MONTE PELLEGRINO (RNO) – “ Il Promontorio più bello al mondo”…..

Seconda Parte: La Storia – Il Versante Occidentale – l’Iscrizione della Valle del Porco –

           Le Grotte e i Graffiti del Paleolitico  - Villaggio Eneolitico  Giusino – Necropoli Valdesi







Il Monte Pellegrino, “Munti Piddirinu” in lingua Siciliana, è un promontorio di natura calcarea, alto circa 609 m s.l.m., che chiude a Nord il Golfo di Palermo e  Sud quello di Mondello.








Indice

  1. Etimologia;
  2. Configurazione;
  3.  Riserva Naturale Orientata (Comprende anche il Parco della Favorita);
  4.  Storia (cenni);
  5. Versante Occidentale del Monte Pellegrino;
  6.   L’Iscrizione nella “Valle del Porco”  - Cenni sul Villaggio Giusino e la Necropoli Valdesi
  7.    Le Grotte: Grotta dell’Acqua; Grotta della Speziaria; Grotticina; Grotta dei Capezzoli; Grotta della Monaca; Grotticina; Grotta del Roveto; Grotta di Giacchery; Grotta del Ferrero e il Teschio (la sua scoperta e i reperti perduti perché gettati dalla famiglia di un noto professionista; L’analisi del Teschio); Grotticina; Grotta del Ponte o del Porcospino; Antro Niscemi; Grotta Niscemi con i suoi graffiti del Paleolitico;  Grotta della Diaclasi; Grotta della Civetta; Grotta del Laghetto; Fessura (Valdesi); Grotta della Finestrella; Grotta della Colonnina; Grotta del Vallone “La Montagnola” (N.B. le coordinate delle grotte sono state tratte da antichi testi e potrebbe non corrispondere a quelle di Google Maps);
  8. Villaggio Giusino;
  9.   Necropoli Valdesi e gli ultimi rinvenimenti del 2017.

         
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1. Etimologia 

Era chiamato dai Greci “Heirkte” ( “solitario “ ?) e dagli Arabi “Bel Grin” o “Gebel Grin” (“monte vicino”). I Romani chiamarono il Monte “Mons Pegregrinus” che nella letteratura classica significa “monte nemico”. Il monte era presidiato dalle truppe di Amilcare Barca ed i Romani per tre lunghissimi anni non riuscirono ad espugnarlo. “Pregrinus” era chiamato non solo lo straniero o chi soggiornava in un paese straniero ma anche il nemico.
C’è anche una leggenda a spiegare il termine “Pellegrino”.
“… in un tempo lontano viveva sul promontorio un drago con due teste,la lingua lunga due metri, sei zampe ed  una coda così forte da riuscire a sradicare un albero con un piccolo movimento.. Il mostro viveva in una grotta del monte Heirkte. Naturalmente il terribile drago era il terrore della gente che era costretta non solo a vivere nella perenne paura ed angoscia ma anche condurre una vita ritirata. Anche gli animali selvatici che era riusciti a sfuggire al drago si erano allontanati dal territorio verso luoghi più sicuri. Con un selvaggina ormai scomparsa sul monte  il drago andava a caccia di esseri umani. I saggi della città stanchi e impauriti decisero di mandare sul monte  un gruppo di valorosi ed eroici cavalieri  armati di frecce e lance. L’obiettivo era quello di uccidere l’animale. Ma tutto fu inutile. Gran parte di quei valorosi cavalieri furono uccisi e divorati dal drago. Un giorno giunse nel porto  della città una nave e tra i suoi passeggero un gigante, “una specie di Polifemo” che portava con sé un tronco d’albero come se fosse un bastone. Con quel legno il gigante aveva ucciso mostri ben più pericolosi di quello che viveva sul monte Heirkte.
Naturalmente il gigante chiese un compenso per agire con il mostro che gli fu accordato. Si avviò verso il monte  e appena lo vide fu costretto a fuggire… dovette ammettere ai palermitano la sua sconfitta.
Il drago diventò più cattivo ed esigente e i palermitani per paura di essere uccisi e divorati li mandavano una grande quantità di cibo e quando alla fine non ebbero più nulla da dargli, furono costretti a prendere una gravissima decisione: “gli portarono in dono un bambino della città scelto a sorte tra i tanti”.
Per fortuna il sacrificio non fu compiuto. Un uomo, che si trovava di passaggio, venne a conoscenza di quel gesto scellerato e riuscì a bloccare la popolazione che si apprestava a portare il bambino al suo triste destino.
Quell’uomo si chiamava Pellegrino, riuscì ad evitare il sacrificio del bambino e promise ai palermitani che avrebbe affrontato ed ucciso il drago che ormai da tanto tempo teneva nella paura la città. I palermitani restarono increduli ma Pellegrino rispettò la promessa. Una volta al cospetto del drago fece un gesto con il bastone, che si portava sempre con sé. Fu un attimo…. Un’immensa voragine s’apri ai piedi del drago che scomparve nelle viscere della terra.
Grande fu la felicità dei palermitani e il Pellegrino andò a vivere nella grotta dove aveva vissuto per tanto tempo il drago. I palermitani con grande riconoscenza andavano spesso a visitarlo e a portargli del cibo. Da quel santo il promontorio prese il nome di “Pellegrino”… Una leggenda forse anche legata ai monaci basiliani che sicuramente abitarono e vissero nella preghiera in alcune grotte del monte, dove nel passato si veneravano dei pagani, come testimonierebbero certi ritrovamenti archeologici.

1.     2. Configurazione

Il Monte si protende sul mar Tirreno con ripidi fianchi  segnati da fratture millenarie che presentano numerose cavità.
I viaggiatori del Settecento e dell’Ottocento lo visitarono e Goethe lo definì “il promontorio più bello al mondo”.
In realtà Monte Pellegrino nasconde aspetti storici e naturalistici forse sconosciuti agli stessi siciliani. Per il suo particolare aspetto sembra quasi invalicabile e ha in sé un qualcosa di magico di mistico proprio per quel contrasto tra maestosità, natura selvaggia data dalle aree brulle e assolate, e la dolcezza dei suoi siti così ricchi di antiche memorie e presenze umane. Tutti aspetti che nella cultura del Settecento e nell’età Romantica avevano una loro valenza perché apprezzati dai lettori.



Sommer Giorgio (1834-1914)

Il versante Sud, che si affaccia su Palermo, presenta disposti quasi simmetricamente le cime di Pizzo “Volo dell’Aquila” e “Primo Pizzo”. Cime che sono separate da una grande depressione detta “Scala Vecchia” dove fu creata l’antica strada medievale costituita in parte da arcate in pietra. Strada che conduce alla sommità del Monte fino al Santuario di Santa Rosalia.

Monte Pellegrino visto da Sud (da Palermo) prima della costruzione della Via Bonanno e dell’impianto di rimboschimento

Il versante Orientale, prospiciente il mare, è caratterizzato dalle pareti rocciose più alte (360 m il dislivello più alto in corrispondenza di “Pizzo Monaco) e delimitate da profonde incisioni ripide, coincidenti con le faglie, in cui il detrito fa formato dei coni che risalgono fino ad un terzo  e spesso anche alla metà del dislivello totale. In questo settore le pareti rocciose si affacciano sulle borgate marinare dell’Arenella e della Vergine Maria mentre più a Nord si trova la “Scaletta della Perciata”, a nord delle Grotte dell’Addaura, che si dall’antichità consentiva l’accesso, anche s non molto agevole, alla parte sommitale del monte.


Il versante Settentrionale si affaccia sul Golfo di Mondello ed è caratterizzato dalla affilata cresta di Valdesi mentre ad est si nota il Sentiero della “Vuletta Grande” e la rampa sotto il “Pizzo Rufuliata” dove si snodano i tornanti della Via Ercta.

Monte Pellegrino visto da Nord e parte del versante orientale dalla Cresta di Valdesi
fino alla Cresta della Perciata. Si notano i tornanti della Via Ercta e i conoidi di detrito.

Il versante occidentale, che sporge sul Parco della Favorita, presenta delle pareti verticali, strapiombanti che coprono un dislivello minore rispetto al quelle poste sul versante orientale. Presentano un aspetto meno frastagliato e questo ha permesso il formarsi di un accumulo di detrito di falda secondo una fascia regolare. A Nord dello Sperone dello Schiavo è presenta una profonda incisione che ha formato la “Valle del Porco”. Un’antica via d’accesso alla sommità del monte e che si spinge fino al  Pizzo della Rufuliata

Monte Pellegrino Visto da Ovest cioè dal Parco della Favorita

Monte Pellegrino presenta quindi un orografia particolarmente variegata, ricca di pianori praticabili che sono caratterizzati da evidenti fenomeni di carsismo per cui le acque non scorrono in superficie ma s’infiltrano tra le rocce per poi riapparire come ricche sorgenti.
Ha una pianta alquanto allungata e i due lati maggiori guardano uno il Mare Tirreno e l’altro la piana retrostante (Conca d’Oro). Il lato più corto è quello che guarda il Golfo di Palermo.

Il  versante occidentale confina con la campagna, ormai urbanizzata, della Piana dei Colli e con la parte terminale della Conca d’oro anch’essa ormai quasi completamente urbanizzata.
Il versante settentrionale, che si affaccia su Mondello, forma uno scenografico anfiteatro naturale a ridosso del quartiere Addaura mentre il versante meridionale si affaccia sul Golfo di Palermo come a chiuderlo. Questo squarcio è quello maggiormente ripreso dai ritrattisti dell’Ottocento.
La sommità del Monte è costituita da una piattaforma rocciosa pianeggiante sulle quale si ergono picchi ed alture di cui la maggiore è la vetta del Monte con i suoi 609 m s.l.m. e che anticamente serviva come luogo di vedetta. Un importante sito strategico militare.

La configurazione del Monte Pellegrino:
i due lati più lunghi uno rivolto sul mare e l’altro sulla pianura retrostante
il lato più corto è quello che si affaccia  sul Golfo di Palermo.

1.      MONTE PELLEGRINO – RISERVA NATURALE ORIENTATA (RNO)
Codice: PA13
Codice EUAP (Elenco Ufficiale Aree Protette): 0839
Codice WDPA (World database On Protected Areas): 63172
Classificazione Internazionale: Categoria IUCN  IV
(Area di Conservazione Habitat/Specie – Commissione Mondiale Aree Protette)
Tiplogia: R.N.O.
Zona A (in Ettari) : 783,125 ha
Zona B (In Ettari) : 233,75 ha
Totale (in Ettari) : 1016,875 ha
Ente Gestore : Rangers
Comune : Palermo
Caratterizzazione della Riserva :  AB + CA (Aree Boscate + Cavità)
L’area è inserita nell’elenco dei Siti d’Interesse Comunitario: ITA020014
ZCS (Zona Speciale di Conservazione): ITA020014 ( 861 ha) con DDG di Approvazione Piano di Gestione n. 563/2010 con  D.M 21/dicembre 2015 (GU, Serie generale, n. 8 del 12 gennaio 2016)
“Designazione di 118 Zone Speciali di Conservazione (ZSC) della regione biogeografica mediterranea insistenti nel territorio della Regione Siciliana. (16A00078)”

Nel 1991 l’area fu inserita nel Piano regionale dei Parchi e delle Riserve Naturali  che fu approvato con Decreto Assessoriale n. 970 del 10 giugno 1991.
La Riserva fu istituita con Decreto dell’Assessorato Regionale al Territorio n. 610/44 del 6 ottobre 1995, pubblicato in G.U.R.S. n. 4 del 20 gennaio 1996, ed affidata in gestione all’Associazione Rangers Italia.
La stessa Riserva è tipologicamente  “Riserva Naturale Orientata”, identificata ai sensi dell’art. 6 della Legge Regionale 14/88, istituita per la conservazione dell’ambiente naturale e per l’interesse botanico dei suoi numerosi neo-endemismi.
La sua biodiversità si manifesta in circa 7774 specie vegetali oltre alle sue 134 cavità di interesse speleologico, paleontologico e paletnologico, ed alla fauna ornitologica ed entomologica.
Con Decreto del 4 agosto 2003, pubblicato nella GURS n. 40 del 12 settembre 2003 fu approvato  il “Piano di sistemazione e la nuova perimetrazione della Riserva Naturale Orientata Monte Pellegrino, ricadente nel territorio comunale di Palermo”.
La Riserva comprende l’intero massiccio del Monte Pellegrino (zona A), Bosco di Niscemi (Zona A con D.A. n. 798/44 del 13 novembre 2011) e la Real Tenuta della Favorita (Zona B o di pre-Riserva) ad esclusione delle zone sportive.

