MONTE PELLEGRINO (RNO)(Palermo) – “Il Promontorio più bello al mondo” – IV Parte – il Versante Nord





Indice
Il Versante Nord
1.      Punta Praiola – Problematiche Ambientali -  Il “Cristo degli Abissi” ;
2.      Addaura – Il fallito attentato al Giudice Giovanni Falcone da parte della mafia e dello Stato;
3.      Le Grotte:
a)      Grotta Perciata;
b)      Grotta Addaura Caprara : I Resti di un Leone; Le Concrezioni Calcaree; I Rifiuti;
c)    Grotta dei Bovidi;
d)    Grotta dell'Eremita; 
e)      La Grotticina;
f)     La Grotticina del Cantiere dell’Addaura;
g)      Grotticina di Celesi;
h)       Grotta delle Incisioni :  Monte Pellegrino (RNO) – La Grotta delle Incisioni     
 https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2019/08/monte-pellegrino-rnopa-la-grotta-delle.html
4.      La  Montagnola
Le Grotte – Necropoli Rupestre – Lo Zubbio della Montagnola



Il versante settentrionale del Monte Pellegrino è il terzo per estensione. Lungo circa 3 km si estende dalla Punta dei Valdesi ad ovest fino alla Punta Priola ad est ed occupa tutta la Contrada Addaura.
Fino agli anni ’50 era uno scenario ambientale di insuperabile bellezza purtroppo cancellato dall’anarchia edilizia.





1.      Punta Praiola
Problematiche Ambientali – Il “Cristo degli Abissi” -

Mondello – Punta Valdesi – Punta Priola


La zona di Punta Priola fu colpita da una forte speculazione edilizia con la costruzione di numerosi edifici abusivi.

Solo dopo tantissime lotte e proteste delle varie Associazioni Ambientaliste e Civiche, i fabbricati furono demoliti. L’Area fu consegnata dal Demanio al Comune di Palermo per la realizzazione di piste ciclabili e aree a verde.
Ma c’era un altro aspetto inquietante che deturpava Punta Priola….la discarica.. Un enorme quantitativo di rifiuti d’ogni genere tanto che fu necessario avviare un progetto che prese il nome di “Riqualificazione di Punta Priola”. Moltissime associazioni si riunirono per pulire uno dei punti panoramici più belli della Costa di Palermo.
Nel 2017 fu avviata una pulizia dell’ambiente ma a distanza di quasi un anno il luogo per la presenza di rifiuti era completamente in degrado.
Ad agosto 2018 quindi un nuovo intervento promosso sempre dalle Associazioni Ambientalistiche e Civiche. Una vasta tipologia di rifiuti.. vetro, plastica, carta e anche rifiuti ingombranti come materassi, copertoni, pannelli e contenitori di latta. Fu anche individuata una discarica abusiva di mangimi per animali… assurdo. Una pulizia che ha visto anche la partecipazioni di numerosi volontari tutti spinti da un unico obiettivo: “restituire la zona di elevato interesse naturalistico alla sua naturale funzione, garantendone un autentica fruibilità per la cittadinanza”.





“Il Cristo degli Abissi”
Il 25 Maggio 2014 fu collocato in fondo al mare di Punta Priola, il “ Cristo degli Abissi”.
La statua, un bellissimo Cristo con le braccia aperte in segno d’invocazione, fu donata dal “Rotary Club Terra del Sole” di Palermo alla città.  Fu posta dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco ad una profondità di 30 metri al largo di Punta Priola, nelle acque antistanti l’Addaura dopo essere stata benedetta da S. E. il Cardinale Paolo Romeo.


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Prima di parlare degli aspetti geologici ed archeologici dell’Addaura è necessario ricordare il sito perché legato ad un fallito attentato al Giudice Giovanni Falcone. Attentato che precederà la terribile strage in cui lo stesso giudice, la moglie e gli agenti della scorta perirono per mano della mafia e dello Stato.

2.  Addaura

Il fallito attentato al Giudice Giovanni Falcone da parte della mafia e dello Stato





Palermo.. 21 giugno 1989, Lungomare Cristoforo Colombo n. 2731 di Mondello, in una villa sul mare presa in affitto dal Giudice Giovanni Falcone.
Il Giudice ha due ospiti cioè due magistrati svizzeri, Carla Del Ponte e Claudio Lehmann. Una riunione investigativa legata al riciclaggio di denaro sporco…. “Pizza Connection”… un lavoro investigativo difficile dove in precedenza la magistratura di Palermo aveva collaborato con FBI.
Le indagini sono concentrate sulla figura di Oliviero Tognoli, il riciclatore che per prima aveva confermato l’implicazione di Bruno Contrada, alto funzionario del SISDE. Il Contrada fu in seguito condanno ed è oggi un uomo libero dopo aver scontato la sua pena per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Durante una ricognizione nella villa, gli agenti di scorta del  giudice Falcone (Lore, Di Maria, Lo Piccolo e Lindiri) rinvennero una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera tipo “Solana” ed una borsa sportiva contenente una cassetta metallica con numerosi candelotti di esplosivo innescato da due detonatori elettrici collegati ad un congegno elettro-meccanico comandato da un apparecchiatura radio-ricevente.
Sul luogo del rinvenimento dell’esplosivo fu chiamato, per un suo intervento, l’artificiere dei carabinieri Francesco Tumino. Per impedire l’esplosione della carica radiocomandata, fece esplodere una microcarica per disarticolare il collegamento tra la sostanza esplosiva ed il meccanismo d’innesco prima di aprire la cassetta metallica in cui era stato poi rinvenuto l’esplosivo.  I frammenti furono successivamente recuperati anche attraverso l’impiego di sommozzatori nello specchio di mare antistante la villetta, La particolare collocazione della carica
esplosiva non poneva dubbi.. era diretta alla realizzazione di un attentato nei confronti del magistrato impegnato contro la criminalità organizzata e contro “Cosa Nostra”, quale esponente di punta del  “Pool Antimafia”.
L’artificiere Francesco Tumino distrusse con il suo intervento una delle parti più importanti per le investigazioni e, secondo come riportarono le cronache, fece sparire il timer. Fu condannato nel 1993 per la distruzione delle prove.. incolpò altri colleghi della sparizione, “non sapendo di una telecamera della villa che lo riprendeva mentre occultava l’oggetto”.
Non si sa per quale motivo l’attentato fallì. Per coincidenze, un telecomando caduto in mare o un malfunzionamento del detonatore, oppure come più probabile l’intervento di agenti della Polizia.  Non si sa neanche quale siano stati i gruppi mafiosi che in quel giorni  operarono o stazionarono vicino alla villa.
Il borsone conteneva 58 cartucce di Brixia B5, una combinazione di esplosivi costituita da Semtex H e da candelotti di dinamite pulverulenta nitroglicerinata. Esplosivo che è usato per le estrazioni e che fu utilizzato per la strage al Rapido 904 ed anche nella strage di Via D’Amelio.
La perla dello Stato Italiano fu che il Giudice Falcone fu accusato a più livelli di aver progettato e realizzato il suo mancato attentato.   Il Giudice con grande rispetto e con la sua profonda conoscenza del mondo giudiziario e politico in cui operava  affermò ““Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Gerardo Chiaramonte, allora presidente della Commissione Antimafia, riporterà, in riferimento al fallito attentato, le voci che circolavano nei giorni successivi negli ambienti della DC e del PCI a Palermo:
“ i seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità” !!!!!!!!!




