LA VIA FRANCIGENA DEL VALLONE ..CAMPOFRANCO - SUTERA - MUSSOMELI
Indice
1.
La Magna Via Francigena “Agrigento – Palermo”;
2.
Il Pellegrinaggio;
a)
Nella Cattedrale di San Zeno a Pistoia è presente una
reliquia dell’apostolo San Giacomo;
b)
L’abbigliamento del pellegrino;
c)
Dopo la visita al Santuario di Santiago, il pellegrino
procedeva verso il Santuario di “Nosa Senora da Barca” – I Megaliti….La
Pietra Oscillante - Il santuario colpito
da un incendio - L’inquinamento dell’ambiente
causato dall’affondamento della Prestige….nessun colpevole….;
d)
Il Pellegrinaggio verso Santiago di Compostela era
probabilmente il più diffuso;
e)
Il Simbolo del cammino di Santiago di Compostela ….La
Conchiglia
3.
Sicilia – La Via Francigena del Vallone
a)
Campofranco – Il Santuario di San Calogero;
b)
Sutera – Il Santuario di San Paolino;
c)
Mussomeli : Il Santuario della Madonna dei Miracoli e
il Santuario della Madonna delle Vanelle
4.
Il Pellegrino …Custode del Creato
-----------------------------
1 - LA MAGNA VIA FRANCIGENA
Il Percorso “I
Pellegrini del Vallone” unisce
quattro comuni nisseni posti sulla “Magna Via Francigena”:
-
Campofranco;
-
Sutera;
-
Mussomeli:
-
Acquaviva di Platani.
Si tratta di un progetto
condiviso tra Libero Consorzio Comunale di Caltanissetta, Diocesi di
Caltanissetta, comune e Pro loco di Mussomeli, Pro loco di Campofranco e Pro
loco di Sutera.
La “Magna Via Francigena” era un’importante via di comunicazione che
collegava, in senso nord-sud, Agrigento con Palermo. Nel territorio di Corleone
e Castronovo incrociava le importante vie di transumanza verso le Madonie.
Le citazioni ?
Un diploma in greco del 1096 ..”Ten odon, ten megalen ten
Fragkikon tou Kastronobou”.
I dominatori dell’isola nei
secoli controllavano le varie vie di comunicazione, con le loro dogane , dazi e
con le mantiones (antiche “stazioni di servizio”).
Gli stessi romani, costruttori
della strada, nel II secolo a.C., misero vicino a Corleone un “miliarus”(
Pietra miliare), l’unico esistente sulla via “Agrigentum- Panormus”.
La “pietra miliare” riporta l’epigrafe di Aurelio Cotta Console
e il LVII distanza in miglia da Agrigento lungo la via
Consolare romana “Palermo –Agrigento”.
Un iscrizione risalente al 252 a.C. e considerata la più antica della
Sicilia.
Il reperto fu trovato nel 1954 da Giovanni Valenti sulla “Montagna dei Cavalli” in territorio di
Prizzi.
Dal 1991 è stato ammesso alla collezione civica.
Monte dei Cavalli
La “Agrigento – Palermo” durante
le varie e successive dominazioni fu
sempre tenuta in massima considerazione per la sua importanza militare e
commerciale. Per i Bizantini era l’importante via che collegava i punti
militari di controllo del territorio e nello stesso tempo le alture per il
rifornimento alimentare per uomini e animali tanto da essere chiamata “odos basilikè” cioè “Via Reale”.
Gli Arabi, una volta conquistata
l’isola, nomineranno Palermo capitale del loro regno chiamandola “Balarm” e Agrigento “Kirknt”, una città che rimarrà la base
del forte contingente d’invasione. La via che collega i due centro prenderà il
nome di “tarik al askar” (via degli
eserciti) e seguirà il tracciato
della strada romana bizantina.
I Normanni conquisteranno l’isola
togliendola ai Musulmani ed edificheranno castelli, chiese e monasteri avviando
un forte processo di cristianizzazione soprattutto dove erano presenti antiche
sacche di dominio arabo. I primi documenti normanni citarono la strada come la
“via exercitus”, cioè la via degli
eserciti ma solo nel 1096, in alcuni diplomi in greco, apparirà la citazione,
per la prima volta, di “viam magnam
francigenam Castrinovi”.
“Castronovi” perché era il punto
in cui esisteva ed esiste ancora, il Casale di San Pietro, posto quasi a circa
la metà del percorso tra Palermo ed Agrigento. Un sito che ha riportato alla
luce antiche testimonianze bizantine e arabe, a dimostrazione della sua importanza.
Castronovo - Casale di San Pietro
2. IL PELLEGRINAGGIO
Prima di parlare dei luoghi Sacri che s’incontrano
lungo la “Via Francigena del Vallone”, è necessario soffermarsi sulle varie
sfaccettature che caratterizzarono la nascita del pellegrinaggio nei suoi
aspetti storici.
In questa visione appare subito
evidente un antico rapporto tra la Sicilia e Santiago di Compostela, in Spagna.
Un rapporto che è documentato nel “Liber
Sancti Jacobi”, risalente al XIII secolo e che registra la presenza di
siciliani davanti alla tomba del Santo Apostolo Giacomo.
Il
documento cita i pellegrini provenienti “dalla
penisola italiana e dalla Sicilia” naturalmente assieme a quelli
provenienti da ogni centro della Cristianità…..
”.. illuc populi barbari ed
domestici cunctorum cosmi climatum adveniunt, scilicet..Itali
Apuli,…Romani..Tuscani…Kalabriani..Siciliani,… et cetere gentes innumerabile”
Un
culto per San Giacomo già presente nella Sicilia bizantina come si deduce dalla
presenza nell’isola di chiese dedicate al Santo nei secoli XII e XIII ed
ubicate a Partinico, Messina, Capizzi, Comiso, Castronovo di Sicilia.
Anche
ad Agrigento, quando la città fu liberata dai Musulmani, la chiesa fu
consacrata alla Madonna e a San Giacomo le cui effigi sono riprodotte su alcuni
sigilli plumbei dei vescovi agrigentini del secolo XII. La chiesa agrigentina influenzò moltissimo il
pellegrinaggio grazie al suo vescovo Gerlando di Besangon che ricevette
l’importante carica dal Granconte
Ruggero. Gerlando proveniva dall’importante abbazia di Sant’Eufemia, cioè un
abbazia calabrese che fu fondata nel 1062 dall’abate Roberto di Grantmesnil e
fu coinvolta dallo spirito innovativo dei monaci di Cluny che si prodigavano in
favore della Spagna e del pellegrinaggio a Santiago.
Abbazia di Sant’Eufemia (Reggio Calabria)
Abbazia di Cluny
Santiago di
Compostela
Santiago di
Compostela – Tomba di San Giacomo
Nel
secolo XII sono attestate delle iniziative a favore dei pellegrini da parte dei
vescovi agrigentini con la creazione di strutture destinate all’accoglienza dei
pellegrini che vennero chiamate “hospitalia”.
Strutture che erano distanti tra loro circa 30 km, cioè il cammino di una
giornata. Hospitalia che erano gestiti da ordini monastici e cavallereschi
giunti dall’Italia e anche dal Nord Europa. Con questi ordini giunse in Italia
anche la definizione di “Via Francigena” che nel nord Italia indicava il
complesso reticolo viario percorso da pellegrini e anche da mercanti.
Il
Sicilia con il termine di “Via Francigena” si indicarono alcune antiche
strade e le nuove che integravano il sistema
viario romano.
La
“Magna Via Francigena” era quindi la via che da Agrigento , passando per
Castronovo, dove prendeva il nome di “Magna Via Francigena di Castronovi”,
giungeva a Palermo. A Palermo si collegava alla via Francigena per Messina che
costeggiava la costa, e ancora prima a quella che solcava le montagne dove
nella Piana di Milazzo si congiungeva con la precedente per procedere verso
Messina.
Messina
era naturalmente il luogo d’incontro dei pellegrini. Pellegrini che non si
recavano solo a Santiago de Compostela ma anche a Roma, altri luoghi importanti
della Cristianità e a Gerusalemme.
Per
chi doveva recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, aspettava le navi che
trasportavano i fedeli provenienti dal Nord Europa e dalla Spagna, imbarcati
rispettivamente nel porto di Genova e di Barcellona, e che facevano sosta nel Porto di Messina.
Più
difficoltoso era il pellegrinaggio per chi doveva raggiungere Roma, altri
luoghi della Cristianità sparsi lungo la penisola e Santiago di Compostela in Galizia,
ovvero nella Spagna settentrionale.
Per
giungere a Roma, una volta attraversato lo Stretto si doveva risalire la
Calabria valicando le impervie montagne interne.
In un giorno si
possono percorrere circa 20/30 km per cui su una distanza di circa 800 km
si dovrebbero
impiegare circa 30 giorni.. considerando qualche giorno di riposo, erano
necessari almeno
35 giorni.
Da Roma a Santiago
de Compostela
Da Roma per
Santiago, con una media di 30 km/giorno, ci volevano in media 74 giorni che
considerando i giorni di riposo, circa 15,
diventano 90
giorni… cioè circa 3 mesi.
Il
pellegrino che doveva percorrere la penisola per giungere nei luoghi sacri e
raggiungere eventualmente Santiago, aveva un'altra possibilità.
Aspettava,
sempre nel porto di Messina, le navi che ritornavano dalla Terrasanta e che
risalivano le coste italiane toccando i famosi porti liguri, toscani. Viaggi
che però erano a pagamento e quindi non tutti avevano la possibilità economica
di usufruire di questo servizio che agevolava, e di tanto, il pellegrinaggio.
Una
volta giunti in questi porti i pellegrini seguivano le strade che conducevano
in Spagna o a Roma. Altri pellegrini giungevano in Spagna nel porto di
Barcellona come si deduce dai registri dell’”Almoina
reial” della città catalana.
In
questi registri sono elencati 23 pellegrini siciliani diretti o di ritorno da
Santiago tra il 1378 e il 1385. Alcuni documenti citano questi pellegrini
siciliani:
1253, la messinese
Calofina de Apothecis dopo aver compito un pellegrinaggio per Terrasanta, sta
per ripartire per Santiago;
1334, una donna sta
per partire dalla Sicilia per Santiago per invocare la salvezza dell’anima del
suo unico figlio. (il giovane apparve in sogno alla madre prima che lei
iniziasse il viaggio e l’avvertì che per adempiere il voto fatto, al ritorno da
Santiago doveva visitare anche la Porziuncola d’Assisi).
I
nomi di alcuni siciliani sono presenti
nei libri contabili dell’”Opera di S.
Iacopo” di Pistoia e registra le elemosine date ai pellegrini in transito
tra il 1399 ed il 1420: “Piero da Palermo
con due compagni nel 1399”; “Andrea di Cicilia” nel 1401; “Giovanni di Cicilia”
nel 1403; il ragusano “frate Paulo di Iohanni da Rugia” nel 1420; “Frate
Francesco da Raugia” nel 1440;il messinese “Filippo Viperano”, funzionario del
Regno di Sicilia nel 1414.
2a) – Nella Cattedrale
di San Zeno a Pistoia è presente una reliquia dell’Apostolo San Giacomo
Come
mai i pellegrini passavano da Pistoia ? Era un passaggio legato solo ad una
convenienza di percorso?
Il
patrono di Pistoia è San Jacopo (San Giacomo) e il suo culto risale all’849
quando i pistoiesi ricorsero alle preghiere al santo Apostolo affinchè la città
fosse risparmiata dall’invasione dei saraceni. La città fu salva e la
cittadinanza elevò San Jacopo patrono dedicandogli una piccola chiesa, posta
nei pressi delle mura della città, detta “S. Jacopo del Castellare”.
Pistoia – Chiesa San
Jacopo del Castellare
Nel
1144 la città diventò Jacopea per eccellenza perché il culto di san Giacomo
venne ufficializzato ed anche perché, l’unica in Italia, conservava una
reliquia del santo apostolo.
Nello
stesso anno 1144 il vescovo Atto di Pistoia, forse di origine portoghese o
spagnola (secondo altri autori era di origine toscana), inviò a Santiago di
Compostela due pellegrini che avevano un incarico importante e prestigioso:
ritirare un frammento del cranio di San Jacopo. Era un dono dell’arcivescovo di
Santiago di Compostela grazie all’intercessione di un chierico pistoiese, un
certo Ranieri, che era diventato
canonico di Santiago. La reliquia venne accolta a Pistoia con tutti gli
onori e conservata nella Cattedrale, dove lo stesso vescovo Atto fece costruire
una sontuosa cappella che fu consacrata nel 1145.
Pistoia – Altare
argenteo di San Jacopo – Cattedrale di San Zeno –
Cappella del
Crocifisso o del Giudizio – Fu consacrato nel 1399.
Fu realizzato fra
il 1287 e il 1456 da maestri orafi.
Si trovava nella
Cappella di san Jacopo che venne demolita nel 1785 per ordine del
Vescovo Scipione
de’ Ricci e quindi trasferito prima nella cappella di San Rocco e dal
1953 nella
Cappella del Crocifisso.
Il nucleo
originario era costituito da una tavola d’argento che fu commissionata nel 1287
dal Generale
Consiglio del Comune e del popolo di Pistoia in accordo con gli Operai
dell’Opera
di San Jacopo. Una
tavola che doveva essere collocata sopra l’altare. Nella tavola erano raffigurati i
Dodici Apostoli e
la Madonna con il Bambino. Fu collocato
anche un paliotto argenteo, cioè
una lastra che
copriva l’altare.
La Madonna col Bambino di Andrea di
Jacopo d'Ognabene
Nel 1293 l’altare
fu oggetto di un furto sacrilego da parte di Vanni Fucci. Un personaggio che
Fu citato anche da
Dante Alighieri. Nel giorno di carnevale il ladro entrò nel Duomo con
alcuni complici e
depredò la cappella di san Jacopo di oggetti preziosi, tra cui tavole
d’argento,
reliquie e arredi.
Nel 1314 con un
altro furto furono asportate delle figure di Apostoli.
Furono sempre
effettuate le dovute riparazioni in seguito ai furti e furono sempre aggiunte
altre
tavole argentee
con personaggi e scene bibliche. Tra i maestri che espressero la loro
arte nello
stupendo altare anche Filippo Brunelleschi nel 1400 circa (sul lato destro
dell’altare).
Intorno al 1490
l’altare venne completato.
Giglio
Pisano, San Jacopo in trono,
1349-53
Pistoia
diventò quindi meta di pellegrinaggi
anche da parte di chi non poteva recarsi a Santiago de Compostela e si
recava quindi nella città toscana per chiedere la protezione del santo.
La
stessa città aveva una sua posizione strategica nel percorso Francigeno. Posta
ai piedi dell’Appennino, che poteva essere valicato attraverso l’antica via
Francesca della Sambuca, e collegata alla via Francigena passante da Fucecchio
attraverso il passo di S. Baronto. Pistoia era quindi una tappa quasi obbligata
per i pellegrini.
