Vulcano ..Arcipelago delle Eolie . Eruzione del 1888 ..L’Industria con i coatti all’interno del cratere.




Tutto sembrava tranquillo in quel lontano agosto 1888…

Nella foto, agosto 1888, di A. Silvestri è ripresa la parte settentrionale dell’isola di Vulcano
Una ripresa dal Colle S. Salvatore, all’estremo Sud dell’isola di Lipari, prima della forte eruzione
L’isola di Vulcano è unita a Vulcanello (2) per mezzo dell’istmo(3) che ha dato  origine al porto
di levante (4) e al porto di ponente (5); (6) è lo stretto di mare di separa l’isola di Vulcano dall’isola di Lipari.

La notte tra il 3 e il 4 agosto 1888 il cratere di Vulcano sussultò violentemente.


Foto di A. Silvestri, del 20 agosto 1888, ore 8,30 ant., scattata dalla Plaja di Vinci

“ ove è il segnale del cordone telegrafico sottomarino all’estremità Sud dell’isola di Lipari”.

Veduta settentrionale dell’Isola di Vulcano come si presenta dallo stretto di
mare che la separa dall’Isola di Lipari-
A sinistra (2) il cratere spento di Vulcanello e (2) il cratere attuale di Vulcano in eruzione.

Scene apocalittiche, da fine del mondo, che si susseguirono, a rapide intermittenze, per ben 18 mesi.
Il sindaco Giuseppe La Rosa, davanti ad una situazione altamente drammatica, nella stessa notte inviò subito un telegramma:
“Verificatesi tre eruzioni di ceneri e lapilli. Per ora nessun allarme”.
(La prima volta che si parlò di installare a Lipari un telegrafo elettrico “gettandosi un filo sottomarino per così mettere in comunicazione quest’Isola con la vicina Sicilia” fu nel consiglio comunale del 24 maggio 1867 . Esso giungerà intorno al 1876 mentre nel 1882 si avrà il collegamento telegrafico Lipari-Salina).

Il vulcano sin dal 1873 aveva dato dei segnali che prevedevano una sua possibile eruzione.
Si erano susseguite delle esplosioni e nel mese di settembre dello stesso anno, si era aperta
una voragine in fondo al cratere, nel lato di Nord-Est, dove era ubicata la “Grotta delle Fumarole”. Esplosioni violente con emissioni di vapori, ceneri e pietre laviche.  Attività vulcaniche che durarono per circa 45 giorni.
Delle breve eruzioni si verificarono negli anni successivi: nel luglio 1876; nel settembre 1877, nell’agosto 1878 e nel 1879.
Il 16 gennaio 1879 si manifestò un eruzione, che fu definita allarmante, con energiche esplosioni di vapori, cenere e pietre infuocate. Tutti  questi fenomeni portarono gli studiosi a prendere in considerazione l’ipotesi che qualcosa di grave si stava per manifestare.
Infatti nel cratere si allargò la depressione iniziale sul fianco di Nord-Est e si manifestarono
anche altre notevoli modificazioni tanto da rendere il cratere difficilmente accessibile
“per cui fu quasi abbandonata l’industria nel suo interno”.
Sembra assurdo ma all’interno del cratere di Vulcano c’era “un’industria”….
Un’industria creata dal generale borbonico Vito Nunziante (Campania, 12 aprile 1775 – Torre Annunziata, 22 settembre 1836) che fu anche un politico e imprenditore  vissuto nel Regno di Napoli , poi Regno delle Due Sicilie. Il Nunziante non fu solo un generale borbonico dalla lunga  e prestigiosa carriera militare ma anche un imprenditore che potremo definire capace e forse troppo dinamico.

Vito Nunziante

Nel 1830, con Ferdinando II di Borbone, venne nominato luogotenente , governatore della Sicilia.

Durante il suo soggiorno nell’isola avviò un impresa che , per quei tempi, potremo definire folle… cioè un’attività estrattiva di zolfo, allume, sale ammoniaco e acido borico sull’Isola di Vulcano. Un isola che allora era quasi disabitata e che preso in censo dal Vescovo di Lipari.
A supporto dell’attività estrattiva fece costruire delle case per i minatori, una chiesa intitolata a San Vito, fece piantare dei boschi la cui legna era fondamentale per la fornace  necessaria per la lavorazione dei minerali, e curò infine la realizzazione di una strada che permettesse di raggiungere la cima e l’interno del cratere per l’estrazione e trasporto dei minerali. Scavò anche un pozzo artesiano per portare acqua nelle case degli operai e scoprì anche una sorgente termale sulla quale fece costruire delle terme con una sezione gratuita riservata ai poveri. A Lipari dal reniccio vulcanico riuscì ad ottenere invece delle stoviglie..”di un reniccio vulcanico che c’è nell’Isola di Lipari, fece pasta, e stoviglie; che belle riuscirono come quelle di porcellana”.
“Si autorizza il sig. de Riso per la fabbricazione delle stoviglie d’una porcellana detta opaca. 182” (si legge nei decreti del governo borbonico).

L’arrivo di Vito Nunziante in Sicilia è legato agli episodi politici del tempo.
Ferdiando IV( Ferdinando III di Sicilia dal 1759 al 1816 e dopo la creazione del Regno delle Due Sicilie con il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie dal 1816 al 1825) era tornato a Napoli dopo l’ondata napoleonica e vedeva vacillare il suo potere. Fu costretto quindi a rivedere molte delle sue idee politiche. Si affidò ai vescovi affinchè gli garantissero preghiere e soprattutto consenso sociale. In questo contesto scrisse il 23 settembre 1805 al Vescovo di Lipari, mons. Antonino Riggio. La risposta di mons Riggio, datata ottobre 1805, informava il re di aver dato inizio a tutta una serie di iniziative (processioni, preghiere in Cattedrale, nelle chiese delle città e nei conventi) per far ““comprendere alla popolazione la spietata persecuzione cui soggiace l’attuale Sommo Pontefice” e “l’avvilimento cui è ridotta la Chiesa per opera di uno irreconciliabile inimico” e pregare “per ridurre i traviati al giusto sentiero e placare lo sdegno del Sommo Dio nell’attuale oppressione in cui languisce il Capo Visibile della Chiesa Cattolica, per la sicurezza dello Stato e conservazione della Maestà Vostra e dell’augusta Real famiglia ”.
Ferdinando IV non riuscì a fermare “l’irreconciliabile nemico”, cioè Napoleone Bonaparte, che qualche mese dopo costrinse il Borbone alla fuga da Napoli nuovamente in Sicilia mentre nella città partenopea insediò il fratello Giuseppe Bonaparte.
A Palermo il re visse sotto la protezione degli inglesi e anche con la paura che la stessa isola potesse essere conquistata dai francesi.  Ferdinando IV decise d’agire d’astuzia scegliendo le Isole Eolie come base logistica. Incaricò il sergente Vito Nunziante, comandante della guarnigione di stanza a Milazzo, di recarsi a Lipari per consegnare una missiva al Vescovo di Lipari. Nella missiva chiedeva al vescovo di “creare compagnie di cento persone ciascuna di volontari e di riferire, nel contempo, sulle idee politiche dei liparesi”.
Il vescovo di Lipari era mons. Silvestro Todaro di Messina, subentrato a mons. Riggio.
Fu nominato vescovo da papa Pio VII il 18 settembre 1807 e consacrato vescovo il 7 febbraio 1808 dall’arcivescovo di Messina, Gaetano Maria Garrassi (dell’Ordine di Sant’Agostino).
Il Todaro era un monaco conventuale mite, prudente  e prima di rispondere all’urgente missiva, prese informazioni, si consigliò  .. . Dopo diversi  giorni mons Todaro, per niente sereno e forse in preda allo sconforto, decise di rispondere alla missiva reale.
La sua risposta fu prudente, non voleva scontentare o preoccupare ulteriormente il sovrano, e decise di descrivere la reale situazione sociale sulle isole vulcaniche..”800 – 900 giovani liparesi, la gioventù più robusta e coraggiosa, impiegata nella Regia Marina che, essendo impedito il commercio marittimo, è rimasta l’unica risorsa dei locali. Per il resto nelle isole si soffre una grandissima povertà e la gente, lavorando tutto il giorno, riesce a racimolare appena di che vivere. Quindi vi è molta ritrosia ad assumere impegni che possano distogliere da questo compito anche perché vi è il sospetto di essere poi spediti nella Sicilia e nelle Calabrie…quanto alle velenose massime che hanno tanto perturbato e perturbano l’Europa, il re stia tranquillo, esse non sono approdate nelle Eolie e il popolo è fedele ed attaccatissimo al re chiosa il neo Vescovo”.
Cercò di tranquillizzare il re affermando che le “velenose massime” sul re borbonico non avevano raggiunto le Eolie che erano già allora meta di visitatori stranieri per le ricche testimonianze archeologiche.
Le risposte non convinsero il re che decise di mandare nelle Eolie il sergente Nunziante  per “ispezionarle”. Le isole entreranno nella vita del generale in maniera prepotente perché a Lipari conobbe una “leggiadra e ricca donzella” forse di origine napoletana mentre altre fonti  la citano originaria di Lipari o Messina, Camilla Barresi  e il 4 agosto 1809 la sposò.
Il  Nunziante era vedovo della prima moglie Faustina Onesti da cui aveva avuto quattro figli mentre dal matrimonio con la Barresi nasceranno  otto figli.
In realtà il Nunziate dalle due mogli ebbe una prole ben più numerosa ( 14 figli, 10 maschi e 4 femmine)
La scheda di Nunziante Alessandro, nato a Messina il 15 luglio 1815, (quindi figlio di Barresi Camilla), generale e deputato del Regno dalla X alla XIII legislatura e Senatore dal 1879 con nomina di Umberto I, riporta i nomi dei suoi fratelli e sorelle: Ferdinando, Antonio, Carolina, Giovanni, Maria Francesca, Giovanni Battista, Francesco, Salvatore, Caterina, Antonino, Leopoldo, Carlo e Teresa.

Nunziante Alessandro
 Ebbe molte onorificenze  prima borboniche e poi sabaude
Morì a Napoli il 6 marzo 1881, in presa ad una forte
depressione che lo portò quasi alla pazzia.

Vito Nunziante si stabilì probabilmente a Lipari perché nel 1813 il vescovo Todaro, dietro autorizzazione del Vicario Regio di Sicilia, gli concederà in enfiteusi dei terreni  a Vulcano.

Nel contratto appare “domiciliato in questo suddetto Comune di Lipari in questa medesima Marina di San Giovanni”.

Lipari – Piano San Giovanni

Marina Corta – ex Piano San Giovanni


Con due atti separati, ma entrambi datati 8 aprile 1813, ottenne in enfiteusi “dieci salmate di terra in Vulcano, in zona Porto di Levante e altrettante in contrada Porto Ponente”.
In totale “ventidue salmate e mezza di terra” che dal porto andava sino al cratere grande del vulcano.
“L’8 aprile 1813 il Vescovo di Lipari, Mons. Silvestro Todaro, diede in enfiteusi al Generale Vito Nunziante terre arenose della mensa Vescovile: Levante, Ponente fino a Monte Saraceno e alle Grotte di Lentia… il 16 aprile 1813 aggiunse altre 2 salme e mezzo presso la Fossa…. Parimenti certo Mag. Leonardo Donato ricevette in enfiteusi a nome dello stesso Nunziante altre 10 salme di dietro Porto Ponente e Porto Levante”.
La Diocesi di Lipari, importante sia dal punto di vista politico e religioso,  con i suoi vescovi aveva tentato più volte di creare delle attività estrattive o di coltivare i terreni dell’isola. I tentativi imprenditoriali erano sempre falliti anche se nell’isola risiedevano abusivamente alcune famiglie di  contadini.


