dodici figli. Tra questi Lorenzo II che fu l’erede. Eminente
personalità dell’aristocrazia isolana, ricoprì importanti incarichi durante i
moti popolari di Palermo e di altre zone di Sicilia a causa della terribile
carestia del 1647. Fu anche tra i repressori della famosa rivolta di Giuseppe
D’Alessi, per cui dovette allontanarsi da Palermo e tornare a risiedere a
Mussomeli.
Qui curò il
riassetto del patrimonio, anche con l’aiuto dei vassalli. S’interessò anche al
decoro del paese.
1644 - Muore Donna
Giovanna Ortega Gioeni, moglie di Ottavio I.
1657 – Don Ottavio II rinunziò a favore
del figlio Don Lorenzo II.
1658 – Don Lorenzo II (Lanza e Lucchese)
s’investì dell’eredità il 24 settembre1658, ancora minorenne. Fine poeta e
letterato, fece onore alle lettere siciliane. Sposò Donna Luisa Moncada. Dei
tre figli, Ottavio III fu il primogenito.
1660 – Morì, molto giovane, Don Lorenzo
II che fu sepolto nella Matrice di Mussomeli. Ereditò il figlio Don Ottavio
III.
1662 - Don Ottavio III (Lanza e
Moncada), ancora giovanissimo, s’investì del titolo di Conte di Mussomeli,
sotto la tutela della madre.
1673 –Don Ottavio III sposò Donna
Lucrezia Reggio (figlia di Don Luigi Principe di Campofiorito) la quale, con i
suoi figli, accrebbe notevolmente il peso di casa Trabia. Suo primogenito fu
Don Luigi. Don Luigi, ancora minorenne, fu investito della Contea, sotto la
tutela della madre.
1675 – Morì il vecchio Don Ottavio II,
anche lui sepolto nella Matrice di Mussomeli.
? - Morì
Don Luigi, ancora giovane, senza eredi diretti.
1714 – Don Ottavio III rinunziò alla
Contea in favore del secondogenito Don Ignazio I (Lanza e Reggio).
1716 – Don Ignazio I s’investì della
Contea. Fu tra i personaggi più importati della vita pubblica palermitana del
primo Settecento. Amò molto la residenza di Mussomeli dove fece dei lunghi
soggiorni. Sposò la cugina Donna Giovanna Lanza da cui ebbe il primogenito
Giuseppe (19 settembre 1719) e il secondogenito Antonio (futuro Vescovo di
Agrigento).
1753 – Morì Don Ignazio I che fu sepolto
nella cripta di Santa Cita.
1754 – S’investì della Contea Don
Giuseppe I (Lanza e Lanza) che sposò Donna Beatrice Branciforte da cui non ebbe
figli. Dal secondo matrimonio con Donna
Orietta Stella e Valguarnera (ventenne e figlia di Pietro Stella duca di
Casteldimirto) ebbe il primogenito Ignazio II e Pietro. Dotato di grandi mezzi
e d’ingegno elevato, ebbe importantissimi incarichi nella città di Palermo, a
Corte e nel Parlamento. S’interessò costantemente dei suoi vassalli mussomelesi
con interventi esemplari.
1783 – Morì a Napoli
Don Giuseppe I e fu
sepolto nella chiesa della Compagnia
dei nobili sotto il titolo di San Luigi di Palazzo.
1784 – S’investì, il 20 aprile, della Contea Don Ignazio II (Lanza e Stella)
Duca di Camastra. Cultore di lettere e storia, fu senatore e sindaco di
Palermo. Il suo matrimonio con Donna Rosalia Napoli, risultato sterile, era
stato dichiarato nullo nel 1777. Ma pochi mesi dopo l’investitura morì. Gli
successe il fratello Don Pietro. Questi si distinse come uomo di cultura e
protagonista di primo piano negli avvenimenti politici siciliani di fine secolo
XVIII. Sposò Donna Maria Anna Branciforte dalla quale nacque il figlio Giuseppe
II. A quest’ultimo, negli ultimi tempi, cedette l’amministrazione dei suoi
stati feudali. Don Pietro ebbe un ruolo importante negli avvenimenti che alla
fine del secolo XVIII portarono in Sicilia all’abolizione della feudalità.
La sua opposizione all'abolizione della feudalità fu
così aspra, che corse il rischio di essere arrestato, ma la corte stimò miglior
partito ricercarne l'appoggio, e nel 1799 lo assunse all'alta carica di
ministro segretario di stato per gli affari della guerra e della difesa.