Reliquario di San
Jacopo – Pistoia - Duomo di San Zeno
Pistoia - Duomo di San Zeno
Via Francesca
della Sambuca
La Via Francigena
Fucecchio lambisce il Padule
Passo Baronto
La
conquista dell’isola da parte degli Aragonesi, dopo le giornate del Vespro,
diede un forte impulso al culto di San Giacomo come si deduce dalle molte
chiese dedicate all’Apostolo e citate nelle “Rationes
decimarum” del 1308-10.
La
pericolosità del lungo viaggio sacro, spesso portava il pellegrino a farsi
sostituire da un “pellegrino vicario”
dietro compenso di denaro.
Nel
testamento redatto nel 1402 a Giuliana, nel Palermitano, Eleonora d’Aragona,
figlia di Giovanni duca di Randazzo e quartogenito di Federico III d’Aragona e
re di Sicilia, dispose di mandare “tre
personas pro anima nostra ad sanctum Iacobum de Galicia et alias tres ad
sanctum Sepulcrum”.
A
Termini Imerese il ricco Giacomo de Aricio, nel suo testamento del 1436, tra le
altre disposizioni obbligava le sue due figlie, eredi universali, “a pagare un pellegrino perché andasse a
Santiago in sua vece, in modo da sciogliere così un voto da lui non adempiuto
per negligenza”.
Il
pellegrino aveva la possibilità, oltre a quella di farsi sostituire nel
viaggio, di farsi cambiare il voto di pellegrinaggio in un'altra penitenza. Se
il voto riguardava i luoghi sacri (Gerusalemme, Roma o Santiago) il “cambio” poteva essere eseguito solo dal
papa.
Fino
alla fine del secolo XVII in Sicilia c’era ancora la consuetudine di andare in
pellegrinaggio a Santiago come dimostra un attestato di salute pubblica
rilasciato a Palermo nel 1692 a Girolamo
Agliarolo
“per andare a Dio Piacendo a S. Giacomo
in Galitia”.
Era
diffusa in Sicilia la credenza che “l’anima
prima di andare al proprio destino, debba fare inevitabilmente un viaggetto in
Gallizia, e di là recarsi ad un faticoso e lungo viaggio attraverso la via
lattea che, come si sa, intitolano Viòlu di San
Jàbbicu”.
Per evitare la pericolosità del viaggio verso
la Galizia, furono prese mete alternative più vicine come le chiese di San
Giacomo sparse nella Sicilia.
Il
culto di San Giacomo, anche a causa della diatriba sorta in Spagna tra San Giacomo
e Teresa d’Avila, s’affievolì e si diffusero i pellegrinaggi rivolti ai
santuari della Madonna o ad altri Santi, purchè
svolti con fede.
La
figura del pellegrino lascerà profondi segni nella formazione della civiltà
occidentale. Una figura che non è solo alla ricerca di Dio ma è anche un vero
operatore culturale che, a prescindere dal suo patrimonio culturale, sarà uno
scrigno inesauribile di conoscenze e di esperienze nei vari paesi.
Come
abbiamo visto le grandi difficoltà del cammino e i rischi fecero nascere nei
pellegrini un forte senso di solidarietà e anche di appartenenza ad una civiltà
comune. Nell’aiutare infatti il pellegrino gran parte della cristianità s’unì:
“«Povero o ricco deve essere da tutti
ricevuto con carità, e circondato da venerazione. Poiché chiunque lo avrà
ricevuto e gli avrà diligentemente procurato ospitalità avrà per ospite non
solo San Giacomo, ma il Signore in persona, Lui che ha detto nel Vangelo: ‘Chi
accoglie voi, accoglie me’».
I
contatti sociali ed umani vissuti dai pellegrini fecero circolare notizie
favorendo la conoscenza reciproca tra le comunità locali e coloro che erano in
viaggio. Questo fu un aspetto che favorì la forte diffusione del culto di san
Giacomo nei diversi paesi. Una diffusione riscontrabile nell’onomastica
maschile, nelle opere letterarie, nell’istituzione di chiese, conventi ed
“hospitalia” e anche come santo protettore.
Dante
Alighieri, nella sua “Vita Nova” (1293/94), citò le “peregrinationes maiores” dirette nella città di Gersalemme, Roma e
Santiago di Compostela, cioè la triade di pellegrinaggi medievali che erano gli
unici per i quali era concessa indulgenza plenaria.
“I pellegrini
avevano una loro terminologia a seconda del luogo di pellegrinaggio: “palmiere”
se era diretto in Terrasanta; “Romeo” a Roma; “Jaquot, jacquet o jaquaire” il
pellegrino diretto a Santiago”.
Il
pellegrino diretto a Santiago aveva un abbigliamento particolare: il bordone,
la scarsella, un grande cappello, un abito corto e talvolta una zucca
contenente qualcosa da bere. Ma l’aspetto più caratteristico dell’abbigliamento
era la presenza sul copricapo, sull’abito
e sulla borsa da pellegrino, di una o più conchiglie.
Conchiglia,
a due valve, che nel “Liber Sancti
Jacobi” ha un suo preciso significato allegorico..”una mano che si apre nelle opere buone”. Allude quindi ad un
modello di comportamento dei pellegrini e cioè: ad essere generoso e fare
elemosina; mantenersi modesto, casto e sobrio.
Complesso etnografico
di O Cebreiro
2b) L’Abbigliamento
del Pellegrino
Riguardo
ai vari capi dell’abbigliamento: il cappello, di forma rotonda (diritto o
ripiegato, recava impressa sul davanti la tradizionale conchiglia scanalata);
il mantello lungo che copriva anche i piedi; il bordone, cioè un lungo bastone
dalla punta ferrata, un attributo del pellegrino; la scarsella, ovvero la
borsetta di pelle, senza legacci, riempita solo con ciò che era strettamente
necessario.
Una
citazione meritano il lungo bastone (bordone) e la borsetta di pelle
(scarsella). Il bastone serviva come appoggio nei punti più difficili del percorso
ma anche per difendersi dai lupi e dai cani selvatici e richiamava, in ogni
caso, al concetto delle difficoltà che
il pellegrino doveva superare prima di poter raggiungere la Patria celeste. Mentre
la borsetta rappresentava la generosità che il buon pellegrino doveva mostrare
nei confronti del compagno di viaggio o in generale verso il prossimo più
bisognoso. Una posizione di profonda e sincera apertura nei confronti della
provvidenza Divina. Infatti questi due oggetti venivano benedetti prima della
partenza da un sacerdote, attenendosi ad un cerimoniale ben preciso legato
aduna formula come quella che ci è stata tramandata dall’abbazia di Saint-Cugot
di Vallès, applicata alla cesta portatile per il pane, il tascapane: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo.
Ricevi questo paniere, attributo del tuo pellegrinaggio, affinché tu possa
meritare di giungere purificato (castigatus), salvo e emendato, alle soglie del
Santo Sepolcro, o di Santiago, di Sant'Ilario di Poitiers o d'altri santi che
tu desiderassi raggiungere e, compiuto il tuo cammino, tu possa ritornare in
perfetta salute».
Nel
“Liber sancti Jacobi”, dal sermone “veneranda dies” s’apprende che il
pellegrino prima di partire visitava la propria parrocchia concedendo il
perdono a chi l’aveva offeso, salutava i propri cari e li raccomandava a Dio. Dava
le disposizioni su come distribuire i suoi averi in elemosine verso i più
bisognosi. Non doveva portare nel suo viaggio denaro e per prevenire le insidie
doveva essere abbigliato modestamente ed evitare l’ubriachezza e la lussuria.
Il cammino doveva essere possibilmente compiuto a piedi e il ricorso all’uso di
animali o al trasporto, tranne casi eccezionali, era considerato una
limitazione per i benefici connessi all’obiettivo del pellegrinaggio.
Durante
il viaggio era consigliato, anche nei momenti di sconforto, di darsi aiuto a
vicenda. Un aiuto attraverso la preghiera, attraverso anche racconti o aneddoti sui santi. Un invocazione che si
recita ancora oggi nella cappella romanica dell’ospizio d’Aubrac..” «O Dio, che avete fatto partire Abramo dal
suo paese e l'avete conservato sano e salvo attraverso i suoi viaggi, accordate
ai vostri figli la stessa protezione. Sosteneteci nei pericoli e alleggerite il
cammino. Siate per noi ombra contro il sole, mantello contro la pioggia e il
freddo. Sorreggeteci nella fatica e difendeteci contro tutti i pericoli. Siate
il bastone che evita le cadute e il porto che accoglie i naufraghi: cosicché da
voi guidati possiamo raggiungere la nostra meta e ritornare salvi a casa».
La
guida infatti invitava i pellegrini a visitare i luoghi sacri incontrati nel
loro cammino ove giacevano le reliquie dei santi patroni per rievocare i loro miracoli, le loro
sofferenze. Era l’occasione per una
preghiera più o meno intensa per fortificare lo spirito. Raccomandata era anche
l’osservanza della partecipazione alla Messa la domenica e i giorni festivi.
C’erano
anche tre riti che il pellegrino doveva compere nel suo viaggio verso Santiago:
1 – piantare una Croce
sulla sommità del
passo di Cize o vicino al passo di Bentartè che secondo la leggenda era una
tradizione legata a Carlo Magno;
2
– il bagno rituale nelle acque del torrente Lavamentula, posto a circa due
miglia da Santiago..
3
– scendendo da Monte Cerbero, in Galizia, il Camino di Santiago passa vicino
alle cave di pietra da calce a Tricastela. Qui i pellegrini ricevevano ciascuno
una pietra che dovevano trasportare fino al forno che era posto nella località
Castagnola (Santa Maria de Castaneda). Da qui poi la calce veniva trasportata
con i carri fino a Santiago. Un connubio perfetto tra l’utilizzo pratico della
pietra, costruzione di un edificio sacro, e significato simbolico, edificazione
di una comunità di anime.
Tricastela
I pellegrini appartenevano a diversi strati sociali ma
numerosi erano gli ecclesiastici e soprattutto gli esponenti della nobiltà che
potevano permettersi imprese lunghe e rischiose difficilmente accessibili a chi
viveva del proprio lavoro e doveva mantenere
tra mille difficoltà una famiglia. È vero che il “Liber Jacopi” citava il viaggio del pellegrino senza l’uso di
denaro ma i nobili eseguivano quel lungo peregrinare affrontando i costi del
viaggio e dati i tempi erano necessari molti mesi di salario di un comune
manovale. Molto rara era la figura del pellegrino solitario che difficilmente,
e non per molto tempo, poteva restare a lungo chiuso nel suo isolamento e
superare da solo le difficoltà del percorso. Più diffuse erano le coppie, i
gruppi o anche famiglie. Le donne raramente intraprendevano il viaggio da sole
e anche le più nobili erano speso accompagnate dal marito o comunque da una
scorta. Fra loro le sante come ad esempio la pisana Santa Bona o Santa Brigida
di Svezia.
Il viaggio di solito s’affrontava a piedi, spesso a
cavallo nel basso Medioevo o anche in entrambi i modi. Nei terreni pianeggianti
si riusciva a percorrere anche 30/40 km x giorno, circa 6/8 ore di marcia mentre nelle zone montagnose il
tragitto si faceva più difficile e rischioso e si potevano percorrere dai 20/30
km x giorno. Il viaggio in montagna era rischioso perché si era spesso assaliti
dai lupi, dai briganti e spesso si andava incontro a terribili condizioni
meteo. Non sono rare le cronache che citarono morti di pellegrini assiderati
sulle montagne o colpiti dalle avversità su menzionate. Era possibile, come
abbiamo visto, imbarcarsi e penso che il viaggio spesso era a pagamento tranne
in qualche caso raro dove il re metteva a disposizione gratuitamente alcune
navi della sua flotta (Federico III d’Aragona).
In ogni caso
anche sul mare c’era il rischio di andare incontro a disavventure legate alle
condizioni del tempo o all’assalto di pirati. Il porto principale era
Barcellona.
Durante il viaggio si era spesso assaliti da
tentazioni materiali che mettevano a dura prova lo stato di grazia del proprio
voto. Malattie, scarsità di cibo e soprattutto tanta, tanta paura. Nelle zone
boscose si era spesso assaliti dai briganti che operavano nelle zone più
isolate e solitari, come gole e valichi, che il pellegrino doveva
necessariamente attraversare. Le zone d’Aubrac, i monti d’Oca, tra Belorado e
Burgos, erano tra le zone più pericolose. Luoghi che venivano spesso indicati
nella toponomastica con termini che caratterizzavano la loro pericolosità come
Malval, Malpas. Assalti improvvisi che il più delle volte si concludevano con
la morte del pellegrino che viaggiava con l’assillo perenne di tenersi cucito
addosso o nel fondo del bagaglio il denaro necessario per le spese di viaggio.
Monte
d’Oca
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Castello di Belorado
Una
volta giunto a Santiago di Compostela il pellegrino si lasciava andare ad acclamazioni
di giubilo e canti di lode. Partecipava gioiosamente agli spettacoli e alle
feste, in un centro pieno di botteghe che promuovono al pellegrino “otri di vino, bisacce, scarpe, borse,
cinghie, cinture, ogni tipo di erbe e
medicinali, medicinali e spezie varie”. Non mancavano gli artigiani della “conchia”, la famosa conchiglia.
2C) Dopo la visita
al Santuario di Santiago, il pellegrino procedeva verso il Santuario di “Nosa
Senora da Barca” – I Megaliti…. La Pietra
Oscillante - Il santuario colpito da un incendio – L’inquinamento dell’ambiente
causato dall’affondamento della Prestige… nessun colpevole.
Il
pellegrino, una volta giunto al santuario di Santiago, doveva completare il suo
percorso galiziano recandosi :
-
a
El Padron, alla foce del fiume Ulla, cioè nel punto in cui giunse il corpo di
San Giacomo;
-
al santuario della “Madonna de Finibus Terrae”
(Chiesa di Nosa Señora das Areas) posto sull’estremo promontorio di Finisterre;
-
al Santuario di “Nosa Senora da Barca” a
Muxia, sulla Costa della Morte.
El Padron
Mar de Arousa
Finisterre (La
Coruna) - Chiesa di Nosa Señora das Areas
Finisterre era un tempo considerato il termine delle
terre conosciute. Il pellegrino giunto sul luogo, doveva bruciare i suoi abiti
del pellegrinaggio e immergersi nell’oceano per un bagno purificatore.
Playa de Mar
I
pellegrini arrivano sulla bellissima spiaggia dorata grazie un comodo, lungo e
largo pontile di legno. Una località molto pericolosa per i suoi repentini
cambiamenti delle condizioni climatiche e del mare. Il pellegrino incontra sul
pontile i cartelli che richiamano di continuo l’idea del pericolo in caso di
mare agitato. Qui sono presenti delle insidiose e forti correnti marine che
sono attive anche a pochi metri dalla riva e che portano al largo in modo
repentino mettendo quindi in gravissimo pericolo la vita del bagnante.
Playa de Mar - pontile
Il
Santuario di “Nosa Senora da Barca” a
Muxia, si trova sempre sulla Costa della Morte. Il santuario sorge di fronte ad
un luogo di culto megalitico che è centrato sulla “Pedra d’Abalar” ovvero la “pietra
oscillante” che i pellegrini fanno oscillare in cerca del suo punto d’equilibrio.
