LA VIA FRANCIGENA DEL VALLONE ..CAMPOFRANCO - SUTERA - MUSSOMELI



Indice
1.       La Magna Via Francigena “Agrigento – Palermo”;
2.       Il Pellegrinaggio;
a)       Nella Cattedrale di San Zeno a Pistoia è presente una reliquia dell’apostolo San Giacomo;
b)       L’abbigliamento del pellegrino;
c)       Dopo la visita al Santuario di Santiago, il pellegrino procedeva verso il Santuario di “Nosa Senora da Barca” – I Megaliti….La Pietra  Oscillante - Il santuario colpito da un incendio -  L’inquinamento dell’ambiente causato dall’affondamento della Prestige….nessun colpevole….;
d)       Il Pellegrinaggio verso Santiago di Compostela era probabilmente il più diffuso;
e)       Il Simbolo del cammino di Santiago di Compostela ….La Conchiglia

3.       Sicilia – La Via Francigena del Vallone
a)       Campofranco – Il Santuario di San Calogero;
b)       Sutera – Il Santuario di San Paolino;
c)       Mussomeli : Il Santuario della Madonna dei Miracoli e il Santuario della Madonna delle Vanelle


4.       Il Pellegrino …Custode del  Creato

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1 - LA MAGNA  VIA  FRANCIGENA





Il Percorso “I Pellegrini del Vallone”  unisce quattro comuni nisseni posti sulla “Magna Via Francigena”:
-          Campofranco;
-          Sutera;
-          Mussomeli:
-          Acquaviva di Platani.
Si tratta di un progetto condiviso tra Libero Consorzio Comunale di Caltanissetta, Diocesi di Caltanissetta, comune e Pro loco di Mussomeli, Pro loco di Campofranco e Pro loco di Sutera.
La “Magna Via Francigena”  era un’importante via di comunicazione che collegava, in senso nord-sud, Agrigento con Palermo. Nel territorio di Corleone e Castronovo incrociava le importante vie di transumanza verso le Madonie.
Le citazioni ?
Un diploma  in greco del 1096 ..”Ten odon,  ten megalen ten Fragkikon tou Kastronobou”.
I dominatori dell’isola nei secoli controllavano le varie vie di comunicazione, con le loro dogane , dazi e con le mantiones (antiche “stazioni di servizio”).
Gli stessi romani, costruttori della strada, nel II secolo a.C., misero vicino a Corleone un  “miliarus”( Pietra miliare), l’unico esistente sulla via “Agrigentum- Panormus”.


La “pietra miliare” riporta l’epigrafe di Aurelio Cotta Console
e il   LVII  distanza in miglia da Agrigento lungo la via Consolare romana “Palermo –Agrigento”.
Un iscrizione risalente al 252 a.C. e considerata la più antica della Sicilia.
Il reperto fu trovato nel 1954 da Giovanni Valenti  sulla “Montagna dei Cavalli” in territorio di Prizzi.
Dal 1991 è stato ammesso alla collezione civica.

Monte dei Cavalli

La “Agrigento – Palermo” durante le varie e successive dominazioni  fu sempre tenuta in massima considerazione per la sua importanza militare e commerciale. Per i Bizantini era l’importante via che collegava i punti militari di controllo del territorio e nello stesso tempo le alture per il rifornimento alimentare per uomini e animali tanto da essere chiamata “odos basilikè” cioè “Via Reale”.
Gli Arabi, una volta conquistata l’isola, nomineranno Palermo capitale del loro regno chiamandola “Balarm” e  Agrigento “Kirknt”, una città che rimarrà la base del forte contingente d’invasione. La via che collega i due centro prenderà il nome di “tarik al askar” (via degli eserciti)  e seguirà il tracciato della strada romana bizantina.
I Normanni conquisteranno l’isola togliendola ai Musulmani ed edificheranno castelli, chiese e monasteri avviando un forte processo di cristianizzazione soprattutto dove erano presenti antiche sacche di dominio arabo. I primi documenti normanni citarono la strada come la “via exercitus”, cioè la via degli eserciti ma solo nel 1096, in alcuni diplomi in greco, apparirà la citazione, per la prima volta, di “viam magnam francigenam Castrinovi”.
“Castronovi” perché era il punto in cui esisteva ed esiste ancora, il Casale di San Pietro, posto quasi a circa la metà del percorso tra Palermo ed Agrigento. Un sito che ha riportato alla luce antiche testimonianze bizantine e arabe, a dimostrazione della sua importanza.

Castronovo - Casale di San Pietro

2.      IL  PELLEGRINAGGIO

Prima di  parlare dei luoghi Sacri che s’incontrano lungo la “Via Francigena del Vallone”, è necessario soffermarsi sulle varie sfaccettature che caratterizzarono la nascita del pellegrinaggio nei suoi aspetti storici.
In questa visione appare subito evidente un antico rapporto tra la Sicilia e Santiago di Compostela, in Spagna. Un rapporto che è documentato nel “Liber Sancti Jacobi”, risalente al XIII secolo e che registra la presenza di siciliani davanti alla tomba del Santo Apostolo Giacomo.
Il documento cita i pellegrini provenienti “dalla penisola italiana e dalla Sicilia” naturalmente assieme a quelli provenienti da ogni centro della Cristianità…..
”.. illuc populi barbari ed domestici cunctorum cosmi climatum adveniunt, scilicet..Itali Apuli,…Romani..Tuscani…Kalabriani..Siciliani,… et cetere gentes innumerabile”
Un culto per San Giacomo già presente nella Sicilia bizantina come si deduce dalla presenza nell’isola di chiese dedicate al Santo nei secoli XII e XIII ed ubicate a Partinico, Messina, Capizzi, Comiso, Castronovo di Sicilia.
Anche ad Agrigento, quando la città fu liberata dai Musulmani, la chiesa fu consacrata alla Madonna e a San Giacomo le cui effigi sono riprodotte su alcuni sigilli plumbei dei vescovi agrigentini del secolo XII. La chiesa  agrigentina influenzò moltissimo il pellegrinaggio grazie al suo vescovo Gerlando di Besangon che ricevette l’importante carica  dal Granconte Ruggero. Gerlando proveniva dall’importante abbazia di Sant’Eufemia, cioè un abbazia calabrese che fu fondata nel 1062 dall’abate Roberto di Grantmesnil e fu coinvolta dallo spirito innovativo dei monaci di Cluny che si prodigavano in favore della Spagna e del pellegrinaggio a Santiago.

Abbazia di Sant’Eufemia (Reggio Calabria)

Abbazia di Cluny


Santiago di Compostela

Santiago di Compostela – Tomba di San Giacomo


Nel secolo XII sono attestate delle iniziative a favore dei pellegrini da parte dei vescovi agrigentini con la creazione di strutture destinate all’accoglienza dei pellegrini che vennero chiamate “hospitalia”. Strutture che erano distanti tra loro circa 30 km, cioè il cammino di una giornata. Hospitalia che erano gestiti da ordini monastici e cavallereschi giunti dall’Italia e anche dal Nord Europa. Con questi ordini giunse in Italia anche la definizione di “Via Francigena” che nel nord Italia indicava il complesso reticolo viario percorso da pellegrini e anche da mercanti.
Il Sicilia con il termine di “Via Francigena” si indicarono alcune antiche strade  e le nuove che integravano il sistema viario romano.
La “Magna Via Francigena” era quindi la via che da Agrigento , passando per Castronovo, dove prendeva il nome di “Magna Via Francigena di Castronovi”, giungeva a Palermo. A Palermo si collegava alla via Francigena per Messina che costeggiava la costa, e ancora prima a quella che solcava le montagne dove nella Piana di Milazzo si congiungeva con la precedente per procedere verso Messina.




Messina era naturalmente il luogo d’incontro dei pellegrini. Pellegrini che non si recavano solo a Santiago de Compostela ma anche a Roma, altri luoghi importanti della Cristianità e a Gerusalemme.
Per chi doveva recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, aspettava le navi che trasportavano i fedeli provenienti dal Nord Europa e dalla Spagna, imbarcati rispettivamente nel porto di Genova e di Barcellona,  e che facevano sosta nel Porto di Messina.
Più difficoltoso era il pellegrinaggio per chi doveva raggiungere Roma, altri luoghi della Cristianità sparsi lungo la penisola e Santiago di Compostela in Galizia, ovvero nella Spagna settentrionale.
Per giungere a Roma, una volta attraversato lo Stretto si doveva risalire la Calabria valicando le impervie montagne interne.



In un giorno si possono percorrere circa 20/30 km per cui su una distanza di circa 800 km
si dovrebbero impiegare circa 30 giorni.. considerando qualche giorno di riposo, erano
necessari almeno 35 giorni.

Da Roma a Santiago de Compostela




Da Roma per Santiago, con una media di 30 km/giorno, ci volevano in media 74 giorni che considerando i giorni di riposo, circa 15,
diventano 90 giorni…  cioè circa 3 mesi.

Il pellegrino che doveva percorrere la penisola per giungere nei luoghi sacri e raggiungere eventualmente Santiago, aveva un'altra possibilità.
Aspettava, sempre nel porto di Messina, le navi che ritornavano dalla Terrasanta e che risalivano le coste italiane toccando i famosi porti liguri, toscani. Viaggi che però erano a pagamento e quindi non tutti avevano la possibilità economica di usufruire di questo servizio che agevolava, e di tanto, il pellegrinaggio.
Una volta giunti in questi porti i pellegrini seguivano le strade che conducevano in Spagna o a Roma. Altri pellegrini giungevano in Spagna nel porto di Barcellona come si deduce dai registri dell’”Almoina reial”  della città catalana.
In questi registri sono elencati 23 pellegrini siciliani diretti o di ritorno da Santiago tra il 1378 e il 1385. Alcuni documenti citano questi pellegrini siciliani:
1253, la messinese Calofina de Apothecis dopo aver compito un pellegrinaggio per Terrasanta, sta per ripartire per Santiago;
1334, una donna sta per partire dalla Sicilia per Santiago per invocare la salvezza dell’anima del suo unico figlio. (il giovane apparve in sogno alla madre prima che lei iniziasse il viaggio e l’avvertì che per adempiere il voto fatto, al ritorno da Santiago doveva visitare anche la Porziuncola d’Assisi).
I nomi di alcuni siciliani  sono presenti nei libri contabili dell’”Opera di S. Iacopo” di Pistoia e registra le elemosine date ai pellegrini in transito tra il 1399 ed il 1420: “Piero da Palermo con due compagni nel 1399”; “Andrea di Cicilia” nel 1401; “Giovanni di Cicilia” nel 1403; il ragusano “frate Paulo di Iohanni da Rugia” nel 1420; “Frate Francesco da Raugia” nel 1440;il messinese “Filippo Viperano”, funzionario del Regno di Sicilia nel 1414.

2a) – Nella Cattedrale di San Zeno a Pistoia è presente una reliquia dell’Apostolo San Giacomo
Come mai i pellegrini passavano da Pistoia ? Era un passaggio legato solo ad una convenienza di percorso?
Il patrono di Pistoia è San Jacopo (San Giacomo) e il suo culto risale all’849 quando i pistoiesi ricorsero alle preghiere al santo Apostolo affinchè la città fosse risparmiata dall’invasione dei saraceni. La città fu salva e la cittadinanza elevò San Jacopo patrono dedicandogli una piccola chiesa, posta nei pressi delle mura della città, detta “S. Jacopo del Castellare”.

Pistoia – Chiesa San Jacopo del Castellare







Nel 1144 la città diventò Jacopea per eccellenza perché il culto di san Giacomo venne ufficializzato ed anche perché, l’unica in Italia, conservava una reliquia del santo apostolo.
Nello stesso anno 1144 il vescovo Atto di Pistoia, forse di origine portoghese o spagnola (secondo altri autori era di origine toscana), inviò a Santiago di Compostela due pellegrini che avevano un incarico importante e prestigioso: ritirare un frammento del cranio di San Jacopo. Era un dono dell’arcivescovo di Santiago di Compostela grazie all’intercessione di un chierico pistoiese, un certo Ranieri, che era diventato  canonico di Santiago. La reliquia venne accolta a Pistoia con tutti gli onori e conservata nella Cattedrale, dove lo stesso vescovo Atto fece costruire una sontuosa cappella che fu consacrata nel 1145.

Pistoia – Altare argenteo di San Jacopo – Cattedrale di San Zeno –
Cappella del Crocifisso o del Giudizio – Fu consacrato nel 1399.
Fu realizzato fra il 1287 e il 1456 da maestri orafi.
Si trovava nella Cappella di san Jacopo che venne demolita nel 1785 per ordine del
Vescovo Scipione de’ Ricci e quindi trasferito prima nella cappella di San Rocco e dal
1953 nella Cappella del Crocifisso.
Il nucleo originario era costituito da una tavola d’argento che fu commissionata nel 1287
dal Generale Consiglio del Comune e del popolo di Pistoia in accordo con gli Operai dell’Opera
di San Jacopo. Una tavola che doveva essere collocata sopra l’altare.  Nella tavola erano raffigurati i
Dodici Apostoli e la Madonna con il Bambino.   Fu collocato anche un paliotto argenteo, cioè
una lastra che copriva l’altare.

La Madonna col Bambino di Andrea di Jacopo d'Ognabene
Nel 1293 l’altare fu oggetto di un furto sacrilego da parte di Vanni Fucci. Un personaggio che
Fu citato anche da Dante Alighieri. Nel giorno di carnevale il ladro entrò nel Duomo con
alcuni complici e depredò la cappella di san Jacopo di oggetti preziosi, tra cui tavole d’argento,
reliquie e arredi.
Nel 1314 con un altro furto furono asportate delle figure di Apostoli.
Furono sempre effettuate le dovute riparazioni in seguito ai furti e furono sempre aggiunte altre
tavole argentee con personaggi e scene bibliche. Tra i maestri che espressero la loro
arte nello stupendo altare anche Filippo Brunelleschi nel 1400 circa (sul lato destro dell’altare).
Intorno al 1490 l’altare venne completato.


Giglio Pisano, San Jacopo in trono, 1349-53

Pistoia diventò quindi meta di pellegrinaggi  anche da parte di chi non poteva recarsi a Santiago de Compostela e si recava quindi nella città toscana per chiedere la protezione del santo.
La stessa città aveva una sua posizione strategica nel percorso Francigeno. Posta ai piedi dell’Appennino, che poteva essere valicato attraverso l’antica via Francesca della Sambuca, e collegata alla via Francigena passante da Fucecchio attraverso il passo di S. Baronto. Pistoia era quindi una tappa quasi obbligata per i pellegrini.