In base al D. A. n. 87 dell’11 giugno 2012 che stabiliva “le modalità d’Istituzione dei GEOSITI e istituisce il Catalogo Regionale dei Geositi della Sicilia” e al Decreto A del 29 agosto 2017 in merito a “Istituzione dei Geositi ricadenti in Aree di Riserva Naturali per motivi Geologici”, con DA del 5 ottobre 2017 n. 349, pubblicato nella G.U.R.S., Parte I n. 43, del 13 ottobre  2017, inserì due importanti Geositi che si trovano nella Riserva Naturale Orientata di Monte Pellegrino:
Geosito n. 70 – Complesso della Grotta di Monte Pellegrino – Abisso della Pietra Selvaggia –
Categoria : Areale; Elementi Costitutivi: Elementi Simili; Interesse Scientifico: Speleologico;
Grado di Interesse: Regionale; Comune: Palermo; Provincia: Palermo; Riserva Naturale: Monte Pellegrino
Geosito n.71 -  Complesso delle Grotte dell’Addaura – Addaura Grande o Grotta Perciata
Categoria: Areale; Elementi Costitutivi: Elementi Simili; Interesse Scientifico: Geoarcheosito;
Grado d’Interesse: Mondiale; Comune Palermo; Provincia – Palermo; Riserva Naturale: Monte Pellegrino.



Mappa dei Geositi ed Aree Geologiche  Importanti

4. STORIA


Il Monte fu menzionato da Polibio con il termine di “Ercte” o “ Eircte” perché durante la prima guerra punica, 247 a.C., Amilcare Barca vi pose l’accampamento tenendo testa ai Romani, che occupavano Palermo (Panormus), per tre anni.
Sembra che lo stesso Polibio e Diodoro Siculo  lo chiamarono “Munitione” cioè “luogo forte” (come un castello).
 Polibio (150 a.C.) … lo indica pure con il termine di “carcere” o “Epiercta”….” “…è un monte da tutti i lati scosceso, che dalla pianura che gli sta attorno sorge ad una ragguardevole altezza. Precipizi inaccessibili li cingono dalla parte della marina… Possiede un porto opportuno a quelli che fanno vela da Trapani, da Lilibeo verso l’Italia, e il quale è abbondantissimo di acqua. Tre sono le vie che menano a questo monte, ma tutte difficili; due da terra e una dal mare”
Plinio lo citò con il termine di “Rocca Naturale” per il suo aspetto strategico militare posto a difesa della città di Panormus.
Infatti Amicalcare Barca, padre di Annibale, lo utilizzò come base d’accampamento per assediare la città nel 246 a.C. sfidando la grande potenza e valore dei Romani che non riuscirono ad espugnarlo. Per ben tre anni i tentativi dei Romani furono inutili fino a quando Pirro, re d’Epiro,  riuscì con il suo esercito a penetrare sul Monte, sfruttando gli “ingressi” della Favorita e di Mondello, riuscendo a scacciare i Cartaginesi.
I Normanni lo chiamarono ”Pellero” e in un diploma del 1184, riportato dal Mongitore, venne indicato, forse per la prima volta, con il nome di “Mons Peregrino”.
In realtà il Monte ha una sua storia ancora più antica perché le sue grotte furono abitate in epoca preistorica.
Una vasta necropoli si estende alle falde del monte dove furono rinvenute ossa di cadaveri giganteschi a sostegno della leggenda sulla presenza nell’isola di giganti, esseri antidiluviani.

Furono rinvenuti anche alcuni reperti e sotto le fondamenta di un’antica torre, alcune medaglie puniche fra cui una forse relativa a Palermo.  Da un lato è raffigurata la testa di un giovane coronata d’alloro e nel rovescio una torre rotonda denotante un Cronio, cioè uno dei tanti castelli che Saturno (secondo alcuni Cam, figlio di Noè), edificò in alcuni luoghi della Sicilia Occidentale. Nella medagli la scritta “IIAN”. (Moneta e torre che vennero citati da Agostino Inveges nei suoi “Annali della Città di Palermo”)
Nel Settecento le pendici di Monte Pellegrino erano diventate confine di bellissime ville suburbane della nobiltà palermitana e siciliana. Furono istituite delle tenute di caccia mentre ad oriente, le pendici prospicienti il mare, furono colonizzate da borgate, tonnare e ville.
La parte sommitale del monte continuava ad avere il suo aspetto brullo, selvaggio rispetto alla bellissima passeggiata sul lungomare a valle.
Alla fine dell’Ottocento la borghesia urbana, copiando lo sviluppo delle grandi città del continente, cercò di dare al promontorio una diversa immagine avviando un ricco programma di rimboschimento tralasciando gli aspetti tipici della flora del sito che rispondeva alla macchia mediterranea.
Si cominciò a cercare di sfruttare il monte per fini utili secondo i progetti dell’architetto comunale Damiani Almeyda e quelli privati con la creazione di  una stazione climatica d’elite per villeggianti stabili e ospiti stranieri alla ricerca della vicinanza del mare, del clima collinare, del belvedere e della vicinanza della città.


5.      Versante  Occidentale
È il versante più lungo, circa 6 km, da “ Primo Pizzo” fino alla “Punta Celesi” o di “ Valdesi sul Mare”. Presenta delle grotte di modesto sviluppo perché in massima parte d’origine marina. L’unica eccezione è la Grotta del Ferraro il cui sviluppo comunque è sempre modesto.
La maggiore presenza di grotte si ha nel tratto tra il “Primo Pizzo” e “Pizzo Vuletta” che nell’ultimo conflitto fu zona della Marina Militare e quindi ancora oggi di difficile accesso
Zona che fu completamente devastata.. senza alcun rispetto per le sue testimonianze….
L’importanza del Monte Pellegrino non è solo legata alla sua sommità ma anche alla fascia pedemontana. Sotto l’aspetto archeologico questa zona occidentale presentava un tempo degli aspetti sicuramente interessanti. La necropoli preistorica della media età del Bronzo nella Grotta del Ferraro, lascia intuire l’esistenza nelle immediate vicinanze di un villaggio preistorico. La stessa presenza d’acqua in alcune grotte (del Ferraro e dell’Acqua)  lascia intuire una certa frequentazione.

Le grotte furono svuotate dai loro preziosi reperti sicuramente in primis dai pastori a cui si aggiunsero gli scriteriati lavori della Marina Militare che, non avendo altro sito migliore dove “costruire” le sue barricate, trasformò e sconvolse il sito rendendo penso ormai impossibile ogni scoperta. Probabilmente molti reperti saranno venuti fuori durante i lavori e chissà se non fanno bella mostra di sé in qualche casa di addetto ai lavori……….





“Nell’alto della forra disseminata in questa zona davvero alpestre vi sono le stesse capanne neolitiche che, a circa cinque chilometri, ritroviamo a Valdesi, mentre in basso verso il cancello dei Leoni, abbiamo prove sicure d’abitazioni preistoriche…”
La zona che è accennata è quella del Vallone della Monaca nella sua parte e alta e bassa nella piana, vicino purtroppo al deposito militare della Marina. C’era anche una statua di Diana… andata perduta o chissà……..(statua di cui citerò in seguito).

Superato il piede di “Rocca dello Schiavo”, a destra si presenta la Valle dell’Ilice, si prosegue a nord dove s’incontra prima l’antro Niscemi e poi la Grotta Niscemi. Lungo il tragitto  il prof. Mannino notò rare schegge di selce, che per essere una roccia estranea al monte, fa quindi pensare ad un possibile insediamento magari con l’aspetto di capanne o piccolo villaggio.



Un sito importante sarebbe quello del “Torrione” allo sbocco della Valle del Porco. V. Giustolisi affermò che “ sporadici frammenti fittili ed asce neolitiche, che si rinvengono nella prossimità della grotta Niscemi, fanno inoltre ritenere che nella zona siano sorti dei piccoli nuclei abitati, la cui vita si è protratta per tempi abbastanza lunghi. Ora, uno di tali nuclei potrebbe essere esteso all’ingresso della Valle del Porco dato che frammenti di fattura indigena si rinvengono sulla superficie del terreno, estratti forse dalla recente opera di rimboschimento. Nella stessa zona sono molto abbondanti invece i frammenti fittili di età ellenistica, appartenenti per lo più a prodotti del IV – III a.C.), i quali, assieme alla presenza di alcuni muri affioranti dal terreno e di una cisterna certamente antica, mi fanno concludere per l’esistenza di un insediamento. Questo estendendosi ai due lati del vallone scavato dal deflusso delle acqua piovane, su un terreno leggermente in pendio, non presenta, in verità, caratteristiche naturali che possono avergli conferito un ruolo militarmente importante. La sua vita è evidente, deve essersi fondata sullo sfruttamento dell’antistante pianura, oltre che dal pianoro superiore del monte”.
Di fatto ho constatato l’apparente assenza di ceramica punica ed un forte affievolirsi o addirittura un arresto della vita verso la fine del III secolo a.C.
Non è improbabile pertanto che il luogo sia stato messo a soqquadro dai Romani durante uno dei loro attacchi o quando Amilcare Barca lasciò il Monte Ercte (Pellegrino). Bisogna aggiungere, inoltre, che nel caso di un assedio, il sito poteva bene prestarsi da base da cui muovere contro lo sbarramento che, vediamo, era stato creato dai cartaginesi allo sbocco in alto della Valle.
Un presidio militare delle forze di Amilcare, ai piedi dell’accesso della Valle del Porco, rientra nella logica di una efficiente difesa dell’Ercte, tuttavia per la particolare topografia del sito già di per sé munitissimo si può anche pensare che non si ravvisò la necessità di difendere anche le pendici”.
La valle del Porco è in effetti un erta salita tra due ristrette ali pareti scoscese ed anche difficilmente accessibili.
Salendo lungo la Valle del Porco, quasi dopo un centinaio di metri più in alto di un grosso muro di sbarramento creato per frenare i materiali di dilavamento. In corrispondenza di un tratto della parete destra che è leggermente aggettante a spigolo, è presente una placca rocciosa ben in vista per chi sale sulla quale è incisa, in maniera grossolana, un’iscrizione.

6. L’ISCRIZIONE  NELLA VALLE DEL PORCO
    Cenni sul Villaggio di Giusino e sulla Necropoli di Valdesi

La freccia gialla indica la posizione dell’iscrizione


Valle Del Porco vista dal Parco della Favorita


Valle del Porco vista dall’Altopiano




L’iscrizione fu segnalata per la prima volta dall’ing. C. De Stefani che l’attribuì al periodo “neopunico”.
Fu quindi citata da O. Acanfora che la inserì nel “quadro delle mescolanze greco-semitiche della Sicilia Cartaginese” e  da G. Cavallaro che classificò l’iscrizione al “minoico-lineare”.
Per ultimo N. Bonacassa scrisse che “l’iscrizione è indiscutibilmente cristiana”… datazione “primi decenni del VII secolo”…. con la seguente lettura…Sii glorificato dovunque sempre, o Dio”.

Iscrizione scalpellata nella roccia della Valle del Porco

Lo stesso Bonacassa scoprì un masso vicino con incisa “una croce immissa, su un triangolo, fra le terre I e S”.
Masso che si trova di fronte all’iscrizione, “ sotto il costone sinistro della valle, a 25 metri circa il linea retta dalla parete iscritta, la faccia che interessa è quella rivolta a meridione”.

Croce “immissa” su triangolo, fra le lettere
“I” e “S” – “Iesus Salvator”
Scalpellata su un masso della Valle del Porco

Lo studioso ricordò anche un’altra croce posta su un masso “più in alto del primo ed a destra del sentiero, ora vandalicamente scalpellata e distrutta. Ed è anzi probabile che la via conducesse a qualche sacello racchiudente un icona venerata” …. che probabilmente andrebbe ricercata

La Valle del Porco anche se sembra accessibile, in realtà non permetteva di attaccare l’esercito cartaginese posto sul monte così come per le altre vie d’accesso.
La via da seguire per i Romani era solo quella di togliere ad Amilcare la possibilità di ricevere i rifornimenti via mare. Ma per attuare questa strategia era necessario conquistare i presidi dell’Arenella e dell’Acquasanta.
Polibio affermò che “Amilcare avventurandosi nel bel mezzo del nemico riservò non di meno ai romani scontri e pericoli di non poco conto, né usuali”…. I Romani in definitiva sembravano più  preoccupati di difendere Palermo (Panormus” piuttosto che avventurarsi in un impresa dagli esiti assai incerti come la conquista del Monte Ercte (Monte Pellegrino).