Il giornalista Attilio Bolzoni in un articolo datato 7 maggio 2010  e apparso sul quotidiano “La Repubblica”
rilevò come vent’anni dopo il fallito attentato ci siano tanti lati oscuri e forse un’altra verità legata all’ipotesi di un “mandante di Stato”.
Innanzitutto  la borsa con l’esplosivo fu collocata sugli scogli il 20 giugno del 1989 nella mattinata ed in base alle indagini sulla scena della villa erano presenti due gruppi: uno “a terra” e l’altro “in mare”. Il gruppo “a terra” era formato da mafiosi della famiglia dell’Acquasanta e da uomini dei servizi segreti. L’altro gruppo “in mare” su un canotto (giallo o color arancio” con due uomini a bordo in funzione di sommozzatori).
I due sommozzatori non erano d’appoggio al primo gruppo. Si trovavano sul luogo per evitare che l’esplosivo potesse esplodere.  Lo stesso giornalista affermò che non c’era la certezza sull’identità dei sue sommozzatori ma in base ai sospetti si tratterebbe di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza.
Il sig. Agostino era ufficialmente un agente del commissariato San Lorenzo ma in realtà un “cacciatore di latitanti”. Fu ucciso insieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989,  circa due mesi dopo il fallito attentato all’Addaura. Gli assassini non furono mai scoperti e si dice che anche lo stesso Totò Reina avviò un indagine per sapere chi fossero gli assassini. “Anche lui non riuscì a sapere a nulla” rilevò un pentito, Giavambattista Ferrante. Interessante fu invece la rivelazione del collaboratore di giustizia Oreste Pagano che rilevò il motivo per cui fu ucciso assieme alla moglie: “è stato ucciso perché voleva rilevare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei”.
Le indagini si rilevarono subito difficili e per tanto tempo la Questura di Palermo sembra che abbia seguito una “pista passionale”.
I magistrati di Palermo ascoltarono anche un testimone - un funzionario di polizia - che aveva raccontato di avere ricevuto una confidenza proprio dal giudice Falcone, andato a trovarlo una sera nel suo commissariato: "Questo omicidio l'hanno fatto contro di me e contro di lei". Parlava dell'agente Antonino Agostino.
Il secondo sommozzatore, il sig. Piazza, era un ex agente di Polizia che aveva cominciato a collaborare con il servizi segreti (SISDE) sempre nella ricerca di latitanti.
Emanuele Piazza fu ucciso il 15 marzo 1990.
Sembra che una “talpa” abbia avvisato i mafiosi che il sig. Piazza stava collaborando con i servizi segreti e per questo motivo fu strangolato. Anche in questo caso la Questura di Palermo avviò delle indagini su una “fuga della vittima in Tunisia, in compagnia di una misteriosa donna”.
Due omicidi… due depistaggi,, per quale motivo  e da parte di chi ? Il Piazza e l’Agostino si trovavano effettivamente sul gommone la mattina del fallito attentato a Falcone ?
 Lo scenario è complesso ed anche preoccupante perché sembra di trovarsi in presenza di una parte dello Stato che voleva il Giudice Falcone morto per motivi di potere ed anche economici ed un’altra parte vivo.
Forse ancora oggi si cercano i due misteriosi sommozzatori  i cui identikit furono ricostruiti attraverso le indicazioni dei bagnanti che il 20 giugno 1989 erano nella zona di mare vicino alla villa del giudice Falcone. Identikit che si dovrebbero trovare tra le pagine del fascicolo “Addaura” e che furono riportati dai quotidiani e dalle agenzie di stampa. Identikit che forse non arrivarono mai sul tavolo della magistratura.
Le indagini vere e proprie sembra che siano partite con oltre vent’anni di ritardo… ma non solo…. Sono spariti… uccisi… tanti testimoni dell’Addaura.  Uccisi da chi ?
Paolo Gaeta, un piccolo esponente della borgata dell’Acquasanta che il giorno del fallito attentato aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice. Fu ucciso poco dopo a colpi di pistola e il caso fu archiviato come regolamento di conti tra spacciatori.
Il mafioso Luigi Ilardo, era un informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio e all’ufficiale aveva confidato che “noi sapevamo che a Palermo c'era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino".
Luigi Ilardo fu assassinato qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni.
Nel 2010 ci fu una spietata caccia all’uomo con la faccia da mostro. Qualcuno diceva che si era vicino ad un riconoscimento; altri dicevano che non si sarebbe mai trovato perché morto da anni. Fu aperta una caccia ad altri “agenti dei servizi” legati al boss di Corleone. Uno, in particolare si faceva chiamare  spesso come “Carlo” o “Signor Franco”… un uomo degli apparati che per una ventina d’anni fu a fianco dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino ( Trattativa con lui e con Totò Reina nell’estate del 1992).
Gli apparati di sicurezza all’ombra delle stragi: i servizi sospettati di aver trattato con la mafia e di aver avuto un ruolo attivo negli attentati”.

Un indagine complessa.. con dei condannati, che non vale la pena nemmeno di citare,  nella
Sentenza della Corte di Cassazione sul processo per l’attentato dell’Addaura
del 6 Maggio 2004 (quindici anni dopo l’attentato); nel sito


Il 23 maggio 1992, sabato alle ore 17,56,  lungo l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, 572 chili di esplosivo vengono attivati a distanza.


Un disastro..un progetto allucinante e realizzato con grande fermezza… le tre auto su cui viaggiano il Giudice Giovanni Falcone con la moglie, e i tre agenti di scorta, saltano in aria.
Perdono la vita: il Magistrato; la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Riescono a sopravvivere all’attentato gli agenti: Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.



Si realizzava una delle pagine più cruente e sanguinose della storia italiana.
Nella strada colpita dall’attentato tanti crateri con dentro le macchine e le povere vittime. Crateri o buchi come quelli lasciate dalle indagini con tante ombre e depistaggi. In quei crateri, come disse una giornalista, ci siamo anche noi, quei siciliani onesti e retti, che mai avrebbero fatto saltare in aria dei servitori della Legalità, mariti, moglie, padri di famiglia. 

Falcone non fu ucciso soltanto quel giorno, lo uccisero anche gli attacchi, i silenzi, le delegittimazioni perpetrati negli anni.
Fu ucciso quando venne accusato di minare l’indipendenza della magistratura, quando fu accusato di nascondere nei cassetti “documenti su personaggi scomodi, in particolare politici”.
Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi

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1.      Le Grotte
In questo versante non sono numerose le grotte ma si trovano quelle che hanno sempre destato interesse negli storici e negli studiosi sia per la loro bellezza che per l’immenso valore archeologico legato alla preistoria ( la Grotta Addaura Caprara in particolare).
Ad eccezione della grotta Celesi, che occupa l’omonima Punta e che è posta al piede orientale della Montagnola, le altre grotte si trovano nella parte orientale fra la “Scaletta della Perciata” e la Crestina di Priola che sovrasta l’omonima punta. Grotte che sono divise in gruppi con la numerazione che inizia da sinistra:
Gruppo I – Grotta dell’Addaura Grande o Grotta Perciata; un vasto antro o riparo con cavità interne;
Gruppo II – La Gortta Addaura Caprara che è un vasto riparo nel quale si aprono il “Pirtusu  di sciusciu” ed il “pirtusu di cani”.  Sono comunicanti tra di loro e costituiscono una grotta carsica che comunemente è detta Addaura. Sul prolungamento della parete destra del riparo si aprono la Grotta dei Bovidi e la Grotta dell’Eremita.
Gruppo III - Si tratta di cavità basse e contrassegnate da un “bel solco del battente”, nel quale si apre anche la più famosa delle Addaure sulle cui pareti sono incise figure antropomorfe e zoomorfe di età paleolitica.
Sotto l’aspetto archeologico l’Addaura è una zona poco conosciuta perché le costruzioni intensive e i conseguenti movimenti di terra hanno cancellato, ormai da tempo, le tracce degli antichi insediamenti che ancora non erano stati censiti.
È consuetudine che chi costruisce, anche senza licenza,  scavando nel terreno e trovando dei reperti o tracce di antichi insediamenti, si guarda bene dal denunziare la cosa…  acquisisce i reperti che vende ai “mercanti” d’antiquariato e subito fa sparire o coprire le antiche tracce murarie. Molta gente ha costruito senza le dovute licenze e tantissime importanti tracce del passato sono scomparse per sempre.
Una delle poche testimonianze fu raccolta da V. Giustolisi e consisteva in “tracce di antichi muri e il solito cocciame”. Reperti che furono mesi in luce circa trent’anni fa nel taglio della nuova strada “Valdesi – Monte Pellegrino” poco dopo la curva a gomito che da Valdesi immette nella contrada Addaura in corrispondenza dell’attacco o inizio  della “Scaletta di Valdesi”.
È andata perduta una bellissima linea di riva tirreniana alla quota di 20 -25 m, perforata da nicchie e da piccole grotte, che era ancora visibile circa trent’anni fa sotto la Montagnola verso Nord-Ovest od immediatamente a Monte della Colonia Marina.




a) Grotta Perciata
Dati di Catasto
SI PA n. 86
Nome Locale: Grotta Perciata
Altri Nomi: Addaura Grande, Addaura I,  Grotta Nanni Notarbartolo
Località: Contrada Addaura
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E; 0°54’06” – Lat. N.: 38°11’10”
Quota: 160 m
Sviluppo: 37 m



La cavità si apre sulla parte orientale della Contrada Addaura, il cui fianco destro si prolunga nella parete occidentale della Crestina Priola. È un riparo di ampiezza eccezionale, alto quasi un centinaio di metri, nella cui volta è un camino che sbocca alla sommità del monte, nella Costa Finocchiaro, col nome di “Zubbio della Perciata”.
Il riparo è diviso in due parti da un possente diaframma roccioso. Nella parte sinistra, la più ampia, si aprono due cavità. Nell’angolo sinistro in parete, alla base di un camino, si apre la grotta Notarbartolo. È una lunga faglia i cui lembi sono appena distanziati mediamente un metro che si sviluppa in direzione Nord Sud per circa 60 m con altezze mediamente di quasi 10 m.