1811 – Morì Don Pietro e gli
successe Don Giuseppe II (Lanza e Branciforti). Questi ereditò
i titoli, ma potè conservare la giurisdizione sui feudi fino al 20
luglio 1812,quando il parlamento siciliano dichiarò abolita la feudalità.
Nella
memoranda seduta del 20 Luglio 1812, il Parlamento Siciliano gettava le basi
della nuova costituzione, ed all'art. 12 stabiliva l'abolizione e la
trasformazione in allodo della proprietà feudale: si lasciavano soltanto a
coloro che li possedevano, i titoli e le onorificenze, conservando nelle
rispettive famiglie l'ordine di successione.
3 – STRUTTURA ARCHITETTONICA
Il castello
fu fondato da Manfredi III Chiaramonte, Conte di Modica, morto nel 1391, ma le
sue forme attuali risalgono agli interventi operati all’inizio del XV secolo
dalla famiglia Castellar, signori di Mussomeli.
Il castello
per tanto tempo fu disabitato, si parla di circa tre secoli, e questo ha
permesso il mantenimento originale del suo aspetto medievale non
cancellato da manomissioni legate a scriteriate interventi successivi nel
tempo.
La mancata
presenza dell’uomo e quindi il suo presidio hanno determinato il crollo di
qualche muro, l’asportazione di pietre e marmi, il crollo del solaio della
“sala dei baroni”.
Un turista
del 900, il kaiser Guglielmo II Hohenzollern, lo trovò in stato di abbandono ed
avvolto sempre nel suo affascinante aspetto medievale.
Poco dopo
l’architetto Ernesto Armò, docente dell’Università di Palermo, venne incaricato
dal Principe di Trabia di restaurare il castello. L’aspetto attuale è legato
proprio all’intervento dell’architetto Armò.
Altri
restauri furono effettuati nel 1970 e negli anni scorsi. Restauri conservativi
che non hanno alterato il suo aspetto e fascino medievale.
Il castello
di Mussomeli, posto a circa due chilometri dall’omonimo paese, è costruito su
una sperone calcareo alto circa 80 metri.
footage.framepool.com/es/shot/195026767-castello-mussomeli-edad-media-roca-sol
Il lato
Sud-Ovest fortificato su quattro lati a strapiombo da un muro merlato di
altezza regolare su cui sono disposte delle bifore, racchiude i corpi
residenziali che poggiano su sotterranei e cisterne; mentre il lato Nord a tre
facciate racchiude la cappella e gli alloggi militari.
Alla base
dello sperone si nota una cinta muraria costruita a difesa
della stradella d’accesso al castello. Sulla vetta dello sperone si trova
un’altra cinta muraria che racchiude la parte residenziale della struttura.
Primo Ingresso
https://www.ilviaggioinsicilia.it/castello-di-mussomeli/
Si sale
attraverso la stradella, per circa 30 metri, e si accede, traverso una
porta ad arco, all’interno della prima cinta muraria.
http://angelobattaglia.blogspot.com/2015/06/reportage-sicilia-mussomeli-cl.html
Ai lati
della porta d’ingresso si possono ammirare due
stemmi intagliati sopra dadi della stessa pietra. Il dado di destra porta
scolpito solo un giglio Lo stesso disegno pare che porti il dado di sinistra,
ma non si rileva chiaramente. Che significato ha quel giglio ? E’
probabile che i due dardi in origine portassero scolpite le armi dei Chiaramonte,
ovvero “un monte dalle cinque cime rotonde”.
Caduti i
Chiaramonte, si volle disperdere qualsiasi traccia della loro potenza e al
monte dalle cinque cime si sostituì un giglio, che probabilmente
rappresentavano il dominio di D. Giamo de Prades o lo stemma della moglie di
Don Ottavio Lanza, Giovanna Ortega che nel suo stemma riporta i gigli.
Di fronte
all’ingresso si notano i ruderi di una grande stalla, capace di contenere
cinquanta cavalli. È la cosiddetta scuderia, di cui
restano importanti ruderi con volta a botte a direttrice ogivale. È costruita
molto rusticamente secondo l’espressione architettonica militaresca. Ha una
dimensione di 37 per 6,50 metri. Al suo interno, nel muro nord, si aprono
quattro feritoie che servivano a dare luce al fabbricato. Nel muro di
mezzogiorno invece si notano quelli che dovevano essere sette piccoli armadi,
un altro più grande si trova presso la porta. Al suo interno è inoltre
possibile ammirare, grazie ai recenti restauri, la pavimentazione originale
interamente costruita con pietre di fiume. Sopra la stalla si trova il fienile.