Nosa Senora da Barca - Muxia
L’apostolo Giacomo
pregava sul luogo in preda allo sconforto per non essere riuscito a
predicare in
Hispania il Vangelo. Apparve sul mare una barca sul quale si trovava Maria
che lo incoraggiò a
seguire nella sua missione.
I resti della
barca furono lasciati sulla costa e si trasformarono in massi e si trovano di
fronte al tempio.
La vela diventò “Pedra de Abalar”; la barca “A Pedra dos
cadris” e il timone “Rudder Pedra do”.
La “Pedra de
Abalar” è un grande megalite, circa 9 metri di lunghezza, che ondeggia quando
le
persone vi si
arrampicano emettendo un leggero suono cupo. La tradizione locale cita che
questo movimento
si verifica quando le persone che vi montano sono innocenti per i loro peccati.
Un’altra leggenda
cita che la pietra si muove per avvertire l’imminente arrivo di una tempesta.
La Pedra dos
Cadris ha invece la forma di un rene e secondo l’usanza i pellegrini
Dovrebbero passare
nove volte sotto di essa per curare i loro disturbi fisici legati ai
reni ed ai
reumatismi. Sotto questa pietra fu trovata l’immagine della vergine, che fu
trasferita
nella chiesa
parrocchiale. Scomparve per ritornare nel suo luogo originario dove fu
costruito il santuario.
La costruzione del
santuario sarebbe del XII secolo con successivi interventi.
Il 25 dicembre, giorno del Natale ……., un fulmine colpì il
santuario distruggendo il tetto e l’interno
della chiesa con immense
perdite materiali.
Nel 2014 iniziarono
i lavori di recupero dell’edificio
grazie all’intervento
dell’Arcivescovado di Santiago de Compostela e nel 2017 furono completati.
Pedra de Cadris
sulla destra il monumento ai volontari che ripulirono la spiaggia dopo il disastro
causato dall'affondamento della Prestige
Ferida … la
scultura omaggio ai volontari che contribuirono a ripulire la spiaggia dalla
fuoriuscita di
petrolio dalla petroliera Prestige
Senza colpevoli il
più grande disastro ambientale europeo: il naufragio della petroliera che 17 anni fa riversò sulle coste di Spagna, Francia e Portogallo 63mila tonnellate
di greggio. Il comandante, al momento della sentenza, 78enne fu condannato a
nove mesi per essersi rifiutato di far rimorchiare la nave: non li sconterà per
limiti di età. L'assicurazione responsabile dei danni civili…….
Molti volontari
sono morti a causa del continuo contatto con la marea nera….. cancerogena, e causa
di leucemie, tumori al seno e al sistema urogenitale. ... e allora ci fu anche
chi cercò di
nascondere la sciagura ambientale accusando l’opinione pubblica di
troppo allarmismo…
QUESTA PAGINA E' DEDICATA A QUEI VOLONTARI CHE CON
IL LORO AGIRE HANNO DEDICATO ATTIMI DELLA LORO VITA, PER MOLTI
GLI ULTIMI, NEL SALVARE QUEST'ANGOLO DELLA GALIZIA... E' INUTILE
FARE I LORO NOMI .. IL LUOGO STESSO, CON I SUOI ALTI ASPETTI
RELIGIOSI, NE E' TESTIMONE....
Camminando
lungo la costa i pellegrini avevano allora la possibilità di raccogliere
sull’estuario dell’Ulla le grandi conchiglie che testimoniavano l’avvenuto pellegrinaggio.
Conchiglie di quelle dimensioni non si trovano lungo il litorale mediterraneo e
sono una peculiarità dell’oceano di Santiago.
La
conchiglia costituiva il tesoro più ambito dei pellegrini, il ricordo elegante,
nonché la prova tangibile del difficile e lungo viaggio compiuto, e del
raggiungimento della tomba dell’apostolo. In alcune regioni della Francia gli
scavi archeologici hanno permesso di recuperare numerosi “scheletri con le
conchiglia”, resti di chi era riuscito a sopravvivere all’avventuroso viaggio
di andata e porsi sulla via del ritorno. Per coloro che tornavano da Compostela
la conchiglia era un ricordo perenne del precetto della carità, da non perdere
mai di vista: essa veniva perciò cucita sull’abito, ed esibita con
soddisfazione a familiari e conoscenti, come una sorta di reliquia da
utilizzare in momenti di bisogno. Alla conchiglia intesa come salvezza ed
emblema di una nuova vita, che attende il fedele dopo il viaggio di
rigenerazione, si ricongiunge la raffigurazione di Cristo nella condizione di
pellegrino. Nel chiostro di Santo Domingo de Silos (metà sec. XII), il
Salvatore appare vestito di una tunica e con una borsa contrassegnata da una
conchiglia e la cui cinghia ha nella parte finale altre quattro conchigliette.
La conchiglia costituiva infine un segno che procurava deferenza e riguardo:
nobili e chierici, infatti, inserivano la meritata conchiglia nei loro stemmi.
Chiostro Santo
Domingo - Burgos
2d – Il pellegrinaggio
verso Santiago di Compostela era probabilmente il più diffuso
Il
pellegrinaggio verso la Galizia era nel medioevo il più importante rispetto a
quelli diretti a Roma e a Gerusalemme. Probabilmente il fascino esercitato
dalla città di Santiago aveva una sua
origine non solo nella lontananza del sito ma anche nella sua particolare
posizione geografica. La tomba di San Giacomo si trovava in quella zona che
nell’epoca medievale era definita la “fine
del mondo”. Il viaggio verso Occidente era un cammino verso l’estremo lembo
di terra allora conosciuto, il “finis
terrae” oltre al quale si apriva una vastissima e sconfinata distesa
d’acqua che allegoricamente fissava il limite umano nella conoscenza del mondo.
Anticamente
e per tutto il Medioevo si pensava che il mondo finisse ad Ovest cioè con
l’Europa che si affacciava sull’Oceano Atlantico e che oltre avesse inizio quello
che era definito il “regno dei morti”. (Dante immagina nel suo Purgatorio che
la montagna si collochi tra le onde dell’Oceano Atlantico in un luogo
sconosciuto agli uomini oltre le Colonne d’Ercole).
Il
cammino, la strada, verso Santiago rappresentava la vita con le sue
innumerevoli prove mentre l’arrivo alla tomba dell’apostolo simboleggiava il
passaggio estremo, la morte. Favoriva
cioè l’incontro con il divino, un contatto fugace con l’Aldilà. L’ingresso della
cattedrale era infatti sormontato da una grandiosa costruzione, denominata
Portico della Gloria, che indicava al pellegrino che era ormai giunto al
traguardo e richiamava alla sua mente la gloria ben più grande di cui avrebbe
goduto alla fine della sua vita terrena.
Santiago di
Compostela – Il Portico della Gloria
La
geografia medievale offriva una conoscenza parziale della terra e quanto più ci
si allontanava da quella che potremo definire Europa Continentale tanto più le
conoscenza di quelle zone che stavano ai margini dell’Europa si facevano
nebulose, avvolte dal mistero. Zone che erano oggetto di curiosità ma che
destavano anche timore.
I
racconti dei primi viaggiatori parlavano di fatti prodigiosi dalle terre di
Galizia. Il pellegrinaggio era una vera e propria avventura, non tanto per i
pericoli, ma perché sul cammino si potevano incontrare segnali divini
miracolosi che lasciavano presagire l’esistenza di un mondo ultraterreno che
l’uomo non aveva la possibilità di conoscere nella sua pienezza ma solo
presagire in modo fugace. Manifestazioni divine che davano ai fedeli la
speranza che il percorso di un uomo non si esauriva con la morte del corpo e
che l’esistenza terrena fosse solo una piccola fase transitoria.
Per
richiamare nella mente dei pellegrini il valore del cammino e quindi il senso
dell’uomo sulla terra, lungo il percorso furono collocati dei segni religiosi
che servivano a sacralizzare lo spazio e ricordare in modo costante il valore e
lo scopo del suo viaggio. Un ricordo che fu materializzato non solo con la
presenza di numerose chiese e cappelle ma anche con le innumerevoli croci,
cruceros, poste lungo le strade. Croci che avevano una sua funzione
segnaletica, quindi materiale, e religiosa in quanto ricordavano al pellegrino
il termine ultimo della sua esistenza e il modo per conseguirlo per mezzo della
fede. La loro visione doveva dare sostegno, conforto, coraggio nel proseguire
lungo il cammino proprio come nella vita quotidiana. Infatti venivano collocate
nei punti più difficili come ponti,
passi, guadi di fiumi, valichi di montagna dove il cammino era molto
pericoloso.
Oltre
alla croci il pellegrino aveva la visione dei campanili delle chiese che lo
invitavano alla preghiera. Luoghi che esprimevano un rapporto ricco di spiritualità tra il
pellegrino e lo stesso luogo.
2e) Il Simbolo del
cammino di Santiago.. La Conchiglia
Il
simbolo del cammino di Santiago è la conchiglia a valve raggiate detta anche
“conchiglia di san Giacomo” o “pecten jacobaeus” e chiamato in spagnolo “concha
de vieira”.
In
origine veniva donata ai pellegrini una volta giunte a Santiago come
testimonianza del loro pellegrinaggio.
In
epoca romana la conchiglia si utilizzava come amuleto, segno di prosperità e
fortuna. Assunse nel tempo altri significata come segno di bellezza, perfezione
e fecondità. Botticelli la dipinse nel quadro “La Nascita di Venere” e fu
inserita come elemento decorativo in molte chiese copte e nei sarcofagi
paleocristiani dove simboleggiava la Resurrezione.
La “Nascita di
Venere “ – Sandro Botticelli
Le
fonti battesimali delle chiese sono adornate da grandi conchiglie.
La
conchiglia rappresenta quindi la protezione e per questo, secondo un antica
tradizione, una volta finito il pellegrinaggio deve restituirla al mare, a
Finesterrae, ringraziando l’Oceano della protezione avuta durante il viaggio.
Secondo
altre tradizioni, una volta finito il lungo cammino, la conchiglia deve essere
cucita sul cappello o sul mantello per dimostrare a tutti di aver compiuto il
Cammino di Santiago e serviva anche per l’esenzione di tasse e pagamenti di
pedaggi lungo il percorso di ritorno.
La
sua nascita come simbolo del pellegrino
è legata a leggende e racconti.
Una
leggenda è legata ai discepoli di San Giacomo.
L’imbarcazione
che portava i resti dell’apostolo Giovanni giunse nei pressi delle isole Cies,
di fronte alle coste della Galizia. I discepoli notarono dall’imbarcazione che
si stava celebrando un matrimonio sulla spiaggia. Il matrimonio attirò
l’attenzione dei discepoli a causa di un gioco che si svolgeva durante la
cerimonia. Il protagonista doveva montare a cavallo mentre lanciava in aria una
lancia. Un impresa difficile perché la
lancia doveva essere presa al volo prima che cadesse al suolo.
Arrivò
il turno dello sposo, secondo le regole lanciò in aria la lancia e cercò di
raggiungerla cavalcando con impeto ma la lancia finì in acqua.
Lo
sposo si tuffò in acqua con il cavallo sparendo tra i flutti, le onde
dell’oceano. Dopo pochi attimi, come per miracolo, riapparvero accanto
all’imbarcazione in cui si trovavano i discepoli e che si stava avvicinando
alla riva. Su quell’imbarcazione si trovavano anche i resti mortali
dell’apostolo Giacomo.
Lo
sposo una vota emerso dalle acque andò incontro all’imbarcazione per accogliere
con cortesia gli ospiti.
Era
interamente ricoperto da conchiglie di capasanta e venne interpretato dagli
apostoli come un miracolo ed un avvenimento di buon auspicio. I discepoli, tra
cui Attanasio e Teodoro, invitarono lo spaso a salire sull’imbarcazione e
durante il tragitto verso la spiaggia avvenne il grande miracolo: lo sposo si
convertì al cristianesimo. Il miracolo si ripetè sulla spiaggia dove molti
partecipanti alle nozze si convertirono.
L’imbarcazione
con gli apostoli proseguì successivamente nella sua rotta, risalì la Ria de
Aurosa e giunse a Padron dove San Giacomo venne sepolto.
Una
variante della leggenda cita la barca sprovvista di timone e vela e guidata
solo da un angelo. Un uomo che dalla costa osserva la navigazione della barca
cadde in acqua e tutti credevano che fosse morto annegato. L’uomo ricomparve
dalle acque ricoperto da numerose conchiglie.
San
Giacomo aveva fatto il miracolo e la “concha” divenne così il simbolo del
pellegrinaggio.
Spesso
sulla conchiglia é impressa la croce di San Giacomo, protettore delle milizie
cristiane, che rappresenta una spada rovesciata con il lato lungo che ricorda
la lama e quello corto che simboleggia l’impugnatura, spada che anticamente
veniva conficcata nel terreno durante il cammino e utilizzata come croce
davanti alla quale pregare.
Una moderna funzione della
conchiglia, disegnata o scolpita, posta lungo i sentieri e le strade del
Cammino indica la giusta direzione per arrivare a Santiago unita alla freccia
gialla.
4.
SICILIA
– LA VIA FRANCIGENA DEL VALLONE
A) CAMPOFRANCO
Chiesa di San Francesco
Il casale di Campofranco fu fondato con Regia Licenza
nel 1573 dal barone Giovanni Del Campo e successivamente elevato a principato.
Il Pirri, 1630 circa, quindi a poco tempo dalla
fondazione del piccolo centro citò l’opera del barone Giovanni Del Campo..” Campus francus oppidolum...ab
anno 1625 13 Junii cun Principatus titulo, juris est Antonii Luchisii. Aedis
majoris Paroc. D. Joanni ante Portam Latina... Franciscani Conventum an. 1580... ob loci
paupertatem ab oppido recesserunt: hoc anno redierunt fratres 3”
(“Campofranco città…anno 1625 13 giugno con titolo di
Principato Antonio Lucchesi.. tempio maggiore Parroc. San Giovanni davanti
Porta Latina… Convento dei Francescani anno 1580….. in numero di tre frati
assistono i più poveri..”.
Nel 1757 l’abate Vito Amico nel suo “Dizionario
Topografico” riportò il centro come..”decorato
di una chiesa maggiore sacra a San Giovanni (Battista) sotto un parroco
Arciprete, e di altre tre minori chiese…. Del convento dei Minori Conventuali, del
titolo di San Francesco…; e del palazzo del Principe elegantemente costruito. Ne
è S. Anna madre di Maria la special Patrona”.
Le chiese presenti nel centro e tutte contemporanee
alla fondazione di Campofranco sono: La Matrice dedicata a San Giovanni Battista,
la Chiesa dell’Itria e la Chiesa di San Francesco.
Il 22 luglio 2012, mons. Mario Russotto, Vescovo della
Diocesi Caltanissetta, con proprio decreto, elevò la Chiesa di San Francesco a
“Santuario Diocesano di San Calogero”.
