ENCICLOPEDIA DELLE DONNE – (Terza Parte) - LE PRIME MEDICHE DELLA STORIA
Indice:
1.
Asclepio, il dio della medicina – Le sue
figlie tutelari della salute;
2.
Medica o
Medichessa ? .. Medichessa è un
termine ironico………;
3.
Le
Prime Mediche della Storia:
a)
Merit Ptah (egizia; 2700 a.C.);
4. Le Mediche presenti nel Mondo
Greco e Latino – Ippocrate;
a)
Agnodice ( 400- 300 a.C.)….. si travestì
da uomo per fare la professione di medica;
b)
Mousa; Sorano d’Efeso (I –
II sec. d.C.); Scribonia Attice di
Ostia; Antiochide; Pontea di Pergamo; Cleopatra di Roma (I
sec. d.C.); Cleopatra (II sec. d.C.);
Cleopatra…la regina; Maria “La Maestra”
fondatrice dell’Alchimia e della
tecnica detta “bagnomaria";
5. Il Primo Ospedale di Roma; Santa Fabiola di Roma;
6. Gli
Ospedali Bizantini; Oribasio; Ezio Amideno; Alessandro di Tales;
7. Metradora (V – VI sec.
d.C.);
8. La
“Schola Salernitana” – la Nascita e collegamento con Velia – La Leggenda; La
Storia della “Schola Salernitana” – Il Giardino di Minerva – Le Sedi – La
Storia D’Amore fra il Principe Enrico e la contadina Eslie- Federico II di
Svevia e la “Schola Salernitana” – I “Reginem Salernitatum” e Arnoldo di
Villanova
Le Mediche della Scuola Salernitana;
8a) Trotula De Ruggiero (Salerno…; …1097); una delle più
importanti mediche della Scuola Salernitana;
8b) Abella di Castellomata; Rebecca Guarna (XIII – XIV sec.);
Maria Incarnata; Mercuriade (XII sec.); Costanza Calenda; “Regimen Sanitatis Salernitanim”, scritto in versi, “Flos Medicinae”
(Arnaldo da Villanova commentò il “Regimen S.”)
8c) Le Mediche Catanesi: Bella de Paija (1400) –
Virdimura da Catania (XIV sec.)- In
Sicilia nel 1300-1400 si praticava la chirurgia plastica
9 – Le Prime Donne
Laureate in Medicina in Italia
Adelasia Cocco; La Prima Medica di Condotta in Italia
10 - Il Giuramento di Ippocrate sulla Professione Medica
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Sin dalla preistoria il compito della donna nella comunità
era quello del prendersi cura e questo per svariati motivi: accogliere la vita,
allevare i figli, curare i vecchi e i malati. Naturalmente oltre agli altri
aspetti sociali: raccogliere le erbe,
prendersi cura degli animali, ecc..
È una società dove la donna fa tesoro dell’esperienza e
dell’osservazione, in cui ancora non è presente il sapere scritto, e il suo
sapere, legato come detto all’esperienza,
è rivolto ai membri della tribù.
Nella società greca, pur nelle sue limitazioni e aspetti negativi dato che la donna non
aveva molte prerogative, la salute era di pertinenza anche delle donne e veniva
pratica dalle stesse.
Sono all’apparire delle religioni patriarcali il sapere
medico femminile venne avvolto dal
mistero. Gli uomini interpretarono negativamente quel sapere fino ad isolarlo e
relegarlo a pratiche non consentite perché considerate legate alla magia ed
alla stregoneria.
È strano.. la storia ci tramanda l’immagine di una donna con ruoli
diversissimi e sempre legati alla cura, alla salute: la dea, la pitia, la maga,
la levatrice, la cosmeta, l’erbaria, la medica, la sacerdotessa, la vestale, la
badessa, la santa, l’alchimista, la strega… tutti profili diversi di una stessa
persona.
1.
Asclepio
Il dio della medicina era Asclepio e quando il suo culto s’affermò
a Roma, le quattro divinità indigene che presidiavano alla salute furono quasi
cancellate; Strenua, Cardea, Febris e Salus. Quattro divinità femminile e
l’ultima, Salus, fu identificata con Igea, figlia di Asclepio
Le figlie di Asclepio, avute dalla moglie Epione o
Lampezia, furono sei: Igea, la salute; Panacea, la personificazione della
guarigione universale e onnipotente ottenuta per mezzo delle piante; Iaso, che
aveva ereditato dal padre il potere della guarigione; Acheso, che sovrintendeva
al processo di guarigione; Egle, madre delle Grazie; Meditrina, la guaritrice.
Tutte quindi collegate al concetto di “buona
salute”.
Asclepio aveva imparato l’arte medica dal centauro Chirone,
grande esperto nella medicina chirurgica, che ricorreva all’uso delle erbe.
Asclepio
e la figlia Igea
Bassorilievo
- Museo del Louvre (Parigi)
Asclepio
– Musei Vaticani
Da
Ostia Antica – Copia del II secolo d.C.
Apollo,
innamorato di Coronide, figlia di Flegia, re dei Lapiti, si assentò per un
periodo di
tempo
e diede incarico al suo fedele servitore, un corvo dal piumaggio bianco, di
sorvegliare
la fanciulla. Durante l’assenza di Apollo, la fanciulla s’innamorò del
giovane
Ischi con il conseguente tradimento. La relazione fu scoperta dal corvo che
decise
di avvertire il suo padrone. Lungo la strada il corvo incontrò la cornacchia a
cui rilevò
l’accaduto.
La cornacchia cercò di dissuadere il corvo dal suo proposito di
rilevare
il tradimento della fanciulla perchè la
stessa cornacchia aveva vissuto una
esperienza
simile ed era stata punita da Minerva per averle rilevato il tradimento
di
una sua protetta. Il corvo ignorò il prezioso consiglio e rilevò ad Apollo
l’infedeltà
della
sua amata. Il dio preso dalla collera uccise Coronide trafiggendola con una
freccia.
La
donna, prima di morire, rilevò ad Apollo di portare in grembo suo figlio ed ora
“per il tuo gesto di collera, il bambino
morirà con me”.
Apollo
si pentì e cercò di riportare in vita Cornonide ma senza riuscirvi.
Prima
di adagiare il corpo della povera fanciulla sulla pira, che era stata già
accesa,
riuscì ad estrarre il bambino dal ventre della madre e lo
affidò
al centauro Chirone. Al bambino fu dato il nome di Asclepio.
Il
figlio ereditò le doti curative paterne e diventò il dio della medicina.
Apollo,
per punire il corvo, colpevole di aver fatto la spia e quindi di
aver
causato la morte di Coronide, trasformò le sue piume da bianche a nere.
(Una
variante del raccolto mitologico riporta che fu Artemide ad uccidere con un
Dardo
Coronide, per vendicare l’onore perduto del fratello Apollo.
Apollo
per salvare il piccolo si rivolse al fratello Ermes chiedendogli di
prenderlo
dal corpo della madre).
Secondo
il mito Asclepio ricevette dalla dea Atena il dono di cambiare il suo
sangue
con quella di medusa, la Gorgone. Da quel momento il sangue che
sgorgava
dalle sue vene del fianco sinistro era velenose e portatore di sventure, mentre
quello
che usciva dal fianco destro aveva il potere di guarire qualsiasi malattie e
di
fare risorgere i morti.
Ade
si lamento con Zeus perché l’afflusso dei morti nell’oltretomba era diminuito.
Asclepio
con le sue terapie riusciva non solo a guarire dai mali ma anche a
riportare
in vita i morti garantendo una lunga vita.
Zeus
decise di fulminarlo perché temeva che il potere, che Asclepio condivideva con
gli
uomini, avrebbe potuto minacciare la fede negli dei annullando la differenza
tra
divinità
ed umanità. Una differenza importantissima che si basava sull’immortalità.
Apollo
si sentì oltraggiato a causa dell’uccisione di suo figlio Asclepio e si
vendicò
uccidendo i tre Ciclopi che forgiavano le folgori di Zeus.
Per
placare l’ira di Apollo, Zeus rese Asclepio immortale facendolo diventare un
“dio
minore”. Lo tramutò nella costellazione di Ofiuco e Asclepio, che era
Nato
come semidio, divenne un dio sotto forma di costellazione.
Nell’antica
Grecia si pensava che bastava dormire in un tempio dedicato ad
Asclepio
per guarire da ogni malattia. In ogni tempio c’era almeno un serpente,
che
proveniva dal santuario principale di Asclepio ad Epidauro.
Il
serpente era considerato un animale sacro perché simbolo del rinnovamento.
Uccidere
un serpente di un tempio di Asclepio era considerato un grande sacrilegio.
Anche
nella cultura siciliana uccidere un serpente porta “male” ed è auspicio di
gravi sciagure.
Asclepio
(Asklepios) nell’antica Roma prese di nome di Esculapio (Aescupapius) e il
suo
culto fu introdotto sull’Isola Tiberina nel 291 a.C.
la
tradizione narra che in quell’anno la popolazione romana fu colpita da una
terribile
peste.
Il Senato Romano consultò i Libri Sibillini e decise di costruire un tempio
dedicato
al dio. per questo scopo fu inviata una delegazione ad Epidauro per ottenere
la
statua del dio Asclepio. Sembra che i Romani non riuscirono ad avere una statua
del dio
ma
l’effige del serpente. Al ritorno,
mentre la barca che trasportava l’effige risaliva
il
Tevere, un serpente fuggì e si gettò sul Tevere. Il simbolo del dio si diresse
verso l’isola
Tiberina.
Il fatto fu interpretato come un volere del dio sul luogo dove doveva sorgere
il
suo tempio. Fu costruito un tempio e nel XXI secolo sull’isola sorse uno degli
ospedali
più importanti d’Europa; Il San Giovanni Calibita Fatebenefratelli.
Isola
Tiberina – Roma
Il
Tempio di Esculapio
Il
simbolo del serpente sulla prua dell’Isola Tiberina
Roma - Tempio di Esculapio (ricostruzione)
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2. MEDICHESSA
o MEDICA…. ????? Medichessa è un termine ironico…..
Prima
di passare alla trattazione storica è importante fare alcune precisazioni
perché è giusto esprimere una verità che purtroppo è nascosta nei testi
scolastici e solo la conoscenza può svelare. Fino alla metà dell’Ottocento le
uniche attività che erano permesse alle donne, all’interno della medicina
ufficiale, erano quelle di levatrice ed infermiera. Nell’esposizione troveremo
tutta una serie di figure femminili, a dispetto anche di certa critica storica
e chiaramente di parte, che figurano come “magistra”
e “sapiens”.. e non solo…
In
latino si diceva ”medico/a” e non “medichessa”… e allora ?
Entrambi
i termini sono attestati nella letteratura fin dai primi secoli anche in
riferimento alla presenza delle donne, che esercitavano l’arte medica nella
“Schola Salernitana”, nell’ XI secolo “Mulieres
Salernitanae”.
La
forma “medica” è presente nel
“Dizionario Universale critico-enciclopedico della lingua
Italiana”
dell’abate Francesco D’Alberti di Villanuova (1797-1805) e nel “Dizionario
della lingua italiana” di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini come..”s.f. di medico” con il significato di “Donna che esercita la medicina o ha una
certa pratica nella cura delle malattie o che si dedica a curare una persona
malata o ferita”.
Termine
presente in diversi brani della letteratura: nel Tasso (“La Gerusalemme Liberata”) “Tu
chi sei, medica mia pietosa”; nell’ “Angelica” di Pietro Metastasio..”La medica cortese/ non volle ch’altra mano al fianco infermo/
s’accostasse giammai”; nei “Panegirici”
di Emanuele Tesauro ..” mille
personaggi diversi di medica e medica, di matrona e di madre, di padrona e di
ancella, di prefica e di seppellitrice”.
Il
termine “medichessa” è riportato
dallo stesso D’Alberti come “s.f. di
medico, ed è nome per lo più detto per “ischerzo” con un rimando alla forma
“medicatrice”.
Anche
questo termine appare in diverse opere letterarie: nella Fiera di Michelangelo Buonarroti il Giovane.. “Questa donna mi pare una di quelle / donne saccenti che noi troviam
spesso / per queste e quelle cose / far delle medichesse e delle faccendiere”);
nelle “Annotazioni sopra la
Fiera” di Anton Maria Salvini (“Dipintoressa,
pittrice, dipignitrice, medichessa, dottoressa e simili, sono nomi detti per
ischerzo”); nel “Trionfo della
morte” di D’Annunzio, (“La signora seduta accanto a te era Margherita
Traube Boll, una medichessa celebre”); in “Il diavolo a Pontelungo” di
Bacchelli, (“– Sono studentessa di medicina. – E brava – esclamò Salzano –
brava la medichessa”).
A
partire dalla seconda metà dell’Ottocento il termine “medica” scomparve
dall’italiano scritto (Il Corpus DiaCORIS, non ne fornisce esempi). ( Il Corpus
DiaCORIS è un corpus che comprende i testi prodotti tra il 1861 e il 2001,
suddivisi in periodi storici omogenei, rappresentativi della lingua italiana
scritta).
Il
termine “Medichessa” è attestato
raramente e quasi sempre in modo ironico, come risultava dal passo dello
scrittore Salvini. Il termine sembrava conservare, come oggi, una connotazione
legata ad attività e pratiche proprie dell’arte medica del passato e che oggi
sono assenti dalla professione, quali quelle di sacerdotesse guaritrici, di
creature dotate di poteri magici e di capacità divinatorie.
Tutto ciò, unito
alla disponibilità del termine formato semplicemente con base lessicale e
desinenza (medic-a) che rende non necessaria la forma con il suffisso –essa, foneticamente più pesante, induce a suggerire l’uso
della forma medica rispetto a medichessa. E infatti è questa la forma (sostenuta anche dalla
condanna delle forme in –essa espressa da Alma Sabatini nel suo lavoro Il
sessismo nella lingua italiana 1987) che,
nonostante qualche esitazione, comincia ad affacciarsi anche nel linguaggio
della stampa. È emblematico il titolo “La
medica ti cura meglio” di un
articolo comparso nel blog di "Repubblica" Il fattore X, di Letizia Gabaglio ed Elisa Manacorda il
20.12.2016.