Proseguendo si raggiunge la località “La Pertica”. In questo punto la falesia, sempre alta ed inaccessibile, s’abbassa lasciando aperto un varco di circa venti metri abbastanza facile da percorrere. Un varco che permette l’accesso al monte da due vie che sono opposte: quella di sinistra è segnata nella cartina dell’IGM, l’altra detta “Scaletta della Pertica” è segnata sulla carta TCI.
Questi accessi spiegano la presenza di numerosa ceramica punica e persino di frammenti di macine di pietra lavica che potrebbero testimoniare l’esistenza anche di un centro abitativo forse anche a difesa del passo.
Il Mannino rilevò come il terreno a valle del passaggio  presentava un aspetto altimetrico innaturale con un terrapieno dove per il deflusso delle acque, il suo doveva essere profondamente inciso.  Lo stesso prof. pensò ad un antica opera di sbarramento per impedire l’ingresso dei nemici e questo anche per il rilevamento di numerosa ceramica punica. Ceramica punica che era presente su un vasto territorio di alcune migliaia di metri quadrati. Andando verso Nord infatti la ceramica punica sparisce per dare il posto a frammenti ad impasto d’origine preistorica.
Il materiale preistorico venne alla luce  all’incirca nel 1975 quando l’area, a monte del primo tratto di V.le Regina Margherita, fu terrazzata per destinarla a coltivazione di fiori (sembra gladioli…).
Fu il sig. Rolando Laganà che segnalò alla Soprintendenza Archeologica un probabile fondo di capanna sulla quale aveva raccolti dei frammenti poi donati al Museo Archeologico.
Un sopralluogo rilevò l’esistenza  del villaggio che non sembri superare il V.le R. Margherita. Pochi frammenti furono raccolti e permisero di avere un’idea dell’abitato che fu collocato “verso la fine della prima metà dell’Eneolotico”.


Orcio biansato dell’Eneolitico (Villaggio Giusino)

Questo villaggio fu chiamato del “Giusino”, dal nome della località, e si prosegue sino a giungere al Canalone della Pietraia, una delle vie d’accesso al Monte. Alla base del canalone anche qui, come nella Pertica, il terreno presenta un aspetto altimetrico anomalo. È presente un terrapieno con non sembra avere lo funzione di sbarramento ma di contenimento. Non si tratta di un opera antica ma la presenza di ceramica punica lascia intuire l’esistenza di qualcosa sotto il recente manufatto.
Proseguendo si scorge la grotta della Civetta con il suo caratteristico ingresso alto oltre 10 m.
Sulla sinistra di chi guarda la grotta, c’è un colossale sbancamento di terra, datato 1897-1898, che fu compiuto per colmare con quei materiali le paludi di Mondello – Valdesi. Qui casualmente venne scoperta una necropoli e tracce di villaggio preistorico entrati nella letteratura come “Necropoli di Valdesi”. Antonio Salinas nella seduta del 7 febbraio 1898 alla Reale Accademia dei Lincei diede la notizia dell’importante rinvenimento.
Nel 1907 E. Salinas, pubblicò dei cenni ed informò che la Direzione del Museo Nazionale aveva acquistato “dagli operai addetti ai lavori una grande quantità di fittili e d’armi, materiale ricchissimo che, da me ordinato tre anni or sono, venne esposto al pubblico in due armadi nella sala di Panormus”.


E. Salinas non diede altre notizie sulla necropoli. Solo le fotografie scattate nel 1897 all’epoca dello sbancamento permisero di fare luce sulla necropoli.
E. Salinas scrisse che le “tombe si trovavano nella parte superiore della sezione dello scavo alta circa m 7, di terra rossa argillosa e precisamente in una zona di circa 2,50 m di spessore”.
È una necropoli costituita da tombe a forno, foderate da lastre, con pozzetto d’accesso verticale. Le tombe restituirono corredi composti da reperti ceramici d’impasto con decorazione incisa, associati a strumenti in selce ed ossidiana, che si ascrivono alla fase iniziale dell’Eneolitico (seconda metà del V – prima metà del III millennio a.C.) e attribuiti alla facies detta della “Conca d’Oro”.
Nel Museo Archeologico di Palermo si trovano gli esemplari che E. Salinas recuperò “in breve tempo centinaia d’asce, scalpelli, punte di frecce ed altri manufatti di dimensioni a volte colossali e di tipo eminentemente paleolitico”. In realtà si tratta di elementi risalenti all’Eneolitico.
Lo stesso studioso aggiunse che i manufatti erano “manifatturate con elementi litologici propri del Monte Pellegrino” e fu l’unica affermazione giusta perché anche la stessa prof. Bovio Marconi non si trovò spesso d’accordo con le classificazioni e la cronologia dei reperti espressi dal Salinas.
Il Salinas non rinvenne alcun pezzo per cui la provenienza del materiale sarebbe tutto per acquisto.
Gli sbancamenti che riportarono alla luce la “Necropoli di Valdesi” interessarono più punti delle falde del Monte Pellegrino. Il più ampio fu praticato a circa 1,5 km a sud della Piazza di Valdesi. Questo sbancamento nel 1943 fu prolungato con una trincea a V fino alla parete rocciosa come difesa anticarro e a quanto sembra fino al 1985 era anche una testimonianza visiva.
Le fotografie del 1907, che furono pubblicate dalla Soprintendenza, le tombe furono scoperte nella parte destra di quest’area sbancata cioè verso Sud.
Altri sbancamenti furono eseguiti verso Nord, verso Valdesi, sempre lungo le falde del Monte. I materiali o reperti archeologici furono in realtà recuperati in tre siti distinti e non molto lontani tra di loro:
1)      Nel talus della Grotta del Laghetto, raggiunto dallo sbancamento, fu raccolta dell’industria litica del Paleolitico superiore e forse anche del materiale litico più tardo.
2)      Nel villaggio furono raccolti, tutti o quasi tutti, i prodotti della cultura materiale; lame di selce ed ossidiana; punteruoli d’osso, pesi, fusaiole, materiali che sono rarissimi nelle tombe. Tutto il materiale, che doveva essere nel villaggio, era in frantumi e non fu raccolto dagli operai perché non commerciabile. Il villaggio doveva estendersi nella fascia pedemontana della necropoli verso Valdesi e si pensa che sia andato distrutto dagli sbancamenti e forse anche con la sistemazione della strada. Tracce e si leggono sul terreno dopo le piogge a monte del Viale R. Margherita: esigui battuti con pochi fittili molto dilavati. Si ricava l’impressione di un abitato molto esteso ma la cui vita non fu molto lunga.
3)      Dalle tombe devono provenire tutti i vasi perché solo cavità ipogeiche, quali appunto erano queste tombe, avrebbero potuto conservare integro o quasi il vasellame. È molto probabile che i vasi molto frammentati non siano stati raccolti perché ritenuti non commerciabili. L’uso di recuperare soltanto il vasellame integro o quasi doveva essere una consuetudine molto diffusa anche nell’ambiente scientifico dal momento che degli antichi scavi è pervenuto solo il materiale integro. La prof. Bovio Marconi riferì che le tombe erano simili a quelle di Capaci cioè a forno con pozzetto d’accesso scavate nella terra. “E’ questo precisamente il punto oscuro sul quale permangono i dubbi: non sembra possibile, che cavità abbastanza ampie e pozzetti verticali si potessero sostenere entro un semplice terreno vegetale, senza un qualche consolidamento litico: non sarebbero crollate le volticelle dei fornetti, per la pressione, non dico nel volgere dei secoli, ma nelle mani stesse dei costruttori ?”
Dalla conoscenza del terreno e dall’esame dell’antica documentazione fotografica si escluse l’esistenza di calcarenite come a Capaci, Carini ed in tutto il palermitano e si ricavò che le tombe erano indubbiamente scavate in un terreno di costituzione diversa ma non per nulla “friabile terreno vegetale”. Esso infatti era costituito da detriti di falda e terra rossa quasi cementati da formare breccia; la pressione della terra ne ha aumentata la compattezza ed in un certo spessore è abbastanza resistente.
L’antica documentazione dimostrò che le tombe non erano costruite e formate da “fosse circolari scavate nella terra e sorrette(?) da pietrame”.
“Le poche pietre documentate in fotografie sembrano di chiusura del portello; in ogni modo un parametro di pietre tutt’intorno la fossa non avrebbe per nulla migliorata la stabilità dell’ipogeo il cui punto debole rimane sempre ovviamente la volta. L’aver trovato dopo oltre quattro millenni queste piccole cavità integre (forse non tutte) dimostra appunto la grande resistenza del terreno”
Da segnalare un Oletta di pessima conservazione e salvata da un attento restauro. È interessante sia per la forma, unica a Valdesi, che per l’esistenza di una decorazione dipinta ora quasi del tutto scomparsa e che non era stata notata in precedenza. Porta il numero d’inventario 5073, ha il corpo carenato ( alta 8,2 cm, diametro bocca 9,7 cm), due bagne contrapposte sulla linea di massima espansione. L’impasto è piuttosto fine di colore grigiastro; la superficie, incamiciata d’argilla rossastra, è quasi a stralucido rosso e ricorda un poco la ceramica di Malpasso nell’agrigentino; la decolorazione è appena percepibile e non è possibile definire il motivo: sottile bande incrociate.
Dal sito della necropoli di Valdesi continuando verso Nord e fino allo spigolo di Valdesi, alla base del quale è un bunker, v’è da annotare la presenza di rari frammenti ad impasto, assolutamente interminabili.

Oletta con tracce di decorazione dipinta in nero.
Necropoli di Valdesi – Museo Archeol. Reg. di Palermo


 Tomba “a forno” della Necropoli Valdesi – foto di E. Salinas, 1897

Necropoli di Valdesi
Resti di inumato con ciotola nel fondo di una tomba
Foto di E. Salinas. 1897

Non molto lontano dallo spigolo verso Nord Ovest. A circa 300 metri dalle prime case di Valdesi, a sinistra del Viale Regina Margherita (Ovest) nel 1930, secondo il racconto della prof.ssa Bovio Marconi, fu rinvenuta una tomba preistorica.. ”lo scheletro era sepolto in piena terra, solo il volto era difesa da tre piccole pietre. Attorno al corpo erano quattro vasetti in frammenti, d’impasto scuro del solito sito”.
(L’archeologa non descrive il materiale e dove fu custodito)
(I siti archeologici del Villaggio Giusino e della Necropoli di Valdesi verrano descritti dopo la trattazione delle  Grotte).

7. Le  GROTTE del Versante Occidentale di Monte Pellegrino










Grotta dell’Acqua
Dati di Catasto
SI PA n.44
Nome Locale: Gruttuni
Altri nomi: Grotta dell’Acqua
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E. 0°54’10” – Lat. E. 38°08’57””
Quota: 80 m
Sviluppo: Non Rilevato

Si apre in un antica linea di riva e si trova entro il recinto della Polveriere Militare, immediatamente sulla sinistra della spigolo meridionale del Primo Pizzo.
Del nome s’è perso il ricordo. L’antica denominazione che fa presumere la presenza d’acqua nella cavità, ci è stata possibile ricondurla alla grotta per una menzione di C. De Stefani, a proposito della “Pietra dell’Imperatore” e confermata da un’altra di F. Cipolla”.
Per quanto riguarda la “Pietra dell’Imperatore il De Stefani “erra nel ricostruire lla posizione del famoso masso già al suo tempo scomparso, per la funzione che doveva assolvere non è possibile si trovasse “presso la grotta dell’Acque” come egli sostiene”.
La “Pietra dell’Imperatore” fu descritta da T. Fazello..” qui vicino altro tanto spazio di vita è il monte Pellegrino di cui feci menzione di sopra; nel quale, nella parte volta a tramontana(nel cui angolo meridionale), è posta una pietra grande che scopre tutta la pianura di Palermo, il quale sasso è detto l’Imperatore, e vi fu posto da Federico II, imperatore e re di Sicilia per questa cagione e con questa legge che dura fino al dì d’oggi, che come l’ombra del sole che viene dalla rupe dà in questo sasso, che al tempo della state viene a quasi 20 (ore 16), i contadini che vanno a lavorare a giornata le possessioni de’ palermitani s’intendono aver fornita l’opera di quel dì e non possono essere costretti né obbligati a lavorare più”.
Osservando la carta topografica ci si rende conto che un corpo per ricevere l’ombra “che viene dalla rupe” cioè dallo spigolo meridionale del Primo Pizzo non può trovarsi né nella parte meridionale del pizzo né tanto meno nella parte di tramontana del pizzo stesso, deve quindi trovarsi necessariamente nella parte orientale rispetto lo spigolo.
La “Pietra dell’Imperatore” doveva quindi trovarsi ad Est dello spigolo e perché fosse visibile dai campi di Palermo doveva trovarsi ad una certa quota; quindi a poca distanza dallo spigolo.
L’accesso alla grotta è possibile dalla Polveriera Militare con relativa autorizzazione.
Allora l’esplorazione della grotta non era sta ancora effettuata.
Gli studiosi erano in possesso di vecchi appunti redatti nel corso di un rapido sopralluogo per la programmazione di una integrale esplorazione delle grotte poste nella polveriere. Esplorazione che non fu mai effettuata.
“Ampia cavità, la prima a sinistra dallo spigolo meridionale del Primo Pizzo. Ingresso triangolare, largo alla base quasi una decina di metri, alto altrettanti. L’antro è diviso in due piani da un difficile salto di roccia alto circa 5 metri. Nella parte alta, sulla sinistra s’intravede l’inizio di un cunicolo. Il piano di calpestio della grotta  ed il talus sono coperti di pietrisco di sfaldamento”.
“Archeologia - Nessuna traccia di brecce e di materiale”
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Grotta Della  Speziaria
   Dati catasto
-          SI  PA n. 45
-          Altri nomi: Grotta dei Mussuni
-          Località : Parco della Favorita, Zona Militare
-          Tavoletta : F. 249 II N.E. Palermo
-          Long. E 0°54’08” – Lat. N 38°08’58””
-          Quota: 80 metri
-          Sviluppo : Non Rilevato

La grotta si trova all’ingresso del Parco della Favorita, all’interno della polveriera militare, ai piedi dello spigolo meridionale del Primo Pizzo e segue di circa 50 m la Grotta dell’Acqua.
La Speziera, a differenza della precedente, non è accessibile a causa di una cava di calcare che fu aperta, in modo inopportuno, proprio ai suoi piedi. Questo ha determinato un mutamento del pendio con la creazione di una parete verticale di oltre venti metri d’altezza. Ciò ha provocato inoltre il franamento antropico della grotta che gli agenti atmosferici nel tempo hanno eroso lentamente provocandone la caduta al suolo.