La scuderia dopo i restauri
Interno della scueria
<a
href="https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g1511587-d2536898-i316764593-Castello_Manfredonico_o_Castello_di_Mussomeli-Mussomeli_Province_of_Cal.html#316764593"><img
alt=""
src="https://media-cdn.tripadvisor.com/media/photo-s/12/e1/71/b1/riflessi-all-interno.jpg"/></a><br/>Questa
foto di Castello Manfredonico o Castello di Mussomeli è offerta da TripAdvisor
Attraverso
la seconda rampa si arriva all’ingresso vero e proprio del Castello.
Per il
miglior stato di conservazione si pensa che la seconda cinta muraria,
a forma di poligono irregolare di 7 lati posta ad un altezza di 52
metri dal piano che circonda la parte abitata del castello, sia di
un’epoca posteriore rispetto a quella più a valle, pur non essendo diverso lo
stile architettonico. Ciò è dimostrato dallo stemma che si trova ai due lati
della porta, formato da un castello con tre torri: lo stemma dei Castellar. Ma
sulla porta esiste un altro stemma: è lo stemma dei Del Campo, “uno scudo con
tre aquile”.
La cinta
muraria inferiore, più esterna e vasta, permetteva alla popolazione del borgo
di trovarvi rifugio in caso di pericolo mentre la seconda, superiore, oltre a
contenere l’abitazione del signore feudale e la cappella, accoglieva sulla rupe
il mastio del castello.
Oltrepassato
l’ingresso troviamo un cortile delimitato a sinistra dalle mura di cinta e a
destra dalla cappella.
Corte interna del castello
Il cortile
doveva accogliere il corpo di guardia e forse le cucine e le stanze per la
servitù. Un arco a sesto acuto divide l’atrio da un vestibolo attorniato di
sedili. Un cortile poligonale, con sette lati, con il lato sud che racchiude il
corpo residenziale. La zona residenziale presenta dei sotterranei che sono
scavati nella roccia e coperti da bellissime volte a botte. Si raggiungono
grazie ad una scala a chiocciola che parte da un ingresso posto sulla parete a
sud-est del portale d’accesso. Parete che presenta un elegante bifora
archiacuta.
Numerosi
sono i vari ambienti sotterranei costituiti da:
-
Una piccola
stanza che probabilmente era l’alloggio del comandante o del carceriere;
-
La “sala
delle torture” che è illuminata da un foro ricavato nella copertura dell’ambiente
che corrisponde al piano di calpestio della corte;
-
Due cisterne; una dove confluiva l’acqua piovana e che
presenta ancora un originario intonaco a cocciopesto e l’altra adibita
probabilmente a granaio
-
È presente un altro ambiente rettangolare, posto ad
una quota ancora più bassa, che presente cinque grandi archi a sesto acuto che
sorreggono un soffitto ligneo. Un ambiente illuminato da piccole e strette
finestre strombate, tipico esempio dell’arte chiaramontana, e disposte tra un
arco e l’altro. Questa stanza è l’armeria dove i soldati si
esercitavano nell’uso delle armi. Sul pavimento si nota una botola che è venuta
alla luce durante gli ultimi restauri. All’interno del piccolo vano sono stati
trovati dei resti animali forse dovuti all’uso da parte di qualche pastore come
“mattatoio” durante l’abbandono del castello.
-
Da questo vano
si accede ad una piccola stanza, illuminata da una piccola finestra strombata,
detta la camera della morte. È
presente sul soffitto una botola che fungeva da trabocchetto attraverso la
quale il malcapitato precipitava dal piano superiore. “trabocchetto che si
trova nel corridoio trapezoidale che porta alla “stanza delle tre donne”.
-
A destra dell’ingresso della camera della morte è
presente una scaletta che conduce in un vano scavato quasi interamente nella
roccia. Questi sotterranei erano sicuramente adibiti a prigioni e a camere di
tortura. La tradizione locale li cita come “camere oscure” cioè il luogo
di atroci delitti. I rei venivano poi fatti annegare con l’acqua che veniva
immessa nel locale da buchi posti nelle pareti
(buchi che all’epoca della mia visita non avevo notato). È anche vero che alcuni di questi vani
costituivano gli accessori del castello perché destinati a magazzini, cantine,
ecc.
La “camera
oscura” /prigione
Armeria
/dormitorio
Scala
d’accesso all’armeria
Sulla destra del cortile un vestibolo conduce ad una serie di ambienti
semidistrutti di cui rimangono ben visibili solo i muri perimetrali che
presentano piccoli semipilastri sui quali erano impostati i primi conci dei
grandi archi che sorreggevano il soffitto. Una scaletta portava ad un piano
superiore oggi non più esistente. La piccola dimensione degli usci comunicanti
dimostra che queste erano stanze di passaggio e di servizio.