Reliquario di San Jacopo – Pistoia - Duomo di San Zeno

Pistoia - Duomo di San Zeno



Via Francesca della Sambuca



La Via Francigena Fucecchio lambisce il Padule

Passo Baronto


La conquista dell’isola da parte degli Aragonesi, dopo le giornate del Vespro, diede un forte impulso al culto di San Giacomo come si deduce dalle molte chiese dedicate all’Apostolo e citate nelle “Rationes decimarum” del 1308-10.
La pericolosità del lungo viaggio sacro, spesso portava il pellegrino a farsi sostituire da un “pellegrino vicario” dietro compenso di denaro.
Nel testamento redatto nel 1402 a Giuliana, nel Palermitano, Eleonora d’Aragona, figlia di Giovanni duca di Randazzo e quartogenito di Federico III d’Aragona e re di Sicilia, dispose di mandare “tre personas pro anima nostra ad sanctum Iacobum de Galicia et alias tres ad sanctum Sepulcrum”.
A Termini Imerese il ricco Giacomo de Aricio, nel suo testamento del 1436, tra le altre disposizioni obbligava le sue due figlie, eredi universali, “a pagare un pellegrino perché andasse a Santiago in sua vece, in modo da sciogliere così un voto da lui non adempiuto per negligenza”.



Il pellegrino aveva la possibilità, oltre a quella di farsi sostituire nel viaggio, di farsi cambiare il voto di pellegrinaggio in un'altra penitenza. Se il voto riguardava i luoghi sacri (Gerusalemme, Roma o Santiago) il “cambio” poteva essere eseguito solo dal papa.
Fino alla fine del secolo XVII in Sicilia c’era ancora la consuetudine di andare in pellegrinaggio a Santiago come dimostra un attestato di salute pubblica rilasciato a Palermo nel 1692 a Girolamo
Agliarolo “per andare a Dio Piacendo a S. Giacomo in Galitia”.
Era diffusa in Sicilia la credenza che “l’anima prima di andare al proprio destino, debba fare inevitabilmente un viaggetto in Gallizia, e di là recarsi ad un faticoso e lungo viaggio attraverso la via lattea che, come si sa, intitolano Viòlu di San  Jàbbicu”.
 Per evitare la pericolosità del viaggio verso la Galizia, furono prese mete alternative più vicine come le chiese di San Giacomo sparse nella Sicilia.
Il culto di San Giacomo, anche a causa della diatriba sorta in Spagna tra San Giacomo e Teresa d’Avila, s’affievolì e si diffusero i pellegrinaggi rivolti ai santuari della Madonna o ad altri Santi, purchè  svolti con fede.

La figura del pellegrino lascerà profondi segni nella formazione della civiltà occidentale. Una figura che non è solo alla ricerca di Dio ma è anche un vero operatore culturale che, a prescindere dal suo patrimonio culturale, sarà uno scrigno inesauribile di conoscenze e di esperienze nei vari paesi.
Come abbiamo visto le grandi difficoltà del cammino e i rischi fecero nascere nei pellegrini un forte senso di solidarietà e anche di appartenenza ad una civiltà comune. Nell’aiutare infatti il pellegrino gran parte della cristianità s’unì: “«Povero o ricco deve essere da tutti ricevuto con carità, e circondato da venerazione. Poiché chiunque lo avrà ricevuto e gli avrà diligentemente procurato ospitalità avrà per ospite non solo San Giacomo, ma il Signore in persona, Lui che ha detto nel Vangelo: ‘Chi accoglie voi, accoglie me’».
I contatti sociali ed umani vissuti dai pellegrini fecero circolare notizie favorendo la conoscenza reciproca tra le comunità locali e coloro che erano in viaggio. Questo fu un aspetto che favorì la forte diffusione del culto di san Giacomo nei diversi paesi. Una diffusione riscontrabile nell’onomastica maschile, nelle opere letterarie, nell’istituzione di chiese, conventi ed “hospitalia” e anche come santo protettore.

Dante Alighieri, nella sua “Vita Nova” (1293/94), citò le “peregrinationes maiores” dirette nella città di Gersalemme, Roma e Santiago di Compostela, cioè la triade di pellegrinaggi medievali che erano gli unici per i quali era concessa indulgenza plenaria.
“I pellegrini avevano una loro terminologia a seconda del luogo di pellegrinaggio: “palmiere” se era diretto in Terrasanta; “Romeo” a Roma; “Jaquot, jacquet o jaquaire” il pellegrino diretto a Santiago”.
Il pellegrino diretto a Santiago aveva un abbigliamento particolare: il bordone, la scarsella, un grande cappello, un abito corto e talvolta una zucca contenente qualcosa da bere. Ma l’aspetto più caratteristico dell’abbigliamento era la presenza sul copricapo, sull’abito  e sulla borsa da pellegrino, di una o più conchiglie.
Conchiglia, a due valve, che nel “Liber Sancti Jacobi” ha un suo preciso significato allegorico..”una mano che si apre nelle opere buone”. Allude quindi ad un modello di comportamento dei pellegrini e cioè: ad essere generoso e fare elemosina; mantenersi modesto, casto e sobrio.



Complesso etnografico di O Cebreiro










2b) L’Abbigliamento del Pellegrino
Riguardo ai vari capi dell’abbigliamento: il cappello, di forma rotonda (diritto o ripiegato, recava impressa sul davanti la tradizionale conchiglia scanalata); il mantello lungo che copriva anche i piedi; il bordone, cioè un lungo bastone dalla punta ferrata, un attributo del pellegrino; la scarsella, ovvero la borsetta di pelle, senza legacci, riempita solo con ciò che era strettamente necessario.
Una citazione meritano il lungo bastone (bordone) e la borsetta di pelle (scarsella). Il bastone serviva come appoggio nei punti più difficili del percorso ma anche per difendersi dai lupi e dai cani selvatici e richiamava, in ogni caso, al concetto  delle difficoltà che il pellegrino doveva superare prima di poter raggiungere la Patria celeste. Mentre la borsetta rappresentava la generosità che il buon pellegrino doveva mostrare nei confronti del compagno di viaggio o in generale verso il prossimo più bisognoso. Una posizione di profonda e sincera apertura nei confronti della provvidenza Divina. Infatti questi due oggetti venivano benedetti prima della partenza da un sacerdote, attenendosi ad un cerimoniale ben preciso legato aduna formula come quella che ci è stata tramandata dall’abbazia di Saint-Cugot di Vallès, applicata alla cesta portatile per il pane, il tascapane: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo. Ricevi questo paniere, attributo del tuo pellegrinaggio, affinché tu possa meritare di giungere purificato (castigatus), salvo e emendato, alle soglie del Santo Sepolcro, o di Santiago, di Sant'Ilario di Poitiers o d'altri santi che tu desiderassi raggiungere e, compiuto il tuo cammino, tu possa ritornare in perfetta salute».



Nel “Liber sancti Jacobi”, dal sermone “veneranda dies” s’apprende che il pellegrino prima di partire visitava la propria parrocchia concedendo il perdono a chi l’aveva offeso, salutava i propri cari e li raccomandava a Dio. Dava le disposizioni su come distribuire i suoi averi in elemosine verso i più bisognosi. Non doveva portare nel suo viaggio denaro e per prevenire le insidie doveva essere abbigliato modestamente ed evitare l’ubriachezza e la lussuria. Il cammino doveva essere possibilmente compiuto a piedi e il ricorso all’uso di animali o al trasporto, tranne casi eccezionali, era considerato una limitazione per i benefici connessi all’obiettivo del pellegrinaggio.
Durante il viaggio era consigliato, anche nei momenti di sconforto, di darsi aiuto a vicenda. Un aiuto attraverso la preghiera, attraverso anche racconti  o aneddoti sui santi. Un invocazione che si recita ancora oggi nella cappella romanica dell’ospizio d’Aubrac..” «O Dio, che avete fatto partire Abramo dal suo paese e l'avete conservato sano e salvo attraverso i suoi viaggi, accordate ai vostri figli la stessa protezione. Sosteneteci nei pericoli e alleggerite il cammino. Siate per noi ombra contro il sole, mantello contro la pioggia e il freddo. Sorreggeteci nella fatica e difendeteci contro tutti i pericoli. Siate il bastone che evita le cadute e il porto che accoglie i naufraghi: cosicché da voi guidati possiamo raggiungere la nostra meta e ritornare salvi a casa».
La guida infatti invitava i pellegrini a visitare i luoghi sacri incontrati nel loro cammino ove giacevano le reliquie dei santi patroni  per rievocare i loro miracoli, le loro sofferenze.  Era l’occasione per una preghiera più o meno intensa per fortificare lo spirito. Raccomandata era anche l’osservanza della partecipazione alla Messa la domenica e i giorni festivi.
C’erano anche tre riti che il pellegrino doveva compere nel suo viaggio verso Santiago:
1 – piantare una Croce sulla sommità del passo di Cize o vicino al passo di Bentartè che secondo la leggenda era una tradizione legata a Carlo Magno;




2 – il bagno rituale nelle acque del torrente Lavamentula, posto a circa due miglia da Santiago..


3 – scendendo da Monte Cerbero, in Galizia, il Camino di Santiago passa vicino alle cave di pietra da calce a Tricastela. Qui i pellegrini ricevevano ciascuno una pietra che dovevano trasportare fino al forno che era posto nella località Castagnola (Santa Maria de Castaneda). Da qui poi la calce veniva trasportata con i carri fino a Santiago. Un connubio perfetto tra l’utilizzo pratico della pietra, costruzione di un edificio sacro, e significato simbolico, edificazione di una comunità di anime.

Tricastela


I pellegrini appartenevano a diversi strati sociali ma numerosi erano gli ecclesiastici e soprattutto gli esponenti della nobiltà che potevano permettersi imprese lunghe e rischiose difficilmente accessibili a chi viveva del proprio lavoro e doveva mantenere  tra mille difficoltà una famiglia. È vero che il “Liber Jacopi” citava il viaggio del pellegrino senza l’uso di denaro ma i nobili eseguivano quel lungo peregrinare affrontando i costi del viaggio e dati i tempi erano necessari molti mesi di salario di un comune manovale. Molto rara era la figura del pellegrino solitario che difficilmente, e non per molto tempo, poteva restare a lungo chiuso nel suo isolamento e superare da solo le difficoltà del percorso. Più diffuse erano le coppie, i gruppi o anche famiglie. Le donne raramente intraprendevano il viaggio da sole e anche le più nobili erano speso accompagnate dal marito o comunque da una scorta. Fra loro le sante come ad esempio la pisana Santa Bona o Santa Brigida di Svezia.
Il viaggio di solito s’affrontava a piedi, spesso a cavallo nel basso Medioevo o anche in entrambi i modi. Nei terreni pianeggianti si riusciva a percorrere anche 30/40 km x giorno, circa 6/8 ore di  marcia mentre nelle zone montagnose il tragitto si faceva più difficile e rischioso e si potevano percorrere dai 20/30 km x giorno. Il viaggio in montagna era rischioso perché si era spesso assaliti dai lupi, dai briganti e spesso si andava incontro a terribili condizioni meteo. Non sono rare le cronache che citarono morti di pellegrini assiderati sulle montagne o colpiti dalle avversità su menzionate. Era possibile, come abbiamo visto, imbarcarsi e penso che il viaggio spesso era a pagamento tranne in qualche caso raro dove il re metteva a disposizione gratuitamente alcune navi della sua flotta (Federico III d’Aragona).
 In ogni caso anche sul mare c’era il rischio di andare incontro a disavventure legate alle condizioni del tempo o all’assalto di pirati. Il porto principale era Barcellona.
Durante il viaggio si era spesso assaliti da tentazioni materiali che mettevano a dura prova lo stato di grazia del proprio voto. Malattie, scarsità di cibo e soprattutto tanta, tanta paura. Nelle zone boscose si era spesso assaliti dai briganti che operavano nelle zone più isolate e solitari, come gole e valichi, che il pellegrino doveva necessariamente attraversare. Le zone d’Aubrac, i monti d’Oca, tra Belorado e Burgos, erano tra le zone più pericolose. Luoghi che venivano spesso indicati nella toponomastica con termini che caratterizzavano la loro pericolosità come Malval, Malpas. Assalti improvvisi che il più delle volte si concludevano con la morte del pellegrino che viaggiava con l’assillo perenne di tenersi cucito addosso o nel fondo del bagaglio il denaro necessario per le spese di viaggio.

Monte d’Oca
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Castello di Belorado

Una volta giunto a Santiago di Compostela il pellegrino si lasciava andare ad acclamazioni di giubilo e canti di lode. Partecipava gioiosamente agli spettacoli e alle feste, in un centro pieno di botteghe che promuovono al pellegrino “otri di vino, bisacce, scarpe, borse, cinghie, cinture, ogni tipo di erbe e medicinali, medicinali e spezie varie”. Non mancavano gli artigiani della “conchia”, la famosa conchiglia.


2C) Dopo la visita al Santuario di Santiago, il pellegrino procedeva verso il Santuario di “Nosa Senora da Barca” – I Megaliti…. La Pietra  Oscillante - Il santuario colpito da un incendio – L’inquinamento dell’ambiente causato dall’affondamento della Prestige… nessun colpevole.

Il pellegrino, una volta giunto al santuario di Santiago, doveva completare il suo percorso galiziano recandosi :
-          a El Padron, alla foce del fiume Ulla, cioè nel punto in cui giunse il corpo di San Giacomo;
-           al santuario della “Madonna de Finibus Terrae” (Chiesa di Nosa Señora das Areas) posto sull’estremo promontorio di Finisterre;
-           al Santuario di “Nosa Senora da Barca” a Muxia, sulla Costa della Morte.

El Padron


Mar de Arousa

Finisterre (La Coruna) - Chiesa di Nosa Señora das Areas

Finisterre  era un tempo considerato il termine delle terre conosciute. Il pellegrino giunto sul luogo, doveva bruciare i suoi abiti del pellegrinaggio e immergersi nell’oceano per un bagno purificatore.

Playa de Mar



I pellegrini arrivano sulla bellissima spiaggia dorata grazie un comodo, lungo e largo pontile di legno. Una località molto pericolosa per i suoi repentini cambiamenti delle condizioni climatiche e del mare. Il pellegrino incontra sul pontile i cartelli che richiamano di continuo l’idea del pericolo in caso di mare agitato. Qui sono presenti delle insidiose e forti correnti marine che sono attive anche a pochi metri dalla riva e che portano al largo in modo repentino mettendo quindi in gravissimo pericolo la vita del bagnante.
Playa de Mar - pontile

Il Santuario di “Nosa Senora da Barca” a Muxia, si trova sempre sulla Costa della Morte. Il santuario sorge di fronte ad un luogo di culto megalitico che è centrato sulla “Pedra d’Abalar” ovvero la “pietra oscillante” che i pellegrini fanno oscillare in cerca del suo punto d’equilibrio.