La grotta fu esplorata nell’ottobre del 1981 dallo Speleo Gruppo Hercte che eseguì il rilievo e che dedicò la grotta all’ing. Nanni Notarbartolo, probabilmente primo esploratore della cavità nel 1931.
A destra, a pochi metri dal piano di calpestio, si apre un’altra cavità con uno sviluppo di circa 10 m.
Nella parete destra del riparo, più pianeggiante della prima ed a una quota di poco più bassa, si sviluppa una stretta fessura con andamento a zig zag lunga circa 30 m.
“La presenza di notevoli massi e detriti di crollo rende ogni ricerca praticamente impossibile tuttavia, insistendo nelle aree protette da grosse frane, si riuscì ad individuare la presenza di frammenti di terracotta ad impasto, certamente preistorici, ma di età non determinabile. Soltanto un frammento dell’apice di un’ansa sopraelevata appartenente molto probabilmente ad una tazza attingitoio si può inquadrare nella medita età del Bronzo (1450 – 1250 a.C.). Fu rinvenuta anche una piccola ascia, molto appiattita ricavata da un ciottolo”. (Prof. Mannino)

Grotta Addaura Perciata
Apice di un’ansa sopraelevata e piccola ascia ricavata da un ciottolo.
Museo Archeologico di Palermo

Scaletta della Perciata



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b) Grotta  Addaura  Caprara
Dati di Catasto
SI  PA n. 87
Nome Locale:  Grotta Addaura Caprara che comprende “u pirtusu di cani” e “u purtusu du sciusciu”
Altri Nomi: Grotta Addaura, Roiparo Addaura, Addaura II (o Addaura III)
Località: Contrada Addaura
Tavoletta: 249 I S.E. Monreale
Long.E.: 0°54’00” – Lat. N.;38°11’08”
Quota: 90 m
Sviluppo complessivo: 2000 m circa (2 km…..)
    Ramo Principale: 700 m – Diramazioni: 1300 m
 Delle grotte dell’Addaura è la seconda da sinistra dopo l’Addaura I o Perciata, e pure seconda per ampiezza del riparo.
L’interesse archeologico del deposito del riparo, che ha richiamato studiosi da tutto il mondo, è noto dal 1867.
La grotta carsica venne scoperta nel 1931 e manca una relazione in merito alla scoperta da parte degli esperti.
Nel Giornale di Sicilia del 6 settembre 1951, un articolista anonimo, informato probabilmente dal dott. Salerno (esponente del CAI di Palermo) scriveva:
Dirigeva  tecnicamente la spedizione l’ing. Kirner,… Erano tra gli audaci esploratori il valoroso alpinista del settentrione il dr. Alemanni, i  dottori La Rosa, Santalucia, giovani scienziati, i Sigg. Stonner, Moser, Macdonnel, Grazzi, alcune colte signorine, non alle prime armi per grotte, certamente. Presenziava l’interessante battuta il dr Salerno, il quale aveva studiato con i suoi amici tutti i particolari e rappresentava la presidenza del gruppo e del C.A.I.”.
Un lungo articolo in cui è opportuno rilevare i sottotitoli che erano abbastanza eloquenti: “Misteri dell’abisso”; “Oltre la leggenda”; “L’audace spedizione”; ”Una nuova Postumia”; “Narrano gli esploratori”; “Verso l’ignoto”; “Le meraviglie viste”.
Sullo stesso quotidiano l’8 settembre del 1931 con il titolo “Continuano le indagini nella grotta di Monte Pellegrino”  ancora un articolista anonimo concludeva le notizie con “il lavoro esplorativo si è protratto per nove ore consecutive non consentendo le asperità incontrate una più lunga osservazione che avrebbe reso la fatica più improba addirittura insopportabile”.
In calce all’articolo si leggeva: “Il dottor Salerno il quale gentilmente ebbe a fornirci le notizie da noi pubblicate nell’edizione di sabato ci scrive la seguente lettera che volentieri pubblichiamo”.
“ Ill.mo Sig. Direttore, per la verità e perché non si intenda malevolenza ciò che avrà potuto essere omissione involontaria confermo che i primi a dare notizia del cunicolo di accesso al resto delle gallerie sono stati i signori Notarbartolo Emanuele e Leopoldo, Campolattaro Già e Fulvio, D’Alì Pietro, Grassi Luciano, Vivaldi Tini, Rubleo Bruno, Messina Gaspare. Vi sono penetrati prima di noi percorrendo un buono tratto. Ringraziando prof. Salerno Segretario del gruppo”.
Da questa precisazione pubblica si deve dedurre la scoperta della grotta da attribuire ai su menzionati.
Signori che dopo di allora rimasero sconosciuti ed ignorati mentre il merito dell’esplorazione andò invece agli “audaci esploratori” del 1951.
La frenesia di pubblicare la scoperta e le imprese di quel gruppo Speleologico, che nella sua brevissima vita non riuscì ad operare nel contesto di un accurata attività scientifica, per fortuna poi attuata, richiamarono nella grotta orde di vandali che produssero danni considerevoli.
Alle debolezze di alcuni uomini del direttivo, per maggiore sventura, si aggiunsero le frenesie del regime che non furono elencate dal ricercatore, e fu emblematico al riguardo un articolo pubblicato sul Giornale di Sicilia del 10 settembre 1931.
Il Di Salvo che prese parte ad alcune esplorazioni riferì che: “Ai due lati del triangolo di base(dell’antro), quasi a fior di terra, erano noti due buchi, quello di sinistra, guardando all’interno, dai pastori prendeva il nome di “pirtuso di cani” (buco dei cani); l’altro a destra “pirtuso du sciusciu” (buco del soffio); per via di una corrente d’aria che in determinate ore è possibile avvertire”.
“Da questo buco, seguito da angusto cunicolo, un gruppo di animosi penetrò un giorno, nei primi dell’estate del 1931, e addentrandosi ancora per uno stretto dedalo di luoghi e tortuosi e faticosi passaggi a budello, perveniva in una prima sala, e poi in una seconda, tutte ricche di stalattiti e stalagmiti, quanto mai belle e delicate”.
“Specialmente da notare le singolari stalattiti, sottili, traslucide, ammirabili per le forme e la fattura, direi quasi aeree, dirette in tutti i versi nello spazio e che hanno imbarazzato ed imbarazzano ancora un po’ sulla loro genesi, chi le guarda e pensa come mai sia siano formate nella loro giacitura contrastante alle leggi di gravità di una goccia d’acqua liberamente cadente”.
Successive esplorazioni alla primissima, destarono ancora di più l’entusiasmo dei pionieri esploratori, accrebbero le nostre conoscenze attorno allo sviluppo interno della grotta, mostrarono nuove meraviglie di concrezioni, suscitarono dibattiti e l’interesse del pubblico”.
“Una vera e propria esplorazione sistematica però non è stata ancora fatta…”.
Qualche tempo dopo, vicino al “pirtuso di cani” venne praticato uno scavo; non si sa bene se per saggiare il deposito paleontologico della grotta al quale era interessato il Fabiani o per rendere più accessibile il nuovo passaggio.
Il Di Salvo si limitò a dire..” fu poi trovata una nuova via d’accesso più facile a fianco del “buco dei cani” e per decisione dell’Autorità municipale vi fu sistemato un cancello di ferro che permetterà, fino a un certo punto un comodo passaggio”.
La grande pubblicità sulla grotta, come già detto, attirò un gran numero di vandali.
“Il piano dei diamanti”, un piccolo ambiente nella parte terminale  rivestito di cristalli, richiamò nella grotta centinai di ricercatori di quei preziosi cristalli. Avvennero scempi incredibili.. come riferì l’ing Aspe Kirner maledicendo il giorno in cui fu pubblicizzata la scoperta della cavità. I vandali non si fermarono davanti al cancello ma furono arrestati da un servizio di guardie municipali volute, con insistenza sul podestà, dal prof. Ramiro Fabiani, Direttore dell’Istituto di Geologia dell’Università di Palermo.
Ritirate le guardie, distrutto il cancello… iniziò la fine di quel meraviglioso monumento.
Il prof. Mannino visitò la grotta per la prima volta, nell’autunno del 1947. Ancora esisteva qualcosa di bello nei cunicoli laterali che erano di difficile accesso. Alcuni cunicoli ancora inviolati che riuscirono a scoprire dopo ore e giorni di duro lavoro di allargamento con mazzuolo e scalpello, rilevarono formazioni concrezionarie veramente eccezionali per le quali le  espressioni del Di Salvo e del Kirner, che erano sembrate retoriche e roboanti, erano invece perfettamente pertinenti.
Esagerate furono invece le distanze fornite dal Kirner relative al percorso, circa quadruple se non più di quelle reali e pure esagerate le difficoltà attribuite.
L’articolo del Kirner risentì molto delle emozioni della scoperta e delle bellezze riscontrate nella grotta; emozioni che nel caso in questione si potrebbero anche giustificare.
Ovunque si mostrano formazioni stalattitiche di fattura così fine, meravigliosamente delicata, aventi spesso anche grandi dimensioni, che per i loro dettagli e la trasparenza, non hanno riscontro in nessun’altra grotta del mondo; autentiche meraviglie che strappano grida d’entusiasmo all’esploratore di caverne  il più incontentabile e difficile. Abbondano le stalattiti  arborescenti, vetrose; le stalattiti spinose e ramificate; quelle a filamento e quelle..; le cortine trasparenti, i pizzi cristallini, le colonne stalagmitiche più varie, le “cascate”, i drappi chiusi, tubolari, in una gamma cromatica che dall’avorio và talora al rosa e, più verso l’interno, volge al bianco assoluto”.