A sinistra il bellissimo portale che immette nella “sala dei Baroni”. Portale che fu restaurato dall’architetto
Armò nei primi anni del’ 900 e costituito da colonnine con capitelli decorati
con foglie d’acanto ricurve che sorreggono una cornice decorata a rosette sopra
la quale si trova un archivolto ogivale a raggiera.
Un grande
ambiente di venti metri di lunghezza per sette di larghezza con portali in
stile chiaramontano e da due finestre bifore. Si pensa che questa sala sia
di un’epoca posteriore dato che è una costruzione diversa dalle altre. La
maggiore differenza è nel tetto, che mancando ogni vestigia di colonne e
costoloni, doveva essere piano e a grandi travature.
Ingresso Sala dei Baroni
Dalla
“stanza dei Baroni” si accede in un piccolo corridoio e da qui nella saletta a
pianta triangolare detta “delle tre donne” (“cammara di li tri
donni”). Una saletta dai toni delicati e dall’arredamento estremamente
curato che rispecchia il gusto femminile.
Nel piccolo
corridoio si trovava un trabocchetto che dava in un sotterraneo. Qui
probabilmente trovavano la morte gli ospiti non desiderati. .
La sala dei Baroni e tutto il piano nobile sono pavimentati perimetralmente in
pietra calcarea locale e al centro con listoni di legno. Corridoio , camera
delle tre donne e altri ambienti, poco ampi, sono pavimentati con cotto
siciliano tolto dal sottopavimento della sala dei Baroni.
Stanza delle "tri donni"
http://win.lasiciliainrete.it/tour/provincia_caltanissetta/Mussomeli/Castello/1_20/pages/image/imagepage11.html
Dalla
saletta delle “tri donni” si passa in una serie di vani caratterizzati da alte
volte e dai motivi decorativi che richiamano l’architettura sveva.
La
prima sala è detta “del camino” per la presenza, a destra, di un bellissimo e
grande camino incavato nel muro.
Si passa a quella che è definita come “camera da letto”
per la presenza di un baldacchino con drappeggi di velluto rosso. Una sala
simile alla precedente ma con una differenza legata alle decorazioni dei
capitelli che presentano delle foglie uncinate. Anch’essa, come la precedente,
è coperta da due volte a crociera che sono divise tra di loro dalla presenza di
un arco mediano a costole rilevate. Gli archi posano su sei mezze colonne. Nel
muro di mezzogiorno una finestra bifora permette di ammirare un bellissimo
panorama. Adiacente alla stanza è presente una torretta semicircolare (visibile
dall’esterno perché la parte ovest della stanza poggia direttamente sulla
roccia). Dalla sala, attraverso una porta ogivale e una scaletta, si scende in
un vano sotterraneo, in parte scavato nella roccia, dove da una porticina, con
arco trilobato, si accede ad una latrina. Questi vani servivano per abitazioni
di domestici ed uomini d’armi, per magazzini, cantini, e per altri usi di
servizio. Risalendo al piano superiore si entra in una grande sala coperta da
due volte a crociera con un arco ogivale mediano che è sostenuto da un gruppo
di tre pilastrini poligonali con capitelli a decorazioni di foglie uncinate.
Segue la “sala da pranzo” anch’essa
con volta a crociera. Presenta un cucinino che doveva servire come
scaldavivande e trasformato poi nel 1600 in vasca da bagno. Un aspetto
importante da rilevare è la presenza di gradini di difesa tra una stanza e
l’altra. L’estraneo ignorando l’esistenza di queste particolari soglie finiva
con l’inciampare e permetteva al signore, in quei brevi attimi, di chiamare
aiuto.
Ricordo
quando visitai il castello, ai tempi in cui era custode il sig. Messina e prima
dei restauri della Sovrintendenza, di essere sceso nei sotterranei da una
scaletta. Alla fine della scaletta era presenta una piccola apertura che doveva
essere l’ingresso di un passaggio segreto. Dove conduceva questo passaggio ?
Alcuni , come riportano i siti, parlano di una comunicazione del sotterraneo
con il Palazzo Del Campo o del principe di Mussomeli. Una tesi da scartare dato
che il palazzo fu costruito nel 1600. Altre fonti parlano di un cammino verso
Sutera dove sulla rocca è presente una chiesa costruita dai Chiaramonte.