Nosa Senora da Barca - Muxia

L’apostolo Giacomo pregava sul luogo in preda allo sconforto per non essere riuscito a
predicare in Hispania il Vangelo. Apparve sul mare una barca sul quale si trovava Maria
che lo incoraggiò a seguire nella sua missione.
I resti della barca furono lasciati sulla costa e si trasformarono in massi e si trovano di fronte al tempio.
La vela diventò “Pedra de Abalar”; la barca “A Pedra dos cadris” e il timone “Rudder Pedra do”.
La “Pedra de Abalar” è un grande megalite, circa 9 metri di lunghezza, che ondeggia quando le
persone vi si arrampicano emettendo un leggero suono cupo. La tradizione locale cita che
questo movimento si verifica quando le persone che vi montano sono innocenti per i loro peccati.
Un’altra leggenda cita che la pietra si muove per avvertire l’imminente arrivo di una tempesta.
La Pedra dos Cadris ha invece la forma di un rene e secondo l’usanza i pellegrini
Dovrebbero passare nove volte sotto di essa per curare i loro disturbi fisici legati ai
reni ed ai reumatismi. Sotto questa pietra fu trovata l’immagine della vergine, che fu trasferita
nella chiesa parrocchiale. Scomparve per ritornare nel suo luogo originario dove fu costruito il santuario.
La costruzione del santuario sarebbe del XII secolo con successivi interventi.                                              
Il 25 dicembre,  giorno del Natale ……., un fulmine colpì il santuario distruggendo il tetto e l’interno
della chiesa con immense perdite materiali.


Nel 2014 iniziarono i lavori di recupero dell’edificio
grazie all’intervento dell’Arcivescovado di Santiago de Compostela e nel 2017 furono completati.

Pedra de Cadris
Pedra de Abalar

Rudder Pedra


sulla destra il monumento ai volontari che ripulirono la spiaggia dopo il disastro
causato dall'affondamento della Prestige

Ferida … la scultura omaggio ai volontari che contribuirono a ripulire la spiaggia dalla
fuoriuscita di petrolio dalla petroliera Prestige
19 novembre 2002

I Volontari ....





Senza colpevoli il più grande disastro ambientale europeo: il naufragio della petroliera che 17 anni fa riversò sulle coste di Spagna, Francia e Portogallo 63mila tonnellate di greggio. Il comandante, al momento della sentenza, 78enne fu condannato a nove mesi per essersi rifiutato di far rimorchiare la nave: non li sconterà per limiti di età. L'assicurazione responsabile dei danni civili…….
Molti volontari sono morti a causa del continuo contatto con la marea nera….. cancerogena, e causa di leucemie, tumori al seno e al sistema urogenitale. ...  e allora ci fu anche
chi cercò di nascondere la sciagura ambientale accusando l’opinione pubblica di
troppo allarmismo…

QUESTA PAGINA E' DEDICATA A QUEI VOLONTARI CHE CON 
IL LORO AGIRE HANNO DEDICATO ATTIMI DELLA LORO VITA, PER MOLTI
GLI ULTIMI, NEL SALVARE QUEST'ANGOLO DELLA GALIZIA... E' INUTILE
FARE I LORO NOMI .. IL LUOGO STESSO, CON I SUOI ALTI ASPETTI
RELIGIOSI,  NE E' TESTIMONE....
Camminando lungo la costa i pellegrini avevano allora la possibilità di raccogliere sull’estuario dell’Ulla le grandi conchiglie che testimoniavano l’avvenuto pellegrinaggio. Conchiglie di quelle dimensioni non si trovano lungo il litorale mediterraneo e sono una peculiarità dell’oceano di Santiago.
La conchiglia costituiva il tesoro più ambito dei pellegrini, il ricordo elegante, nonché la prova tangibile del difficile e lungo viaggio compiuto, e del raggiungimento della tomba dell’apostolo. In alcune regioni della Francia gli scavi archeologici hanno permesso di recuperare numerosi “scheletri con le conchiglia”, resti di chi era riuscito a sopravvivere all’avventuroso viaggio di andata e porsi sulla via del ritorno. Per coloro che tornavano da Compostela la conchiglia era un ricordo perenne del precetto della carità, da non perdere mai di vista: essa veniva perciò cucita sull’abito, ed esibita con soddisfazione a familiari e conoscenti, come una sorta di reliquia da utilizzare in momenti di bisogno. Alla conchiglia intesa come salvezza ed emblema di una nuova vita, che attende il fedele dopo il viaggio di rigenerazione, si ricongiunge la raffigurazione di Cristo nella condizione di pellegrino. Nel chiostro di Santo Domingo de Silos (metà sec. XII), il Salvatore appare vestito di una tunica e con una borsa contrassegnata da una conchiglia e la cui cinghia ha nella parte finale altre quattro conchigliette. La conchiglia costituiva infine un segno che procurava deferenza e riguardo: nobili e chierici, infatti, inserivano la meritata conchiglia nei loro stemmi.
Chiostro Santo Domingo - Burgos



2d – Il pellegrinaggio verso Santiago di Compostela era probabilmente il più diffuso
Il pellegrinaggio verso la Galizia era nel medioevo il più importante rispetto a quelli diretti a Roma e a Gerusalemme. Probabilmente il fascino esercitato dalla città di Santiago  aveva una sua origine non solo nella lontananza del sito ma anche nella sua particolare posizione geografica. La tomba di San Giacomo si trovava in quella zona che nell’epoca medievale era definita la “fine del mondo”. Il viaggio verso Occidente era un cammino verso l’estremo lembo di terra allora conosciuto, il “finis terrae” oltre al quale si apriva una vastissima e sconfinata distesa d’acqua che allegoricamente fissava il limite umano nella conoscenza del mondo.
Anticamente e per tutto il Medioevo si pensava che il mondo finisse ad Ovest cioè con l’Europa che si affacciava sull’Oceano Atlantico e che oltre avesse inizio quello che era definito il “regno dei morti”. (Dante immagina nel suo Purgatorio che la montagna si collochi tra le onde dell’Oceano Atlantico in un luogo sconosciuto agli uomini oltre le Colonne d’Ercole).
Il cammino, la strada, verso Santiago rappresentava la vita con le sue innumerevoli prove mentre l’arrivo alla tomba dell’apostolo simboleggiava il passaggio estremo, la morte.  Favoriva cioè l’incontro con il divino, un contatto fugace con l’Aldilà. L’ingresso della cattedrale era infatti sormontato da una grandiosa costruzione, denominata Portico della Gloria, che indicava al pellegrino che era ormai giunto al traguardo e richiamava alla sua mente la gloria ben più grande di cui avrebbe goduto alla fine della sua vita terrena.

Santiago di Compostela – Il Portico della Gloria




La geografia medievale offriva una conoscenza parziale della terra e quanto più ci si allontanava da quella che potremo definire Europa Continentale tanto più le conoscenza di quelle zone che stavano ai margini dell’Europa si facevano nebulose, avvolte dal mistero. Zone che erano oggetto di curiosità ma che destavano anche timore.
I racconti dei primi viaggiatori parlavano di fatti prodigiosi dalle terre di Galizia. Il pellegrinaggio era una vera e propria avventura, non tanto per i pericoli, ma perché sul cammino si potevano incontrare segnali divini miracolosi che lasciavano presagire l’esistenza di un mondo ultraterreno che l’uomo non aveva la possibilità di conoscere nella sua pienezza ma solo presagire in modo fugace. Manifestazioni divine che davano ai fedeli la speranza che il percorso di un uomo non si esauriva con la morte del corpo e che l’esistenza terrena fosse solo una piccola fase transitoria.
Per richiamare nella mente dei pellegrini il valore del cammino e quindi il senso dell’uomo sulla terra, lungo il percorso furono collocati dei segni religiosi che servivano a sacralizzare lo spazio e ricordare in modo costante il valore e lo scopo del suo viaggio. Un ricordo che fu materializzato non solo con la presenza di numerose chiese e cappelle ma anche con le innumerevoli croci, cruceros, poste lungo le strade. Croci che avevano una sua funzione segnaletica, quindi materiale, e religiosa in quanto ricordavano al pellegrino il termine ultimo della sua esistenza e il modo per conseguirlo per mezzo della fede. La loro visione doveva dare sostegno, conforto, coraggio nel proseguire lungo il cammino proprio come nella vita quotidiana. Infatti venivano collocate nei punti più difficili  come ponti, passi, guadi di fiumi, valichi di montagna dove il cammino era molto pericoloso.
Oltre alla croci il pellegrino aveva la visione dei campanili delle chiese che lo invitavano alla preghiera. Luoghi che esprimevano  un rapporto ricco di spiritualità tra il pellegrino e lo stesso luogo.

2e) Il Simbolo del cammino di Santiago.. La Conchiglia
Il simbolo del cammino di Santiago è la conchiglia a valve raggiate detta anche “conchiglia di san Giacomo” o “pecten jacobaeus” e chiamato in spagnolo “concha de vieira”.

In origine veniva donata ai pellegrini una volta giunte a Santiago come testimonianza del loro pellegrinaggio.
In epoca romana la conchiglia si utilizzava come amuleto, segno di prosperità e fortuna. Assunse nel tempo altri significata come segno di bellezza, perfezione e fecondità. Botticelli la dipinse nel quadro “La Nascita di Venere” e fu inserita come elemento decorativo in molte chiese copte e nei sarcofagi paleocristiani dove simboleggiava la Resurrezione.

La “Nascita di Venere “ –  Sandro Botticelli

Le fonti battesimali delle chiese sono adornate da grandi conchiglie.
La conchiglia rappresenta quindi la protezione e per questo, secondo un antica tradizione, una volta finito il pellegrinaggio deve restituirla al mare, a Finesterrae, ringraziando l’Oceano della protezione avuta durante il viaggio.
Secondo altre tradizioni, una volta finito il lungo cammino, la conchiglia deve essere cucita sul cappello o sul mantello per dimostrare a tutti di aver compiuto il Cammino di Santiago e serviva anche per l’esenzione di tasse e pagamenti di pedaggi lungo il percorso di ritorno.

La sua  nascita come simbolo del pellegrino è legata a leggende e racconti.
Una leggenda è legata ai discepoli di San Giacomo.
L’imbarcazione che portava i resti dell’apostolo Giovanni giunse nei pressi delle isole Cies, di fronte alle coste della Galizia. I discepoli notarono dall’imbarcazione che si stava celebrando un matrimonio sulla spiaggia. Il matrimonio attirò l’attenzione dei discepoli a causa di un gioco che si svolgeva durante la cerimonia. Il protagonista doveva montare a cavallo mentre lanciava in aria una lancia. Un impresa difficile  perché la lancia doveva essere presa al volo prima che cadesse al suolo.
Arrivò il turno dello sposo, secondo le regole lanciò in aria la lancia e cercò di raggiungerla cavalcando con impeto ma la lancia finì in acqua.
Lo sposo si tuffò in acqua con il cavallo sparendo tra i flutti, le onde dell’oceano. Dopo pochi attimi, come per miracolo, riapparvero accanto all’imbarcazione in cui si trovavano i discepoli e che si stava avvicinando alla riva. Su quell’imbarcazione si trovavano anche i resti mortali dell’apostolo Giacomo.
Lo sposo una vota emerso dalle acque andò incontro all’imbarcazione per accogliere con cortesia gli ospiti.
Era interamente ricoperto da conchiglie di capasanta e venne interpretato dagli apostoli come un miracolo ed un avvenimento di buon auspicio. I discepoli, tra cui Attanasio e Teodoro, invitarono lo spaso a salire sull’imbarcazione e durante il tragitto verso la spiaggia avvenne il grande miracolo: lo sposo si convertì al cristianesimo. Il miracolo si ripetè sulla spiaggia dove molti partecipanti alle nozze si convertirono.
L’imbarcazione con gli apostoli proseguì successivamente nella sua rotta, risalì la Ria de Aurosa e giunse a Padron dove San Giacomo venne sepolto.
Una variante della leggenda cita la barca sprovvista di timone e vela e guidata solo da un angelo. Un uomo che dalla costa osserva la navigazione della barca cadde in acqua e tutti credevano che fosse morto annegato. L’uomo ricomparve dalle acque ricoperto da numerose conchiglie.
San Giacomo aveva fatto il miracolo e la “concha” divenne così il simbolo del pellegrinaggio.
Spesso sulla conchiglia é impressa la croce di San Giacomo, protettore delle milizie cristiane, che rappresenta una spada rovesciata con il lato lungo che ricorda la lama e quello corto che simboleggia l’impugnatura, spada che anticamente veniva conficcata nel terreno durante il cammino e utilizzata come croce davanti alla quale pregare.
Una moderna funzione della conchiglia, disegnata o scolpita, posta lungo i sentieri e le strade del Cammino indica la giusta direzione per arrivare a Santiago unita alla freccia gialla.