La Grotta Speziaria sulle pendici di Primo Pizzo
Le frecce indicano la presenza di deposito antropico con
selci ed ossidiana.

Non fu possibile allora agli studiosi di esaminare il contenuto del deposito scivolato sul piano della cava che avrebbe senz’altro favorito le conoscenze sull’uso della grotta. Fu rilevata la presenza di selci ed ossidiana. La presenza soprattutto dell’ossidiana che è assente nel palermitano, poiché da ormai tanto tempo la fascia dei depositi in grado di contenerla si sono esauriti, lascia spesare che in eventuali scavi si potrebbero rilevare sedimenti paleolitici integri.
Lasciata la Grotta della Speziaria e superata una piccola grotta (SI PA n. 46) si raggiunge il Vallone della Monaca, con scaletta in alto a sinistra, che sbocca nel Piano di Bernardo attraversato dalla “prima scala” (Mannino 1985).

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Grotticina
Dati di Catasto
SI  PA n. 46
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E. 0°54’06” – Lat. N 38°09’00”
Quota: 80 metri
Sviluppo complessivo: 6 metri

Posizione: ubicata a circa 50 metri a sinistra della Grotta della Speziaria, vicino il fronte della cava.
Descrizione – si tratta di una cavità con nessun aspetto particolare. Si sviluppa in una diclasi allargata a cuneo dall’erosione del mare. All’inizio è alta circa 2 m e larga 1,50 m circa.
Dopo la Grotticina procedendo verso Nord, la falesia flette a destra, dirigendosi a Nord Est, fino ad attestarsi al Piano di Bernardo. In prossimità della svolta si aprono in parete due grandi nicchie tipiche dell’erosione marina. La prima a circa 12 metri dal suolo e la seconda ad una decina di metri. Entrambe di nessun interesse.

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Grotta dei Capezzoli
Dati di catasto
SI  PA n. 47
Località; Statua di Diana, Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E 0°53’57” – Lat. N. 38°09’07”
Quota: 50 m
Sviluppo: Non Accertato
Su questa grotto le notizie sono scarse.  Le uniche fonti sono trascritte su un antico foglietto che fu rinvenuto nel Museo Nazionale di Palermo che accompagna alcune ossa fossili indeterminate ed una selce.
Il foglietto fu redatto dall’assistente Giosuè Meli, non è riportata la data, che cita: “Monte Pellegrino, Grotta dei capezzoli. Materiale raccolto nella suddetta grotta che trovasi dentro il Parco della Favorita, dietro la Statua di Diana, la grotta è poco visibile perché interrata, per rintracciarla bisogna che da Diana ci si sposti un poco ad Ovest e si tira diritto sino ai piedi di una parete a picco, qui si trova un’apertura che ha la volta piana la quale si eleva dal piano esterno appena 60 cm, la grotta è interrata. Il materiale l’ho raccolto in un fosso che i cacciatori hanno praticato dinanzi ad essa per prendere gli istrici”.
La grotta oggi non dovrebbe più essere esistente perché l’area indicata fu completamente sconvolta dai lavori per il deposito militare. Le indicazioni oltre ad essere incomplete sono secondo il prof. Mannino errate. La statua di Diana era posta al centro di una rotonda che si trova su disegnata su antiche mappe ed esattamente nel prolungamento del Viale Diana e tra questo ed il Vallone della Monaca. Non fu trovata una descrizione della scultura. Si ricorda anche nell’edizione del 1953 della Guida Sicilia del Turing Club Italiano quando certamente il luogo era stato messo a soqquadro.
Le direzione Ovest indicata dal meli è errata perché si finirebbe a Piazza Leoni. Va quindi corretta con Est nella cui direzione s’incontrano le falesie del Monte Pellegrino.

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Grotta Della  Monaca 
Dati di Catasto
SI  PA n. 76
Nome Locale: Grutta du Vadduni
Altri nomi: Grotta della Monaca
Località : Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°54’04” – Lat. N: 38°09’12”
Quota: 80 m
Sviluppo Complessivo: 11 m

La cavità si trova alcuni metri più in alto del piano di campagna, nello spigolo meridionale del Pizzo Vuletta e a sinistra del Canalone della Monaca.
La grotta si sviluppa lungo una faglia scavata a cuneo e percorribile per 11 metri. Nelle pareti e nella volta molti fori di litofagi.
(In zoologia, di animali capaci di corrodere le rocce calcaree e di annidarvisi; tali alcuni Molluschi Bivalvi (folade, dattero di mare), alcuni Poriferi ed Echinodermi).
“Ad una ventina di metri, a destra della grotta (quindi sulla falesia), poco più in basso del vecchio muro di recinzione borbonico (?), c’è un piccolo riparo largo circa 3 metri e profondo altrettanto, di nessun interesse”.

Grotta della Monaca – Pianta e sezioni

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Grotticina
Dati di catasto
SI PA n. 77
Nome Locale: Gruttignuni
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long.E: 0°54’00” – Lat. N: 38°09’13”
Quota: 90 m
Sviluppo Complessivo: 5 m

La piccolo cavità si apre a circa 5 m alla sinistra della grotto della Monaca.
Ha un ingresso largo circa 4 m.  sulla parete di sinistra, a circa 2 metri dall’ingresso, sono scalpellati due disegni incomprensibili… recenti. Non è possibile stabilire se trattasi del ricalco di un’antica e quindi preesistente incisione.

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Grotta Del Roveto
Dati di Catasto
SI  PA n. 78
Nome Locale: grutta i l’acqua
Altri nomi: Grotta del Roveto
Località: Parco della Pavorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°53’59” – Lat. N: 38°09’15”
Quota: 90 m
Sviluppo Complessivo: 75 m

La grotta si apre a circa 60 m a sinistra del Canalone della Monaca.
L’ingresso era una volta consentito dalla polveriera militare previa autorizzazione.
L’ingresso è stato modificato con forti interventi di ampliamento o allargamento.
Si presenta con una sezione allungata )verso l’alto) mentre in origine doveva essere di  sezione semiellittica con l’asse maggiore ad un paio di metri dal piano di campagna.
Una cavità di natura marina e la cui erosione ha allargato una preesistente piccola cavità carsica e che è stata successivamente ampliata dall’uomo. I lavori di ampliamento furono iniziati per ricavare una galleria infatti sono presenti tracce di fornelli di mine in tutto lo sviluppo della grotta.
L’escavazione fu eseguita prima abbassando di quota il piano di calpestio e poi iniziando ad allargare le anguste pareti laterali. Il lavoro non fu completato e per questo motivo ci si può rendere conto della conformazione generale della grotta in origine. L’ingresso doveva essere largo circa 4 metri ed alto intorno a 1,50 m. la cavità, di modeste dimensioni, doveva essere inadatta all’uso abitativo a causa della ridotta latezza che non doveva superare 1,50 m. dopo circa 30 m dall’ingresso la sezione della grotta si restringeva tanto da non permettere il passaggio dell’uomo.
Nella parte più interna, in alcune fessure laterali o nelle anfrattuosità del soffitto, sono presenti  molte e varie concrezioni calcaree.
“Un fenomeno molto interessante è il riformarsi di concrezioni e soprattutto il formarsi di concrezioni di varia foggia sulla roccia rotta dalle esplosioni delle mine”.
Archeologia: per i motivi su esposti nessuna traccia è possibile rintracciare nel talus perché coperto da materiali di risulta dello scavo.



Grotta del Roveto – Pianta e Sezioni

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Grotta
Dati di Catasto
SI  PA n. 79
Località: Parco della favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°53’55” – Lat. N: 38°08’18”
Quota: 90 m
Sviluppo Complessivo: 10 – 11 m

L’ingresso è largo un paio di metri ed alto circa 3 m, inclinato sulla sinistra.
Cavità di nessun interesse che ha a sinistra un piccolo ambiente dal quale si diparte una breve diramazione.
A circa due metri dall’ingresso, sulla parete sinistra, sono presenti due disegni. Uno riproduce una croce obliqua o una X; l’altro  una testa umana di profilo, posta su un busto triangolare, che è rivolta verso l’interno della grotta. Si tratta di disegni recenti.
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Grotta di Giacchery
Dati di catasto
SI  PA n. 82
Nome locale: Gruttignuni
Altri nomi: Grotta Giacchery
Località: Parco della favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°53’54” _ Lat. N: 38°09’18”
Quota: 100 m
Sviluppo Complessivo: 10 m

Si tratta di un ampio riparo alto qualche metro dal piano di campagna. Nel fondo della cavità si apre una fessura che conduce nella parte interna della Grotta del Ferraro di cui costituisce il secondo ingresso.

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Grotta  Del  Ferraro
Dati di Catasto
SI  PA n. 83
Nome Locale: Grotta del Ferraro
Altri nomi: Grotta Giacchery, Grotta del Fieno
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°53’52” – Lat. N: 38°09’18”
Quota: 90 m
Sviluppo Complessivo: 270 m circa

L’ingresso ha una sezione ad arco, di circa 10 m di base e di m 6 in chiave. È ubicata nel fondo dell’ansa che la falesia forma tra il Vallone della Monaca ed il largo piede del Pizzo Vuletta a Nord Ovest.

Alla sua destra, come abbiamo visto, s’apre una cavità, Grotta Giacchery, a circa 6 metri dal piano di campagna, che nella parte terminale comunica con la grotta del Ferraro.
Le conoscenze si limitavano solo alla prima parte della grotta che è la più ampia.
Si tratta di una grotta ad escavazione mista: marina la prima parte e carsica la seconda.
La più antica descrizione  è una lettera dattiloscritta da Leopoldo La Rosa, Bayard Mc Donnel, Paolo Muster, Sigismondo Noto, Salvatore Monastero e inviata all’Ill.mo Sig.re Prof. Fabiani Palermo in data 29 settembre 1931: “ Durante l’esplorazione di una grotta del Monte Pellegrino alla favorita, abbiamo rinvenuto, dopo percorso uno strettissimo e difficilissimo passaggio, una grande quantità di ossa e crani fossilizzati, assieme a molti resti di vasi e recipienti di creta. Non abbiamo divulgato questa scoperta per evitare la distruzione del materiale, che andremo a fotografare. Abbiamo consegnato, in sua assenza, alcuni campioni all’Istituto di Zoologia. Ci riserviamo il piacere di darle tutti i dettagli al Suo ritorno” Ci creda, Ill.mo Professore, Suoi devotissimi”.
Dott. Lepoldo La Rosa; B. Mc Donnel; Paolo Muster; Sigismondo Noto; Salvatore Monastero.”

Una seconda lettera, anch’essa dattiloscritta fu indirizzata al Potestà di Palermo.
La relazione ha il titolo: “Relazione della scoperta archeologica nella Grotta del Ferraro – Monte Pellegrino – 27 settembre – 4 ottobre 1931 A.IX.E.F.”

