Il Castello di “Regiovanni” - (Gangi – Palermo)






Indice
1.      Ubicazione
2.      Storia – I Riferimenti Storici e la Presenza Musulmana – I feudatari: De Craon; De Candida;
Ventimiglia; De Paulillis; Graffeo; Valguarnera;
3.      La Struttura
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1.      Ubicazione;
Il castello di Regiovanni è oggi una masseria rurale posta a pochi chilometri da Gangi e su un antica strada che collegava le Madonie con l’interno della Sicilia (Enna).
A sinistra del Castello e a poca distanza scorre il fiume Gangi affluente dell’Imera Meridionale (Salso).






È una stupenda rupe, lunga alcune centinaia di metri, che si eleva dal piano  e alla cui estremità occidentale sorse nel periodo medievale un castello rupestre. Un castello dotato di ambienti ipogeici che erano raccordati con strutture murarie. Proprio per la presenza di questi ambienti ipogeici  è collegato dal punto di vista architettonico alla vicina fortezza di Sperlinga.




1.      Storia;
Il toponimo è di origine araba, “Rahal Iohannis” o “Rakhal Johannis” e le sue fabbriche attuali sono da attribuire probabilmente all’opera edilizia dei conti Ventimiglia tra il XIII e il XIV secolo.
Il castello è molto rimaneggiato e ci sono dei resti che testimonierebbero l’esistenza  di una struttura in un periodo antecedente all’intervento edilizio dei Ventimiglia.
Comunque l’unico dato certo è la presenza dello stemma araldico della famiglia Ventimiglia, almeno fino a pochi anni fa ancora esistente sul portale d’ingresso, recante la data MCCCCXVIII (1418). Uno scudo araldico in pietra che testimonia il possesso del castello e della relativa baronia (Rahal Johannis) da parte dei Ventimiglia Conti di Geraci.
Il casale ricadeva nella Val di Noto e le sue terre costituivano quasi il confine con le terre della Val Demone e della Val di Mazara.



Il castello di Regiovanni in una mappa della Sicilia del 1681.
In verde è segnato il confine della  Val di Noto con la
Val Mazara ad ovest e la Val Demone a Nord.

Il Castello di Regiovanni si trova proprio nel punto di confluenza delle Tre Valli Amministrative
Giovanni Luca Barberi, nel suo Capibrevi” nel XV secolo, inserì il feudo di Rahal Johannis nel distretto amministrativo denominato “Valle di Castrogiovanni” (Enna) ricadente appunto nella Val di Noto.
Bisogna d’altra ricordare che il termine “Castrogiovanni” era la forma “moderna” del termine latino “Castrum Johannis” che corrisponde all’arabo “Qasr Yanah”.

Quindi “Regiovanni” potrebbe essere il nome moderno dell’antico termine “Rahal Johannis” latinizzato in epoca normanna che corrisponderebbe all’arabo “Rahal Yanah” cioè “Casale di Enna”.
Il termine “reale” deriva dall’arabo ispanico “Rahal” ed ha anche il significato di villaggio, casale
Lo stemma dei Ventimiglia di Geraci sull'ingresso del castello

Stemma dei Ventimiglia con il motto.

“La  destra del Signore ha fatto prodezze. La destra  del Signore si è innalzata….” (Salmo, 117)
Questa parte del Salmo termina con un'altra frase ripetitiva:
La destra del Signore ha fatto prodezze.”
L’origine storica di questo salmo è legata ad un imponente liturgia di
ringraziamento, in occasione di uno straordinario evento nazionale,
generalmente identificato con la grandiosa celebrazione della festa
delle Capanne indetta da Neemia nel “settimo mese dell’anno 444”.
Un Salmo che è un canto di ringraziamento, processionale, profetico.

Il motto fu utilizzato in precedenza dal Gran Conte Ruggero il Normanno ed affiancato
all’immagine della Vergine Maria presa come personale Protettrice.

Come afferma il prof. Salvatore Farinella…”lo stemma reca uno scudo sormontato da un cimiero e racchiuso in una cornice a forma di losangha e presenta la consueta bipartizione del blasone di famiglia che è simile a quello che s’incontra nelle strutture dei Ventimiglia a Cefalù. Resuttano, Migaido e Roccella”.
Il castello dei Ventimiglia era un importante  caposaldo militare nel sistema difensivo della vasta Contea di Geraci.