Il contratto  d’enfiteusi aggiungeva.. ”con licenza di estrazione di minerali e dell’erezione di una cappella per la messa domenicale dei lavoratori”.
 Dal diario del Nunziante s’apprende che negli anni che vanno dal 1809 al 1811 si era recato diverse volte nelle isole eoliane e forse anche con esperti inglesi del settore minerario.  I borbonici avevano dei buoni rapporti, almeno in apparenza, con gli inglesi e quindi con Lord William Bentick. Un Inghilterra che in quel tempo  vantava industrie che producevano acido solforico e soda artificiale e quindi usavano lo zolfo come materia prima. Al Nunziante e agli stessi inglesi non sfuggirono le potenzialità dell’isola soprattutto nel settore minerario.
“E spesso ci andava, e con meraviglia di quelle genti, calava giù nel vano della montagna. Di dove avendo raccolto e zolfo e altre misture, tornato che fu in Sicilia. Diè a saggiare a un chimico, per sapere se fosse cosa da ridurre commerciabile: e avuto di sì, incoltamente chiese al vescovo di Lipari in censo Vulcano: il quale ebbe con agevolezza, e a sottil costo, perché nulla rendeva”
In un ulteriore concessione il vescovo concesse al Nunziante dei lotti di terreno in contrada Gelso perché “si mettessero in coltura”. Furono piantati dei fichi, viti, legumi e furono costruite anche delle “carcare” per la produzione di calce viva.


Si formò una comunità costituita dalle famiglie dei Bongiorno, Carnevale, Amendola, Trovatino, Basile e Ferlazzo.
Qualche anno dopo l’insediamento costruirono una chiesetta nei pressi di Punta “a Sciarazza” della quale non esiste più traccia.
L’8 aprile 1813 il vescovo, sempre su autorizzazione reale, concesse al Nunziante anche la possibilità d’impiantare una fabbrica per “l’estrazione e la purificazione dello zolfo e di altri minerali”.
Il Nunziante  riuscì subito ad avere le necessarie autorizzazioni.
In realtà come riporta “La Collezione delle Leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilia”, l’autorizzazione fu concessa alla moglie del Nunziante…1839 I. SEM. Privativa accordata alla
Marchese D. Camilla Barresi per la raffineria di zolfo.  d. (giorno) 20 gen. p. (pagina) 15
L’attività estrattiva poteva essere avviata ma c’era un grave problema da superare.. la mancanza di manovali perché la gente era restia a frequentare e soprattutto a vivere nell’isola di Vulcano.
L’Isola, come abbiamo visto, era di proprietà della Diocesi di Lipari e vi abitavano, abusivamente, alcune famiglie di poveri contadini. La situazione sociale delle Isole Eolie era drammatica. Anche con l’avvento del Regno d’Italia, nel 1850, la situazione non migliorò. L’isola di Lipari,  allora la più importante perché le altre isole avevano la presenza di poche famiglie, nel 1860 il mezzo di trasporto più usato era l’asino dato che non esistevano strade carrozzabili ma sentieri impervi che sfruttavano antiche mulattiere e soprattutto gli alvei dei torrenti.  Le prime strade rotabili furono realizzate solo nel 1920 e nel 1930…. Altre nel dopoguerra….
Il cimitero di Lipari fu inaugurato…nel 1867 mentre nelle isole minori e nelle stesse contrade dell’isola di Lipari si continuò, fino al 1920, a seppellire i defunti nelle fosse comuni delle chiese… “fosse strapiene…. Pigiando con pali o coi piedi i cadaveri di vecchia data per fare spazio ai nuovi” !!!!!!!!
I collegamenti marittimi postali erano affidati alla compagnia Florio che effettuava due scali settimanali a Lipari partendo da Milazzo. Nel 1880 alla “Florio” subentrarono le “Società Riunite” che effettuava un collegamento…”ogni sei settimane fra Milazzo e Lipari e… ogni quattro settimane il collegamento proseguiva sino a S. Marina e a turni alterni fino a Rinella e Malfa… Le Isole di Panarea e di Stromboli venivano collegate ogni 15 giorni mentre la linea Filicudi e Alicudi era servita, una volta la settimana, da natanti di un armatore liparese, il comandante Francesco La Cava”. Il comandante La Cava raggiungerà un ruolo importante nei traffici marittimi dell’arcipelago con ingenti guadagni.




Colle Malfa nel 1900



Nel novembre 1893 la concessione governativa dei collegamenti passò alla “Società Siciliana di Navigazione a Vapore” di Messina.  I collegamenti migliorarono sensibilmente con: un servizio giornaliero “Milazzo – Lipari – S. Marina con prosecuzione, a giorni alterni per Rinella e Malfa” e
Una corsa bisettimanale “Milazzo- Lipari – S. Marina  . che proseguiva una volta per Stromboli ed un’altra per Filicudi ed Alicudi”.
Lo scalo ordinario si faceva al largo della Marina di San Giovanni. Qui il vapore postale veniva raggiunto dalle barche dei pescatori che imbarcavano i passeggeri per portarli alla vecchia banchina del Purgatorio. Il capolinea per le isole minori era invece lo specchio d’acqua antistante “Sottomonastero dove era presente una piccolissima banchina. Le barche del rollo salpavano a spinta strisciando le carene sulle falanghe e sui ciottoli della battigia”.





La Diocesi di Lipari aveva avviato in passato un’attività mineraria nell’arcipelago per migliorare le condizioni sociali di chi viveva nell’arcipelago.
Nel 1696 il Vescovo Girolamo Ventimiglia scisse una lettera al papa: “
 “Il numero degli abitanti nella città e nel Suburbio ammonta a circa diecimila, ma quanto grande sia la povertà di cui essi soffrono non si hanno sufficienti parole per dirlo; basti pensare che soltanto due volte la settimana – e talora una sola volta – si macella un bue o una vacca per una così numerosa popolazione che, per l'estrema povertà in cui versa si nutre di frutta, di legumi e di pesce, e non raramente senzapane...Le abitazioni sono anguste, speso attendamenti e tuguri coperti di canne e di paglia che sono alla base di tutta una serie di violenze domestiche e di problemi morali…..Una gran massa di fanciulli e fanciulle ogni giorno assediano il Vescovo chiedendo pane, ma non c'è chi lo spezzi loro, benchè giornalmente ai più si dia uno scudo... Io tremo e mi rattristo vedendo più di seimila perone affamate e nude”.
Dalla lettera si può dedurre che gli indigenti nell’isola di Lipari siano la maggioranza e il Vescovo invita il papa ad avere una maggiore considerazione nei confronti degli abitanti dell’arcipelago e, anche se non chiaramente, lo invita a sgravare la Mensa Vescovile di Lipari dall’obbligo di versare annualmente una “pensione” di 500 scudi per un cardinale.
Mons. Ventimiglia si soffermò anche sugli aspetti morali e pastorali delle isole minori: “Ci sono abitanti in ognuna di queste isole ma, all’infuori di Salina, tutte le altre non hanno né Chiesa né Sacerdote né Messa né Sacramenti, cosiché queste isole e queste genti odono da lontano la Buona Novella di Cristo e il Suo insegnamento e, cosa che è assai dolorosa a dirsi, in mezzo a questi gruppi permangono ancora tracce di incivile superstizione mentre non vi si scorge segno alcuno della Religione Cristiana, tranne che a Filicudi dove c’è una Cappella non ancora portata a compimento.. La mensa vescovile vive dei frutti delle isole e del mare che le circonda. In passato queste entrate arrivavano fino a sei- settemila scudi ora però la situazione è peggiorata. Si sono esauriti i banchi di corallo ed il mare è divenuto più avaro per cui i pescatori sono costretti a spingersi nell’Adriatico o sino in Sardegna; mentre per quanto riguarda la terra le viti sono invecchiate e non danno più vino come un tempo e dai 30 mila del passato si è arrivati a 10 mila dello scorso anno. Anche le altre entrate sono state colpite. Le esportazioni dalla guerra e dal timore dei pirati; i censi per via della riduzione delle aliquote praticate dal regno di Sicilia che dal 8-10 per cento le ha portate al 5”.
Nello stesso anno 1696 il vescovo dopo aver colonizzato Alicudi e Stromboli decise di avviare la valorizzazione di Vulcano. Le risorse dello zolfo e dell’allume sfruttati, estratti con metodi razionali, avrebbero potuto creare occupazione e risorse per la Diocesi (Mensa).



Alicudi

Nel 1696 mons. Ventimiglia iniziò quindi a concedere le concessioni, arbitrati, per lo sfruttamento dello zolfo e dell’allume. Molte persone, con la possibilità di un lavoro, si spostarono da Lipari a Vulcano. I nobili erano contrari.. un atteggiamento legato alla paura che l’offerta di lavoro facesse lievitare il prezzo dei salari dei braccianti che lavoravano nei loro terreni agricoli a Lipari e a Salina e anche a Vulcano. Naturalmente non potevano creare una vertenza giudiziaria con una simile motivazione ed avanzarono la tesi che “i fumi emanati dalle officine per la raffinazione dei prodotti danneggiavano le coltivazioni non solo dell’isola ma giungevano sino a salina e a Lipari e producevano danni soprattutto alle viti”.
Il partito dei nobili entrò quindi in aperto contrasto con il vescovo e spinse i guirati ad emettere subito un bando in cui si vietava di arbitrare nell’isola di Vulcano. Naturalmente il vescovo vide in questo bando una forte ingerenza su prerogative proprie peraltro legate al proprio patrimonio ecclesiastico e scomunicò giurati e giudice.  Gli “scomunicati” ricorsero subito al Tribunale della regia monarchia per essere liberati dalla scomunica ed al vicerè perché sospendesse definitivamente l’iniziativa di popolamento dell’isola perché giudicata dannosa per l’ambiente e l’agricoltura.
Il Tribunale si trovava ad affrontare due vertenze. La prima, molto delicata che poneva in evidenza la questione che si trascinava da tempo sull’autonomia del vescovo e della sua dipendenza solo da Roma, dall’altro altrettanto complesso problema sul discorso dell’inquinamento causato dai fumi dell’industria,,, che arrivano fino a Lipari e a Salina. Era stata ascoltata un apposita commissione di esperti, istituita a Palermo sul secondo tema, che finì con l’escludere che “l’industrializzazione di Vulcano potesse produrre i danni previsti”.
Ancora prima delle due sentenze, mons. Ventimiglia assolse i giurati e il giudice ritirando la scomunica e le concessioni date a Vulcano.  Probabilmente capì che la situazione era molto delicata e non valeva la pena andare incontro a gravi conseguenze. L’idea di valorizzare Vulcano fu rinviata