4.      SICILIA – LA VIA  FRANCIGENA DEL VALLONE



A)    CAMPOFRANCO


Chiesa di San Francesco

Il casale di Campofranco fu fondato con Regia Licenza nel 1573 dal barone Giovanni Del Campo e successivamente elevato a principato.
Il Pirri, 1630 circa, quindi a poco tempo dalla fondazione del piccolo centro citò l’opera del barone Giovanni Del Campo..” Campus francus oppidolum...ab anno 1625 13 Junii cun Principatus titulo, juris est Antonii Luchisii. Aedis majoris Paroc. D. Joanni ante Portam Latina... Franciscani Conventum an. 1580... ob loci paupertatem ab oppido recesserunt: hoc anno redierunt fratres 3”
(“Campofranco città…anno 1625 13 giugno con titolo di Principato Antonio Lucchesi.. tempio maggiore Parroc. San Giovanni davanti Porta Latina… Convento dei Francescani anno 1580….. in numero di tre frati assistono i più poveri..”.
Nel 1757 l’abate Vito Amico nel suo “Dizionario Topografico” riportò il centro come..”decorato di una chiesa maggiore sacra a San Giovanni (Battista) sotto un parroco Arciprete, e di altre tre minori chiese….  Del convento dei Minori Conventuali, del titolo di San Francesco…; e del palazzo del Principe elegantemente costruito. Ne è S. Anna madre di Maria la special Patrona”.
Le chiese presenti nel centro e tutte contemporanee alla fondazione di Campofranco sono: La Matrice dedicata a San Giovanni Battista, la Chiesa dell’Itria e la Chiesa di San Francesco.
Il 22 luglio 2012, mons. Mario Russotto, Vescovo della Diocesi Caltanissetta, con proprio decreto, elevò la Chiesa di San Francesco a “Santuario Diocesano di San Calogero”.
Allora erano parroci don Alessandro Rovello e don Bennardo Briganti che emozionati affermarono come “negli anni, attorno alla chiesa dove è custodita un’immagine statuaria di San Calogero, c’è stato e continua ad esserci in maniera crescente, un continuo movimento di pellegrini che ha portato alla creazione di un vero centro di vita spirituale in cui ci si accosta ai sacramenti, si prega intensamente e con devozione, chiedendo l’intercessione del santo per ottenere dal Padre celeste delle grazie particolari. La devozione viene inserita, quindi, nel cammino cristiano che trova nell’ascolto della Parola e nei sacramenti, la sorgente e il momento più alto della comunione con il Signore e con i fratelli”.
Il culto per San Calogero è antichissimo e la sua importanza non fu solo legata alla sua opera di evangelizzazione ma anche a quella di taumaturgo. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Sciacca e prima del centro agrigentino si stabilì a Termini Imerese e a Lipari. Una venerazione nata nel lontano VI secolo (morì a Sciacca nel 561), assopita dopo la conquista araba della Sicilia, e rifiorita sotto i Normanni. Il culto subì una maggiore affermazione nei secoli XV e XVI, in cui vennero dotate di statue le chiese di Naro, Agrigento, Sciacca e anche nella lontana San Salvatore di Fitalia.
Papa Clemente VIII (1592 – 1605)  confermò, in tutto il Regno di Sicilia, la data della festa di San Calogero il 18 giugno inserendo il nome del santo (e quindi anche la sua festa) nel Martirologio Romano.
La massima fioritura del culto si ebbe verso la fine del secolo XVI e i primi decenni del XVII, in seguito al rinnovamento apportato dal Concilio di Trento e anche per un gran numero di disgrazie che colpì il Regno di Sicilia come pestilenze, carestie, terremoti in cui si invocò con fede la protezione del Santo. Con il passare dei secoli si è ben radicata nel territorio una sincera devozione e attaccamento al culto di San Calogero soprattutto nella Diocesi di Agrigento, Lipari, Patti e Caltanissetta. Una prova tangibile delle devozione è legata alla sua venerazione in oltre 50 comuni  in cui sono dedicate chiese o altari. Famoso per le sue doti di taumaturgo, medico, in tutti i comuni viene festeggiato il 18 giugno.
Appare un San Calogero venerato non solo nella città di Campofranco ma anche nella vicina Milena, l’antica Milocca. Le grotte termali sul Monte Kronio, dove viveva San Calogero, erano oggetto di pellegrinaggi da parte di gente che richiedeva cure per i propri dolori fisici e la sua attività di medico, oltre a quella di evangelizzazione, si diffuse in tutto il territorio anche se successivamente, con la dominazione araba, il suo ricordo si affievolì..
L’antropologa americana, Gower Chapman, citata nella mia ricerca “Milena il Paese delle Robbe”, scrisse sul finire degli anni ’20 che…”popolarità godono a Milocca anche alcuni santi venerati nei paesi vicini, spicca tra questi San Calogero di Campofranco”.
Nel paese di Milocca non c’era una chiesa e nemmeno un piccolo altare dedicato al Santo e il suo culto si manifestava grazie ad una cappella fuori dal paese ed “esistente da tempi immemorabili… più antica della stessa chiesa madre”.
In realtà la cappella ha una sua triste storia perché quella attuale non è quella che fu ammirata e descritta dall’antropologa americana.. Prima della guerra fu “rifatta” da un certo Pantano, un architetto responsabile dei lavori sulla strada provinciale (SP 24).  L’antica cappella fu abbattuta per volere dell’”illustre” architetto perché “disturbava”. Avvenne qualcosa d’incredibile… perché dopo pochi giorni il Pantano cominciò a sentirsi male e, intuendo le origini del suo malessere psichico, fece riscostruire a sue spese la cappella.
Anche la piccola statua in gesso non è quella originale perché fu sostituita nel corso degli anni da vari devoti. Giovanni Mendola  collocò una piccola statuetta subito dopo la ricostruzione della cappella operata dal Pantano; Vincenzo Tona negli anni ’50 e ultimamente da un devoto Carmelo Curto. L’edicola è oggi affidata a Benedetto Mendola per eredità dal padre Giovanni.
La caratteristica del culto è da sempre “lu viaggiu a San Calò”. Fin dalle prime ore della domenica, pellegrini di ogni età si recano in pellegrinaggio, molti a piedi e scalzi, a Campofranco cioè a “San Calò” secondo un antica tradizione e devozione che si tramanda di generazione in generazione. Dopo le funzioni religiose, la benedizione del pane che molti dai centri vicini portano proprio a Campofranco per essere benedetto. A Milena, dopo la messa del pomeriggio, si svolgeva un pellegrinaggio che partendo dalla Chiesa Madre arriva all’edicola di San Calogero. Nella stessa Milena sono presenti numerose piccole edicole private dedicate al santo. Un territorio, Campofranco, Milena, dove la devozione per il santo è molto forte e radicata.



Il culto a Campofranco risale ad epoche antiche e venne probabilmente rinvigorito dagli eventi legati all’11 gennaio 1693 quando grazie alla Sua intercessione, Campofranco fu preservata dal terremoto e al ringraziamento della liberazione della carestia che nel ‘700 mise a rischio le colture nei campi e la vita delle stesse persone. I campofranchesi portarono il santo in processione e tra fede e superstizione si mise a piovere mettendo in salvo le colture.
Quest’ultimo evento è ricordato con i festeggiamenti nell’ultima domenica di luglio.


La statua originaria di San Calogero era un’altra e fu tenuta nella chiesa fino al 1866 quando fu trasferita a Palermo presso i frati Conventuali.

La chiesa si presenta ad unica navata con volta a botte e con due logge balconate che si prolungano nella zona absidale (una caratteristica delle chiese risalenti agli inizi del Settecento). Lungo le pareti tre nicchie con arco che contengono altrettanti altari con decorazioni in stucco di stile neoclassico.

Nell’abside si trova l’affresco “L’Andata al Calvario”, lo “Spasimo di Sicilia”, di autore ignoto. Sono presenti alcune statue lignee tra cui quella della Vergine Immacolata, del 1714 di stile rococò di scuola napoletana.
 La statua di San Calogero, oggetto di grande venerazione da parte della comunità, è  opera dello scultore di Gangi, Filippo Quattrocchi (1734 – 1818) nei primi anni dell’Ottocento. Un santo nero  con abiti da eremita. Sul braccio destro pende un piccolo cofanetto. San Calogero era un taumaturgo e come tale curava  i malati, (i bambini colpiti da ernia si rivolgono a lui) e nel piccolo cofanetto teneva le medicine e gli strumenti. Il bastone d’argento fu un dono dei principi Lucchesi nell’800.
La tela dell’Andata al Calvario risalirebbe al seicento e probabilmente opera non siciliana. Un dipinto , che come riporta il sito del Comune di Campofranco, s’inserisce nel contesto culturale che si creò a Napoli nel secondo Seicento.
Il formato del dipinto “a maddalena” e la successiva piegatura della cornice, che fu effettuata per adattare il quadro alla superficie muraria curva dell’abside, meriterebbero degli approfondimenti  così come per l’autore. Fu un dono probabilmente del principe Lucchese Palli e quindi potrebbe inserirsi anche come opera di scuola palermitana. (purtroppo non ho una foto del dipinto che era memorizzata in un computer che è andato in tilt. Ho cercato su internet una foto ma è stato vano).
Durante la processione si distribuisce “u mbraculu di San Caloriu”.
Si tratta di un pane che riproduce una parte del corpo guarita grazie all’intercessione del Santo. Si ha la benedizione di questi pani che vengono distribuiti alla gente. Prima di mangiare la fetta benedetta, si recita una preghiera e ci si raccomanda a Dio e al santo taumaturgo per la propria salute personale e quella dei propri cari.



I fedeli rispettano ancora in parte la vecchia tradizione. “Viaggio a piedi scalzi” con il rosario in mano che si completata in chiesa con la ”lingua a strascinuni”, cioè strisciando la lingua a terra fino all’altare maggiore. Una manifestazione di fede che è stata abolita e dell’antica tradizione rimangono gli abitini bianchi con i bottoni neri dei bambini e la raccolta delle offerte per una “missa cugliuta” e la “sagra dei Pupi di pane”. Nella sagra vengono distribuiti quintali di pane che raffigurano le varie parti del corpo guarite per intercessione del santo.
Una tradizione che è legata anche al ringraziamento verso il santo per il raccolto salvato dalla carestia nel lontano settecento e anche per quello dell’annata. In origine i contadini offrivano del grano. Successivamente si donava ai più bisognosi le forme di pane figuranti le varie parti del corpo per l’avvenuta guarigione dai mali fino ad arrivare al “pupo” intero. Forme di pane che variano anche nella dimensione, dai circa 50 cm alle più grandi che possono raggiungere anche i 2 metri. Dopo essere stato benedetto viene distribuito ai fedeli.



Ingredienti: Kg 2 di farina mista 00 e di grano duro, una noce di lievito di birra, 3 cucchiai di zucchero, 3 cucchiai di olio d'oliva, sale e acqua tiepida q.b. per un impasto un po' più duro di quello del pane(quindi con meno acqua).


Il percorso Francigeno ha anche tra i suoi innumerevoli obiettivi (storici, culturali, naturalistici) anche quello di mettere in risalto certi aspetti che potrebbero perdersi nel tempo. In questo contesto s’inserisce la storia del quadro dell’”Andata al Calvario” che sembra tratta da un romanzo ricco di spunti religiosi e storici.
La “Spasimo di Sicilia” (L’Andata al Calvario) è un dipinto a olio su tavola di Raffaello Sanzio e allievi. Un quadro databile al 1517 e conservato nel Museo del Prado di Madrid. Un’opera che è firmata su una pietra posta in primo piano “Raphael Urbinas”.

Autore: Raffaello Sanzio e aiuti
L’Andata al Calvario – Spasimo di Sicilia
Data : 1517
Tecnica : Olio su Tavola trasportata su tela 
Dimensioni : (318 x 229 ) cm
Museo del Prado - Madrid

Molti si chiederanno come mai questo riferimento al quadro di Raffaello. In Sicilia ci sono molte copie che riproducono la grande opera di Raffaello.  Un opera, quella di Raffaello, che ha una sua storia e che ha dato origine ad un certo numero di raffigurazioni che vanno incluse negli “Spasimi di Sicilia” tra cui uno molto importante a Caltanissetta, Castelvetrano, ecc.
L’opera fu commissionata , e qua la prima sorpresa, dal Monastero Olivetano di Santa Maria dello Spasimo di Palermo, da cui il nome.


https://www.ioamolasicilia.com/wp-content/galleries/spasimo/DSCF3200.jpg


La Chiesa dello Spasimo si trova nel quartiere della Kalsa.
A navata centrale di grandi dimensioni e con grandi cappelle laterali.
In stile gotico, con l’abside a pianta poligonale coperta da una volta stellare,
il transetto con arcate a sesto acuto e  conquattro grandi monofore.
All’esterno si trova il chiostro che risale al 500.
Dal febbraio 1582 la chiesa fu usata per rappresentazioni teatrale e questa
particolare destinazione d’uso fu mantenuta fino alla grave epidemia di peste del 1624.
L’epidemia colpì la città in modo grave e la mancanza di strutture per il ricovero dei malati,
spinse il senato a destinare una parte della chiesa a lazzaretto. Finita l‘epidemia alcune
stanze furono adibite a magazzini per il grano mentre nella navata centrale
della chiesa riprese l’attività teatrale.
Quando un Regio decreto abolì i magazzini granari, alcuni ambienti furono
utilizzati per il ricovero dei poveri, altri ad ospedale e altri ancora a depositi. Depositi che rimasero in
funzione fino al secondo dopoguerra quando la navata centrale e le navate laterali furono
utilizzate dal Comune come deposito di materiale proveniente da chiese e palazzi bombardati e poi demoliti.
Nel 1988 ebbero inizio i lavori di restauro che non so se siano stati completati.
È comunque adoperata per spazi espositivi.

Nel 1506 il giureconsulto di Palermo, esperto di diritto, Giacomo Basilicò donò ai padri di Monte Oliveto dei terreni e delle case rustiche per fare erigere un convento ed una chiesa da dedicare alla Madonna che spasima (soffre per il dolore) dinnanzi al Cristo in Croce.
Un atto di devozione nato da un suo ritorno da un pellegrinaggio compiuto in Terrasanta all’inizio del 1500 e anche per onorare una promessa fatta alla moglie Eulalia.

Il Basilicò era molto legato a quell’immagine di fede e, su consiglio di Antonello Gagini incaricato di scolpire l’altare della chiesa,  volle che a rappresentarla in un quadro fosse Raffaello Sanzio.
Fu dipinta a Roma ed ultimata nel 1517.
Venne inviata con una nave a Palermo ma durante il viaggio ci fu una tempesta. Un viaggio che fu riportato dal Vasari e da Vincenzo Borghini nella loro cronaca.  La nave naufragò e la tela rimase in mare per alcuni giorni per poi giungere lunga la costa nei dintorni di Genova. “Fu ripescata e tirata in terra, fu veduta essere cosa divina e per questo messa in custodia, essendosi mantenuta illesa e senza macchia o difetto alcuno, perciochè sino alla furia dè venti e l’onde del mare ebbero rispetto alla bellezza di tale opera”.
La notizia del recupero del dipinto giunse in Sicilia e i siciliani dovettero fare ricorso al papa Leone X per riaverla.  Il dipinto fu imbarcato e giunse a Palermo.
Prima che il complesso monastico fosse completato il vicerè spagnolo Don Ferrante Gonzaga, a causa della minaccia turca, decise di destinare il complesso ad uso militare facendovi collocare dei cannoni diventando un bastione difensivo della città.
I padri olivetani si trasferirono nel Convento di Santo Spirito “fuori le mura”.

 Palermo – Convento di Santo Spirito fuori le mura

Portarono con loro naturalmente il quadro di Raffaello che finì, non si sa come, nelle mani di un certo Don Giovanni Dies.
Chi era Giovanni Dies ?. La ricerca non è stata facile anche perché i nomi medievali venivano spesso alterati nei testi e documenti.


Nel libro “Napoli Sacra” ho trovato riportata un’antica trascizione relativa alla sepoltura di un certo Bartolomeo “Diez..” avvenuta nel 1554.