Panoramica su Sutera dal castello
Sutera – Quartiere “Rabato” e Monastero di San Paolino
Il Santuario, che fu edificato ad una delle estremità dell'ampio pianoro
sulla cima della rocca, è dedicato a San Paolino Vescovo. E' un edificio a tre
navate, dalle linee semplici. Fu fatto costruire intorno al 1370 dall'allora
Barone di Sutera Giovanni III di Chiaramonte. Secondo la
tradizione, il Santuario fu in parte realizzato con materiali provenienti da un
antico fortilizio, molto probabilmente di origine bizantina di cui, ancora
oggi, esistono i ruderi che, però, non sono visibili poiché solo con
un'accurata campagna di scavi potrebbero essere riportati alla luce e collocati
storicamente.
Probabilmente
la via di fuga portava in aperta campagna ed era utile nei casi d’assedio
nemico. Tempo fa sembra che alcune persone abbiano percorso la galleria, per un
certo tratto, ma poi si dovettero fermare per la presenza di un muro costruito
da qualche custode per impedire l’intrusione nel castello. Sarebbe interessante
renderlo fruibile al visitatore.
Ritornando
nel cortile si notano ancora altri fabbricati come la stanzetta del corpo di
guardia e posta un poco più in alto la cappella
del castello.
Un arco
d’ingresso con decorazione quasi simile a quello della Sala dei Baroni. Sopra
l’arco è un riquadro in cui dovevano essere impresse le insegne della Chiesa
Cattolica. L’interno è costituito da due volte a crociera anche queste divise
da un arco mediano. Nella prete di destra è presente un’acquasantiera . Nel
muro di fronte all’altare una scala a chiocciola portava alla stanza che doveva
essere l’alloggio del cappellano. Nella stessa parte si nota una lastra di pietra
forata. Si è dibattuto sul motivo della sua collocazione in quel punto. Sembra
che il principe e i suoi familiari assistessero alla funzione religiosa stando
dietro a quella pietra forata. All’inizio la chiesa era dedicata a San Giorgio,
protettore della famiglia Chiaramonte. Successivamente venne dedicata alla
Madonna della Catena protettrice dei carcerati. Nell’abside un bellissimo
intonaco d’epoca barocca che dimostra come la cappella sia stata usata per
lungo tempo.
Sulla cima
del colle si trova il “Mastio” che
la tradizione locale, forse per la sua posizione e per la sua maestosità,
chiama “mulino a vento”. (Comunque anche in base alle attente ricerche della
Sovrintendenza non è stata trovata alcuna traccia che potrebbe collegare il
qualche modo il mastio ad una sua destinazione a mulino a vento).
Dal Mastio
si nota un bellissimo panorama che spazia sui vasti feudi del castello: le
montagne di Raffe e Polizzello, importanti stazioni archeologiche; Sutera con
la sua rocca; i paesi circostanti; la montagna di Cammarata,; le Madonie e
anche l’Etna.
Un castello
imprendibile perché le finestre, le feritoie, i merli esistenti nel fianco
accessibile della rocca permettevano agli armigeri del castello di puntare gli
invasori e di colpirli. Un presidio che poteva essere conquistato solo con un
lungo assedio.
Parte della Cinta Muraria
Francobollo - Emissione Castelli d'Italia
4 -- LEGGENDE O REALTA' ? - I FANTASMI: DELLA BARONESSA DI CARINI –
DELL'UOMO DELLA VALLE - DELLE “TRI DONNI”
IL FANTASMA DI LAURA LANZA, BARONESSA DI CARINI
Laura Lanza, Baronessa di Carini e Don Cesare Lanza, suo padre,
Principe di Trabia.
Come abbiamo visto, nel 1549 il Castello Chiaramontano di Mussomeli fu
acquistato da don Cesare Lanza, già signore del Castello di Trabia, e grazie al
quale venne elevata al ruolo di Contea. Cesare Lanza, era il padre di Laura
Lanza che nel dicembre del 1543, a soli 14 anni, era stata data in moglie
a Vincenzo II La Grua, barone di Carini. Il matrimonio fu il sigillo di un
contratto economico stipulato fra i due suoceri, Pietro La Grua e
Cesare Lanza.
Ma la sventura si abbatté sulla famiglia Lanza nel 1563 quando il Barone La
Grua informò don Cesare che la figlia, da anni, aveva un rapporto d’amore
con un’amico d’infanzia, Ludovico Vernagallo.
La leggenda vuole che Don Cesare Lanza, per difendere l’onore del Casato,
cavalcò dal Castello di Mussomeli fino al Castello di Carini per affrontare la
figlia.
Don Cesare Lanza, considerando il
percorso di montagna e le tappe di sosta, impiegò circa 2 giorni a cavallo
per giungere a Carini.