Nel 1743 esplose a Messina una forte epidemia di peste che in 3-4 mesi provocò ben 40.000 vittime. Si mise in atto un cordone sanitario per cui le isole furono colpite marginalmente. Una lapide a Salina, in Val di Chiesa, ricorda il triste evento con le sue vittime. Il Vescovo adottò i provvedimenti sanitari senza tenere conto dei giurati come aveva programmato il vicerè. In quel periodo sorse infatti una controversia fra i giurati e lo stesso vescovo in merito alle competenze di giurisdizione nel concedere autorizzazioni o proibire l’estrazione dello zolfo e dell’allume. Una controversia simile sorse al tempo del vescovo Ventimiglia, sempre per le competenze di giurisdizione, solo che questa volta erano stati i giurati a rivendicare la  titolarità sulle decisioni in merito alle autorizzazioni.
Era consuetudine per gli abitanti dell’isola di Lipari, soprattutto per chi viveva in misere condizioni economiche, recarsi a Vulcano per scavare e raccogliere zolfo e allume. Minerali che venivano venduti agli stranieri per racimolare qualche soldo. Il verificarsi questi continui episodi portò i nobili proprietari terrieri di Lipari a protestare energicamente. Il motivo ?
Le esalazioni provocate da quei continui scavi clandestini per la ricerca dei minerali, danneggiava i loro campi e le colture e chiesero per questo motivo l’intervento dei giurati.
Il Vescovo di Lipari , secondo le sue prerogative dato che le stesse isole era di proprietà della  Diocesi, decise d’intervenire anticipando con le sue decisioni l’intervento della civica amministrazione, emettendo una precisa ordinanza di divieto.
Nacque un forte contrasto tra la Diocesi di Lipari e i giurati che chiesero l’immediato intervento del vicerè. Un contrasto che aveva origine storiche dove la Diocesi da sempre si era battura contro certe prerogative reali.
 Il Tribunale del Real Patrimonio condannò il Vescovo.. una sentenza che sapeva tanto di complotto per ridimensionare la forze  politica e religiosa della Diocesi di Lipari.
Infatti .. “richiamandosi a quanto accaduto al vescovo Ventimiglia sentenziò che l’isola di Vulcano, come al altre isole dell’Arcipelago eoliano erano di pertinenza del dominio del re, per cui il Vescovo era invitato a revocare subito il suo editto”.
I terreni ed i giacimenti di Vulcano erano stati sempre oggetto di una forte contesa al tempo dei vescovi Ventimiglia e di Beaomte e crearono problemi anche al loro successore mons. Francesco Maria Miceli. Un vescovo che cercò in tutti i modi di venire incontro alla povera gente, alla massa di poveri che viveva a Lipari. I terreni migliori, a Salina e a Lipari, erano in gran parte di proprietà della nobiltà mentre nelle altre isole minori (Filicudi, Alicudi, Panarea e Stromboli) i terreni..” non sono altro che montagne scoscese protette da dirupi inaccessibili; non abbondano di comodità, né sono fertili di granaglie; in esse molti conducono una vita stentata”.
Lo stesso vescovo si recò quindi a Vulcano e constatò che era possibile coltivare una buona parte del suo territorio. Decise quindi di coinvolgere i giurati dell’isola nel progetto e nei primi mesi del 1748 riferì il suo progetto al governatore e agli stessi giurati. Tutti erano d’accordo tranne un giurato, Giacomo Bonanno.  Tutti  pensavano che alla fine il Bonanno, rendendosi conto della validità del progetto anche per i suoi risvolti sociali, si sarebbe convinto ed avrebbe dato il suo parere positivo all’iniziativa.
In ogni caso i contadini, superando le prime paure perché il vulcano era da sempre visto con timore, furono inviati nell’isola a “dar principio alla scampamento”.
Sorse subito un problema che forse nessuno si sarebbe aspettato. Il Bonanno aveva l’incarico, per disposizione governativa, di controllare che “non si producessero zolfo e allume nell’isola di Vulcano” cioè non vi fosse attività mineraria.  Il Bonanno continuò nel suo diniego e riuscì a  schierare dalla sua parte molti liparesi che vedevano compromesso l’antico diritto di “pascere e legnare nell’isola”…la lottizzazione non si doveva fare e i liparesi ricorsero al vicerè.
Il 10 maggio l’ennesima risposta negativa del Real Patrimonio… direttamente al Vescovo…”l’idea di mandare gente a Vulcano a zappare e seminare le terre era di impedimento a chi voleva andarvi per pascolare o fare legna, ma era anche di grave pregiudizio alla reale giurisdizione di Sua Maestà, a cui unitamente appartiene detta isola, ne già mai si potea un tal permesso di scampare e seminare dette terre accordare né dalli riferiti Giurati”.  il vescovo venne addirittura diffidato dal compiere qualsiasi passo in quella direzione “ne ingerivi per l’avvenire in cosa alcuna, attinente a detta isola di Vulcano”.
Una sentenza assurda da parte del Real Patrimonio naturalmente in connubio o asservito alle decisioni e al potere dei Borboni…”lo jus pascendi e lo jus legnandi.. erano un’aggressione selvaggia al territorio, al manto boschivo dell’isola, e nel giro di qualche decennio distruggerà la massa arborea definitivamente”.

L’isola restava quindi anche disabitata e nel primo censimento, risalente al 1789, gli abitanti nell’arcipelago risultano 12.482. Le borgate di Lipari, intorno al 1850, sono ormai una valida realtà (Canneto, Acquacalda, Quattropani, Lami e Pianoconte).  Un discorso diverso per le altre isole che presentano un aspetto demografico decisamente inferiore: Stromboli con 700 – 800 abitanti; Filicudi circa 600; Salina con 1500 mentre pochissimi sono gli abitanti di Alicudi e Panarea, in maggior parte contadini e pescatori. La ricca borghesia, in gran parte terriera, risiedeva a Lipari.
Un discorso decisamente diverso per quanto riguarda Vulcano che appare ancora disabitata. La gente  si recava di giorno a lavorare nell’isola nell’agricoltura per poi tornare all’imbrunire a Lipari. La gente era ancora suggestionata dalle antiche storie che narravano come il grande cratere di Vulcano fosse la “bocca dell’inferno e da cui la notte fuoriuscivano spiriti maligni che imperversavano nell’isola”.  Nei campi eoliani si coltivavano fichi, gelsi, fichidindia, capperi e soprattutto ulivi, castagni, agrumi, susine, viti mentre in merito agli ortaggi: legumi, pomodori, cavalo, carciofi, peperoni. Era sviluppata anche la zootecnia. I prodotti agricoli venivano anche esportati come l’uvapassa, i capperi, i fichi secchi e vino soprattutto per quello di Malvasia che veniva mandato nei porti di Napoli e di Venezia.
È in questo secolo che s’incrementa l’esportazione della pomice raggiungendo cifre da record con ben 500- 700 tonnellate di prodotto all’anno. Quando Jean Houel nel 1771 arriverà a Lipari, sarà ospitato dal console francese don Giovanni Rodriguez. Il console s’interessava per la Francia dell’estrazione della pomice a Canneto ed Acquacalda. Venivano invece importati grossi quantitativi di grano, utensili vari, panni, stoffe e soprattutto sale che serviva per la conservazione dei pesci e dei capperi. C’era anche un industria per la costruzione dei vascelli a Marina San Giovanni. La marineria di Lipari contava 150 e più feluche che si dirigevano in Calabria e nel Regno di Napoli per rapporti commerciali.

Disegno di Houel

L’isola di Vulcano vista da Lipari

Cavatori di Pomice


Canneto – Lipari – Imbarco della pomice






L’attività di estrazione di pomice dall’isola è antichissima e sarà oggetto di una mia prossima ricerca.
Desidero solo soffermarmi sulle impressioni che molti prosatori  provarono nel vedere lavorare
in modo disumano gli abitanti delle isole.
"L'intero versante settentrionale dell'isola di Lipari è una immensa cava di pomice, parte a cielo
Aperto e parte solcata da centinaia di anguste gallerie. Vi lavorano un migliaio di operai.
Nelle giornate ventose, una compatta nuvola bianca di polvere insidiosa avvolge il fianco del monte.
Gli operai devono lasciare il lavoro: una giornata senza salario nel ristretto
bilancio di un anno di fatica mal ripagato".
Questi versi sono del poeta messinese Bartolo Cattafi che nel 1960 vite la vita quotidiana dei
cavatori di pomice. Una visione che fece conoscere al mondo la penosa storia
di produzione e questo, per ironia della sorte, in un momento in cui si credeva
che le isole fossero un “Paradiso di splendide isole, remote e selvagge”.
Vi lavoravano 500 operai che estraevano sino a due milioni di quintale di minerale all’anno..
lavorando in galleria per otto ore… naturalmente senza protezione alcuna…
un attività estrattiva che assicurava al Comune introiti milionari per le relative concessioni..
I lavoratori si ammalarono di silicosi e il loro sacrificio diede vigore alla
produttività di ricche aziende di cosmetica e di dentifrici…
Nel 1961, sul quotidiano “La Stampa”, un articolo del giornalista
Francesco Rosso descriveva in modo mirabile le ”paurose cave di pomice di un affamato paradiso”.

"Nei mesi estivi, quando il sole saetta implacabile, lavorare lassù è pauroso.
La roccia libera un calore intollerabile, la polvere cocente soffoca, la sete tortura
e i meno forti cedono.
Un capogiro, uno sforzo maldestro per muovere sulla liscia parete le gambe
impiombate di stanchezza, e la voragine si spalanca sotto gli ignari, che - storditi
dall'insolazione - hanno già perduto conoscenza ancor prima di iniziare il volo
di trecento metri verso l'abisso d'ombra...".
Nel dicembre 2005 le miniere furono chiuse… e per ironia due anni dopo,
l’attenta Procura di Barcellona Pozzo di Gotto aprì un inchiesta sull’azienda
Pomex, accertando che l'attività industriale sarebbe stata condotta in spregio alle norme
della tutela dell'ambiente: un epilogo amaro per la storia industriale delle
"paurose colline bianche" e dei suoi vecchi cavatori.




Lipari - La ditta Haan per l'estrazione della pomice
http://www.archiviostoricoeoliano.it/sites/www.archiviostoricoeoliano.it/files/Canneto%20ditta%20Hann.jpg

L’isola di Vulcano malgrado la presenza di alcune famiglie continuava ad essere disabitata e mancava la disponibilità di manovali per avviare l’estrazione e la lavorazione dello zolfo.