I RIFERIMENTI STORICI E LA PRESENZA MUSULMANA
Lo storico Vito Amico nel XVIII secolo scriveva in merito al castello…”celebre fortezza con un paese un tempo, siede in un giogo dei colli, che sollevansi dal Monte Artesino verso occidente tra il fiume Salso ed il Morello”.
Lo storico Farinella fa risalire l’origine del castello al periodo arabo per il suo collegamento, dal punto di vista costruttivo, a castelli arabi simili presenti a Sperlinga, Gagliano o ancora a quello, decisamente misterioso, di Guastanella. Castelli che furono costruiti unendo la roccia esistente ed affiorante in modo vistoso, caratterizzata dalla presenza di cavità ipogeiche, con le strutture murarie edificate.
Una tesi condivisa da molti storici e comunque collegata al rinvenimento, decisamente importante per la datazione, di reperti archeologici riconducibili alla frequentazione musulmana della zona.
Oltre al toponimo di origine araba ed ai reperti rinvenuti, c’è da aggiungere anche la presenza di alcune tombe a fossa scavate nella roccia e simili per la loro tipologia a tombe rinvenute in Spagna, nell’alta valle dell’Ebro, e in Portogallo.

Necropoli medievale di Lagares

Sepolture Musulmane a Nimes

Il corpo veniva deposto nella tomba privo di oggetti o ornamenti; semplicemente vestito con abiti appositi oppure avvolto entro un lenzuolo funebre per cercare di evitare il contatto con la terra che era considerata un elemento impuro. Tombe che, per un concetto di umiltà e di uguaglianza di fronte a Dio l’Islam, non erano segnalate in alcun modo in superficie (in realtà agli albori dell’Islam, verso la prima metà del VII secolo, sono presenti delle tombe monumentali soprattutto in Egitto).

La presenza del castello è documentata dal 1273 anche se in un documento del periodo svevo, datato 30 aprile 1195, è citato nell’assegnazione delle “divise del tenimento “ di Geraci alla Contessa Guerrera de Craon.
Dal documento si evidenzia che il castello, o torre, con le sue terre o “divise” di “Rahal Johannis” non appartenevano alla famiglia de Craon e che confinavano  con le terre della forte Contea di Geraci

Stemma Famiglia  De Craon
Casa molto famosa della Bretagna, i cui primi autori noti sono: Guy nel 1190;
Giovanni Vescovo di Mans, poi Arcivescovo di Reims, 1373;….”
Alla famiglia De Craon apparteneva un Robert de Craon (….; 13 gennaio 1147) che fu
il secondo Maestro generale dell’Ordine dei Templari dal giugno 1136 fino
alla sua morte,13 gennaio 1147.
Robert de Craon nacque verso la fine dell’XI secolo.
Era il figlio minore di Renauld de Craon e risiedevano in Aquitania.
Doveva sposare la figlia del Signore di Angoumois ma abbandonò la fidanzata per
partire per la Palestina attratto dalla nuova fondazione
dell’Ordine dei Templari da parte di Hugues de Payns.
Mostrò subito il suo grande valore militare e anche il suo grande animo
caritatevole.  Alla morte di Hugues venne prescelto come nuovo Maestro Generale,
carica che ricoprì fino alla sua morte.
Nel suo stemma gentilizio oltre allo scudo dei Craon c’è anche una Croce rossa.
Il 29 marzo 1139, il papa Innocenzo II promulgò una bolla papale,
Omne Datum Optimum, che esentava l’Ordine dei Templari dal
pagamento delle tasse e lo rendeva indipendente dalla giurisdizione ecclesiastica.
Agli stessi Templari venne anche garantito il diritto di portare una Croce rossa sopra
l’abito bianco che finì con identificare l’immagine popolare dei Templari.

Stemma di Robert de Craon

L’area delle Madonie vide, in epoca normanna, il sorgere di numerose signorie che avevano come obiettivo l’instaurazione di poteri feudali sul territorio  e sui diversi centri.
Nel XII secolo, su Polizzi, Caltavuturo e Collesano c’era la signoria della nipote di re Ruggero, Adelicia.