Allora erano parroci don Alessandro Rovello e don
Bennardo Briganti che emozionati affermarono come “negli anni, attorno alla chiesa dove è custodita un’immagine statuaria
di San Calogero, c’è stato e continua ad esserci in maniera crescente, un
continuo movimento di pellegrini che ha portato alla creazione di un vero
centro di vita spirituale in cui ci si accosta ai sacramenti, si prega
intensamente e con devozione, chiedendo l’intercessione del santo per ottenere
dal Padre celeste delle grazie particolari. La devozione viene inserita,
quindi, nel cammino cristiano che trova nell’ascolto della Parola e nei
sacramenti, la sorgente e il momento più alto della comunione con il Signore e
con i fratelli”.
Il culto per San Calogero è antichissimo e la sua
importanza non fu solo legata alla sua opera di evangelizzazione ma anche a
quella di taumaturgo. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Sciacca e
prima del centro agrigentino si stabilì a Termini Imerese e a Lipari. Una
venerazione nata nel lontano VI secolo (morì a Sciacca nel 561), assopita dopo
la conquista araba della Sicilia, e rifiorita sotto i Normanni. Il culto subì una
maggiore affermazione nei secoli XV e XVI, in cui vennero dotate di statue le
chiese di Naro, Agrigento, Sciacca e anche nella lontana San Salvatore di
Fitalia.
Papa Clemente VIII (1592 – 1605) confermò, in tutto il Regno di Sicilia, la
data della festa di San Calogero il 18 giugno inserendo il nome del santo (e
quindi anche la sua festa) nel Martirologio Romano.
La massima fioritura del culto si ebbe verso la fine
del secolo XVI e i primi decenni del XVII, in seguito al rinnovamento apportato
dal Concilio di Trento e anche per un gran numero di disgrazie che colpì il
Regno di Sicilia come pestilenze, carestie, terremoti in cui si invocò con fede
la protezione del Santo. Con il passare dei secoli si è ben radicata nel
territorio una sincera devozione e attaccamento al culto di San Calogero
soprattutto nella Diocesi di Agrigento, Lipari, Patti e Caltanissetta. Una
prova tangibile delle devozione è legata alla sua venerazione in oltre 50
comuni in cui sono dedicate chiese o
altari. Famoso per le sue doti di taumaturgo, medico, in tutti i comuni viene
festeggiato il 18 giugno.
Appare un San Calogero venerato non solo nella città
di Campofranco ma anche nella vicina Milena, l’antica Milocca. Le grotte
termali sul Monte Kronio, dove viveva San Calogero, erano oggetto di
pellegrinaggi da parte di gente che richiedeva cure per i propri dolori fisici
e la sua attività di medico, oltre a quella di evangelizzazione, si diffuse in
tutto il territorio anche se successivamente, con la dominazione araba, il suo
ricordo si affievolì..
L’antropologa americana, Gower Chapman, citata nella
mia ricerca “Milena il Paese delle Robbe”, scrisse sul finire degli anni ’20
che…”popolarità godono a Milocca anche
alcuni santi venerati nei paesi vicini, spicca tra questi San Calogero di
Campofranco”.
Nel paese di Milocca non c’era una chiesa e nemmeno un
piccolo altare dedicato al Santo e il suo culto si manifestava grazie ad una
cappella fuori dal paese ed “esistente da
tempi immemorabili… più antica della stessa chiesa madre”.
In realtà la cappella ha una sua triste storia perché
quella attuale non è quella che fu ammirata e descritta dall’antropologa americana..
Prima della guerra fu “rifatta” da un certo Pantano, un architetto responsabile
dei lavori sulla strada provinciale (SP 24).
L’antica cappella fu abbattuta per volere dell’”illustre” architetto
perché “disturbava”. Avvenne qualcosa d’incredibile… perché dopo pochi giorni
il Pantano cominciò a sentirsi male e, intuendo le origini del suo malessere
psichico, fece riscostruire a sue spese la cappella.
Anche la piccola statua in gesso non è quella
originale perché fu sostituita nel corso degli anni da vari devoti. Giovanni
Mendola collocò una piccola statuetta
subito dopo la ricostruzione della cappella operata dal Pantano; Vincenzo Tona
negli anni ’50 e ultimamente da un devoto Carmelo Curto. L’edicola è oggi
affidata a Benedetto Mendola per eredità dal padre Giovanni.
La caratteristica del
culto è da sempre “lu viaggiu a San
Calò”. Fin dalle prime ore della domenica, pellegrini di ogni età si recano
in pellegrinaggio, molti a piedi e scalzi, a Campofranco cioè a “San Calò”
secondo un antica tradizione e devozione che si tramanda di generazione in
generazione. Dopo le funzioni religiose, la benedizione del pane che molti dai centri vicini portano proprio a Campofranco per
essere benedetto. A Milena, dopo la messa del pomeriggio, si svolgeva un
pellegrinaggio che partendo dalla Chiesa Madre arriva all’edicola di San Calogero.
Nella stessa Milena sono presenti numerose piccole edicole private dedicate al
santo. Un territorio, Campofranco, Milena, dove la devozione per il santo è
molto forte e radicata.
Il culto a Campofranco risale ad epoche antiche e
venne probabilmente rinvigorito dagli eventi legati all’11 gennaio 1693 quando
grazie alla Sua intercessione, Campofranco fu preservata dal terremoto e al
ringraziamento della liberazione della carestia che nel ‘700 mise a rischio le
colture nei campi e la vita delle stesse persone. I campofranchesi portarono il
santo in processione e tra fede e superstizione si mise a piovere mettendo in
salvo le colture.
Quest’ultimo evento è ricordato con i festeggiamenti
nell’ultima domenica di luglio.
La statua originaria di San Calogero era un’altra e fu
tenuta nella chiesa fino al 1866 quando fu trasferita a Palermo presso i frati
Conventuali.
La chiesa si presenta ad unica navata con volta a
botte e con due logge balconate che si prolungano nella zona absidale (una
caratteristica delle chiese risalenti agli inizi del Settecento). Lungo le
pareti tre nicchie con arco che contengono altrettanti altari con decorazioni
in stucco di stile neoclassico.
Nell’abside si trova l’affresco “L’Andata al Calvario”,
lo “Spasimo di Sicilia”, di autore ignoto. Sono presenti alcune statue lignee
tra cui quella della Vergine Immacolata, del 1714 di stile rococò di scuola
napoletana.
La statua di San Calogero, oggetto di grande
venerazione da parte della comunità, è
opera dello scultore di Gangi, Filippo Quattrocchi (1734 – 1818) nei
primi anni dell’Ottocento. Un santo nero
con abiti da eremita. Sul braccio destro pende un piccolo cofanetto. San
Calogero era un taumaturgo e come tale curava
i malati, (i bambini colpiti da ernia si rivolgono a lui) e nel piccolo
cofanetto teneva le medicine e gli strumenti. Il bastone d’argento fu un dono
dei principi Lucchesi nell’800.
La tela dell’Andata al Calvario risalirebbe al seicento
e probabilmente opera non siciliana. Un dipinto , che come riporta il sito del
Comune di Campofranco, s’inserisce nel contesto culturale che si creò a Napoli
nel secondo Seicento.
Il formato del dipinto “a maddalena” e la successiva
piegatura della cornice, che fu effettuata per adattare il quadro alla
superficie muraria curva dell’abside, meriterebbero degli approfondimenti così come per l’autore. Fu un dono
probabilmente del principe Lucchese Palli e quindi potrebbe inserirsi anche come
opera di scuola palermitana. (purtroppo non ho una foto del dipinto che era
memorizzata in un computer che è andato in tilt. Ho cercato su internet una
foto ma è stato vano).
Durante la processione si distribuisce “u mbraculu di San Caloriu”.
Si tratta di un pane che riproduce una parte del corpo
guarita grazie all’intercessione del Santo. Si ha la benedizione di questi pani
che vengono distribuiti alla gente. Prima di mangiare la fetta benedetta, si
recita una preghiera e ci si raccomanda a Dio e al santo taumaturgo per la
propria salute personale e quella dei propri cari.
I
fedeli rispettano ancora in parte la vecchia tradizione. “Viaggio a piedi
scalzi” con il rosario in mano che si completata in chiesa con la ”lingua a strascinuni”, cioè strisciando
la lingua a terra fino all’altare maggiore. Una manifestazione di fede che è
stata abolita e dell’antica tradizione rimangono gli abitini bianchi con i
bottoni neri dei bambini e la raccolta delle offerte per una “missa cugliuta” e
la “sagra dei Pupi di pane”. Nella sagra vengono distribuiti quintali di pane
che raffigurano le varie parti del corpo guarite per intercessione del santo.
Una
tradizione che è legata anche al ringraziamento verso il santo per il raccolto
salvato dalla carestia nel lontano settecento e anche per quello dell’annata.
In origine i contadini offrivano del grano. Successivamente si donava ai più
bisognosi le forme di pane figuranti le varie parti del corpo per l’avvenuta
guarigione dai mali fino ad arrivare al “pupo” intero. Forme di pane che
variano anche nella dimensione, dai circa 50 cm alle più grandi che possono
raggiungere anche i 2 metri. Dopo essere stato benedetto viene distribuito ai
fedeli.
Ingredienti: Kg 2 di farina mista 00 e di grano duro, una noce di lievito
di birra, 3 cucchiai di zucchero, 3 cucchiai di olio d'oliva, sale e acqua
tiepida q.b. per un impasto un po' più duro di quello del pane(quindi con meno
acqua).
Il percorso Francigeno ha anche tra i suoi
innumerevoli obiettivi (storici, culturali, naturalistici) anche quello di
mettere in risalto certi aspetti che potrebbero perdersi nel tempo. In questo
contesto s’inserisce la storia del quadro dell’”Andata al Calvario” che sembra
tratta da un romanzo ricco di spunti religiosi e storici.
La
“Spasimo di Sicilia” (L’Andata al Calvario) è un dipinto a olio su tavola di
Raffaello Sanzio e allievi. Un quadro databile al 1517 e conservato nel Museo
del Prado di Madrid. Un’opera che è firmata su una pietra posta in primo piano “Raphael Urbinas”.
Autore: Raffaello
Sanzio e aiuti
L’Andata al
Calvario – Spasimo di Sicilia
Data : 1517
Tecnica : Olio su
Tavola trasportata su tela
Dimensioni : (318
x 229 ) cm
Museo del Prado -
Madrid
Molti
si chiederanno come mai questo riferimento al quadro di Raffaello. In Sicilia
ci sono molte copie che riproducono la grande opera di Raffaello. Un opera, quella di Raffaello, che ha una sua
storia e che ha dato origine ad un certo numero di raffigurazioni che vanno
incluse negli “Spasimi di Sicilia” tra cui uno molto importante a Caltanissetta,
Castelvetrano, ecc.
L’opera
fu commissionata , e qua la prima sorpresa, dal Monastero Olivetano di Santa
Maria dello Spasimo di Palermo, da cui il nome.
https://www.ioamolasicilia.com/wp-content/galleries/spasimo/DSCF3200.jpg
http://www.turismopalermo.it/library/pagination/img/chiese/chiesa-santa-maria-dello-spasimo-img3.jpg
La Chiesa dello
Spasimo si trova nel quartiere della Kalsa.
A navata centrale
di grandi dimensioni e con grandi cappelle laterali.
In stile gotico,
con l’abside a pianta poligonale coperta da una volta stellare,
il transetto con
arcate a sesto acuto e conquattro grandi
monofore.
All’esterno si
trova il chiostro che risale al 500.
Dal febbraio 1582
la chiesa fu usata per rappresentazioni teatrale e questa
particolare
destinazione d’uso fu mantenuta fino alla grave epidemia di peste del 1624.
L’epidemia colpì
la città in modo grave e la mancanza di strutture per il ricovero dei malati,
spinse il senato a
destinare una parte della chiesa a lazzaretto. Finita l‘epidemia alcune
stanze furono
adibite a magazzini per il grano mentre nella navata centrale
della chiesa
riprese l’attività teatrale.
Quando un Regio
decreto abolì i magazzini granari, alcuni ambienti furono
utilizzati per il
ricovero dei poveri, altri ad ospedale e altri ancora a depositi. Depositi che
rimasero in
funzione fino al
secondo dopoguerra quando la navata centrale e le navate laterali furono
utilizzate dal
Comune come deposito di materiale proveniente da chiese e palazzi bombardati e
poi demoliti.
Nel 1988 ebbero
inizio i lavori di restauro che non so se siano stati completati.
È comunque
adoperata per spazi espositivi.
Nel
1506 il giureconsulto di Palermo, esperto di diritto, Giacomo Basilicò donò ai
padri di Monte Oliveto dei terreni e delle case rustiche per fare erigere un
convento ed una chiesa da dedicare alla Madonna che spasima (soffre per il
dolore) dinnanzi al Cristo in Croce.
Un
atto di devozione nato da un suo ritorno da un pellegrinaggio compiuto in
Terrasanta all’inizio del 1500 e anche per onorare una promessa fatta alla
moglie Eulalia.
Il
Basilicò era molto legato a quell’immagine di fede e, su consiglio di Antonello
Gagini incaricato di scolpire l’altare della chiesa, volle che a rappresentarla in un quadro fosse
Raffaello Sanzio.
Fu
dipinta a Roma ed ultimata nel 1517.
Venne
inviata con una nave a Palermo ma durante il viaggio ci fu una tempesta. Un
viaggio che fu riportato dal Vasari e da Vincenzo Borghini nella loro
cronaca. La nave naufragò e la tela
rimase in mare per alcuni giorni per poi giungere lunga la costa nei dintorni
di Genova. “Fu ripescata e tirata in
terra, fu veduta essere cosa divina e per questo messa in custodia, essendosi
mantenuta illesa e senza macchia o difetto alcuno, perciochè sino alla furia dè
venti e l’onde del mare ebbero rispetto alla bellezza di tale opera”.
La
notizia del recupero del dipinto giunse in Sicilia e i siciliani dovettero fare
ricorso al papa Leone X per riaverla. Il
dipinto fu imbarcato e giunse a Palermo.
Prima che il complesso monastico fosse completato il vicerè
spagnolo Don Ferrante Gonzaga, a causa della minaccia turca, decise di
destinare il complesso ad uso militare facendovi collocare dei cannoni diventando
un bastione difensivo della città.
I padri olivetani si trasferirono nel Convento di Santo Spirito
“fuori le mura”.
Portarono con loro naturalmente il quadro di Raffaello che finì,
non si sa come, nelle mani di un certo Don Giovanni Dies.
Chi era Giovanni Dies ?. La ricerca non è stata facile anche
perché i nomi medievali venivano spesso alterati nei testi e documenti.
Nel libro “Napoli Sacra” ho trovato
riportata un’antica trascizione relativa alla sepoltura di un certo Bartolomeo
“Diez..” avvenuta nel 1554.
Si
tratta di una famiglia, Diaz Garlon o Diascarlon”, originaria della Catalogna e
giunta nel Regno di Napoli al seguito di Alfonso IV (Il Magnanimo) d’Aragona (I di Sicilia e I di Napoli).
Pascasio Diaz sposò Lucente di Chiaramonte dalla quale ebbe tre figli.
La famiglia raggiunse una forte prosperità economica anche
esercitando il commercio del grano proveniente dalla Puglia. In un documento
del 1486 venne concesso il permesso di imbarcare 150 carri di frumento nelle
navi dal porto di Manfredonia. Un grano diretto ai mercati esteri.