Il Nunziante decise di organizzare un pranzo nell’isola invitando militari inglesi e gentiluomini eoliani. I nobili eoliani furono invitati per evitare conseguenze. Avrebbero potuto creare problemi sulla creazione dell’industria mineraria zolfifera sull’isola come era successo nel passato in maniera ripetuta. Chiamò il chimico per una precisa analisi dei minerali e cominciò l’estrazione  con successiva lavorazione dei minerali: zolfo, allume, sale ammoniaco e acido borico.
Elementi che occorreva “depurare” perché non si trovavano “in natura belli e schietti” ma mischiati fra loro o “con altre mondiglie”.
Nei primi tempi, malgrado l’interessamento del chimico e le risorse  profuse dal Nunziante,  i risultati furono alquanto deludenti.
La tenacia del generale non venne mai meno… credeva fortemente nel suo progetto tanto da condizionare anche la sua vita privata.. non abbandonò il luogo di lavoro a tal punto da farsi costruire sull’isola  una capannuccia con pali e frasche--- e molti mesi ci dimorò selvaticamente”.
Alla fine riuscì a realizzare il suo progetto. Cominciò a fabbricare alloggi per i lavoratori, a piantare alberi per fare legna necessaria per essere adoperata come combustibile per le macchine di lavorazione e raffinazione. Creò sul pendio della montagna una strada che permettesse ai carri di arrivare sino in cima per caricare il minerale; stradelle per scendere nel cratere, un villaggio sempre per i lavoratori e una chiesa dedicata a San Vito con alloggio per il prete.. Ma chi erano i lavoratori che riuscirono a superare la paura di scendere nel cratere del Vulcano ? I lavoratori erano una colonia di coatti relegati a Lipari …*
Nel 1836 Vito Nunziante morì a Torre Annunziata e i suoi beni passarono ali figli e alla moglie che continuarono nell’attività. Dopo la sua morte l’isola fu visitata da un celebre scrittore, Alexandre Dumas (1802 – 1870), che diverse volte si recò nell’Italia Meridionale e in particolare in Sicilia dove giunse nella seconda metà degli anni ’30.


Il suo diario è un ricco racconto  di cinque giorni in barca nel mare eoliano insieme all’amico, il pittore Jadin, e al cane Milord. Lo scrittore considerava queste isole come una sorte di Paradiso perduto. Il capitano Arena, nocchiero dell’imbarcazione su cui Dumas ha compiuto l’escursione, ha ispirato il titolo dell’edizione originale del diario di viaggio dello stesso scrittore.
Un diario dai toni leggeri in cui l’autore è spesso attento ai sapori della tavola e ai racconti locali come un vero turista, capace però di soffermarsi anche sul  patrimonio ambientale dei luoghi visitati perché cosciente del loro valore culturale. La descrizione dei forzati che estraggono lo zolfo dal cratere di Vulcano, come in un girone dantesco,  è una pagina storica dell’epoca descritta mirabilmente dal romanziere francese.
Una delle prime tappe fu Lipari dove venne accolto con una certa freddezza dalla popolazione locale. “Le autorità locali, alle quali avemmo l’imprudenza di ammettere che non venivamo per il commercio della pietra pomice, unico commercio dell’isola, e che non capivano che si potesse capitare a Lipari per qualche altro motivo, non volevano lasciarci entrare a nessun costo!”.


A Lipari visitò il famoso “organo di Eolo, una costruzione già dipinta da Houel che anticamente si credeva emettesse suoni diversi in funzione dei diversi venti che si inserivano nelle sue cavità e che ha dato il titolo alla traduzione italiana del libro di Dumas.

“Organo di Eolo”

Houel visitò il monumento nel 1776, Dumas  nel 1835, e lo disegnò in una tavola

che è conservata all’hermitage. Dalla gente locale era chiamato “Organo di Eolo”
perché, quando soffiava il vento, emetteva dei suoni diversi a seconda della sua direzione.
Houel riconobbe subito che si trattava di una piccola sala termale.

Un “calidarium” ben conservato con il pavimento che poggiava su pilastrini per
permettere al vapore di passarvi sotto. Le pareti erano rivestite da tegole tubolari per
consentire la circolazione del vapore dentro di esse.


Lo stesso monumento fu vistato da Michel Jean De Borch nel 1777 che  sbagliando
considerò il monumento come un accurato strumento musicale ..”abbiamo trovato dopo un po’
un monumento assai singolare: è una specie di organo costruito metà in mattoni e
metà in pietra, è in un pianoro sopra un piccolo rilievo di fronte a tre montagne
tra le quali trovano spazio ben tre diversi vanti, che vengono quindi a soffiare su questo strumento;
in questo momento l’organo non produce che un debole suono, tuttavia differente nei tre lati;
da quello che si sente oggi, si può agevolmente intuire che, quando era intero,
ne produceva di molti vari. Al centro c’è una cassa in muratura sostenuta da
quattro pilastri di basalto da ogni lato, dentro l’incastro di muratura si trovano
dei tubi quadrati di terracotta che formano una specie di cassa d’organo;
questi tubi sono forati a distanza regolare, e rivestiti di grandi pietre basaltiche che li bloccano.
Ogni volta che il vento soffia sulle facce laterali di questa cassa, si incanala per i fori nella
cavità dei tubi e produce dei rombi più o meno forti. Nessun autore parla di questo monumento,
apparentemente sconosciuto fino ad oggi. Mi sembra che meriti una qualche attenzione.
Sarebbe questa l’antica grotta dei venti di Eolo, primo re di queste isole che ne hanno
per lungo tempo conservato il nome ? sarebbe questo uno strumento costruito per il
piacere di uno dei suoi successori ? Tutto attesta l’antichità della sua costruzione,
le colonne su cui poggia la cassa sono di basalto, i mattoni sono della grandezza di
quelli che si notano nella maggior parte degli antichi edifici, i tubi hanno la forma
di quelli che si trovano negli antichi acquedotti, è facile confondersi tra le
congetture a questo proposito. Vi comunico ciò in dettaglio, accompagnato da un
disegno, per darvi il paciere di dissertarne a vostro agio”.



La struttura termale fu riportata alla luce casualmente durante la costruzione
della strada rotabile che attraversa la contrada Piano Greca e che sale a Piano Conte.
Probabilmente durante i lavori una parte dell’edificio fu distrutta.
Il monumento fu quindi studiato da Bernabò Brea. La piccola terma
Usufruiva, come fonte di calore, delle fumarole naturali che dovevano essere numerose
nel costone sottostante. Ai tempi del rinvenimento queste fumarole erano
ancora attive e un tempo molto vivaci. Le fumarole probabilmente si sono attenuate
durante l’eruzione di Vulcano nel 1888. Un impianto che doveva avere funzioni
curative come le Terme di San Calogero o come le stufe di Bagno Secco

Da Lipari Dumas si recò a Vulcano..”un canale, largo appena tre miglia, separa Lipari da Vulcano, grazie all’abilità dei nostri rematori, riuscimmo a percorrere questo tragitto in meno di quaranta minuti. Vulcano, l’antica Vulcania, è l’isola eletta da Virgilio a succursale dell’Etna e
Fucina di Vulcano”.
Il capitolo riguardante la visita all’isola di Vulcano ha il titolo “I Dannati di Vulcano”, un titolo completamente diverso da quello che descrive la sua visita a Panarea..”Nel Paradiso della Pancia”. Dopo molti stenti Dumas nell’isola gustò aragoste, gamberi, vino e quant’altro può lasciare anche nel palato un piacevole ricordo delle Eolie.

Un ambiente dell’Isola di Panarea

Un ambiente dell’isola di Stromboli

A Vulcano Dumas incontrò i figli di Nunziante e con loro si recò sul vulcano per vedere le condizioni dei forzati che lavoravano nelle miniere poste dentro il cratere…” costeggiammo una montagna piena di gallerie; talune erano chiuse da una porta e anche da una finestra, altre sembravano più semplicemente delle tane di animali selvaggi”; “circa quattrocento uomini abitavano in questa montagna e secondo l’indole più o meno industriosa lasciavano abbruttire la loro dimora oppure cercavano di renderla un pochino più confortevole”.


Lo scrittore citò i sentieri, le baracche e le piccole grotte. Riguardo al numero dei forzati che lavorano nelle miniere nel 1848 era circa 400. Il personale tecnico (sorveglianti, custodi, tecnici, ecc.) era costituito da cinquanta addetti.


Naturalmente la descrizione del Dumas è antecedente all’eruzione del 1888 che sto trattando e che cambiò in maniera profonda l’aspetto del vulcano.
“Un tratto di mare largo appena tre miglia separa Lipari da Vulcano. [...] Vulcano, simile all'ultimo relitto d'un mondo devastato dal fuoco, si protende dolcemente in mezzo al mare che sibila, freme e ribolle tutt'intorno a lui. È impossibile, neanche dipingendola, rendere l'immagine di questa terra sconvolta, arroventata e quasi fusa. Non capivamo, alla vista di quella straordinaria apparizione, se il nostro viaggio era solo un miraggio e se quella terra fantastica sarebbe svanita davanti a noi nel momento in cui avremmo creduto di posarvi il piede. [...]”

Dumas  riportò la sua visita al cratere da cui traspare una certa commozione e l’incredulità per l’ambiente in cui erano costretti a lavorare e a vivere per quella triste condizione di forzati …” …e così cominciammo la salita verso il cratere del primo vulcano. Sotto i nostri passi la terra rimbombava come se camminassimo sopra catacombe: non ci si può nemmeno immaginare la fatica di una tale salita, fatta alle 11 del mattino, su un suolo infuocato e sotto un sole abbagliante. La scalata durò circa tre quarti d’ora e alla fine ci trovammo proprio ai bordi del cratere. Era spento e la sua vista non presentava nulla di particolarmente interessante, quindi ci dirigemmo subito verso  il secondo cratere, che era posto a circa mille piedi sopra il primo ed era in piena attività. Mentre camminavamo ci trovammo a costeggiare una parete piena di  grotte; alcune era chiuse  da una porta e a volte persino da una finestra. Altre si presentavano, invece, come delle vere e proprie tane di animali selvatici. Si trattava del villaggio dei forzati. Su quel monte vivevano all’incirca 400 uomini. Il loro diverso grado di zelo o di negligenza faceva sì che alcuni lasciassero degenerare lo stato della loro dimora, altri invece tentassero di renderla più dignitosa.
Salimmo per un’ora circa e arrivammo al bordo del secondo cratere. In fondo ad esso, proprio in mezzo ai fumi che ne uscivano, c’era un cantiere in cui si muoveva un intero popolo. L’immensa folla era di forma ovale e il suo punto più largo era lungo all’incirca mille passi. Vi potemmo scendere per un comodo pendio circolare, che era il risultato del franamento di scorie vulcaniche e serviva anche per il trasporto delle carriole. Impiegammo venti minuti per scendere fino al fondo di questa gigantesca caldaia. Più scendevamo, più aumentava il calore del sole insieme a quello del terreno. A quel punto dovemmo fermarci per un po’ perché l’aria era irrespirabile. Ci voltammo indietro per vedere dove fosse finito Milord e lo scorgemmo seduto  serenamente sul margine del cratere. (Il cane Milord in realtà si era “scottato” nell’acqua delle emissioni gassose). Probabilmente per la paura di una qualche novità simile a quella già sperimentata, aveva ritenuto prudente non seguirci oltre. Dopo pochi minuti cominciammo ad abituarci alle tremende zaffate di zolfo che provenivano da un’infinità di piccole fessure dentro le quali si vedevano le fiamme. Di tanto in tanto, però, dovevamo arrampicarci su qualche masso di lava un po’ sopraelevato dal livello di terreno, per respirare un po’ d’aria meno soffocante. Intorno a noi si aggiravano persone che sembravano essere ormai così abituate a quell’aria da non risentirne per nulla. Persino i signori Nunziante, (i figli di Vito Nunziante), sembravano esservi ormai abituati, ed erano capaci di restare per ore ed ore sul fondo del cratere senza soffrire particolarmente di quel gas per noi quasi insopportabile.
Questi sventurati condannati ai lavori forzati presentavano un aspetto davvero curioso. Le diverse vene del terreno dove erano costretti a lavorare conferivano loro diversi colori: alcuni erano gialli come i canarini, altri rossi come gli uroni, altri imbiancati come i pagliacci, altri invece scuri come i mulatti. Vedendo questo bizzarro spettacolo ci pareva difficile pensare che ciascuno di essi fosse un ladro o addirittura un assassino. Ci colpì soprattutto un ragazzino che poteva avere sì e no quindici anni e aveva un viso dolce e quasi femmineo. Chiedemmo quale fosse stato il suo crimine e ci fu risposto che a soli dodici anni, aveva accoltellato a morte un cameriere della principessa della Cattolica. Dopo aver osservato attentamente quegli uomini, passammo ad esaminare meglio il terreno. Ci accorgemmo che più si avvicinava al centro del cratere e più esso diventava molle e addirittura acquitrinoso, tanto da affondare con i piedi. Se vi si lanciava un sasso, questo finiva per scomparire, affondando lentamente nel fango. Rimanemmo un’ora intera nel cratere e poi cominciammo a risalire accompagnati dalle nostre due gentile guide che ci scortarono passo dopo passo fino sul bordo”. (Le due guide erano figli del generale Nunziante).