Fino
al XV secolo inoltrato, in latino e nelle lingue volgari, “medico” si declinava
sia al maschile, “medicus” che al femminile “medica”.
Gruppo di donne –
miniatura dalla “Genesi di Vienna”, Siria, VI sec. – Vienna, Österreichische
Nationalbibliothek.
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3. LE PRIME
MEDICHE DELLA STORIA
Secondo gli storici fu Elisabeth Blackwell (Bristol, 3
febbraio 1821 – Scozia, 31 maggio 1910) la prima donna della storia moderna a
laurearsi in medicina e ad esercitare la professione negli Stati Uniti
d’America. Una figura che aprì le porte degli studi medici a tutte le donne del
mondo….!!!!!
a.
Merit
Ptah
La prima figura di medica risale al 2700 a.C.. Merit Ptah,
scienziata e fisica egiziana che fu citata come “Sommo Medico” o “Medico Capo”.
Fu la prima donna ad affermarsi nel campo della medicina e
delle scienze. Già nel 3000 a.C. erano presenti a Sais (Zau) ed a Eliopoli
(Heliopolis) delle scuole di medicina per le donne che volevano specializzarsi
nel campo della ginecologia.
Tra le varie discipline la medicina in Egitto era molto
praticata. La divinità di riferimento era una donna: Sekhmet. Le donne nella
medicina non ricoprivano solo il ruolo di ostetriche ma erano anche dei medici
ed eseguivano delicati interventi chirurgici.
Meirt Ptah fu una figura inserita in un clima di parità ed
emancipazione sociale e questo in un Egitto risalente all’Età del Bronzo.
Il suo nome significata “amata
da Ptah” cioè dal dio creatore della città di Menphi, la Capitale
dell’Antico Regno, e divinità del sapere e della conoscenza.
Di lei non si sa molto. La sua immagine è riportata in una
tomba della necropoli vicino alla piramide di Saqqara.
Un profilo dalla
sguardo intelligente, il volto giovane e fiero,
con parrucca e occhi bistrati come la maggior parte delle donne ritratte
dagli artisti nell’Antico Egitto.
Sulla sua tomba il figlio, che fu un sommo sacerdote, la
descrive come “Sommo Medico” o “Mecico capo”.
Non era quindi solo una medica che esercitava la sua
professione ma anche un importante figura di riferimento nel mondo scientifico
del tempo.
La pratica della medicina rientrava nel servizio sanitario
offerto ai tempi ed esistevano delle scuole per le donne che volevano
specializzarsi nel campo della ginecologia e non solo.
Due erano i saperi fondamentali della società egiziana: la
filosofia e la medicina. In termini pratici: la cura dell’anima e del corpo.
La medicina allora faceva uso di massaggi e i farmaci
venivano preparati con numerose sostanze e principi ricavati dal mondo animale,
vegetale e minerale. Non bisogna dimenticare il largo uso di unguenti e
cosmetici di origine naturale.
È probabile che i trattamenti eseguiti da Merit siano stati
un insieme di trattamenti con pratiche religiose e riti propiziatori sotto
determinati auspici divini. Merit, come le altre donne medico del tempo furono
come delle “santone” ma comunque donne libere, emancipate ed anche autorevoli e
quindi rispettate per la loro importante funzione sociale. Con la Dinastia
Tolemaica la posizione della donna
cambiò radicalmente cancellando moltissimi diritti che avevano reso a
lungo gli uomini e le donne uguali nei loro diritti e doveri. Le donne furono relegate a ruoli subalterni
con una posizione di emarginazione che durerà molto a lungo e che porterà al
declino della società egizia..
In onore di Merit Ptah, l’Unione Astronomica Internazionale
le dedicò un cratere sul pianeta Venere.
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4. LE MEDICHE
PRESENTI NEL MONTO
GRECO E LATINO
Ippocrate.e
soprattutto Galeno citarono le mediche trattandole come delle vere e proprie
autorità in materia.
Ippocrate di Coo
(Cos/Kos) (Coo, 460 a.C., circa; Larissa, 377 a.C.)
Figlio di
Eraclide e di Fenarete, fu un medico, considerato il padre della medicina, geografo e aforista.
Rivoluzionò il concetto
della medicina che era associata esclusivamente alle
pratiche
religiose ed alla filosofia. Anche il padre ed era un medico ( affermava di
essere
discendente di
Asclepio).
Viaggiò
moltissimo ed in Egitto apprese gli antichi segreti medici dei sacerdoti egizi.
Ippocrate riuscì
a debellare la peste di Atene nel 429 a.C. e fondo nella stessa Atene
una scuola
medica offrendo il suo sapere in una settantina di opere raccolte nel “Corpus Hippocraticum”.
Quando il Tempio
di Asclepio fu colpito da un devastante incendio, alcune
persone
testimoniarono di aver visto il medico uscire dal tempio con le tavolette della
divinità.
I medici che
osteggiavano le sue teorie, l’accusarono di aver trafugato gli scritti.
La maggior parte
dei cittadini interpretarono diversamente l’avvenimento, sostenendo
Che Ippocrate
era l’incarnazione del dio ed aveva salvato le tavole sacre.
Il principio
della medicina ippocratica è legato alla “forza curatrice naturale”.
“Il corpo umano è animato da una forza vitale tendente per
natura a riequilibrare
le disarmonie apportate da patologie. La malattia e la
salute di una persona
dipendono da circostanze insite nella persona stessa, non
da agenti esterni o da superiori
interventi divini; la via della guarigione consisterà
pertanto nel limitarsi a stimolare questa
forza innata, non nel sostituirsi ad essa… la natura è il medico delle malattie….
….. il medico
deve solo seguirne gli insegnamenti”.
Studiò
l’anatomia e la patologia; inventò la cartella clinica; capì la necessità di osservare
i pazienti
prendendo in considerazione il loro aspetto ed i sintomi, introducendo i
concetti di
diagnosi e di prognosi.
Riteneva
importante prendere in considerazione lo stile di vita del paziente per
sconfiggere la
malattia e per
questo analizzava gli aspetti dietetici, psicologici e anche sociali di ogni
paziente.
Un rapporto che
aveva anche una sua visione inversa perché ogni singolo elemento (naturale,
sociale, atmosferico) aveva una sua ripercussione o effetto sulla natura umana.
Si deve ad
Ippocrate il concetto di dieta ed alimentazione e la coniugazione di medicina e
chirurgia.
Alcune patologie
portano il suo nome come la “faccia ippocratica” tipica delle
condizioni di
sofferenza ed indebolimento, come ad esempio nella peritonite.
Ippocrate mise
in risalto i doveri morali del medico nell’esigenza che “il medico
conduca una vita regolare e riservata, non speculi sulle
malattie dei pazienti e li
curi gratuitamente se bisognosi; stabilisca un legame di
sincerità con i malati”.
Una vera e
propria Etica del medico che trascrisse in un giuramento, che ancora oggi è in
uso, in cui
vengono espressi
i principi fondamentali che deve seguire chi esercita la professione medica:
“diffusione responsabile del sapere, impegno a favore della
vita, senso del proprio limite,
rettitudine e segreto professionale”
(Giuramento
riportato nell’ultima pagina della
ricerca)
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Le donne in Grecia non erano solo “màiai” cioè “levatrici” ma anche “iatrinès” o “eiatrines”.
La particolarità che le lingua greca prevedeva il termine
femminile di “iatros” (medico) indica
quanto fosse diffusa la professione femminile.
Lo si trova anche in Marziale, in Apuleio e in numerose
epigrafi tombali che descrivono l’esercizio della professione medica da parte
delle defunte.
a.
AGNODICE
(400/300 a.C.)
Agnodice
(Ἀγνοδίκη, Agnodíke;) vissuta ad Atene tra
il 400 e il 300 a.C. sarebbe stata, secondo il racconti di Igino (scrittore e
bibliotecario dell’Impero Romano; Alessandria d’Egitto 64 a.C. – Roma, 17
d.C.), la prima donna medico dell’antica Grecia.
Agnodice, termine che significa “casta
e giusta”, sarebbe il soprannome di Fanostrata che una stele funeraria
indica come ostetrica (“maia”) e
medico (”iatros”).
Un iscrizione posta sotto un bassorilievo del VI sec. a.C. , raffigurante
due donne e quattro bambini, descrive la figura centrale..”Qui giace Fanostrate, levatrice e medico che [ durante la sua vita]
non causò del male a nessuno e che dopo la morte è rimpianta da tutti”.
Ad Atene era proibito alle donne ed agli schiavi studiare
medicina e secondo il racconto di Igino, Agnodice decise di tagliarsi i capelli
e di travestirsi da uomo per poter entrare a fare parte della scuola di
Erofilo. Scelse come specializzazione
l’ostetricia e la ginecologia.
Era
figlia di una ricca famiglia ateniese ed Erofilo era uno dei medici più famosi
del tempo ed insegnava ad Alessandria d’Egitto. Conclusi gli studi rientrò ad
Atene dove cominciò a svolgere la
professione di ostetricia con successo.
La donne nella classicità erano piuttosto restie a farsi
curare da uomini e per questo motivo durante i parti spesso morivano tra atroci
dolori
Agnodice
si alza per mostrare alla corte di essere una donna
Per tranquillizzare le sue
pazienti era solita rilevare il proprio sesso.
I medici furono gelosi del suo successo ed accusarono Agnodice,
ritenendolo un uomo, di sedurre e di corrompere le pazienti. Una grave accusa che nasceva dal mancato rispetto
del giuramento d’Ippocrate che, tra le
norme di comportamento etico dei medici, vietava appunto di sedurre le
pazienti. Agnodice fini in tribunale davanti all’Areopago. In tribunale alla
fine svelò il proprio sesso, sollevandosi le vesti. Nacque in questo modo un
secondo capo d’accusa: era una donna e non poteva quindi esercitare la
professione. Secondo la legge ateniese fu condannata a morte per “aver praticato la medicina sotto mentite
spoglie”.
La notizia si sparse subito per
la città e le sue pazienti, tra cui molte mogli di uomini illustri ateniesi,
circondarono il tribunale minacciando di uccidersi se la sentenza fosse eseguita.
Le donne rivolsero al
tribunale delle accuse ben precise:
"Tu non
sei i nostri mariti, ma i nostri nemici mentre condanni chi ci ha portato la
salute".
Le donne ottennero non solo l’assoluzione di Agnodice ma anche un cambiamento della legge..”che
le donne nate libere possano svolgere la professione medica, alla condizione
che curino soltanto altre donne”.
Le fonti storiche rilevano che già nel V secolo a.C. erano presenti ad
Atene le ostetriche ed esercitavano la professione. Probabilmente Agnotide fu
accusata perché non svolgeva solo l’attività di ostetrica ma anche di medico
generico.
Il racconto di Gaio Giulio Igino nelle “Fabulae”.. Una certa
fanciulla, chiamata Agnodice, voleva imparare la medicina e tagliarsi i
capelli, indossando abiti da uomo entrando come discepola di
Eieofilo. Quando finì i suoi studi di medicina, sentì un pianto parziale e
venne in suo aiuto. La donna pensò di essere un uomo e rifiutò il suo
aiuto, ma Agnodice sollevò i suoi vestiti e rivelò che era una donna, e lei gli
permise di curarla. Quando i dottori si resero conto che nessuna donna
voleva i loro servizi, accusarono Agnodice di sedurli e le donne di fingersi
malate perché Agnodice li visitasse. Nel processo, ha rivelato le sue
condizioni femminili, quindi è stata condannata a morte. Poi arrivarono le
donne dei capi dicendo: "Tu non sei i nostri mariti, ma i nostri nemici
mentre condanni chi ci ha portato la salute". Quindi gli ateniesi
cambiarono la legge che consentiva alle donne di studiare medicina.”
Fu la prima volta che tale privilegio fu esteso alle
donne.
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a.
Sorano di Efeso
– Mousa; Scribania Attice di Ostia; Antiochide; Pantea di Pergamo; Cleopatra di
Roma (I sec. d.C.); Cleopatra (II sec. d.C.); Cleopatra VII (La Regona); Maria “La
Maestra” fondatrice dell’Alchimia e del procedimento detto “bagnomaria”.
Sorano
di Efeso ( I-II sec. d.C.) si rivolgeva alle levatrici nel suo “Libro delle
levatrici” per porre consigli sul delicato esercizio della professione. Questo
dimostra la presenza nel tessuto sociale di un gran numero di donne che
svolgevano la professione.
Sorano d’Efeso
In
un rilevo sepolcrale del II – I secolo a.C. è raffigurata Mousa,
una medica che regge in mano un libro a dimostrazione di aver acquistato il
proprio sapere grazie agli studi.
Alla
levatrice Scribonia Attice di Ostia fu
dedicato un rilievo di terracotta datato II secolo d.C.
Un
rilievo particolarmente interessante perché è raffigurata la partoriente seduta
su un apposita sedia. Un aspetto particolarmente importante, riportato sul
libro di Sorano, citava come le partoriente dovevano guardare in volto le
levatrice per avere coraggio durante il parto. Riuscire a leggere sul volto
delle levatrici era importante perché rassicurava la donna sull’andamento del
parto.
Su
una lapide gallo romana di Metz è raffigura una donna con in mano una piccola
cassetta con l’iscrizione “medica”.
Altre
donne che praticavano la medicina, grazie ad una formazione specialistica,
c’era anche Antiochide, sorella di
Diodoto.
(Diodoto
I Sotere – 285 a.C. – 239 a.C.- era un governatore dell’Impero Seleucide che
governava la regione della Battria, nord dell’Afghanistan).
Antiochide
era conosciuta anche da Galeno che la citò come inventrice di un farmaco contro
i dolori della milza, la sciatica e i reumatismi.
Anche
Pantea di Pergamo venne citata come
medica dal marito Glicone, anche lui medico, che elogiò la sua “tèchne”.