Laura, infatti, abitava nel Castello di Carini di proprietà del marito La
Grua.
Don Cesare colse la figlia sul fatto e l’epilogo degli avvenimenti fu
tragico.
Laura venne ferita e strangolata dal padre e il povero conte, divorato dai
rimorsi, decise di rifugiarsi a Mussomeli, nel suo “nido d’aquila”, per espiare
le sue colpe.
Ancora oggi, sembra, che lo spirito dell’infelice Laura vaghi per il
Castello di Mussomeli alla ricerca del padre che l’avrebbe uccisa
ingiustamente.
Alcuni testimoni affermano che la sua materializzazione è quasi perfetta,
tanto che se non fosse per l’abbigliamento appartenente ad un'altra epoca, la
si potrebbe confondere per una donna realmente vivente.
Laura indosserebbe degli abiti del’500; un’ampia gonna di seta, un corpetto
sul quale avvolge uno scialle finemente lavorato.
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" LA VALLE DELL' UOMO MORTO "
Un’altra storia narra dell’amore di un valoroso soldato “milite” per la
figlia, Costanza, del barone Manfredi
Chiaramonte.
Costanza era stata promessa in moglie al re di Napoli, Ladislao d’Angiò. Un
matrimonio legato non solo a interessi politici ma anche economici.
Margherita, vedova di Carlo III° Durazzo, madre e tutrice del re di Napoli
Ladislao, avendo perduto il regno per opera di Ludovico II° d'Angiò ed
essendosi ridotto alla sola città di Gaeta, sperava con un ricco matrimonio di
ristorare le strettezze finanziarie del figlio. La regina madre era a
conoscenza delle smisurate ricchezze di Manfredi e la singolare bellezza di sua
figlia Costanza .Mandò un ambasciatore con due galee a richiedere la mano di
Costanza per il Re di Napoli. La profferta fu accettata, e alla dote
vistosissima, quale poteva convenirsi a una regina, Manfredi aggiunse ricchi e
splendidi doni. La sposa venne quindi condotta a Gaeta dalle galee del re di
Napoli, sulle quali si trovavano cavalieri della più cospicua nobiltà napoletana
; e a maggior decoro Manfredi fece accompagnare la figlia da quattro
sue galee. L'imponente corteo sbarcò a Gaeta il 4 settembre del 1389, e le
nozze si celebrarono a Gaeta,il 21 settembre 1389, fra onoranze e
feste che si propagarono nella città di Palermo.
Costanza fu Regina di Napoli fino al luglio del 1392, quando fu
ripudiata da Ladislao, interessato a contrarre più convenienti nozze, dopo la
caduta in disgrazia della famiglia Chiaramonte.
Questa è la realtà se si innesta nella leggenda di un uomo che ha perso la
sua innamorata.
Del milite al servizio del potente Manfredi non si conosce il
nome. Si sa soltanto che aveva dimostrato un grande valore militare combattendo
con successo in nome del suo signore per cui prestava servizio. Era riuscito ad
espugnare e sottomettere anche il castello di un signore nemico.
Il giovane armigero si era innamorato perdutamente della figlia del suo
signore: una fanciulla bellissima dagli occhi maliosi e dai lunghi capelli
biondi.
Forse aveva dimostrato tanto ardore in guerra proprio per lei.
Nella grande sala baronale il suo signore, alla presenza di tutti i
cortigiani e anche della propria figlia, lodò l'armigero e fu così che il suo
nome venne acclamato dalle dame e dagli uomini della corte baronale, mentre
pieno di felicità, occhi negli occhi, il prode guardava la bella castellana
sognando nel suo cuore un'insperata felicità.
La storia narra che i due giovani si amavano follemente,
Proprio come dicono i nostri compaesani siciliani, tre cose non si possono
tenere nascoste: l'amore, la bellezza e le ricchezze.
Il padre della fanciulla, riuscì a comprendere che la sua figliola si era
innamorata del giovane e tutta la simpatia che regnava nel cuore per il suo
armigero si tramutò in odio.
Il fiero signore, per il quale aveva combattuto, non avrebbe mai permesso
un tale matrimonio.
L'armigero non era un nobile, non apparteneva nè alla categoria dei
principi, né dei baroni.
Manfredi venuto a conoscenza del forte sentimento d’unione tra i due
giovani, diede ordine di richiudere il soldato nella prigione e di tenerlo
senza viveri.
Il milite riuscì a fuggire sul suo cavallo ma la sorte aveva già decretato
la sua fine.
Fu catturato dagli uomini di Manfredi e consegnato al conte. Costanza, nel
frattempo, nel trambusto generale che avvolgeva il castello di Mussomeli, stava
chiusa nella sua stanza meditando sulla triste fine che avrebbe fatto il suo
innamorato.