Come abbiamo visto gli eredi del Nunziante, i figli e la vedova Barresi, continuarono a gestore l’attività mineraria fino a quando nel 1873 entrarono  in contatto con James Stevenson, un ricco signore di Glasgow. 

James Stevenson nacque a Haille, nel Galles e visse dal 1822 al 1903.
Fu un umo di grande cultura con molteplici interessi culturali nei campi della:
chimica, della navigazione fluviale, delle scienze in genere.
Lo Stevenson fondò la cattedra di Scienze Naturali al Free Church College di Glasgow.
La sua intraprendenza nel campo scientifico legata al piacere della conoscenza dei luoghi, lo
spinse nelle Isole Eolie dove si dedicò prima all’esportazione della pomice di Lipari e successivamente
all’estrazione dello zolfo. Da scienziato studiò la possibilità di sfruttare l’energia termica del vulcano.

Lo scozzese, che si trovava nell’isola perché esportava la pomice di Lipari in Inghilterra, si mostrò interessato all’acquisto di grandi quantitativi di zolfo da spedire  in Inghilterra e in Francia.   Lo Stevenson, colpito dal grande giacimento riuscì a convincere  gli eredi di Nunziante a vendere l’immobile.
In realtà non fu un semplice atto d’acquisto. I beni del Nunziante furono venduti nel 1874 all’asta e acquistati da un certo Domenico Ranieri a nome di “Stivenson di Glasgow” per una somma di 5.450 Lire, con atto registrato a Messina al numero 2950.
Nel 1877 l’inglese acquistò altri terreni a Vulcanello, Porto e Grotta Abate per la somma di 5.100 Lire.
La notizia delle vendite dei terreni fu anche riportata da un giornale francese “La Croix” del 14/03/1896.


(Probabilmente in seno alla famiglia Nunziante erano sorti dei contenziosi fra gli eredi perché esistono dei documenti nell’Archivio di Napoli in merito a delle divisioni:
-          Lipari 1845, 8 febbraio – “Divisione dei fondi di Lipari ed isole adiacenti appartenenti alla famiglia Nunziante, con le modifiche fatte dal procuratore signor D. Angelo Florio”(11.438)
-          Lipari 1845, 8 febbraio – “Avviso per la definitiva aggiudicazione dei beni urbani e rustici siti in Lipari di pertinenza di Alessandro, Francesco, Salvatore, Caterina, Antonino, Leopoldo e Teresa Nunziante e Camilla Barresi” – 11.439)

L’industria, che come abbiamo visto era ben avviata da tempo, con lo Stevenson fu incrementata anche con attrezzature più moderne.  Impiantò anche i primi vigneti nell’isola, il solforoso vino di Vulcano che era ben conosciuto dai suoi amici di Glasgow. Sono ancora presenti, nel Porto di Levante, le antiche cantine dove il mosto era tenuto a fermentare. Cantine oggi  adibite a ristorante e luogo di ritrovo.

https://www.facebook.com/cantinestevensonvulcano/


Azienda Vitivinicola della Sign.ra Paola Lantieri
Contrada Punta dell’Ufala – Vitigni: Malvasia di Lipari e Passito

L’azienda “Soffio sulle Isole” ha impianto nel 2010
un vigneto in contrada “Piano”, una zona molto fertile dell’isola.
Nell’azienda oltre al vitigno “Ciliegiolo”, una varietà del Sangiovese e che
non è autoctono dell’isola, è stato piantato anche il vitigno “Malvasia delle Lipari”.
Una vinificazione che ha dato ottimi risultati con la produzione di un vino
bianco con un eccezionale profumo.(Etichetta “Donna allo specchio”).




Grazie all’attività agricola dello Stevenson,  l’isola di Vulcano assunse un aspetto rigoglioso con grandi coltivazioni di fichi, , uva ed  alberi da frutta. Le strade erano costeggiate fa filari d’oleandri e un grande e suggestivo glicine circondava, come a proteggerla, la villa che fece costruire e chiamata “il palazzo dell’Inglese”.

Il Palazzo dell'Inglese




Il “Palazzo dell’Inglese” è oggi una discoteca  e si trova in vicinanza della “Fossa dei fanghi”.

Vulcano – Fossa dei Fanghi

Gli aliscafi attraccano al Porto di Levante e a destra del molo si può raggiungere la sommità
del faraglione di levante (circa 36 metri) da cui si vede Vulcanello, due crateri spenti, cioè l’antico vulcano
sorto nel 183 a.C. da eruzioni sottomarine. È collegato all’isola da un istmo di sabbia e lava che ha creato
due baie. A levante, il laghetto naturale dei fanghi caldi, noti anche in epoca romana per la cura di forme
 reumatiche e malattie della pelle. L’odore è forte ma sono presenti delle fumarole che riscaldano
il basso fondale per cui è consigliabile entrare in acqua con le scarpe.
A ponete c’è invece la spiaggia costituita sa sabbia vulcanica finissima e  nera che è delimitata
a sinistra dallo Scoglio delle Sirene e a destra da Vulcanello in cui si trova la Valle dei Mostri.
Valle dei Mostri per la particolare forma delle rocce che, modellate dal vento e dagli agenti
atmosferici, presentano delle caratteristiche forme.

Faraglione di Levante

Vulcano – Faraglione di Levante

Piantagione di juncu lipari

 Scoglio delle Sirene

Scoglio delle Sirene e Porto di Levante

Stevenson mostrò anche un grande interesse per l’archeologia tanto da acquistare i corredi  ceramici di ben venti tombe greche che furono portate alla luce a Lipari nel 1879. Reperti che donò alla “Glasgow Arte Gallery Museum”. Una significativa e preziosa collezione di terrecotte di Lipari che sono andate perdute.

Per i lavori di estrazione e lavorazione del minerale, vennero sempre impiegati i condannati ai lavori forzati che erano ancora alloggiati  in modo precario in “cameroni” e .. cosa assurda, nei quali si lavorava anche il minerale. 


L’attività eruttiva cessò nel mese di giugno, sempre del 1879 e per i successivi nove anni non ci furono manifestazioni vulcaniche degne di nota.

Dopo 15 anni, dall'inizio delle attività estrattive, ci fu la terribile eruzione che pose fine a tutte le attività estrattive.
La notte del 3 agosto 1888 il grande risveglio del Vulcano.. una violenza mai registrata a memoria d’uomo sia nell’isola di Vulcano che nelle altre isole delle Eolie.
L’eruzione fu preceduta, nella notte tra il 2 e 3 agosto verso la mezzanotte, da un leggero terremoto che fu avvertito dal fanalista che si trovava di guardia sulla Torre del Faro di Gelso (una torre alta 33 metri).

Il faro di Vulcano Gelso disegnato dall'Arciduca

Il faro di Punta Gelso fu costruito in sostituzione del vecchio faro borbonico che si trovava sulla
Punta del Rosario e venne inaugurato l’uno maggio 1887 mentre a Pignataro di Lipari
s’inizia a costruire un faro nel 1866 sul sito della seicentesca chiesa di San Giacomo che
fu concessa dal vescovo. Fra il 1890 e il 1894 iniziarono i lavori anche per faro
a Strombolicchio che verrà ultimato solo intorno al 1925.

 L’eruzione iniziò con l’emissione di una grande fumo nero, rischiarato da frequenti lampi di scariche elettriche, dovuti ai contrasti in quota fra temperature diverse, e da forti detonazioni che  piano piano si fecero incalzanti.


L’intensità eruttiva stava crescendo… infatti verso l 4,30 cominciarono a verificarsi forti esplosioni, che a brevi intervalli,  davano fortissime proiezioni di vapori, ceneri e massi infuocati. Massi che ricadendo per un raggio di due chilometri dal centro del cratere, determinavano dei danni specialmente sul lato Nord, oggi l’abitato di Porto di Levante, che aveva vaste aree coltivate, “un caseggiato costituito dalle officine sparse della fabbrica, dall’abitazione del signor A.E. Narlian (amministratore e comproprietario di Stevenson), del reclusorio dei coatti, addetti pure ai lavori. I massi che piombavano come grandine, di cui alcuni voluminosi fino a mezzo metro cubico e più, sfondarono i tetti, incendiarono i depositi di zolfo accumulato nei magazzini, divamparono qua e là parzialmente delle vigne, dei boschi di ginestre e di piante arboree”.


L’abitazione del signor A.E. Narlian (amministratore e comproprietario di Stevenson)

La barca del signor A.E. Narlian (amministratore e comproprietario di Stevenson) posta
nel porto di Levante, squarciata da una pietra lavica

L’industria colpita dai massi

L’abitazione di un coatto colpita da un masso lavico


Gli abitanti dell’area di Vulcano Porto e Vulcanello, fortemente allarmanti, vennero evacuati nella vicina Lipari, mentre quelli del Piano e di Gelso, sia pure intimoriti non subirono danni particolari se non la pioggia di cenere. Dopo le prime esplosioni forti, altre più deboli ne succedettero fino alle 10 del mattino, quando avvenne una ulteriore violenta eruzione, che eguagliò per intensità la prima.
Dopo le prime eruzioni il vulcano manifestò una tregua di circa 12 giorni, durante i quali diede la sensazione di ritornare allo stato di normalità. Ma all’alba del 19 agosto ricominciarono le eruzioni con esplosioni violente, sempre accompagnate da forti detonazioni, e con abbondante cenere carica di elettricità e mista ad altro materiale grosso e minuto. Il prodotto eruttivo, rappresentato da una immensa colonna di vapore e di cenere, spinta a due e più chilometri di altezza, si diffuse nell’aria acquistando un aspetto grandioso.

Vulcano due mesi dopo l’eruzione

L’attività eruttiva, ad intermittenza, andrà avanti per circa due anni per cessare definitivamente.