 Si tratta di una famiglia, Diaz Garlon o Diascarlon”, originaria della Catalogna e giunta nel Regno di Napoli al seguito di Alfonso IV (Il Magnanimo)  d’Aragona (I di Sicilia e I di Napoli).
Pascasio Diaz sposò Lucente di Chiaramonte  dalla quale ebbe tre figli.
La famiglia raggiunse una forte prosperità economica anche esercitando il commercio del grano proveniente dalla Puglia. In un documento del 1486 venne concesso il permesso di imbarcare 150 carri di frumento nelle navi dal porto di Manfredonia. Un grano diretto ai mercati esteri.
Un ricco mercante che riuscì ad appropriarsi del famoso dipinto ?
 Nel 1661 Giovanni Dies (Dias) donò il dipinto al vicerè Don Ferdinando d’Ayala, conte d’Ayala, il quale a sua volta lo inviò in Spagna al re Filippo IV di Spagna (III di Sicilia).
La storiografia riporta anche un’altra tesi, in cui non figura Giovanni Dies,  legata al “desiderio” del re di Spagna di avere quel quadro per collocarlo nella cappella dell’Escorial.
Il vicerè incontrò l’abate del convento per avere il prezioso dipinto..” “Il Nostro illustrissimo Sovrano, Filippo IV, venendo a conoscenza che nei suoi territori è presente un’opera dell’ormai compianto Urbinate, desidera entrarne in possesso!”
Appoggiò la lettera del re sul tavolo e guardò l’abate che disse solo alcune parole perché incredulo da una simile richiesta: “Sua eccellenza, ma…”
Il vicerè, con l’arroganza della sua carica, riprese subito la parola: “Lo sappiano che oramai il progetto del grande Monastero è fallito e che la Chiesa di Maria dello Spasimo, per quanto bella è incompiuta.”
Immediata e adirata la risposta dell’abate: “Non per volere del nostro benefattore (Giacomo Basilicò) ma del Senato cittadino…”
“La sicurezza della nostra città viene prima di tutto. Le mura, con gli infedeli per zonzo a mare, sono una priorità….Per cui abbiamo sacrificato il Monastero…Il passato è passato. Ora guardiamo avanti. Il quadro è più di un semplice quadro. Vede in questo momento gli equilibri sono stabili nel loro essere precari, lei mi capirà….Sarebbe un dono enormemente gradito da sua Maestà! Un dono indispensabile. Chiameremo qualche artista a farne una copia fedele da mettere al suo posto”  aggiunse il vicerè.
L’abate preso dallo sconforto e in preda alla rabbia esclamò consapevole di essere davanti ad una  persona decisa a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi: “Così è deciso vedo…”
Sicuro di sé il vicerè concluse il suo discorso con la solita arroganza che non gli era mai venuto meno: “Così sarà fatto! La Cappella personale di sua Maestà risplenderà di Sicilia, così da non poter dimenticare il nostro sacrificio e il mio servizio!”
Un’altra versione cita come il vicerè Ferdinando d’Ayala nel 1661 acquistò il quadro per donarlo sempre al re di Spagna.
Il realtà il quadro non venne acquistato dal vicerè tanto che Filippo IV promise ai religiosi, in cambio del quadro, una generosa rendita che non arrivò mai !!!!!!
I vicerè erano soliti depredare le opere d’arte presenti in Sicilia per portarle in Spagna. (ci fu un caso anche nella famosa farmacia medievale di Roccavaldina dove dei contenitori di ceramica furono oggetto di ripetute richieste, anche con minacce, da parte dei vicerè). L’abate del Convento dello Spasimo di Palermo, Clemente Staropoli, per evitare la perdita del prezioso dipinto, avrebbe commissionato una copia a un pittore del luogo.
L’originale fu mandato alle suore del Convento di Santa Croce di Caltanissetta che lo custodirono gelosamente. Il quadro di Caltanissetta è veramente l’opera di Raffaello Sanzio ?

Convento di Santa Croce di Caltanissetta

La Pietra con la Santa Croce custodita nel convento di Caltanissetta

La storiografia, tra mille dubbi, ha accettato la tesi secondo la quale il vicerè riuscì ad avere il prezioso dipinto che fu inviato in Spagna per essere collocato sull’altare maggiore della cappella dell’Escorial.



A causa delle ruberie napoleoniche la tela fu trasportata dalla Spagna in Francia a Parigi dove fu tenuta dal 1813 al 1822. In questa periodo fu soggetta ad una tecnica che porterà danni notevoli al capolavoro del Raffaello: trasporto dell’immagine dalla tavola su tela. Una tecnica che era molto conosciuta in Francia ma non sempre effettuata con perizia dagli artisti.
Il trasporto su tela di un dipinto eseguito originariamente su tavola è un'operazione molto delicata che richiede grande esperienza.
Il procedimento, in breve, si svolge in quattro fasi:
1) incollare uno strato provvisorio di tela sulla superficie anteriore del dipinto.
2) consumare posteriormente il legno della tavola su cui è posto il dipinto fino a raggiungere l'imprimitura a gesso.
3) incollare ora il dipinto (liberato posteriormente dal vecchio supporto in legno) sul nuovo supporto in tela.
4) togliere la tela che era stata posta provvisoriamente sulla superficie anteriore del dipinto.

L’opera successivamente ritornò in Spagna nel 1822. Le condizioni della pala, anche a causa del cambio del supporto non effettuato con perizia tecnica, non sono buone. Fu rimossa più volte dal Museo di El Prado per restauri di cui l’ultimo sembra risalire al 2012 quando fu allestita una mostra dal titolo “El ùiltimo Rafael”.
Alcuna domande ?
L’abate del monastero diede veramente l’incarico ad un artista del luogo di eseguire una copia del prezioso dipinto ?
Il nome dell’artista che eseguì la copia ?  I tempi erano brevi e la scuola del Raffaello, che presentava validi artisti, era distante. Era presenta in quel periodo a Palermo un artista capace di eseguire una copia perfetta ?
In quel periodo c’erano a Palermo tre grandi artisti: Giacinto Platania (1612-1691); Pietro del Po’ (1610-1692), Pietro Aquila (1630 – 1692).
Per motivi artistici e storici c’è da aggiungere che a Catania nella Chiesa di San Francesco all’Immacolata esiste una copia, risalente al 1541 ed opera del pittore Jacopo Vignero.





L’Opera
Cristo, caduto sulla via del Calvario, si rivolge alla Madre che è sorretta dalla Maddalena e dalle pie donne. Una scena molto affollata con numerosi soldati, a piedi e a cavallo. Al centro un apertura sul paesaggio, tra due macchie di colore dello stendardo rosso e di un edificio.
Il Cristo sembra chiedere aiuto alla Madre che allunga le braccia invano come a volerlo sostenere. Nella scena un soldato sta per sta per colpire il Cristo mentre un altro, girato di spalle, dà un colpo alla corda che è legata alla vita di Cristo. Nessuna pietà. Al centro la possente muscolatura di Giuseppe d’Arimatea che si fa carico dello sforzo di risollevare la Croce.
L’idea è del Sanzio ma la stesura fu fatta in gran parte dai suoi allievi come molte delle opere del famoso artista negli ultimi anni della sua vita.

LO SPASIMO DI  CALTANISSETTA
Lo “Spasimo” che si trova a Caltanissetta non è opera di Raffaello Sanzio ma di un su allievo, Polidoro Caldara, detto Polidoro da Caravaggio, o forse di un altro seguace o allievo della bottega del famoso artista.
La Sovrintendenza di Caltanissetta ed Agrigento hanno eseguito degli accurati studi sulla tavola per sciogliere i dubbi. La firma “R. Urbinas” non fu ritenuta valida per accertare l’identità dell’opera che fu realizzata su due tavole di legno africano affiancate l’una all’altra, e datate intorno alla metà del Cinquecento.
Le tecniche di studio sono state molteplici: dalla datazione effettuata con il carbonio 14 all’azione spettroscopica sul legno ai raggi ultravioletti, fluorescenza ai raggi X e Tac. L’opera proviene dal Museo di Santa Croce di Caltanissetta ed è conservata presso il Museo Diocesiano.
A Caltanissetta fu allestita una mostra sugli Spasimi di Sicilia.. dove furono esposte circa trenta opere (incisioni, dipinti ad olio, sculture) tutte sul tema dello “Spasimo” e di vari autori quali Luca Cambiaso, Antonello Crescenzio, Albrecht Durer, Agostino Veneziano, Mario Minniti, Antonello Gagini, Filippo Paladini.
Molti affermavano che lo “Spasimo” di Caltanissetta fosse l’opera autentica del Raffaello e che quella esposta al Prado era una copia eseguita per essere consegnata agli spagnoli. Ma un dato conferma che l’opera di Caltanissetta non è del Raffaello.. e questo in base ai dati tecnici..”la tavola “nissena” misura (128 x 92) cm mentre quella del Prado (318 x 229) cm. Non ha senso pensare alla realizzazione di una copia, viste le misure totalmente differenti. Inoltre l’iscrizione con la firma potrebbe essere apposta magari da aiuto della bottega, cioè un marchio di garanzia, nel senso che l’opera potrebbe essere stata realizzata sotto la supervisione del grande pittore”.

Lo Spasimo  di Caltanissetta

Lo “Spasimo di Sicilia” di Caltanissetta sarebbe quindi opera di Polidoro.. ma rimangono ancora tanti dubbi.. l’abate del convento con l’aiuto del nobile nisseno Moncada, consegnò al vicerè una copia del quadro (allora  erano presenti tante riproduzioni). Re Filippo fra le altre cose era anche un raffinato intenditore d’arte e s’accorse di essere stato raggirato… si potrebbe spiegare in questo senso la mancata promessa di una rendita al convento fatta dallo stesso re per avere il quadro. Ma c’è un altro aspetto da rilevare.. a quanto sembra il vicerè Ayala, ritenuto responsabile del raggiro nei confronti del re, non venne riconfermato nel vicereame. Ci sono alcune copie dell’opera del Raffaello che si possono considerare pregevoli come quella dipinta da Giovanni Paolo Fonduli (o Fondulli) di Cremona e collocata nella chiesa madre di Castelvetrano.  Una copia fedele sia in termini di formato che di resa pittorica. Una tavola eseguita nel 1574, a circa sessant’anni dall’opera di Raffaello. Un opera che fu commissionata da Don Carlo d’Aragona Tagliavia per la Chiesa di San Domenico.
Giovanni Paolo Fonduli, un pittore sconosciuto che fu allievo di una grande maestro della pittura cremonese cioè Antonio Campo che ne esaltà le virtù espressive nella sua “Cremona Fedelissima”: “D'un solo son sforzato far memoria, che è stato mio allievo, il qual intendo con mio gran contento che è tenuto in molte pregio nella Sicilie, ove fu condotto del Marchese di Pescara, è questi Gio. Paolo Fondulo, che fine da fanciullo dava segno di dover riuscire perfetto, si come intendo che è riuscito”.
Il prof. Santo Correnti affermà che il Fonduli..”… Imitatore dei manieristi operanti in Sicilia si dimostra pure quel Giovan Paolo Fondulli, che dalla natia Cremona venne a Palermo nel 1568 al seguito del Viceré Avalos, e la cui attività è documentata nell’isola fine ai primi decenni del secolo successivo”.
Altre fonti ci vengono dallo storico Zaist..” “Fondulo Giampaolo, di Nobil Famiglia Cremonese, attese all’Arte della Pittura, per cui, resosi caro al Marchese di Pescara, venne in età giovanile da lui condotto in Sicilia, dove risedeva, qual Viceré di tal ragno; e godeva passare l’ora libera nel vederlo a dipingere. Sendo egli dotato dalla natura di un bell’aspetto, e nutrendo altresì sentimenti, conformi all’illustre sua nascita, si acquista una singolar affezione de principali Signori di quell’isola, ed attesta la sua virtuosa condotta, con una rara prudenza, da lui usata in sì grand'auge di fortuna, non vi fu grazia, ch'ei richiedesse dal suo amorevolissimo Viceré, che non gli fosse benignamente conceduta. Si compiacque egli poi molto ancora nello studio della storia, cosi sacra, come profana, in cui riuscì versatissimo.
Fu assai lepido, e gioviale nei famigliari suoi discorsi, contenendosi però sempre entro i limiti della più regolata modestia; seppe ei pure maneggiar bene la spada, e fu un bravissimo Cavaliere; onde spesse fiate adoperato ei venne, a compor gravi, insorte differenze fra primi Maggiorenti del Regno, stante la sua disinvolta maniera in somiglianti maneggi.
Si trattò sempre alla grande e col mezzo del suddetto Viceré, ebbe la sorte di accasarsi con una nobilissima Gentildonna del Paese [cioè la città di Palermo o la Sicilia, N.d.R.] di ricche sostanze posseditrice per ereditaria ragione. E quindi accoppiato il proprio avere co' beni a lui pervenuti della doviziosa Consorte, colà trapiantò egli la illustre Prosapia, fatto Padre di due figliuoli, senza più curarsi, di rivedere la Cremonese sua Patria. Fece egli pertanto in quei contorni molte commendevoli opere di Pittura, cosi in pubblico esposte, come custodite in più luoghi privati, delle quali, perché rimaste in paese da noi lontano, non potiamo recarne alcuna distinta, individuale notizia…”.
L’artista cremonese ci stupisce con la sua opera… un capolavoro perfetto tanto da poter essere paragonato  a quello del Raffaello:




Dello Spasimo di Sicilia furono eseguite diverse altre copie da artisti siciliani, ben quattro solo nel XVI secolo, quando l’opera del Raffaello era ancora a Palermo e un’altra tela a Madrid però nel XIX secolo.

Qualcuno afferma, come in un romanzo, che l’abate del monastero di palermo abbia con “un cerimoniale concepito con lucida follia, staccato la tavola dalla cornice, l’aveva avvolta con un sacco, e trascinata a ridosso dell’orto del monastero, e recitata un preghiera, vi aveva appiccato il fuoco in nome della sua autorità di Abate di Spirito Santo.  Come l’Inquisizione, Clemente aveva condannato il dipinto ad un orribile distruzione, perché una volta in possesso del D’Ayala, sarebbe diventato eretico. Il rogo s’addiceva a quel capolavoro per non cadere in mani impure e assassine”.
Una storia forse senza un riscontro reale ma che ci lascia entrare nei meandri delle cripte delle chiese e negli oscuri sotterranei del potere.
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DA CAMPOFRANCO  VERSO   SUTERA..



.....Lungo la Strada Provinciale  238...









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In giallo  sono indicati i percorsi alternativi
Il percorso a destra permette di costeggiare Rocca Spaccata e l’area dove
un tempo sorgevano i Conventi dei Cappuccini e dei Carmelitani.