Pianta del ramo principale e sezioni trasversali


Il Mannino riferì che uno studio della genesi della grotta non fu mai fatto perché  mancava sempre il rilievo.

Il primo rilievo fu iniziato alla fine degli anni ’50 ma rimase fermo alla sola poligonale del ramo principale; tuttavia fu di grande utilità per tentare di spiegare la presenza di uno scheletro completo di un leone delle caverne nella parte terminale della grotta.
Il dr. Enzo Burgio, conservatore del Museo di Geologia dell’Università di Palermo, scoprì delle tavole di una vecchia tesi di laurea tra le quali era presente una pianta di una buona parte del “ramo principale”. Una planimetria eseguita ad “occhio” ma ben fatta. La parte riprodotta  era indicata in 2.200 metri con un’esagerazione quadrupla perché la misura reale era invece di 550 m.
Nei primi anni ’80 il gruppo Speleologico di Palermo eseguì la planimetria di quasi tutto il “ramo principale” e di una delle più interessanti diramazioni rimandando il rilievo altimetrico ad altra data.

Il prof.  Giovanni Mannino integrò il rilievo con alcune sezioni e indico nella sua relazione che “ il fenomeno Addaura era completamente degradato”.
Nella sua relazione affermò anche che “ per la documentazione abbiamo scelto vecchie fotografie ed abbiamo rinunziato a farne di nuove perché con queste avremmo soltanto documentato scempi: fili guida di ogni tipo, frecce varie per colore e direzione, scritte stupide quanto i loro autori, immondizie varie”. (questo nell’anno 1985)
“ per quest’ultime ci corre l’obbligo segnalare l’opera meritoria del giovane Speleoclub Palermo che nell’inverno dello scorso anno (1984) si è prodigato in una ripulitura dell’Addaura”.

I  RESTI DI UN LEONE
Nel 1960 Lucia Pagano, Tibor Kirner e Pippo Morina “scoprivano in una angusta fessura dell’Addaura Caprara dei resti scheletrici animali e subito, cortesemente, ci informavano, accompagnandoci nel luogo del rinvenimento. È superfluo dire che pur conoscendo abbastanza bene la cavità quei resti ci erano sfuggiti”.
Mannino pubblicò la scoperta l’anno successivo sul primo numero della rivista “La Speleologia” sorta sulle ceneri della più interessante e bella “Studia Speleologica” dell’amico prof. Pietro Partezan
“Poiché  nulla di nuovo è sopraggiunto da allora riportiamo integralmente la vecchia notizia”

