ENCICLOPEDIA DELLE DONNE – (Terza Parte) - LE PRIME MEDICHE DELLA STORIA







Indice:

1.       Asclepio, il dio della medicina – Le sue figlie tutelari della  salute;
2.      Medica   o  Medichessa ?  .. Medichessa è un termine  ironico………;
3.      Le Prime  Mediche della  Storia:
a)      Merit  Ptah (egizia;  2700 a.C.);
4.      Le Mediche presenti nel  Mondo  Greco e  Latino – Ippocrate;
a)      Agnodice  ( 400- 300 a.C.)….. si travestì da uomo per fare la professione di medica;
b)      Mousa; Sorano d’Efeso (I – II sec. d.C.); Scribonia Attice di Ostia; Antiochide; Pontea di Pergamo; Cleopatra di Roma (I sec. d.C.);  Cleopatra (II sec. d.C.); Cleopatra…la regina;  Maria “La Maestra” fondatrice dell’Alchimia e della
tecnica detta “bagnomaria";

5.   Il Primo Ospedale di Roma; Santa Fabiola di Roma;
6.   Gli Ospedali Bizantini; Oribasio; Ezio Amideno; Alessandro di Tales;
7.      Metradora (V – VI sec. d.C.);
8.      La “Schola Salernitana” – la Nascita e collegamento con Velia – La Leggenda; La Storia della “Schola Salernitana” – Il Giardino di Minerva – Le Sedi – La Storia D’Amore fra il Principe Enrico e la contadina Eslie- Federico II di Svevia e la “Schola Salernitana” – I “Reginem Salernitatum” e Arnoldo di Villanova
Le Mediche della Scuola Salernitana;
8a)      Trotula De Ruggiero (Salerno…; …1097); una delle più importanti mediche della Scuola Salernitana;
8b)     Abella di Castellomata; Rebecca Guarna (XIII – XIV sec.); Maria Incarnata; Mercuriade (XII sec.); Costanza Calenda; “Regimen Sanitatis Salernitanim”, scritto in versi, “Flos Medicinae” (Arnaldo da Villanova commentò il “Regimen S.”)
8c) Le Mediche Catanesi: Bella de Paija (1400) – Virdimura da Catania (XIV sec.)-  In Sicilia nel 1300-1400 si praticava la chirurgia plastica


9 – Le Prime Donne Laureate in Medicina in Italia

       Adelasia Cocco; La Prima Medica di Condotta in Italia
10 - Il Giuramento di Ippocrate sulla Professione Medica

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Sin dalla preistoria il compito della donna nella comunità era quello del prendersi cura e questo per svariati motivi: accogliere la vita, allevare i figli, curare i vecchi e i malati. Naturalmente oltre agli altri aspetti sociali:  raccogliere le erbe, prendersi cura degli animali, ecc..
È una società dove la donna fa tesoro dell’esperienza e dell’osservazione, in cui ancora non è presente il sapere scritto, e il suo sapere, legato come detto all’esperienza,  è rivolto ai membri della tribù.
Nella società greca, pur nelle sue limitazioni  e aspetti negativi dato che la donna non aveva molte prerogative, la salute era di pertinenza anche delle donne e veniva pratica  dalle stesse.
Sono all’apparire delle religioni patriarcali il sapere medico femminile  venne avvolto dal mistero. Gli uomini interpretarono negativamente quel sapere fino ad isolarlo e relegarlo a pratiche non consentite perché considerate legate alla magia ed alla stregoneria.
È strano.. la storia ci tramanda  l’immagine di una donna con ruoli diversissimi e sempre legati alla cura, alla salute: la dea, la pitia, la maga, la levatrice, la cosmeta, l’erbaria, la medica, la sacerdotessa, la vestale, la badessa, la santa, l’alchimista, la strega… tutti profili diversi di una stessa persona.

1.      Asclepio
Il dio della medicina era Asclepio e quando il suo culto s’affermò a Roma, le quattro divinità indigene che presidiavano alla salute furono quasi cancellate; Strenua, Cardea, Febris e Salus. Quattro divinità femminile e l’ultima, Salus, fu identificata con Igea, figlia di Asclepio
Le figlie di Asclepio, avute dalla moglie Epione o Lampezia, furono sei: Igea, la salute; Panacea, la personificazione della guarigione universale e onnipotente ottenuta per mezzo delle piante; Iaso, che aveva ereditato dal padre il potere della guarigione; Acheso, che sovrintendeva al processo di guarigione; Egle, madre delle Grazie; Meditrina, la guaritrice. Tutte quindi collegate al concetto di “buona salute”.
Asclepio aveva imparato l’arte medica dal centauro Chirone, grande esperto nella medicina chirurgica, che ricorreva all’uso delle erbe.

Asclepio e la figlia Igea
Bassorilievo -  Museo del Louvre (Parigi)

Asclepio – Musei Vaticani
Da Ostia Antica – Copia del II secolo d.C.

Apollo, innamorato di Coronide, figlia di Flegia, re dei Lapiti, si assentò per un periodo di
tempo e diede incarico al suo fedele servitore, un corvo dal piumaggio bianco, di
sorvegliare la fanciulla. Durante l’assenza di Apollo, la fanciulla s’innamorò del
giovane Ischi con il conseguente tradimento. La relazione fu scoperta dal corvo che
decise di avvertire il suo padrone. Lungo la strada il corvo incontrò la cornacchia a cui rilevò
l’accaduto. La cornacchia cercò di dissuadere il corvo dal suo proposito di
rilevare il tradimento della fanciulla perchè  la stessa cornacchia aveva vissuto una
esperienza simile ed era stata punita da Minerva per averle rilevato il tradimento
di una sua protetta. Il corvo ignorò il prezioso consiglio e rilevò ad Apollo l’infedeltà
della sua amata. Il dio preso dalla collera uccise Coronide trafiggendola con una freccia.
La donna, prima di morire, rilevò ad Apollo di portare in grembo  suo figlio ed ora
per il tuo gesto di collera, il bambino morirà con me”.
Apollo si pentì e cercò di riportare in vita Cornonide ma senza riuscirvi.
Prima di adagiare il corpo della povera fanciulla sulla pira, che era stata già
accesa, riuscì ad estrarre il bambino dal ventre della madre e lo
affidò al centauro Chirone. Al bambino fu dato il nome di Asclepio.
Il figlio ereditò le doti curative paterne e diventò il dio della medicina.
Apollo, per punire il corvo, colpevole di aver fatto la spia e quindi di
aver causato la morte di Coronide, trasformò le sue piume da bianche a nere.
(Una variante del raccolto mitologico riporta che fu Artemide ad uccidere con un
Dardo Coronide, per vendicare l’onore perduto del fratello Apollo.
Apollo per salvare il piccolo si rivolse al fratello Ermes chiedendogli di
prenderlo dal corpo della madre).

Secondo il mito Asclepio ricevette dalla dea Atena il dono di cambiare il suo
sangue con quella di medusa, la Gorgone. Da quel momento il sangue che
sgorgava dalle sue vene del fianco sinistro era velenose e portatore di sventure, mentre
quello che usciva dal fianco destro aveva il potere di guarire qualsiasi malattie e
di fare risorgere i morti.
Ade si lamento con Zeus perché l’afflusso dei morti nell’oltretomba era diminuito.
Asclepio con le sue terapie riusciva non solo a guarire dai mali ma anche a
riportare in vita i morti garantendo una lunga vita.
Zeus decise di fulminarlo perché temeva che il potere, che Asclepio condivideva con
gli uomini, avrebbe potuto minacciare la fede negli dei annullando la differenza tra
divinità ed umanità. Una differenza importantissima che si basava sull’immortalità.
Apollo si sentì oltraggiato a causa dell’uccisione di suo figlio Asclepio e si
vendicò uccidendo i tre Ciclopi che forgiavano le folgori di Zeus.
Per placare l’ira di Apollo, Zeus rese Asclepio immortale facendolo diventare un
“dio minore”. Lo tramutò nella costellazione di Ofiuco e Asclepio, che era
Nato come semidio, divenne un dio sotto forma di costellazione.

Nell’antica Grecia si pensava che bastava dormire in un tempio dedicato ad
Asclepio per guarire da ogni malattia. In ogni tempio c’era almeno un serpente,
che proveniva dal santuario principale di Asclepio ad Epidauro.
Il serpente era considerato un animale sacro perché simbolo del rinnovamento.
Uccidere un serpente di un tempio di Asclepio era considerato un grande sacrilegio.
Anche nella cultura siciliana uccidere un serpente porta “male” ed è auspicio di gravi sciagure.

Asclepio (Asklepios) nell’antica Roma prese di nome di Esculapio (Aescupapius) e il
suo culto fu introdotto sull’Isola Tiberina nel 291 a.C.
la tradizione narra che in quell’anno la popolazione romana fu colpita da una terribile
peste. Il Senato Romano consultò i Libri Sibillini e decise di costruire un tempio
dedicato al dio. per questo scopo fu inviata una delegazione ad Epidauro per ottenere
la statua del dio Asclepio. Sembra che i Romani non riuscirono ad avere una statua del dio
ma l’effige del serpente.  Al ritorno, mentre la barca che trasportava l’effige risaliva
il Tevere, un serpente fuggì e si gettò sul Tevere. Il simbolo del dio si diresse verso l’isola
Tiberina. Il fatto fu interpretato come un volere del dio sul luogo dove doveva sorgere
il suo tempio. Fu costruito un tempio e nel XXI secolo sull’isola sorse uno degli
ospedali più importanti d’Europa; Il San Giovanni Calibita Fatebenefratelli. 

Isola Tiberina – Roma
Il Tempio di Esculapio

Il simbolo del serpente sulla prua dell’Isola Tiberina

Roma - Tempio di Esculapio (ricostruzione)

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2. MEDICHESSA o  MEDICA…. ?????   Medichessa è un termine ironico…..

Prima di passare alla trattazione storica è importante fare alcune precisazioni perché è giusto esprimere una verità che purtroppo è nascosta nei testi scolastici e solo la conoscenza può svelare. Fino alla metà dell’Ottocento le uniche attività che erano permesse alle donne, all’interno della medicina ufficiale, erano quelle di levatrice ed infermiera. Nell’esposizione troveremo tutta una serie di figure femminili, a dispetto anche di certa critica storica e chiaramente di parte, che figurano come “magistra” e “sapiens”.. e non solo…
In latino si diceva ”medico/a” e non “medichessa”… e allora ?

Entrambi i termini sono attestati nella letteratura fin dai primi secoli anche in riferimento alla presenza delle donne, che esercitavano l’arte medica nella “Schola Salernitana”, nell’ XI secolo “Mulieres Salernitanae”.
La forma “medica” è presente nel “Dizionario Universale critico-enciclopedico della lingua
Italiana” dell’abate Francesco D’Alberti di Villanuova (1797-1805) e nel “Dizionario della lingua italiana” di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini come..”s.f. di medico” con il significato di “Donna che esercita la medicina o ha una certa pratica nella cura delle malattie o che si dedica a curare una persona malata o ferita”.
Termine presente in diversi brani della letteratura: nel Tasso (“La Gerusalemme Liberata”) Tu chi sei, medica mia pietosa”; nell’ “Angelica”  di Pietro Metastasio..”La medica cortese/ non volle ch’altra mano al fianco infermo/ s’accostasse giammai”; nei “Panegirici” di Emanuele Tesauro ..” mille personaggi diversi di medica e medica, di matrona e di madre, di padrona e di ancella, di prefica e di seppellitrice”.
Il termine “medichessa” è riportato dallo stesso D’Alberti come “s.f. di medico, ed è nome per lo più detto per “ischerzo” con un rimando alla forma “medicatrice”.
Anche questo termine appare in diverse opere letterarie: nella Fiera di Michelangelo Buonarroti il Giovane.. “Questa donna mi pare una di quelle / donne saccenti che noi troviam spesso / per queste e quelle cose / far delle medichesse e delle faccendiere”); nelle “Annotazioni sopra la Fiera” di Anton Maria Salvini (“Dipintoressa, pittrice, dipignitrice, medichessa, dottoressa e simili, sono nomi detti per ischerzo”); nel “Trionfo della morte” di D’Annunzio, (“La signora seduta accanto a te era Margherita Traube Boll, una medichessa celebre”); in “Il diavolo a Pontelungo” di Bacchelli, (“– Sono studentessa di medicina. – E brava – esclamò Salzano – brava la medichessa”).
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il termine “medica”  scomparve dall’italiano scritto (Il Corpus DiaCORIS, non ne fornisce esempi). ( Il Corpus DiaCORIS è un corpus che comprende i testi prodotti tra il 1861 e il 2001, suddivisi in periodi storici omogenei, rappresentativi della lingua italiana scritta).