.
Cleopatra
(I sec. d.C.), ginecologa romana, autrice di un “Gynecia” e un “Kosmetikon”,
cioè un trattato di ginecologia e sulla cosmesi, era anche un’erbaria
(“herbaria”). Una medica custode di quella cultura femminile, proveniente dalle
campagne, che la identifica come curatrice attraverso i rimedi della natura.
Alcuni suoi scritti riportano che fu lei ad insegnare
alcuni trattamenti a Galeno.
Nel suo libro cita una condizione che definisce “suppressiones vulvae” (soppressione
dell’utero).
Le mediche preparavano i farmaci sa sé, come d’altra parte
anche i colleghi medici, e il termine “pharmakon”
poteva quindi avere diversi significati perché come rimedio comprendeva un erba
medica, un veleno o anche una bevanda magica.
Facendo riferimento agli ultimi due significati la Chiesa
mandò al rogo e uccise 12.000 “streghe” (pene capitali documentate) senza
contare quelle non documentate che sarebbero di circa 60.000.
Sono più di 100.000 i processi di cui si ha traccia.
D’altra parte i trattati di donne che praticavano la
cosmesi erano un anticipazione dell’alchimia. Realizzare un profumo era un
procedimento chimico che aveva un
collegamento con l’alchimia. L’alchimia era considerata quella parte della
filosofia della natura che aveva come obiettivo quello di conquistare l’onniscienza
e a creare la panacea, un rimedio universale che poteva curare le malattie e
generare un prolungamento della vita.
Uno
storico arabo, Ibn Al-Hakam Ab, parla di una “certa” Cleopatra (omonima della ginecologa di Roma, da non confondere
con la Regina d’Egitto) vissuta nel II secolo sotto il cui nome sono pervenuti
un foglio pieno di diagrammi e un Dialogo. A lei viene attribuita un’opera sui
pesi e sulle misure e la paternità del famoso papiro intitolato Chrysopoeia, sulla Fabbricazione
dell’Oro. Anche Cleopatra VII, la
regina, era una donna molto istruita, alchimista, scienziata e inventrice,
sebbene la si ricordi più che altro per la sua avvenenza. Secondo Duane
W.Roller, scrisse un trattato medico e farmacologico che includeva diversi
rimedi contro la caduta dei capelli e la forfora. Anche l’eminente egittologo
Okasha El-Daly che lavora al Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra,
sostiene che la regina egiziana Cleopatra VII fu una brillante matematica,
alchimista e filosofa. Scrisse libri di scienza e teneva settimanalmente incontri
di studio con i maggiori eruditi e conoscitori di Scienza dell’epoca. E invece
chi ha fatto la storia dell’alchimia (ne parla anche Gustav Jung in Psicologia
e Alchimia) era una donna, alla cui scuola aveva appunto studiato
Cleopatra: il suo nome era Maria,
vissuta ad Alessandria tra il I e III sec. Maria studiava l’azione che i
vapori di mercurio, arsenico e zolfo esercitavano sui metalli. Citata persino
dal filosofo e alchimista Zosimo di Panopoli, che nei suoi libri la chiama
“maestra”, Maria fondò ad Alessandria la prima scuola di alchimia.
Detta Maria la Giudea o l’Ebrea o la Profetessa, è a
lei che fu attribuita l’invenzione di
quella tecnica di cottura a doppio bollitore chiamata, proprio in suo onore, “Balneum Mariae (“bagnomaria”),
nonché la creazione di due tipi di alambicco, il kerotàkis e il trìbikos,
molto utilizzati in profumeria. Fu, con
Ermete Trimenegisto e ben prima di Paracelso, la fondatrice dell’alchimia
Maria La Giudea (Alchimista)
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5. Il Primo
Ospedale di Roma – Santa Fabiola di Roma
Il
primo ospedale “nosokòmion” di Roma fu fondato da una
donna, la nobile Fabiola, onorata
dal mondo cristiano, a partire da San Girolamo.
Fabiola non si limitò solo a dirigere l’ospedale ma sembra
che abbia assunto anche delle vere e proprie mansioni mediche.
FABIOLA
DI ROMA (SANTA)
Fabiola
era una donna patrizia appartenente alla “gens Fabia”. Sposò, ancora giovane,
un uomo patrizio ma alquanto vizioso, dal quale poco dopo divorziò. Si sposò
nuovamente e poco dopo il marito morì. Alla viglia di Pasqua dell’anno
successivo alla morte del suo secondo marito, entrò nella basilica lateranense
(San Giovanni in Laterano) vestita con un sacco di tela. Fu accolta da papa
Siricio a cui fece atto di pubblica penitenza chiedendo perdono al clero ed ai
fedeli e tornando così in piena comunione con la chiesa.
Iniziò
a dedicarsi all’assistenza ai poveri ed ai malati, fondando un “hospitium” la
prima forma di assistenza agli infermi di Roma.
Nel
395 si trasferì a Betlemme, dove si era ritirato anche Gerolamo e visse nel
monastero fondato da Santa Paola. Qui si dedicò alla lettura ed alla
meditazione delle Sacre Scritture. Nel 396 tornò a Roma dove visse in povertà
con il senatore romano San Pammachio. Fondò la “xenodochio” di Porto, presso la
foce del Tevere, che offriva ospitalità gratuita e cure mediche ai pellegrini poveri.
Morì
intorno all’anno 400 (27 dicembre 399) e ai suoi funerali partecipò una grande
folla di romani a testimonianza della gratitudine e della venerazione che la
circondavano.
Fabiola
faceva parte di quel gruppo di donne, che sotto l’influenza di San Girolamo,
avevano deciso di dedicarsi alla vita ascetica e alla carità. Fu proprio San
Girolamo a tramandarne la memoria, descrivendone la vita in una lettera
indirizzata nel 400 ad un suo parente Oceano.
("Laudem Christianorum, miraculum gentilium, luctum pauperum,
solatium monachorum").
È
protettrice delle donne maltrattate, picchiate, abbandonate o tradite, dei
divorziati e celeste consolatrice delle vedove.
Santa Fabiola
Santa Fabiola - Colonnato
di San Pietro
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6. Gli
Ospedali Bizantini - I Medici: Oribasio; Ezio Amideno; Alessandro di Tales
Gli
ospedali bizantini prevedevano già dal VII secolo, un reparto femminile che era
gestito da una medica stipendiata oltre che da infermiere che affiancavano i
colleghi uomini.
Quando
nel 326 d.C. Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, che prenderà il nome
di Costantinopoli, la città diventò un importante centro di studio e di arti.
I
medici svolgevano la loro attività negli ospedali anche se accanto alla
medicina ufficiale c’erano tanti medici non professionali che basavano la loro
attività su rimedi magici o pratiche astrologiche.
Il
grande ospedale, voluto da Costantino, aveva cinquanta posti letto così
distribuiti: dieci per le operazioni chirurgiche, otto per le malattie acute e
gravi; venti per quelli comuni e dodici per le donne.
Ogni
settore aveva due medici che dovevano curare anche i monaci del convento nel
quale l’ospedale era inserito.
Una
zona dell’ospedale era di pertinenza degli infermieri e barellieri che avevano
il compito di cercare in città i malati (anche lebbrosi e appestati) e di
portarli in ospedale.
Alle
operazioni potevano assistere i familiari del paziente ed anche altri medici
per seguire l’intervento e per dare coraggio al paziente.
Grandi
risultati nella pratica medica bizantina soprattutto in alcuni campi come
nell’oftalmologia, con la preparazione di colliri, e nell’uroscopia come mezzo
per importanti diagnosi.
Fra
il IV ed il VII secolo d.C. ci furono dei medici veramente importanti che
rielaborarono i testi medici di Ippocrate e Galeno integrandoli con i loro
studi ed esperienze: Oribasio; Aezio di Amida; Alessandro di Tralles e Paolo di
Egina.
Oribasio
(325-403); nato a Pergamo, città natale di Galeno e sede di una famosa scuola
di medicina.
Molti
suoi testi sono andati perduti ma quelli pervenuti ai nostri giorni sono le “Collectiones medicae”. Un compendio di
ben 70 libri, scritto in greco (giunto parzialmente) e che dà una precisa
immagine della medicina di allora.
Oribasio, Opere, Parisiis,
1533
Il contenuto dei libri conservati:
-
I primi tre trattano dei cibi vegetali ed animali con
le loro proprietà;
-
Il IV libro della preparazione degli alimenti;
-
Il V delle bevande, loro preparazione e
somministrazione;
-
Il VI della pratica fisica e della condotta di vita;
-
VII – VIII , tipi di salasso, purganti e clisteri;
-
IX, l’ambiente e lo spazio abitativo;
-
X, sui bagni, impiastri e preparati medicinali;
-
XI – XV, sui medicamenti semplici.
-
XXIV, sugli organi interni dell’uomo, descritti dalla
testa ai piedi;
-
XXV, sulle ossa, muscoli e nervi;
-
XLIII –XLV, sui flemmoni, ascessi, ulcere e tumori;
-
XLVI – XLIX, sulla traumatologia;
-
L, sui disturbi dell’apparato urogenitale e sulle
ernie.
Una grande conoscenza medica che traspare anche da
altre due sue opere:
-
Synopsis ad Eustathium. Nove libri su una sintesi del
compendio ma con una diversa impostazione. Una guida pratica a chi, avendo già
acquisito delle conoscenze mediche, desiderava disporre di un prontuario di
rimedi da usare in viaggio o in casi d’emergenza;
-
Ad Eunapium, destinato a persone colte che
desideravano acquisire delle conoscenze mediche pratiche quando si trova in
viaggio o in campagna, dove non era possibile ricorrere all’opera di un medico.
Il testo dava indicazioni per potersi curare da s’ e naturalmente per lievi
malattie o a causa di improvvisi accidenti.
Oribasio, Il compendio ad Euporiston
A questi testi si aggiunge un trattato con una
raccolta di formule terapeutiche, noto con il nome di Eclogae
medicamentorum, dove sono citate nuove piante e nuove cure. L’Autore
consiglia fra l’altro l’utilità delle scarificazioni nelle malattie, cioè le
incisioni profonde della pelle specie nelle gambe, effettuate fino a far
perdere anche due litri di sangue.
I libri di Oribasio furono raccolti e tradotti per la
prima volta dal Daremberg in una curata edizione stampata a Parigi (1851-76).
Ezio Amideno, del VI secolo, studiò ad Alessandria e i suoi Libri Medicinales sono un importante trattato
enciclopedico che tratta di:
farmaci e di alimenti (cap. I e II), pratiche
terapeutiche ed esercizi ginnici (III), alimentazione e dietetica (IV),
semeiotica e prognosi (V), malattie della testa (VI), oftalmologia (VII),
malattie toraciche (VIII), medicina interna (IX e X), diabete e malattie renali
(XI), sciatica e artrite (XII), animali velenosi (XIII), affezioni anali,
ferite da taglio e piaghe (XIV), tumori (XV); l’ultimo, il XVI, è dedicato alla
ginecologia e alle malattie femminili, con ampie citazioni di autori non
altrimenti noti.
Questo testo ebbe una grande fortuna anche molto tempo
dopo l’invenzione della stampa, ed ancora agli inizi dell’Ottocento veniva
ancora copiato a mano nelle regioni orientali dell’Europa.
Aetio
Amideno, Frontespizio dell’Editio Princeps, Venezia, 1534
Alessandro di Tales (525 – 605) fu tra gli
scrittori bizantini il più studiato.
Fece numerosi viaggi per approfondire le sue
conoscenze ed esercitò la sua attività forse anche a Roma dove sembra che abbia
insegnato.
La sua opera principale, Therapeutica o De
re medica, è un trattato di patologia e terapia delle malattie interne in
dodici libri, nei quali sono raccolte le sue osservazioni fatte nel corso di
una pratica che durò tutta la vita e fu certo scritta per servire di base
all’insegnamento.
Vi troviamo riportate molte malattie studiate con
grande attenzione, come quelle del sistema nervoso, quelle degli occhi,
l’emoftoe (di cui consiglia utili prescrizioni), i morbi intestinali con i loro
parassiti, la cura della gotta, per la quale prescrive il salasso e forti
purganti.
I suoi scritti furono presto tradotti in arabo e in
latino; la prima edizione in greco fu quella stampata a Parigi nel 1538.
Raccolta di testi bizantini,1564
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In
questo ricco contesto culturale medico bizantino s’inserisce la figura di
Metrodora.
7. METRODORA ( V –
VI secolo d.C.)
Metrodora
; levatrice di epoca bizantina, V – VI secolo d.C. autrice
di un trattato “Sulle Malattie delle donne” (“Peri tòn giunaikéion pathòn”)
che è da considerare l’opera più antica di contenuto medico scritta da una
donna e giunta fino a noi. I suoi rimedi per il benessere femminile sono legati
all’uso specifico di erbe, spezie ed essenze naturali.
Vi
si trovano ricette medicamentose di carattere ginecologico, fino alla cura di
malattie degli umori
e delle patologie gastriche. Nel suo trattato anche temi
riguardanti l’arte della cosmetica, dalla profumeria all’estetica con
particolare riguardo al seno. Sono elencate tutta una serie di ricette, dai
farmaci rassodanti alle maschere per il viso, alle bevande dal potere
afrodisiaco. Si occupava anche di problemi di stomaco, febbre, malaria,
emottisi, traumi e reumatismi e persino di problemi maschili.
Metrodora conosceva bene i maestri di medicina antica,
Galeno e Andromaco, sia quelli contemporanei come Nichepso l’Egiziano.
Non era una semplice levatrice ma una vera e propria medica
che si occupava di tutto il corpo umano ed anche di chirurgia.
In un paragrafo del suo libro parlando del prolasso
dell’utero, si servì della siringa per iniettare il “pharmakon” e consigliò di
assumere la posizione che poi fu definita di Trendelenburg, cioè con i piedi
più in alto rispetto alla testa per evitare shock. Posizione che è tutt’ora
utilizzata in medicina.