Un ricco mercante che riuscì ad appropriarsi del famoso dipinto
?
Nel 1661 Giovanni Dies
(Dias) donò il dipinto al vicerè Don Ferdinando d’Ayala, conte d’Ayala, il
quale a sua volta lo inviò in Spagna al re Filippo IV di Spagna (III di
Sicilia).
La storiografia riporta anche un’altra tesi, in cui non figura
Giovanni Dies, legata al “desiderio” del
re di Spagna di avere quel quadro per collocarlo nella cappella dell’Escorial.
Il vicerè incontrò l’abate del
convento per avere il prezioso dipinto..” “Il
Nostro illustrissimo Sovrano, Filippo IV, venendo a conoscenza che nei suoi
territori è presente un’opera dell’ormai compianto Urbinate, desidera entrarne
in possesso!”
Appoggiò la lettera del re sul tavolo e
guardò l’abate che disse solo alcune parole perché incredulo da una simile
richiesta: “Sua eccellenza, ma…”
Il vicerè, con l’arroganza della sua
carica, riprese subito la parola: “Lo
sappiano che oramai il progetto del grande Monastero è fallito e che la Chiesa
di Maria dello Spasimo, per quanto bella è incompiuta.”
Immediata e adirata la risposta
dell’abate: “Non per volere del nostro
benefattore (Giacomo Basilicò) ma del Senato cittadino…”
“La sicurezza
della nostra città viene prima di tutto. Le mura, con gli infedeli per zonzo a
mare, sono una priorità….Per cui abbiamo sacrificato il Monastero…Il passato è
passato. Ora guardiamo avanti. Il quadro è più di un semplice quadro. Vede in
questo momento gli equilibri sono stabili nel loro essere precari, lei mi
capirà….Sarebbe un dono enormemente gradito da sua Maestà! Un dono
indispensabile. Chiameremo qualche artista a farne una copia fedele da mettere
al suo posto” aggiunse il vicerè.
L’abate
preso dallo sconforto e in preda alla rabbia esclamò consapevole di essere
davanti ad una persona decisa a tutto
pur di raggiungere i suoi obiettivi: “Così
è deciso vedo…”
Sicuro
di sé il vicerè concluse il suo discorso con la solita arroganza che non gli
era mai venuto meno: “Così sarà fatto! La
Cappella personale di sua Maestà risplenderà di Sicilia, così da non poter
dimenticare il nostro sacrificio e il mio servizio!”
Un’altra versione cita come il vicerè Ferdinando d’Ayala nel 1661 acquistò il quadro per donarlo sempre al re di Spagna.
Un’altra versione cita come il vicerè Ferdinando d’Ayala nel 1661 acquistò il quadro per donarlo sempre al re di Spagna.
Il realtà il quadro non venne acquistato dal vicerè tanto che
Filippo IV promise ai religiosi, in cambio del quadro, una generosa rendita che
non arrivò mai !!!!!!
I
vicerè erano soliti depredare le opere d’arte presenti in Sicilia per portarle
in Spagna. (ci fu un caso anche nella famosa farmacia medievale di Roccavaldina
dove dei contenitori di ceramica furono oggetto di ripetute richieste, anche
con minacce, da parte dei vicerè). L’abate del Convento dello Spasimo di
Palermo, Clemente Staropoli, per evitare la perdita del prezioso dipinto,
avrebbe commissionato una copia a un pittore del luogo.
L’originale
fu mandato alle suore del Convento di Santa Croce di Caltanissetta che lo
custodirono gelosamente. Il quadro di Caltanissetta è veramente l’opera di
Raffaello Sanzio ?
Convento di Santa
Croce di Caltanissetta
La Pietra con la
Santa Croce custodita nel convento di Caltanissetta
La storiografia, tra mille dubbi, ha
accettato la tesi secondo la quale il vicerè riuscì ad avere il prezioso
dipinto che fu inviato in Spagna per essere collocato sull’altare maggiore
della cappella dell’Escorial.
A causa delle ruberie napoleoniche la tela
fu trasportata dalla Spagna in Francia a Parigi dove fu tenuta dal 1813 al
1822. In questa periodo fu soggetta ad una tecnica che porterà danni notevoli
al capolavoro del Raffaello: trasporto dell’immagine dalla tavola su tela. Una
tecnica che era molto conosciuta in Francia ma non sempre effettuata con
perizia dagli artisti.
Il
trasporto su tela di un dipinto eseguito originariamente su tavola è un'operazione
molto delicata che richiede grande esperienza.
Il procedimento, in breve, si svolge in quattro fasi:
1) incollare uno strato provvisorio di tela sulla superficie anteriore del dipinto.
2) consumare posteriormente il legno della tavola su cui è posto il dipinto fino a raggiungere l'imprimitura a gesso.
3) incollare ora il dipinto (liberato posteriormente dal vecchio supporto in legno) sul nuovo supporto in tela.
4) togliere la tela che era stata posta provvisoriamente sulla superficie anteriore del dipinto.
Il procedimento, in breve, si svolge in quattro fasi:
1) incollare uno strato provvisorio di tela sulla superficie anteriore del dipinto.
2) consumare posteriormente il legno della tavola su cui è posto il dipinto fino a raggiungere l'imprimitura a gesso.
3) incollare ora il dipinto (liberato posteriormente dal vecchio supporto in legno) sul nuovo supporto in tela.
4) togliere la tela che era stata posta provvisoriamente sulla superficie anteriore del dipinto.
L’opera successivamente ritornò in Spagna
nel 1822. Le condizioni della pala, anche a causa del cambio del supporto non effettuato
con perizia tecnica, non sono buone. Fu rimossa più volte dal Museo di El Prado
per restauri di cui l’ultimo sembra risalire al 2012 quando fu allestita una
mostra dal titolo “El ùiltimo Rafael”.
Alcuna domande ?
L’abate del monastero diede veramente
l’incarico ad un artista del luogo di eseguire una copia del prezioso dipinto ?
Il nome dell’artista che eseguì la copia
? I tempi erano brevi e la scuola del
Raffaello, che presentava validi artisti, era distante. Era presenta in quel
periodo a Palermo un artista capace di eseguire una copia perfetta ?
In quel periodo c’erano a Palermo tre
grandi artisti: Giacinto Platania (1612-1691); Pietro del Po’ (1610-1692),
Pietro Aquila (1630 – 1692).
Per
motivi artistici e storici c’è da aggiungere che a Catania nella Chiesa di San
Francesco all’Immacolata esiste una copia, risalente al 1541 ed opera del
pittore Jacopo Vignero.
L’Opera
Cristo,
caduto sulla via del Calvario, si rivolge alla Madre che è sorretta dalla
Maddalena e dalle pie donne. Una scena molto affollata con numerosi soldati, a
piedi e a cavallo. Al centro un apertura sul paesaggio, tra due macchie di
colore dello stendardo rosso e di un edificio.
Il
Cristo sembra chiedere aiuto alla Madre che allunga le braccia invano come a
volerlo sostenere. Nella scena un soldato sta per sta per colpire il Cristo
mentre un altro, girato di spalle, dà un colpo alla corda che è legata alla
vita di Cristo. Nessuna pietà. Al centro la possente muscolatura di Giuseppe
d’Arimatea che si fa carico dello sforzo di risollevare la Croce.
L’idea
è del Sanzio ma la stesura fu fatta in gran parte dai suoi allievi come molte
delle opere del famoso artista negli ultimi anni della sua vita.
LO
SPASIMO DI CALTANISSETTA
Lo
“Spasimo” che si trova a Caltanissetta non è opera di Raffaello Sanzio ma di un
su allievo, Polidoro Caldara, detto Polidoro da Caravaggio, o forse di un altro
seguace o allievo della bottega del famoso artista.
La
Sovrintendenza di Caltanissetta ed Agrigento hanno eseguito degli accurati
studi sulla tavola per sciogliere i dubbi. La firma “R. Urbinas” non fu
ritenuta valida per accertare l’identità dell’opera che fu realizzata su due
tavole di legno africano affiancate l’una all’altra, e datate intorno alla metà
del Cinquecento.
Le
tecniche di studio sono state molteplici: dalla datazione effettuata con il
carbonio 14 all’azione spettroscopica sul legno ai raggi ultravioletti,
fluorescenza ai raggi X e Tac. L’opera proviene dal Museo di Santa Croce di
Caltanissetta ed è conservata presso il Museo Diocesiano.
A
Caltanissetta fu allestita una mostra sugli Spasimi di Sicilia.. dove furono
esposte circa trenta opere (incisioni, dipinti ad olio, sculture) tutte sul
tema dello “Spasimo” e di vari autori quali Luca Cambiaso, Antonello
Crescenzio, Albrecht Durer, Agostino Veneziano, Mario Minniti, Antonello
Gagini, Filippo Paladini.
Molti
affermavano che lo “Spasimo” di Caltanissetta fosse l’opera autentica del
Raffaello e che quella esposta al Prado era una copia eseguita per essere
consegnata agli spagnoli. Ma un dato conferma che l’opera di Caltanissetta non
è del Raffaello.. e questo in base ai dati tecnici..”la tavola “nissena” misura (128 x 92) cm mentre quella del Prado (318 x
229) cm. Non ha senso pensare alla realizzazione di una copia, viste le misure
totalmente differenti. Inoltre l’iscrizione con la firma potrebbe essere
apposta magari da aiuto della bottega, cioè un marchio di garanzia, nel senso
che l’opera potrebbe essere stata realizzata sotto la supervisione del grande
pittore”.
Lo Spasimo di Caltanissetta
Lo “Spasimo di
Sicilia” di Caltanissetta sarebbe quindi opera di Polidoro.. ma rimangono
ancora tanti dubbi.. l’abate del convento con l’aiuto del nobile nisseno
Moncada, consegnò al vicerè una copia del quadro (allora erano presenti tante riproduzioni). Re
Filippo fra le altre cose era anche un raffinato intenditore d’arte e s’accorse
di essere stato raggirato… si potrebbe spiegare in questo senso la mancata
promessa di una rendita al convento fatta dallo stesso re per avere il quadro.
Ma c’è un altro aspetto da rilevare.. a quanto sembra il vicerè Ayala, ritenuto
responsabile del raggiro nei confronti del re, non venne riconfermato nel
vicereame. Ci sono alcune copie dell’opera del Raffaello che si possono
considerare pregevoli come quella dipinta da Giovanni Paolo Fonduli (o
Fondulli) di Cremona e collocata nella chiesa madre di Castelvetrano. Una copia fedele sia in termini di formato
che di resa pittorica. Una tavola eseguita nel 1574, a circa sessant’anni
dall’opera di Raffaello. Un opera che fu commissionata da Don Carlo d’Aragona
Tagliavia per la Chiesa di San Domenico.
Giovanni Paolo
Fonduli, un pittore sconosciuto che fu allievo di una grande maestro della
pittura cremonese cioè Antonio Campo che ne esaltà le virtù espressive nella
sua “Cremona Fedelissima”: “D'un solo son
sforzato far memoria, che è stato mio allievo, il qual intendo con mio gran
contento che è tenuto in molte pregio nella Sicilie, ove fu condotto del
Marchese di Pescara, è questi Gio. Paolo Fondulo, che fine da fanciullo dava
segno di dover riuscire perfetto, si come intendo che è riuscito”.
Il prof. Santo
Correnti affermà che il Fonduli..”… Imitatore dei
manieristi operanti in Sicilia si dimostra pure quel Giovan Paolo Fondulli, che
dalla natia Cremona venne a Palermo nel 1568 al seguito del Viceré Avalos, e la
cui attività è documentata nell’isola fine ai primi decenni del secolo
successivo”.
Altre
fonti ci vengono dallo storico Zaist..” “Fondulo Giampaolo, di Nobil Famiglia Cremonese,
attese all’Arte della Pittura, per cui, resosi caro al Marchese di Pescara,
venne in età giovanile da lui condotto in Sicilia, dove risedeva, qual Viceré
di tal ragno; e godeva passare l’ora libera nel vederlo a dipingere. Sendo egli
dotato dalla natura di un bell’aspetto, e nutrendo altresì sentimenti, conformi
all’illustre sua nascita, si acquista una singolar affezione de principali
Signori di quell’isola, ed attesta la sua virtuosa condotta, con una rara
prudenza, da lui usata in sì grand'auge di fortuna, non vi fu grazia, ch'ei
richiedesse dal suo amorevolissimo Viceré, che non gli fosse benignamente
conceduta. Si compiacque egli poi molto ancora nello studio della storia, cosi
sacra, come profana, in cui riuscì versatissimo.
Fu assai lepido, e gioviale nei famigliari suoi discorsi, contenendosi però
sempre entro i limiti della più regolata modestia; seppe ei pure maneggiar bene
la spada, e fu un bravissimo Cavaliere; onde spesse fiate adoperato ei venne, a
compor gravi, insorte differenze fra primi Maggiorenti del Regno, stante la sua
disinvolta maniera in somiglianti maneggi.
Si trattò sempre alla grande e col mezzo del suddetto
Viceré, ebbe la sorte di accasarsi con una nobilissima Gentildonna del Paese
[cioè la città di Palermo o la Sicilia, N.d.R.] di ricche sostanze posseditrice
per ereditaria ragione. E quindi accoppiato il proprio avere co' beni a lui
pervenuti della doviziosa Consorte, colà trapiantò egli la illustre Prosapia,
fatto Padre di due figliuoli, senza più curarsi, di rivedere la Cremonese sua
Patria. Fece egli pertanto in quei contorni molte commendevoli opere di
Pittura, cosi in pubblico esposte, come custodite in più luoghi privati, delle
quali, perché rimaste in paese da noi lontano, non potiamo recarne alcuna
distinta, individuale notizia…”.
L’artista cremonese
ci stupisce con la sua opera… un capolavoro perfetto tanto da poter essere
paragonato a quello del Raffaello:
Dello
Spasimo di Sicilia furono eseguite diverse altre copie da artisti siciliani,
ben quattro solo nel XVI secolo, quando l’opera del Raffaello era ancora a
Palermo e un’altra tela a Madrid però nel XIX secolo.
Qualcuno
afferma, come in un romanzo, che l’abate del monastero di palermo abbia con “un
cerimoniale concepito con lucida follia, staccato la tavola dalla cornice,
l’aveva avvolta con un sacco, e trascinata a ridosso dell’orto del monastero, e
recitata un preghiera, vi aveva appiccato il fuoco in nome della sua autorità
di Abate di Spirito Santo. Come
l’Inquisizione, Clemente aveva condannato il dipinto ad un orribile distruzione,
perché una volta in possesso del D’Ayala, sarebbe diventato eretico. Il rogo
s’addiceva a quel capolavoro per non cadere in mani impure e assassine”.
Una
storia forse senza un riscontro reale ma che ci lascia entrare nei meandri
delle cripte delle chiese e negli oscuri sotterranei del potere.
-------------------------------
DA CAMPOFRANCO VERSO SUTERA..
.....Lungo la Strada Provinciale 238...