Il termine “Medichessa” è attestato raramente e quasi sempre in modo ironico, come risultava dal passo dello scrittore Salvini. Il termine sembrava conservare, come oggi, una connotazione legata ad attività e pratiche proprie dell’arte medica del passato e che oggi sono assenti dalla professione, quali quelle di sacerdotesse guaritrici, di creature dotate di poteri magici e di capacità divinatorie.
Tutto ciò, unito alla disponibilità del termine formato semplicemente con base lessicale e desinenza (medic-a) che rende non necessaria la forma con il suffisso –essa, foneticamente più pesante, induce a suggerire l’uso della forma medica rispetto a medichessa. E infatti è questa la forma (sostenuta anche dalla condanna delle forme in –essa espressa da Alma Sabatini nel suo lavoro Il sessismo nella lingua italiana 1987) che, nonostante qualche esitazione, comincia ad affacciarsi anche nel linguaggio della stampa. È emblematico il titolo “La medica ti cura meglio” di un articolo comparso nel blog di "Repubblica" Il fattore X, di Letizia Gabaglio ed Elisa Manacorda il 20.12.2016.
Fino al XV secolo inoltrato, in latino e nelle lingue volgari, “medico” si declinava sia al maschile, “medicus” che al femminile “medica”.


Gruppo di donne – miniatura dalla “Genesi di Vienna”, Siria, VI sec. – Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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3.  LE PRIME  MEDICHE DELLA  STORIA
Secondo gli storici fu Elisabeth Blackwell (Bristol, 3 febbraio 1821 – Scozia, 31 maggio 1910) la prima donna della storia moderna a laurearsi in medicina e ad esercitare la professione negli Stati Uniti d’America. Una figura che aprì le porte degli studi medici a tutte le donne del mondo….!!!!!

a.      Merit Ptah
La prima figura di medica risale al 2700 a.C.. Merit Ptah, scienziata e fisica egiziana che fu citata come “Sommo Medico” o “Medico Capo”.





 Fu la prima donna ad affermarsi nel campo della medicina e delle scienze. Già nel 3000 a.C. erano presenti a Sais (Zau) ed a Eliopoli (Heliopolis) delle scuole di medicina per le donne che volevano specializzarsi nel campo della ginecologia.

Tra le varie discipline la medicina in Egitto era molto praticata. La divinità di riferimento era una donna: Sekhmet. Le donne nella medicina non ricoprivano solo il ruolo di ostetriche ma erano anche dei medici ed eseguivano delicati interventi chirurgici.
Meirt Ptah fu una figura inserita in un clima di parità ed emancipazione sociale e questo in un Egitto risalente  all’Età del Bronzo.
Il suo nome significata “amata da Ptah” cioè dal dio creatore della città di Menphi, la Capitale dell’Antico Regno, e divinità del sapere e della conoscenza.
Di lei non si sa molto. La sua immagine è riportata in una tomba della necropoli vicino alla piramide di Saqqara.
Un profilo  dalla sguardo intelligente, il volto giovane e fiero,  con parrucca e occhi bistrati come la maggior parte delle donne ritratte dagli artisti nell’Antico Egitto.
Sulla sua tomba il figlio, che fu un sommo sacerdote, la descrive come “Sommo Medico” o “Mecico capo”.
Non era quindi solo una medica che esercitava la sua professione ma anche un importante figura di riferimento nel mondo scientifico del tempo.
La pratica della medicina rientrava nel servizio sanitario offerto ai tempi ed esistevano delle scuole per le donne che volevano specializzarsi nel campo della ginecologia e non solo.
Due erano i saperi fondamentali della società egiziana: la filosofia e la medicina. In termini pratici: la cura dell’anima e del corpo.
La medicina allora faceva uso di massaggi e i farmaci venivano preparati con numerose sostanze e principi ricavati dal mondo animale, vegetale e minerale. Non bisogna dimenticare il largo uso di unguenti e cosmetici di origine naturale.
È probabile che i trattamenti eseguiti da Merit siano stati un insieme di trattamenti con pratiche religiose e riti propiziatori sotto determinati auspici divini. Merit, come le altre donne medico del tempo furono come delle “santone” ma comunque donne libere, emancipate ed anche autorevoli e quindi rispettate per la loro importante funzione sociale. Con la Dinastia Tolemaica la posizione della donna  cambiò radicalmente cancellando moltissimi diritti che avevano reso a lungo gli uomini e le donne uguali nei loro diritti e doveri.  Le donne furono relegate a ruoli subalterni con una posizione di emarginazione che durerà molto a lungo e che porterà al declino della  società egizia..

In onore di Merit Ptah, l’Unione Astronomica Internazionale le dedicò un cratere sul pianeta Venere.




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4.  LE  MEDICHE  PRESENTI  NEL  MONTO  GRECO  E  LATINO


Ippocrate.e soprattutto Galeno citarono le mediche trattandole come delle vere e proprie autorità in materia.




Ippocrate di Coo (Cos/Kos) (Coo, 460 a.C., circa; Larissa, 377 a.C.)
Figlio di Eraclide e di Fenarete, fu un medico, considerato il padre della medicina,  geografo e aforista.
Rivoluzionò il concetto della medicina che era associata esclusivamente alle
pratiche religiose ed alla filosofia. Anche il padre ed era un medico ( affermava di essere
discendente di Asclepio).
Viaggiò moltissimo ed in Egitto apprese gli antichi segreti medici dei sacerdoti egizi.
Ippocrate riuscì a debellare la peste di Atene nel 429 a.C. e fondo nella stessa Atene
una scuola medica offrendo il suo sapere in una settantina di opere raccolte nel “Corpus Hippocraticum”.
Quando il Tempio di Asclepio fu colpito da un devastante incendio, alcune
persone testimoniarono di aver visto il medico uscire dal tempio con le tavolette della divinità.
I medici che osteggiavano le sue teorie, l’accusarono di aver trafugato gli scritti.
La maggior parte dei cittadini interpretarono diversamente l’avvenimento, sostenendo
Che Ippocrate era l’incarnazione del dio ed aveva salvato le tavole sacre.
Il principio della medicina ippocratica è legato alla “forza curatrice naturale”.
“Il corpo umano è animato da una forza vitale tendente per natura a riequilibrare
le disarmonie apportate da patologie. La malattia e la salute di una persona
dipendono da circostanze insite nella persona stessa, non da agenti esterni o da superiori
interventi divini; la via della guarigione consisterà pertanto nel limitarsi a stimolare questa
forza innata, non nel sostituirsi ad essa… la natura è il medico delle malattie….
….. il medico deve solo seguirne gli insegnamenti”.
Studiò l’anatomia e la patologia; inventò la cartella clinica;  capì la necessità di osservare
i pazienti prendendo in considerazione il loro aspetto ed i sintomi, introducendo i
concetti di diagnosi e di prognosi.
Riteneva importante prendere in considerazione lo stile di vita del paziente per sconfiggere la
malattia e per questo analizzava gli aspetti dietetici, psicologici e anche sociali di ogni paziente.
Un rapporto che aveva anche una sua visione inversa perché ogni singolo elemento (naturale, sociale, atmosferico) aveva una sua ripercussione o effetto sulla natura umana.
Si deve ad Ippocrate il concetto di dieta ed alimentazione e la coniugazione di medicina e chirurgia.
Alcune patologie portano il suo nome come la “faccia ippocratica” tipica delle
condizioni di sofferenza ed indebolimento, come ad esempio nella peritonite.


Ippocrate mise in risalto i doveri morali del medico nell’esigenza che “il medico

conduca una vita regolare e riservata, non speculi sulle malattie dei pazienti  e li
curi gratuitamente se bisognosi; stabilisca un legame di sincerità con i malati”.
Una vera e propria Etica del medico che trascrisse in un giuramento, che ancora oggi è in uso, in cui
vengono espressi i principi fondamentali che deve seguire chi esercita la professione medica:
“diffusione responsabile del sapere, impegno a favore della vita, senso del proprio limite,
rettitudine e segreto professionale”
(Giuramento riportato  nell’ultima pagina della ricerca)



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Le donne in Grecia non erano solo “màiai” cioè “levatrici” ma anche “iatrinès” o “eiatrines”.
La particolarità che le lingua greca prevedeva il termine femminile di “iatros” (medico) indica quanto fosse diffusa la professione femminile.
Lo si trova anche in Marziale, in Apuleio e in numerose epigrafi tombali che descrivono l’esercizio della professione medica da parte delle defunte.

a.       AGNODICE  (400/300 a.C.)
Agnodice (Ἀγνοδίκη, Agnodíke;) vissuta ad Atene tra il 400 e il 300 a.C. sarebbe stata, secondo il racconti di Igino (scrittore e bibliotecario dell’Impero Romano; Alessandria d’Egitto 64 a.C. – Roma, 17 d.C.), la prima donna medico dell’antica Grecia.
Agnodice, termine che significa “casta e giusta”, sarebbe il soprannome di Fanostrata che una stele funeraria indica come ostetrica (“maia”) e medico (”iatros”).
Un iscrizione posta sotto un bassorilievo del VI sec. a.C. , raffigurante due donne e quattro bambini, descrive la figura centrale..”Qui giace Fanostrate, levatrice e medico che [ durante la sua vita] non causò del male a nessuno e che dopo la morte è rimpianta da tutti”.


Ad Atene era proibito alle donne ed agli schiavi studiare medicina e secondo il racconto di Igino, Agnodice decise di tagliarsi i capelli e di travestirsi da uomo per poter entrare a fare parte della scuola di Erofilo. Scelse come specializzazione  l’ostetricia e la ginecologia.
Era figlia di una ricca famiglia ateniese ed Erofilo era uno dei medici più famosi del tempo ed insegnava ad Alessandria d’Egitto. Conclusi gli studi rientrò ad Atene dove cominciò a  svolgere la professione di ostetricia con successo.
La donne nella classicità erano piuttosto restie a farsi curare da uomini e per questo motivo durante i parti spesso morivano tra atroci dolori

Agnodice si alza per mostrare alla corte di essere una donna

Per tranquillizzare le sue pazienti era solita rilevare il proprio sesso.  I medici furono gelosi del suo successo ed accusarono Agnodice, ritenendolo un uomo, di sedurre e di corrompere le pazienti. Una  grave accusa che nasceva dal mancato rispetto del  giuramento d’Ippocrate che, tra le norme di comportamento etico dei medici, vietava appunto di sedurre le pazienti. Agnodice fini in tribunale davanti all’Areopago. In tribunale alla fine svelò il proprio sesso, sollevandosi le vesti. Nacque in questo modo un secondo capo d’accusa: era una donna e non poteva quindi esercitare la professione. Secondo la legge ateniese fu condannata a morte per “aver praticato la medicina sotto mentite spoglie”.
La notizia si sparse subito per la città e le sue pazienti, tra cui molte mogli di uomini illustri ateniesi, circondarono il tribunale minacciando di uccidersi se la sentenza  fosse eseguita.
Le donne rivolsero al tribunale  delle accuse ben precise:
"Tu non sei i nostri mariti, ma i nostri nemici mentre condanni chi ci ha portato la salute".
Le donne ottennero non solo l’assoluzione di Agnodice  ma anche un cambiamento della legge..”che le donne nate libere possano svolgere la professione medica, alla condizione che curino soltanto altre donne”.
Le fonti storiche rilevano che già nel V secolo a.C. erano presenti ad Atene le ostetriche ed esercitavano la professione. Probabilmente Agnotide fu accusata perché non svolgeva solo l’attività di ostetrica ma anche di medico generico.
Il racconto di Gaio Giulio Igino nelle “Fabulae”.. Una certa fanciulla, chiamata Agnodice, voleva imparare la medicina e tagliarsi i capelli, indossando abiti da uomo entrando come discepola di Eieofilo. Quando finì i suoi studi di medicina, sentì un pianto parziale e venne in suo aiuto. La donna pensò di essere un uomo e rifiutò il suo aiuto, ma Agnodice sollevò i suoi vestiti e rivelò che era una donna, e lei gli permise di curarla. Quando i dottori si resero conto che nessuna donna voleva i loro servizi, accusarono Agnodice di sedurli e le donne di fingersi malate perché Agnodice li visitasse. Nel processo, ha rivelato le sue condizioni femminili, quindi è stata condannata a morte. Poi arrivarono le donne dei capi dicendo: "Tu non sei i nostri mariti, ma i nostri nemici mentre condanni chi ci ha portato la salute". Quindi gli ateniesi cambiarono la legge che consentiva alle donne di studiare medicina.”
Fu la prima volta che tale privilegio fu esteso alle donne.



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a.      Sorano di Efeso – Mousa; Scribania Attice di Ostia; Antiochide; Pantea di Pergamo; Cleopatra di Roma (I sec. d.C.); Cleopatra (II sec. d.C.); Cleopatra VII (La Regona); Maria “La Maestra” fondatrice dell’Alchimia e del procedimento detto “bagnomaria”.

Sorano di Efeso ( I-II sec. d.C.) si rivolgeva alle levatrici nel suo “Libro delle levatrici” per porre consigli sul delicato esercizio della professione. Questo dimostra la presenza nel tessuto sociale di un gran numero di donne che svolgevano la professione.

Sorano d’Efeso

In un rilevo sepolcrale del II – I secolo a.C. è raffigurata  Mousa, una medica che regge in mano un libro a dimostrazione di aver acquistato il proprio sapere grazie agli studi.