Adelice o Adelasia di Paternò (1090 circa; 1130 circa) era figlia di Ranulfo Maniaci, cioè un discendente del comandante bizantino Giorgio Maniace, principe e vicario dell’Imperatore di Bisanzio e di Emma d’Altavilla, figlia del Gran Conte Ruggero I d’Altavilla.
Adelice sposò il conte normanno Rinaldo d’Ayenel ed ebbero un figlio, Adam, che morì precocemente ed una figlia Matilde che sposò Costantino II Paternò, Conte di Butera e di Martana.
Adelice, alla morte del fratello Ruggero, ricevette dalla corte normanna numerose terre presso Paternò, Adernò, Aidone e Caltanissetta oltre a quelle su citate.
In merito alla figlia di Adelice, “Magalda o Matilde” si cita anche un suo matrimonio con Riccardo dell’Aquila (de Aquila), conte di Avellino, da cui nacque Ruggero dell’Aquila. Il Ruggero dopo la morte del padre (14 settembre 1152) ereditò la Contea di Avellino e alla morte dei discendenti di Adelicia, prima del 1160-61, diventò unico erede dei possedimenti di sua nonna materna e cioè delle terre  di Adrano, Polizzi e Collesano.
 Gli storici citano, come abbiamo visto, Matilde in moglie di Costantino II Paternò.
Il capostipite dei Paternò in Sicilia fu Roberto d’Embrun (appartenente alla casa dei Conti di Barcellona nei quali si erano estinti i Conti di Provenza) che scese in Sicilia con i Normanni per la conquista dell’isola intorno al 1060 e si distinse nella conquista del centro di Paternò.
Secondo alcuni storici assunse il cognome “Paternò” proprio in seguito alla conquista della cittadina alle falde dell’Etna. Secondo altri storici fu invece suo figlio, Costantino I, già nominato Conte di Buccheri, che sposò Maria, Contessa di Paternò, figlia di Flandina d’Altavilla (nobildonna normanna) e di Ugone di Circea (cavaliere normanno), ad assumere il cognome della moglie dando vita proprio alla Casa Paternò “de Partenione”, conservando lo stemma originario della sua casata dei Conti di Barcellona.
Un discendente, forse nipote di Costantino I,  il “miles” Costantino II de Partenione  (morto nel 1168), signore di Buccheri, Conte di Butera e Martana sposò la su citata Matilde che venne appellata “dell’Aquila, Drengot ed Altavilla, contessa di Avenel” (pronipote di Ruggero d’Altavilla).
Il “miles” Costantino II fu citato in almeno due diplomi di Simone il Guiscardo, datati 5- agosto 1143 e 30 novembre 1148.
Matilde era vedova di Riccardo dell’Aquila e per questo venne anche citata come contessa d’Avellino? Dal Matrimonio tra Costantino e Matilde dell’Aquila nacque Roberto ma perché i beni in Sicilia  passarono alla  morte di Matilde al figlio Ruggero dell’Aquila ?


Stemma della Famiglia Paternò

Nel Museo di Catania dovrebbe essere esposta una lapide che fu scoperta nel 1737 e che risale al 1168.
“Tagliando una strada in Catania nell’anno 1730 al lato settentrionale del collegio della Compagnia di Gesù, s’imbatterono gli operai in una lapide infranta, nella quale, recatami, lessi in gradi lettere gotiche  (Vito Amico)..”….DE PARTENIONE. MILITI. VIRO. ARMIS. EGREGIO. BV…RTANAE.  COMITI.  ROBERTI.  FILIO. MATHILDIS.  UXOR… POSUIT DIE  VIII APRILIS  ANNO M.  C.  LXVIII”.  Cioè  “ Constantino De Partenione Militi Viro Armis Egregio Bucherii et Partanae Comiti  Roberti  Filio Mathildis Uxor Moerens Posuit VIII Aprilis Anno MCLXVIII”
(BV  fu interpretata come abbreviazioni di Buccheri dato che il primo Robero Paternò, coetaneo del Granconte Ruggero, era stato signore di Bucchieri (oggi ,Buccheri).)
Gli studi del prof. Antonio Varvaro bruno ricostruirono il senso della lapide : “« CONSTANTINO DE PARTENIONE MILITI VIRO ARMIS EGREGIO BVTERE CUM MARTANE COMITI ROBERTI 
 FILIO MATHILDIS UXOR MOESTISSIMA POSUIT DIE VIII APRILIS ANNO M. C. LXVIII ».

Quindi nel XII secolo troviamo sui centri di Polizzi, Caltavuturo e Collesano la signoria della nipote di Re Ruggero, Adelicia, mentre la famiglia De Craon, imparentata con gli Altavilla, avevano la signoria su Ipsigrò (Castelbuono), Geraci, Gangi ( con il castello di Realgiovanni) e Mistretta.


L’unione matrimoniale dei De Craon con i  Candida, importanti funzionari a Corte, permise a quest’ultimi di entrare in possesso dei territori madoniti posti attorno al centro di Geraci.