---------------------
In giallo sono indicati i percorsi alternativi
Il percorso a
destra permette di costeggiare Rocca Spaccata e l’area dove
un tempo sorgevano
i Conventi dei Cappuccini e dei Carmelitani.
B) SUTERA - IL SANTUARIO DI SAN PAOLINO
SAN
PAOLINO (Vescovo di Nola)
San
Paolino di Nola , Ponzio Anicio Meropio Paolino, nacque a Bordeaux nel 355.
Apparteneva ad una nobile famiglia di senatori e consoli, il padre era prefetto
della Provincia d’Aquitania. Ebbe come insegnante il poeta Ausonio, amico del
padre, e la sua educazione fu incentrata nella poesia, la legge e la filosofia.
A 15 anni aveva già completato gli studi e all’età di vent’anni era incluso
nella lista dei seicento senatori.
Nel
378 gli spettava il governo di una provincia senatoriale e scelse la Campania,
il centro di Nola, dove aveva alcuni possedimenti.
Nella
vicina Cimitle era venerato San Felice
a cui, prima di tornare in Aquitania, consacrò simbolicamente la sua barba
secondo una cerimonia di tradizione pagana.
A
Barcellona conobbe Therasia, una donna ricca e bella, che a differenza di
Paolino era cristiana e battezzata. Si sposarono e Therasia riuscì a guidare il
marito verso la conversione al cristianesimo.
Nel
389 ricevette il battesimo dal vescovo Delfino e nel 392 dalla coppia nacque
Celso. Il bambino morì dopo appena otto giorni e questo tragico evento segnò la
vita di Paolino che vide nella fede l’ancora della sua salvezza dalla
disperazione.
Nel
393 a Barcellona, durante una celebrazione liturgica del Natale, i fedeli
invocarono “Paolino Sacerdote”. Scelse
di prendere i voti, secondo la massima “Voce
di Popolo, Voce di Dio” e dopo l’ordinazione avvenuta nel 394 partì per
l’Italia dove fece la conoscenza di Sant’Ambrogio.
Durante
una sosta in Toscana con la moglie Therasia, che era sempre al suo fianco,
decisero di dedicarsi alla vita monastica.
Paolino
decise di stabilirsi a Nola, provincia che aveva governato e dove era presente
la tomba di San Felice a cui era da sempre particolarmente devoto.
Fondò
un cenobio maschile e femminile per la preghiera e l’assistenza ai poveri. Si
ammalò gravemente e guarì dopo molto tempo. Secondo la leggenda agiografica la
guarigione fu un miracolo di San Felice. Fece innalzare una basilica al Santo,
al posto di un piccolo santuario allora esistente, e attorno edificò una serie
di chiostri ricchi di colonnati e fontane per accogliere i migliaia di
pellegrini che ogni anno si recavano in preghiera all’ara di San Felice.
Fu
una sua opera il primo campanile del mondo cristiano munito di una campana. San
Paolino è infatti il patrono dei campanari.
In
quel periodo, tra il 409 ed il 411 morì la moglie Therasia.
Il
24 agosto 410 Alarico I, re dei Visigoti entrò a Roma saccheggiandola. In
quello stesso anno morì il vescovo di Nola, Paolo. Gli abitanti di Nola
invocarono “Paolino Vescovo”. Nola subì una forte devastazione da parte dei
Visigoti e gran parte della popolazione fu fatta prigioniera. Paolino vendette
tutti i suoi averi per riscattare i prigionieri e quando le sue risorse
finanziarie si esaurirono, si offrì agli invasori per riscattare l’unico figlio
di una vedova.
San Paolino libera lo schiavo
(Giovanni
Bernardino Azzolino - dipinto del
1626/30
(306 x 210) cm
- pittura
Collezione:
Napoli, Pio Monte della Misericordia)
Fu
fatto prigioniero e condotto in Africa dove fu veduto come schiavo diventando
il giardiniere del suo padrone. Un giorno Paolino profetizzò al suo padrone la
morte del sovrano. Fu condotto alla presenza del re che fu conquistato dalla
paura. Riconobbe nel santo la figura che gli era apparsa in sogno. Fu
interrogato dai giudici del tribunale a cui rilevò la sua vera identità come
vescovo di Nola. Il padrone fu colpito dalla bontà del santo a tal punto che
gli promise di esaudire ogni suo desiderio. Paolino chiese subito la
liberazione di tutti i nolani che erano con lui. Il ritorno a Nola, sia di Paolino
che dei suoi compagni, avvenne dopo poco tempo. Tornarono a Nola in navi
cariche di grano e approdarono alla spiaggia di Torre Annunziata. Furono
accolti dai nolani che portarono mazzi di gigli bianchi. In memoria di questo
evento ogni anno si festeggia la festa dei gigli che si svolge la prima
domenica dopo il 22 giugno, anniversario della morte di Paolino avvenuta nel
431.
La Basilica di San
Felice a Cimitile (Napoli) è uno dei più grandi e importanti complessi
paleocristiani
dell’Italia
Meridionale. Sorse su una necropoli risalente al II secolo a.C.,
le prime comunità
cristiane seppellirono i loro morti in un “caemeterium”,
un termine da cui
deriva il nome del
centro Cimitile. In questo cimitero i nolani seppellirono le spoglie del
presbitero San
Felice (decapitato il 15 novembre 95).
Probabilmente il corpo fu prima seppellito in
questo cimitero
per poi essere spostato all’interno di un pozzo di una casa patrizia dove fu
poi
edificato un luogo
di culto. Un luogo che diventerà la cripta della cattedrale di Nola dove ancora
oggi riposano le
spoglie del Santo). La Basilica di San Felice di Cimitile fu subito oggetto di
pellegrinaggi
per i miracoli che
si verificarono sulla tomba del santo. Nel IV secolo nel cimitero erano
presenti diverse
basiliche, sorte
una a fianco dell’altra, mentre altre furono sovrapposte: Basilica di San
Felice in Pincis,
Santo Stefano, San
Giovanni, San Paolino, Santissimi Martiri, San Gaulonio. Ad esse si aggiunse
la chiesa del
1789, posta in alto sul sito archeologico e dedicata anch’essa a San Felice in
Pincis.
Questi luoghi di
culto e di preghiera si collegano ad un antico monastero che fu fatto costruire
dal vescovo di
Nola, San Paolino, che si stabilì
nel 394 a Cimitile.
I cristiani
conducevano nel monastero una vita di lavoro e preghiera e anticiparono,
di quasi un
secolo, la Regola di San Benedetto. Nel 409, San Paolino fu nominato vescovo di
Nola. Lasciò
quindi il monastero, ingrandì il cimitero e fece costruire una Basilica Nuova
(400-403)
che fu inglobata
nel XVI secolo nella Basilica di San Giovanni che comunicava, tramite un passaggio
a
triplice arcata,
con la Basilica di San Felice in Pincis.
La Basilica di San
Felice in Pincis è la più importante delle sette basiliche. Costruita nel IV
secolo
custodisce il
sepolcro di San Felice, custodito in un’arca formata da una celletta, in cui
furono
deposti anche i
resti di altri due vescovi. La piccola costruzione diventò un “martyrium” con
un’apertura che
serviva di passaggio ai fedeli che introducevano nella tomba gli unguenti,
ritenuti
miracolosi e protettivi contro le malattie, dopo il contatto con il corpo del
Santo.
Cimitile –
Basilica Paleocristiana di San Felice
Cimitile – Tomba
di San Felice
Paolino
mantenne importanti rapporti epistolari con Ambrogio, Gerolamo e Agostino e il
suo epistolario è costituito da 49 lettere. Scrisse anche i “Carmina” cioè
delle poesie cristiane importanti testimonianze dei primi secoli del
cristianesimo. Ne sono pervenuti 33 di
cui 14 sono dei carmi natalizi. Ne compose uno ogni anno durante la sua
permanenza a Nola e tutti il 14 gennaio di ogni anno per la ricorrenza del
martirio di San Felice.
Sant’Onofrio
Onofrio
o Noferi, dal greco “Onnòphris” (“cioè
colui che è sempre felice”)( ? –IV secolo) fu un anacoreta che visse nel
deserto egiziano. In arabo “Abù Nufar”
(l’erbivoro). Il nome Onofrio è di origine egizio e significa ‘che è sempre felice’ e in Egitto era un appellativo di Osiride.
Secondo
una leggenda era figlio di un re. Un figlio desiderato da tanto tempo ma la cui
nascita fu avvolta subito da spietate accuse.
Fu indicato da un demonio come figlio di una relazione adulterina della
regina. Fu sottoposto alla “prova del fuoco” e ne uscì indenne. Si isolò,
ancora giovane, dedicandosi alla vita eremitica.
Sant’Onofrio –
Icona Bizantina del IV secolo
Il
vecchio vescovo e monaco egiziano Pafnuzio era desideroso di incontrare gli
anacoreti del deserto per conoscere la loro vita ed esperienza e s’inoltrò nel
pericoloso deserto alla loro ricerca. Dopo 21 giorni, preso dalla stanchezza,
si distese a terra. Vide una figura umana dall’aspetto terribile… coperto solo
da lunghi capelli e da qualche foglia.
Un
abbigliamento che era comune negli anacoreti, che vivendo da soli, alla fine
facevano a meno degli indumenti che erano difficili da procurarsi o da
sostituire nella solitudine del deserto.
Pafnuzio
si spaventò e cercò di scappare ma la figura umana lo chiamò dicendogli di
stare tranquillo e di restare. A quelle parole capì di aver trovato la persona
che cercava e s’instauro tra i due una reciproca fiducia.
L’eremita
disse di chiamarsi Onofrio e stava nel deserto da 70 anni e di non aver mai
visto anima viva, si nutriva di erbe e si riposava nelle caverne.
In
realtà, secondo alcune fonti, Onofrio aveva vissuto in un monastero della
tebaide ad Ermopolis, insieme ad un centinaio di monaci. Il desiderio di una
vita solitaria, sull’esempio di San Giovanni Battista e di Sant’Elia, lo spinse
a lasciare il monastero. Nel deserto dopo alcuni giorni incontrò un altro
eremita a cui chiese di iniziarlo a quella vita di solitudine e di preghiera.
L’eremita
esaudì il suo desiderio e poi l’accompagnò in un’oasi dove c’erano delle palme
e stette con lui trenta giorni. Poi
partì ritornando nella sua caverna. Una volta l’anno l’eremita lo
raggiungeva per fargli visita e confortarlo. In una di queste visite il monaco
appena giunse nella grotta di Onofrio s’inchinò per salutare e morì. Onofrio
preso dalla tristezza lo seppellì vicino alla sua grotta.
Onofrio
raccontò a Pafnuzio come ci si adattava al cambio delle stagioni, di come si
resisteva alle intemperie e di come si sosteneva. Un angelo provvedeva
quotidianamente al cibo e la domenica alla S. Comunione. Il miracolo
dell’angelo fu visto anche da Pafnuzio che Onofrio condusse nel suo eremo di
Calidiomea, il “luogo delle palme”.
I
due continuarono a discutere e Onofrio disse: “Dio ti ha inviato qui perché tu dia al mio corpo conveniente
sepoltura, poiché sono giunto alla fine della mia vita terrena”. Pafnuzio
rispose che era pronto a prendere il suo posto ma l’eremita rispose che non era
questa la volontà di Dio perché doveva ritornare in Egitto e raccontare ciò di
cui era stato testimone.
Onofio
lo benedì, s’inginocchiò e morì.
Pafnuzio
lo ricoprì con parte della sua tunica e lo seppellì in un anfratto della
roccia. Prima della sua partenza una frana sconvolse la grotta di Onofrio…
caddero anche le palme.. era un segno della volontà di Dio che in quel posto
nessun altro sarebbe vissuto come eremita.
La
“Vita” scritta da Pafnuzio è nota in diverse lingue orientali, greca, copta,
armena, araba. Nel suo scritto presenta
un elogio alla vita monastica cenobitica
e allo stato di vita più perfetto cioè la solitudine nel deserto.
Il
libro si conclude l’11 giugno, morte di S. Onofrio che comunque è celebrato il
12 giugno.
Antonio,
arcivescovo di Novgorod nel 1220 citò la
presenza della testa di Sant’Onofrio nella chiesa di S. Acindino.
“La Vita” ebbe una larga diffusione in Oriente facendo
nascere il culto di Sant’Onofrio che si sviluppò in tutta l’Asia Minore.
Il
culto del santo giunse in Italia attraverso Bisanzio. È ritenuto con
Sant’Antonio da Padova e Graziano di Tours, protettore di chi cerca oggetti
smarriti. È anche protettore dei tintori a Firenze, delle donne che cercano
marito e degli studenti che hanno
problemi didattici.
A
Palermo è compatrono della città e in Sicilia il suo culto è molto diffuso.
Cesi (Terni) – Stata
di Sant’Onofrio
Cesi (Terni) –
Eremo di Sant’Onofrio
In
Sicilia…..
Casalvecchio
Siculo (Me) – Chiesa Madre di Sant’Onofrio
Re Ruggero II
autorizzò la ricostruzione della Basilica dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò e nel
“Diploma di
Donazione” di terre e feudo fa menzione del culto di Sant’Onofrio.
Una
preghiera siciliana per ottenere la sua
intercessione:
Testo Siciliano:
Santu Nofriu
pilusu-pilusu
Tuttu amabili e amurusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi sta grazia
Diccà a stasira.
Tuttu amabili e amurusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi sta grazia
Diccà a stasira.
Santu Nofriu
pilusu-pilusu
Lu me cori è tuttu cunfusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi sta grazia
Diccà a stasira.
Lu me cori è tuttu cunfusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi sta grazia
Diccà a stasira.
Santu Nofriu
pilusu-pilusu
Misi un muranu n'to pirtusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi truvari chiddu ca pirdivi
Diccà a stasira.
Misi un muranu n'to pirtusu
Pi li vostri santi pila
Facìtimi truvari chiddu ca pirdivi
Diccà a stasira.
------------------
Sant'Onofrio
peloso-peloso
tutto amabile e amorevole
per i vostri santi peli
fatemi questa grazia
entro stasera.
tutto amabile e amorevole
per i vostri santi peli
fatemi questa grazia
entro stasera.
Sant'Onofrio
peloso-peloso
il mio cuore è tutto confuso
per i vostri santi peli
fatemi questa grazia
entro stasera.
il mio cuore è tutto confuso
per i vostri santi peli
fatemi questa grazia
entro stasera.
Sant'Onofrio
peloso-peloso
ho fatto un'offerta ai poveri
per i vostri santi peli
fatemi trovare ciò che ho perso
entro stasera.
ho fatto un'offerta ai poveri
per i vostri santi peli
fatemi trovare ciò che ho perso
entro stasera.
L'aiuto
del Santo è invocato soprattutto quando il fedele vuol trovare qualcosa che ha
perso, ma le giovani in passato lo pregavano anche per trovar marito.
A
Sutera si trovano le reliquie di Sant’Onofrio e il culto viene festeggiato la
prima domenica d’agosto mentre il Santo viene ricordato il 12 giugno.