La sua arte medica fu influenzata dall’opera di Ippocrate
con cui condivideva le teorie riguardanti l’isteria e le ricerche riguardanti
le infiammazioni dell’utero che arricchì di nuove conoscenze.
Il suo lavoro enciclopedico è di grande importanza con voci
ordinate alfabeticamente per facilitare i riferimenti.
Focalizzerà la sua attenzione sull’aspetto eziologico e
sintomatologico delle malattie.
Dichiarerà che molte delle ricette erano ricavate “dalla
propria esperienza” personale e dalla pratica nel trattamento delle erbe
mediche.
Metrodora sorprende perché s’interessò anche di problemi
intimi maschili. Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di una medica del
V-VI secolo e bisognerà aspettare ben cinque secoli per vedere un’altra medica
affrontare le stesse problematiche patologiche con Trotula.
La medica bizantina creò anche una ricetta afrodisiaca a
base di erbe con sostanze ad azione stimolante e revulsiva come pepe, zenzero,
euforbia e crescione.
Si tratta di ricette antiche che elenco solo come validità
storica non conoscendo gli effetti dovuti al loro uso.
“Euforbia, seme di
ruca, pepe, satirio scrupoli ; succo di balsamo di alloro anadramme ; spalma
sui fianchi, sul basso ventre e sulle cosce”.
Una
pianta molto adoperata dalla medica bizantina era il “satirio” cioè l’orchidea
minore di cui utilizzava le radici. Si tratta di un orchidea selvatica molto
diffusa in Italia. Le sue radici ricordano molto la forma dei testicoli e come
“accostamento” sembrava il rimedio più natyurale per risolvere la patologia.
La
medicina del tempo si basava sulla perfetta
corrispondenza tra cosmo ed uomo/donna. La Natura era qualcosa di
dinamico e versatile che non poteva essere ridotta alò solo “principio attivo”.
Ogni
aspetto della pianta era importante dal punto di vista farmacologico , non solo
per le sostanze contenute ma anche per la forma, il colore, il ciclo naturale e
per i simboli che che la comunitàgli attribuiva.
Fu
la prima medica nella storia ad affermare con chiarezza che la sterilità non
era solo un problema femminile.
Gli
uomini, soprattutto i Longobardi, avevano un autentico terrore dell’impotenza,
ritenuta la causa principale della sterilità maschile. Era un disonore estremo
dell’uomo che poteva costituire anche causa di divorzio.
Ciclamino –
miniatura dal “Dioscoride di Vienna”, 512-513 ca. –
Vienna,
Österreichische Nationalbibliothek.
Nella
cosmetica traspare l’approccio empirico di Metrodora che si affida in massima
parte a ingredienti vegetali, animali e minerali.
Alcune sue ricette:
una maschera
emolliente per viso, mani e piedi:
Terra
cimolia libbre 1, terra di Chio libbre 2, radice d’iris libbre 6, radice di
saponaria, radice di gigaro once 2, radice di ciclamino once 6; trita, passa
allo straccio e poni da parte; per l’uso poi prendi quello che ti serve e
spalmalo insieme a vino odoroso, e quando comincia a disseccarsi lavalo con
acqua e asciuga con un panno pulito.
Si
tratta di una specie di maschera che mescola l’effetto risolvente e astringente
di un’argilla comunissima nelle isole del Mar Egeo all’effetto emolliente della
radice di iris e di quella di gigaro e quello vasotonico del ciclamino e della
saponaria; e Metrodora è bene attenta a raccomandare di prendere solo “quello che ti serve”,
perché a lungo andare potrebbe irritare la pelle.
Ecco un’altra ricetta “per rendere il volto bianco e lucente”:
Mescola allume bianco con acqua e bagna la sera tardi e la
mattina a digiuno, oppure intridi con aceto in parti uguali terra di Chio o di
Cimolio o nitro o litargirio e spalma la sera e la mattina.
L’allume
ha un effetto molto astringente, mentre il nitro e il litargirio (solfuro di
mercurio) sono sostanze sbiancanti: e l’idea di usare l’aceto come
veicolante è geniale perché esalta le proprietà di entrambi trasformandoli da
salii in acetati e rendendoli dunque meno tossici.
Ecco altre due ricette “per rendere il volto lucente”, cioè ad azione emolliente Amido, vecce nere, fior di farina di frumento col bianco di un uovo, spalmalo;
Sciroppo
di grano, sciroppo d’orzo insieme a miele, spalmalo.
Nel suo trattato citò anche i
profumi. Profumi che non venivano usati solo nell’igiene ma anche nelle
abitazioni.
Il termine latino ”perfumum” indica
qualcosa che ha attinenza con il fumo. Qualcosa che si brucia come offerta
propiziatoria agli dei. Ma nell’antichità e nel medioevo venivano suffumicati
ambienti
oggetti, abiti e tessuti, per una
pratica igienica molto importante per prevenire e combattere malattie
contagiose ed anche per
purificare il corpo.
Metrodora diede l’indicazione per
tre tipi di incensi.
Le sue essenze più usate sono; lo
stirace (benzoino), una resina balsamica che ha delle proprietà antibatteriche
che viene estratta dalla corteccia dello Styrax officinalis, un albero che
cresce nel SudEst asiatico; il “legno d’aloe”, ovvero la corteccia essiccata
dell’aquilaria (anch’essa asiatica); sandalo, incenso, macis ( la buccia che
riveste la noce moscata), noce moscata, garofani o chiodi di garofano; radice
di iris, gelsomino, lavanda e rosa.
Le più costose erano il muschio,
l’ambra grigia, il castoreo e lo zibetto, tutte sostanze ricavate dalle
ghiandole di animali come il capodoglio, il mosco (un cervide asiatico) o il
castoro, che erano ritenuti afrodisiaci. Elementi che nel trattato di Metrodora
vengono utilizzati nelle quantità minori.
Rosa – miniatura
dal “Dioscoride di Vienna”, 512-513 ca. –
Vienna,
Österreichische Nationalbibliothek.
Asfodelo Ramoso (c.s.)
“Lozione di
dopobagno”
Rose asciutte e secche dramme 40, mirra pura dramme 20, radici
di iris dramme 10, mescola con vino profumato e fanne delle pastiglie; per
l’uso poi intridile con vino odoroso e spalma subito dopo il bagno.
Con
Metrodora, in conclusione, ci troviamo di fronte ad una donna che, pur
confidando nella forza delle tradizioni scritte della medicina del suo tempo e
quelle orali trasmesse dalle donne, conta molto sulla sua diretta esperienza di
medica, e lo ribadisce fieramente più di una volta. Un metodo, quello
dell’osservazione personale, molto diffuso anche nella medicina monastica
occidentale, riassunto in una frase del medico bizantino Alessandro di Tralles,
il cui trattato principale, la Therapeutika, era
già copiato nei monasteri franchi (forse anche femminili) di VIII secolo: «Un buon medico deve saper fare buon uso di
ogni cosa».
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8.
La
“SCHOLA SALERNITANA”
Una leggenda cita come la Scuola medica Salernitana sia
stata fondata da quattro maestri: il latino Salerno, il greco Ponto, l’ebreo
Elino e l’arabo Adela.
Siamo forse nel IX secolo e la città di Salerno fu colpita
da un violento temporale. Il pellegrino greco Ponto si rifugiò sotto gli archi
dell’antico acquedotto dell’Arce nei pressi del quale si trovavano molti
viandanti feriti e malandati.
Salerno - Acquedotto dell'Arce
Giunse sul luogo un altro viandante, il latino Saernus
che cominciò a curarsi le sue ferite.
Il greco sospettoso s’avvicinò e cominciò ad
osservare, con attenzione, come il latino curava le sue ferite. Giunsero altri
due viandanti, l’arabo e l’ebreo, ed anche loro guardarono come il latino
curava la ferita. Alla fine si scoprì che tutti e quattro si occupavano di
medicina e decisero di creare una “corporazione” e di dare vita ad una scuola
dove le loro conoscenze potevano essere accolte e divulgate.
Una variante della leggenda riporta come i quattro
viandanti si occuparono, solidalmente, delle ferite dei viandanti che avevano
trovato riparo sotto gli archi dell’antico acquedotto.
Nacque così la “Schola Salernitana” e la leggenda
vuole mettere in risalto come la stessa Schola sia nata dall’incontro di
quattro culture mediche; la greca, la latina, l’ebrea e l’araba.
Mancano quindi la data e la genesi ma resta in ogni
caso valida la tesi di come i medici della
Schola Salernitana passarono alla storia proprio per l’originalità con la quale
interpretarono ed intrecciarono le quattro culture.
Alla luce delle ultime scoperte archeologiche sembra
che la “Schola salernitana” abbia delle origini risalenti all’epoca greca.
La
“Schola Salernitana”, secondo alcuni storici risalirebbe al VI secolo d.C.
quando ereditò il sapere dell’antica scuola medica di Velia, risalente al V
secolo a.C.
Elea, in greco antico Ἐλέα, denominata
in epoca romana “Velia”, fu un atica polis
della Magna Grecia. L’area archeologica è localizzata nella
Piana di Velia, Comune
di Ascea (Provincia di Salerno).
Fu fondata dai Focei e diventò un grande ed importante centri
dell’antichità.
La scuola eleatica fu importante nella storia della filosofia
e i suoi principali
esponenti furono Parmenide, Zenone e Melisso di Samo. Ad Elea
soggiornarono
anche i filosofi Senofane e Leucippo.
Fino al 62 d.C. operò nel centro una fiorente scuola medica.
Velia – La Porta Rosa
Velia – Castellum Maris
Costruito, X – XI secolo d.C.) sui resti di un basamento di
un antico tempio pagano.
La torre principale del fortilizio risale al
periodo angioino
Nel
1960 furono rinvenute a Vela quattro statue di medici tra i quali quella del
filosofo e medico Parmenide. Gli storici misero in evidenza, grazie ai
rinvenimenti archeologici, una relazione di continuità della scuola di Velia
con quella di Salerno. Un dibattito che
è ancora aperto perché alcuni storici attribuiscono alla Scuola Salernitana un
origine romana.
A sinistra la statua di Igea
(figlia di Asclepio) rinvenuta a Velia.
A destra la statua della
stessa dea nei Musei Capitolini
Velia
L’iscrizione dedicatoria, posta
alla base, indica il personaggio come un medico di Velia.
Medico di Velia (yeletesiatros) e
capo della scuola (pholarchos)
Testa e dedica
della statua del medico eleate Oulis, figlio di
EusinoUlisEuxìnuIelètesiatròsfòlarkosèteitot
(Iùlisdi
Eussinomedico caposcuola di Eleadi età…)
Le trascrizioni sulle erme che
ricordano i medici di Velia.
Medici che furono probabilmente a
capo della scuola e risalgono al
540 a.C. – 260, 161 e 95 a.C.
(Sono citati un Gironimo e Aristono).
Velia – Statua cultuale di
Asclepio.
Oltre alla statua furono rinvenuti
frammenti di un altare e un pozzo che
faceva parte del santuario del dio
della medicina.
Santuario che presenta un
sotterraneo per il culto infero del dio.
Non
si deve scartare anche l’ipotesi che la Scuola non fu mai fondata ma si
costituì lentamente nel tempo attraverso l’operato di medici ed allievi che si
basarono sul patrimonio culturale ereditato arricchendolo con le nuove
esperienze mediche.
La storia della “Schola Salernitana” è quindi
schematicamente caratterizzata da tre distinti periodi:
-
IX – X secolo dove i documenti e le citazioni sono
pochissime e poco attendibili;
-
XI – XIII secolo; corrisponde al periodo di maggiore
interesse culturale;
- XIV – XIX secolo, periodo
della decadenza
X – XI Secolo
Le notizie sono scarse e si presuppone la sua nascita
di natura laica o monastica e in merito ai medici che ne facevano parte, non si
sa se fosse già presente una precisa organizzazione istituzionale.
Salerno già nel IX secolo era famosa per la sua
cultura giuridica legata alla presenza di maestri laici e di una scuola
ecclesiastica per la presenza di
numerosi monasteri presenti sul Monte Bonadies.
Accanto ai maestri del diritto c’erano anche dei
maestri che curavano la salute del corpo ed insegnavano l’arte medica. I nomi
di questi medici risalgono all’ VIII secolo quando Arechi II (duca longobardo,
duca di Benevento e successivamente di Salerno dal 774 anno fino alla sua
morte) fissò la sua dimora a Salerno facendo costruire un grande castello.
Favorì ulteriormente lo sviluppo della scienza medica
? Nel X secolo la città era conosciuta
non solo per il clima salubre ma anche per la sapienza dei suoi medici ..”erano privi di cultura letteraria, ma
forniti di grande esperienza e di un talento innato”. Nel 984 Adalberone di
Laon (vescovo e poeta francese) si recò a Salerno per farsi curare dai medici.
Nell’820
circa, l’arciprete Adelmo organizzò nei pressi del cenobio di San Benedetto un
infermeria che in seguito fu aggregata al convento.
Nell’865,
il principe longobardo Guaiferio, nei pressi del suo palazzo, edificò una
chiesa dedicata a San massimo alla quale fu annesso un piccolo “hospitium” per
vedove ed orfani. Una struttura che fu affidata ai benedettini.
Il principesco
Palazzo San Massimo con annessa chiesa oggi sconsacrata
Un
cronista di Minori narra che nell’874 una giovane sposa di Nome Teodenanda,
gravemente ammalata, fu condotta a Salerno dai suoi familiari presso
l’archiatra (medico principale o protomedico) Gerolamo. Gerolamo consultò i
numerosi testi medici di una vasta e ricca biblioteca (“librorum immensa
volumina”) ed alla fine, con grande dispiacere, fu costretto a deludere le speranze
della giovane su una possibile guarigione.
Teodenanda sarà poi miracolata a Minori da Santa Trofimena.
Il racconto di questo sconosciuto cronista dimostra già al tempo
l’esistenza di una ricca biblioteca medica.