Grotta Addaura Caprara
Cranio di Felix Leo Spelaea – Foto di G. Mannino

“La  Grotta Addaura Caprara, scavata dal mare entro le strapiombanti pareti settentrionali del Monte Pellegrino a circa una dozzina di chilometri da Palermo, costituisce uno dei fenomeni carsici più interessanti d’Italia e, prima che dei vandali ne iniziassero il sistematico saccheggio, fu sede di spettacolari fenomeni concrezionari, che senza tema di esagerare possiamo definire unici al mondo. In questa grotta alla notevole distanza di 700 m dall’ingresso, sono stati rinvenuti di recente i resti di un leone delle caverne”.
“La scoperta si deve ai soci del Gruppo Speleologico  della Sezione di Palermo del C.A.I., Lucia Pagano, Tibor Kirner e Pippo Morina. Per quanto ci risulta non era stata mai effettuata una scoperta simile in analoghe condizioni. Sarà necessario inquadrare meglio l’enigmatica scoperta avere un idea dello sviluppo della grotta”.
“La grotta è composta di una miriade di cunicoli e budelli divisi da strozzature e piccole sale. In questo labirinto, scavato da un fiume sotterraneo oggi completamente asciutto, è possibile distinguere un “ramo principale” dal quale si dipartono, specialmente dal lato destro, qualche centinaio di cunicoli, alcuni dei quali, per il loro sviluppo e per il fatto che da essi si dipartono a sua volta altri cunicoli e budelli, taluni intercomunicanti ed altri ciechi, costituiscono dei “rami secondari””.
“Al momento attuale, come dicevamo, non esiste un rilievo completo. Da una poligonale rilevata con squadro e rollina lungo il “ ramo principale” possiamo precisare che questo ramo si sviluppa con andamento complessivo da nord a sud per 634 metri. La distanza tra l’ingresso e la fine del ramo, in linea d’aria, è di circa 500 metri. Non conosciamo (per non averlo ancora completamento misurato) lo sviluppo dei restanti rami e cunicoli, ma abbiamo motivo di ritenere che lo sviluppo complessivo della grotta sorpasserà i due chilometri. Con ciò crediamo abbastanza giustificata la nostra affermazione che questa grotta costituisce uno dei più interessanti fenomeni carsici d’Italia.
Non potendo allegare una planimetria del “ramo principale”(ramo che per questa indagine ci riguarda), senza la quale una descrizione risulterebbe non soltanto difficile ma poco comprensibile, ci limiteremo a dare dei rapidi ma esaurienti cenni.
Questo ramo è una continua sequenza, come abbiamo detto, di fessure, cunicoli, salette, piccoli salti e strettoie. La sua conformazione è tale da rendere il percorso molto fatico e da non permettere l’accesso alle persone corpulente. Un uomo di statura normale, del peso di un centinaio di chili, per la sua mole è nell’impossibilità di percorrere l’intero ramo, anche se capace di qualsiasi contorsionismo. Riuscirebbe a precorrere molto faticosamente un breve tratto, e sarebbe costretto inesorabilmente a fermarsi al passaggio della “Colonna” a metri 246 dall’ingresso.
A mano a mano che ci si inoltra le strettoie aumentano ed il percorso si fa sempre più faticoso anche per la presenza di diversi salti. Al “Laghetto”, che segna quasi il termine del ramo, si perviene dopo un’ora di continuo cammino, in verità più che di cammino si deve parlare di contorsioni, di tratti percorsi a ventre a terra, di passaggi nei quali è necessario contenere il respiro. Solo un quarto del tempo impiegato a percorrere il ramo si compie in posizione eretta ma non sempre comoda. A questi disagi va aggiunta la graduale rarefazione dell’aria la quale nella parte terminale è  sensibile e facilmente rilevabile.
I resti sono stati rinvenuti al termine di una diramazione, parte della quale di recente scoperta. La parte nota è di 27 m e la parte nuova è di circa 40 m. La distanza complessiva dall’ingresso all’estrema punta di questo ramo è dunque di 700 m.
Ci asteniamo per il momento dal fornire altri particolari circa l’ubicazione dei resti per due motivi.
In primo luogo perché quel breve tratto di recente scoperta racchiude in qualche punto concrezioni eccentriche veramente eccezionali e non vorremmo che anch’esse subissero la misera fine di milioni di altre concrezioni. Secondariamente, per il fatto che ancora oggi non è stato possibile recuperare tutti i resti per via della loro posizione e del loro precario stato di conservazione.
A ancora una conoscenza è necessaria per terminare di inquadrare il fenomeno; ed è la posizione che presenta il punto, nel quale sono stati rinvenuti i resti, rispetto al monte che lo circonda. Posizione necessari a conoscersi per avanzare, con una certa fondatezza l’ipotesi che l’animale abbia potuto percorrere una via diversa dall’attuale.
L’enigma del rinvenimento dei resti in quel determinato punto non sarà svelato perché per noi è inverosimile che l’animale per raggiungere il luogo in cui morì, abbia potuto percorrere vivo o morto il “ramo principale” o altra ipotetica galleria di rilevante sviluppo e di simile conformazione. Si noti comunque che il ramo principale presentando sin dall’ingresso una pendenza positiva, potè essere percorso dall’animale soltanto da vivo. Non abbiamo trovato dunque la soluzione. Escludiamo decisamente come probabile via di penetrazione il “ramo principale”.
Alla luce di quanto esposto sembra più probabile l’ipotesi della penetrazione per una via verticale o semiverticale, via oggi inesistente ma che una volta, alcune decine di millenni di anni fa, poteva benissimo esistere. Ricordiamo che sulla sommità del Monte alla quota di 370 m è la dolina denominata “Gorgo Rosso” oggi chiusa ma ove una volta si riversavano, come mostrano le levigature delle rocce prossime al centro della dolina, le acque dei piccoli rilievi creando presumibilmente attraverso il lento lavoro di erosione e corrosione la nostra grotta. La distanza tra il Gorgo ed il punto X è di circa 700 m con un dislivello di 250 m.
Il problema più arduo è quello di tentare di capire come l’animale abbia potuto penetrare nell’abitacolo nel quale è stato rinvenuto.
La diramazione, al termine della quale è l’abitacolo, lunga come abbiamo detto circa 70 m, è strettissima e bassa tanto da doversi percorrere in massima parte coricati eseguendo delle contorsioni in passaggi completamente rocciosi. Per comprendere meglio la disagevolezza del percorso basti pensare che il tempo necessario a percorrerlo è di oltre 20 minuti. Nella parte terminale, ove l’aria è sensibilmente rarefatta, il percorso termina con due fessure parallele. La prima è lunga circa 6 m, alta circa 1,50 m e con una larghezza variabile da 50 cm a circa 1 m. La seconda fessura è lunga poco più di 2 m, è alta circa 1 – 1,20 m ed ha una larghezza variabile da 30 cm alla base a 70 cm. L’unico accesso a questa fessura è un passaggio di forma semicircolare del diametro di circa 50 – 60 cm che si diparte dal pavimento sulla destra al termine della precedente fessura.
Per le modestissime dimensioni della fessura, nonché, principalmente, per la posizione del passaggio rispetto alle due fessure, le possibilità di penetrazione sono limitatissime ed in ogni caso precluse a qualsiasi persona di corporatura e statura normali. Possono penetrare nella fessura soltanto persone di corporatura piuttosto minuta e di bassa statura. La maggior parte di noi, di statura normale, prossima a 1,70 m, pur allenati ai più spinti contorsionismi, non è riuscita a vedere nemmeno l’interno della fessura. Soltanto Pagano e Marina sono riusciti, scalzi, uno per volta, a penetrare. Pel rimanente, i più fortunati tra  noi hanno avuto soltanto la possibilità di penetrare, a causa delle lunghezze delle tibie, per due terzi soltanto. Ad ogni modo, supportando gli inevitabili crampi alle gambe, abbiamo avuto egualmente modo di osservare il luogo.
La fessura è completamente chiusa (se ne togliamo due trascurabili buchi che si collegano comunque con la precedente fessura). Non esistono in pratica concrezioni. Le pareti sono di roccia molto decalcificata (tanto che la fanghiglia di decalcificazione si presenta come un intonaco). Il pavimento è orizzontale nel primo tratto, poi termina in una buca profonda circa 1,50 m entro la quale si trovano ed ancora in parte i resti del felino. Altri resti: vertebre sacrali, coccige, un femore, sono stati rinvenuti sul pavimento in prossimità della buca. Il cranio è stato rinvenuto completamente intatto, con l’epitrofeo vicinissimo all’atlante; incastrato nella fessura, sopra la buca, ad altezza di metri 0,90 -1,10.
Questi elementi escludono l’ipotesi che l’animale sia stato trasportato in pezzi dall’acqua e convalidano l’ipotesi che l’animale sia morto dentro la fessura o che vi sia stato trasportato morto, ma, con tutti i tessuti muscolari integri, il che impedì la dispersione e la levigazione delle ossa e che infine permise il ritrovamento dei resti in posizione relativamente composta. Depone a favore di quest’ultima ipotesi anche il fatto che se il felino ha varcato il passaggio per entrare nella fessura, non potè attraversarlo mentre era in vita, ma potè compiere quest’ultimo passo o in resti (e abbiamo scartato l’ipotesi) o morto, ancora con i suoi tessuti muscolari, spinto da forti correnti d’acqua. Quest’ acqua probabilmente trovava una via d’uscita nella buca già accennata. Forse un nostro rilievo, altre osservazioni più accurate, ci metteranno in grado di esprimerci in forma meno dubitativa”.





GLI SCAVI NELLA GROTTA DELL’ADDAURA CAPARARA

Il primo scavo risale agli anni ’60 ad opera di  Gaetano Giorgio Gemmellaro che dei risultati non diede alcuna notizia. Qualche cenno lo riportò la relazione  di Minà Palumbo..”il Prof. Gemmellaro nel mese di marzo 1869 mi faceva un cenno di due grotte da lui ritrovate. Una trovasi sul Monte Pellegrino, chiamata Grotta Grande dell’Addaura, dove rinvenne ossa di cervi, di bove, di cavallo, carboni, e armi in selce o in pietra; certamente stazione dell’epoca preistorica”.
Il Barone Anca riportò il rinvenimento di un molare inferiore sinistro di Elephas (Euel) armeniacus. Falc., trovato nel 1866 dal Gemmellaro nella Grotta Grande dell’Addaura.
Il von Adrian, parecchi anni dopo, nel deposito distinse due strati: uno superiore con industria paleolitica, patelle, carboni e resti di ruminanti; l’altro inferiore di terra rossa con resti di elefante. Si può dedurre che già allora il deposito di ceramica era stato smantellato.
Ancora sullo scavo Gemmellaro si soffermarono Schweinfurth ed il Vaufrey. Quest’ultimo concluse le sue ricerche osservando: “Se Gemmellaro non ha pubblicato le sue ricerche nelle grotte del Monte Pellegrino e del Monte Gallo ciò è forse dovuto al fatto che esse non confermano la stratigrafia che egli aveva creduto di potere stabilire a Carburangeli”.
Il Gemmellaro pubblicando lo scavo nelle Grotta di Carburangeli di Carini diede una stratigrafia tipo delle grotte che non aveva mai avuto riscontro, fin oggi, nella realtà. In sostanza egli  affermò la contemporaneità dell’uomo con l’elefante.
Un altro scavo fu compiuto nel 1931 ma con lo scopo di creare un accesso più agevole alla grotta carsica da poco scoperta oltre “u purtusu de cani” nel vasto riparo dell’Addaura Caparara.
Allo scavo era presente Di Salvo che diede qualche notizia..” nel giacimento in parte sconvolto, furono rinvenuti: un frammento di molare di Elephas melitensis falconesi, zooteropodi marini, varie ossa di mammiferi ed industria litica”.
Il prof. Mannino…”i successivi scavi, gli ultimi compiuti fino ad oggi, risalgono all’ormai lontano maggio 1946; ne riferisce in una relazione preliminare, la Bovio Marconi che li esegue con la collaborazione del Prof. Luigi Bernabò Brea. Nell’autunno del 1947 venne ultimato lo scavo di una trincea interrotto l’anno prima per mancanza di disponibilità finanziaria”.
“furono praticati diversi sondaggi; solo di tre si ha una descrizione.
Saggio 1 – fu aperta una trincea di (2,60 x 1,60) m davanti la Grotta dei Bovidi nella quale venne raggiunta la profondità di 2,48 m -  Lo scavo venne condotto con tagli di 10 – 15 cm, setacciando il deposito. In fase di studio i tagli omogenei furono fusi così risultarono quattro strati:
strato 1.  0,40 m di profondità, si presentò sconvolto per la presenza di materiali cronologicamente lontani: frammenti ceramici attuali e preistorici ed industria litica del paleolitico Superiore.
Strato II. 40-72 cm di profondità, perfettamente in posto, restituì abbondante industria litica del Paleolitico Superiore e resti di pasti costituiti da molluschi marini ed ossa di cervo, cavallo, etc e qualche dente dello scomparso Equus asinus hidruntinos.
Strato III. 72-120 cm di profondità, si presentò quasi sterile. Fino alla profondità di cm 92 qualche raro frammento di selce lavorata, carboni e patelle, attestarono ancora la presenza dell’uomo nella grotta,
Strato IV 1,20-2,40 m di profondità, non restituì alcuna testimonianza della presenza dell’uomo ma soltanto qualche elemento dell’estinta fauna quaternaria: un dente di ippopotamo (Hippopotamus amphibius Pentlandi Mayer) e due molari di elefante nano (Elephas melitensis falconeri).