I sottoscritti
Dott. Leopoldo La Rosa, assistente volontario presso l’Istituto di Chimica Farmaceutica della R. Univesità, via Rosina Muzio Salvio n. 4;
Bayard Mc Donnel, Gloyd’a Agency, via E. Parisi n.1;
Paolo Muster, via Magnisi, Palazzo Magnisi;
Ing. Sigismondo Noto, via Enrico Amari n. 144;
Dott. Salvatore Monastero aiuto di Zoologia e Anatomia Comp. R. Università, via Archirafi;
hanno l’onore di presentare all’On Signoria Vostra l’acclusa relazione in merito alla scoperta archeologica da essi fatta nella grotta così detta “del Ferraro” al Monte Pellegrino, il 27 settembre e 4 ottobre 1931- IX. La relazione è integrata da: un grafico approssimativo del percorso effettuato (allegg.1); un album con cinque fotografie (all.2);
Con perfetta osservanza:
Firmati: Dott. Leopoldo La Rosa; B.MC Donnel; Paolo Mutser; L. Noto; Dott. Monastero.
Palermo 10 ottobre 1931 IX”

Allegato
“RELAZIONE SULLA SCOPERTA ARCHEOLOGICA
<GROTTA DEL FERRARO>MONTE PELLEGRINO
27 SETTEMBRE E 4 OTTOBRE 1931 a.IX.E.F.
Per l’On Podestà di Palermo

Componenti: Dott. Leopoldo La Rosa – Bayard Mc Donnel – Paolo Muster – Ing. Sigismondo Noto; alla spedizione del 4 ottobre ha preso parte anche il dott. Salvatore Monastero.
Attrezzaccio: Corda da campagna – spago – picconcino – mazza – scalpelli “a punta” e “a taglio” – bastoni sonda recipiente con fondo piombato – lampade elettriche portatili- con rivestimento speciale anticon- batterie di ricambio, di cui alcune specialmente adatte per resistere all’umidità – bussola – cassetta di pronto soccorso – materiale fotografico- bombola di ossigeno compresso- coppia telefonica collegata con un caso anticon, ed altro materiale minore.
Sviluppo: La Grotta, così detta “del Ferraro”, che si apre nel versante S/O del Monte è ben conosciuta da cacciatori, escursionisti, nonché dalla polizia (che vi ha rinvenuto il cadavere di un recente delitto).
Attraverso un foro nella viva roccia, 35 x 40 cm circa, che immette in un canale a gomito lungo quasi 3 metri, dove esisteva una formazione a cortina che si è dovuta abbattere, si è penetrati in un camminamento poco più ampio. Si pervenne così in una piccola caverna cosparsa di resti di ossa fossilizzate e rottami di vasi di argilla, che destarono subito grande interesse e spronarono a proseguire l’esplorazione.
Proseguendo carponi ed in fila indiana per detto camminamento, un poco meno difficoltoso rispetto all’inizio, si vanno osservando, incastrati al suolo, dei recipienti d’argilla quasi intatti ed ancora frammenti di ossa fossilizzate.
Superando alcuni passaggi difficoltosi, si giunge ad un’altra caverna, situata a circa due metri sotto il livello del cunicolo d’ingresso. Qui abbondano mucchi di ossa e si nota, per la prima volta, la presenza di teschi umani pressoché interi, frammisti a cocci di recipienti di argilla. A sinistra di chi entra ci è una conca piccola con acqua, in cui si osservava immerso un grande recipiente di argilla ricoperto da spessa concrezione di carbonato di calcio (alleg.2, foto n. 1). Detta caverna si prolunga a gola verso S/O, presentando altri ammassi di ossa, teschi, recipienti d’argilla quasi immersi e cocci; a sinistra a circa un metro dal suolo, si nota un osso fortemente incastrato nella roccia.
Poco distante dalla conca suddetta, esiste un’altra caverna, il cui suolo risulta costituito da terriccio fangoso, ossa e frammenti di vasi. È qui che, saggiando col l’aiuto della picozza, si è rinvenuto un frammento di arnese di bronzo.
Dopo una lunga osservazione del materiale e del sito, qui la comitiva si è divisa in due coppie, e mentre l’una procedeva ai rilievi fotografici, l’altra procedeva all’esplorazione di camminamenti vicini.
Intervenne così l’uso dell’apparecchio telefonico che ha mantenuto il collegamento costante onde – in caso di sinistro – gli uni potessero accorrere in aiuto degli altri.
A destra della seconda caverna si trova un secondo cunicolo che dà accesso ad un altro camminamento piuttosto largo, seguendo il quale si notano altre ossa fossili e dove si è rinvenuta una pietra (selce) lavorata, riconosciuta poi dal Direttore del Museo Nazionale per una piccola accetta. La comitiva, riunitasi, procedette verso Nord, ed incontrò una spaccatura nel suolo profonda parecchi metri, “zubbio”, che si è potuto, malgrado l’aiuto della corda, esplorare parzialmente soltanto, a causa del restringersi delle pareti, fino ad impedire il proseguimento verso il basso.
Grotta del Ferraro – Grafico approssimativo – Allegato 1

Però il caratteristico tonfo prodotto dalle pietre bittate, indicò che lo Zubbio ‘ molto profondo.
Lungo tutto il percorso si sono notate stalattiti, dapprima di poca importanza, ma che assumono a mano che si procede, verso l’interno del Monte, caratteri molto affini a quelli dell’Addaura, sempre però di più modeste dimensioni.
Notavole una formazione a nido d’ape.
L’aria specialmente nelle prime caverne, è pervasa da un penetrante e forte odore di muffa, talvolta così forte da rendere faticoso il respiro. Il terreno è fangoso e sparso di piccole pozzanghere.
Sia nella prima che nella seconda spedizione, sono stati prelevati campioni d’ossa che, nell’assenza del prof. Fabiani della R. Università, sono stati depositati presso l’Istituto di Zoologia della R. Università, mentre i campioni d’argilla sono stati depositati al Museo Nazionale.
I componenti, lieti di avere modestamente apportato un nuovo contributo alla conoscenza della grotta del Monte Pellegrino, sono a disposizione dell’On. Podestà di Palermo per ogni ulteriore chiarimento.
F.ti: Dott. Leopoldo La Rosa; B. Mc Donnel, Paolo Muster, Sigismondo Noto, Dott. Monastero”.




Grotta del Ferraro –
Conca con acqua e olla Concrezionata


Rimase un mistero il dopo…. Il prof. Ramiro Fabiani, presidente del gruppo Speleologico del CAI di Palermo, una volta informato e avviate le esplorazioni non abbia mai fatto alcuna menzione del gruppo a cui andava il merito di aver effettuato la scoperta archeologica.
Si voleva ignorare l’aspetto ?.... Se la risposta fosse affermativa è quel tipo di cultura che purtroppo da tempo pervade la Sicilia… una cultura che deve essere privilegio di pochi…..
Infatti in un articolo dell’ing. Aspel Kirner pubblicato su “Montagne di Sicilia”, organo della sezione di Palermo del Cai (anno I, n. 1, 1933), dal titolo “Esplorazione integrale della Grotta del Ferraro” non si fa alcuni riferimento al gruppo del dott. La Rosa.

Grotta del Ferraro
Teschio con corredi in frantumi.

Grotta del Ferraro
Deposizioni manomesse

Grotta del Ferraro – Vasellame

La descrizione della cavità, sia quella eseguita dal gruppo del dott. Larosa che dal Kirner, non mette in evidenza in modo dettagliato il fenomeno carsico. Le planimetrie del Kirner sono solo degli abbozzi senza scala che raffigurano un breve tratto di percorso nella grotta al limite della percorribilità.


Schizzi del Kirner

Il Kirner così descrive la grotta..”è una grotta impervia e quanto nessun altra stretta e bassa, a cominciare dal foro che dalla parte media conduce nella parte interna, foro ristrettissimo in situazione  in situazione talmente nascosta da aver dato enorme filo da torcere ai soliti razziatori di grotte che dall’inizio in qua tentavano di accedere. Si può dire che a parte del foro di ingresso veramente massacrante, tutto il resto della grotta è pur esso talmente malagevole e stretto che in alcun suo punto, non vi si può stare ritti. Tutta l’esplorazione va fatta trascinandosi bocconi a carponi o in ginocchio, incuranti fra insidiosissime asperità taglianti e pungenti, concrezioni e  massi,, fra fanghi e pozzanghere”
“I due zubbi (binati) interni, finora non visitati nelle prime esplorazioni furono esplorati con la massima attenzione. Essi sono corrispondenti, nel senso che in basso esiste un passaggio dell’uno all’altro. La profondità al punto della camera comune ai due zubbi è di m 14 circa. Alcuna diramazione interessante esiste in basso.  Senonchè quasi in corrispondenza del secondo zubbio e sfalsato di un paio di metri, esiste un canale verticale, praticabile per circa 4 metri, ma poi ostruito da un masso che preclude ogni ulteriore salita, sebbene dall’impraticabile apertura s’intravede in alto un nuovo allargamento. In altri termini, al punto ove si scende nel secondo zubbio, ci troviamo anche nel fondo di un altro zubbio che scende dall’alto”
“Dopo lo zubbio e dopo il quadrivio a croce latina ( i due bracci trasversali finiscono entrambi in camerette cieche che hanno solo  minimi passaggi per le acque, camerette nelle quali alla notevole distanza di circa 150 m dall’ingresso furono trovati alcuni esemplari di anoftalme bianco) solo il braccio in prolungamento della direzione di provenienza ha un notevole sviluppo.
Si tratta di un ulteriore percorso tortuoso di un centinaio di metri, dopo di che si giunge ad un foro così ristretto da far quasi perdere ogni speranza di proseguire. Tuttavia dopo sforzi disperati riuscimmo a passare in due: da qui col corpo straziato da acutissime punte si può percorrere un altro percorso tratto di circa 20 – 25 metri, lungo il quale si riscontrano appunto quei bellissimi gruppi cristallini che ricordano in piccolo l’”Acheronte”, nome ufficiale dato dagli scopritori alla meravigliosa parte interna dell’Addaura dalla Cappella in poi, in contrapposto alla pietosa meschinità morale dei visitatori successivi ultimi venuti che hanno cercato di appiccarvi i propri nomi per tentare di creare equivoci nel pubblico… Non Commentiamo”.

 Il Kirner  diede una sua interpretazione storica alla cavità rifiutando la tesi del dott. Paolino Mingazzini, direttore del regio Museo Nazionale, che aveva definito la Grotta del Ferrari, “una necropoli preistorica”.
Kirner vagliò le diversi ipotesi e alla fine concluse..” credo dunque di lasciare sussistere come più probabile, l’ipotesi della segregazione forzata da parte di terzi, di quegli individui che, però in un primo momento dovettero essere alimentati. Forse anche individui tenuti in ostaggio, ma ad ogni modo forzati a cacciarsi là dentro quando ancora la loro condanna a morte non era stata pronunziata; se fossero stati già condannati fin da principio evidentemente non sarebbero stati riforniti di vasi di creta”.
Un vero e proprio “ … giallo nella preistoria” (Rosario La Duca – 1979 in “Palermo ieri ed oggi”).
Nel 1946 la dott.ssa Ornella Acanfora, dell’Istituto di Paleontologia di Roma, diede alcune notizie sulla scoperta…. ma negative ed assurde …” il materiale raccolto dagli esploratori andò in parte disperso e furono solo conservati pochi pezzi di scarso interesse al Museo Nazionale e al Museo di Geologia dell’Università di Palermo. In questa città ebbi occasione di esaminare, fra la collezione privata del dott. Alfredo Salerno, un certo numero di frammenti fittili rinvenuti precisamente nella Grotta del Ferraro insieme ad un ascia di bronzo degna di maggiore interesse… Ed ecco infine il piccolo gruppo di oggetti conservati dal dr. Salerno, alla cui cortesia debbo la possibilità di illustrarli. Mi limito alla segnalazione di alcuni pezzi di ossa lunghe e di crani, che dovrebbero essere esaminati da un antropologo, e passo all’elenco dei materiali”.
La dottoressa non precisa il numero dei fittili esaminati, ne illustra solo 13, cioè i più rappresentativi. Sono frammenti d’orlo e soprattutto anse a nastro sopraelevato, una a punte acuminate. Non accenna a decorazioni (nervature) tuttavia vede un inquadramento nello stile di Thapsos, medio Bronzo…”L’ascia è di bronzo, piatta, a lunga penna lunata, con margini non ribattuti e lievemente arrotondati; al tallone una leggera infossatura per manico, lunga circa 13,5 cm e larga al taglio 8,5 cm”.

Il direttore del Museo di Geologia di Palermo, il dr. Enzo Burgio, giustamente nel suo incarico volle conoscere i reperti che si custodivano nelle collezioni private e nel caso del dott. Salerno, pensava ad alcuni reperti paleontologici che il  Gruppo Speleologico del CAI, di cui era segretario, raccoglieva nelle cavità visitate. Si trattava in particolare di reperti appartenenti all’estinta fauna quaternaria. Si recò presso l’abitazione della famiglia Salerno, il dott. Salerno era deceduto da poco, e fu informato dagli stessi familiari di “aver gettato tutto, qualche giorni prima… tutte cose
vecchie: ossa e pietre”.
Purtroppo nei Musei di Geologia e di Zoologia dell’Università di Palermo, come riporta anche il prof. Mannino, dei reperti ricordati da Ornella Acanfora, non c’è alcuna traccia………..
Decine di anni fa A. Messina e L. Sineo trovarono dei reperti nella grotta del Ferraro.

“Materiale;
il materiale scheletrico della grotta del Ferrari è costituito da un cranio incompleto, il suo stato di conservazione è pessimo, infatti il reperto è completamente demineralizzato e poroso; le varie ossa (frontale, parietali ed occipitale) sono legate tra loro grazie al sedimento carbonatico, inoltre il cranio è completamente concrezionato, ciò ne rende difficile anche la pulitura e lo studio. La mandibola, in buono stato di conservazione, si presenta incompleta del condilo del ramo destro e di entrambi i processi condiloidei”.