Deboli eruzioni intermittenti di vapori e ceneri, come si presentavano nell’interno
di Vulcano il “dì 21 settembre 1889”
(in questa foto, primo tempo e  nella successiva, secondo tempo”

Vedi  descrizione foto sopra


“Lo stato dell’interno del cratere di Vulcano pochi giorni dopo cessate le eruzioni, cioè
nel giorno 7 aprile 1890. Si vede una corona d’innumerevoli fumaioli sulla parete interna
occidentale del cratere – fotografia di G. Mercalli”


“Bomba pomiceo-vetrosa eruttata da Vulcano nel 1889. Sullo sfondo del disegno si vedono
le falde inferiori del fianco settentrionale esterno del cratere di Vulcano e una parte della corrente
delle Pietre Cotte- Fotografia presa sul luogo da G. Mercalli)

Tutto era andato distrutti: i vigneti, l’industria mineraria, le case danneggiate e anche il famoso “Palazzo dell’Inglese”.
C’erano state fortissime emanazioni di vapori solforosi in tutta la zona di Levante e fin sotto il Palazzo dello Stevenson.
La moglie terrorizzata dello Stevenson, obbligò il marito a fare ritorno in Scozia con il suo bellissimo battello di a vapore “Fire Fay”.


Lasciò nell’isola un curatore e l’11/03/1902 fece testamento lasciando molti suoi beni a istituzioni ecclesiastiche. I soldi per queste donazioni non bastarono e, dopo la sua morte, i terreni sull’isola furono venduti (alcune fonti parlano che fu venduta solo una parte) ed acquistati, il 28 gennaio 1903, da Giovanni Conti, Ferdinando Conti e da Giuseppe Favaloro.
Vulcano solo negli anni 50 cominciò ad essere frequentata dai turisti.
Nessuno  ha parlato mai di quanti furono i detenuti coatti che morirono in quella tremenda eruzione del Vulcano.. nell’interno del cratere c’erano delle abitazioni.. come riportava il Dumas.. ma le cronache del tempo non misero mai in risalto questo aspetto e così tutto passò nel silenzio…

 Durante l’eruzione vulcanica, Giuseppe Mercalli ricevette l’incarico del Ministero dell’Agricoltura e Commercio di studiare l’eruzione dell’Isola di Vulcano. Uno studio che condusse con Orazio Silvestri e Giulio Grablovitz e che permetterà agli studiosi di mettere a fuoco la dinamica del vulcano e i suoi prodotti emessi nell’eruzione.



 Prof. Orazio Silvestri

Il prof. Giulio Grablovitz

Il termine di eruzioni vulcaniche venne introdotto da Mercalli per descrivere l’eruzione di Vulcano che fu caratterizzata da una serie di eventi complessi  di breve durata, secondi o minuti, e con l’emissione di una lava molto viscosa. La sua relazione..” Si verificano per la rapida decompressione fino alla violenta liberazione di un accumulo di gas magmatici o di interazione con acqua al di sotto del tappo rigido di lava viscosa. Tra i prodotti lanciati durante le fasi esplosive, blocchi, da metrici e centimetrici, di materiale magmatico ancora fuso che si raffredda durante le traiettorie balistiche dando le caratteristiche bombe a crosta di pane. 23 ottobre 1888, la foto scattata da Mercalli testimonia la fase iniziale di un esplosione, definita Vulcaniana dal cono attivo de La Fossa e viene così descritta dallo stesso Mercalli: il quadro di queste esplosioni di Vulcano era ben diverso da quelle delle esplosioni stromboliane. Le più forti cominciavano con un pino assolutamente nero di giorno, terminato a punta che si alzava rapidissimo, come una freccia, raggiungendo in pochi secondi parecchie centinaia di metri d altezza, mentre dai suoi fianchi e dalla cima partivano strisce nere di massi e di fini detriti. Spesso, massi neri molto voluminosi, salivano più in alto sopra la nube vulcanica, nella quale guizzavano i lampi seguiti da tuoni secchi, brevi, ben diversi dal boato che accompagnava il principio dell’esplosione. In evidenza una bomba a crosta di pane di dimensione metrica espulsa dal vulcano durante l eruzione del Si vedono molto bene le crepe e fessure superficiali, da cui il nome, dovute ad un aumento di volume per espansione dei gas contenuti nel nucleo ancora fuso. Sono pezzi di lava gonfiati dai gas rimasti imprigionati nel loro interno e poi schiacciati per l urto subito cadendo a terra ciò dimostra che ancora erano, almeno nell interno, parzialmente pastosi. Interno di una stanza del Reclusorio dei Coatti situato alla base del cratere con la volta sfondata da uno dei massi espulsi dal vulcano. L’attività estrattiva ha avuto nella storia dell’ economia delle isole Eolie un importanza fondamentale, poiché i minerali di natura vulcanica (ossidiana, pomice, zolfo e allume) hanno rappresentato l’elemento di sviluppo e di contatto della società eoliana con il resto del mondo”..

I PRIGIONIERI COATTI NELLE ISOLE  EOLIE

L’isola di Vulcano rimase per secoli disabitata e malgrado i tentativi della Diocesi di Lipari  fu scarsamente abitata. La storiografia ci ha tramandato un aspetto dell’isola di Lipari legata a luogo di reclusione dove rinchiudere gli avversari politici del potere.
L’utilizzazione di Lipari come luogo di confino a detenzione risaliva indietro nel tempo addirittura all’epoca di Roma Imperiale. Nel 295 d.C. Settimo Severo fece uccidere Caio Fulvio Plauziano che era stato accusato da Caracalla, primogenito dell’imperatore, di aver complottato contro di lui. I figli di Plauziano, Plauzio e Plautilla, moglie dello stesso Caracalla, furono inviati a Lipari dove morirono fra privazioni e stenti. All’inizio del V secolo vi fu mandato Attalo Prisco, che Alarico, re dei Visigoti, aveva voluto imperatore di Roma.. e nel VI secolo i bizantini relegarono nell’isola chi aveva favorito i Goti; nel IX secolo Nicofero I, imperatore d’oriente vi fece rinchiudere in prigione abate e vescovi che avevano ostacolato il patriarca d’Oriente.

Plautilla, la moglie quattordicenne di Caracalla

Nel 510 re Teodorico vi relegò per punizione il curiale Iovino, colpevole di un omicidio. Ruggero Il Normanno, intorno al 1083, fece donazione dell’isola, insieme ad altre dell’arcipelago eoliano, al Monastero di “San Bartolomeo” dei frati benedettini di Lipari e retto dall’abate Ambrogio. Isole che al tempo erano disabitate e soggette alle frequenti incursioni di pirati. Per il Normanno la chiesa locale assumeva un ruolo importantissimo nel Regno perché punto strategico nel Tirreno. La Chiesa colonizzandole avrebbe permesso un incremento della popolazione in isole che erano quasi disabitate e, di conseguenza, una valorizzazione delle risorse naturali.
Le isole furono  “sfruttate” come luogo di detenzione durante i Borboni che in questo modo attuarono il problema di “colonizzazione sociale !!!!!”.
La data d’inizio della “colonizzazione” fu verso il 1763 quando i Borbone mandarono nell’Isola di Ustica quaranta “sterrati” (ex terra, legati) che dovevano costruire le fortificazioni dell’isola. Con la loro grande sensibilità riuscirono a costruire la storia dell’isola che resterà legata ai confinati per ben due secoli… fino all’ottobre 1961.
Ai confinati comuni i Borboni non potevano non aggiungere i contestatori politici, i patrioti del Risorgimento, gli anarchici di fine Ottocento oppositori del regime . poi durante il periodo fascista l’isola di Ustica fu sgomberata dai detenuti coatti per dare spazio ai politici antifascisti come Gramsci, Ferruccio Parri, i fratelli Carlo e Nello Rosselli e tanti… tanti altri.

Ustica… I coatti






Una foto che ritrae Antonio Gramsci e altri detenuti politici, risalente alla
fine di dicembre del 1926. Gramsci era arrivato nell’isola il 7 dicembre e vi
aveva trovato solo “4 amici” che diventarono “12 l’11 successivo e 30 il 19”.
Gramsci alloggiò in una casa presa in affitto assieme ad Amedeo Bordiga,
Paolo Conca, Giuseppe Sbaraglini, Ugo Sansone ed Ettore Madrucciani.
 Il governo fascista decise di destinare i confinati politici solo ad Ustica e Lipari.
Nell’aprile del 1927 erano 300 e quasi 400 alla fine di settembre.



https://www.tripadvisor.it/LocationPhotoDirectLink-g608928-d1437334-i60755253-Le_Terrazze_Sul_Mare-Ustica_Islands_of_Sicily_Sicily.html

Nell’isola di Lipari risale invece al 1790 l’istituzione, da parte del governo borbonico, di una nutrita colonia di domiciliati coatti calcolabile fra le 700 e 1000 persone e potenziata dai regnati di Savoia. Una colonia coatta che durò fino al 1915.
Al domicilio coatto venivano inviati i condannati per reati comuni e reati politici. Per i colpevoli di reati comuni l’obiettivo era di allontanarli dal proprio ambiente in cui erano soliti delinquere con l’illusione, che collocate in un ambiente diverso, ristretto e controllato, e con l’opportunità di lavorare avrebbero avuto la possibilità di redimersi ( vagabondi, gente senza lavoro, ecc). Generalmente per  questi condannati di reati comuni il domicilio coatto era di cinque anni. Avevano la possibilità di girare l’isola ma dovevano passare la notte nel castello di Lipari.

Lipari – Castello – Xilografia del 1892

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I detenuti venivano Stipati in cameroni privi di pavimento – racconta Leopoldo Zagami -, in maggior parte senza finestre, senza luce e con difficoltà di areazione, tranne quella proveniente dalla porta di accesso, che al tramonto veniva da i sorveglianti chiusa dall’esterno, essi trascorrevano le ore notturne in una situazione veramente spaventevole. In ogni camerone venivano ospitati oltre sessanta coatti; tra un letto e l’altro non vi era spazio di sorta sicché tutti i letti, per il modo come erano ammassati, venivano a costituirne quasi uno solo… Niente lenzuola, né guanciali e coperte, ma un magro pagliericcio ripieno di paglia spesso marcita, per cui quasi tutti si coricavano vestiti, specie nel periodo invernale. Molti usavano mettere sotto una delle testate del pagliericcio un sasso perché così rialzato potesse adempiere anche alle funzioni di cuscino.
Tutti i cameroni erano privi di qualsiasi locale igienico, non esistendo alcun tipo di fognatura o pozzo nero; per le naturali necessità i coatti nelle ore notturne provvedevano con dei ‘buglioli’, ovvero con dei recipienti di legno, che rimanevano entro gli stessi cameroni per tutto il corso della notte e che solo al mattino venivano portati via e svuotati. Vecchi e giovani, uomini di tutte le età, vivevano in un’atmosfera di vizio e di degenerazione”.
Il direttore della colonia aveva la possibilità di aggravare le punizioni. Si poteva quindi essere puniti con la cella a pane e acqua da uno fino a trenta giorni e per i reati più gravi anche con l’applicazione della camicia di forza, con la cella oscura o ancora con la camicia di forza e i ferri alle mani e ai piedi. Inoltre nei giorni di punizione si era anche privati del sussidio giornaliero,

I coatti aspettano la massetta

 A questi aspetti sociali si aggiungevano nell’isola anche quelli relativi alle condizioni igieniche e sanitarie aggravate dalla presenza dei coatti.