Saggio 2 – fu aperta una grande trincea sotto la parete sinistra del grande riparo dell’Addaura Caprara a 18-20 m dall’ingresso della nota grotta carsica e fu raggiunta la profondità di 4,10 m.
Gli scavatori procedettero allo scavo già con la convinzione di non poter trovare il deposito in posto, per recuperare materiale d’indubbio interesse tipologico. Era stato osservato che il deposito preistorico del riparo mancava del tutto, asportato dai mandriani a poco a poco pulendo il vasto ovile, ma che qualcosa rimaneva ancora scivolata in sacche createsi tra la parete rocciosa del riparo ed il deposito a terra rossa. Furono recuperate grandi quantità di molluschi marini, patelle ferruginee8soprattutto) e cerulee, trochus, ecc. ossa di bovidi, cervidi, equidi tra i quali quelli di equus asinus  hidrantinus, ovidi, cinghiale, ecc. in parte combusti; abbondantissimo materiale litico in quarzite e soprattutto in selce, ciotole di selce e pezzi semilavorati che testimoniano le lavorazioni in posto degli utensili.

SAGGIO 3 –  fu aperta una trincea tra la grotta n. 90 e n. 91 (Addaura II e I) di circa (3 x 2 ) m. lo scavo iniziato nel 1946 fu approfondito fino a 1,50 m; fu proseguito l’anno successivo ma non ci conosce la profondità raggiunta. La Bovio Marconi riferisce che il deposito si presentò sconvolto
fino alla profondità di circa un metro ove si rinvennero elementi recenti ed un frammento romano. La studiosa osserva giustamente che la porzione di deposito sconvolto proveniva dallo svuotamento delle due grotte vicine. Il sottostante deposito di terra rossastra era piuttosto povero, restituì molluschi marini, ossa animali e scarsa industria su selce.

Nessun scavo risulta condotto nell’Addaura Grande o Perciata qualche volta confusa con la grotta Addaura Caprara e più spesso con la Grotta Perciata di Monte Gallo.
 Solo Di Salvo accenna a ritrovamenti di resti preistorici in tempi diversi lasciando intendere ad industrie del paleolitico Superiore.
Anche questo vastissimo riparo fu certamente abitato dall’uomo preistorico per lunghi millenni pure se dimore preferenziali dovettero essere le cavità più basse dell’Addaura perché più accoglienti, più vicine al mare ed agli accessi al Monte Pellegrino: la scaletta della Perciata e quella della Valetta.
Sulla base delle ricerche fin oggi svolte non si può avere per nulla un’idea della vita che in queste grotte dovette addirittura pullulare nell’arco di circa otto millenni. Siamo piuttosto scettici sull’esito di future ricerche perché gran parte dei depositi sono andati perduti per sempre.
Nel solo riparo dell’Addaura Caprara il deposito del paleolitico Superiore, a giudicare dalle brecce ancora attaccate alle pareti, doveva superare l’altezza di un metro misura mediamente riscontrata in tutti i giacimenti paleolitici della Sicilia Occidentale.
Mancano almeno 1000 mc di deposito del paleolitico, a questi va aggiunta una quantità almeno doppia che riguardava gli strati a ceramica; di quest’ultimi non resta più nulla.
Nella Camera dei Bovidi, che alla fine del paleolitico Superiore dovette rimanere chiusa per l’accumularsi del deposito, oggi vi si sta perfettamente in piedi e vi affiora il deposito a terra rossa notoriamente sterile d’industria umana.
Immane rovina certamente, incredibile per chi non ha conoscenza diretta dei luoghi dalla quale si sono salvati soltanto piccole parti degli strati più profondi che costituiscono la testimonianza dei primi stanziamenti umani in queste grotte.
Al lume delle nostre conoscenze qualche prospettiva per ricerche future le offrono i brandelli di deposito davanti la Grotta dei Bovidi, e l’Addaura Grande o Perciata nel lato destro”.


RESTI DI NERINEE INVERTEBRATI

Popeye (particolare)

Eccentricità – particolare

Anemone



Fiammella concrezionata

Concrezioni filiformi


Passaggio nei rami laterali






UN AMBIENTE  DA TUTELARE DAI VANDALI  MAFIOSETTI

INCISIONI AL CARBURO

CONCREZIONI SPEZZATE

batterie .......


Confezioni di merendine

i vandali sono arrivati fin qui..... il vetro

L'immancabile scritta di qualcuno dotato di una grande cultura.......

Vergogna......



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c) Grotta  Dei Bovidi
Dati di Catasto
SI  PA n. 89
Nome Locale: Grotta dei capretti
Altri Nomi: Grotta dell’Antro Nero; Grotticina “B” dell’Addaura; Grotta dei Bovidi
Località: Addaura; Riparo dell’Addaura Caprara
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E.; 0°53’58” – Lat. N.; 38°11’09”
Quota: 85 m
Sviluppo: 35 m
La cavità si trova sulla destra del riparo Addaura Caprara da cui resta indipendente.
L’ingresso ha una forma semiellittica con l’asse maggiore rivolto verso il basso, di circa 12 m di lunghezza per un altezza di un paio di metri; “è ingombro del crollo di un muro che una volta chiudeva la grotta”.
Tutta la grotta è di origine marina, scarse le concrezioni calcaree; il piano di calpestio è costituito in prevalenza di “terra rossa”.
La cavità si sviluppa con pareti molto articolate per m 35 con riempimento di terra rossa, un tempo sommerso dal mare, che vi ha lasciato perforazioni di organismi litofagi. Nel più vasto ambiente interno una sorpresa: una pittura realizzata con la fumosa fiamma di una lampada a carburo con data e sigla dell’autore.
Notevole l’interesse della parete frontale del primo ambiente costituita da deposito antropico, che una volta riempiva la grotta, tenacemente cementato e contenente: ossa di mammiferi, gasteropodi terrestri e marini, selci, quarziti, paleomesolitici.


Grotta dei Bovidi, in basso. La freccia indica il saggio n. 1

L’interesse archeologico per la grotta è legato al primo ambiente della cavità che è perfettamente in luce. “Nell’interno invece l’uomo preistorico non vi penetrò mai”.
In questo ambiente, sulla parete di destra al limitare col soffitto, sono presenti due graffiti di bovidi profondamente alterati da atti di vandalismo.
 “Fu abitata, e si direbbe intensamente, soltanto nel paleolitico Superiore come dimostra una possente breccia dello spessore di circa 1,50 m cementata nella parete di fondo che ogni anno si assottiglia per i continui prelievi di utensili litici, patelle, ecc.  La breccia raggiunge la volta e perciò doveva intasare l’ambiente rendendolo inabitabile nelle età successive. Oggi l’ambiente è completamente svuotato del deposito archeologico e sul suolo affiora la “terra rossa”, anche questa parzialmente asportata, oggetto di continui scavi clandestini. Nel lato destro, al limite tra la parete ed il soffitto, annerito dal fumo di fuochi antichi e recenti, sono incise due figure zoomorfe che ripetutamente sono state “ripassate” per approfondire il solco. Tale criminale lavoro ha portato alla distruzione delle due opere d’arte. Giudicando dal calco, esposto al Museo Regionale di Palermo che fu eseguito quando le incisioni erano integre e dalle fotografie eseguite dopo la scoperta ci si rende conto subito dell’originalità delle due figure sulla quale è pesata la cattiva sorte di essere state scoperte poco dopo e nei pressi delle famose incisioni dell’Addaura, sulle quali, soltanto, s’è polarizzata l’attenzione di tutti gli studiosi.
Riconosciamo anche l’attrazione quasi magnetica di quelle figure dalle quali è difficile sottrarsi anche per chi le ha viste e riviste decine di volte. Le figure della Grotta dei bovidi riproducono due bovidi entrambi con testa aguzza, triangolare, corpi massicci e schematizzati col profilo del dorso gibboso, corna a raggiera protese in avanti.