VALUTAZIONE DELL’ETA’ DI MORTE
Il grado di morte si determina utilizzando il grado di obliterazione delle suture craniche e il grado di usura dentale. Tenendo in considerazione il fatto che non si può fare una stima esatta dell’età di morte degli adulti, perché soggetti a variazioni dovute a fattori genetici ed ambientali, si fa riferimento alla classificazione di Vallois che determina sei classi di età: infans I (da 0 ai 5 anni); infans II (da 7 a 12 anni); giovanile (da 13 a 20 anni); adulto (da 24 anni a 40 anni); adulto maturo (da 41 anni a 59 anni); senile (da 60 a X).
Valutazione del sesso
La determinazione del sesso viene di solito effettuata attraverso la studio delle caratteristiche morfologiche dei risultati del cranio e del bacino con una precisione rispettivamente dell’ 80-90% e del 95%.  Le caratteristiche odontometriche vengono usate nella determinazione del sesso in quei casi in cui le caratteristiche cranio-facciali e pelviche non possono essere utilizzate.
Per il cranio della grotta del Ferraro il sesso dell’individuo è stato rilevato mediante indicatori metrici e morfologici; in particolare si è fatto uso di tutti gli elementi di riformismo sessuale rilevabili sui denti e sulla mandibola. Le misure sui denti permanenti sono state prese con il calibro digitale. Il diametro medio distale (MD) è la distanza fra i suoi punti di contatto interprossimali, parallelamente al piano occlusale, il diametro buccolinguale (BL) è il diametro massimo della corona preso perpendicolarmente al diametro (MD).
Dal prodotto dei diametri ricaviamo l’indice di Robustezza del dente .
Antrometria
Le misurazioni sono state rilevate secondo indicazioni del trattato di Martin e Saller (1959)
Risultati
Sulla calotta cranica del Ferraro non si è potuto procedere con l’analisi metrico a causa del pessimo stato di conservazione, vengono riportate le misure della mandibola e dei denti, (nella tabella su esposta). Dall’analisi morfometrica del cranio e dei denti mandibolari, integrata con i metodi che analizzano il grado di usura dei denti, si attribuisce il cranio ad un individuo adulto, con età compresa tra i 17 – 25 anni secondo Brothwell; tra i 16 e i 20 anni secondo Lowejoy, appartenente ad un individuo di sesso femminile secondo le indicazioni di Vodanovic relativamente al diametro MD del secondo premolare, al diametro BL del terzo molare e alla robustezza sempre del terzo molare.
Discussione
La grotta del Ferraro ha restituito all’indagine un reperto cranico praticamente inutilizzabile a fini metrici ma indubbiamente recente per la morfologia e spessori ossei. Il reperto studiabile è stato quindi solo la mandibola e le caratteristiche morfologiche e dentarie che hanno permesso di stabilire che si tratti di un individuo giovanile di sesso femminile (Messina, Sineo 2007).

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Grotticina
Dati di catasto
SI PA n. 84
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N E Palermo
Lon. E. 0°53è47” – Lat. N. 38°09è19”
Quota: 90 m
Sviluppo Complessivo: 4 m
 La cavità si trova al livello del piano di campagna a NO dalla grotta del Ferraro.
L’ingresso ha una forma ellittica di circa (2 x 1) m inclinata sulla destra. Non ha alcun interesse
Speleologico. Presenta un incisione lineare simile a quella rinvenuta nella Grotta del Condannato.

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Grotta  Del Ponte
Dati di Catasto
SI  PA  n. 85
Nome Locale: Grotta del Porcospino
Altri Nomi: Grotta del Ponte
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°53’46” – Lat. N: 38°09’22”
Quota: 90 m
Sviluppo Complessivo: 35 m

La grotta si apre alla base della falesia ad una quindicina di metri dal suolo.
L’ingresso ha una forma allungata, misura circa un metro di larghezza ed il doppio d’altezza.
L’ambiente è in parte ad una quota più bassa rispetto al piano di campagna.
Scendendo nella cavita ci si rende conto che l’ingresso è parte più elevata, la cuspide, di un più vasto vano chiuso da frane e detriti di falda dello spessore di circa 4 metri che sigillavano un deposito a terra rossa in basso ed archeologico in alto.
Il deposito appare molto povero . dalla terra rossa proviene un morale di ippopotamo che si trova al Museo Geologico “Gemmellaro”.
Una cospicua quantità di deposito archeologico è stata sicuramente asportata. Ai suoi tempi il De Gregorio fu l’unico che eseguì degli scavi nel 1889 (?) nella grotta.
La frequentazione dell’uomo è testimoniata da alcune povere brecce, con selci e carboni, presenti nella parete sinistra a circa 3 m dall’attuale piano di calpestio ed altrettanti metri dall’ingresso.
Alla sommità della parete destra, a circa 5 m dal suolo, quasi dirimpetto alla breccia, entro una cavità che si raggiunge in arrampicata,  il prof. Mannino trovò frammenti di terracotta ad impasto, attribuibili ad età preistorica e custoditi al Museo Archeologico di Palermo.

Grotta del Porcospino – Pianta e sezioni

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Antro  Niscemi
Dati di Catasto
SI  PA  n.23
Nome Locale: A Gruttazza
Altri nomi: Antro Niscemi
Località: Parco della Favorita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
 Long. E: 0°53’36” – Lat. N: 38°09’44”
Quota: 150 m
Sviluppo complessivo: 12 m
La grotta si apre ai piedi della falesia del Bosco Vecchio, sulla sinistra della Scaletta dello Schiavo.
Fu esplorata circa quarant’anni fa. È un antro ingombro di frane molto antiche per la caratteristica colorazione rossastra e con uno sviluppo ascendente di circa 12 m.

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Grotta Niscemi
Dati di Catasto
SI  PA n. 22
Nome locale: A Grotta
Altri nomi: Grotta Niscemi
Località: Parco della favorita
Tavoletta; 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°55’23” – Lat. N: 38°09’53”
Quota: 110 m
Sviluppo Complessivo: 30 m
La grotta si apre ai piedi della falesia del Bosco Vecchio, tra la valle del Porco e la Roccia dello Schiavo. Il suo ingresso, di forma triangolare, è visibile dalla strada della favorita verso Mondello dalla quale dista circa 300 metri ad est.
La cavità è di origine marina ed è stata chiusa con grate e cancello per tutelare le incisioni parietali paleolitiche, da incisioni medioevali e da iscrizioni puniche.
Furono scoperte nel 1954 e quella più antica si deve a Giovanni Cusimano che fu protagonista per le incisioni dell’Addaura.
Lo stesso Cusimano raccontò, all’epoca dello scavo del deposito, deluso ed irritato  che il grande clamore suscitato dalla “sua” scoperta dell’Addaura non gli aveva fruttato né gloria né denaro mentre altri si erano arricchiti con articoli e fotografie, decise di porsi alla caccia di altre figure per ricavarvi soprattutto il riconoscimento di scopritore che non aveva mai avuto prima.
La caccia durò oltre un anno e finalmente un giorno nella Grotta Niscemi, prospicente il Parco della Favorita, trovò quello che con grande tenacia aveva cercato.
Dietro molte promesse il Cusimano cedette la notizia al giornalista Mauro De mauro che la pubblicò sulla Gazzetta del Sud di Messina il 23 dicembre 1954.
Il De Mauro dopo un racconto un po’ fantasioso descrisse il rinvenimento:
Animali in corsa, forse bisonti, muniti di un solo corno, lunghissimo, ondulato, al centro della fronte; altri animali dal corpo meno grosso, e sforniti di corno; sembrano cavalli o asinelli, disegnati dalla mano malsicura di un bambino; e infine il lato destro del pannello è occupato da disegni che ci hanno dato un emozione nuova: sono imbarcazioni, goffe, rudimentali, nelle quali l’assenza di figure umane rende difficile la valutazione delle proporzioni. Non manca una rudimentale velatura, costituita da un intrico di rametti e forse di giunchi, e ogni imbarcazione è dotata di una o più insegne, sorta di  tabelle rigide, divise in sei bande verticali. Tutte  le imbarcazioni portano a prua un palo sporgente, a guisa di rostro”.
La descrizione delle figure è aderente e da questa descrizione si evince che anche le incisioni zoomorfe furono scoperte dal Cusimano. Una avvenimento che comunque non fu riportato nei giornali.
Della scoperta si occupò subito la prof. J. Bovio Marconi, allora Soprintendente alle Antichità, la quale, dopo due saggi di scavo nel deposito esterno, pubblicò i risultati.
La studiosa assegnò le figure zoomorfe e l’industria al Paleolitico superiore; le imbarcazioni le ritenne disegni puerili: tre moderne ed una recente.
Le incisioni di cui si diede notizia sono tracciate su una placca rocciosa, levigata dal mare, sulla parete sinistra a circa 2 m dall’ingresso. Qui il Cusimano rinvenne tre figure di bovidi, due di equidi e tre imbarcazioni; una quarta imbarcazione è graffita sulla parete opposta; una piccola figura di cerbiatto è incisa all’ingresso, in piena luce sullo stipite.













La Bovio Marconi descrisse le figure zoomorfe; “ i graffiti preistorici occupano il tratto della
parete sud a fianco dell’ingresso più grande, a 2,50 m dal piano di calpestio odierno, per una 
superficie di non più che 48 cmq. Rappresentano due equini e tre bovini, dei quali uno 
parzialmente abbozzato nella parte anteriore. Come si vede nella figura che riproduce il 
disegno ricalcato sull’originale, i tre bovini si seguono l’uno all’altro in linea orizzontale, 
mentre i due equidi sono tracciati obliquamente. I contorni sono incisi con solco piuttosto 
largo, specialmente i bovidi, o meglio alcune parti, poiché l’insieme varia anche nello stesso 
animale. Particolari interni scarseggiano, tuttavia se ne notano alcuni che solitamente 
mancano del tutto nell’arte parietale della Sicilia: gli occhi e le criniere negli equini, il 
pelame nella coda nei bovidi.
“Lo stile naturalistico è piuttosto evoluto, nonostante che il disegno sia alquanto tirato via e 
presenti, specie negli equini, tratti rigidi che rendono le forme dure e stechite. Ma zampe 
corna orecchie sono rappresentate in esatta prospettiva e gli animali sono vivi nel loro 
movimento. Quello stesso mezzo animale, appena abbozzato, ha più carattere e vitalità, come 
i due completi che seguono. Da notare il disegno dei corni del terzo bovino, ambedue 
tracciati con linee doppie, quello in primo piano rigonfio all’attacco che nasce sulla linea
del profilo, però, anzicchè sul lato della fronte. Curioso è l’aspetto dei bovini, che sembra
una contaminazione delle forme del vero e proprio Bos e del bisonte.


Il corpo massiccio pesa su quattro zampe cortissime, ancora più corte di quelle dei pesanti
tori della grotta del Genovese di Levanzo; e la groppa si solleva con una forte gibbosità, 
specialmente nel secondo bovino, al di sopra della testa, con una linea che è più del 
bisonte, Ma la testa, piccola, sporge al di fuori del petto che è rientrante, come nel Bos, privo 
della pesante gibbosità e del pellame del bisonte. Non so se si possa pensare ad una razza 
particolare, dato che tra le rappresentazioni preistoriche di bovini, in Sicilia, Levanzo e 
Addaura, non vi è nulla di simile. Sembra piuttosto che la mano che tracciò gli animali con 
linea facile e scorrevole, non vi sono linee spezzate o pentimenti, fosse adusa a disegnare 
bisonti e si lasciasse fuorviare dall’abitudine, pur volendo rappresentare un animale diverso. 
Insomma vi si potrebbe vedere una maniera stilistica. Ma poiché finora non si sono trovate in
Sicilia né rappresentazioni, né resti di bisonti, bisognerebbe ammettere l’intervento di un 
artista estraneo alla regione, del nord, delle regioni cioè dove abbondanti erano i bisonti e 
spesso rappresentati, ciò che allo stato delle conoscenze sarebbe troppo azzardato. 
Comunque pur non trovando precisi rapporti con manifestazioni d’arte rupestre del nord, le 
affinità generiche richiamano l’arte francocantabrica. E a questa fa pensare anche la 
rappresentazione delle frecce sul corpo del terzo bovino. Purtroppo guasti della superficie 
della roccia non permettono di conoscere la forma precisa della punta, ma la loro presenza è 
decisiva per l’interpretazione dei graffiti.
Parimenti il disegno degli equini lascia perplessi circa l’interpretazione degli animali. Le 
zampe snelle, anche troppo e le brevi orecchie fanno pensare al cavallo. Ma il muso è tozzo, 
il ventre rigonfio alle stremità vicino alle zampe posteriori, la groppa piatta e l’incollatura 
rigida senza slancio elegante, sopporta più che ergere la testa, bassa al modo asinino. E’ un 
cavallo selvaggio o un asino ? o quell’hidrantino quaternario di cui si sono trovati i denti nel 
deposito archeologico ? o dobbiamo piuttosto attribuire ad imperizia dell’incisore quella 
testa dall’aria dimessa e dalla magra e rigida incollatura così lontana dalla vivacità delle 
splendide teste erette di cavalli di alcune grotte francesi e spagnole ?Tuttavia questo non 
direi, perché il disegno, seppure non perfetto, ha del carattere; da notare la breve criniera a 
spazzola e le orecchie leggermente curve in avanti del primo equino. Questa testa ricorda 
certi tratti di alcuni teste di equini della grotta di Niaux.
Altri graffiti, segni figura parziale cerbiatto, si vedono sulla parete di lato all’ingresso, in 
piena luce. il cerbiatto, molto piccolo, è rappresentato in rapida corsa, con un muso 
estremamente aguzzo e le zampe dalle estremità indeterminate come quelle degli equini”.