La
sua iconografia nell’arte è rappresentata da un vecchio nudo, coperto solo dei
propri capelli. Altri attributi sono l’angelo, l’ostia, il calice, il teschio,
il cammello e il perizoma di foglie
IL SANTUARIO DI
SAN PAOLINO
Il
Santuario, posto sul Monte San Paolino, fu costruito nel 1370 da Giovanni III
Chiaramonte, e probabilmente anche dal figlio Manfredi. Fu costruito sui resti
dell’antico fortilizio bizantino, probabilmente ristrutturato dai musulmani, di
cui furono utilizzati le rovine. Si raggiunge attraverso una strada in salita
caratterizzata da oltre 180 gradini. Lungo il tragitto si possono ammirare le
Stazioni della Via Crucis e la prigione nel quale fu rinchiuso Filippo d’Angiò,
principe di Taranto e figlio di Carlo II d’Angiò e di Maria d’Ungheria. Durante
i Vespri fu sconfitto da Federico III d’Aragona. Fu catturato e rinchiuso nelle
carceri di Cefalù da dove venne poi trasferito in un posto più sicuro, lontano
dal mare, a Sutera. Nei pressi c’è una grande Croce che è posta sul luogo dove nel 75 d.C. fu eretta per la prima volta una Croce
in ricordo dell’adesione dei suteresi alla fede cristiana per l’opera di
evangelizzazione dei SS. Onofrio ed Archileone.
Lungo la scalinata la prima campana dei Pellegrini
mentre la seconda è sposta sul monte.
https://www.sikelianews.it/wps/cultura-e-societa/le-meraviglie-di-sikelia-sutera/
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La Campana dei
Pellegrini posta lungo la scalinata
La prima campana
dei Pellegrini
(foto di Cesare
Busetti)
Via Crucis
L’altra Campana
dei Pellegrini posta sul Monte
Tra
il 1366 e il 1374 per iniziativa di Giovanni III Chiaramonte giunsero in città
le spoglie di Sant’Onofrio, re di Persia; San Paolino, Vescovo di Nola; di
Sant’Archileone, San Pietro Martire e San Damiano. Reliquie che furono donate a Giovanni III dal cugino
Matteo Chiaramonte, Conte di Modica.
Le
reliquie di San Paolino e di Sant’Onofrio furono trasportate a Roma nell’anno
1001 e donate al principe Federico Chiaramonte nel 1220 che le custodì per
tramandarle ai discendenti della sua nobile casata.
Il
Gesuita padre Ottavio Gaetani citò che “
è opinione di alcuni…. Che tra le reliquie che qui si contano (in Val di
Mazara), furono inviati, da Alessandria in Sicilia ad opera del B. Atanasio
(della famiglia Chiaramonte, Patriarca in Alessandria d’Egitto), ai suoi
Chiaramontani, anche i corpi dei SS. Onofrio, Archirione e Paolino con la tibia
di S. Damiano e altre reliquie di Santi, che nella rocca di Sutera si venerano.
Al contrario, argomenti che provino ciò non esistono. Tuttavia una tal cosa il
casato dei Chiaramonte ritiene certa. Le reliquie furono da questi collocate in
Sutera perché sulla sommità fossero custodite tanto dalla natura del luogo che
dal particolare sito. A ciò si aggiunge che quei corpi venivano conservati in
un sacello dei Chiaramonte, come fosse un loro dono”.
Il
Gaetani citando le reliquie di Sutera accennò alla storia della vita di S.
Angelo, martire carmelitano, osservando che nella biografia del Santo “… furono numerate ed ordinate solo le
reliquie che, per rivelazione di S. Giovanni Battista, furono prelevate dalla
basilica alessandrina ed inviate a Federico Chiaramonte, sulle quali sarebbe
intervenuta l’approvazione del pontefice Onorio”.
Reliquie
che sarebbero in qualche modo collegate con la vita del martire carmelitano S.
Angelo, patrono di Licata, e con la famiglia dei Chiaramonte che nel 1366
ottennero l’investitura della Signoria di Sutera e delle sue pertinenze
concesse a Giovanni III Chiaramonte.
Le
sacre reliquie di San Paolino furono
prima custodite in un cassonetto di stagno di fiandra, contenuto in una
cassa di noce finemente lavorata e poi
collocate nel 1498 in un urna aragonese di finissimo argento commissionata agli
artigiani palermitani, grandi maestri dell’arte orafa, dalla nobile famiglia
dei Pujades. L’urna contiene al suo
interno anche le reliquie di S. Archileone, San Damiano e San Pietro Martire.
L’urna che contiene le spoglie di Sant’Onofrio risale al 1649 e appartiene alla
scuola barocca. Fu commissionata al maestro orefice Francesco Rivolo dal Comune
di Sutera per devozione verso il santo eremita.
L’urna
di San Paolino, a sinistra, è una cassa
in legno rivestita da una lamina d’argento decorata da fregi, alcuni dorati, e
lavorata a sbalzo e bulino. Il coperchio è a schiena d’asino ed è ornato da
tante piccole teste di cherubino dorate. Nella parte centrale, intorno
all’urna, si notano in rilievo 24 figure raffiguranti S. Paolino, S. Onofrio,
la Vergine con il Bambino, Gesù con gli Apostoli ed altri Santi. Nella base la
cassa reca la data 1498 in numero romani.
Commissionata
dalla nobile famiglia spagnola Pujades di cui è presente lo stemma: un mezzo
giglio orlato d’oro e capeggiato di stelle.
Stemma dei Pujades
?
L’Urna
di Sant’Onofrio è costituita da una cassa di legno rivestita da una lamina
d’argento sbalzata e cesellata, lavorata a grosse volute e fregi fogliacei. È
sormontata da una statuetta di Sant’Onofrio in ginocchio e sotto vi sono
quattro angeli che sostengono ciascuno uno stemma della città di Sutera. Nella
parte inferiore vi sono altri quattro angeli e intorno all’urna sono scolpiti
sei quadri che narrano gli episodi più importanti della vita del Santo. Nella
parte inferiore è inciso l’anno della costruzione: 1649. Un opera di Francesco
Rivolo che lavorò anche all’urna di Santa Rosalia.
Per
tradizione i suteresi suonano la grande campana, posta alla sommità del monte,
come atto di devozione e sottomissione ai Santi Patroni.
I
santi sono compatroni dal 1634.
Il
Santuario fu edificato ad una delle estremità dell’ampio pianoro posto sul
monte.
È
stato oggetto di interventi di
ristrutturazione necessari per le cattive condizioni statiche dell’edificio.
Gli ultimi interventi risalivano alla prima metà del secolo scorso. Un intervento
non controllato e che causò notevoli danni al patrimonio artistico
dell’edificio. Furono infatti distrutte
delle antiche decorazioni in oro e pitture sulle pareti risalenti ad epoche
decisamente anteriori.
I
recenti lavori eseguiti sotto il controllo della Soprintendenza hanno riportato
alla luce antiche sepolture come la tomba del chierico Giacomo Principato,
membro dell’omonima famiglia di Sutera, sormontata da una lapide di pietra che
porta scolpita in bassorilievo l’immagine del religioso e la data della sua
morte: 26 gennaio 1620.
Sulla
sinistra la sepoltura di un altro religioso, “Corradinus Albertus” sulla cui lastra tombale è riportata in
latino la scritta: “Corradino Alberto
giace qui – pregate per lui “.
http://www.itinerarinisseni.it/santuario-diocesano-san-paolino/
È
stato riportato alla luce anche un piccolo campione del pavimento originario.
Un piccola parte di pavimento in maiolica dipinta che fa da sigillo, cioè
copre, un ossuario. Alcuni libri parrocchiali della fine del 1500 citano i
numerosi prigionieri deceduti nelle carceri, che si trovavano nella parte
inferiore del monte, e che vennero seppelliti in questo ossario.
Da Sutera a Mussomeli
PERCORSO LUNGO
SS 132 – SP 23 – SP 208
PERCORSI ALTERNATIVI
SP 20 - STRADA
PENETRAZIONE AGRICOLA (sulla sinistra)
STRADA AGRICOLA ( 3)
SS 132 – SP23 –SP
208 (2)
C) MUSSOMELI
SANTUARIO MADONNA DEI MIRACOLI
Il
culto della Madonna dei Miracoli è radicato da secoli.
Mussomeli
era sotto la dominazione dei Campo che resero il territorio uno dei più
progrediti del Regno. L’8 settembre 1530/1536 o 1540 su un viottolo pieno di
rovi, nei pressi del piccole monte su cui sorgerà il paese, un paralitico a
dorso di un mulo andava chiedendo l’elemosina.
La povera bestia, stanca per il lungo tragitto, si fermò e si mise a
terra… il povero mendicante trovò un piccolo riparo vicino a un sasso e cadde
in preda ad un sonno profondo.
La
leggenda narra che “correva l’anno del
Signore 1540, né confini del paese passò un povero paralitico, per la
stanchezza del giumento che lo portava fu obbligato a riposare all’ombra di un
sasso…”.
Quando
si risvegliò …incredulo, timoroso.. si ritrovò perfettamente guarito dai suoi
terribili mali. Gridò al miracolo.. la gente accorse,, giunse anche altra gente
dal vicino paese… raccontò quello che era successo e tutti incominciarono a
cercare qualcosa tra i rovi per capire la causa del prodigio.. A poca distanza “a quattro passi” rinvennero tra i rovi una bellissima immagine della Vergine Santa
con il bambino Gesù.. alla Madonna fu dato il nome di Madonna dei Miracoli.
La
leggenda nel particolare narra che il mendicante s’addormentò vicino ad una
vigna e fu il proprietario del terreno che, dopo il miracolo, scavando trovò
una lastra di pietra con dipinta l’immagine della Madonna con il Bambino Gesù.
Lastra che è visibile sull’altare della cripta dopo il restauro, risalente al
settecento, di Domenico Provenzani.
Si
edificò prima un’edicola e successivamente una chiesa con oratorio.. La Madonna
fece altri miracoli tra cui la guarigione del figlio del principe Lanza. In
seguito a questo prodigioso miracolo, Donna Giovanna Lanza donò alla Madonna “ un cinto a maglia d’argento e una catena di
centoquaranta partiture in oro smaltato di banco e nero”.
Da
allora ogni anno, l’8 settembre, si celebra una festa solenne con espressa
licenza del vescovo di Girgenti, a cui in quel tempo andava soggetta la
parrocchia.
Il
Santuario della Madonna dei Miracoli è una costruzione barocca che risale alla
metà del settecento ad opera dei padri domenicani.
Con
il passare del tempo il culto si diffuse e la piccola chiesetta era ormai
insufficiente ad accogliere tutti i fedeli in preghiera. La Madonna venne nel
frattempo proclamata patrona di Mussomeli. Il 6 giugno 1724 iniziarono i lavori
di ampliamento della chiesa grazie al domenicano Francesco Langela che nel 1721
aveva donato tutti i suoi averi per la costruzione dell’importante edificio
sacro. Nel 1730 il prospetto della chiesa, in pietra locale scolpita, fu quasi
completato. L’interno è ad un'unica navata con stile barocco sia
nell’architettura che nelle decorazioni.
Sono
presenti due simulacri in legno della Madonna. Uno è opera di Domenico
Provenzani di Palma di Montechiaro che fu autore anche del grande affresco
sulla volta, datato 1792, e di due pale d’altare. Il secondo simulacro, gruppo
scultoreo formato dalla Madonna, dal paralitico e dall’angelo, del 1786 è
invece opera di Francesco e Vincenzo
Biangardi ed è posto nell’abside della chiesa. La Madonna volge il suo
sguardo al popolo mentre il paralitico tende le mani implorando la grazia. Dai
suoi occhi traspare la fiducia nella comprensione della Madonna. Gruppo
scultoreo che viene portato in processione durante la ricorrenza. L’attuale
Madonna dei Miracoli risale alla seconda metà del XIX secolo.
Di
Vincenzo Biangiardi è anche il fercolo della Madonna del Rosario che si trova
nella sacrestia.
Tra i dipinti la Madonna del Rosario e un San
Giuseppe risalente al’ 500.
Accanto
alla Chiesa l’ex convento dei Domenicani con un bel chiostro che è adibito a
iniziative culturali.
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEha-dHWPx4Wezyqbs-m5b7heS1AcWTjMWMdMX1H3NTgdPvslFW9Fqug2gWXZ0MpyJwHbSuqTO73kumG71beLWFAytQbLHvYaenRMF5elZbvjEQTYHOfC0Pn9gDLco4tGRdiC77cu7yXKhw/s1600/Mussomeli+%2528CL%2529_SS.ma+Vergine+dei+Miracoli.jpg
LA STORIA DELL’IMMAGINE DELLA MADONNA SU PIETRA
Secondo
alcuni studiosi l’immagine su pietra della Madonna, conservata nella cripta del
santuario, sarebbe un alterazione dell’immagine originaria.
L’immagine
della Madonna dipinta sulla pietra del miracolo in principio era diversa di
quella visibile attualmente: la figura, secondo gli studi, era in piedi.
Domenico
Provenzani di Palma di Montechiaro ebbe l’incarico nel 1792 di restaurare
l’antica immagine. I lineamenti del disegno, probabilmente bizantini, erano
sbiaditi e l’artista ebbe una grande difficoltà nel ripristino delle figura
originaria. Per questo motivo si lasciò andare alla sua interpretazione
artistica. I restauratori di un tempo non avevano le tecniche attuali e spesso alteravano le
immagini da restaurare con gravi ed incalcolabili danni culturali.
“L’iconografia della Madonna – spiega il
rettore don Leonardo Mancuso- presenta la Vergine sempre in piedi. Da qualche
secolo in qua è adorna, a fare da sfondo, del manto aperto e
decorato posizionata appunto nello sfondo quasi a volerla impreziosire.
Nell’originale, nelle immagini più antiche, il Bambino è nudo e posto in avanti
sul seno della Vergine che lo copre con le sue mani. Quasi a ripetere con
San Francesco D’Assisi:” Tu hai dato vestimento umano al Verbo di Dio che si è
fatto carne”.
Gli studi confermati dal rettore
don Leonardo Mancuso, affermano quindi che in principio l’immagine era ben
diversa da quell’attuale. La figura della Madonna non si fermava alla cinta ma
proseguiva.
Sono molti gli elementi che confermano la tesi come l’effigie
che campeggia sul prospetto del santuario, proprio sopra al grande portone
centrale. Nell’ovale viene riprodotta la Madonna in piedi. Poi c’è anche la
scelta, negli anni successivi al miracolo, di realizzare la statua della
Madonna (quella portata in processione prima dell’avvento della scultura lignea
del Biangardi), maestosamente in piedi (e con il particolare delle scarpe
rosse).
Padre Leonardo, con la preziosa
collaborazione di Giuseppe Maria Spera e di Salvatore Catalano, forte della
tecnologia e degli strumenti più moderni, ha fatto realizzare un video che è
più di un’interpretazione filmica.
SI TRATTA DI UNA STRAORDINARIA RIPRODUZIONE STORICA.
La
simulazione, visibile in un video di pochi secondi, rende onore alla realtà e
mostra come era all’origine il dipinto del miracolo. Un
lavoro in laboratorio, realizzato dal bravissimo Salvatore
Catalano, che offre un’immagine la più reale e veritiera possibile sulla
Madonna in piedi. Sovrapponendo la Madonna del campanile a quella del masso
appaiono reintegrati anche le parti ancora visibili dell’icona in piedi
nonostante le picconature e le diverse traversie subite.