Il giovane fu chiuso nella prigione e lasciato morire di fame.
La storia narra che resistette per una settimana ma quando i “morsi della
fame” diventarono più forti, decise di porre fine a quella terribile agonia.
Riuscì a fuggire dalla cella, probabilmente con l’aiuto di un amico, ma non
dal castello e per sottrarsi a quella condanna decise di gettarsi giù da una
torre.
Salì sulla terrazza del castello, girò gli occhi a destra e a manca, guardò
per l'ultima volta le verdi campagne, i monti, il sole, si avvolse in un
lenzuolo e con il nome della sua bella sulle labbra scavalcò i merli e
precipitosamente raggiunse la valle sottostante, ove giacque per l'eternità.
Per la sua orrenda fine, la valle sottostante il castello di Mussomeli,
ancora oggi viene chiamata "La valle dell'uomo morto".
Si dice che ogni anno in ricorrenza della sua morte, si rivede il fantasma
di quel giovane armigero vagare per la valle ed il castello invocando il nome
della sua innamorata: “Costanzaaaaa”.
Un’altra leggenda narra della raccapricciante uccisione di un gruppo di
nobili, che vennero fatti cadere in un trabocchetto e colpiti con getti di olio
bollente.
IL FANTASMA DEL MILITE HA UN NOME…….
La storia di don Guiscardo de la Portes, fantasma di Mussomeli.
Un uomo giovane e bello secondo le ricostruzioni di Pasquale Messina,
custode del castello e “confidente” dello spirito vagante. Racconta Messina
: «Ricordo ancora con emozione la sera del 19 luglio del 1975 quando il
fantasma mi apparve per la prima volta Come ogni sera avevo accompagnato
all’uscita gli ultimi visitatori del castello. Mi stavo riposando seduto ad una
finestra quando avvertii una folata di vento. Subito dopo si materializzò anche
un corpo. Era don Guiscardo de la Portes. Era il fantasma».
Una storia, questa, alla quale a Mussomeli credono ormai tutti. Almeno da
quando lo spettro è apparso anche ad un gruppo di turisti in visita al Castello
manfredonico. Fu proprio il desiderio di vedere il Castello di Manfredi III di
Chiaramonte e, forse, anche quello di ottenere in premio per i servigi offerti
al Re Martino d’Aragona il feudo di Manfredonia (l’antico nome di Mussomeli,
ndr) a spingere il giovane de la Portes a lasciare Palermo per raggiungere
il centro della Sicilia.
Un viaggio dettagliatamente descritto dall’anima penitente al custode del
castello.
«Il mio nome era Guiscardo de la Portes» ha detto il fantasma a
Pasquale Messina…
«Nacqui in Spagna nel 1370, ed ero l’unico figlio di un ricco mercante.
Studiai in collegio dai frati a Madrid e poi frequentai la scuola di guerra.
Il nome della mia amata è Esmeralda. I suoi occhi castani si intonavano
con i suoi lunghi capelli scuri. Era una donna bellissima. Ci sposammo e
portava in grembo il mio primo figlio quando il Re Martino, nel 1392,
mi portò con il suo esercito a sedare delle proteste in Sicilia. Dopo
che Andrea Chiaramonte, che ostacolava l’ingresso dei reali a Palermo, fu catturato
e decapitato mi avviai verso Manfreda. Dopo un giorno di cammino vidi dei
soldati che galoppavano verso di me. Spronai il cavallo all’interno del bosco
con la speranza di riuscire a mettermi al sicuro. Ma quando mi voltai per
vedere se fossi riuscito a seminare gli inseguitori sentii un botto e caddi per
terra. Non so quanto tempo passò prima di rinvenire. So solo che la gamba mi
fece presto cancrena e che quei soldati dovevano essere agli ordini di don
Martinez. L’uomo respinto dalla mia Esmeralda che aveva già giurato a me amore
eterno. Sentivo le forze venire meno. Da buon cristiano avrei dovuto pregare.
In un attimo di smarrimento, però, prima di morire imprecai contro Dio.
All’improvviso avvertii di essere uscito dal mio corpo pur continuando a trovarmi
nella stessa stanza. Dopo pochi istanti fui attirato dentro una lunga galleria
buia dove sbucai in una vivida luce. Fui avvicinato da quattro spiriti vaganti,
i quali mi riportarono indietro. Il Supremo mi aveva condannato a vagare per
mille anni sulla terra per avere imprecato contro di Lui».