Grotta dei Bovidi
Pianta e profilo longitudinale





Delle corna s’è parlato più di ogni altro particolare anatomico. L’artista paleolitico le ha rappresentate in entrambe le figure con tre segmenti radiali che partono dalla fronte dell’animale, come accade anche nelle incisioni dell’Addaura e non piuttosto dalla testa come avviene generalmente. L’elemento che le distingue da altre figure sta proprio  nei tre segmenti perché altrove le corna sono rappresentate con due semplici linee o con due coppie di linee, più o meno ricurve in avanti. Non ci sembra però che questa particolarità meriti molte discussioni soprattutto tenendo presente una certa imperizia dell’artista Paleolitico che si palesa nel disegno dell’animale. La schematizzazione delle figure pare infatti di poterla attribuire ad incapacità e non allo stile cosa che invece non si potrebbe sostenere per le figure dell’Addaura nelle quali schematismo e naturalismo sono senza dubbio voluti e magistralmente ottenuti.
Per la terza linea delle corna è stata avanzata l’ipotesi che possa rappresentare un’arma infissa nella testa dell’animale, particolare più volte presente nel vasto repertorio dell’arte franco-cantabrica, come si può pensare pure per il bovide su pietra della grotta del genovese di Levanzo, ora al Museo Archeologico regionale di Palermo.


Grotta dei Bovidi (in basso) e Grotta dell’Eremita (in alto)– Foto Soprintendenza del 1946

Atto di Vandalismo……
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d) Grotta Dell’Eremita
Dati di Catasto
SI  PA n. 88
Nome Locale: Grotta dell’Eremita
Altri Nomi: Grotta del Muretto
Località: Addaura, Riparo dell’Addaura Caprara
Tavoletta: 249 I S.E. Mondello
Long. E. : 0°53’58 – Lat. N.: 38°11’09”
Quota: 93 m
Sviluppo: 25 – 30 m

La cavità è posta a circa 15 metri dal piano di campagna, nella parete destra del grande riparo dell’Addaura Caprara, immediatamente sopra la grotta dei Bovidi.
“L’abbiamo raggiunta solo una volta, una trentina d’anni fa, con una breve ma impegnativa arrampicata”.
“La cavità d’origine marina. L’erosione, alla sommità della parte, nella quale si apre la grotta, ha tagliato una sorta di ballatoio; alle spalle di questo si sviluppa una fessura lunga una trentina di metri, a sezione triangolare sempre più rastremata fino ad essere impercorribile. Sulla destra del ballatoio un passaggio immette in un ingrottato che si affaccia sullo strapiombo.
Ballatoio ed ingrottato un tempo erano chiusi da un parapetto di conci di calcarenite murati con malta. Ora dei due muretti resta ben poca cosa perché quasi del tutto demoliti da alcuni imbecilli che hanno raggiunto la grotta non in arrampicata ma legando insieme tronchi di eucaliptus (selvaggiamente tagliato).
Quando verso gli anni ’50 salimmo nella grotta incuriositi più dalla presenza del muretto che non dalla fessura che s’intravede dal basso,  l’inesperienza della giovane età fece sì che non pensassimo neppure a cercare possibili testimonianze con le quali spiegare l’enigma della presenza del muretto. Ora è troppo tardi per noi ritornarvi in arrampicata per cercare nella poca terra e pietrisco, che costituisce il piano di calpestio, qualche frammento di terracotta  o sulle pareti qualche segno inciso od a carbone che potrebbero illuminare  del tempo in cui, forse, qualche eremita eclettico si ritirò nella grotta a meditare e a pregare”.

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e) Grotticina
Dati di Catasto
SI  PA n. 91
Località: Contrada Addaura
Tavoletta: 240 I S.E. Mondello
Long. E.: 0°53’53” – Lat. N.: 38°11’09”
Quota: 80 m
Sviluppo: 6 m
È posta a qualche metro alla destra della Grotta delle Incisioni
La Cavità appare del tutto svuotata del suo deposito antropozoico. Nella parte più alta del talus (pendio, scarpata), portato alla luce da scavi clandestini, si osservano talora resti di pasto (molluschi marini ed ossa di mammiferi) ed utensili di quarzite e di selce attribuibili al Paleolitico Superiore.


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f) Grotticina Del Cantiere Dell’Addaura
Dati  di Catasto
SI  PA n. 92
Nome Locale : Gruttignuni
Altri Nomi: Grota del Cantiere dell’Addaura; Grotta del Piano Addaura
Località: Contrada Addaura
Tavoletta: 240 I S.E. Mondello
Long. E.: 0°53’46” – Lat. N.: 38°11’20”
Quota: 10 m
Sviluppo:  8 m
Si apre in una linea di riva (Tirreniana) fra l’ex cantiere navale e la rotabile: fu distrutta o interrata dalla selvaggia espansione edilizia.
“I nostri lontani ricordi della fine degli anni quaranta, di resti di pasto (ossa di bovidi, cervidi, equidi, molluschi marini, ecc.) ed utensili di quarzite e di selce sparsi nell’interno del cunicolo e davanti l’ingresso per breve raggio, sono confortati da una breve notizia di Antonio De Gregorio…”si trovano abbondanti resti preistorici perfettamente sincroni a quelli della Grotta dell’Addaura che è ben nota”.

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g) Grotticina Di  Celesi
Dati di Catasto
SI  PA n. 93
Località: Contrada Addaura
Tavoletta: 249 I.S.E. Mondello
Long. E.: 0°53’14” – Lat. N.: 38°11’20”
Quota: 90 m
Sviluppo: 12 m
Si apre a Nord dell’imbocco della galleria della rotabile per il Santuario di S. Rosalia, ai piedi della “Scaletta di Valdesi”
Breve budello di escavazione marina; quasi una tana; di nessuno interesse”.




Pianta, sezioni e profilo

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h) Grotta Delle  Incisioni 
file : Monte Pellegrino (RNO) (Palermo) – Grotta delle Incisioni

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4.      LA  MONTAGNOLA

E’ l’estrema propaggine settentrionale del Monte Pellegrino al cui piede corre la rotabile per Ercte.
La parete destra è esposta a nord e presenta in alto una cavità di difficile accesso e sembra, nel 2017, ancora non catastata. E’ ritenuta erroneamente priva di alcun interesse archeologico e speleologico.  Ai piedi si aprono quattro piccole cavità che furono svuotate dal deposito antropico.
La presenza di piccoli lembi di paleosuoli e soprattutto reperti di ogni età dispersi all’esterno, dimostra una continuità di vita di millenni, addirittura di un villaggio che si sarebbe sviluppato sopra le grotte n. 67 – 68, 69, 75.
Il prof. Vittorio Giustolisi non indagò su queste grotte, limitandosi solo a qualche accenno, e rivolgendo invece le sue attenzioni alla presenza di ceramica punica e romana.
L’altra parete è esposta ad occidente. È una placca rossastra, alta da nord a sud da 50 a 80 metri, in cui si notano un gran numero di grotte, quasi anfratti, a circa metà della sua altezza (mezza dozzina di cavità). Anche queste grotte, data la loro altezza e considerate di nessuna importanza archeologica, non furono esplorate nel passato.
Nell’aprile del 1983 Roby Manfrè, esperto arrampicatore del CAI, comunicò al prof. Mannino di aver scoperto alcuni vasi in una piccola grotta ubicata  nel versante occidentale della Montagnola.
Il soprintendente, l’illustre prof. Vincenzo Tusa, venuto a conoscenza del  rinvenimento diede al prof. Mannino l’incarico di recuperare il materiale e di provvedere all’esplorazione della grotta. L’esplorazione fu eseguita il 14 maggio 1983. Il prof. Mannino, per motivi di salute non salì nella grotta e in sua vece eseguì l’indagine Totò Sammataro presidente del CAI con l’aiuto dei soci: Marcello Panzica, Paolo Madonia, Fortunata Prinzivalle e Vito Buffa.
Per evitare qualsiasi danno ai quattro vasi recuperati (uno integro, uno lesionato, gli altri due lesionati e mancanti di qualche parte), venne impiantata un teleferica.