Alla levatrice Scribonia Attice di Ostia fu dedicato un rilievo di terracotta datato II secolo d.C.
Un rilievo particolarmente interessante perché è raffigurata la partoriente seduta su un apposita sedia. Un aspetto particolarmente importante, riportato sul libro di Sorano, citava come le partoriente dovevano guardare in volto le levatrice per avere coraggio durante il parto. Riuscire a leggere sul volto delle levatrici era importante perché rassicurava la donna sull’andamento del parto.


Su una lapide gallo romana di Metz è raffigura una donna con in mano una piccola cassetta con l’iscrizione “medica”.
Altre donne che praticavano la medicina, grazie ad una formazione specialistica, c’era anche Antiochide, sorella di Diodoto.
(Diodoto I Sotere – 285 a.C. – 239 a.C.- era un governatore dell’Impero Seleucide che governava la regione della Battria, nord dell’Afghanistan).
Antiochide era conosciuta anche da Galeno che la citò come inventrice di un farmaco contro i dolori della milza, la sciatica e i reumatismi.
Anche Pantea di Pergamo venne citata come medica dal marito Glicone, anche lui medico, che elogiò la sua “tèchne”.
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Cleopatra (I sec. d.C.), ginecologa romana, autrice di un “Gynecia” e un “Kosmetikon”, cioè un trattato di ginecologia e sulla cosmesi, era anche un’erbaria (“herbaria”). Una medica custode di quella cultura femminile, proveniente dalle campagne, che la identifica come curatrice attraverso i rimedi della natura.
Alcuni suoi scritti riportano che fu lei ad insegnare alcuni trattamenti a Galeno.
Nel suo libro cita una condizione che definisce “suppressiones vulvae” (soppressione dell’utero).
Le mediche preparavano i farmaci sa sé, come d’altra parte anche i colleghi medici, e il termine “pharmakon” poteva quindi avere diversi significati perché come rimedio comprendeva un erba medica, un veleno o anche una bevanda magica.
Facendo riferimento agli ultimi due significati la Chiesa mandò al rogo e uccise 12.000 “streghe” (pene capitali documentate) senza contare quelle non documentate che sarebbero di circa 60.000.
Sono più di 100.000 i processi di cui si ha traccia.
D’altra parte i trattati di donne che praticavano la cosmesi erano un anticipazione dell’alchimia. Realizzare un profumo era un procedimento chimico  che aveva un collegamento con l’alchimia. L’alchimia era considerata quella parte della filosofia della natura che aveva come obiettivo quello di conquistare l’onniscienza e a creare la panacea, un rimedio universale che poteva curare le malattie e generare un prolungamento della vita.

Uno storico arabo, Ibn Al-Hakam Ab, parla di una “certa” Cleopatra (omonima della ginecologa di Roma, da non confondere con la Regina d’Egitto) vissuta nel II secolo sotto il cui nome sono pervenuti un foglio pieno di diagrammi e un Dialogo. A lei viene attribuita un’opera sui pesi e sulle misure e la paternità del famoso papiro intitolato Chrysopoeia, sulla Fabbricazione dell’Oro. Anche Cleopatra VII, la regina, era una donna molto istruita, alchimista, scienziata e inventrice, sebbene la si ricordi più che altro per la sua avvenenza. Secondo Duane W.Roller, scrisse un trattato medico e farmacologico che includeva diversi rimedi contro la caduta dei capelli e la forfora. Anche l’eminente egittologo Okasha El-Daly che lavora al Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra, sostiene che la regina egiziana Cleopatra VII fu una brillante matematica, alchimista e filosofa. Scrisse libri di scienza e teneva settimanalmente incontri di studio con i maggiori eruditi e conoscitori di Scienza dell’epoca. E invece chi ha fatto la storia dell’alchimia (ne parla anche Gustav Jung in Psicologia e Alchimia) era una donna, alla cui scuola aveva appunto studiato Cleopatra: il suo nome era Maria, vissuta ad Alessandria tra il I e III sec. Maria studiava l’azione che i vapori di mercurio, arsenico e zolfo esercitavano sui metalli. Citata persino dal filosofo e alchimista Zosimo di Panopoli, che nei suoi libri la chiama “maestra”, Maria fondò ad Alessandria la prima scuola di alchimia. Detta Maria la Giudea o l’Ebrea o la Profetessa, è a lei che fu attribuita  l’invenzione di quella tecnica di cottura a doppio bollitore chiamata, proprio in suo onore, “Balneum Mariae (“bagnomaria”), nonché la creazione di due tipi di alambicco, il kerotàkis e il trìbikos,  molto utilizzati in profumeria. Fu, con Ermete Trimenegisto e ben prima di Paracelso, la fondatrice dell’alchimia

Maria La Giudea (Alchimista)


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5. Il Primo Ospedale  di Roma – Santa Fabiola di Roma
Il primo ospedale “nosokòmion” di Roma fu fondato da una donna, la nobile Fabiola, onorata dal mondo cristiano, a partire da San Girolamo.
Fabiola non si limitò solo a dirigere l’ospedale ma sembra che abbia assunto anche delle vere e proprie mansioni mediche.

FABIOLA DI ROMA (SANTA)

Fabiola era una donna patrizia appartenente alla “gens Fabia”. Sposò, ancora giovane, un uomo patrizio ma alquanto vizioso, dal quale poco dopo divorziò. Si sposò nuovamente e poco dopo il marito morì. Alla viglia di Pasqua dell’anno successivo alla morte del suo secondo marito, entrò nella basilica lateranense (San Giovanni in Laterano) vestita con un sacco di tela. Fu accolta da papa Siricio a cui fece atto di pubblica penitenza chiedendo perdono al clero ed ai fedeli e tornando così in piena comunione con la chiesa.
Iniziò a dedicarsi all’assistenza ai poveri ed ai malati, fondando un “hospitium” la prima forma di assistenza agli infermi di Roma.
Nel 395 si trasferì a Betlemme, dove si era ritirato anche Gerolamo e visse nel monastero fondato da Santa Paola. Qui si dedicò alla lettura ed alla meditazione delle Sacre Scritture. Nel 396 tornò a Roma dove visse in povertà con il senatore romano San Pammachio. Fondò la “xenodochio” di Porto, presso la foce del Tevere, che offriva ospitalità gratuita e cure mediche ai pellegrini poveri.
Morì intorno all’anno 400 (27 dicembre 399) e ai suoi funerali partecipò una grande folla di romani a testimonianza della gratitudine e della venerazione che la circondavano.
Fabiola faceva parte di quel gruppo di donne, che sotto l’influenza di San Girolamo, avevano deciso di dedicarsi alla vita ascetica e alla carità. Fu proprio San Girolamo a tramandarne la memoria, descrivendone la vita in una lettera indirizzata nel 400 ad un suo parente Oceano.
("Laudem Christianorum, miraculum gentilium, luctum pauperum, solatium monachorum").
È protettrice delle donne maltrattate, picchiate, abbandonate o tradite, dei divorziati e celeste consolatrice delle vedove.

Santa Fabiola


Santa Fabiola - Colonnato di San Pietro
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6. Gli Ospedali  Bizantini -  I Medici: Oribasio; Ezio Amideno; Alessandro di Tales
Gli ospedali bizantini prevedevano già dal VII secolo, un reparto femminile che era gestito da una medica stipendiata oltre che da infermiere che affiancavano i colleghi uomini.
Quando nel 326 d.C. Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, che prenderà il nome di Costantinopoli, la città diventò un importante centro di studio e di arti.
I medici svolgevano la loro attività negli ospedali anche se accanto alla medicina ufficiale c’erano tanti medici non professionali che basavano la loro attività su rimedi magici o pratiche astrologiche.
Il grande ospedale, voluto da Costantino, aveva cinquanta posti letto così distribuiti: dieci per le operazioni chirurgiche, otto per le malattie acute e gravi; venti per quelli comuni e dodici per le donne.
Ogni settore aveva due medici che dovevano curare anche i monaci del convento nel quale l’ospedale era inserito.
Una zona dell’ospedale era di pertinenza degli infermieri e barellieri che avevano il compito di cercare in città i malati (anche lebbrosi e appestati) e di portarli in ospedale.
Alle operazioni potevano assistere i familiari del paziente ed anche altri medici per seguire l’intervento e per dare coraggio al paziente.
Grandi risultati nella pratica medica bizantina soprattutto in alcuni campi come nell’oftalmologia, con la preparazione di colliri, e nell’uroscopia come mezzo per importanti diagnosi.
Fra il IV ed il VII secolo d.C. ci furono dei medici veramente importanti che rielaborarono i testi medici di Ippocrate e Galeno integrandoli con i loro studi ed esperienze: Oribasio; Aezio di Amida; Alessandro di Tralles e Paolo di Egina.
Oribasio (325-403); nato a Pergamo, città natale di Galeno e sede di una famosa scuola di medicina.
Molti suoi testi sono andati perduti ma quelli pervenuti ai nostri giorni sono le “Collectiones medicae”. Un compendio di ben 70 libri, scritto in greco (giunto parzialmente) e che dà una precisa immagine della medicina di allora.

Oribasio, Opere, Parisiis, 1533

Il contenuto dei libri conservati:
-          I primi tre trattano dei cibi vegetali ed animali con le loro proprietà;
-          Il IV libro della preparazione degli alimenti;
-          Il V delle bevande, loro preparazione e somministrazione;
-          Il VI della pratica fisica e della condotta di vita;
-          VII – VIII , tipi di salasso, purganti e clisteri;
-          IX, l’ambiente e lo spazio abitativo;
-          X, sui bagni, impiastri e preparati medicinali;
-          XI – XV, sui medicamenti semplici.
-          XXIV, sugli organi interni dell’uomo, descritti dalla testa ai piedi;
-          XXV, sulle ossa, muscoli e nervi;
-          XLIII –XLV, sui flemmoni, ascessi, ulcere e tumori;
-          XLVI – XLIX, sulla traumatologia;
-          L, sui disturbi dell’apparato urogenitale e sulle ernie.
Una grande conoscenza medica che traspare anche da altre due sue opere:
-          Synopsis ad Eustathium. Nove libri su una sintesi del compendio ma con una diversa impostazione. Una guida pratica a chi, avendo già acquisito delle conoscenze mediche, desiderava disporre di un prontuario di rimedi da usare in viaggio o in casi d’emergenza;
-          Ad Eunapium, destinato a persone colte che desideravano acquisire delle conoscenze mediche pratiche quando si trova in viaggio o in campagna, dove non era possibile ricorrere all’opera di un medico. Il testo dava indicazioni per potersi curare da s’ e naturalmente per lievi malattie o a causa di improvvisi accidenti.

Oribasio, Il compendio ad Euporiston

A questi testi si aggiunge un trattato con una raccolta di formule terapeutiche, noto con il nome di Eclogae medicamentorum, dove sono citate nuove piante e nuove cure. L’Autore consiglia fra l’altro l’utilità delle scarificazioni nelle malattie, cioè le incisioni profonde della pelle specie nelle gambe, effettuate fino a far perdere anche due litri di sangue.
I libri di Oribasio furono raccolti e tradotti per la prima volta dal Daremberg in una curata edizione stampata a Parigi (1851-76).

Ezio Amideno, del VI secolo, studiò ad Alessandria e i suoi Libri Medicinales sono un importante trattato enciclopedico che tratta di:

farmaci e di alimenti (cap. I e II), pratiche terapeutiche ed esercizi ginnici (III), alimentazione e dietetica (IV), semeiotica e prognosi (V), malattie della testa (VI), oftalmologia (VII), malattie toraciche (VIII), medicina interna (IX e X), diabete e malattie renali (XI), sciatica e artrite (XII), animali velenosi (XIII), affezioni anali, ferite da taglio e piaghe (XIV), tumori (XV); l’ultimo, il XVI, è dedicato alla ginecologia e alle malattie femminili, con ampie citazioni di autori non altrimenti noti.
Questo testo ebbe una grande fortuna anche molto tempo dopo l’invenzione della stampa, ed ancora agli inizi dell’Ottocento veniva ancora copiato a mano nelle regioni orientali dell’Europa.

Aetio Amideno, Frontespizio dell’Editio Princeps, Venezia, 1534

Alessandro di Tales (525 – 605) fu tra gli scrittori bizantini il più studiato.
Fece numerosi viaggi per approfondire le sue conoscenze ed esercitò la sua attività forse anche a Roma dove sembra che abbia insegnato.
La sua opera principale, Therapeutica o De re medica, è un trattato di patologia e terapia delle malattie interne in dodici libri, nei quali sono raccolte le sue osservazioni fatte nel corso di una pratica che durò tutta la vita e fu certo scritta per servire di base all’insegnamento.
Vi troviamo riportate molte malattie studiate con grande attenzione, come quelle del sistema nervoso, quelle degli occhi, l’emoftoe (di cui consiglia utili prescrizioni), i morbi intestinali con i loro parassiti, la cura della gotta, per la quale prescrive il salasso e forti purganti.
I suoi scritti furono presto tradotti in arabo e in latino; la prima edizione in greco fu quella stampata a Parigi nel 1538.

Raccolta di testi bizantini,1564
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In questo ricco contesto culturale medico bizantino s’inserisce la figura di Metrodora.