Erano infatti diffuse le malattie provocate dalla povertà e dalle precarie condizioni igieniche.
In particolare erano diffuse il tifo e il vaiolo e malgrado la terapia diffusa “della pratica dell’innesto del vaiolo”, c’era la paura opprimente di essere scoperti. Una volta colpiti gli sfortunati malati si isolavano negli antichi casolari di campagna aspettando la fine della loro vita. Il minimo di sussistenza veniva  garantito dai parenti che gettavano da lontano il cibo per non avvicinarsi ai malati anche se persone a loro care.
C’è una lettera di Mons. Natoli, datata 1 gennaio 1889 e inviata al Vicario foranei di Salina,  con la quale l’Amministratore Apostolico si rammarica per le notizie che giungevano dal Prefetto di Messina..”a Rinella sono morti, scappati da Alicudi, alcuni vaiolosi privi di ogni aiuto e soccorso. Essi avevano trovato riparo in alcune grotte “come belve”. Ma la cosa più grave, come dichiarava il Vescovo, che i preti di Salina, “ministri di carità”, in numero di quindici, si erano rifiutati di assistere gli infermi.


Rinella alla fine dell' 800

Le grotte di Rinella. Oggi rifugio di barche e che alla fine dell’ 800 furono ricovero dei vaiolosi

Ci sono delle documentazioni storiche proprio sulla situazione igienico-sanitaria di quei tempi.
Don  Ferdinando Rodriguez, dottore in medicina e filosofia, fratello del canonico Don Carlo, citò le malattie contagiose delle palle che avevano origine “dal luogo arido e secco” e dalla cattiva alimentazione degli abitanti.
“E siccome il contagio diffonde le malattie, la prima indicazione sarebbe l’isolamento del rognoso e della sua roba, la pulizia privata e pubblica che a Lipari in quel periodo era molto carente. La moltitudine era miserabile e sudicia; in ogni “tetro abituro” coabitava con gli uomini un “immondo animale” e il popolo si nutriva di cibi malsani come il ferrigno caulo, farina di granturco, legumi, tonnina..”
Luigi Salvatore d’Austria osservò che la scabbia “ è comune tra la povera gente che abita case piccole e malsane che si nutre scarsamente abusando di alimenti salati. Fino al 1870 colpiva in media 200 persone l’anno con recrudescenze che spingeva il dato a 900. Oggi ( 1890) è in fase decrescente.”
Diffuse erano le “affezioni reumatiche” che costituivano il 30% delle malattie: reumatologie fisse o vaganti congiunte con forme catarrali che causano anche infezioni gastro-reumatiche, gastroenteriti, pleuriti e pnoumopatie. Colpivano in genere 1200 persone l’anno. Frequenti anche le affezioni biliari ( 600 persone l’anno).
Nel 1890 era anche presente la sifilide.. “La sifilide ha sparso la sua influenza in ogni classe sociale. E la sifilide produce la tubercolosi, la rachitide e la stuma…E tutto ciò lo si scorge soprattutto nei bambini abbandonati, nei figli del  meretricio. La gotta, la litiasi ed i mali uretro-vescicali, la stuma e il rachitismo possono congiungersi alla sifilide, ed anche essere da questa prodotti”.
Per risolvere il problema, il Rodriguez propose al Comune di riunire le meretrici del paese per sottoporle ad accurate visite mediche e cerusiche, oltre a condurre gli infermi nei nosocomi civili, per cercare di arginare il fenomeno che era “sorgiva inesausta di pubbliche calamità”.

Anarchici e coatti al castello. Non sempre questi ospiti creano problemi. Qui sono raccolti in un momento di riflessione pasquale con un predicatore evangelico.

La diffusione della sifilide era legata anche alla presenza della diffusa prostituzione e questa a sua volta alla presenza dei detenuti coatti. Una colonia fra 750 e 1000 unità era difficile da controllare..
I detenuti coatti ricevevano dallo Stato un assegno, la “massetta”, di 50 centesimi al giorno. Per integrare questo magro sussidio, i detenuti lavoravano presso i privati. Ottenere un lavoro non era facile a causa del loro passato e poi non potevano allontanarsi dalla cerchia cittadina, dovevano a mezzogiorno presentarsi all’appello pena il carcere, non potevano andare a lavorare in campagna.
Quindi avevano solo dei lavori saltuari, di poche ore, spesso umili e faticosi che facevano comodo alla borghesia locale perché remunerati pochissimo e per calmierare le richieste salariali dei lavoratori liparesi.
La “massetta” dello stato e i pochi spiccioli che riuscivano a racimolare con i lavori saltuari, finivano alla lunga con il portare i detenuti coatti ad indebitarsi con i bottegai o i borghesi e finivano con il diventare dei veri e propri schiavi. C’era in atto spesso anche una vera e propria persecuzione da parte dei creditori che rivendicavano le somme dovute per cui i detenuti facevano di tutto per farsi trasferire in altri penitenziari fiori Lipari  a Gavi.
 Non tutti i liparesi erano contrari alle presenza del confino nell’isola perché per molti assicuravano delle modeste entrate finanziarie e per altri offerta di lavoro a basso costo. Comunque erano degli emarginati perché  erano rarissimi i matrimoni con le isolane.
Anche se la loro presenza poteva portare un utile a qualcuno, i danni che provocavano erano ingenti. Mons. Bonaventura Attanasio in una relazione che inviò alla santa Sede, riportò che “Coloro che qui nell’isola, scontano la pena del domicilio coatto vivendo in ozio continuo, si lasciano irretire dalla turpe corruttela, dando pubblici scandali che vanno poi a contagiare i costumi di molti. Da qui il fenomeno delle donne peccatrici, dedite ad ogni genere di oscenità, ingannate esse stesse e ingannatrici, sedotte e seduttrici”.
Un aspetto che non poteva non influire sui giovani e quindi sui costumi della comunità liparese.
Era questa volta il prof. Ferdinando Rodriguez ad evidenziare che “mentre in tutto il mondo si corre verso un progresso di idee e di civiltà, da noi i giovani sembrano sciolti da ogni dovere, sono   attenti solo al loro piacere, e compiono quindi ogni genere di cose sconvenevoli. In questo degrado finiscono col coinvolgersi i giovani di tutte le classi corrompendosi a vicenda e commettendo quei misfatti prodotti dall’avarizia, dalla libidine, dall’ira. Così la gioventù liparese si da al bel tempo, è intricata in futili occupazioni e si pasce solo di ozio e di accidia. In un paese destinato a luogo di relegazione essa viene a contatto con la marmaglia e così finisce col fuorviare dai limiti dell’onesto  essendo stata abituata ad oggetti ignobili, ai piaceri sensuali e non a grandi e meritorie azioni, né a sentimenti umanitari”.
Un denuncia forte che mette in risalto di come molte donne furono ingannate, sedotte, frustrate, senza un  ambiente sicuro e senza garanzia di tutela. Lo stesso vescovo evidenziò un aspetto preoccupante legato al fatto che si era diffusa una consuetudine fra i giovani di frequentarsi intimamente per molti anni prima di contrarre il matrimonio .. “Così molto spesso ragazze, di onesta famiglia, nella prospettiva di un futuro matrimonio, non si vergognavano di convivere, né temevano di diventare madri prima di essere spose. Così talvolta restavano solo madri e non diventavano spose…”.


Si notò quindi un aumento del numero di “figli di nessuno” detti anche “figli della Chiesa” che venivano abbandonati a se stessi crescendo nell’ignoranza e vivendo di espedienti miserevoli e anche non legali.( prima dell’unità d’Italia era la chiesa che provvedeva a  questi “figli di nessuno”. Fino al 1770 erano accolti dal vescovo in un asilo e mantenuti a sue spese. Successivamente il comune assunse il diritto di assistenza ai poveri e ai diseredati e l’istituzione assistenziale della chiesa fu chiusa).

La prostituzione e la debolezza La prostituzione e la debolezza danno dei risultati infelici producendo degli esseri che vengono esposti e, svezzati appena, in preda all’ozio rimangono, alla miseria, alla fame e quindi ai vizi tutti di quelli indivisibili compagni. Perciò si veggono in Comune tanti giovanetti di ambo i sessi fino al numero di 100 circa o interamente nudi o coverti di inutili cenci, presentare un terribile schifoso spettacolo che inorridire fa la vista, rabbrividire il core…”.(canonico Carlo Rodriguez)

I detenuti erano perseguitati dai debiti e  questo aumentava il loro degrado fisico e mentale. Molti si abbandonavano, per non pensare, all’alcool.. “Era sufficiente – osserva Leopoldo Zagami – mettere piede entro il Castello per sentire un insopportabile tanfo di vino. Bastava all’ora della ritirata osservare i relegati per rendersi conto dell’orrendo scempio che l’alcol andava facendo su tante vite. Gruppi barcollanti di ubriachi, aiutandosi l’un l’altro, si portavano su al Castello, incespicando ad ogni passo e cadendo spesso per terra dove l’aiuto di altri confinati li soccorreva in modo che potessero continuare nel cammino e giungere al posto di riunione dove venivano prontamente prelevati dagli agenti di custodia e rinchiusi in celle di punizione”.
La denutrizione, l’alcolismo, le continue punizioni arbitrarie, finivano con il logorare lo stato psichico dei condannati e non era raro incontrarli per i vicoli di Lipari mentre gesticolano contro nessuno o parlano da soli o ancora gridando parole spesso oscene ai passanti. Questa determinava una crescente repulsione da parte della maggioranza degli isolani nei loro confronti.
Il famoso castello era diventato un luogo da cui tenersi a debita distanza. Oltre ai numerosissimi coatti risiedevano dieci, venti famiglie di Lipari che per necessita o interessi, gestivano delle attivita confinati in squallidi tuguri. Famiglie che erano legate a mestieri e attività che avevano un certo collegamento con la presenza dei detenuti. C’erano ad esempio un paio di betole che facevano affari d’oro rispetto a quelle presenti nella città bassa.