E ancora…. Agli inizi del X secolo, la moglie del re Carlo III, aveva a
corte un medico salernitano.
(Carlo III di Francia sposò prima Frederuna, regina dei Franchi Occidentali
e regina di Lotaringia, e alla sua morte
Eadgifu, figlia del re del Wessex, Edoardo il Vecchio).
Il Vescovo di Verdun Adalberone, si recò a Salerno nel
984 per ricevere delle cure, come fece anche Desiderio, abate di Montecassino
nel 1050.
Beniamino De Tudela, un viaggiatore ebreo del X sec. ,
riportò nelle sue note di viaggio la descrizione della città di Salerno… “urbem medicorum scholis illustrem”
(illustre per le sue scuole di medicina).
Un curioso
episodio ci viene riportato dallo storico francese Richero di Reims
(cronista del tempo). Un episodio, che risale al 900 circa nella corte
francese, su un contrasto tra Deroldo, vescovo di Amiens, e un medico
salernitano.
Il cronista mise in risalto la superiorità della
medicina francese su quella salernitana… una posizione naturalmente di parte e
quindi non obiettiva, mettendo in grande rilievo le caratteristiche della
stessa scuola medica francese affermando che “Deroldo possiede maggiore cultura e che il salernitano è dotato di
impegno naturale e di una notevole esperienza pratica”.
Il medico salernitano rimase in Francia e si stabilì
in Provenza nei pressi di Draguignan. Qui mise in risalto la sua grande
esperienza e bravura medica. Il borgo medievale dopo la morte del medico prese
il nome di Salernes e la memoria del medico entrò nella storia della cittadina
rimanendo viva fino ad oggi.
Salernes
Nell’XI
secolo l’anonimo cronista dei vescovi di Verdum (Francia) scrisse come il
Vescovo Adalbero II nel 986 si recò a Salerno per farsi curare i calcoli renali
“ut a medicis curetur”.
Anche
un poeta di origine renana, noto sotto il nome di “Archipoeta”, su consiglio
del presule Reinald Von Dassel, si recò a Salerno nel XII secolo per curare le
sue precarie condizioni di salute. Il poeta quando ritornò in Germania, lodò la
scuola medica salernitana e riferì al presule..”Illuc pro morbis totus circumfluit orbis” (tutti confluiscono a Salerno
per curare i propri mali”).
Nell’XI
secolo anche Desiderio, abate di Montecassino, andò a Salerno per farsi curare
così come Adalberto, arcivescovo di Breman, che fu curato dal un medico
salernitano di nome Adamatus.
Alcuni studiosi portarono avanti la tesi su una origine
monastica dato che erano presenti alcuni monasteri benedettini dotati di
ospedali e di medici il cui nome era seguito da un attributo ecclesiastico. La
Regola benedettina prescriveva a ciascun abate di destinare una parte del
convento alla cura dei malati e l’orto alla coltivazione di piante medicinali
necessarie per la cura dei pazienti.
La
cultura scientifica salernitana fu legata anche al rinnovamento culturale
legato al monachesimo benedettino che aveva anche a Montecassimo il suo centro
propulsore ed a Salerno la sua espressione più alta nell’abbazia di San
Benedetto.
L’atteggiamento
dei Longobardi nei confronti della popolazione locale si modificò in seguito
alla loro conversione al cristianesimo. Una conversione per merito del vescovo
di Benevento, San Barbato, intorno al 680 ed alla conseguente ricostruzione
dell’abbazia che era stata distrutta nel 581 quando la città fu conquistata.
Nelle
infermerie come sanciva la Regola di San Benedetto……mentre nel giardino dei
semplici si coltivano le essenze con cui si preparavano i medicamenti. Lavnda,
rosmarino, rose selvatiche e anche limoni, arance, melograni, che gli arabi
avevano introdotto con successo nella pensiola. La parola “semplici” deriva dal
lato medievale “medicamentum” o “medicina simplex” usata per definire le erbe
medicinali. Inizialmente non si parlava di giardino , ma di Horto dei semplici.
Il primo orto botanico del mondo occidentale sorse proprio a Salerno oggi
“Giardino della Minerva”.
Un
giardino a terrazza su sei livelli, di proprietà fin dal XII secolo della nobile famiglia
Silvatico. Opera di Matteo Silvatico, vissuto nel primo ventennio del 1300 e
maestro della Scuola Medica Salernitana.
Il
giardino è irrigato con canalette su cui scorre l’acqua di una fonte interna.
Oggi
è chiamato il giardino di Minerva e cono presenti circa 300 varietà di piante
medicinali.
Giardino della
Minerva
L’ipotesi però più accreditata è legata alla presenza a
Salerno di libere associazioni di maestri e di studenti per l’apprendimento
teorico-pratico della medicina.
All’inizio i medici avrebbero lavorato con i propri allievi
in laboratori e solo in un secondo tempo si riunirono in corporazioni dando
luogo alla formazione della “Schola Salernitana”.
XI
– XIII Secolo;
La particolare posizione del porto della città, al centro
del Mediterraneo, favorì gli influssi della cultura araba e greco-bizantina.
Arrivarono i libri di Avicenna e Averroè e giunse dall’Africa anche il noto
medico cartaginese Costantino l’Africano che si stabili proprio a Salerno per
diversi anni traducendo dall’arabo molti
testi di Ippocrate, di Galeno e di altri maestri della medicina araba.
È probabile che sotto questa forte spinta culturale le
opere classiche , che si trovano chiuse nelle biblioteche dei conventi, furono
riscoperte e divulgate. La disciplina scientifica uscì dalle abbazie per
confrontarsi col la pratica sperimentale.
I monaci dei monasteri di Salerno e della vicina Badia di
Cava potrebbero aver svolto, con il loro patrimonio culturale, un ruolo
importante nello sviluppo della “Schola”.
Badia di Cava dè Tirreni
Nell’XI secolo erano presenti nella città tre importanti
figure dell’Ordine benedettino: Papa Gregorio VII; l’abate di Montecassino,
Desiderio, futuro papa Vittore III, e il vescovo Alfano.
Le prime tracce di lettera medica risalgono proprio all’XI
secolo. Si tratta di scritti di terapia e patologia strettamente collegati alla
tradizione classica e antica fondata sulle teorie di Ippocrate e Galeno. Nei
trattati viene messa in evidenza come la malattia sia uno squilibrio operante
all’interno del corpo umano tra i quattro umori in esso presenti: sangue, bile,
flemma (secrezioni delle fosse nasali ritenute provenienti dal cervello) e
atrabile o bile nera ritenuta proveniente dalla milza.
Sono
presenti anche trattati farmacologici arricchiti dalle esperienze dei medici
salernitani e non solo.
In questo periodo
s’inserisce l’opera di Alfano (1010 – 1085), abate di San Benedetto e
successivamente Vescovo di Salerno. Grecista e latinista tradusse in latino dal
greco numerosi testi di medicina ed fu anche autore di alcuni trattati medici: “De quattuor umoribus” (studio clinico
terapeutico sulle alterazioni degli umori, sulla sintomatologia, sulle terapie
e sullo studio dei vegetali con le loro proprietà medicinali) e “De Pulsibus” che fa riferimento agli
scritti di Galeno.
Molti di questi medici furono monaci e chierici anche se la
componente laica fu preponderante nell’arte medica salernitana.
A gestione laica era l’ospedale di San Biagio, fondato
sempre a Salerno nel 1138 presso la chiesa di
San Giovanni “extra moenia”. Altri medici famosi erano
Garioponto, Petroncello e Trotula… una donna.
La cultura longobarda riconosceva alla donna una parità di
diritti con l’uomo. Non mancavano le fanciulle che avevano imparato dai padri e
dai fratelli arti che erano ritenute esclusivamente maschili come la retorica,
la filosofia, la scienza e anche l’uso delle armi.
Salerno
– Chiesa di san Biagio
La
Chiesa faceva parte del complesso dell’ospedale
Anche per le sedi della “Schola” non ci sono notizie ben
precise.
Secondo lo storico Riccardo Avallone le sedi d’insegnamento
furono in ordine cronologico:
Il castello di Arechi o le sue adiacenze; la cappella
superiore e inferiore di Santa Caterina, nell’atrio ai piedi della scalinata
marmorea del duomo (le odierne sale San Tommaso e San Lazzaro).
Castello
Arechi
A causa dell’inagibilità della cappella di Santa Caterina
d’Alessandria, la sede della scuola fu trasferita nel palazzo dell’antica
pretura, ubicato in via Trotula De Ruggero. L’ultima sede fu l’ex seminario
arcivescovile.
La storia della “Schola salernitana” fu accompagnata da una
serie di leggende. Una delle più celebri è quella del principe Enrico che si
recò nella cattedrale di Salerno per pregare sulla tomba di San Matteo. Una
storia che fu tramandata dai menestrelli tedeschi medievali e che fu riscoperta
nelle sue ricerche dallo scrittore e poeta americano Longfellow nell’Ottocento.
È
una bellissima storia d’amore… un poema di Hartmann Von Aue, scritto nel 1190
in lingua “alto medio tedesco” che collega modelli narrativi cortigiani e
spirituali. Una breve novella su un nobile cavaliere colpito da una malattia
terribile: la lebbra.
Può
essere guarito solo dal sangue del cuore (innamorato) di una vergine che si
dovrebbe sacrificare volontariamente.
Prologo
dell’”Armer Heinrich”
Heidelberg –
Biblioteca dell’Università (Codex palatinus germanicus 341, fol. 249 ra)
XII secolo.
“Enrico era un giovane
barone di Ouwe, in Svezia, ricco ed con un alto prestigio sociale. Aveva in sé
tutte le virtù del nobile cavaliere ed un comportamento cortese. Il giovane barone
abbandonò la sua vita sociale quando venne colpito dalla lebbra. Tutti si
allontanarono da lui con disgusto e paura.
Il giovane non
accettò la malattia, che considerava come un operato divino, frutto di un
castigo, e consultò tutti i medici per trovare una possibile via di guarigione.
Si recò invano a Montpellier dove i medici non gli diedero alcuna speranza di
guarigione. Si recò a Salerno dove visitò la Schola Salernitana. Qui apprese da
un medico la possibilità di un rimedio alla sua malattia. Un rimedio che però
non era nella sua disponibilità…poteva guarire grazie alla linfa vitale di una
vergine in età matrimoniale che volontariamente si doveva sacrificare per lui.
Il giovane era
disperato e capì che non c’era alcuna speranza di guarigione. Ritornò sconsolato
nella sua tenuta in Svezia; donò una parte delle sue proprietà e si ritirò in
una sua fattoria.
Qui conobbe la
figlia dodicenne, Elsie, di un contadino. La giovane ragazza non aveva paura di
Enrico e della sua malattia e subito diventò la sua compagna devota. Enrico
s’innamorò dimenticando la propria
malattia. Fu un amore ricambiato e la giovane, dopo tre anni, venne a sapere
qual’era il rimedio di guarigione per Enrico. Si dichiarò subito pronta a
sacrificarsi per lui e di accettare la vita eterna con Dio. Riuscì a convincere
i suoi disperati genitori ed Enrico con i suoi discorsi.. I suoi discorsi dimostrarono una grande fede
nello Spirito Santo ed il desiderio di accettare il suo sacrificio come un
volere di Dio.
Enrico ed Elsie
partirono per Salerno. Qui incontrarono il medico che cercò di convincere
inutilmente la ragazza a desistere dal suo proposito. Vinne sdraiata e legata
sul tavolo operatorio ma Enrico, che attraverso una fessura della porta vide
quell’orribile scena della sua amata, entrò nella stanza gridando di accettare
la lebbra come volontà di Dio. Elsie, che fino a quel momento aveva dimostrato
una grande compostezza, vistasi privata della vita eterna, rimproverò ad Enrico
di non averla lasciata morire e lo respinse come un vigliacco.
Sulla via del
ritorno Enrico guarì miracolosamente grazie alla misericordia di Dio.
Tornarono nella
fattoria dove si sposarono nonostante la differenza di posizione sociale.
Enrico riuscì a recuperare il suo prestigio sociale; Meier, il padre della ragazza
diventò fattore. Enrico ed Elsie furono felici..
Questo
è il racconto originale ma c’è una variante legata al miracolo della guarigione
di Enrico.
Enrico prima di
presentarsi alla “Schola Salernitana” si recò nella Cattedrale di Salerno per
pregare sulla tomba di San Matteo. Qui in preda ad una visione si ritrovò
miracolosamente guarito dal male. Sposò Elsie
sullo stesso altare dedicato al Santo.
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La Schola raggiunse il suo massimo splendore sia con
studenti che desideravano apprendere l’arte medica sia con gli ammalati che
speravano di essere guariti. Un flusso notevole da tutta Europa e d’altra parte
la notorietà dei medici che operavano nella Schola è testimoniata dalle
cronache dell’epoca e dai numerosi manoscritti conservati nelle maggiori
biblioteche d’Europa.
Un
giusto riconoscimento venne sancito dal grande imperatore Federico II di Svevia che nel 1231, nella sua Costituzione di
Melfi, sancì che l’attività di medico poteva essere svolta solo da dottori in
possesso di diploma rilasciato dalla “Schola
Salernitana”.