7. METRODORA ( V – VI  secolo d.C.)

Metrodora ; levatrice di epoca bizantina, V – VI secolo d.C. autrice di un trattato “Sulle Malattie delle donne” (“Peri tòn giunaikéion pathòn”)  che è da considerare l’opera più antica di contenuto medico scritta da una donna e giunta fino a noi. I suoi rimedi per il benessere femminile sono legati all’uso specifico di erbe, spezie ed essenze naturali.


Vi si trovano ricette medicamentose di carattere ginecologico, fino alla cura di malattie degli umori
e delle patologie gastriche. Nel suo trattato anche temi riguardanti l’arte della cosmetica, dalla profumeria all’estetica con particolare riguardo al seno. Sono elencate tutta una serie di ricette, dai farmaci rassodanti alle maschere per il viso, alle bevande dal potere afrodisiaco. Si occupava anche di problemi di stomaco, febbre, malaria, emottisi, traumi e reumatismi e persino di problemi maschili.
Metrodora conosceva bene i maestri di medicina antica, Galeno e Andromaco, sia quelli contemporanei come Nichepso l’Egiziano.
Non era una semplice levatrice ma una vera e propria medica che si occupava di tutto il corpo umano ed anche di chirurgia.
In un paragrafo del suo libro parlando del prolasso dell’utero, si servì della siringa per iniettare il “pharmakon” e consigliò di assumere la posizione che poi fu definita di Trendelenburg, cioè con i piedi più in alto rispetto alla testa per evitare shock. Posizione che è tutt’ora utilizzata in medicina.


La sua arte medica fu influenzata dall’opera di Ippocrate con cui condivideva le teorie riguardanti l’isteria e le ricerche riguardanti le infiammazioni dell’utero che arricchì di nuove conoscenze.
Il suo lavoro enciclopedico è di grande importanza con voci ordinate alfabeticamente per facilitare i riferimenti.
Focalizzerà la sua attenzione sull’aspetto eziologico e sintomatologico delle malattie.
Dichiarerà che molte delle ricette erano ricavate “dalla propria esperienza” personale e dalla pratica nel trattamento delle erbe mediche.

Metrodora sorprende perché s’interessò anche di problemi intimi maschili. Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di una medica del V-VI secolo e bisognerà aspettare ben cinque secoli per vedere un’altra medica affrontare le stesse problematiche patologiche con Trotula.
La medica bizantina creò anche una ricetta afrodisiaca a base di erbe con sostanze ad azione stimolante e revulsiva come pepe, zenzero, euforbia e crescione.
Si tratta di ricette antiche che elenco solo come validità storica non conoscendo gli effetti dovuti al loro uso.
Euforbia, seme di ruca, pepe, satirio scrupoli ; succo di balsamo di alloro anadramme ; spalma sui fianchi, sul basso ventre e sulle cosce”.
Una pianta molto adoperata dalla medica bizantina era il “satirio” cioè l’orchidea minore di cui utilizzava le radici. Si tratta di un orchidea selvatica molto diffusa in Italia. Le sue radici ricordano molto la forma dei testicoli e come “accostamento” sembrava il rimedio più natyurale per risolvere la patologia.
La medicina del tempo si basava sulla perfetta  corrispondenza tra cosmo ed uomo/donna. La Natura era qualcosa di dinamico e versatile che non poteva essere ridotta alò solo “principio attivo”.
Ogni aspetto della pianta era importante dal punto di vista farmacologico , non solo per le sostanze contenute ma anche per la forma, il colore, il ciclo naturale e per i simboli che che la comunitàgli attribuiva.
Fu la prima medica nella storia ad affermare con chiarezza che la sterilità non era solo un problema femminile.
Gli uomini, soprattutto i Longobardi, avevano un autentico terrore dell’impotenza, ritenuta la causa principale della sterilità maschile. Era un disonore estremo dell’uomo che poteva costituire anche causa di divorzio.

Ciclamino – miniatura dal “Dioscoride di Vienna”, 512-513 ca. –
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Nella cosmetica traspare l’approccio empirico di Metrodora che si affida in massima parte a ingredienti vegetali, animali e minerali.

Alcune sue ricette:
una maschera emolliente per viso, mani e piedi:
Terra cimolia libbre 1, terra di Chio libbre 2, radice d’iris libbre 6, radice di saponaria, radice di gigaro once 2, radice di ciclamino once 6; trita, passa allo straccio e poni da parte; per l’uso poi prendi quello che ti serve e spalmalo insieme a vino odoroso, e quando comincia a disseccarsi lavalo con acqua e asciuga con un panno pulito.
Si tratta di una specie di maschera che mescola l’effetto risolvente e astringente di un’argilla comunissima nelle isole del Mar Egeo all’effetto emolliente della radice di iris e di quella di gigaro e quello vasotonico del ciclamino e della saponaria; e Metrodora è bene attenta a raccomandare di prendere solo “quello che ti serve”, perché a lungo andare potrebbe irritare la pelle.

Ecco un’altra ricetta “per rendere il volto bianco e lucente”:
Mescola allume bianco con acqua e bagna la sera tardi e la mattina a digiuno, oppure intridi con aceto in parti uguali terra di Chio o di Cimolio o nitro o litargirio e spalma la sera e la mattina.
L’allume ha un effetto molto astringente, mentre il nitro e il litargirio (solfuro di mercurio) sono sostanze sbiancanti: e l’idea di usare l’aceto come veicolante è geniale perché esalta le proprietà di entrambi trasformandoli da salii in acetati e rendendoli dunque meno tossici.

Ecco altre due ricette “per rendere il volto lucente”, cioè ad azione emolliente Amido, vecce nere, fior di farina di frumento col bianco di un uovo, spalmalo;
Sciroppo di grano, sciroppo d’orzo insieme a miele, spalmalo.

Nel suo trattato citò anche i profumi. Profumi che non venivano usati solo nell’igiene ma anche nelle abitazioni.
Il termine latino ”perfumum” indica qualcosa che ha attinenza con il fumo. Qualcosa che si brucia come offerta propiziatoria agli dei. Ma nell’antichità e nel medioevo venivano suffumicati ambienti
oggetti, abiti e tessuti, per una pratica igienica molto importante per prevenire e combattere malattie
contagiose ed anche per purificare il corpo.
Metrodora diede l’indicazione per tre tipi di incensi.
Le sue essenze più usate sono; lo stirace (benzoino), una resina balsamica che ha delle proprietà antibatteriche che viene estratta dalla corteccia dello Styrax officinalis, un albero che cresce nel SudEst asiatico; il “legno d’aloe”, ovvero la corteccia essiccata dell’aquilaria (anch’essa asiatica); sandalo, incenso, macis ( la buccia che riveste la noce moscata), noce moscata, garofani o chiodi di garofano; radice di iris, gelsomino, lavanda e rosa.
Le più costose erano il muschio, l’ambra grigia, il castoreo e lo zibetto, tutte sostanze ricavate dalle ghiandole di animali come il capodoglio, il mosco (un cervide asiatico) o il castoro, che erano ritenuti afrodisiaci. Elementi che nel trattato di Metrodora vengono utilizzati nelle quantità minori.

Rosa – miniatura dal “Dioscoride di Vienna”, 512-513 ca. –
Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

Asfodelo Ramoso (c.s.)

 “Lozione di dopobagno”
Rose asciutte e secche dramme 40, mirra pura dramme 20, radici di iris dramme 10, mescola con vino profumato e fanne delle pastiglie; per l’uso poi intridile con vino odoroso e spalma subito dopo il bagno.

Con Metrodora, in conclusione, ci troviamo di fronte ad una donna che, pur confidando nella forza delle tradizioni scritte della medicina del suo tempo e quelle orali trasmesse dalle donne, conta molto sulla sua diretta esperienza di medica, e lo ribadisce fieramente più di una volta. Un metodo, quello dell’osservazione personale, molto diffuso anche nella medicina monastica occidentale, riassunto in una frase del medico bizantino Alessandro di Tralles, il cui trattato principale, la Therapeutika, era già copiato nei monasteri franchi (forse anche femminili) di VIII secolo: «Un buon medico deve saper fare buon uso di ogni cosa».



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8.      La “SCHOLA  SALERNITANA”

Una leggenda cita come la Scuola medica Salernitana sia stata fondata da quattro maestri: il latino Salerno, il greco Ponto, l’ebreo Elino e l’arabo Adela.
Siamo forse nel IX secolo e la città di Salerno fu colpita da un violento temporale. Il pellegrino greco Ponto si rifugiò sotto gli archi dell’antico acquedotto dell’Arce nei pressi del quale si trovavano molti viandanti feriti e malandati.



Salerno - Acquedotto dell'Arce




Giunse sul luogo un altro viandante, il latino Saernus che cominciò a curarsi le sue ferite.
Il greco sospettoso s’avvicinò e cominciò ad osservare, con attenzione, come il latino curava le sue ferite. Giunsero altri due viandanti, l’arabo e l’ebreo, ed anche loro guardarono come il latino curava la ferita. Alla fine si scoprì che tutti e quattro si occupavano di medicina e decisero di creare una “corporazione” e di dare vita ad una scuola dove le loro conoscenze potevano essere accolte e divulgate.
Una variante della leggenda riporta come i quattro viandanti si occuparono, solidalmente, delle ferite dei viandanti che avevano trovato riparo sotto gli archi dell’antico acquedotto.
Nacque così la “Schola Salernitana” e la leggenda vuole mettere in risalto come la stessa Schola sia nata dall’incontro di quattro culture mediche; la greca, la latina, l’ebrea e l’araba.
Mancano quindi la data e la genesi ma resta in ogni caso  valida la tesi di come i medici della Schola Salernitana passarono alla storia proprio per l’originalità con la quale interpretarono ed intrecciarono le quattro culture.
Alla luce delle ultime scoperte archeologiche sembra che la “Schola salernitana” abbia delle origini risalenti  all’epoca greca.

La “Schola Salernitana”, secondo alcuni storici risalirebbe al VI secolo d.C. quando ereditò il sapere dell’antica scuola medica di Velia, risalente al V secolo a.C.


Elea, in greco antico Ἐλέα, denominata in epoca romana “Velia”, fu un atica polis
della Magna Grecia. L’area archeologica è localizzata nella Piana di Velia, Comune
di Ascea (Provincia di Salerno).
Fu fondata dai Focei e diventò un grande ed importante centri dell’antichità.
La scuola eleatica fu importante nella storia della filosofia e i suoi principali
esponenti furono Parmenide, Zenone e Melisso di Samo. Ad Elea soggiornarono
anche i filosofi Senofane e Leucippo.
Fino al 62 d.C. operò nel centro una fiorente scuola medica.

Velia – La Porta Rosa


Velia – Castellum Maris
Costruito, X – XI secolo d.C.) sui resti di un basamento di un antico tempio pagano.
La torre principale del fortilizio risale al periodo angioino



Nel 1960 furono rinvenute a Vela quattro statue di medici tra i quali quella del filosofo e medico Parmenide. Gli storici misero in evidenza, grazie ai rinvenimenti archeologici, una relazione di continuità della scuola di Velia con quella di Salerno.  Un dibattito che è ancora aperto perché alcuni storici attribuiscono alla Scuola Salernitana un origine romana.

A sinistra la statua di Igea (figlia di Asclepio) rinvenuta a Velia.
A destra la statua della stessa dea nei Musei Capitolini

Velia
L’iscrizione dedicatoria, posta alla base, indica il personaggio come un medico di Velia.
Medico di Velia (yeletesiatros) e capo della scuola (pholarchos)


Testa e dedica della statua del medico eleate Oulis, figlio di EusinoUlisEuxìnuIelètesiatròsfòlarkosèteitot
(Iùlisdi Eussinomedico caposcuola di Eleadi età…)


Le trascrizioni sulle erme che ricordano i medici di Velia.
Medici che furono probabilmente a capo della scuola e risalgono al
540 a.C. – 260, 161 e 95 a.C.
(Sono citati un Gironimo e  Aristono).

Velia – Statua cultuale di Asclepio.
Oltre alla statua furono rinvenuti frammenti di un altare e un pozzo che
faceva parte del santuario del dio della medicina.
Santuario che presenta un sotterraneo per il culto infero del dio.



Non si deve scartare anche l’ipotesi che la Scuola non fu mai fondata ma si costituì lentamente nel tempo attraverso l’operato di medici ed allievi che si basarono sul patrimonio culturale ereditato arricchendolo con le nuove esperienze mediche.


La storia della “Schola Salernitana” è quindi schematicamente caratterizzata da tre distinti periodi:
-          IX – X secolo dove i documenti e le citazioni sono pochissime e poco attendibili;
-          XI – XIII secolo; corrisponde al periodo di maggiore interesse culturale;
      -      XIV – XIX secolo, periodo della decadenza

X – XI Secolo
Le notizie sono scarse e si presuppone la sua nascita di natura laica o monastica e in merito ai medici che ne facevano parte, non si sa se fosse già presente una precisa organizzazione istituzionale.
Salerno già nel IX secolo era famosa per la sua cultura giuridica legata alla presenza di maestri laici e di una scuola ecclesiastica  per la presenza di numerosi monasteri presenti sul Monte Bonadies.
Accanto ai maestri del diritto c’erano anche dei maestri che curavano la salute del corpo ed insegnavano l’arte medica. I nomi di questi medici risalgono all’ VIII secolo quando Arechi II (duca longobardo, duca di Benevento e successivamente di Salerno dal 774 anno fino alla sua morte) fissò la sua dimora a Salerno facendo costruire un grande castello.
Favorì ulteriormente lo sviluppo della scienza medica ?  Nel X secolo la città era conosciuta non solo per il clima salubre ma anche per la sapienza dei suoi medici ..”erano privi di cultura letteraria, ma forniti di grande esperienza e di un talento innato”. Nel 984 Adalberone di Laon (vescovo e poeta francese) si recò a Salerno per farsi curare dai medici.