A riprova di quanto detto la Confraternita conserva un quadro
della Vergine sempre ad opera del Provenzano che la dipinge in piedi ed avvolta
nel manto stellato. Ancora, le mazze dei mazzieri della Confraternita, sempre
del Provenzano, riportano da una parte la Vergine dei Miracoli in piedi e non
seduta e dall’altra parte la Vergine del Rosario. "La Madonna dei Miracoli era
volgarmente detta nei tempi passati “La Madonna dei sette veli”. Questo perché
avvolta nell’immagine originaria da tre mantelli considerando le sfumature di
colore interne ed esterne più la veste, totale fa sette".
il video sul sito:
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MUSSOMELI
SANTUARIO DELLA
MADONNA DELLE VANELLE
http://www.castelloincantato.it/wp-content/uploads/2015/10/11IMG_1381.jpg
Il
Santuario venne aperto al culto il 7 settembre 1635 e nel 1700 si hanno le
prime notizie sull’esistenza della Confraternita di Maria SS. delle Vanelle.
Anche
in questo caso un’antica leggenda, anche se arricchita da aspetti storici, fa
da base alla fondazione del santuario.
A
Mussomeli il “Monte di Pietà” era contrastato nella sua attività economica dal
potere feudale. La sua attività fu limitata e non riuscì ad erogare quei
piccoli prestiti ai contadini in cambio di un pegno che erano ben accetti dalle
classi sociali di quel tempo. Una situazione decisamente differente rispetto ai
centri vicini di Nicosia e di Gangi.
La
nuova istituzione della “Compagnia dei Verdi”, appellata la “confraternita dei
nobili”, in sostituzione del Monte di Pietà, fu legata al miracolo ricevuto dal
fondatore dei “Verdi”, Conte Don Lorenzo Lanza.
Il
conte in una piovosa giornata d’inverno del 1608 tornando da Sommatino, nei
pressi di un luogo reso intransitabile dalla pioggia battente e dallo
straripamento di un vicino torrente, la sua lettiga trainata da muli
s’impantanò nella melma. La melma avvolgeva tutto e i muli non riuscivano a
proseguire. Vistosi il conte in pericolo, invocò l’aiuto Divino e promise di
istituire una “confraternita in onore del
Santo Nome di Gesù, qualora fosse uscito vivo da quel pericolo”. Dopo aver
esclamato queste parole il conte vide “i
muli con forza meravigliosa divellersi dal fango ed apparire una luce celeste
come due torce accese”. Luci che lo scortarono nel buio fino a Mussomeli.
Don
Lorenzo Lanza fondò la confraternita a favore dei “poveri orfanelli maschi” , come quella di Santa Cita di Palermo,
per il colore del mantello venne chiamato dei “verdi” e la cui bolla di
conferma fu subito inviata dal vescovo Bonincontro il 25 febbraio dello stesso
anno 1608.
La
tradizione popolare cita atri due episodi quasi analoghi legati alla fondazione
del Santuario della Madonna delle Vanelle.
Anno1630
il Principe di Cattolica Eraclea, Vicario generale del regno, stava per essere
travolto dalle acque in piena di un
torrente mentre veniva trasportato su una lettiga. Riuscì a stento a salvarsi e
promise l’edificazione del santuario per un voto di ringraziamento alla Madonna
per lo scampato pericolo.
Secondo
un’altra tradizione un bue piegò le ginocchia per la stanchezza e si rialzò una
volta sgombrata l’area dai rovi. Nei lavori di pulizia dell’area, per liberare
il povero animale, fu trovata l’immagine dipinta su di un sasso della Madonna e
di San Michele. Una tradizione orale
nata forse per contrastare quella famosa
della Madonna dei Miracoli ?
L’edificio
sacro fu costruito e consacrato nel 1653 e subì nel corso dei secoli vari
rifacimenti. Nel 1872 venne rifatta la facciata e nel 1950 venne costruito il
campanile.
Una
chiesa dalla pianta rettangolare, ad unica navata e coperta con volta a botte
lunettata. La struttura è in pietra da taglio con l’esterno dallo stile
semplice, lasciato a faccia vista, in cui risalta la sagomatura del portale
d’ingresso. L’interno è arricchito da stucchi e da una cornice che dà risalto e
slancio alla volta. e all’interno adona di stucchi.
Sull’altare
maggiore è posto un gruppo scultoreo in legno di pioppo che rappresenta la
Madonna con il Bambino e San Michele Arcangelo. Un gruppo scultoreo eseguito
nel 1661 da “Maestro Simone Lentini da Naro”. Sullo stesso altare l’antica
immagine su pietra della Madonna delle Grazie.
http://www.castelloincantato.it/2015/10/11/chiesa-madonna-delle-vanelle-chiusa-per-lesioni-e-calcinacci/
http://www.castelloincantato.it/wp-content/uploads/2015/10/22IMG_1393.jpg
La
tradizione cita anche il miracolo di una sordomuta.
Nella
prima domenica di agosto, ricorrenza della festa della Madonna delle Vigne si
svolge un pellegrinaggio alla cappella votiva di Mussomeli come segno di
devozione. Una cappella sorta sul luogo di un antico miracolo.
http://www.castelloincantato.it/wp-content/uploads/2015/10/24IMG_1395.jpg
Si
narra infatti che “un padre recatosi da
Cammarata a Mussomeli, presso il Santuario della Madonna delle Vanelle, con la
figlia sordomuta,
pregando invocò la guarigione della bambina, ma nonostante le sue preghiere,
non ottenne alcun effetto. L’uomo sconsolato riprese la strada di ritorno, la
mula che li accompagnava improvvisamente stramazzò a terra, così l’uomo si
caricò la figlia sulle spalle per proseguire il viaggio, all’improvviso avvenne
il miracolo, la bimba chiamò il padre con voce squillante e cominciò a parlare”.
Tra
le opere d’arte alcuni dipinti di un pittore di Mussomeli Salvatore Frangiamore
(1853-1915), Santa Rosa da Lima del 1904, e di Domenico Provenzano.
Nella
chiesa era presente un antico affresco, legato ad un miracolo avvenuto durante
la costruzione della chiesa (il miracolo della sordomuta ?), che andò distrutto
o perduto. Fu sostituito da un altro affresco che si trova in condizioni
precarie cioè l’immagine su pietra della Madonna delle Grazie già citata e
posta sull’altare.
Nella
chiesa di S. Enrico sono conservati i disegni originari di questi affreschi che
per gli elementi stilistici si potrebbero datare al 1700 cioè circa un secolo
dopo la costruzione della chiesa.
http://www.castelloincantato.it/wp-content/uploads/2017/09/IL-CONTE-SALVATO-DALLE-ACQUE.jpg
L’antico
edificio sorge alla periferia del paese
e doveva essere un punto d’incontro della comunità per la presenza di un
ampio piazzale con un antico abbeveratoio che ultimamente è stato ristrutturato
dal Comune. Presenta delle lesioni e ultimamente, a quanto mi risulta, si sono
verificate delle cadute di calcinacci. Speriamo che la struttura venga al più
presto salvaguardata per la sua importanza storica e religiosa.
4 - Il Pellegrino custode del Creato
Il
pellegrino doveva avere (e deve avere) delle motivazioni soggettivo-psicologiche
molto forti tanto da spingerlo a compiere un pellegrinaggio che spesso
contrastava con i suoi interessi materiali, con le sue esigenze e anche con il
suo credo religioso. Il pellegrinaggio affonda dunque le sue radici nella
natura stessa dell’uomo perché è una risposta alla sua sete o bisogno di
assoluto, al suo bisogno di sacro e anche al suo desiderio di felicità.
Un viaggio come ricerca di un cambiamento interiore
attraverso l’identificazione di un luogo dove riposare per ritrovare se stessi.
Con il suo cammino il pellegrino impara
a non cedere, a non spazientirsi, a soffrire, a superare gli ostacoli a cui
andrà incontro.. Il suo cammino diventa in questo modo un esperienza in cui
s’impara a tenere fisso l’obiettivo e il compiersi dell’impresa gli permetterà
di raggiungere l’ascesa spirituale, il raggiungimento del suo cambiamento
interiore attraverso la scoperta di nuovi valori di vita che fino a quel momento
non sembravano fondamentali, essenziali.
Prega davanti alle
reliquie di un santo per avere delle grazie, per trovare anche la forza per
cancellare i propri peccati e riprendere la via giusta del bene. Il
pellegrinaggio infatti potrebbe rappresentare la ricerca della sorgente della
propria fede. Ma il pellegrino come abbiamo visto ha avuto ed ha anche oggi, un
aspetto importante dal punto di vista culturale perché collega comunità
differenti e riporta immagini, modi di divere incontrati nel suo viaggio.
Il pellegrino ha
anche un aspetto, non sempre attenzionato o messo in risalto, che potremo
definire ambientale. Il suo procedere immerso nella natura, nell’ambiente
circostante, gli permette di instaurare un forte contatto con il Creato, con
Dio attraverso le stupende immagini che
la stessa natura ci offre facendoci riflettere sul perché della nostra
esistenza. Diventa in poche parole custode del Creato.
Quando
si parla di paesaggio, di ambiente, in realtà non si fa riferimento ad un mondo
esterno materiale, che sta al di fuori di noi, e quindi non ci appartiene. Il
paesaggio, per essere tale, nel verso senso della parola, necessita della
presenza umana cioè di un soggetto che ne faccia oggetto della sua
contemplazione.. “Il paesaggio presuppone un soggetto che lo percepisca”. È il
frutto di una forte interazione tra soggetto, l’essere umano, e l’oggetto, il
paesaggio, tra pensiero e materia. Ciò che vediamo ed ammiriamo non è altro che
l’interazione o il risultato di un lavoro soggettivo, di un modo di concepire
il mondo che ciascuno porta dentro di sé secondo la propria cultura,
sensibilità e formazione personale.
In
questo modo i luoghi acquistano un loro significato perché teatri di vicende
umane e l’uomo assume nei confronti del paesaggio il duplice ruolo di attore e
spettatore. Un ruolo duplice… spettatore in quanto ammira la bellezza di ciò lo
circonda e attore perché modella lo stesso paesaggio secondo il proprio
pensiero .. lo fa riflettere ponendosi degli interrogativi.
In
questo modo l’ambiente s’arricchisce di sensazioni, di echi, di voci, di
trasfigurazioni, di interpretazioni cioè sovrappone alla percezione
dell’ambiente nei suoi aspetti dei significati simbolici.
L’ambiente
viene così associato al concetto di cosmo e ha un suo valore in quanto “Creato”
e le sue manifestazioni di bellezza, di forza e di armonia sono intese come
espressioni della potenza di Dio, Creatore del mondo.
Anche
oggi sono molti i pellegrini che intraprendono il cammino verso Santiago e che
riportano nei loro importanti diari le ricche testimonianze di viaggio e di
fede. Nelle pagine dei diari di viaggio non appare solo la forza
spirituale della ricca esperienza di pellegrinaggio ma anche la raccolta delle
bellezze dei paesaggi incontrati e il soffermarsi alla loro contemplazione.
Uno
scenario naturale come il tramonto osservato dai Montes de Leon sulla pianura
di Astorga… ”è frequente assistere a
tramonti spettacolari quando nel cielo si allungano raggi di un colore rosso
cupo o porpora contro uno sfondo di azzurri e verdi tenerissimi, subito spenti
dal sopraggiungere della fitta oscurità delle notti”; oppure osservare le
espressioni architettoniche della cattedrale gotica di Leon che.. “possiede un’impareggiabile grazia nel modo
in cui la pietra incornicia appena l’ampio svolgimento delle vetrate dai colori
accesi, attraverso cui filtrano i raggi del sole mattutino”.
Yeres – Leon
Finisterre –
tramonto
Leon - Cattedrale
La
contemplazione del paesaggio e delle sue meraviglie può risolversi in un puro
godimento estetico di una bellezza naturale o architettonica ma può diventare
anche per i fedeli la contemplazione di un Creato ancora in grado di stupire e
di emozionare che rimanda, come per magia, attraverso la propria bellezza, alla
perfezione del suo Creatore. La contemplazione diviene, in quest’ultimo caso,
quasi un’estasi che offre al pellegrino spunti di preghiera, di gloria e di
lode a Dio.
Immagini
come quelle della Prestige e dei danni arrecati all’ambiente, avvenimenti non
rari nella storia dell’umanità, dimostrano come l’uomo si senta padrone del Creato
mentre è solo “un ospite”.
La
natura è un bene comune e l’esempio di San Francesco che aveva cura per ciò che
è debole, deve essere visto come base di una ecologia vissuta con gioia e autenticità.. in cui sono inseparabili la
preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella
società e la pace interiore.
Tutti
possono collaborare, come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno
con la propria cultura ed esperienza, secondo le proprie iniziative e capacità.
L’esistenza
umana si basa su tre relazioni fondamentali che sono intimamente collegate tra
di loro: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quello con la terra. La
relazione con Dio e con il prossimo comprende necessariamente la relazione
dell’individuo con la madre Terra.
L’uomo
s’avvicina alla terra con violenza a tal punto da essere devastata e l’intero
creato è sull’orlo della catastrofe. L’uomo come custode del creato.. deve
arare e custodire e non dominare e devastare.
Ogni
piccolo angolo della Terra in quest’ottica diventa un piccolo percorso
Francigeno che l’uomo percorre entrando in contatto con il suo Dio. I volontari
che ogni anno combattono ed intervengono per ripulire i misfatti compiuti ai
danni dell’ambiente entrano in contatto con Dio, anche inconsapevolmente, perché
sono custodi del Creato.. L’esempio più forte fu proprio per gli avvenimenti
legati al naufragio della Prestige… come già detto molti di quei volontari
hanno pagato le conseguenze del loro intervento, (non esiste una statistica in
merito ma il contatto con le sostanze petrolifere in molti ha avuto delle
conseguenza mortali), ma nessuna
giustizia terrena si è ricordata di
loro.. fu creato un monumento che ricorda il loro intervento…. ma quella giustizia tanto acclamata.. dove la
legge è uguale per tutti…non è mai arrivata…. perchè la vera giustizia è
altrove e non nelle camere oscure rese fredde dai sottili e inquietanti giochi
di potere….
https://www.eldiario.es/politica/documentalista-Marcos-Caruncho-medioambiental-Prestige_0_196681183.html
……Marcos…
era uno dei tanti volontari, accorsi da gran parte dell’Europa, per ripulire l’ambiente dal petrolio fuoriuscito dalla
Prestige… era anche lui un difensore del Creato e forse nel suo agire era,
senza saperlo, vicino a Dio più del suo credo…. Era anche lui uno dei tanti
pellegrini che ha percorso le Vie del Creato..capace di esaltare e di
immortalare con le sue foto ciò che Dio ci ha donato…
Carlos Marcos
Caruncho Núñez (Ferrol 8/12/1967 – A Estrada 10/07/2015). Fotógrafo e
realizador de documentais de divulgación científica.
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