Infatti l’articolo 45 (lib. 3) descrive la procedura
per il conferimento delle licenze mediche, secondo la quale il candidato, una
volta superato l’esame davanti ai maestri della Scuola, doveva presentarsi al
Re o ad un suo rappresentante per ottenere la licenza. L’imperatore prescrisse
che, per il conseguimento della laurea, l’allievo doveva studiare per tre anni
logica, come preliminare per lo studio della medicina, il cui corso doveva
durare cinque anni e includere anche un anno di pratica con un medico anziano,
ed inoltre, era prevista ogni cinque anni l’autopsia di un corpo umano. Di
notevole rilevanza è anche l’articolo 47 il quale imponeva che tutte le
medicine fabbricate nel reame, prima di essere poste in commercio, dovevano
essere controllate dai maestri medici della scuola. In seguito con i successori
di Federico II, il figlio Corrado IV e Manfredi, rimasero inalterati i
privilegi concessi alla Scuola. Il re Corradino, nel 1252, trasferì a Salerno,
anche se per poco, l’università di Napoli per punire la città che, dopo la
morte di Federico, si era associata ai moti eversivi scoppiati in quel periodo
contro gli Svevi. Con la dominazione angioina, Carlo I d’Angiò, rimasero in
parte inalterati i privilegi elargiti dai suoi predecessori alla scuola, grazie
all’intervento di un certo Petrus Morronus, insegnante di medicina, che permise
agli studenti salernitani e ad alcuni insegnanti l’esenzione dalle tasse. La
scuola medica salernitana mantenne, per molto tempo, il vecchio sistema degli
stipendi pagati dagli studenti ai propri insegnanti sulla base di un contratto
privato. Il nuovo sistema degli stipendi pubblici fu adottato soltanto nel XIV
secolo, quando la scuola divenne una istituzione cittadina e mantenne questo
regime fino alla sua soppressione. Un passo avanti, di notevole rilievo, fu
fatto dalla scuola sotto la dominazione della regina Giovanna I nel 1359. La
sovrana stabilì, a differenza dei suoi predecessori, che la scuola poteva
rilasciare licenza senza l’assenso dei commissari regi e, inoltre, tutti coloro
che acquisivano la laurea a Salerno, potevano esercitare liberamente la
professione medica in tutto il reame. Questi importanti privilegi concessi alla
scuola vennero confermati anche in seguito sotto la dominazione aragonese.
I principi Sanseverino, che governarono Salerno per
circa un secolo (XV-XVI sec.), contribuirono notevolmente al progresso della
Scuola Salernitana, dove non era insegnata soltanto la medicina, ma anche altre
materie come la filosofia e il diritto. Interessante la presenza a Salerno, in
questo periodo, di un famoso filosofo, Agostino Nifo, che fu degno membro del
collegio salernitano. Per dare un’idea dell’importanza della scuola è
sufficiente affermare che in origine era proibito a chiunque esercitare nel
reame l’ ”Ars Medica” se non avesse acquisito la licenza presso la scuola di
Salerno che fu quindi una delle prime città dell’Occidente dove si conferiva la
laurea in medicina.
XIV
– XIX Secolo
Con la nascita dell’Università di Napoli, la Schola
cominciò a perdere la sua importanza. Il suo prestigio fu inspiegabilmente
oscurato da altre università emergenti come Montpellier, Padova e Bologna.
L’istituzione rimase comunque in vita per diversi secoli fino al 29 novembre
1811 quando fu soppressa da Gioachino Murat in occasione di una
riorganizzazione pubblica nel Regno di Napoli. L’ultima sede fu nel Palazzo
Copeta.
Salerno – Palazzo Copeta
Le rimanenti Cattedre di Medicina e di Diritto della
“Scuola Medica Salernitana” operarono nel “Convitto Nazionale di Tasso” di
Salerno per circa un cinquantennio fino alla loro chiusura nel 1861. Una
chiusura avvenuta per ordine di Francesco De Sanctis, allora ministro nel
neonato Regno d’Italia.
Dopo secoli di
assenza il 18 ottobre 2005 un giusto riconoscimento. Fu firmato il protocollo
d’intesa per l’istituzione della Facoltà di Medicina nell’Università di
Salerno.
Il 14 settembre 2012 fu inaugurato l’EBRIS (Istituto
Europeo di Ricerche Biomediche di Salerno)
nei locali dell’ex Convento di San Nicola della Palma, una delle
probabili sedi dell’antica scuola.
L’Istituto con il contributo del Massachusetts General
Hospital, è impegnato nella ricerca di nuove cure per la celiachia e vari
disturbi alimentari.
La Scuola
rappresenta un monumento fondamentale nella storia della medicina per le
innovazioni dato che riuscì ad introdurre, per la prima volta, il metodo e
l’impostazione della profilassi e della prevenzione.
Di
particolare importanza, dal punto di vista culturale, fu anche il ruolo svolto
dalle donne nella pratica e nell'insegnamento della medicina. Le donne che
insegnarono e operarono nella scuola divennero famose col nome di “
Mulieres Salernitanae”.
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8a)
TROTULA DE
RUGGIERO - Una delle più importanti
mediche della “Schola
Salernitana”
Tra
il X e il XII secolo si sviluppò la “Schola salernitana” per merito
dell’Imperatore Federico II di Svevia che stabilì, nelle Costituzioni di Melfi, la necessità di
frequentare la scuola di Salerno per i medici. La partecipazione femminile alla
scuola fu davvero sorprendente e favorita dalla principessa Sichelgaita di
Salerno, moglie di Roberto il Guiscardo.
La
più famosa di questa “Schola” fu Trotula (piccola trota) de Ruggero a cui venne
attribuito il trattato “Tretula major”, sulle malattie delle donne e il
“Tretula Minor” dedicato ai trattamenti di bellezza e di cosmetica. Alla base
dei due trattati le conoscenze ereditate da Ippocrate e da Galeno.
Due
trattati compilati con cura e notevole ricostruzione storica arricchite con
immagini di essenze botaniche veramente molto belli.
Trotula (Trottula, Trotta, Trocta o Troctula) nacque a
Salerno dalla nobile famiglia De Ruggiero famosa per aver anche donato una
parte dei propri averi a Roberto il Guiscardo per la costruzione del Duomo di
Salerno.
La
sua data di nascita è sconosciuta mentre le fonti sulla sua morte citano l’anno
1097.
Intraprese
gli studi di medicina e visse operando al tempo dell’ultimo principe Longobardo
di Salerno, Gisulfo II, probabilmente prima dell’arrivo in città del medico
Costantino l’Africano.
Sposò
il medico Giovanni Plateario, da cui ebbe due figli: Giovanni Plateario il
Giovane e Matteo. Entrambi proseguirono l’attività medica dei genitori e furono
ricordati come Magistri Platearii.
Trotula
entrò a fare parte di quelle studiose che insegnavano ed erano attive nella
Scuola Salernitana, la prima, più importante, istituzione medica d’Europa nel
Medioevo.
I
suoi studi relativi ai problemi e ai disturbi del parto, al concepimento ed
alla sterilità furono espressi nel suo trattato “De passionibus mulierum ante in et post partum” che le diede una
notorietà indiscussa per secoli.
Il
sottotitolo è “un libro unico di Trotula
sulla cura delle malattie delle donne prima, durante e dopo il parto mai prima
edito, in cui vengono minutamente illustrate le infermità e le sofferenze che
capitano al sesso femminile, la cura dei bambini e dei ragazzi al momento del
parto, la scelta della nutrice, oltre alle restanti cose che hanno a che fare
con le prescrizioni riguardanti entrambi i sessi le esperienze infinite di
varie malattie con alcuni preparati che servono ad abbellire il corpo”.
Il
trattato fu edito a stampa solo nel 1544 a Strasburgo nell’edizione di George
Krant. La sua traduzione italiana, fortemente interpolata, fu inclusa
nell’edizione aldina di medici “Antiqui Omnes” che fu pubblicata a Venezia nel
1547.
Il
suo trattato fu anche uno studio filosofico dove la bellezza, la salute,
l’armonia, la cura e gli affetti, costituivano un insieme. Il corpo non era separabile o
suddivisibile così come il contesto di relazioni che accompagnavano la nascita,
la cura del bambino e della sua relazione con la figura della madre o della
nutrice.
L’autrice
iniziò la trattazione con la diversità anatomica e fisiologica della donna che,
a differenza degli uomini, era più
debole e più soggetta a patologie che riguardavano gli organi riproduttivi.
Citò come queste patologie potevano
essere combattute con cure specifiche come salassi, erbe ma era soprattutto lo
stile di vita sano e l’alimentazione equilibrata a determinare la buona salute
delle donne.
Si
soffermò molto sulle cause della sterilità che potevano essere implicite sia
nell’uomo che nella donna e sostenne che l’utero era strettamente connesso con
il cervello.
Un
primo sconvolgimento storico dove il problema della sterilità era, fino a quei
tempi, un problema esclusivamente femminile.
Le
parti più interessanti e per certi versi rivoluzionari furono quelle collegate
alle nozioni di ostetricia.
Consigli
sul parto, sulla necessità di suturare le lesioni perineali, comportamenti da
parte della puerpera e anche indicazioni su come gestire il neonato.
L’ultima
parte era dedicata alla cura della bellezza cioè alla cura estetica con
numerose ricette cosmetiche in merito alla pelle, alle labbra, ai capelli, al
sorriso.
Una
cura che la donna doveva a se stessa.
Questo argomento, importante perché da collegare
all’equilibrio tra corpo, la psiche e la relazione con gli altri, fu ripreso
nel trattato De Ornatu Mulierum o Trotula minor. Un trattato sulle
malattie della pelle e la loro cura.
Nel suo “Trotula
minor” fornì consigli per esaltare la bellezza e mascherare sapientemente
piccoli difetti con unguenti, balsami, profumi e tinture ricavate dal mondo
vegetale.
Creme varie a base di sugna, olio o latte di mandorla;
balsami creati con la malva, violetta o figlie di salvia bollite nel vino. Nel trattato erano presenti ricette per
prevenire le rughe, guarire le impetigini, rendere i denti più bianchi,
rimediare alla caduta dei capelli.. e anche ricette di “fard” e rossetti
ottenuti dalla polvere di robbia. Molti degli ingredienti descritti da Trotula
vengono ancora oggi impiegati nell’industria cosmetica.
Una ricetta famosa era la maschera colorante per i
capelli” saracena a base di ceneri di rami di vite e di frassino, cotti
nell’aceto insieme alla noce di galla. Andava applicata dopo aver lavato i
capelli con la liscivia e lasciata agire per una notte intera. Consigli anche
delle lozioni per coprire i capelli bianchi; per i capelli castani bisognava
lavarli con uno “shampoo” composto da gomma
adragante, noci di galla tostate o estratto di castagne cotti in un
infuso di acqua piovana e foglie di noce; i capelli neri invece vanno lavati
con acqua e raccolti per due giorni e per due notti con una maschera a base di
ruggine, noce di galla, noci e allume bolliti nell’aceto.
Tutta quest’attenzione può stupire in un paese dove i
capelli sono coperti dal velo o copricapo che distingue le donne sposate dalle
signorine en cheveux (“in
capigliatura”): tutte rigorosamente con capelli lunghissimi, raccolti in
trecce e chignons. Ma se il mondo medievale raccomandava
alle donne di nascondere i capelli per uscire di casa, era proprio perché li
considerava un bene prezioso e conturbante, che andava conservato con cura. Si
raccomandava da ogni parte la più scrupolosa pulizia ed era importante che
fossero sempre in ordine e ben pettinati: i pettini pettini essere d’avorio,
d’osso o di bosso. Alcuni sono sopravvissuti fino a noi, e sono dei veri
capolavori. La stessa cura era riservata anche al resto del corpo.
Alla studiosa viene anche dato il merito di aver
creato un sapone intimo che grazie all’aggiunta di petali di rose aveva un
forte potere antibatterico.
La bellezza era il segno di un corpo sano e della sua
armonia con l’universo. Le erbe medicamentose, le pomate naturali, i bagni,, i
massaggi erano tutti metodi curativi utili per permettere alla donna di vivere
in modo sereno il rapporto tra il proprio corpo e quello con la propria psiche.
Siamo nel XIII secolo e le cure, terapie di Trotula
erano conosciute in tutta Europa e facevano parte della tradizione popolare.
A dispetto della storia scolastica che non cita queste
grandi scienziate e nemmeno la Schola Salernitana, i suoi scritti vennero
seguiti fino al XVI secolo come testi per le scuole di medicina più famose.
La statua di
sabbia che ritrae Trotula De Ruggiero presso la mostra natalizia a Piazza della
Concordia a Salerno – Gennaio 2019
La sua figura fu quasi idealizzata sino a diventare un
leggenda. Ciò fece felici gli studiosi
che misero in dubbio la sua esistenza perché era una donna… e non solo…
attribuirono i suoi scritti a ad autori… maschili.
Il Trotula Maior, in particolare, venne trascritto più
volte nel corso del tempo subendo numerose modificazioni. Come altri testi
scritti da una donna, venne impropriamente attribuito ad autori di sesso
maschile – a un anonimo, al marito o a un fantomatico medico “Trottus”.
Nel XIX secolo alcuni storici, tra cui il tedesco Karl
Sudhoff, negarono la possibilità che una donna avesse potuto scrivere un’opera
così importante e cancellarono la presenza di Trotula dalla storia della
medicina. La sua esistenza fu però recuperata con gli studi di fine Ottocento
dagli storici italiani, per i quali l’autorità di Trotula e l’autenticità delle
Mulieres Salernitanae sono sempre state incontestabili.
La cultura medievale permetteva alle donne di
condividere con l’uomo gli aspetti sociali come le cariche politiche e
religiose e la possibilità di accedere alle Scuole Mediche.
Un merito bisogna riconoscere a Trotula ed è quello di
essere riuscita a risolvere ed a discutere molti aspetti e problemi legati alla
sfera femminile ..
Trotula
riteneva che la prevenzione fosse l’aspetto principale della medicina
sottolineando anche l’importanza dell’igiene, della sana alimentazione e
dell’attività fisica. Non fece mai ricorso a pratiche medievali rivolte
all’astrologia, alla preghiera e tanto meno alla magia. In caso di malattia
consigliava sempre dei trattamenti che si possono definire “dolci” e che
includevano bagni, massaggi in sostituzione dei metodi radicali e spesso cruenti
operati dai colleghi maschili.
Consigli
di facile applicazione e quindi seguiti soprattutto dalle persone meno
abbienti.
Le sue conoscenze in campo ginecologico furono
eccezionali e molte donne ricorrevano alle sue cure. Fece nuove scoperte anche
nel campo dell’ostetricia e delle malattie sessuali. Cercò nuovi metodi per
rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite. Si occupò del
problema dell’infertilità, cercandone le cause non soltanto nelle donne, ma
anche negli uomini, in contrasto con le teorie mediche dell’epoca.