Nell’820 circa, l’arciprete Adelmo organizzò nei pressi del cenobio di San Benedetto un infermeria che in seguito fu aggregata al convento.




Nell’865, il principe longobardo Guaiferio, nei pressi del suo palazzo, edificò una chiesa dedicata a San massimo alla quale fu annesso un piccolo “hospitium” per vedove ed orfani. Una struttura che fu affidata ai benedettini.

Il principesco Palazzo San Massimo con annessa chiesa oggi sconsacrata

Un cronista di Minori narra che nell’874 una giovane sposa di Nome Teodenanda, gravemente ammalata, fu condotta a Salerno dai suoi familiari presso l’archiatra (medico principale o protomedico) Gerolamo. Gerolamo consultò i numerosi testi medici di una vasta e ricca biblioteca (librorum immensa volumina”) ed alla fine, con grande dispiacere, fu costretto a deludere le speranze della giovane su una possibile guarigione.
Teodenanda sarà poi miracolata a Minori da Santa Trofimena.
Il racconto di questo sconosciuto cronista dimostra già al tempo l’esistenza di una ricca biblioteca medica.
E ancora…. Agli inizi del X secolo, la moglie del re Carlo III, aveva a corte un medico salernitano.
(Carlo III di Francia sposò prima Frederuna, regina dei Franchi Occidentali e regina di Lotaringia,  e alla sua morte Eadgifu, figlia del re del Wessex, Edoardo il Vecchio).
Il Vescovo di Verdun Adalberone, si recò a Salerno nel 984 per ricevere delle cure, come fece anche Desiderio, abate di Montecassino nel 1050.
Beniamino De Tudela, un viaggiatore ebreo del X sec. , riportò nelle sue note di viaggio la descrizione della città di Salerno… “urbem medicorum scholis illustrem” (illustre per le sue scuole di medicina).
Un curioso  episodio ci viene riportato dallo storico francese Richero di Reims (cronista del tempo). Un episodio, che risale al 900 circa nella corte francese, su un contrasto tra Deroldo, vescovo di Amiens, e un medico salernitano.
Il cronista mise in risalto la superiorità della medicina francese su quella salernitana… una posizione naturalmente di parte e quindi non obiettiva, mettendo in grande rilievo le caratteristiche della stessa scuola medica francese affermando che “Deroldo possiede maggiore cultura e che il salernitano è dotato di impegno naturale e di una notevole esperienza pratica”.
Il medico salernitano rimase in Francia e si stabilì in Provenza nei pressi di Draguignan. Qui mise in risalto la sua grande esperienza e bravura medica. Il borgo medievale dopo la morte del medico prese il nome di Salernes e la memoria del medico entrò nella storia della cittadina rimanendo viva fino ad oggi.

Salernes


Nell’XI secolo l’anonimo cronista dei vescovi di Verdum (Francia) scrisse come il Vescovo Adalbero II nel 986 si recò a Salerno per farsi curare i calcoli renali “ut a medicis curetur”.
Anche un poeta di origine renana, noto sotto il nome di “Archipoeta”, su consiglio del presule Reinald Von Dassel, si recò a Salerno nel XII secolo per curare le sue precarie condizioni di salute. Il poeta quando ritornò in Germania, lodò la scuola medica salernitana e riferì al presule..”Illuc pro morbis totus circumfluit orbis” (tutti confluiscono a Salerno per curare i propri mali”).
Nell’XI secolo anche Desiderio, abate di Montecassino, andò a Salerno per farsi curare così come Adalberto, arcivescovo di Breman, che fu curato dal un medico salernitano di nome Adamatus.

Alcuni studiosi portarono avanti la tesi su una origine monastica dato che erano presenti alcuni monasteri benedettini dotati di ospedali e di medici il cui nome era seguito da un attributo ecclesiastico. La Regola benedettina prescriveva a ciascun abate di destinare una parte del convento alla cura dei malati e l’orto alla coltivazione di piante medicinali necessarie per la cura dei pazienti.

La cultura scientifica salernitana fu legata anche al rinnovamento culturale legato al monachesimo benedettino che aveva anche a Montecassimo il suo centro propulsore ed a Salerno la sua espressione più alta nell’abbazia di San Benedetto.
L’atteggiamento dei Longobardi nei confronti della popolazione locale si modificò in seguito alla loro conversione al cristianesimo. Una conversione per merito del vescovo di Benevento, San Barbato, intorno al 680 ed alla conseguente ricostruzione dell’abbazia che era stata distrutta nel 581 quando la città fu conquistata.
Nelle infermerie come sanciva la Regola di San Benedetto……mentre nel giardino dei semplici si coltivano le essenze con cui si preparavano i medicamenti. Lavnda, rosmarino, rose selvatiche e anche limoni, arance, melograni, che gli arabi avevano introdotto con successo nella pensiola. La parola “semplici” deriva dal lato medievale “medicamentum” o “medicina simplex” usata per definire le erbe medicinali. Inizialmente non si parlava di giardino , ma di Horto dei semplici. Il primo orto botanico del mondo occidentale sorse proprio a Salerno oggi “Giardino della Minerva”.
Un giardino a terrazza su sei livelli, di proprietà  fin dal XII secolo della nobile famiglia Silvatico. Opera di Matteo Silvatico, vissuto nel primo ventennio del 1300 e maestro della Scuola Medica Salernitana.
Il giardino è irrigato con canalette su cui scorre l’acqua di una fonte interna.
Oggi è chiamato il giardino di Minerva e cono presenti circa 300 varietà di piante medicinali.







Giardino della Minerva

L’ipotesi però più accreditata è legata alla presenza a Salerno di libere associazioni di maestri e di studenti per l’apprendimento teorico-pratico della medicina.
All’inizio i medici avrebbero lavorato con i propri allievi in laboratori e solo in un secondo tempo si riunirono in corporazioni dando luogo alla formazione della “Schola Salernitana”.

XI – XIII Secolo;
La particolare posizione del porto della città, al centro del Mediterraneo, favorì gli influssi della cultura araba e greco-bizantina. Arrivarono i libri di Avicenna e Averroè e giunse dall’Africa anche il noto medico cartaginese Costantino l’Africano che si stabili proprio a Salerno per diversi anni  traducendo dall’arabo molti testi di Ippocrate, di Galeno e di altri maestri della medicina araba.
È probabile che sotto questa forte spinta culturale le opere classiche , che si trovano chiuse nelle biblioteche dei conventi, furono riscoperte e divulgate. La disciplina scientifica uscì dalle abbazie per confrontarsi col la pratica sperimentale.
I monaci dei monasteri di Salerno e della vicina Badia di Cava potrebbero aver svolto, con il loro patrimonio culturale, un ruolo importante nello sviluppo della “Schola”.

Badia di Cava dè Tirreni

Nell’XI secolo erano presenti nella città tre importanti figure dell’Ordine benedettino: Papa Gregorio VII; l’abate di Montecassino, Desiderio, futuro papa Vittore III, e il vescovo Alfano.
Le prime tracce di lettera medica risalgono proprio all’XI secolo. Si tratta di scritti di terapia e patologia strettamente collegati alla tradizione classica e antica fondata sulle teorie di Ippocrate e Galeno. Nei trattati viene messa in evidenza come la malattia sia uno squilibrio operante all’interno del corpo umano tra i quattro umori in esso presenti: sangue, bile, flemma (secrezioni delle fosse nasali ritenute provenienti dal cervello) e atrabile o bile nera ritenuta proveniente dalla milza.
Sono presenti anche trattati farmacologici arricchiti dalle esperienze dei medici salernitani e non solo.
In  questo periodo s’inserisce l’opera di Alfano (1010 – 1085), abate di San Benedetto e successivamente Vescovo di Salerno. Grecista e latinista tradusse in latino dal greco numerosi testi di medicina ed fu anche autore di alcuni trattati medici: “De quattuor umoribus” (studio clinico terapeutico sulle alterazioni degli umori, sulla sintomatologia, sulle terapie e sullo studio dei vegetali con le loro proprietà medicinali) e “De Pulsibus” che fa riferimento agli scritti di Galeno.
Molti di questi medici furono monaci e chierici anche se la componente laica fu preponderante nell’arte medica salernitana.

A gestione laica era l’ospedale di San Biagio, fondato sempre a Salerno nel 1138 presso la chiesa di
San Giovanni “extra moenia”. Altri medici famosi erano Garioponto, Petroncello e Trotula… una donna.
La cultura longobarda riconosceva alla donna una parità di diritti con l’uomo. Non mancavano le fanciulle che avevano imparato dai padri e dai fratelli arti che erano ritenute esclusivamente maschili come la retorica, la filosofia, la scienza e anche l’uso delle armi.

Salerno – Chiesa di san Biagio
La Chiesa faceva parte del complesso dell’ospedale


Anche per le sedi della “Schola” non ci sono notizie ben precise.
Secondo lo storico Riccardo Avallone le sedi d’insegnamento furono in ordine cronologico:
Il castello di Arechi o le sue adiacenze; la cappella superiore e inferiore di Santa Caterina, nell’atrio ai piedi della scalinata marmorea del duomo (le odierne sale San Tommaso e San Lazzaro).

Castello Arechi



A causa dell’inagibilità della cappella di Santa Caterina d’Alessandria, la sede della scuola fu trasferita nel palazzo dell’antica pretura, ubicato in via Trotula De Ruggero. L’ultima sede fu l’ex seminario arcivescovile.

La storia della “Schola salernitana” fu accompagnata da una serie di leggende. Una delle più celebri è quella del principe Enrico che si recò nella cattedrale di Salerno per pregare sulla tomba di San Matteo. Una storia che fu tramandata dai menestrelli tedeschi medievali e che fu riscoperta nelle sue ricerche dallo scrittore e poeta americano Longfellow nell’Ottocento.
È una bellissima storia d’amore… un poema di Hartmann Von Aue, scritto nel 1190 in lingua “alto medio tedesco” che collega modelli narrativi cortigiani e spirituali. Una breve novella su un nobile cavaliere colpito da una malattia terribile: la lebbra.
Può essere guarito solo dal sangue del cuore (innamorato) di una vergine che si dovrebbe sacrificare volontariamente.

Prologo dell’”Armer Heinrich”
Heidelberg – Biblioteca dell’Università (Codex palatinus germanicus 341, fol. 249 ra)
XII secolo.


“Enrico era un giovane barone di Ouwe, in Svezia, ricco ed con un alto prestigio sociale. Aveva in sé tutte le virtù del nobile cavaliere ed un comportamento cortese. Il giovane barone abbandonò la sua vita sociale quando venne colpito dalla lebbra. Tutti si allontanarono da lui con disgusto e paura.
Il giovane non accettò la malattia, che considerava come un operato divino, frutto di un castigo, e consultò tutti i medici per trovare una possibile via di guarigione. Si recò invano a Montpellier dove i medici non gli diedero alcuna speranza di guarigione. Si recò a Salerno dove visitò la Schola Salernitana. Qui apprese da un medico la possibilità di un rimedio alla sua malattia. Un rimedio che però non era nella sua disponibilità…poteva guarire grazie alla linfa vitale di una vergine in età matrimoniale che volontariamente si doveva sacrificare per lui.
Il giovane era disperato e capì che non c’era alcuna speranza di guarigione. Ritornò sconsolato nella sua tenuta in Svezia; donò una parte delle sue proprietà e si ritirò in una sua fattoria.
Qui conobbe la figlia dodicenne, Elsie, di un contadino. La giovane ragazza non aveva paura di Enrico e della sua malattia e subito diventò la sua compagna devota. Enrico s’innamorò  dimenticando la propria malattia. Fu un amore ricambiato e la giovane, dopo tre anni, venne a sapere qual’era il rimedio di guarigione per Enrico. Si dichiarò subito pronta a sacrificarsi per lui e di accettare la vita eterna con Dio. Riuscì a convincere i suoi disperati genitori ed Enrico con i suoi discorsi.. I  suoi discorsi dimostrarono una grande fede nello Spirito Santo ed il desiderio di accettare il suo sacrificio come un volere di Dio.
Enrico ed Elsie partirono per Salerno. Qui incontrarono il medico che cercò di convincere inutilmente la ragazza a desistere dal suo proposito. Vinne sdraiata e legata sul tavolo operatorio ma Enrico, che attraverso una fessura della porta vide quell’orribile scena della sua amata, entrò nella stanza gridando di accettare la lebbra come volontà di Dio. Elsie, che fino a quel momento aveva dimostrato una grande compostezza, vistasi privata della vita eterna, rimproverò ad Enrico di non averla lasciata morire e lo respinse come un vigliacco.
Sulla via del ritorno Enrico guarì miracolosamente grazie alla misericordia di Dio.
Tornarono nella fattoria dove si sposarono nonostante la differenza di posizione sociale. Enrico riuscì a recuperare il suo prestigio sociale; Meier, il padre della ragazza diventò fattore. Enrico ed Elsie furono felici..
Questo è il racconto originale ma c’è una variante legata al miracolo della guarigione di Enrico.
Enrico prima di presentarsi alla “Schola Salernitana” si recò nella Cattedrale di Salerno per pregare sulla tomba di San Matteo. Qui in preda ad una visione si ritrovò miracolosamente guarito dal male. Sposò Elsie  sullo stesso altare dedicato al Santo.