B)  SUTERA - IL SANTUARIO DI SAN  PAOLINO






SAN PAOLINO (Vescovo di Nola)
San Paolino di Nola , Ponzio Anicio Meropio Paolino, nacque a Bordeaux nel 355. Apparteneva ad una nobile famiglia di senatori e consoli, il padre era prefetto della Provincia d’Aquitania. Ebbe come insegnante il poeta Ausonio, amico del padre, e la sua educazione fu incentrata nella poesia, la legge e la filosofia. A 15 anni aveva già completato gli studi e all’età di vent’anni era incluso nella lista dei seicento senatori.


Nel 378 gli spettava il governo di una provincia senatoriale e scelse la Campania, il centro di Nola, dove aveva alcuni possedimenti.
Nella vicina Cimitle era venerato San Felice a cui, prima di tornare in Aquitania, consacrò simbolicamente la sua barba secondo una cerimonia di tradizione pagana.
A Barcellona conobbe Therasia, una donna ricca e bella, che a differenza di Paolino era cristiana e battezzata. Si sposarono e Therasia riuscì a guidare il marito verso la conversione al cristianesimo.
Nel 389 ricevette il battesimo dal vescovo Delfino e nel 392 dalla coppia nacque Celso. Il bambino morì dopo appena otto giorni e questo tragico evento segnò la vita di Paolino che vide nella fede l’ancora della sua salvezza dalla disperazione.
Nel 393 a Barcellona, durante una celebrazione liturgica del Natale, i fedeli invocarono “Paolino Sacerdote”. Scelse di prendere i voti, secondo la massima “Voce di Popolo, Voce di Dio” e dopo l’ordinazione avvenuta nel 394 partì per l’Italia dove fece la conoscenza di Sant’Ambrogio.
Durante una sosta in Toscana con la moglie Therasia, che era sempre al suo fianco, decisero di dedicarsi alla vita monastica.
Paolino decise di stabilirsi a Nola, provincia che aveva governato e dove era presente la tomba di San Felice a cui era da sempre particolarmente devoto.
Fondò un cenobio maschile e femminile per la preghiera e l’assistenza ai poveri. Si ammalò gravemente e guarì dopo molto tempo. Secondo la leggenda agiografica la guarigione fu un miracolo di San Felice. Fece innalzare una basilica al Santo, al posto di un piccolo santuario allora esistente, e attorno edificò una serie di chiostri ricchi di colonnati e fontane per accogliere i migliaia di pellegrini che ogni anno si recavano in preghiera all’ara di San Felice.
Fu una sua opera il primo campanile del mondo cristiano munito di una campana. San Paolino è infatti il patrono dei campanari.


In quel periodo, tra il 409 ed il 411 morì la moglie Therasia.
Il 24 agosto 410 Alarico I, re dei Visigoti entrò a Roma saccheggiandola. In quello stesso anno morì il vescovo di Nola, Paolo. Gli abitanti di Nola invocarono “Paolino Vescovo”.  Nola subì una forte devastazione da parte dei Visigoti e gran parte della popolazione fu fatta prigioniera. Paolino vendette tutti i suoi averi per riscattare i prigionieri e quando le sue risorse finanziarie si esaurirono, si offrì agli invasori per riscattare l’unico figlio di una vedova.

San Paolino  libera lo schiavo
(Giovanni Bernardino Azzolino -  dipinto del 1626/30
(306 x 210) cm -  pittura
Collezione: Napoli, Pio Monte della Misericordia)

Fu fatto prigioniero e condotto in Africa dove fu veduto come schiavo diventando il giardiniere del suo padrone. Un giorno Paolino profetizzò al suo padrone la morte del sovrano. Fu condotto alla presenza del re che fu conquistato dalla paura. Riconobbe nel santo la figura che gli era apparsa in sogno. Fu interrogato dai giudici del tribunale a cui rilevò la sua vera identità come vescovo di Nola. Il padrone fu colpito dalla bontà del santo a tal punto che gli promise di esaudire ogni suo desiderio. Paolino chiese subito la liberazione di tutti i nolani che erano con lui. Il ritorno a Nola, sia di Paolino che dei suoi compagni, avvenne dopo poco tempo. Tornarono a Nola in navi cariche di grano e approdarono alla spiaggia di Torre Annunziata. Furono accolti dai nolani che portarono mazzi di gigli bianchi. In memoria di questo evento ogni anno si festeggia la festa dei gigli che si svolge la prima domenica dopo il 22 giugno, anniversario della morte di Paolino avvenuta nel 431.

La Basilica di San Felice a Cimitile (Napoli) è uno dei più grandi e importanti complessi paleocristiani
dell’Italia Meridionale. Sorse su una necropoli risalente al II secolo a.C.,
le prime comunità cristiane seppellirono i loro morti in un “caemeterium”, un termine da cui
deriva il nome del centro Cimitile. In questo cimitero i nolani seppellirono le spoglie del
presbitero San Felice (decapitato il 15 novembre 95).  Probabilmente il corpo fu prima seppellito in
questo cimitero per poi essere spostato all’interno di un pozzo di una casa patrizia dove fu poi
edificato un luogo di culto. Un luogo che diventerà la cripta della cattedrale di Nola dove ancora
oggi riposano le spoglie del Santo). La Basilica di San Felice di Cimitile fu subito oggetto di pellegrinaggi
per i miracoli che si verificarono sulla tomba del santo. Nel IV secolo nel cimitero erano presenti diverse
basiliche, sorte una a fianco dell’altra, mentre altre furono sovrapposte: Basilica di San Felice in Pincis,
Santo Stefano, San Giovanni, San Paolino, Santissimi Martiri, San Gaulonio. Ad esse si aggiunse
la chiesa del 1789, posta in alto sul sito archeologico e dedicata anch’essa a San Felice in Pincis.
Questi luoghi di culto e di preghiera si collegano ad un antico monastero che fu fatto costruire
dal vescovo di Nola, San Paolino, che si stabilì nel 394 a Cimitile.
I cristiani conducevano nel monastero una vita di lavoro e preghiera e anticiparono,
di quasi un secolo, la Regola di San Benedetto. Nel 409, San Paolino fu nominato vescovo di
Nola. Lasciò quindi il monastero, ingrandì il cimitero e fece costruire una Basilica Nuova (400-403)
che fu inglobata nel XVI secolo nella Basilica di San Giovanni che comunicava, tramite un passaggio a
triplice arcata, con la Basilica di San Felice in Pincis.
La Basilica di San Felice in Pincis è la più importante delle sette basiliche. Costruita nel IV secolo
custodisce il sepolcro di San Felice, custodito in un’arca formata da una celletta, in cui furono
deposti anche i resti di altri due vescovi. La piccola costruzione diventò un “martyrium” con
un’apertura che serviva di passaggio ai fedeli che introducevano nella tomba gli unguenti,
ritenuti miracolosi e protettivi contro le malattie, dopo il contatto con il corpo del Santo.


Cimitile – Basilica Paleocristiana di San Felice




Cimitile – Tomba di San Felice

Paolino mantenne importanti rapporti epistolari con Ambrogio, Gerolamo e Agostino e il suo epistolario è costituito da 49 lettere. Scrisse anche i “Carmina” cioè delle poesie cristiane importanti testimonianze dei primi secoli del cristianesimo.  Ne sono pervenuti 33 di cui 14 sono dei carmi natalizi. Ne compose uno ogni anno durante la sua permanenza a Nola e tutti il 14 gennaio di ogni anno per la ricorrenza del martirio di San Felice.

Sant’Onofrio

Onofrio o Noferi, dal greco “Onnòphris” (“cioè colui che è sempre felice”)( ? –IV secolo) fu un anacoreta che visse nel deserto egiziano. In arabo “Abù Nufar” (l’erbivoro). Il nome Onofrio è di origine egizio e significa ‘che è sempre felice’ e  in Egitto era un appellativo di Osiride.
Secondo una leggenda era figlio di un re. Un figlio desiderato da tanto tempo ma la cui nascita fu avvolta subito da spietate accuse.  Fu indicato da un demonio come figlio di una relazione adulterina della regina. Fu sottoposto alla “prova del fuoco” e ne uscì indenne. Si isolò, ancora giovane, dedicandosi alla vita eremitica.

Sant’Onofrio – Icona Bizantina del IV secolo

Il vecchio vescovo e monaco egiziano Pafnuzio era desideroso di incontrare gli anacoreti del deserto per conoscere la loro vita ed esperienza e s’inoltrò nel pericoloso deserto alla loro ricerca. Dopo 21 giorni, preso dalla stanchezza, si distese a terra. Vide una figura umana dall’aspetto terribile… coperto solo da lunghi capelli e da qualche foglia.
Un abbigliamento che era comune negli anacoreti, che vivendo da soli, alla fine facevano a meno degli indumenti che erano difficili da procurarsi o da sostituire nella solitudine del deserto.
Pafnuzio si spaventò e cercò di scappare ma la figura umana lo chiamò dicendogli di stare tranquillo e di restare. A quelle parole capì di aver trovato la persona che cercava e s’instauro tra i due una reciproca fiducia.
L’eremita disse di chiamarsi Onofrio e stava nel deserto da 70 anni e di non aver mai visto anima viva, si nutriva di erbe e si riposava nelle caverne.
In realtà, secondo alcune fonti, Onofrio aveva vissuto in un monastero della tebaide ad Ermopolis, insieme ad un centinaio di monaci. Il desiderio di una vita solitaria, sull’esempio di San Giovanni Battista e di Sant’Elia, lo spinse a lasciare il monastero. Nel deserto dopo alcuni giorni incontrò un altro eremita a cui chiese di iniziarlo a quella vita di solitudine e di preghiera.
L’eremita esaudì il suo desiderio e poi l’accompagnò in un’oasi dove c’erano delle palme e stette con lui trenta giorni. Poi  partì ritornando nella sua caverna. Una volta l’anno l’eremita lo raggiungeva per fargli visita e confortarlo. In una di queste visite il monaco appena giunse nella grotta di Onofrio s’inchinò per salutare e morì. Onofrio preso dalla tristezza lo seppellì vicino alla sua grotta.
Onofrio raccontò a Pafnuzio come ci si adattava al cambio delle stagioni, di come si resisteva alle intemperie e di come si sosteneva. Un angelo provvedeva quotidianamente al cibo e la domenica alla S. Comunione. Il miracolo dell’angelo fu visto anche da Pafnuzio che Onofrio condusse nel suo eremo di Calidiomea, il “luogo delle palme”.


I due continuarono a discutere e Onofrio disse: “Dio ti ha inviato qui perché tu dia al mio corpo conveniente sepoltura, poiché sono giunto alla fine della mia vita terrena”. Pafnuzio rispose che era pronto a prendere il suo posto ma l’eremita rispose che non era questa la volontà di Dio perché doveva ritornare in Egitto e raccontare ciò di cui era stato testimone.
Onofio lo benedì, s’inginocchiò e morì.


Pafnuzio lo ricoprì con parte della sua tunica e lo seppellì in un anfratto della roccia. Prima della sua partenza una frana sconvolse la grotta di Onofrio… caddero anche le palme.. era un segno della volontà di Dio che in quel posto nessun altro sarebbe vissuto come eremita.

La “Vita” scritta da Pafnuzio è nota in diverse lingue orientali, greca, copta, armena, araba.  Nel suo scritto presenta un elogio alla vita monastica cenobitica  e allo stato di vita più perfetto cioè la solitudine nel deserto.
Il libro si conclude l’11 giugno, morte di S. Onofrio che comunque è celebrato il 12 giugno.
Antonio, arcivescovo di Novgorod nel 1220 citò  la presenza della testa di Sant’Onofrio nella chiesa di S. Acindino.
“La Vita”  ebbe una larga diffusione in Oriente facendo nascere il culto di Sant’Onofrio che si sviluppò in tutta l’Asia Minore.
Il culto del santo giunse in Italia attraverso Bisanzio. È ritenuto con Sant’Antonio da Padova e Graziano di Tours, protettore di chi cerca oggetti smarriti. È anche protettore dei tintori a Firenze, delle donne che cercano marito e  degli studenti che hanno problemi didattici.
A Palermo è compatrono della città e in Sicilia il suo culto è molto diffuso. 

Cesi (Terni) – Stata di Sant’Onofrio


Cesi (Terni) – Eremo di Sant’Onofrio

In Sicilia…..

Casalvecchio Siculo (Me) – Chiesa Madre di Sant’Onofrio






 La matrice dedicata a Sant’Onofrio, del XVII secolo, conserva un culto antichissimo che risale al 117, quando il
Re Ruggero II autorizzò la ricostruzione della Basilica dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò e nel
“Diploma di Donazione” di terre e feudo fa menzione del culto di Sant’Onofrio.

Una preghiera siciliana  per ottenere la sua intercessione:


Testo Siciliano:
Santu Nofriu pilusu-pilusu
Tuttu amabili e amurusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi sta grazia
Diccà a stasira.

Santu Nofriu pilusu-pilusu
Lu me cori è tuttu cunfusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi sta grazia
Diccà a stasira.

Santu Nofriu pilusu-pilusu
Misi un muranu n'to pirtusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi truvari chiddu ca pirdivi
Diccà a stasira.
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Sant'Onofrio peloso-peloso
tutto amabile e amorevole
per i vostri santi peli
fatemi questa grazia
entro stasera.

Sant'Onofrio peloso-peloso
il mio cuore è tutto confuso
per i vostri santi peli
fatemi questa grazia
entro stasera.

Sant'Onofrio peloso-peloso
ho fatto un'offerta ai poveri
per i vostri santi peli
fatemi trovare ciò che ho perso
entro stasera
.