Qui si conclude il racconto del fantasma di don Guiscardo de la
Portes che negli anni più volte è apparso al custode del Castello
ripercorrendo con la mente le antiche sventure e narrando del desidero di
incontrare, un giorno, il figlio che Esmeralda gli avrebbe dato e che lui non
ha mai conosciuto. Un racconto fantastico che avvolge il Castello di Mussomeli
in un’atmosfera di mistero.
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LA LEGGENDA “DI LI TRE DONNI”
Dalla grande sala dei Baroni si passa in una saletta detta appunto sala “di
li tre donni”.
Il motivo ?
Un signore del Castello, prima di partire per la guerra, lasciò tre
bellissime sorelle in una torre, con viveri sufficienti per un lungo periodo di
tempo. La sua gelosia lo portò a murare ogni entrata della stanza in cui furono
rinchiuse.
La sua assenza fu più lunga del previsto e al suo ritorno trovò le tre
infelici, morte di fame, con in bocca pezzi di cuoio delle loro calzature,
rosicchiate in ultima atroce angoscia. I mussomelesi, ancora oggi,
ricordano con una certa malinconia e con tono patetico questa infelice storia e
molti, ignorando altri avvenimenti che accaddero nel castello, vanno alla
ricerca della stanza "di li tri donni".
Da quel giorno, si dice a Mussomeli, nelle notti di luna piena i fantasmi
delle tre principesse, vagando per le austere sale, tornerebbero ad affacciarsi
dalle bifore del castello.
La leggenda è collegata con qualche avvenimento reale ?
Per dare una spiegazione reale alla leggenda gli storici hanno dovuto
eseguire delle ricerche sui seguenti argomenti:
§
La famiglia Campo;
§
La scoperta di interessanti documenti ricavati dall'Archivio Storico
dei Lucchesi Palli, principi di Campofranco, che conservarono gelosamente le
carte dei baroni Campo, loro predecessori;
§
una conoscenza quasi esauriente sulla storia di Mussomeli, del castello e
dei Campo nel '400.
Attraverso l’analisi di queste direttrici storiche si è riusciti a dare una
spiegazione attendibile, svelando l'arcano mistero di questa antica leggenda
medievale.
Tralasciando i vari personaggi, avvolti veramente nella nebbia
della leggenda e della stessa storia, appartenenti ai Chiaramonte, ai Prades,
ai Castellar Perapertusa, che furono signori di Mussomeli, è tra gli
appartenenti alla famiglia Del Campo che si deve ricercare lo spunto per
risolvere il mistero della leggenda.
Il personaggio che più si avvicina al racconto è Don Francesco Del Campo.
Egli fu il secondo signore di Mussomeli, dal 1486 al 1529, figlio di Don
Pietro, che aveva acquistato la terra e la baronia, e di D. Isabella Castellar.
A 23 anni sposò D. Laura Statella, figlia di D. Heraldo, Gran Siniscalco
del Regno, portante una dote di once 576, in monete d'argento e
d'oro.
Ma il “banco” di Pietro Agiata, presso cui furono depositate, fallì
disgraziatamente poco tempo dopo, rovinato dalle speculazioni frumentarie di
Ferdinando il Cattolico.
Francesco, giovane barone, già alcuni anni dopo la morte del padre, si
trovava in uno stato debitorio rilevante. Egli partì in diverse occasioni per
imprese guerresche contro i Turchi o per sedare le rivolte di Naro e Licata
(1518), lasciando le sue tre giovani sorelle, Agata, Catarinella e
Margaritella, sole ed appartate. Le altre due sorelle, Elisabetta ed Apollonia
erano andate spose rispettivamente al barone d'Isnello e a Nicola D'Afflitto e
abitavano a Palermo. Agata, Catarinella e Margaritella furono le tre
baronessine sepolte vive ?
I documenti ci dicono che Caterina e Margarita entrarono suore
nel monastero di S. Caterina al Cassaro di Palermo, mentre Agatuzza, a soli 13
anni, faceva la sua professione al monastero del Bosco a Messina, prendendo la
veste di S. Chiara.
Nella fantasia popolare dovettero unirsi elementi storici con altri poetici
e immaginari. L’unione degli elementi portò a vedere lo stato di monacanza e di
abbandono del mondo come una "leggendaria morte" avvenuta appunto
nelle stanze "di li tri donni". Una “leggendaria morte” vista come
“distacco, isolamento dal mondo”
Certamente le condizioni economiche dei baroni Campo, che era risaputo si
trovavano in grandi difficoltà finanziarie, ispirarono questa fine tremenda.
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Castelli
Censiti – Provincia di Caltanissetta
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