Nel 1978 il Mannino con il prof. Gianfranco Purpura riesplorarono le superfici rocciose della
grotta. Il Purpura sollecitato dalla presenza delle imbarcazioni, lo scrivente interessato alle 
incisioni paleolitiche delle quali aveva iniziato uno studio nel 1963 che lo aveva portato alla 
scoperta di altri graffiti tra i quali due figure zoomorfe.

Per avere buoni risultati d’indagine pulirono le superfici rocciose annerite dal fumo di fuochi 
millenari e recenti nonché dallo scrostamento, nella parte frontale e destra della cavità, di una 
tinteggiatura con latte di calce applicata durante l’ultimo conflitto quando la grotta fu 
stabilmente abitata. Alla pulitura  si fece seguire l’osservazione delle superfici, la 
documentazione grafica e fotografica. Un lavoro abbastanza lungo ed in parte monotono però 
ampiamente ripagato dagli straordinari risultati.
Le imbarcazioni da quattro sono passate a sei… “i disegni, tracciati in maniera assai 
rudimentale e con errato senso della prospettiva, al punto che in un caso sono segnati in alto 
anche i remi del lato opposto all’osservatore, sono però ricchi di precisi particolari. 
Ingenuamente gli alberi delle imbarcazioni sono sovente tracciati in prossimità della linea 
della chiglia, come se le fiancate fossero trasparenti. Si ha l’impressione che chi li ha 
tracciati, poco esperto di imbarcazioni, rappresentasse una precisa scena alla quale aveva 
assistito. Non è difficile scorgere in essa l’inseguimento da parte di quattro galee di una nave 
da carico a vela quadrata e dalla specchio di poppa retto, forse una cocca. Le quattro 
imbarcazioni in caccia, infatti, a differenza della prima, sono tutte spinte da remi ed armate
con vele latine. Oltre alla vela sull’albero maestro un fiocco appare sulle prime due.
Numerose bandiere dello stesso tipo a fasce verticali sventolano sulle prime tre. L’ultima
imbarcazione, più bassa di bordo delle altre, sembra priva di bandiere e dotata di una 
copertura a traliccio del settore poppiero, forse il baldacchino. Chiaramente marcate sulle 
galee inseguitrici sono le estremità della prua che terminano con un pronunciato becco. Si 
tratta dei caratteristici corti rostri delle galee, posti in alto sulla linea di galleggiamento. La 
prima e la terza imbarcazione si distinguono per la curiosa prominenza della ruota di poppa. 
Un grande timone centrale di foggia arrotondata, tipico delle galere, caratterizza le prime 
tre. Sull’albero maestro della nave mercantile inseguita è mercata la coffa. Un'altra galera è 
raffigurata sulla parete opposta ed appare armata con vela latina sull’albero maestro. Una 
concrezione calcarea non permette di distinguere la poppa, ma sono evidenti le somiglianze 
con l’imbarcazione al centro della scena complessa ( ad esempio il caratteristico rostro e 
l’albero maestro tracciato con tre linee alla stessa maniera).
Intorno al XV – XVI secolo imbarcazioni di questo tipo frequentavano le acque del vicino 
golfo di Mondello ed è suggestivo pensare che un pastore o un cacciatore, che aveva assistito 
dall’alto dei monti alla cattura di una nave da carico da parte di alcune galee, abbia 
rappresentato sulle pareti della grotta durante una veglia notturna una scena alla quale 
aveva personalmente assistito e che aveva colpito la sua immaginazione”.



Le due figure animali scoperte  nel 1963 incise nello stipite sinistro dell’ingresso, a 2 m dal 
piano di calpestio, si trovano su una parete rocciosa colpita dai proiettili sfuggiti alle sagome 
del sottostante poligono di tiro ora abbandonato.  Fori presenti poco più in alto dell’incisione 
del piccolo cerbiatto scoperto nel 1954.
La figura di sinistra riproduce forse un bovide con la testa rivolta a sinistra; si conserva la 
testa triangolare, il collo breve e massiccio impostato su lunghe zampe esili.

La seconda figura, lunga 9 cm, anche questa parziale per guasti della superficie rocciosa, ha
pure il profilo rivolto a sinistra. La testa manca per una lacuna molto antica e ben diversa 
dalle scheggiature dei proiettili. Potrebbe essere stata prodotta anche dallo stesso uomo 
paleolitico. 
In questo caso un vero artista perché quella parte che doveva essere incisa con la testa del 
bovide fu adattata. Infatti quando la luce solare colpisce la parete rocciosa, quel guasto  che si 
annerisce per l’ombra violenta, dà effettivamente l’impressione di trovarsi in presenza della 
testa dell’animale.


L’animale è reso con pochi tratti essenziali che riescono a dare un’immagine di un corpo agile impuntato sulle zampe anteriori, le corna snelle appena curve ci riportano all’immagine dell’antilope del deserto sahariano delle cui corna si adornavano re e capi sacerdoti dell’Antico Egitto.


Altre incisioni occupavano il vano d’ingresso, la cui superficie rocciosa è completamente
rovinata dai proiettili. Rimangono brevi tratti rettilinei su piccoli strati di roccia e non 
facilmente interpretabili.
Le ricerche del 1978 portarono alla scoperta di iscrizioni tracciate in nero identiche ad altre 
trovate nella grotta di Santa Rosalia, nella Montagnola di S. Rosalia e altrove.
C’è pure una piccola iscrizione incisa e disegni pure incisi piuttosto complessi e che allora 
non furono interpretati.
Le iscrizioni in nero sono puniche e furono oggetto di studio da parte del rev. Padre Rocco.

La grotta fu completamente svuotata dal suo deposito antropozoico, in parte affiora la roccia e
ciò che resta è rimescolato e di nessun valore archeologico.
La Soprintendenza per proteggere le incisioni provvide alla chiusura della cavità  con una 
grata ed un cancello nell’ingresso più ampio, interrando il piccolo ingresso sulla destra. Per 
agevolare la visione delle incisioni, il piano di calpestio è stato sollevato  con pietrisco 
ricoperto di terriccio.
L’altezza delle incisioni dal piano di calpestio è ora inferiore di 80 cm rispetto a quella resa 
nota in occasione della loro scoperta.
Lo svuotamento della cavità è notevole, quasi uguale all’intera cubatura della grotta. Lembi 
di deposito archeologico, indubbiamente Paleolitico, si trovano numerosi sulle pareti ad una 
altezza di 1 – 1,50 m dall’attuale piano di calpestio. Più in basso subentra la terra rossa 
concrezionata, assolutamente sterile, fino al fondo roccioso.
Alla fine del Paleolitico il riempimento doveva raggiungere un altezza tale da rendere molto 
probabilmente la grotta inabitabile. Le incisioni dovevano essere ricoperte ed il cunicolo 
interno doveva essere inaccessibile.


In un momento non imprecisato,  del quale le iscrizioni puniche ci forniscono in ogni caso
un’idea, il deposito venne piano piano asportato sino a scomparire del tutto.

Così si doveva presentare il deposito nel 1954 quando la Soprintendenza decise di compiere
dei sondaggi, furono scelte infatti due aree esterne.
Nel Saggio 1, fu aperta una trincea di (1 x 2,50) m davanti all’ingresso della grotta con il lato 
più lungo verso valle. Lo scavo fu fermato alla profondità di 0,90 m per la presenza di grosse 
frane. Purtroppo si ignorano i rapporti tra il deposito e le incisioni. A memoria possiamo dire
che la distanza tra il centro della trincea ed il pannello con le incisioni era di circa 5 m.
Nulla possiamo dire riguardo l’altimetria.
I risultati furono piuttosto deludenti. Il deposito archeologico in posto si trovò alla profondità 
di 40 cm.
Lo scavo fu eseguito con tagli di 10 cm in un terriccio sempre più consistente e più rosso per 
depositi di ossido di ferro. Si rinvennero, scrive la Bovio Marconi, “gusci di molluschi per lo 
più terrestri, fra cui la comune Helix e la Rumina decollata, di marini solo due “dentalis”, 
ossa animali spezzate e scheggiate, denti di Equus hidrumtimus. Bos primigenius, cervidi per 
tutto il desposito, Sus scrofa sp. Solo nel IV taglio fra cm 70 – 80, dove s’è trovato anche un 
frammento di ocra rossa”.
“L’industria litica in quarzite e selce è la solita industria del Paleolitico superiore siciliano, 
con forma poco accurate”.
Saggio N. 2: fu aperta una trincea di (2,50 x 2,10)m tra i due ingressi della grotta e scavata 
fino ad 1 m di profondità. Lo scavo fu arrestato per la presenza di un enorme masso sotto il 
quale proseguiva però il deposito archeologico.
Saggio N. 2bis. È un allargamento del precedente, di (1,20 x 3,50)m, fu raggiunta la 
profondità di 2 m. nel rapporto la Marconi unifica i risultati dei due saggi. Lo scavo fu 
eseguito con tagli di 10 m, tranne il primo di 20 cm e l’ultimo di 50 cm.
Il deposito si presentò sconvolto nei primi 30 cm, per la presenza di reperti cronologicamente 
lontani (punte a dorso abbattuto, ossidiana, frammenti di terracotta ad impasto).
La terra prima sciolta e poco scura via via diviene compatta e si scurisce; dopo 70 cm 
incomincia ad arrossarsi; dopo 1,20 m è rossa, sabbiosa e molto compatta.
I reperti animali sono così suddivisi: i molluschi terrestri iniziano alla profondità di 1,10 m, 
crescono nei tagli più alti con massimi tra 60-40 cm, decrescono verso la superficie; i 
molluschi marini compaiono alla profondità 1,40 m, raggiungono la massima quantità tra cm 
90-80, poi decrescono; le ossa di animali, in ordine di abbondanza, cervidi, equidi e bovidi, 
seguono la stessa curva dei molluschi marini con debole inizio dalla profondità di 2 m;
eguale andamento per le tracce di carbone molto abbondanti tra cm 90-80.
Alla profondità di 1,40 m si rinvenne “un raro elemento del mare freddo siciliano un guscio 
di ciprina islandica”.
L’industria litica, di quarzite ma soprattutto di selce, per la quantità ricalca la curva dei 
molluschi marini dei quali l’uomo preistorico si cibava largamente; inizia a 1,30 m di 
profondità
Da quanto esposto si desume che la massima frequentazione della cavità è registrata nel 
livello di 90-80 cm.
Purtroppo, per le croniche deficienze, non furono sfruttati i carboni di un focolare rinvenuto 
in questo strato per determinare al C14 la datazione assoluta.
Il deposito in posto nel quale è certa la presenza umana ha lo spessore di cm 90 ed è quanto 
resta di un deposito di gran lunga maggiore sia Paleolitico che a ceramica.
L’industria della Grotta Niscemi per quanto ha rilevato soprattutto il Saggio N. 2 è piuttosto 
omogenea nei vari tagli, di fattura piuttosto scadente e rientra nella facies siciliana del 
paleolitico Superiore.
Si trovano lame, lamette, punte, raschiatoi, bulini e microbulini 


Grotta Niscemi – Incisione di cerbiatto in rapida corsa





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Grotta Della  Diaclasi
Dati di Catasto
SI PA n. 73
Località: Viale Regina Margherita
Tavoletta: 249 II N.E. Palermo
Long. E: 0°53’04” – Lat. N.: 38°10’42”
Quota: 70 m
Sviluppo; 11 m


Il piano di calpestio è ingombro di frane e detriti tuttavia fra gli interstizi dei massi, non
sempre raggiungibili con una mano, si scorgono frammenti ad impasto preistorici molto 
minuti il cui aspetto fa pensare alla seconda metà dell’Eneolitico.


Grotta Diaclasi – Pianta e profilo

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Grotta Della  Civetta
Dati di Catasto
SI PA n. 71
Località: Viale Regina Margherita
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E: 0°53’00” – Lat. N: 38°10’57”
Quota: 75 m
Sviluppo: 10 m
Cavità posta nella parete della falesia a circa 10 metri dal piano di campagna, poco a Nord
del Canalone della Pietraia.
Cavità di origine marina riempita di rozze formazioni calcaree, di nessun interesse.