L'aiuto del Santo è invocato soprattutto quando il fedele vuol trovare qualcosa che ha perso, ma le giovani in passato lo pregavano anche per trovar marito. 
A Sutera si trovano le reliquie di Sant’Onofrio e il culto viene festeggiato la prima domenica d’agosto mentre il Santo viene ricordato il 12 giugno.
La sua iconografia nell’arte è rappresentata da un vecchio nudo, coperto solo dei propri capelli. Altri attributi sono l’angelo, l’ostia, il calice, il teschio, il cammello e il perizoma di foglie


 IL SANTUARIO DI SAN PAOLINO





Il Santuario, posto sul Monte San Paolino, fu costruito nel 1370 da Giovanni III Chiaramonte, e probabilmente anche dal figlio Manfredi. Fu costruito sui resti dell’antico fortilizio bizantino, probabilmente ristrutturato dai musulmani, di cui furono utilizzati le rovine. Si raggiunge attraverso una strada in salita caratterizzata da oltre 180 gradini. Lungo il tragitto si possono ammirare le Stazioni della Via Crucis e la prigione nel quale fu rinchiuso Filippo d’Angiò, principe di Taranto e figlio di Carlo II d’Angiò e di Maria d’Ungheria. Durante i Vespri fu sconfitto da Federico III d’Aragona. Fu catturato e rinchiuso nelle carceri di Cefalù da dove venne poi trasferito in un posto più sicuro, lontano dal mare, a Sutera. Nei pressi c’è una grande Croce che è posta sul luogo dove nel 75 d.C. fu eretta per la prima volta una Croce in ricordo dell’adesione dei suteresi alla fede cristiana per l’opera di evangelizzazione dei SS. Onofrio ed Archileone.
Lungo la scalinata la prima campana dei Pellegrini mentre la seconda  è sposta sul monte.

https://www.sikelianews.it/wps/cultura-e-societa/le-meraviglie-di-sikelia-sutera/


https://www.sikelianews.it/wps/cultura-e-societa/le-meraviglie-di-sikelia-sutera/




La Campana dei Pellegrini  posta lungo la scalinata

La prima campana dei Pellegrini
(foto di Cesare Busetti)


Via Crucis

L’altra Campana dei Pellegrini posta sul Monte



Tra il 1366 e il 1374 per iniziativa di Giovanni III Chiaramonte giunsero in città le spoglie di Sant’Onofrio, re di Persia; San Paolino, Vescovo di Nola; di Sant’Archileone, San Pietro Martire e San Damiano. Reliquie che  furono donate a Giovanni III dal cugino Matteo Chiaramonte, Conte di Modica.

Le reliquie di San Paolino e di Sant’Onofrio furono trasportate a Roma nell’anno 1001 e donate al principe Federico Chiaramonte nel 1220 che le custodì per tramandarle ai discendenti della sua nobile casata.

Il Gesuita padre Ottavio Gaetani citò che “ è opinione di alcuni…. Che tra le reliquie che qui si contano (in Val di Mazara), furono inviati, da Alessandria in Sicilia ad opera del B. Atanasio (della famiglia Chiaramonte, Patriarca in Alessandria d’Egitto), ai suoi Chiaramontani, anche i corpi dei SS. Onofrio, Archirione e Paolino con la tibia di S. Damiano e altre reliquie di Santi, che nella rocca di Sutera si venerano. Al contrario, argomenti che provino ciò non esistono. Tuttavia una tal cosa il casato dei Chiaramonte ritiene certa. Le reliquie furono da questi collocate in Sutera perché sulla sommità fossero custodite tanto dalla natura del luogo che dal particolare sito. A ciò si aggiunge che quei corpi venivano conservati in un sacello dei Chiaramonte, come fosse un loro dono”.
Il Gaetani citando le reliquie di Sutera accennò alla storia della vita di S. Angelo, martire carmelitano, osservando che nella biografia del Santo “… furono numerate ed ordinate solo le reliquie che, per rivelazione di S. Giovanni Battista, furono prelevate dalla basilica alessandrina ed inviate a Federico Chiaramonte, sulle quali sarebbe intervenuta l’approvazione del pontefice Onorio”.
Reliquie che sarebbero in qualche modo collegate con la vita del martire carmelitano S. Angelo, patrono di Licata, e con la famiglia dei Chiaramonte che nel 1366 ottennero l’investitura della Signoria di Sutera e delle sue pertinenze concesse a Giovanni III Chiaramonte.

Le sacre reliquie di San Paolino furono  prima custodite in un cassonetto di stagno di fiandra, contenuto in una cassa di noce finemente lavorata  e poi collocate nel 1498 in un urna aragonese di finissimo argento commissionata agli artigiani palermitani, grandi maestri dell’arte orafa, dalla nobile famiglia dei Pujades.  L’urna contiene al suo interno anche le reliquie di S. Archileone, San Damiano e San Pietro Martire. L’urna che contiene le spoglie di Sant’Onofrio risale al 1649 e appartiene alla scuola barocca. Fu commissionata al maestro orefice Francesco Rivolo dal Comune di Sutera per devozione verso il santo eremita.




L’urna di San Paolino, a sinistra,  è una cassa in legno rivestita da una lamina d’argento decorata da fregi, alcuni dorati, e lavorata a sbalzo e bulino. Il coperchio è a schiena d’asino ed è ornato da tante piccole teste di cherubino dorate. Nella parte centrale, intorno all’urna, si notano in rilievo 24 figure raffiguranti S. Paolino, S. Onofrio, la Vergine con il Bambino, Gesù con gli Apostoli ed altri Santi. Nella base la cassa reca la data 1498 in numero romani.
Commissionata dalla nobile famiglia spagnola Pujades di cui è presente lo stemma: un mezzo giglio orlato d’oro e capeggiato di stelle.

Stemma dei Pujades ?

L’Urna di Sant’Onofrio è costituita da una cassa di legno rivestita da una lamina d’argento sbalzata e cesellata, lavorata a grosse volute e fregi fogliacei. È sormontata da una statuetta di Sant’Onofrio in ginocchio e sotto vi sono quattro angeli che sostengono ciascuno uno stemma della città di Sutera. Nella parte inferiore vi sono altri quattro angeli e intorno all’urna sono scolpiti sei quadri che narrano gli episodi più importanti della vita del Santo. Nella parte inferiore è inciso l’anno della costruzione: 1649. Un opera di Francesco Rivolo che lavorò anche all’urna di Santa Rosalia.


Per tradizione i suteresi suonano la grande campana, posta alla sommità del monte, come atto di devozione e sottomissione ai Santi Patroni.


I santi sono compatroni dal 1634.
 Il Santuario fu edificato ad una delle estremità dell’ampio pianoro posto sul monte.
È stato oggetto di  interventi di ristrutturazione necessari per le cattive condizioni statiche dell’edificio. Gli ultimi interventi risalivano alla prima metà del secolo scorso. Un intervento non controllato e che causò notevoli danni al patrimonio artistico dell’edificio.  Furono infatti distrutte delle antiche decorazioni in oro e pitture sulle pareti risalenti ad epoche decisamente anteriori.
I recenti lavori eseguiti sotto il controllo della Soprintendenza hanno riportato alla luce antiche sepolture come la tomba del chierico Giacomo Principato, membro dell’omonima famiglia di Sutera, sormontata da una lapide di pietra che porta scolpita in bassorilievo l’immagine del religioso e la data della sua morte: 26 gennaio 1620.


Sulla sinistra la sepoltura di un altro religioso, “Corradinus Albertus” sulla cui lastra tombale è riportata in latino la scritta: “Corradino Alberto giace qui – pregate per lui “.


http://www.itinerarinisseni.it/santuario-diocesano-san-paolino/

È stato riportato alla luce anche un piccolo campione del pavimento originario. Un piccola parte di pavimento in maiolica dipinta che fa da sigillo, cioè copre, un ossuario. Alcuni libri parrocchiali della fine del 1500 citano i numerosi prigionieri deceduti nelle carceri, che si trovavano nella parte inferiore del monte, e che vennero seppelliti in questo ossario.




Nel Santuario sono presenti quadri di grande valore artistico. I santi medici  Cosma e Damiano che s’inginocchiano davanti alla Vergine e al Bambino, opera di Filippo Tancredi (1700). Questa tela è stata oggetto di ripetuti tentativi di furto e in uno di questi fu seriamente danneggiata. 



Un quadro che raffigura San Benedetto e proveniente al monastero di San Benedetto, oggi non più esistente, e di cui non si conosce l’autore. Un altro quadro raffigura San Paolino, Sant’Onofrio e San Archileone ed ha una sua importanza storica perché fu collocato nel santuario nel 1624 quando i tre Santi furono dichiarati compatroni di Sutera. L’autore del quadro è Serenario.
Accanto alla chiesa si trova il convento  settecentesco ed oggi Eremo di Sant’Onofrio. Un Eremo destinato a luogo di preghiera anche per i numerosi pellegrini che percorrono la Via Francigena.
Le onorificenze religiose a San Paolino si svolgono il giorno dopo la Pasqua in una processione che è molto caratteristica per la naturale conformazione del territorio. Una processione che oltre alle due statue presenta anche le due “Santa Cascie” con le reliquie dei Santi.







Da Sutera a Mussomeli
PERCORSO LUNGO
SS  132 – SP 23 – SP 208









PERCORSI  ALTERNATIVI

SP 20 - STRADA PENETRAZIONE AGRICOLA (sulla sinistra)
 STRADA AGRICOLA ( 3)
SS 132 – SP23 –SP 208  (2)




C) MUSSOMELI
           SANTUARIO MADONNA  DEI  MIRACOLI



Il culto della Madonna dei Miracoli è radicato da secoli.
Mussomeli era sotto la dominazione dei Campo che resero il territorio uno dei più progrediti del Regno. L’8 settembre 1530/1536 o 1540 su un viottolo pieno di rovi, nei pressi del piccole monte su cui sorgerà il paese, un paralitico a dorso di un mulo andava chiedendo l’elemosina.  La povera bestia, stanca per il lungo tragitto, si fermò e si mise a terra… il povero mendicante trovò un piccolo riparo vicino a un sasso e cadde in preda ad un sonno profondo.
La leggenda narra che “correva l’anno del Signore 1540, né confini del paese passò un povero paralitico, per la stanchezza del giumento che lo portava fu obbligato a riposare all’ombra di un sasso…”.
Quando si risvegliò …incredulo, timoroso.. si ritrovò perfettamente guarito dai suoi terribili mali. Gridò al miracolo.. la gente accorse,, giunse anche altra gente dal vicino paese… raccontò quello che era successo e tutti incominciarono a cercare qualcosa tra i rovi per capire la causa del prodigio..  A poca distanza “a quattro passi” rinvennero tra i rovi  una bellissima immagine della Vergine Santa con il bambino Gesù.. alla Madonna fu dato il nome di Madonna dei Miracoli.
La leggenda nel particolare narra che il mendicante s’addormentò vicino ad una vigna e fu il proprietario del terreno che, dopo il miracolo, scavando trovò una lastra di pietra con dipinta l’immagine della Madonna con il Bambino Gesù. Lastra che è visibile sull’altare della cripta dopo il restauro, risalente al settecento, di Domenico Provenzani.
Si edificò prima un’edicola e successivamente una chiesa con oratorio.. La Madonna fece altri miracoli tra cui la guarigione del figlio del principe Lanza. In seguito a questo prodigioso miracolo, Donna Giovanna Lanza donò alla Madonna “ un cinto a maglia d’argento e una catena di centoquaranta partiture in oro smaltato di banco e nero”.
Da allora ogni anno, l’8 settembre, si celebra una festa solenne con espressa licenza del vescovo di Girgenti, a cui in quel tempo andava soggetta la parrocchia.

Il Santuario della Madonna dei Miracoli è una costruzione barocca che risale alla metà del settecento ad opera dei padri domenicani.
Con il passare del tempo il culto si diffuse e la piccola chiesetta era ormai insufficiente ad accogliere tutti i fedeli in preghiera. La Madonna venne nel frattempo proclamata patrona di Mussomeli. Il 6 giugno 1724 iniziarono i lavori di ampliamento della chiesa grazie al domenicano Francesco Langela che nel 1721 aveva donato tutti i suoi averi per la costruzione dell’importante edificio sacro. Nel 1730 il prospetto della chiesa, in pietra locale scolpita, fu quasi completato. L’interno è ad un'unica navata con stile barocco sia nell’architettura che nelle decorazioni.


Sono presenti due simulacri in legno della Madonna. Uno è opera di Domenico Provenzani di Palma di Montechiaro che fu autore anche del grande affresco sulla volta, datato 1792, e di due pale d’altare. Il secondo simulacro, gruppo scultoreo formato dalla Madonna, dal paralitico e dall’angelo, del 1786 è invece opera di Francesco e Vincenzo  Biangardi ed è posto nell’abside della chiesa. La Madonna volge il suo sguardo al popolo mentre il paralitico tende le mani implorando la grazia. Dai suoi occhi traspare la fiducia nella comprensione della Madonna. Gruppo scultoreo che viene portato in processione durante la ricorrenza. L’attuale Madonna dei Miracoli risale alla seconda metà del XIX secolo.
Di Vincenzo Biangiardi è anche il fercolo della Madonna del Rosario che si trova nella sacrestia.


 Tra i dipinti la Madonna del Rosario e un San Giuseppe risalente al’ 500.
Accanto alla Chiesa l’ex convento dei Domenicani con un bel chiostro che è adibito a iniziative culturali.







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LA STORIA DELL’IMMAGINE DELLA MADONNA SU PIETRA



Secondo alcuni studiosi l’immagine su pietra della Madonna, conservata nella cripta del santuario, sarebbe un alterazione dell’immagine originaria.
L’immagine della Madonna dipinta sulla pietra del miracolo in principio era diversa di quella visibile attualmente: la figura, secondo gli studi, era in piedi.
Domenico Provenzani di Palma di Montechiaro ebbe l’incarico nel 1792 di restaurare l’antica immagine. I lineamenti del disegno, probabilmente bizantini, erano sbiaditi e l’artista ebbe una grande difficoltà nel ripristino delle figura originaria. Per questo motivo si lasciò andare alla sua interpretazione artistica. I restauratori di un tempo non avevano  le tecniche attuali e spesso alteravano le immagini da restaurare con gravi ed incalcolabili danni culturali.
 “L’iconografia della Madonna – spiega il rettore don Leonardo Mancuso- presenta la Vergine sempre in piedi. Da qualche secolo  in qua è adorna, a fare da sfondo, del manto aperto e decorato  posizionata appunto nello sfondo quasi a volerla impreziosire. Nell’originale, nelle immagini più antiche, il Bambino è nudo e posto in avanti sul seno della Vergine che lo copre con  le sue mani. Quasi a ripetere con San Francesco D’Assisi:” Tu hai dato vestimento umano al Verbo di Dio che si è fatto carne”.


Gli studi confermati dal rettore don Leonardo Mancuso, affermano quindi che in principio l’immagine era ben diversa da quell’attuale. La figura della Madonna non si fermava alla cinta ma proseguiva.
Sono molti gli elementi che confermano la tesi come l’effigie che campeggia sul prospetto del santuario, proprio sopra al grande portone centrale. Nell’ovale viene riprodotta la Madonna in piedi. Poi c’è anche la scelta, negli anni successivi al miracolo, di realizzare la statua della Madonna (quella portata in processione prima dell’avvento della scultura lignea del Biangardi), maestosamente in piedi (e con il particolare delle scarpe rosse).
Padre Leonardo, con la preziosa collaborazione di Giuseppe Maria Spera e di Salvatore Catalano, forte della tecnologia e degli strumenti più moderni, ha fatto realizzare un video che è più di un’interpretazione filmica.