Gastone Vuillier che visitò le Eolie verso il 1895 ci lasciò di questa colonia una immagine molto suggestiva. “Stasera, dopo aver gironzolato per le strade… siamo andati alla cittadella, per una salita molto ripida. Ho udito suonare una tromba sui bastioni..E’ la ritirata dei coatti. Questi coatti girano tutto il giorno liberi per la città;  sono obbligati ogni sera, quando suona questa ritirata, a rientrare nella città vecchia ove restano rinchiusi sino alla mattina…Lo stato dà loro 50 centesimi al giorno, li fa alloggiare al Castello e li riveste; però la loro veste è ornata di due grandi lettere rosse le quali denotano il loro stato sociale…. Giungevamo sotto le oscure arcate del portone,  che dà accesso al Castello, insieme coi coatti; soldati, carabinieri e guardie di finanza stanno di guardia all’ingresso, queste ultime come rinforzo alla guarnigione durante la sera. Da tutte le parti della città che noi potevamo scorgere, vedevamo sbucare i coatti i quali si dirigevano verso la città vecchia; alcuni, passandoci dinnanzi, si toccavano il berretto, ed altri, preoccupati, camminavano in fretta senza guardarsi attorno. Tosto che i coatti si trovavo stipati nella via principale del Castello aveva luogo la chiamata, e nel frattempo il mio compagno mi condusse nella parte orientale della città vecchia. Ivi tutto è in rovina : antichi sepolcri spalancati, case sfondate e baluardi che, da pezzi di muraglie rovinati, lasciano scorgere, ad una profondità spaventosa, i neri scogli della riva. Eravamo giunti all’abside della Cattedrale dove un fico gigantesco, circondato da cactus contorti, sporgeva i suoi rami aggrovigliati…. Ci avviciniamo alle prigioni; le case rovinate del castello sono state utilizzate e trasformate in carceri. Dopo la chiamata…erano stati messi i chiavistelli su quei disgraziati. Alcuni erano isolati e chiusi in stanze basse, altri riuniti in gruppo dentro stanzoni, e da ogni parte, alle finestre, agli usci muniti di saldi cancelli di ferro, si attaccavano mani dalle dita adunche come artigli e si vedevano occhi cattivi e scintillanti. Oh quegli occhi!.. La maggior parte facevano venire i brividi a guardarli; lampeggiavano come acute lame di acciaio!... Quegli uomini erano rinchiusi là dentro come bestie feroci e respiravano avidamente, alla luce morente del giorno, gli ultimi buffi dell’aria libera”.
Spesso razzolavano all’esterno dei luoghi di culto ma speso finivano con l’entrare nell’edificio sacro creando lo scompiglio.. penetravano nelle sacrestie  delle Chiese delle Grazie e dell’Immacolata e…. demolivano mobili per prenderne il legname  che serviva per alimentare i fuochi delle stufe  nelle giornate di freddo. Un altro aspetto era legato ad alcuni detenuti che avevano preso l’abitudine di scardinare le inferriate delle finestre di levante della Cattedrale per penetrare nell’edificio sacro….per rubare ? No…. Penetravano nella cripta funeraria dell’abside e lì, in quel luogo tetro, si fermavano a giocare a carte con vicini i corpi mummificati dei canonici. Uno dei tanti episodi risalenti al 1872 per cui il vescovo fu costretto ad assumere un laico come custode della cattedrale. Naturalmente aveva l’obbligo di abitare nelle due piccole stanze dell’ex Palazzo Vescovile che erano di proprietà del Vescovado. Era un giovane pugliese, Angelo Pastore, detenuto coatto, che resterà a lungo a Lipari e con la sua discendenza servirà per lungo tempo la Cattedrale.
L’insofferenza dei liparoti verso i detenuti cominciò a crescere. Ogni giorno risse, furti, aggressioni.. Le donne non potevano camminare tranquille nelle strade per la continua paura di trovarsi improvvisamente di fronte a qualcuno di loro anche se di sani principi. Qualche coatto fu anche bastonato dalla popolazione diventando ancora più aggressivo. Alla fine la comunità di Lipari decise di coinvolgere l’Amministrazione Comunale che nei vari consigli affrontò il grave problema senza mai prendere decisioni in merito.
Il 24 maggio 1867 il sindaco chiese al governo di autorizzare i liparesi al porto d’armi per difesa personale… visto che i coatti sono liberi di circolare e la vigilanza è esigua. Passano quattro anni.. il governo  docet…… il 13 aprile 1871 l’Amministrazione Comunale pose tre condizioni al governo centrale:
1.      :”che la colonia fosse tolta da Lipari,
2.      che si sospendesse l’invio di nuovi coatti,
3.      o che per lo meno fossero obbligati a risiedere dentro la Città murata e non uscire fuori dall’ambito della medesima.
Lipari abbandonava l’antico emblema della città, il Castello che restava ai coatti, mentre tutte le attività si sarebbero spostate nella città bassa. Il consiglio comunale del 24 maggio 1867 invitata a deliberare, cosa che si verificò, la richiesta al governo di 120.000 lire per la costruzione di una nuova cattedrale nella città bassa cioè “nel circolo dell’abitazione del paese”.
In questo contesto avvenne un fatto gravissimo dove il governo "del Regno d'Italia", a prescindere dalle colpe del vescovo, avrebbe dovuto dare una risposta negativa perché era in gioco il patrimonio storico e culturale di una comunità….
Il Vescovo, trovando concorde il Consiglio Comunale, decise di cedere la Cattedrale al Governo
 “a prezzo discreto e prudenziale…che, per la vastità del locale e il benefizio delle molte conserve d’acqua che i sé contiene, potrebbe inservire alla truppa, ai condannati o ad altri usi più utili cui piacerebbe al governo destinarla in cambio del finanziamento per una nuova chiesa da costruirsi nella città bassa a fianco del Vescovado.
Nel marzo del 1867 lo stesso Vescovo scrisse al Prefetto di Messina spiegando al di fuori e intono ad essa, non si osserva che una frequenza di esuli, di detenuti e di soldati, che talvolta, per militari circospezioni, vietano lo ingresso agli stesi paesani ed al Capitolo, e sono non di rado le loro intemperanze motivo di scandalo e di temenza e di pericolo alle giovani donne che son costrette indispensabilmente a passare tra mezzo di esse per recarsi a compiere i loro doveri religiosi in detta Cattedrale.


Per fortuna, forse su ispirazione divina, mons. Ideo abbandonò quel progetto di vendita che fu sostituito con la costruzione di una scalinata d’accesso che partiva da via Garibaldi. Un progetto che mons. Palermo nel 1885, dopo aver constatato che la costruzione di una cattedrale nuova avrebbe richiesto immense risorse finanziarie, stanziò 40 mila delle 100 mila, legate al lascito di mons. Ideo, per  “comprare il terreno della città murata lungo la linea che sarà percorsa dalla strada suddetta e sgomberare il terriccio e le macerie che lungo esso si è ammonticchiato”ed avviando i lavori “per la congiunzione della vetusta Chiesa Cattedrale col centro della nuova Città di Lipari.
Lavori che andarono per le lunghe con periodi di stasi… ripresi nel 1910. La scalinata verrà ultimata il 23 agosto 1931 alla presenza del vescovo Mons. Bernardino Re.
Le tensioni non era solo tra cittadini e detenuti coatti ma anche fra quest’ultimi e la direzione.
Nel 1892 ci fu un grave evento… era il 3 marzo e secondo le norme nel periodo invernale i coatti avevano diritto ad una libera uscita di otto ore.. cioè dalle otto di mattina fino alle 16. Quel giorno la libera uscita fu ridotta di quattro ore, cioè dalle ore 8 alle 12, con un provvedimento che venne chiamato “contr’ora”.
Il malumore nei coatti era forte anche perché alcuni avevano preso degli impegni di lavoro che, in base al nuovo orario, venivano pregiudicati. Ma come mai questo provvedimento..?
La voce di allora recitò che sia stata una manovra legata a favorire una cantina posta nel castello che godeva della protezione dell’autorità …. Infatti a mezzogiorno veniva distribuitala “massetta” che era lo somma di 50 centesimi al giorno che spettava ad ogni detenuto. Una somma che doveva e servire per il vitto, vestiti, lavanderie e tutte le altre necessità… ma è anche vero che alla fine veniva spesa nelle cantine dove i detenuti passavano il tempo. Chiudendoli dentro il castello dopo la distribuzione della paghetta, si finiva così con il favorire l’unica bettola che era dentro le mura del castello.
Per monopolizzarsi a profitto di alcuni cointeressati la minuta vendita del vino in Lipari, si ordinò a quelli ottocento domiciliati coatti di ritirarsi giornalmente alle ore 12 di mattina  in Castello… Contro un tale sopruso i coatti pacificamente reclamarono giustizia. Ma lor si rispose terrorizzando, massacrandoli spietatamente”.

Per protestare contro questo provvedimento i coatti decisero di riunirsi in modo pacifico a Marina di San Giovanni. Venuto a conoscenza della riunione o assembramento a Marina di San Giovanni, il direttore fece suonare la ritirata a passo di corsa.
I manifestanti restarono nelle loro posizioni…. Il direttore diede ordine di bloccare le uscite della Marina dalle guardie, carabinieri e soldati. Ad un preciso segnale i carabinieri e le guardie si precipitarono sui coatti colpendoli con calci, pugni e persino con sciabolate e sparando colpi di pistola. Una repressione orrenda degna di Casa Savoia… i liparesi guardarono il tutto da dietro i balconi, al pestaggio non parteciparono i soldati. Il capitano comandante del presidio, più volte sollecitato a dare l’ordine di sparare sui manifestanti, si rifiutò sempre di eseguire l’ordine. Lo stesso capitano diede anzi l’ordine ad un tenente di lasciare passare quei poveretti che riuscirono così a fuggire. La caccia e il pestaggio continuò per ore nel paese sotto gli occhi increduli dei liparesi


La repressione non finì con il pestaggio. I feriti furono portati in infermeria e successivamente di nuovo in cella di punizione,, poi in carcere e al tribunale di Messina. Per questo motivo molti feriti preferirono nascondere le loro piaghe, le loro ferite sotto i vestiti per non subire gravi sanzioni. Diversa gente di Lipari chiese di testimoniare in tribunale a favore dei coatti ma non fu loro concesso. Non fu nemmeno interrogato il comandante del presidio.
Tra il 1894 ed il 1898 nella colonia, accanto ai delinquenti comuni che vivevano nell’ozio, nell’alcolismo e nel sudiciume, arrivarono politici ed intellettuali. Una categoria sociale del tutto diversa che, se poteva essere temuta per le idee giudicate “sovversive”, era però composta di persone umanamente e culturalmente   di tutto rispetto a cui si accostarono – con riverente timidezza - i primi simpatizzanti liparesi del socialismo.
Nel 1893- 94 il governo dell’assassino Francesco Crispi, siciliano…., fece una forte repressione dei fasci Siciliani dei Lavoratori e mandò al domicilio coatto numerosi anarchici e socialisti con la legge n. 316 del 19 luglio 1894. Altrettanto farà qualche anno dopo Rudinì dopo i fatti di Milano del 1898 con provvedimenti del 17 luglio di quell’anno..
Fra questi Edoardo Buongiorno che nel 1895, appena sedicenne, fondava una sezione del Movimento Operaio Socialista che ebbe però vita breve.

Il domicilio coatto ebbe termine nel 1915. Alcuni dei relegati, scontata la pena si stabilirono nell’isola aprendo piccole botteghe o andando a cavare pomice. Qualcuno mise su anche famiglia sposando donne del posto.

 Un pozzo a Vulcano oggi non più esistente

La passolina, “uvetta di Corinto”, messa ad asciugare sulle “cannizze” distese sulla spiaggia. (Isole Eolie nell’ 800).


Vulcano – Carta Geologica del 1892
https://www.etsy.com/it/listing/554871887/mare-tirreno-di-1892-vulcano-isla-isole

Cartina geologica di Vulcano

Isola di Vulcano - Riserva Naturale

Dumas... Una figura femminile di Lipari

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