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La Schola raggiunse il suo massimo splendore sia con studenti che desideravano apprendere l’arte medica sia con gli ammalati che speravano di essere guariti. Un flusso notevole da tutta Europa e d’altra parte la notorietà dei medici che operavano nella Schola è testimoniata dalle cronache dell’epoca e dai numerosi manoscritti conservati nelle maggiori biblioteche d’Europa.
Un giusto riconoscimento venne sancito dal grande imperatore Federico II di Svevia che nel 1231, nella sua Costituzione di Melfi, sancì che l’attività di medico poteva essere svolta solo da dottori in possesso di diploma rilasciato dalla “Schola Salernitana”.


Infatti l’articolo 45 (lib. 3) descrive la procedura per il conferimento delle licenze mediche, secondo la quale il candidato, una volta superato l’esame davanti ai maestri della Scuola, doveva presentarsi al Re o ad un suo rappresentante per ottenere la licenza. L’imperatore prescrisse che, per il conseguimento della laurea, l’allievo doveva studiare per tre anni logica, come preliminare per lo studio della medicina, il cui corso doveva durare cinque anni e includere anche un anno di pratica con un medico anziano, ed inoltre, era prevista ogni cinque anni l’autopsia di un corpo umano. Di notevole rilevanza è anche l’articolo 47 il quale imponeva che tutte le medicine fabbricate nel reame, prima di essere poste in commercio, dovevano essere controllate dai maestri medici della scuola. In seguito con i successori di Federico II, il figlio Corrado IV e Manfredi, rimasero inalterati i privilegi concessi alla Scuola. Il re Corradino, nel 1252, trasferì a Salerno, anche se per poco, l’università di Napoli per punire la città che, dopo la morte di Federico, si era associata ai moti eversivi scoppiati in quel periodo contro gli Svevi. Con la dominazione angioina, Carlo I d’Angiò, rimasero in parte inalterati i privilegi elargiti dai suoi predecessori alla scuola, grazie all’intervento di un certo Petrus Morronus, insegnante di medicina, che permise agli studenti salernitani e ad alcuni insegnanti l’esenzione dalle tasse. La scuola medica salernitana mantenne, per molto tempo, il vecchio sistema degli stipendi pagati dagli studenti ai propri insegnanti sulla base di un contratto privato. Il nuovo sistema degli stipendi pubblici fu adottato soltanto nel XIV secolo, quando la scuola divenne una istituzione cittadina e mantenne questo regime fino alla sua soppressione. Un passo avanti, di notevole rilievo, fu fatto dalla scuola sotto la dominazione della regina Giovanna I nel 1359. La sovrana stabilì, a differenza dei suoi predecessori, che la scuola poteva rilasciare licenza senza l’assenso dei commissari regi e, inoltre, tutti coloro che acquisivano la laurea a Salerno, potevano esercitare liberamente la professione medica in tutto il reame. Questi importanti privilegi concessi alla scuola vennero confermati anche in seguito sotto la dominazione aragonese.
I principi Sanseverino, che governarono Salerno per circa un secolo (XV-XVI sec.), contribuirono notevolmente al progresso della Scuola Salernitana, dove non era insegnata soltanto la medicina, ma anche altre materie come la filosofia e il diritto. Interessante la presenza a Salerno, in questo periodo, di un famoso filosofo, Agostino Nifo, che fu degno membro del collegio salernitano. Per dare un’idea dell’importanza della scuola è sufficiente affermare che in origine era proibito a chiunque esercitare nel reame l’ ”Ars Medica” se non avesse acquisito la licenza presso la scuola di Salerno che fu quindi una delle prime città dell’Occidente dove si conferiva la laurea in medicina.

 Miniatura Medievale che raffigura gli studenti all’Università

XIV – XIX Secolo
Con la nascita dell’Università di Napoli, la Schola cominciò a perdere la sua importanza. Il suo prestigio fu inspiegabilmente oscurato da altre università emergenti come Montpellier, Padova e Bologna. L’istituzione rimase comunque in vita per diversi secoli fino al 29 novembre 1811 quando fu soppressa da Gioachino Murat in occasione di una riorganizzazione pubblica nel Regno di Napoli. L’ultima sede fu nel Palazzo Copeta.

Salerno – Palazzo Copeta





Le rimanenti Cattedre di Medicina e di Diritto della “Scuola Medica Salernitana” operarono nel “Convitto Nazionale di Tasso” di Salerno per circa un cinquantennio fino alla loro chiusura nel 1861. Una chiusura avvenuta per ordine di Francesco De Sanctis, allora ministro nel neonato Regno d’Italia.
 Dopo secoli di assenza il 18 ottobre 2005 un giusto riconoscimento. Fu firmato il protocollo d’intesa per l’istituzione della Facoltà di Medicina nell’Università di Salerno.
Il 14 settembre 2012 fu inaugurato l’EBRIS (Istituto Europeo di Ricerche Biomediche di Salerno)  nei locali dell’ex Convento di San Nicola della Palma, una delle probabili sedi dell’antica scuola.
L’Istituto con il contributo del Massachusetts General Hospital, è impegnato nella ricerca di nuove cure per la celiachia e vari disturbi alimentari.

La  Scuola rappresenta un monumento fondamentale nella storia della medicina per le innovazioni dato che riuscì ad introdurre, per la prima volta, il metodo e l’impostazione della profilassi e della prevenzione.
Di particolare importanza, dal punto di vista culturale, fu anche il ruolo svolto dalle donne nella pratica e nell'insegnamento della medicina. Le donne che insegnarono e operarono nella scuola divennero famose col nome di  “ Mulieres Salernitanae”.



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8a)      TROTULA DE RUGGIERO -  Una delle più importanti mediche della “Schola 
Salernitana”

Tra il X e il XII secolo si sviluppò la “Schola salernitana” per merito dell’Imperatore Federico II di Svevia che stabilì,  nelle Costituzioni di Melfi, la necessità di frequentare la scuola di Salerno per i medici. La partecipazione femminile alla scuola fu davvero sorprendente e favorita dalla principessa Sichelgaita di Salerno, moglie di Roberto il Guiscardo.
La più famosa di questa “Schola” fu Trotula (piccola trota) de Ruggero a cui venne attribuito il trattato “Tretula major”, sulle malattie delle donne e il “Tretula Minor” dedicato ai trattamenti di bellezza e di cosmetica. Alla base dei due trattati le conoscenze ereditate da Ippocrate e da Galeno.
Due trattati compilati con cura e notevole ricostruzione storica arricchite con immagini di essenze botaniche veramente molto belli.
Trotula  (Trottula, Trotta, Trocta o Troctula) nacque a Salerno dalla nobile famiglia De Ruggiero famosa per aver anche donato una parte dei propri averi a Roberto il Guiscardo per la costruzione del Duomo di Salerno.


La sua data di nascita è sconosciuta mentre le fonti sulla sua morte citano l’anno 1097.
Intraprese gli studi di medicina e visse operando al tempo dell’ultimo principe Longobardo di Salerno, Gisulfo II, probabilmente prima dell’arrivo in città del medico Costantino l’Africano.
Sposò il medico Giovanni Plateario, da cui ebbe due figli: Giovanni Plateario il Giovane e Matteo. Entrambi proseguirono l’attività medica dei genitori e furono ricordati come Magistri Platearii.
Trotula entrò a fare parte di quelle studiose che insegnavano ed erano attive nella Scuola Salernitana, la prima, più importante, istituzione medica d’Europa nel Medioevo.
I suoi studi relativi ai problemi e ai disturbi del parto, al concepimento ed alla sterilità furono espressi nel suo trattato “De passionibus mulierum ante in et post partum” che le diede una notorietà indiscussa per secoli.
Il sottotitolo è “un libro unico di Trotula sulla cura delle malattie delle donne prima, durante e dopo il parto mai prima edito, in cui vengono minutamente illustrate le infermità e le sofferenze che capitano al sesso femminile, la cura dei bambini e dei ragazzi al momento del parto, la scelta della nutrice, oltre alle restanti cose che hanno a che fare con le prescrizioni riguardanti entrambi i sessi le esperienze infinite di varie malattie con alcuni preparati che servono ad abbellire il corpo”.
Il trattato fu edito a stampa solo nel 1544 a Strasburgo nell’edizione di George Krant. La sua traduzione italiana, fortemente interpolata, fu inclusa nell’edizione aldina di medici “Antiqui Omnes” che fu pubblicata a Venezia nel 1547.

Il suo trattato fu anche uno studio filosofico dove la bellezza, la salute, l’armonia, la cura e gli affetti, costituivano un  insieme. Il corpo non era separabile o suddivisibile così come il contesto di relazioni che accompagnavano la nascita, la cura del bambino e della sua relazione con la figura della madre o della nutrice.
L’autrice iniziò la trattazione con la diversità anatomica e fisiologica della donna che, a differenza degli uomini,  era più debole e più soggetta a patologie che riguardavano gli organi riproduttivi. Citò come  queste patologie potevano essere combattute con cure specifiche come salassi, erbe ma era soprattutto lo stile di vita sano e l’alimentazione equilibrata a determinare la buona salute delle donne.
Si soffermò molto sulle cause della sterilità che potevano essere implicite sia nell’uomo che nella donna e sostenne che l’utero era strettamente connesso con il cervello.
Un primo sconvolgimento storico dove il problema della sterilità era, fino a quei tempi, un problema esclusivamente femminile.
Le parti più interessanti e per certi versi rivoluzionari furono quelle collegate alle nozioni di ostetricia.
Consigli sul parto, sulla necessità di suturare le lesioni perineali, comportamenti da parte della puerpera e anche indicazioni su come gestire il neonato.
L’ultima parte era dedicata alla cura della bellezza cioè alla cura estetica con numerose ricette cosmetiche in merito alla pelle, alle labbra, ai capelli, al sorriso.
Una cura che la donna doveva a se stessa.


Questo argomento, importante perché da collegare all’equilibrio tra corpo, la psiche e la relazione con gli altri, fu ripreso nel trattato De Ornatu Mulierum o Trotula minor. Un trattato sulle malattie della pelle e la loro cura.
Nel suo “Trotula minor” fornì consigli per esaltare la bellezza e mascherare sapientemente piccoli difetti con unguenti, balsami, profumi e tinture ricavate dal mondo vegetale.
Creme varie a base di sugna, olio o latte di mandorla; balsami creati con la malva, violetta o figlie di salvia bollite nel vino.  Nel trattato erano presenti ricette per prevenire le rughe, guarire le impetigini, rendere i denti più bianchi, rimediare alla caduta dei capelli.. e anche ricette di “fard” e rossetti ottenuti dalla polvere di robbia. Molti degli ingredienti descritti da Trotula vengono ancora oggi impiegati nell’industria cosmetica.
Una ricetta famosa era la maschera colorante per i capelli” saracena a base di ceneri di rami di vite e di frassino, cotti nell’aceto insieme alla noce di galla. Andava applicata dopo aver lavato i capelli con la liscivia e lasciata agire per una notte intera. Consigli anche delle lozioni per coprire i capelli bianchi; per i capelli castani bisognava lavarli con uno “shampoo” composto da gomma  adragante, noci di galla tostate o estratto di castagne cotti in un infuso di acqua piovana e foglie di noce; i capelli neri invece vanno lavati con acqua e raccolti per due giorni e per due notti con una maschera a base di ruggine, noce di galla, noci e allume bolliti nell’aceto.
Tutta quest’attenzione può stupire in un paese dove i capelli sono coperti dal velo o copricapo che distingue le donne sposate dalle signorine en cheveux (“in capigliatura”): tutte rigorosamente con  capelli lunghissimi, raccolti in trecce e chignons. Ma se il mondo medievale raccomandava alle donne di nascondere i capelli per uscire di casa, era proprio perché li considerava un bene prezioso e conturbante, che andava conservato con cura. Si raccomandava da ogni parte la più scrupolosa pulizia ed era importante che fossero sempre in ordine e ben pettinati: i pettini pettini essere d’avorio, d’osso o di bosso. Alcuni sono sopravvissuti fino a noi, e sono dei veri capolavori. La stessa cura era riservata anche al resto del corpo.

Alla studiosa viene anche dato il merito di aver creato un sapone intimo che grazie all’aggiunta di petali di rose aveva un forte potere antibatterico.
La bellezza era il segno di un corpo sano e della sua armonia con l’universo. Le erbe medicamentose, le pomate naturali, i bagni,, i massaggi erano tutti metodi curativi utili per permettere alla donna di vivere in modo sereno il rapporto tra il proprio corpo e quello con la propria psiche.
Siamo nel XIII secolo e le cure, terapie di Trotula erano conosciute in tutta Europa e facevano parte della tradizione popolare.
A dispetto della storia scolastica che non cita queste grandi scienziate e nemmeno la Schola Salernitana, i suoi scritti vennero seguiti fino al XVI secolo come testi per le scuole di medicina più famose.