SI TRATTA DI UNA STRAORDINARIA RIPRODUZIONE STORICA.



La simulazione, visibile in un video di pochi secondi, rende onore alla realtà e mostra come era all’origine il dipinto del miracolo. Un lavoro in laboratorio, realizzato dal bravissimo Salvatore Catalano, che offre un’immagine la più reale e veritiera possibile sulla Madonna in piedi. Sovrapponendo la Madonna del campanile a quella del masso appaiono reintegrati anche le parti ancora visibili dell’icona in piedi nonostante le picconature e le diverse traversie subite.
A riprova di quanto detto la Confraternita conserva un quadro della Vergine sempre ad opera del Provenzano che la dipinge in piedi ed avvolta nel manto stellato. Ancora, le mazze dei mazzieri della Confraternita, sempre del Provenzano, riportano da una parte la Vergine dei Miracoli in piedi e non seduta e dall’altra parte la Vergine del Rosario. "La Madonna dei Miracoli era volgarmente detta nei tempi passati “La Madonna dei sette veli”. Questo perché avvolta nell’immagine originaria da tre mantelli considerando le sfumature di colore interne ed esterne più la veste,  totale fa sette".

il video sul sito:


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MUSSOMELI
SANTUARIO DELLA MADONNA DELLE VANELLE





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Il Santuario venne aperto al culto il 7 settembre 1635 e nel 1700 si hanno le prime notizie sull’esistenza della Confraternita di Maria SS. delle Vanelle.
Anche in questo caso un’antica leggenda, anche se arricchita da aspetti storici, fa da base alla fondazione del santuario.
A Mussomeli il “Monte di Pietà” era contrastato nella sua attività economica dal potere feudale. La sua attività fu limitata e non riuscì ad erogare quei piccoli prestiti ai contadini in cambio di un pegno che erano ben accetti dalle classi sociali di quel tempo. Una situazione decisamente differente rispetto ai centri vicini di Nicosia e di Gangi.
La nuova istituzione della “Compagnia dei Verdi”, appellata la “confraternita dei nobili”, in sostituzione del Monte di Pietà, fu legata al miracolo ricevuto dal fondatore dei “Verdi”, Conte Don Lorenzo Lanza.
Il conte in una piovosa giornata d’inverno del 1608 tornando da Sommatino, nei pressi di un luogo reso intransitabile dalla pioggia battente e dallo straripamento di un vicino torrente, la sua lettiga trainata da muli s’impantanò nella melma. La melma avvolgeva tutto e i muli non riuscivano a proseguire. Vistosi il conte in pericolo, invocò l’aiuto Divino e promise di istituire una “confraternita in onore del Santo Nome di Gesù, qualora fosse uscito vivo da quel pericolo”. Dopo aver esclamato queste parole il conte vide “i muli con forza meravigliosa divellersi dal fango ed apparire una luce celeste come due torce accese”. Luci che lo scortarono nel buio fino a Mussomeli.
Don Lorenzo Lanza fondò la confraternita a favore dei “poveri orfanelli maschi” , come quella di Santa Cita di Palermo, per il colore del mantello venne chiamato dei “verdi” e la cui bolla di conferma fu subito inviata dal vescovo Bonincontro il 25 febbraio dello stesso anno 1608.

La tradizione popolare cita atri due episodi quasi analoghi legati alla fondazione del Santuario della Madonna delle Vanelle.
Anno1630 il Principe di Cattolica Eraclea, Vicario generale del regno, stava per essere travolto dalle acque  in piena di un torrente mentre veniva trasportato su una lettiga. Riuscì a stento a salvarsi e promise l’edificazione del santuario per un voto di ringraziamento alla Madonna per lo scampato pericolo.
Secondo un’altra tradizione un bue piegò le ginocchia per la stanchezza e si rialzò una volta sgombrata l’area dai rovi. Nei lavori di pulizia dell’area, per liberare il povero animale, fu trovata l’immagine dipinta su di un sasso della Madonna e di San Michele.  Una tradizione orale nata forse per contrastare  quella famosa della Madonna dei Miracoli ?
L’edificio sacro fu costruito e consacrato nel 1653 e subì nel corso dei secoli vari rifacimenti. Nel 1872 venne rifatta la facciata e nel 1950 venne costruito il campanile.
Una chiesa dalla pianta rettangolare, ad unica navata e coperta con volta a botte lunettata. La struttura è in pietra da taglio con l’esterno dallo stile semplice, lasciato a faccia vista, in cui risalta la sagomatura del portale d’ingresso. L’interno è arricchito da stucchi e da una cornice che dà risalto e slancio alla volta. e all’interno adona di stucchi.
Sull’altare maggiore è posto un gruppo scultoreo in legno di pioppo che rappresenta la Madonna con il Bambino e San Michele Arcangelo. Un gruppo scultoreo eseguito nel 1661 da “Maestro Simone Lentini da Naro”. Sullo stesso altare l’antica immagine su pietra della Madonna delle Grazie.

http://www.castelloincantato.it/2015/10/11/chiesa-madonna-delle-vanelle-chiusa-per-lesioni-e-calcinacci/

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La tradizione cita anche il miracolo di una sordomuta.
Nella prima domenica di agosto, ricorrenza della festa della Madonna delle Vigne si svolge un pellegrinaggio alla cappella votiva di Mussomeli come segno di devozione. Una cappella sorta sul luogo di un antico miracolo.

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Si narra infatti che “un padre recatosi da Cammarata a Mussomeli, presso il Santuario della Madonna delle Vanelle, con la figlia sordomuta, pregando invocò la guarigione della bambina, ma nonostante le sue preghiere, non ottenne alcun effetto. L’uomo sconsolato riprese la strada di ritorno, la mula che li accompagnava improvvisamente stramazzò a terra, così l’uomo si caricò la figlia sulle spalle per proseguire il viaggio, all’improvviso avvenne il miracolo, la bimba chiamò il padre con voce squillante e cominciò a parlare”.

Tra le opere d’arte alcuni dipinti di un pittore di Mussomeli Salvatore Frangiamore (1853-1915), Santa Rosa da Lima del 1904,  e di Domenico Provenzano.
Nella chiesa era presente un antico affresco, legato ad un miracolo avvenuto durante la costruzione della chiesa (il miracolo della sordomuta ?), che andò distrutto o perduto. Fu sostituito da un altro affresco che si trova in condizioni precarie cioè l’immagine su pietra della Madonna delle Grazie già citata e posta sull’altare.
Nella chiesa di S. Enrico sono conservati i disegni originari di questi affreschi che per gli elementi stilistici si potrebbero datare al 1700 cioè circa un secolo dopo la costruzione della chiesa.



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L’antico edificio sorge alla periferia del paese  e doveva essere un punto d’incontro della comunità per la presenza di un ampio piazzale con un antico abbeveratoio che ultimamente è stato ristrutturato dal Comune. Presenta delle lesioni e ultimamente, a quanto mi risulta, si sono verificate delle cadute di calcinacci. Speriamo che la struttura venga al più presto salvaguardata per la sua importanza storica e religiosa.

4 - Il  Pellegrino custode del Creato
Il pellegrino doveva avere (e deve avere)  delle motivazioni soggettivo-psicologiche molto forti tanto da spingerlo a compiere un pellegrinaggio che spesso contrastava con i suoi interessi materiali, con le sue esigenze e anche con il suo credo religioso. Il pellegrinaggio affonda dunque le sue radici nella natura stessa dell’uomo perché è una risposta alla sua sete o bisogno di assoluto, al suo bisogno di sacro e anche al suo desiderio di felicità.
Un viaggio come ricerca di un cambiamento interiore attraverso l’identificazione di un luogo dove riposare per ritrovare se stessi.  Con il suo cammino il pellegrino impara a non cedere, a non spazientirsi, a soffrire, a superare gli ostacoli a cui andrà incontro.. Il suo cammino diventa in questo modo un esperienza in cui s’impara a tenere fisso l’obiettivo e il compiersi dell’impresa gli permetterà di raggiungere l’ascesa spirituale, il raggiungimento del suo cambiamento interiore attraverso la scoperta di nuovi valori di vita che fino a quel momento non sembravano fondamentali, essenziali.
Prega davanti alle reliquie di un santo per avere delle grazie, per trovare anche la forza per cancellare i propri peccati e riprendere la via giusta del bene. Il pellegrinaggio infatti potrebbe rappresentare la ricerca della sorgente della propria fede. Ma il pellegrino come abbiamo visto ha avuto ed ha anche oggi, un aspetto importante dal punto di vista culturale perché collega comunità differenti e riporta immagini, modi di divere incontrati nel suo viaggio.
Il pellegrino ha anche un aspetto, non sempre attenzionato o messo in risalto, che potremo definire ambientale. Il suo procedere immerso nella natura, nell’ambiente circostante, gli permette di instaurare un forte contatto con il Creato, con Dio  attraverso le stupende immagini che la stessa natura ci offre facendoci riflettere sul perché della nostra esistenza. Diventa in poche parole custode del Creato.
Quando si parla di paesaggio, di ambiente, in realtà non si fa riferimento ad un mondo esterno materiale, che sta al di fuori di noi, e quindi non ci appartiene. Il paesaggio, per essere tale, nel verso senso della parola, necessita della presenza umana cioè di un soggetto che ne faccia oggetto della sua contemplazione.. “Il paesaggio presuppone un soggetto che lo percepisca”. È il frutto di una forte interazione tra soggetto, l’essere umano, e l’oggetto, il paesaggio, tra pensiero e materia. Ciò che vediamo ed ammiriamo non è altro che l’interazione o il risultato di un lavoro soggettivo, di un modo di concepire il mondo che ciascuno porta dentro di sé secondo la propria cultura, sensibilità e formazione personale.
In questo modo i luoghi acquistano un loro significato perché teatri di vicende umane e l’uomo assume nei confronti del paesaggio il duplice ruolo di attore e spettatore. Un ruolo duplice… spettatore in quanto ammira la bellezza di ciò lo circonda e attore perché modella lo stesso paesaggio secondo il proprio pensiero .. lo fa riflettere ponendosi degli interrogativi.
In questo modo l’ambiente s’arricchisce di sensazioni, di echi, di voci, di trasfigurazioni, di interpretazioni cioè sovrappone alla percezione dell’ambiente nei suoi aspetti dei significati simbolici.
L’ambiente viene così associato al concetto di cosmo e ha un suo valore in quanto “Creato” e le sue manifestazioni di bellezza, di forza e di armonia sono intese come espressioni della potenza di Dio, Creatore del mondo.
Anche oggi sono molti i pellegrini che intraprendono il cammino verso Santiago e che riportano nei loro importanti diari le ricche testimonianze di viaggio e di fede.  Nelle pagine dei  diari di viaggio non appare solo la forza spirituale della ricca esperienza di pellegrinaggio ma anche la raccolta delle bellezze dei paesaggi incontrati e il soffermarsi alla loro contemplazione.
Uno scenario naturale come il tramonto osservato dai Montes de Leon sulla pianura di Astorga… ”è frequente assistere a tramonti spettacolari quando nel cielo si allungano raggi di un colore rosso cupo o porpora contro uno sfondo di azzurri e verdi tenerissimi, subito spenti dal sopraggiungere della fitta oscurità delle notti”; oppure osservare le espressioni architettoniche della cattedrale gotica di Leon che.. “possiede un’impareggiabile grazia nel modo in cui la pietra incornicia appena l’ampio svolgimento delle vetrate dai colori accesi, attraverso cui filtrano i raggi del sole mattutino”.

Yeres – Leon



Finisterre – tramonto

Leon - Cattedrale


La contemplazione del paesaggio e delle sue meraviglie può risolversi in un puro godimento estetico di una bellezza naturale o architettonica ma può diventare anche per i fedeli la contemplazione di un Creato ancora in grado di stupire e di emozionare che rimanda, come per magia, attraverso la propria bellezza, alla perfezione del suo Creatore. La contemplazione diviene, in quest’ultimo caso, quasi un’estasi che offre al pellegrino spunti di preghiera, di gloria e di lode a Dio.
Immagini come quelle della Prestige e dei danni arrecati all’ambiente, avvenimenti non rari nella storia dell’umanità, dimostrano come l’uomo si senta padrone del Creato mentre è solo “un ospite”.
La natura è un bene comune e l’esempio di San Francesco che aveva cura per ciò che è debole, deve essere visto come base di una ecologia vissuta con gioia e  autenticità.. in cui sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore.
Tutti possono collaborare, come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria cultura ed esperienza, secondo le proprie iniziative e capacità.
L’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali che sono intimamente collegate tra di loro: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quello con la terra. La relazione con Dio e con il prossimo comprende necessariamente la relazione dell’individuo con la madre Terra.
L’uomo s’avvicina alla terra con violenza a tal punto da essere devastata e l’intero creato è sull’orlo della catastrofe. L’uomo come custode del creato.. deve arare e custodire e non dominare e devastare.
Ogni piccolo angolo della Terra in quest’ottica diventa un piccolo percorso Francigeno che l’uomo percorre entrando in contatto con il suo Dio. I volontari che ogni anno combattono ed intervengono per ripulire i misfatti compiuti ai danni dell’ambiente entrano in contatto con Dio, anche inconsapevolmente, perché sono custodi del Creato.. L’esempio più forte fu proprio per gli avvenimenti legati al naufragio della Prestige… come già detto molti di quei volontari hanno pagato le conseguenze del loro intervento, (non esiste una statistica in merito ma il contatto con le sostanze petrolifere in molti ha avuto delle conseguenza mortali),  ma nessuna giustizia terrena  si è ricordata di loro.. fu creato un monumento che ricorda il loro intervento…. ma  quella giustizia tanto acclamata.. dove la legge è uguale per tutti…non è mai arrivata…. perchè la vera giustizia è altrove e non nelle camere oscure rese fredde dai sottili e inquietanti giochi di potere….


……Marcos… era uno dei tanti volontari, accorsi da gran parte dell’Europa, per ripulire  l’ambiente dal petrolio fuoriuscito dalla Prestige… era anche lui un difensore del Creato e forse nel suo agire era, senza saperlo, vicino a Dio più del suo credo…. Era anche lui uno dei tanti pellegrini che ha percorso le Vie del Creato..capace di esaltare e di immortalare con le sue foto ciò che Dio ci ha donato…

Carlos Marcos Caruncho Núñez (Ferrol 8/12/1967 – A Estrada 10/07/2015). ​Fotógrafo e realizador de documentais de divulgación científica.









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