Le sue esperienze furono annotate nei due trattati e
il primo trattato “Trotula maior” le
fu richiesto da una nobildonna.
I suoi libri si
rivolgevano alle donne ““ché non parlano
volentieri delle loro malattie agli uomini, per un sentimento di pudore”.
La trattazione risulta straordinaria anche perché, per
la prima volta, una donna medico parla esplicitamente di argomenti sessuali senza nessun accento moralistico. Accanto all’elaborazione teorica delle
esperienze, nel testo si trovano numerosi esempi pratici. Trotula conosceva gli
insegnamenti di Ippocrate e di Galeno (129-200 d.C.) e vi faceva riferimento
nelle sue diagnosi e nei suoi trattamenti.
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8b) Abella di Castellomata; Rebecca Guarna (XIII – XIV
sec.); Maria Incarnata;
Mercuriade
(XII sec.); Costanza Calenda; “Regimen Sanitatis Salernitanim”, scritto
in versi, “Flos Medicinae” (Arnaldo da
Villanova commentò il “Regimen S.”).
Nei secoli XII e XIII - XIV la Schola Salernitana toccò il suo apice.
Diversi fattori favorirono questo straordinario
sviluppo con un conseguente aumento della sua notorietà: molti testi arabi che
furono tradotti dal medico Costantino l’Africano che si trovava a Salerno; lo
sviluppo degli scambi commerciali con la Spagna, l’Africa e la Terrasanta che
avevano nel porto di Salerno uno degli scali più importanti d’Europa; la
diffusione della pratica medica grazie all’arrivo dei pellegrini e dei feriti
reduci dalle Crociate.
Una produzione scientifica ragguardevole e
l’originalità nelle opere di terapia e di diagnostica di numerosi maestri, tra
cui il figlio di Trotula, Giovanni Plateario.
Si sviluppò nei maestri l’attenta osservazione dei
sintomi nell’individuazione dello stato patologico e questo diede un grande
impulso sullo studio delle analisi delle urine.
Grandi maestri come Mauro di Salerno, Ursone di
Calabria ed Egidio di Corbeil dedicarono la loro vita nei trattati
sull’indagine uroscopica.
Ebbe un suo sviluppo anche la farmacologia che si
basava in massima parte sull’uso di semplici vegetali. Nacquero trattati in cui
le erbe venivano indagate dal punto di vista scientifico e classificate in base
alle loro proprietà medicamentose, diversamente combinate e dosate secondo le
varie applicazioni terapeutiche.
L’opera fondamentale della botanica medicinale medioevale è il
“Circa Instans,”
L’opera fu attribuita al figlio di Trotula, Matteo
Plateario e sulla cui esperienza si basarono nel secolo successivo le
“Pandectae Medicinae” di Matteo Silvatico.
Anche la chirurgia cominciò ad entrare nelle pratiche
mediche della Schola Salernitana. Un prestigio della Schola fu certamente la
medicina e, cosa che fa scalpore, anche la chirurgia oculistica, una branca di
derivazione araba, di cui fu esponente di spicco in tutta Europa.
Gli
insegnamenti della Scuola ebbero una grande diffusione grazie al “Regimen
Sanitatis Salernitanim”, scritto in versi, “Flos Medicinae” in modo da poter
essere ricordato facilmente. Contiene rimedi e consigli per preservare la
salute, uniformando la condotta di vita ai ritmi naturali del proprio ambiente
e del proprio organismo: dieta, passeggiate, riposo e moderazione. Fu un’opera
collettiva, anonima, risultato della consuetudine popolare, raccolta e
commentata nel secolo XIII dal medico catalano Arnaldo da Villanova. Si
presume che i primi versi siano stati scritti intorno al X secolo e il genere
fu quello dei “tacuina sanitatis”, opere a carattere enciclopedico, in cui
accanto all’illustrazione degli elementi della natura, vi era quella degli
alimenti, degli stati d’animo e delle stagioni, allo scopo di salvaguardare la
salute mantenendo un perfetto equilibrio tra uomo e natura.
Il
nucleo originale andò accrescendosi negli anni, tanto che i 362 versi della
prima edizione a stampa del 1479 diventarono circa 3520 nelle ultime edizioni.
La
Summa dell’insegnamento salernitano era condensata nei versi, che suggerivano
un tipo di vita igienica e tranquilla:
“…se vuoi star
bene, se vuoi vivere sano,
scaccia i gravi
pensieri, l’adirarti ritieni dannoso.
Bevi poco, mangia
sobriamente;
non ti sia inutile
l’alzarti dopo pranzo;
fuggi il sonno del
meriggio;
non trattenere
l’urina, né comprimere a lungo il ventre;
se questi precetti
fedelmente osserverai, tu lungo tempo vivrai.
Se ti mancano i
medici, siano per te medici
queste tre cose:
l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta…”
Abella di
Castellomata,
detta Abella Salernitana (Salerno….; -…) fu una medica italiana attiva nel XIV
secolo ed insegnò nella Scuola medica Salernitana. Pubblicò due trattati: “De atrabile” (sulla bile nera) e “De Natura Seminis Humani” (Sulla natura
del seme Umano). Di queste opere si è persa la traccia.
Rebecca
Guarna (Rebecca de Guarna/ Rebeca de Guarna)
(Salerno XIII – XIV secolo) era figlia del
famoso Romuald Guarna, sacerdote, medico e storico. Medica, chirurgo e
professoressa presso la “Schola Salernitana” fu autrice di alcuni testi medici.
Della sua vita non si sa molto, tranne
la sua appartenenza alla nobile famiglia salernitana dei Guarna. Fu anche un
erborista di grande fama e scrisse i trattati “Di Urini”, “De Febrius”
e “de Embrione” (sull’Urina, sulle
febbri e sull’ embrione). In particolare nel suo trattato sull’urina citò l’uso
di campioni d’urina nella diagnosi delle malattie. Il suo lavoro fu citato
nella Collectio Salernitana.
Tavola delle urine
- Medievale
Maria Incarnata di cui esiste il diploma datato
1343
Mercuriade, di
Salerno e vissuta nel XIII secolo, giovane, bella e stimata medica della
Scuola Salernitana fu vittima di un dongiovanni famoso, il conte Nicola Rufolo
di Ravello. ”Non ha ceduto” ma per
poco, e forse perché da medica conosceva l’altra faccia dell’amore, avendo
curato tante ferite, che all’epoca si chiamavano “incidenti”, Incidenti causati
da mariti violenti sulle rispettive mogli
e per questo preferiva tenersi lontano da simili avventure amorose. Una
grande prudenza e poi la corte di quell’uomo l’aveva senza dubbio lusingata e
questo l’aveva in cuor suo resa colpevole nei confronti di una persona che non
meritava questo affronto. Chi ? La
moglie del conte… una certa Gaita.
Decise
di confessarsi ma non da un prete qualsiasi ma nientemeno da Tommaso d’Aquino.
Aspettò una notte intera fuori dal
convento per essere ricevuta alle prime luci dell’alba dal frate.
Costanza
(Costanzella) Calenda
era figlia di Salvatore Calenda, fisico e chirurgo, priore del Collegio Medico
di Salerno e successivamente di quello di Napoli, ed infine medico della regina
Giovanna II di Durazzo dal 1414 al 1435.
Le
notizie sono scarse, sembra che si sia laureata
verso il 1422, che fosse l’assistente del padre e che abbia tenuto per
conto proprio delle conferenze all’Università di Napoli.
Nel
1423 ricevette un documento con cui riceveva dalla regina il consenso per il
matrimonio con Baldassare, signore di Santomango, che dovette provvedere anche
alla sua dote.
Il
fatto che don Baldassare abbia pagato la dote sta a significare che la famiglia
Calenda o Salvatore Calenda si trovava in gravi condizioni finanziarie e
Baldassare rappresentava una delle famiglie più nobili e potenti dell’Italia
Meridionale. Il Conte non s’innamorò di
una ragazza appartenente ad una nobile famiglia ma di Costanza, di piccola
nobiltà, ma medica e figlia di un medico.
Altre
mediche del medioevo: Federica Vitale,
Venturela Cisinato, Tomasia di Castro, Antonia di Daniello; Perla da Fano.. ...........
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8c) Le
Mediche Catanesi: Bella de Paija (1400) – Virdimura da Catania (XIV sec.)-
In Sicilia nel 1300-1400 si praticava la
chirurgia plastica
Bella de Paija, di origine ebrea, risiedeva a
Mineo (Catania).
I
suoi pazienti le erano grati e le versavano cospicui onorari in segno di
riconoscenza . la sua abilità aveva varcato i confini della piccola Mineo, il centro dove Bella esercitava la sua
professione di chirurgo. Una professione esercitata senza la prescritta
abilitazione.
Subì
delle imposizioni da parte dell’amministrazione comunale perché non doveva
operare l’attività, subendo anche la distruzione delle sue attrezzature
mediche.
Raggiunse
una tale notorietà che la regina Bianca di Sicilia stabilì per decreto che la “dutturissa” poteva esercitare liberamente la sua professione perché “è stato comprovato che l’interessata ha praticato “cum sanitati di li pacienti”.
Vantava
un esperienza di circa vent’anni..” «havi
patricatu et exerzuta l’artidi la celurgia in la quali si havi ben portatu, cum
sanitati di li pacienti», scriveva la regina agli ufficiali di Mineo… un
ordine perentorio agli amministratori comunali di rispettare la medica..
La
regina fu informata degli avvenimenti da parte di persone affidabili e
concedeva quindi l’abilitazione con la licenza di esercitare nelle terre della
camera reginale “«in tucti et qualsi
voglanu infirmitati di celurgia».
Il
riconoscimento alla professione pur essendo prive di titoli accademici era un
segnale importante perché dimostrava sia la specializzazione raggiunta sia
l’abilità nella pratica medica.
Donne
che erano presenti nel territorio e la cui opera s’affiancava a quella degli
uomini medici professionisti rispetto ai quali praticavano sicuramente del
prezzi più bassi.
L’abilitazione
d’ufficio si accompagnava al privilegio di non pagare le tasse.
Il
6 settembre 1414 Bella De Paija entrò nello storia della sanità italiana.
Virdimura da
Catania,
moglie (uxor) Pascalis de Medico, anch’essa ebrea, si sottopose invece il 7
novembre 1376 alla prova di abilitazione davanti ad una commissione composta da
esperti di fiducia della corona e presieduta dal protomedico reale. La
candidata non frequentò una scuola e giunse alla prova con una “lodabile fama” e sorprese gli
esaminatori con una inedita dichiarazione d’intenti: dichiarò infatti di “volersi dedicare alla cura dei poveri “ai
quali è difficile pagare gli immensi compensi richiesti da medici e chirurgi”.
Virdimura
fu quindi la prima donna ufficialmente autorizzata ad esercitare la medicina e
la chirurgia in Sicilia. Le mediche soccorrevano ogni malato ma erano
specialmente le donne a richiedere il loro aiuto. In quegli anni uno dei
problemi maggiori per le ebree era la “perdita della verginità” prima del
matrimonio.
La
paura della “Ketubba” era tanta e il ripudio in questo caso era l’unica soluzione.
Le
donne che si trovavno in questa situazione cercavano di rimediare provando a
ritrovare la verginità perduta. Si affidavano alle mani delle mediche. Queste
grazie alla chirurgia plastica, molto in voga
nella letteratura medica di quegli anni, riuscivano a “ricostruire” la
parte fisica andata perduta.
In
riconoscimento della bravura ed impegno di Virdimura fu istituito un
prestigioso premio internazionale “Il Premio Internazionale Virdimiuyra” a
testimonianza dell’importante esempio di pace e di rispetto di ogni qual forma
di etnia che le mediche catanesi e italiane dell’epoca hanno dato.
Nel 1300 – 1400 in Sicilia esisteva la chirurgia plastica
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A
partire dal secolo XIV la “Schola salernitana” subì un declino malgrado
l’evoluzione scientifica. Il motivo fu probabilmente legato al spostamento del
potere e dell’elaborazione culturale dal mediterraneo al cuore dell’Europa. La
Schola perse la funzione trainante, di grande richiamo internazionale, per
rientrare nella storia di un ambito locale anche se svolse la sua attività per
numerosi secoli e sempre con grande impegno.
Nel
XVI secolo allo Studium s’affiancò il Collegio Doctorum cioè una corporazione
organizzata di dottori con a capo un priore che aveva la facoltà di conferire
lauree in Filosofia e Medicina. La Schola cessò la sua attività nel 1811 quando
la riorganizzazione dell’Istruzione Pubblica del regno, Giacchino Murat
attribuì esclusivamente all’Università di Napoli la facoltà di conferire
lauree.
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9 – Le Prime Donne
Laureate in Medicina in Italia
La Prima Medica di Condotta in Italia
Dopo il 1400, a Salerno, non si ebbero più donne
medico e perché in Italia se ne addottorasse un’altra dobbiamo attendere il
1741, anno in cui a Bologna viene conferita la laurea in medicina ad un’altra
donna.
L’accesso all’Università per le donne venne in Italia
legalmente riconosciuto nel 1875 con un R.D. del 3 ottobre firmato dal ministro
Bonghi.
All’articolo 8 si affermava che “Le donne possono essere iscritte nel registro degli studenti e degli
uditori, ove presentino i documenti richiesti”.
Tra di documenti richiesti: l’attestato di “buona
condotta”(!!!!!!!!!!!) (rilasciato dal Sindaco……); il diploma originale di
licenza liceale ovvero gli altri titoli che, secondo i regolamenti speciali
bastino per l’ammissione ai vari corsi”.