All’esplorazione integrale della necropoli rupestre della Montagnola parteciparono con il prof. Mannino: Vito Buffa, Roberto Cusimano, Marcello Scurria, Rosario Cinquemani, Piergiovanni Matranga,  Agostino Ingrassia, dell’Associazione Speleoarcheologica di cui il prof. Mannino era socio fondatore.
Riporto integralmente il racconto del prof. Mannino sulla difficile spedizione per raggiungere le grotte.
“Per raggiungere le grotte, poiché nessuno dei partecipanti possedeva le capacità tecniche di Roby Manfrè, scelsi di raggiungere le grotte con una iniziale discesa dall’alto, come certamente avevano fatto tutti coloro che ci avevano, (aggiungo purtroppo), preceduto. Due partecipanti, A e B con due corde a e b, salendo il piccolo canalone, si portano sulla verticale della grotta A, dall’orlo della falesia discende sulla corda a fino alla grotta, B con la corda b provvede alla sicurezza di A fin quando non venne raggiunta la grotta, recupera quindi le due corde e manda i capi di a e di b alla base della parete dove frattanto è ritornato B che aggancia alla corda a una scaletta che A recupera dando la possibilità a B e ad altri C di eseguire una facile salita con sicurezza di A con corda b. Finita l’esplorazione la discesa verrà effettuata con discensore a corda doppia, fissata ad un chiodo, una protuberanza della roccia, una colonna”.
Tra il 1984 ed il 1985 con il gruppo ho potuto esplorare sette cavità.




La Montagnola (lato Occidentale) – Necropoli Rupestre

Grotta n. 1
È una piccola cavità molto frequentata perché si trova lungo una “via di roccia”. Lo stesso prof. Mannino affermò di aver percorso quella “strada” circa cinquant’anni fa e di aver trovato frammenti di terracotta incollati al suolo roccioso. “a posteriori li interpretò come tracce di corredi”.

Grotta n. 2
È una fessura molto allungata, larga circa 1 m e lunga circa 10 m. Roby Manfrè la raggiunse in arrampicata attraversandola, durante la salita, in “camino”; è un passaggio obbligatorio che chi vuole raggiungere in arrampicata la grotta successiva. Il giovane scalatore vi rinvenne alcuni frammenti (andati perduti) ed una grossa ansa a “maniglia” (Fase di Castelluccio ?). la cavità non è abitabile. La presenza di frammenti mi indusse a pensare alla rottura di un vaso in transito destinato alla cavità più in alto (la grotta n. 3)”.

  
GROTTA n. 3
“ è la cavità scoperta dal Manfrè. L’ingresso è di forma ellittica, verticale, di 7,50 m di altezza, larga 1 m alla base e 3 m alla sommità. Si apre a circa 30 m dal piano di campagna. Nella parte più alta della cavità si sviluppa un piccolo ambiente che è simile alla cella di un’ampia tomba ipogea. Il piano di calpestio dell’intera cavità è in ripida risalita, ricoperto di pietrisco e terra formatasi anche dal  guano di predatori e dai loro scheletri. Manfrè vi trovò: un anfora frammentata, alta  29 cm (a); una grande olla, alta cm 36(b); un anfora alta cm 28(c); porzione della vasca di una coppa, alta cm 16(d)”.

La Montagnola (Monte Pellegrino) – Parete Occidentale
Grotta n. 3 – Pianta, sezioni e sezione longitudinale



Disposizione dei reperti al momento del ritrovamento



GROTTA  n. 4

“La grotta ha un ingresso di forma ellittica, lunga 5 m ed alta 4 m. lo sviluppo complessivo è di 22,50 m. il primo tratto è imbutiforme e termina a  6 m con una strozzatura alta un metro e larga 0,80 m. in questo tratto fu raccolto un coltello di bronzo privo d’impugnatura lungo 9,4 cm, largo 1,8 cm e con spessore di 0,9 cm. Segue un budello di una quindicina di metri con un terriccio polverulento dal quale affioravano in più punti frammenti fittili. Per raccoglierli fu necessario spostare il terriccio e ci rendemmo conto che non si trattava in nessun caso di forme ricomponibili ma di una sorta di campionario di frammenti appartenenti ad una trentina di forme diverse e di diversa età.


La Montagnola – Grotta n. 4 – Pianta e Sezioni

La Montagnola – Grotta n. 4 –
Due lame di selce – Un coltello di Bronzo

GROTTA n. 5
“ Ha l’ingresso di forma molto allungata, largo 8 m e alto 2 m., si apre ad una decina di metri dalla precedente cavità. Consta di un solo ambiente di forma irregolare, con stalagmiti e una colonna. Si sviluppa per una decina di metri con  altezza media di 1,70 m. sul suolo roccioso si rinvennero in quattro punti equidistanti gruppi di frammenti che lasciano pensare ad altrettante deposizioni”.

Grotta n 4 – 5; Frammenti rinvenuti



Grotta n. 4 – 5; Frammenti Rivenuti
Il Reperto 5b10 è il fondo di un anfora punica

Grotta n. 5 – Reperti: profili di olle


Grotta n. 5 – reperto: fondo di un olla con decorazione stile Vecchiuzzo

Grotta n. 6
“si apre circa 35 m a destra, alla stessa quota della grotta n. 5, subito dopo un ingrottato largo circa 5 m ed alto 7 m.
L’ingresso è una fessura larga 0,50 m, alta 1,80 m, dà luogo a un solo ambiente di forma irregolare, con una colonna di roccia, e ha uno sviluppo di 14 m e un’altezza media di circa un metro. Nessuna traccia d’interesse archeologico.


La Montagnola – Grotta n. 6 – Pianta e Sezioni


Grotta  n. 7

“La cavità ha due ingressi continui, il sinistro è di circa 4 m di base per 3 m in altezza, simile il destro. Ha uno sviluppo parallelo alla parete di circa 30 m. il pavimento è coperto  interamente di terriccio dello spessore di circa 30 cm; non ha restituito nulla d’interesse archeologico”.

La Montagnola – Grotta n. 7 – Pianta e Sezioni.
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Lo Zubbio della  Montagnola
(Zubbio:  cavità a prevalente sviluppo verticale).
“La scoperta dello zubbio fu casuale e risale al 1968. Si tratta di una fessura orientata Nord Sud, parallela alla linea di cresta; è stretta in alto, mediamente meno di un metro, e si allarga progressivamente in basso. Non mi fu difficile raggiungere il fondo, otto metri, arrampicandomi in “camino”. Alla base del pozzo si trova un piccolo ambiente con un’apertura che guarda la valle dell’Addaura; fuori da ogni previsione vi rinvenni parecchi frammenti di terracotta abbandonati al suolo. Ne raccolsi un paio per sottoporli alla prof. Jole Bovio Marconi, che li “definì “preistorici”. Dopo i ritrovamenti nelle grotte-necropoli, è ragionevole supporre che anche i frammenti provenienti dallo zubbio facciano parte di una deposizione.
Vittorio Giustolisi nelle sue ricerche sul Monte Pellegrino esplorò anche la Montagnola e le assegnò la funzione di sentinella, in riferimento all’Eircte, per la presenza di ceramica sia tutt’intorno il rilievo che sull’altura e, presso la punta, anche di una cisterna.
La topografia della sommità della Montagnola non appare del tutto naturale e, inoltre, è possibile raccogliere ovunque frammenti romani, punici e preistorici. La maggiore concentrazione di fittili preistorici si trova in una fascia rimboschita sul lato occidentale, certamente portati alla luce dagli scavi per la messa a dimora delle piante del boschetto.”

Montagnola – Zubbio della Montagnola
Pianta e sezioni

La Montagnola – Zubbio della Montagnola
Parete di una coppa decorata con nervatura

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