La statua di sabbia che ritrae Trotula De Ruggiero presso la mostra natalizia a Piazza della Concordia a Salerno – Gennaio 2019


La sua figura fu quasi idealizzata sino a diventare un leggenda. Ciò  fece felici gli studiosi che misero in dubbio la sua esistenza perché era una donna… e non solo… attribuirono i suoi scritti a ad autori… maschili.

Il Trotula Maior, in particolare, venne trascritto più volte nel corso del tempo subendo numerose modificazioni. Come altri testi scritti da una donna, venne impropriamente attribuito ad autori di sesso maschile – a un anonimo, al marito o a un fantomatico medico “Trottus”.
Nel XIX secolo alcuni storici, tra cui il tedesco Karl Sudhoff, negarono la possibilità che una donna avesse potuto scrivere un’opera così importante e cancellarono la presenza di Trotula dalla storia della medicina. La sua esistenza fu però recuperata con gli studi di fine Ottocento dagli storici italiani, per i quali l’autorità di Trotula e l’autenticità delle Mulieres Salernitanae sono sempre state incontestabili.

La cultura medievale permetteva alle donne di condividere con l’uomo gli aspetti sociali come le cariche politiche e religiose e la possibilità di accedere alle Scuole Mediche.
Un merito bisogna riconoscere a Trotula ed è quello di essere riuscita a risolvere ed a discutere molti aspetti e problemi legati alla sfera femminile ..
Trotula riteneva che la prevenzione fosse l’aspetto principale della medicina sottolineando anche l’importanza dell’igiene, della sana alimentazione e dell’attività fisica. Non fece mai ricorso a pratiche medievali rivolte all’astrologia, alla preghiera e tanto meno alla magia. In caso di malattia consigliava sempre dei trattamenti che si possono definire “dolci” e che includevano bagni, massaggi in sostituzione dei metodi radicali e spesso cruenti operati dai colleghi maschili.
Consigli di facile applicazione e quindi seguiti soprattutto dalle persone meno abbienti.
Le sue conoscenze in campo ginecologico furono eccezionali e molte donne ricorrevano alle sue cure. Fece nuove scoperte anche nel campo dell’ostetricia e delle malattie sessuali. Cercò nuovi metodi per rendere il parto meno doloroso e per il controllo delle nascite. Si occupò del problema dell’infertilità, cercandone le cause non soltanto nelle donne, ma anche negli uomini, in contrasto con le teorie mediche dell’epoca.

Le sue esperienze furono annotate nei due trattati e il primo trattato “Trotula maior” le fu richiesto da una nobildonna.
 I suoi libri si rivolgevano alle donne ““ché non parlano volentieri delle loro malattie agli uomini, per un sentimento di pudore”.
La trattazione risulta straordinaria anche perché, per la prima volta, una donna medico parla esplicitamente di argomenti sessuali senza nessun accento moralistico. Accanto all’elaborazione teorica delle esperienze, nel testo si trovano numerosi esempi pratici. Trotula conosceva gli insegnamenti di Ippocrate e di Galeno (129-200 d.C.) e vi faceva riferimento nelle sue diagnosi e nei suoi trattamenti.



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8b) Abella di Castellomata; Rebecca Guarna (XIII – XIV sec.); Maria Incarnata;
       Mercuriade (XII sec.); Costanza Calenda; “Regimen Sanitatis Salernitanim”, scritto
       in versi, “Flos Medicinae” (Arnaldo da Villanova commentò il “Regimen S.”).

Nei secoli XII e XIII  - XIV la Schola Salernitana toccò il suo apice.
Diversi fattori favorirono questo straordinario sviluppo con un conseguente aumento della sua notorietà: molti testi arabi che furono tradotti dal medico Costantino l’Africano che si trovava a Salerno; lo sviluppo degli scambi commerciali con la Spagna, l’Africa e la Terrasanta che avevano nel porto di Salerno uno degli scali più importanti d’Europa; la diffusione della pratica medica grazie all’arrivo dei pellegrini e dei feriti reduci dalle Crociate.

Una produzione scientifica ragguardevole e l’originalità nelle opere di terapia e di diagnostica di numerosi maestri, tra cui il figlio di Trotula, Giovanni Plateario.
Si sviluppò nei maestri l’attenta osservazione dei sintomi nell’individuazione dello stato patologico e questo diede un grande impulso sullo studio delle analisi delle urine.
Grandi maestri come Mauro di Salerno, Ursone di Calabria ed Egidio di Corbeil dedicarono la loro vita nei trattati sull’indagine uroscopica.

Ebbe un suo sviluppo anche la farmacologia che si basava in massima parte sull’uso di semplici vegetali. Nacquero trattati in cui le erbe venivano indagate dal punto di vista scientifico e classificate in base alle loro proprietà medicamentose, diversamente combinate e dosate secondo le varie applicazioni terapeutiche.

L’opera fondamentale della botanica  medicinale  medioevale è il “Circa Instans,”




L’opera fu attribuita al figlio di Trotula, Matteo Plateario e sulla cui esperienza si basarono nel secolo successivo le “Pandectae Medicinae” di Matteo Silvatico.
Anche la chirurgia cominciò ad entrare nelle pratiche mediche della Schola Salernitana. Un prestigio della Schola fu certamente la medicina e, cosa che fa scalpore, anche la chirurgia oculistica, una branca di derivazione araba, di cui fu esponente di spicco in tutta Europa.

Gli insegnamenti della Scuola ebbero una grande diffusione grazie al “Regimen Sanitatis Salernitanim”, scritto in versi, “Flos Medicinae” in modo da poter essere ricordato facilmente. Contiene rimedi e consigli per preservare la salute, uniformando la condotta di vita ai ritmi naturali del proprio ambiente e del proprio organismo: dieta, passeggiate, riposo e moderazione. Fu un’opera collettiva, anonima, risultato della consuetudine popolare, raccolta e commentata nel secolo XIII dal medico catalano Arnaldo da Villanova. Si presume che i primi versi siano stati scritti intorno al X secolo e il genere fu quello dei “tacuina sanitatis”, opere a carattere enciclopedico, in cui accanto all’illustrazione degli elementi della natura, vi era quella degli alimenti, degli stati d’animo e delle stagioni, allo scopo di salvaguardare la salute mantenendo un perfetto equilibrio tra uomo e natura.
Il nucleo originale andò accrescendosi negli anni, tanto che i 362 versi della prima edizione a stampa del 1479 diventarono circa 3520 nelle ultime edizioni.
La Summa dell’insegnamento salernitano era condensata nei versi, che suggerivano un tipo di vita igienica e tranquilla:
“…se vuoi star bene, se vuoi vivere sano,
scaccia i gravi pensieri, l’adirarti ritieni dannoso.
Bevi poco, mangia sobriamente;
non ti sia inutile l’alzarti dopo pranzo;
fuggi il sonno del meriggio;
non trattenere l’urina, né comprimere a lungo il ventre;
se questi precetti fedelmente osserverai, tu lungo tempo vivrai.
Se ti mancano i medici, siano per te medici
queste tre cose: l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta…”










Abella di Castellomata, detta Abella Salernitana (Salerno….; -…) fu una medica italiana attiva nel XIV secolo ed insegnò nella Scuola medica Salernitana. Pubblicò due trattati: “De atrabile” (sulla bile nera) e “De Natura Seminis Humani” (Sulla natura del seme Umano). Di queste opere si è persa la traccia.



Rebecca Guarna (Rebecca de Guarna/ Rebeca de Guarna) (Salerno XIII – XIV secolo) era figlia del  famoso Romuald Guarna, sacerdote, medico e storico. Medica, chirurgo e professoressa presso la “Schola Salernitana” fu autrice di alcuni testi medici. Della sua vita non si sa molto,  tranne la sua appartenenza alla nobile famiglia salernitana dei Guarna. Fu anche un erborista di grande fama e scrisse i trattati “Di Urini”,De Febrius” e “de Embrione” (sull’Urina, sulle febbri e sull’ embrione). In particolare nel suo trattato sull’urina citò l’uso di campioni d’urina nella diagnosi delle malattie. Il suo lavoro fu citato nella Collectio Salernitana.

Tavola delle urine - Medievale

Maria  Incarnata di cui esiste il diploma datato 1343

Mercuriade, di Salerno e vissuta nel XIII secolo, giovane, bella e stimata medica della Scuola Salernitana fu vittima di un dongiovanni famoso, il conte Nicola Rufolo di Ravello. ”Non ha ceduto” ma per poco, e forse perché da medica conosceva l’altra faccia dell’amore, avendo curato tante ferite, che all’epoca si chiamavano “incidenti”, Incidenti causati da mariti violenti sulle rispettive mogli  e per questo preferiva tenersi lontano da simili avventure amorose. Una grande prudenza e poi la corte di quell’uomo l’aveva senza dubbio lusingata e questo l’aveva in cuor suo resa colpevole nei confronti di una persona che non meritava questo affronto. Chi ?  La moglie del conte… una certa Gaita.
Decise di confessarsi ma non da un prete qualsiasi ma nientemeno da Tommaso d’Aquino. Aspettò  una notte intera fuori dal convento per essere ricevuta alle prime luci dell’alba dal frate.

Costanza (Costanzella) Calenda era figlia di Salvatore Calenda, fisico e chirurgo, priore del Collegio Medico di Salerno e successivamente di quello di Napoli, ed infine medico della regina Giovanna II di Durazzo dal 1414 al 1435.
Le notizie sono scarse, sembra che si sia laureata  verso il 1422, che fosse l’assistente del padre e che abbia tenuto per conto proprio delle conferenze all’Università di Napoli.
Nel 1423 ricevette un documento con cui riceveva dalla regina il consenso per il matrimonio con Baldassare, signore di Santomango, che dovette provvedere anche alla sua dote.
Il fatto che don Baldassare abbia pagato la dote sta a significare che la famiglia Calenda o Salvatore Calenda si trovava in gravi condizioni finanziarie e Baldassare rappresentava una delle famiglie più nobili e potenti dell’Italia Meridionale. Il Conte  non s’innamorò di una ragazza appartenente ad una nobile famiglia ma di Costanza, di piccola nobiltà, ma medica e figlia di un medico.

Altre mediche del medioevo: Federica Vitale, Venturela Cisinato, Tomasia di Castro, Antonia di Daniello; Perla da Fano.. ...........

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8c) Le Mediche Catanesi: Bella de Paija (1400) – Virdimura da Catania (XIV sec.)- 
       In Sicilia nel 1300-1400 si praticava la chirurgia plastica

Bella  de Paija, di origine ebrea, risiedeva a Mineo (Catania).
I suoi pazienti le erano grati e le versavano cospicui onorari in segno di riconoscenza . la sua abilità aveva varcato i confini della piccola Mineo,  il centro dove Bella esercitava la sua professione di chirurgo. Una professione esercitata senza la prescritta abilitazione.
Subì delle imposizioni da parte dell’amministrazione comunale perché non doveva operare l’attività, subendo anche la distruzione delle sue attrezzature mediche.
Raggiunse una tale notorietà che la regina Bianca di Sicilia stabilì per decreto che la “dutturissa” poteva esercitare  liberamente la sua professione perché “è stato comprovato che l’interessata ha praticato “cum sanitati di li pacienti”.
Vantava un esperienza di circa vent’anni..” «havi patricatu et exerzuta l’artidi la celurgia in la quali si havi ben portatu, cum sanitati di li pacienti», scriveva la regina agli ufficiali di Mineo… un ordine perentorio agli amministratori comunali di rispettare la medica..
La regina fu informata degli avvenimenti da parte di persone affidabili e concedeva quindi l’abilitazione con la licenza di esercitare nelle terre della camera reginale “«in tucti et qualsi voglanu infirmitati di celurgia».
Il riconoscimento alla professione pur essendo prive di titoli accademici era un segnale importante perché dimostrava sia la specializzazione raggiunta sia l’abilità nella pratica medica.
Donne che erano presenti nel territorio e la cui opera s’affiancava a quella degli uomini medici professionisti rispetto ai quali praticavano sicuramente del prezzi più bassi.
L’abilitazione d’ufficio si accompagnava al privilegio di non pagare le tasse.
Il 6 settembre 1414 Bella De Paija entrò nello storia della sanità italiana.