Il Regio Decreto del
ministro Ruggero Bonghi, governo Minghetti (II) si basava su un
paradosso.. sanciva il diritto di iscrizione all’Università per le Donne e si
chiedeva, peggio che nel Medioevo, un odioso certificato di “buona condotta”,
come detto, rilasciato dal Sindaco. Ma come potevano iscriversi all’Università,
dal momento che non erano state ammesse a frequentare la scuola secondaria superiore
e, nella fattispecie il Liceo ? Questo perché la legge di Gabrio Casati poneva dei subdoli limiti all’accesso
e alla frequenza, da parte della donna, alla scuola secondaria superiore. In
realtà un numero esiguo di donne
frequentavano i licei in Toscana grazie alla presenza di leggi preunitarie. La legge
Casati non esprimeva in realtà un divieto ma il suo silenzio consentì che in
taluni licei le donne fossero accolte e in altri, dove il silenzio delle stesse
donne veniva considerato come un esclusione, venivano rifiutate ad arbitrio dei
presidi e dei regi provveditori agli studi.
(La Legge Casati citava sempre e dovunque il termine “allievi”,
“studenti” ed era facile per la società estremamente conservatrice d’allora e
per i suoi alti poteri che la rappresentavano, giocare facilmente su questi
termini).
(Nella Legge Casati nessun riferimento alla scuola
dell’infanzia.. e tra l’altro anche nella didattica aveva delle norme a dir
poco “cervellotiche”.. la Geometria e il Disegno per i maschi veniva sostituita
dalla materia “Lavori Donneschi” per le donne…). Solo nel 1883 fu risolta la
questione con una circolare del ministro Guido Baccelli, 10 gennaio, che
sciolse la questione..
Gabrio Casati…….
L’ingresso all’università non fu facile per le donne.
Le ragazze dovevano affrontare diversi problemi di ordine sociale e morale
prima di varcare le soglie dell’università e a questi ostacoli si aggiungevano
anche i pregiudizi dovuto alla presenta “naturale” inferiorità femminile che le
rendeva oggetto di schermo da parte dei colleghi.
Grandi i timori delle famiglie di lasciare le giovai libere
di allontanarsi da casa perchè costrette a postarsi in un’altra città per
studiare.
La partecipazione della donna all’Università era molto
temuta. Secondo i politici e non solo, la
loro presenza avrebbe portato ad un decadimento dei costumi, ad un abbassamento
del livello di studio e ad una grande preoccupazione legata al loro ingresso
nel ruolo professionale che avrebbe causato un invasione occupazione post
laurea riducendo le possibilità occupazionali maschili.
Le
laureate in Medicina e Giurisprudenza alla fine del XIX secolo furono quattro,
dato numerico che testimonia gli ostacoli incontrati dalle donne nell’intraprendere
la strada delle libere professioni.
1877 Ernestina Paper laureata in Medicina a Firenze
1878 Maria Fernè Velleda laureata in Medicina a Torino
1886 Anna Kuliscioff laureata in Medicina a Napoli
1892 Giuseppina Cinque laureata in Medicina a Palermo
La Prima Medica di Condotta
Adelasia Cocco di Sassari
Adelasia Cocco è al centro della foto
Nel
1915 una donna, per la prima volta, diventò medica di condotta in campagna. E
non in un tranquillo paesino ma a Lollove, frazione di Nuoro, dove il
precedente medico era stato ucciso con una fucilata: a presentarsi fu Adelasia
Cocco, laurea a Sassari nel 1913. Il prefetto non voleva crederci e
cercò di dissuaderla: “Ci
dev’essere un errore; questo decreto non posso firmarlo. Una donna non può
svolgere la professione di medico condotto in una terra così difficile come la
Barbagia… ci ripensi signorina, ci ripensi….” Adelasia non ebbe alcun
ripensamento, e così rievocava, a 92 anni, la sua esperienza: “Lollove è stata per me la più grossa
rivincita, una vittoria del femminismo, come si dice oggi. Lungo la mulattiera
che conduce alla frazione venne assassinato a fucilate il dottor Romagna. Gli
altri colleghi sanitari, dato il clima di tensione e di paura, si rifiutarono
di prestare servizio a Lollove, e quando il comune rivolse a me l’invito,
accettai. Sul dorso di un cavallo, scortata dall’assessore comunale Predu
Ferru, ogni giorno portavo il conforto della medicina alla popolazione
abbandonata a se stessa. Ero costretta quotidianamente a guadare un fiume, a
correre in aperta campagna tra rovi e macchioni. Il medico in quei tempi in un
paesetto come Nuoro, non ancora capoluogo, era considerato un deus ex machina,
un dio stregone. L’ospedale non era stato ancora aperto ed i sanitari dovevano effettuare
spesso difficili interventi chirurgici a casa o in ambulatorio, ed essere
preparati in tutte le branche della medicina”.
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Fin dall’antichità, le donne hanno contribuito in maniera significativa
allo sviluppo scientifico. Mediche, fisiche, matematiche, biologhe: la storia
abbonda di donne che hanno fatto della scienza la loro ragione di vita, molto
spesso incontrando difficoltà e pregiudizi da parte di una società che non
riconosceva loro il giusto peso e l’enorme contributo che hanno dato al settore
scientifico. Nell’ultimo secolo molte cose sono cambiate, ma forse oggi il
cammino per certi aspetti è ancora disseminato di difficoltà. Donne tenaci e
appassionate che non si sono mai arrese di fronte a un mondo dominato da
uomini, e delle loro conquiste che hanno contribuito a cambiare (in meglio) il
mondo in cui viviamo e sul quale c’è ancora tanto da lavorare…..
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10. Il Giuramento di Ippocrate
Il
Giuramento di Ippocrate viene prestato dai medici, chirurgi ed odontoiatri
prima di iniziare la loro professione (il testo moderno è modificato rispetto
al testo antico). Prende il nome proprio da Ippocrate a cui il giuramento è
attribuito e la cui composizione sembra non anteriore al IV secolo a.C.
Secondo
alcuni storici non fu Ippocrate e dettare il giuramento. Uno dei motivi è
legato all’invocazione inziale alle divinità. Ippocrate fu considerato il primo
ad aver separato la medicina dalla religione ed ad aver ricercato le cause
delle malattie non nel soprannaturale ma nel razionale.
Una
questione che ancora oggi è molto dibattuta e che sembra postare l’origine del
giuramento al pensiero dei pitagorici del IV secolo a.C. che sposavano gli ideali della sacralità della vita ed
erano contrari alle procedure chirurgiche.
«Giuro per Apollo medico
e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e
per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il
mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto:
di stimare il mio maestro di quest' arte come mio padre e di vivere insieme a
lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli
e insegnerò quest'arte, se essi desiderano apprenderla, senza richiedere
compensi né patti scritti; di rendere partecipi dei precetti e degli
insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio
maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del
medico, ma nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio
giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa.
Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né
suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale
abortivo.
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
Non opererò coloro che soffrono del male della
pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa
attività.
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò
da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul
corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.
Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori
dell'esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia
divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.
E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso
di godere della vita e dell'arte, onorato dagli uomini tutti per sempre; mi
accada il contrario se lo violo e se spergiuro.»
Il Giuramento di
Ippocrate da un manoscritto Bizantino dell’XI secolo
Biblioteca
Vaticana
«Ὄμνυμι Ἀπόλλωνα ἰητρὸν, καὶ Ἀσκληπιόν, καὶ Ὑγείαν, καὶ
Πανάκειαν, καὶ θεοὺς πάντας τε καὶ πάσας, ἵστορας ποιεύμενος, ἐπιτελέα ποιήσειν
κατὰ δύναμιν καὶ κρίσιν ἐμὴν ὅρκον τόνδε καὶ ξυγγραφὴν τήνδε.
Ἡγήσασθαι μὲν τὸν διδάξαντά με τὴν τέχνην ταύτην ἴσα γενέτῃσιν ἐμοῖσι, καὶ βίου κοινώσασθαι, καὶ χρεῶν χρηίζοντι μετάδοσιν ποιήσασθαι, καὶ γένος τὸ ἐξ ωὐτέου ἀδελφοῖς ἴσον ἐπικρινέειν ἄρρεσι, καὶ διδάξειν τὴν τέχνην ταύτην, ἢν χρηίζωσι μανθάνειν, ἄνευ μισθοῦ καὶ ξυγγραφῆς, παραγγελίης τε καὶ ἀκροήσιος καὶ τῆς λοιπῆς ἁπάσης μαθήσιος μετάδοσιν ποιήσασθαι υἱοῖσί τε ἐμοῖσι, καὶ τοῖσι τοῦ ἐμὲ διδάξαντος, καὶ μαθηταῖσι συγγεγραμμένοισί τε καὶ ὡρκισμένοις νόμῳ ἰητρικῷ, ἄλλῳ δὲ οὐδενί.
Διαιτήμασί τε χρήσομαι ἐπ' ὠφελείῃ καμνόντων κατὰ δύναμιν καὶ κρίσιν ἐμὴν, ἐπὶ δηλήσει δὲ καὶ ἀδικίῃ εἴρξειν.
Οὐ δώσω δὲ οὐδὲ φάρμακον οὐδενὶ αἰτηθεὶς θανάσιμον, οὐδὲ ὑφηγήσομαι ξυμβουλίην τοιήνδε. Ὁμοίως δὲ οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω.
Ἁγνῶς δὲ καὶ ὁσίως διατηρήσω βίον τὸν ἐμὸν καὶ τέχνην τὴν ἐμήν.
Οὐ τεμέω δὲ οὐδὲ μὴν λιθιῶντας, ἐκχωρήσω δὲ ἐργάτῃσιν ἀνδράσι πρήξιος τῆσδε.
Ἐς οἰκίας δὲ ὁκόσας ἂν ἐσίω, ἐσελεύσομαι ἐπ' ὠφελείῃ καμνόντων, ἐκτὸς ἐὼν πάσης ἀδικίης ἑκουσίης καὶ φθορίης, τῆς τε ἄλλης καὶ ἀφροδισίων ἔργων ἐπί τε γυναικείων σωμάτων καὶ ἀνδρῴων, ἐλευθέρων τε καὶ δούλων.
Ἃ δ' ἂν ἐν θεραπείῃ ἢ ἴδω, ἢ ἀκούσω, ἢ καὶ ἄνευ θεραπηίης κατὰ βίον ἀνθρώπων, ἃ μὴ χρή ποτε ἐκλαλέεσθαι ἔξω, σιγήσομαι, ἄρρητα ἡγεύμενος εἶναι τὰ τοιαῦτα.
Ὅρκον μὲν οὖν μοι τόνδε ἐπιτελέα ποιέοντι, καὶ μὴ ξυγχέοντι, εἴη ἐπαύρασθαι καὶ βίου καὶ τέχνης δοξαζομένῳ παρὰ πᾶσιν ἀνθρώποις ἐς τὸν αἰεὶ χρόνον. παραβαίνοντι δὲ καὶ ἐπιορκοῦντι, τἀναντία τουτέων.»
Ἡγήσασθαι μὲν τὸν διδάξαντά με τὴν τέχνην ταύτην ἴσα γενέτῃσιν ἐμοῖσι, καὶ βίου κοινώσασθαι, καὶ χρεῶν χρηίζοντι μετάδοσιν ποιήσασθαι, καὶ γένος τὸ ἐξ ωὐτέου ἀδελφοῖς ἴσον ἐπικρινέειν ἄρρεσι, καὶ διδάξειν τὴν τέχνην ταύτην, ἢν χρηίζωσι μανθάνειν, ἄνευ μισθοῦ καὶ ξυγγραφῆς, παραγγελίης τε καὶ ἀκροήσιος καὶ τῆς λοιπῆς ἁπάσης μαθήσιος μετάδοσιν ποιήσασθαι υἱοῖσί τε ἐμοῖσι, καὶ τοῖσι τοῦ ἐμὲ διδάξαντος, καὶ μαθηταῖσι συγγεγραμμένοισί τε καὶ ὡρκισμένοις νόμῳ ἰητρικῷ, ἄλλῳ δὲ οὐδενί.
Διαιτήμασί τε χρήσομαι ἐπ' ὠφελείῃ καμνόντων κατὰ δύναμιν καὶ κρίσιν ἐμὴν, ἐπὶ δηλήσει δὲ καὶ ἀδικίῃ εἴρξειν.
Οὐ δώσω δὲ οὐδὲ φάρμακον οὐδενὶ αἰτηθεὶς θανάσιμον, οὐδὲ ὑφηγήσομαι ξυμβουλίην τοιήνδε. Ὁμοίως δὲ οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω.
Ἁγνῶς δὲ καὶ ὁσίως διατηρήσω βίον τὸν ἐμὸν καὶ τέχνην τὴν ἐμήν.
Οὐ τεμέω δὲ οὐδὲ μὴν λιθιῶντας, ἐκχωρήσω δὲ ἐργάτῃσιν ἀνδράσι πρήξιος τῆσδε.
Ἐς οἰκίας δὲ ὁκόσας ἂν ἐσίω, ἐσελεύσομαι ἐπ' ὠφελείῃ καμνόντων, ἐκτὸς ἐὼν πάσης ἀδικίης ἑκουσίης καὶ φθορίης, τῆς τε ἄλλης καὶ ἀφροδισίων ἔργων ἐπί τε γυναικείων σωμάτων καὶ ἀνδρῴων, ἐλευθέρων τε καὶ δούλων.
Ἃ δ' ἂν ἐν θεραπείῃ ἢ ἴδω, ἢ ἀκούσω, ἢ καὶ ἄνευ θεραπηίης κατὰ βίον ἀνθρώπων, ἃ μὴ χρή ποτε ἐκλαλέεσθαι ἔξω, σιγήσομαι, ἄρρητα ἡγεύμενος εἶναι τὰ τοιαῦτα.
Ὅρκον μὲν οὖν μοι τόνδε ἐπιτελέα ποιέοντι, καὶ μὴ ξυγχέοντι, εἴη ἐπαύρασθαι καὶ βίου καὶ τέχνης δοξαζομένῳ παρὰ πᾶσιν ἀνθρώποις ἐς τὸν αἰεὶ χρόνον. παραβαίνοντι δὲ καὶ ἐπιορκοῦντι, τἀναντία τουτέων.»
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