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Grotta Del  Laghetto
Dati di Catasto
SI  PA n. 70
Località: Viale Regina Margherita
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E: 0°53’00” _ lat. N: 38°11’02”
Quota: 70 m
Sviluppo: 70 m
La cavità s’apre ai piedi della falesia.
È di origine marina e la sua morfologia ne è un tipico esempio. Sul suolo affiora la roccia e
dunque nulla rimane d’interesse archeologico che invece va ricercato nel “talus” della
grotta  dove si raccolgono frammenti di terracotta ad impasto di sicura età preistorica ed 
utensili e frammenti di ossidiana, selce e quarzite. Quest’ultimi attribuibili soprattutto al 
Paleolitico Superiore.

Grotta del Laghetto
Pianta – Sezioni Trasversali e Longitudinale

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Fessura (Valdesi)
Dati di Catasto
SI  PA n.75
Nome Locale: Gruttignuni
Altri Nomi : Fessura
Località: Pendici Settenrionali del Pizzo san Pantaleo
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E: 0°53’02” – Lat. N.:38°11’21”
Quota: 50 m
Sviluppo: 9 m
La cavità si apre quasi al centro della parete strapiombante tra lo Spigolo di Valdesi ed il
piccolo canalone della Montagnola.

Fessura – Pianta e sezione longitudinale

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Grotta Della Finestrella
Dati di catasto
SI  PA n. 69
Nome Locale: I Grutti
Altri Nomi: Grotta della Finestrella
Località: Pendici Settenrionali del Piano San Pantaleo
Long.E.: 0°54’04” – Lat. N. :38°11’21”
Quota: 55 m
Sviluppo: 55 m
La grotta si apre sul fondo di una nicchia, qualche metro  sul piano di campagna tra il piccolo
canalone della Montagnola e lo spigolo di Valdesi.
Si tratta di due cunicoli quasi dello stesso sviluppo, privi di deposito, entrambi di natura 
marina come testimoniano serie di fori di litodomi.

Grotta della Finestrella
Pianta e sezione longitudinale

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Grotta della Colonnina
Dati di Catasto
SI  PA n.68
Nome Locale: Grutta di Ciavareddi
Altri Nomi: Grotta della Colonnina
Località: Pendici Settentrionali del Piano San Pantaleo
Tavoletta: 249 I. S.E. Mondello
Long. E.: 0°53’05” – Lat. N.: 38°11’21”
Quota: 55 m
Sviluppo: 6 m
Si apre in prossimità del piccolo canalone della Montagnola.
Nella parete di fondo, sulla destra, resti di una breccia che testimonia un riempimento ormai
del tutto smantellato. In essa vi raccogliemmo, una trentina d’anni fa, una punta a “dorso
abbattuto”, tipica del paleolitico Superiore Siciliano.


Grotta della Colonnina
Pianta e sezione longitudinale

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Grotta del Vallone La  Montagnola
Dati di Catasto
SI  PA n. 67
Nome Locale: Grotta delle Pecore
Altri nomi: Grotta del vallone la Montagnola
Località: Pendici Settentrionali del Pizzo San Pantaleo
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E: 0°53’06” – Lat. N.: 38°11’21”
Quota: 55 m
Sviluppo: 7 m
Si apre quasi al piede sinistro del piccolo canalone della Montagnola, dunque a destra di chi lo
guarda.
Nell’interno della cavità affiora la roccia ed è quindi priva di deposito antropozoico che pure 
dovette riempirla come si può dedurre da alcune piccole brecce. Una trentina d’anni fa, nel 
talus, si potevano osservare frammenti di utensili di selce e quarzite di tipo Paleolitico 
Superiore e frammenti di anfore puniche. Quest’ultime certamente legate ad una postazione 
militare a difesa del passo. Ora una copertura di materiali precipitati durante la costruzione
dei tornanti della nuova strada per il santuario ed una fitta selva di rovi ed altra vegetazione 
precludono ogni osservazione.

Grotta del Vallone
Pianta e sezione longitudinale

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8. VILLAGGIO GIUSINO
L’area pedemontana del Monte Pellegrino, la parte occidentale e cioè a Nord del Parco della
Favorita, fu sottoposta ad interventi meccanici con la realizzazione di terrazzamenti per la 
coltivazione di garofani. Interventi che furono realizzati nel 1950. Il sig. Ronaldo Laganà 
segnalò al prof. Giovanni Mannino il rinvenimento di frammenti fittili, in grande quantità e 
sparsi nel territorio sicuramente a causa dell’intervento dei mezzi meccanici. Il prof. Mannino 
fece un sopralluogo e rinvenne il fondo di una capanna  sul quale vennero raccolti
frammenti di un pithos.
Un villaggio della media età del Bronzo ? opportuni scavi potrebbero portate alla luce altre
capanne o sono andate completamente distrutte ?




Villaggio Giusino – fondo della capanna

Pithos ricostruito e frammenti fittili eneolitici
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9. LA NECROPOLI  VALDESI
Il nome fu introdotto dall’archeologo Emanuele Salinas che fu il primo a dare notizia della
scoperta dell’importante necropoli. Si trova nell’ex località Calvello, un appellativo in uso 
nello scorso secolo, tra Viale Regina Margherita, il Parco della Favorita e Valdesi. Le tombe 
vennero alla luce nel 1897 durante degli sbancamenti per prelevare terra necessaria per le 
bonifiche delle paludi Valdesi – Mondello.
Il Salinas era un grande archeologo e si soffermò  sulla sezione del terreno, dallo spessore di
– 6 m, praticata dagli sbancamenti e nell’alternanza di strati di terra con più o meno
pietrisco e pietre.
Nelle pietre vi riconosce “centinaia d’asce, scalpelli, punte di freccia ed altri manufatti di 
dimensioni alle volte colossali e di tipo eminentemente paleolitico..”, sbancamenti effettuati 
in località “Valdesi” e tutt’intorno il monte.
Il villaggio preistorico di Valdesi si estende subito  a Nord della Necropoli, verso il mare, 
come confermano i pochissimi frammenti raccolti di vasellame piuttosto eroso ed un maggior 
numero pezzi di “intonaco di capanna”. Materiale custodito al Museo Archeologico di 
Palermo.
Tutti i materiali posseduti dal Museo Archeologico provenienti dalla necropoli di Valdesi “ 
sono stati acquistati dagli operai addetti alla bonifica; si tratta, secondo l’uso del tempo, di 
materiale scelto. Sono reperti tipologicamente diversi con datazione diversa. Parte 
dell’industria litica è di tipo Paleolitico, probabilmente proveniente dalla vicina Grotta del 
Laghetto. Il rimanente materiale, databile all’Eneolitico, è distinguibile fra necropoli ed 
abitato. non è facile fare valutazioni per future ricerche, gli indizi affioranti non sono molti. 
Percorrendo più volte la fascia pedemontana ho ricevuto l’impressione di una certa 
dispersione delle capanne e queste le ritengo piuttosto profonde per il rapido accumularsi
del detrito di falda”.


“ Lo scavo verticale affiancato da ricca vegetazione è un fossato anticarro
realizzato nel 1942. Le tombe “a forno” con pozzetto di accesso, sono
scavate nel detrito di falda a circa 2,50




Necropoli di Valdesi 1897 – foto di Emanuele Salinas

Un villaggio preistorico era presenta nel quartiere oggi chiamato dei “Valdesi” ?
Un villaggio posto a nord della Via “Erecta”, in una zona pianeggiante prospiciente il mare ed
ancora non soggetta alla presenza del Pantano di Mondello-Partanna che gli Arabi invece
trovarono tanto da chiamare la zona con il termine di: “Marsa ‘at Tin” (Porto di fango).

Il Viale Venere è il prolungamento della Via Monte Ercta dopo l’incrocio con il Viale Regina
Martgherita.
Nel giugno 2016, durante la sorveglianza archeologica per le messa in opera della rete di alta 
tensione,  furono rinvenute nel Viale Venere, tra i numeri civici 9 e 11, tre tombe a cella 
ipogeica che erano procedute da un pozzetto (T1, T2, T3). Le tombe erano scavate nella 
roccia tenera, sabbiosa, bianca e molto friabile. La Soprintendenza effettuò subito uno scavo 
archeologico all’interno della trincea larga 1,50 m e realizzata per la posa dei cavi elettrici.




Localizzazione dettagliata delle tombe rinvenute in Viale Venere

Le celle hanno una pianta sub-circolare del diametro fra 1,5 – 2 m, con altezza di circa 1 m e
sono ad una quota rispetto al piano stradale (Viale Venere) di -1,70 m.
Si tratta di deposizioni multiple i cui resti sono stati trovati in pessime condizioni di 
conservazione e che furono inviati nei laboratori per le relative analisi radiocarboniche e 
osteologiche (analisi che furono fatte nel 2016, non so con quali risultati).

Viale Venere – Tomba n. 1

Nel 1970, in Via Marte n. 2, distante appena cento metri in linea d’area dal ritrovamento di 
Viale venere, venne individuata una tomba simile a quelle su descritte.
Esaminando le strutture funerarie e i relativi corredi, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di una 
vasta necropoli databile dall’Eneolitico Antico.
Tomba N. 1 – presenta un pozzetto d’accesso verticale a SW della cella che era stata tagliata 
da uno scavo precedente sempre per la posa di una condotta elettrica. Il corredo che fu 
rinvenuto, disposto a Se e secondo gli archeologici attribuibile alla facies di “San Cono – 
Piano Notaro”, era costituito da una oletta a corpo ovoidale integra; un olla a corpo globulare 
e orlo svasato, mancante di qualche pezzo; due olle con orlo svasato di cui si conservano solo 
alcuni frammenti; una scodella tronco-conica, mancante di alcuni pezzi; una tazza con ansa a 
nastro insellata, integra, una conchiglia (arctica  Islandica?).  Nel pozzetto, fra il pietrame fu 
anche rinvenuta una grossa scheggia in quarzite con ritocco laterale destro. Secondo gli 
archeologici si trattava di uno strumento di scavo, come quelli che sono stati rinvenuti in 
diverse necropoli della Sicilia Occidentale.

Tomba 1: rilievo sezione e pianta (rilievo di Paola Vaccarello)


Tomba 1: elementi del corredo funerario in corso di scavo

Tomba n. 1 -  Apertura del pozzetto verso la cella

Tombe N. 2 – 3
Le tombe 2 e 3 mancano in parte dei pozzetti a causa dei lavori per l’apertura della trincea 
mentre le celle erano integre al momento della scoperta.
A Tomba N. 2, con pozzetto d’accesso verticale a NE della cella e tangente a quello della 
Tomba N. 3. Il corredo era collocato a SE e fu anch’esso attribuito alla facies di “San Cono - 
Piano Notaro”. Era costituito da una tazza carenata con decorazione excisa riempita di ocra 
rossa e priva dell’ansa; una tazza a corpo ovoidale priva dell’ansa; un olla globulare con orlo 
leggermente svasato, integra.
Completavano il corredo diverse conchiglie e una lastra litica utilizzata probabilmente come 
poggiatesta, con tracce evidenti di ocra rossa. Alcune ossa lunghe si trovavano collocate a 
NW, nei pressi dell’imboccatura della cella e presentavano anche loro evidenti tracce di ocra 
rossa.

Tomba N. 2 – Elementi del corredo funerario

Tomba N. 3
Pozzetto d’accesso a piano inclinato a W della cella, tangente a al pozzetto della Tomba N. 2, 
e chiuso da due lastre litiche, poste di taglio, una alla sommità e l’altra alla base.
Il corredo era collocato ad Ovest, davanti all’imboccatura della cella e attribuito alla stessa 
facies delle due precedenti tombe. Un corredo costituito da: due olle globulari con orlo 
leggermente svasato, integre. In questa tomba si è riscontrato il peggiore stato di 
conservazione dei resti umani.  C’era una deposizione in giacitura supina di cui era rimasta 
l’impronta di “polvere” d’ossa e di due ossa lunghe, collocate nei pressi dell’ingresso a Sud, 
fra l’impronta dello scheletro e la parete. Un’altra caratteristica di questa cella era la presenza 
di una banchina ricavata lungo la parete verso Nord.
 In questa zona, quindi, come abbiamo visto anche nei precedenti argomenti, oltre alla tomba 
di Via Marte, sono presenti anche le necropoli e il villaggio (?) di Valdesi, posto nella fascia 
pedemontana fra il Viale Regina Margherita, e Monte Pellegrino, al limite del Parco della 
Favorita e il villaggio del Giusino.

Tomba N. 3 – Elementi del Corredo funerario

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Monte Pellegrino (RNO) - "Il Promontorio più bello al mondo...."
Parte Prima: Il castello Utveggio - Le Postazioni Contraeree - I Serbatoi della Marina Militare  (ing. Pier Luigi Nervi) - Le "Casermette"








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