Virdimura da Catania, moglie (uxor) Pascalis de Medico, anch’essa ebrea, si sottopose invece il 7 novembre 1376 alla prova di abilitazione davanti ad una commissione composta da esperti di fiducia della corona e presieduta dal protomedico reale. La candidata non frequentò una scuola e giunse alla prova con una “lodabile fama” e sorprese gli esaminatori con una inedita dichiarazione d’intenti: dichiarò infatti di “volersi dedicare alla cura dei poveri “ai quali è difficile pagare gli immensi compensi richiesti da medici e chirurgi”.
Virdimura fu quindi la prima donna ufficialmente autorizzata ad esercitare la medicina e la chirurgia in Sicilia. Le mediche soccorrevano ogni malato ma erano specialmente le donne a richiedere il loro aiuto. In quegli anni uno dei problemi maggiori per le ebree era la “perdita della verginità” prima del matrimonio.
La paura della “Ketubba” era tanta e il ripudio in questo caso era l’unica soluzione.
Le donne che si trovavno in questa situazione cercavano di rimediare provando a ritrovare la verginità perduta. Si affidavano alle mani delle mediche. Queste grazie alla chirurgia plastica, molto in voga  nella letteratura medica di quegli anni, riuscivano a “ricostruire” la parte fisica andata perduta.
In riconoscimento della bravura ed impegno di Virdimura fu istituito un prestigioso premio internazionale “Il Premio Internazionale Virdimiuyra” a testimonianza dell’importante esempio di pace e di rispetto di ogni qual forma di etnia che le mediche catanesi e italiane dell’epoca hanno dato.




Nel 1300 – 1400 in Sicilia esisteva la chirurgia plastica

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A partire dal secolo XIV la “Schola salernitana” subì un declino malgrado l’evoluzione scientifica. Il motivo fu probabilmente legato al spostamento del potere e dell’elaborazione culturale dal mediterraneo al cuore dell’Europa. La Schola perse la funzione trainante, di grande richiamo internazionale, per rientrare nella storia di un ambito locale anche se svolse la sua attività per numerosi secoli e sempre con grande impegno.

Nel XVI secolo allo Studium s’affiancò il Collegio Doctorum cioè una corporazione organizzata di dottori con a capo un priore che aveva la facoltà di conferire lauree in Filosofia e Medicina. La Schola cessò la sua attività nel 1811 quando la riorganizzazione dell’Istruzione Pubblica del regno, Giacchino Murat attribuì esclusivamente all’Università di Napoli la facoltà di conferire lauree.




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9 – Le Prime Donne Laureate in Medicina in Italia
       La Prima Medica di Condotta in Italia

Dopo il 1400, a Salerno, non si ebbero più donne medico e perché in Italia se ne addottorasse un’altra dobbiamo attendere il 1741, anno in cui a Bologna viene conferita la laurea in medicina ad un’altra donna.
L’accesso all’Università per le donne venne in Italia legalmente riconosciuto nel 1875 con un R.D. del 3 ottobre firmato dal ministro Bonghi.
All’articolo 8 si affermava che “Le donne possono essere iscritte nel registro degli studenti e degli uditori, ove presentino i documenti richiesti”.
Tra di documenti richiesti: l’attestato di “buona condotta”(!!!!!!!!!!!) (rilasciato dal Sindaco……); il diploma originale di licenza liceale ovvero gli altri titoli che, secondo i regolamenti speciali bastino per l’ammissione ai vari corsi”.
Il Regio Decreto del  ministro Ruggero Bonghi, governo Minghetti (II) si basava su un paradosso.. sanciva il diritto di iscrizione all’Università per le Donne e si chiedeva, peggio che nel Medioevo, un odioso certificato di “buona condotta”, come detto, rilasciato dal Sindaco. Ma come potevano iscriversi all’Università, dal momento che non erano state ammesse a frequentare la scuola secondaria superiore e, nella fattispecie il Liceo ? Questo perché la legge di  Gabrio Casati poneva dei subdoli limiti all’accesso e alla frequenza, da parte della donna, alla scuola secondaria superiore. In realtà  un numero esiguo di donne frequentavano i licei in Toscana grazie alla presenza di leggi preunitarie. La legge Casati non esprimeva in realtà un divieto ma il suo silenzio consentì che in taluni licei le donne fossero accolte e in altri, dove il silenzio delle stesse donne veniva considerato come un esclusione, venivano rifiutate ad arbitrio dei presidi e dei regi provveditori agli studi.
(La Legge Casati citava sempre e dovunque il termine “allievi”, “studenti” ed era facile per la società estremamente conservatrice d’allora e per i suoi alti poteri che la rappresentavano, giocare facilmente su questi termini).
(Nella Legge Casati nessun riferimento alla scuola dell’infanzia.. e tra l’altro anche nella didattica aveva delle norme a dir poco “cervellotiche”.. la Geometria e il Disegno per i maschi veniva sostituita dalla materia “Lavori Donneschi” per le donne…). Solo nel 1883 fu risolta la questione con una circolare del ministro Guido Baccelli, 10 gennaio, che sciolse la questione..


 Gabrio Casati…….

L’ingresso all’università non fu facile per le donne. Le ragazze dovevano affrontare diversi problemi di ordine sociale e morale prima di varcare le soglie dell’università e a questi ostacoli si aggiungevano anche i pregiudizi dovuto alla presenta “naturale” inferiorità femminile che le rendeva oggetto di schermo da parte dei colleghi.
Grandi i timori delle famiglie di lasciare le giovai libere di allontanarsi da casa perchè costrette a postarsi in un’altra città per studiare.
La partecipazione della donna all’Università era molto temuta.  Secondo i politici e non solo, la loro presenza avrebbe portato ad un decadimento dei costumi, ad un abbassamento del livello di studio e ad una grande preoccupazione legata al loro ingresso nel ruolo professionale che avrebbe causato un invasione occupazione post laurea riducendo le possibilità occupazionali maschili.
Le laureate in Medicina e Giurisprudenza alla fine del XIX secolo furono quattro, dato numerico che testimonia gli ostacoli incontrati dalle donne nell’intraprendere la strada delle libere professioni.

1877 Ernestina Paper laureata in Medicina a Firenze

1878 Maria Fernè Velleda laureata in Medicina a Torino

1886 Anna Kuliscioff laureata in Medicina a Napoli


1892 Giuseppina Cinque laureata in Medicina a Palermo


La Prima Medica di Condotta
Adelasia Cocco di Sassari

Adelasia Cocco è al centro della foto


 Adelasia Cocco

Nel 1915 una donna, per la prima volta, diventò medica di condotta in campagna. E non in un tranquillo paesino ma a Lollove, frazione di Nuoro, dove il precedente medico era stato ucciso con una fucilata: a presentarsi fu Adelasia Cocco, laurea a Sassari nel 1913. Il prefetto non voleva crederci e cercò di dissuaderla: Ci dev’essere un errore; questo decreto non posso firmarlo. Una donna non può svolgere la professione di medico condotto in una terra così difficile come la Barbagia… ci ripensi signorina, ci ripensi….” Adelasia non ebbe alcun ripensamento, e così rievocava, a 92 anni, la sua esperienza: Lollove è stata per me la più grossa rivincita, una vittoria del femminismo, come si dice oggi. Lungo la mulattiera che conduce alla frazione venne assassinato a fucilate il dottor Romagna. Gli altri colleghi sanitari, dato il clima di tensione e di paura, si rifiutarono di prestare servizio a Lollove, e quando il comune rivolse a me l’invito, accettai. Sul dorso di un cavallo, scortata dall’assessore comunale Predu Ferru, ogni giorno portavo il conforto della medicina alla popolazione abbandonata a se stessa. Ero costretta quotidianamente a guadare un fiume, a correre in aperta campagna tra rovi e macchioni. Il medico in quei tempi in un paesetto come Nuoro, non ancora capoluogo, era considerato un deus ex machina, un dio stregone. L’ospedale non era stato ancora aperto ed i sanitari dovevano effettuare spesso difficili interventi chirurgici a casa o in ambulatorio, ed essere preparati in tutte le branche della medicina.

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Fin dall’antichità, le donne hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo scientifico. Mediche, fisiche, matematiche, biologhe: la storia abbonda di donne che hanno fatto della scienza la loro ragione di vita, molto spesso incontrando difficoltà e pregiudizi da parte di una società che non riconosceva loro il giusto peso e l’enorme contributo che hanno dato al settore scientifico. Nell’ultimo secolo molte cose sono cambiate, ma forse oggi il cammino per certi aspetti è ancora disseminato di difficoltà. Donne tenaci e appassionate che non si sono mai arrese di fronte a un mondo dominato da uomini, e delle loro conquiste che hanno contribuito a cambiare (in meglio) il mondo in cui viviamo e sul quale c’è ancora tanto da lavorare…..

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10.  Il Giuramento di Ippocrate
Il Giuramento di Ippocrate viene prestato dai medici, chirurgi ed odontoiatri prima di iniziare la loro professione (il testo moderno è modificato rispetto al testo antico). Prende il nome proprio da Ippocrate a cui il giuramento è attribuito e la cui composizione sembra non anteriore al IV secolo a.C.
Secondo alcuni storici non fu Ippocrate e dettare il giuramento. Uno dei motivi è legato all’invocazione inziale alle divinità. Ippocrate fu considerato il primo ad aver separato la medicina dalla religione ed ad aver ricercato le cause delle malattie non nel soprannaturale ma nel razionale.
Una questione che ancora oggi è molto dibattuta e che sembra postare l’origine del giuramento al pensiero dei pitagorici del IV secolo a.C. che sposavano  gli ideali della sacralità della vita ed erano contrari alle procedure chirurgiche.

«Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto:

di stimare il mio maestro di quest' arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest'arte, se essi desiderano apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa.
Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività.
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.
Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell'esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.
E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell'arte, onorato dagli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro.»



Il Giuramento di Ippocrate da un manoscritto Bizantino dell’XI secolo
Biblioteca Vaticana

«Ὄμνυμι Ἀπόλλωνα ἰητρὸν, καὶ Ἀσκληπιόν, καὶ Ὑγείαν, καὶ Πανάκειαν, καὶ θεοὺς πάντας τε καὶ πάσας, ἵστορας ποιεύμενος, ἐπιτελέα ποιήσειν κατὰ δύναμιν καὶ κρίσιν ἐμὴν ὅρκον τόνδε καὶ ξυγγραφὴν τήνδε.
Ἡγήσασθαι μὲν τὸν διδάξαντά με τὴν τέχνην ταύτην ἴσα γενέτῃσιν ἐμοῖσι, καὶ βίου κοινώσασθαι, καὶ χρεῶν χρηίζοντι μετάδοσιν ποιήσασθαι, καὶ γένος τὸ ἐξ ωὐτέου ἀδελφοῖς ἴσον ἐπικρινέειν ἄρρεσι, καὶ διδάξειν τὴν τέχνην ταύτην, ἢν χρηίζωσι μανθάνειν, ἄνευ μισθοῦ καὶ ξυγγραφῆς, παραγγελίης τε καὶ ἀκροήσιος καὶ τῆς λοιπῆς ἁπάσης μαθήσιος μετάδοσιν ποιήσασθαι υἱοῖσί τε ἐμοῖσι, καὶ τοῖσι τοῦ ἐμὲ διδάξαντος, καὶ μαθηταῖσι συγγεγραμμένοισί τε καὶ ὡρκισμένοις νόμῳ ἰητρικῷ, ἄλλῳ δὲ οὐδενί.
Διαιτήμασί τε χρήσομαι ἐπ' ὠφελείῃ καμνόντων κατὰ δύναμιν καὶ κρίσιν ἐμὴν, ἐπὶ δηλήσει δὲ καὶ ἀδικίῃ εἴρξειν.
Οὐ δώσω δὲ οὐδὲ φάρμακον οὐδενὶ αἰτηθεὶς θανάσιμον, οὐδὲ ὑφηγήσομαι ξυμβουλίην τοιήνδε. Ὁμοίως δὲ οὐδὲ γυναικὶ πεσσὸν φθόριον δώσω.
Ἁγνῶς δὲ καὶ ὁσίως διατηρήσω βίον τὸν ἐμὸν καὶ τέχνην τὴν ἐμήν.
Οὐ τεμέω δὲ οὐδὲ μὴν λιθιῶντας, ἐκχωρήσω δὲ ἐργάτῃσιν ἀνδράσι πρήξιος τῆσδε.
Ἐς οἰκίας δὲ ὁκόσας ἂν ἐσίω, ἐσελεύσομαι ἐπ' ὠφελείῃ καμνόντων, ἐκτὸς ἐὼν πάσης ἀδικίης ἑκουσίης καὶ φθορίης, τῆς τε ἄλλης καὶ ἀφροδισίων ἔργων ἐπί τε γυναικείων σωμάτων καὶ ἀνδρῴων, ἐλευθέρων τε καὶ δούλων.
Ἃ δ' ἂν ἐν θεραπείῃ ἢ ἴδω, ἢ ἀκούσω, ἢ καὶ ἄνευ θεραπηίης κατὰ βίον ἀνθρώπων, ἃ μὴ χρή ποτε ἐκλαλέεσθαι ἔξω, σιγήσομαι, ἄρρητα ἡγεύμενος εἶναι τὰ τοιαῦτα.
Ὅρκον μὲν οὖν μοι τόνδε ἐπιτελέα ποιέοντι, καὶ μὴ ξυγχέοντι, εἴη ἐπαύρασθαι καὶ βίου καὶ τέχνης δοξαζομένῳ παρὰ πᾶσιν ἀνθρώποις ἐς τὸν αἰεὶ χρόνον. παραβαίνοντι δὲ καὶ ἐπιορκοῦντι, τἀναντία τουτέων.»

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