Ma come mai Alduino de Candida era Conte di Geraci ?
La ricerca  va estesa agli avi di  Guerrera de Craon.
Guglielmo (Guillermo) Nortman, chiamato anche “Craòn o Creòn” per essere figlio di Hugues de Craòn, sposò sua cugina Rocca de Barnaville.  Fu un matrimonio di stato voluto dal cugino e primo Conte di Sicilia, Ruggero I (Re di Sicilia). I Barnaville era un nobile casata che venne descritta nell’opera “Albero genealogico storico della casa nobile e Famiglia degli onorevoli signori Duchi di Bournonville. Il coronado de doze produce frutti rilevanti che ne dimostrano la feconda virtù, ammirevoli per tutto il mondo , il dottor Esteban Casellas, il sindaco della Holy Church e le Master Schools della Royal University e gli studi generali di Lerida. Barcellona, ​​anno MDCLXXX. “.
Il figlio Ruggero Nortman di Altavilla e Craòn (le fonti lo indicano come conte di Ischia e Signore di Geraci anche se qualche storico lo cita come V Conte di Geraci) sposò sua cugina Margherita Nortman.
Il diploma descritto dallo storico Rocco Pirri sembra che si riferisca al matrimonio tra Ruggero e Margherita: Hoc sane matrimonium diploma Agrigentinae Ecclesiae Anno Sal. 1142 ind 5 Regni Rogerii an. 13 die mensis Maii scriptum dichiarat . Vero diploma della chiesa di Agrigento, nell'anno 1142 del regno di Ruggero, il 13 maggio, dichiara questo matrimonio scritto . Geraci Sulario 
Dal matrimonio nacque Guerrera de Cròan, indicata con VI contessa di Geraci nel 1195 circa.
Infatti nel 1196 la Guerrera ampliò e fortificò il castello di San Mauro Castelverde con la costruzione di due torri difensive (Torri di “Magdalena” e “San Marco”) e quello di Castelluccio (Castel di Lucio). La divisione tra i centri di Geraci e Petralia fu attribuita alla stessa Guerrera.
Guerrera de Craòn sposò Alduino (o Aldoino) de Candida, discendente di Desiderio ultimo re dei Longobardi, e Signore di Candida e Lapio (in provincia di Avellino).
Dal matrimonio nacque Ruggero II de Candida, Conte d’Ischia e Geraci, morto prima de 1222, che prese in moglie Isabella di Parisio.
La figlia Margherita sposerà Andrea di Cicala, figlio di Paolo di Cicala, signore di Collesano e Polizzi mentre il figlio, Aldoino, conte d’Ischia e di Geraci, morto prima del 1240, sposò la figlia di Paolo di Cicala di cui non si conosce il nome.
Aldoino de Candida citò il cognato Andrea nel suo testamento del 1234 come tutore delle figlie e amministratore della contea di Geraci. Andrea di Cicala diventò importante nella politica del Regno perché oltre all’amministrazione della Contea di Geraci assunse la carica di “Capitaneus generalis et magister iustitiarius”, negli anni 1242/43 -1246, su tutto il Regno di Sicilia detenendo anche su Geraci la piena e totale giurisdizione.

Lastra tombale con lo stemma di don Domenico Candida,
patrizio di Gerace (morto a Napoli nel 1788)

Un susseguirsi confuso di matrimoni, spesso fra parenti, in ogni caso alla metà del XIII secolo il dominio di Geraci venne  ripreso dal Regio Demanio e pochi anni dopo, nel 1247, una nuovo quadro territoriale di natura pubblica racchiuse i territori madoniti con la creazione di una Contea.
Isabella, figlia di Aldoino, rivendicò la sua signoria sulla “Contea”. Una rivendicazione nata dopo il suo matrimonio con Enrico II Ventimiglia a cui il re Manfredi, figlio di Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, aveva concesso nel 1258 le Petralie, Bilici, Gratteri e Caronia.
Il Ventimiglia operava in tutta l’area madonita usurpando anche i beni del vescovo ed esercitando “di fatto” un vero e proprio controllo amministrativi e giudiziario su di esse.
Enrico Ventimiglia aveva un ruolo importante nella politica di re Manfredi con le cariche di Capitano Generale d’Armi nel 1258 e di Vicario della Marca nel 1259-60. Naturalmente le posizioni acquisite presso la Corte regia crearono una sorta di tolleranza nelle sue azioni nell’area dei domini feudali dell’isola.
Fece una serie di usurpazioni soprattutto ai danni della Chiesa di Cefalù che era la maggiore detentrice di terre e diritti nell’area madonita (delle Madonie). L’occupazione di Tusa e della sua tonnara; l’usurpazione dei pascoli a Malvicino e sulle colline dell’entroterra della stessa città vescovile di Cefalù.
Il rapporto di egemonia instaurato con il potere ecclesiastico che controllava l’area madonita fu testimoniato da una specie di patronato esercitato sulla chiesa di Cefalù della quale fece riparare il tetto in due occasioni, nel 1261 e nel 1263. In questi lavori lasciò a testimonianza delle iscrizioni su alcune travi. Esercitava un vero e proprio esercizio di poteri signorili sui beni territoriali del vescovado, tanto che il Vescovo di Cefalù fu costretto  a denunciare Enrico Ventimiglia che “tenebat dictam ecclesiam occupatam”.


Duomo di Cefalù.
Abside del Duomo normanno restaurato e completato nel 1263 da Enrico II di Ventimiglia,
Conte di Geraci e di Ischia.

Con la tragica fine di Manfredi e della sua nobile casata Sveva e il conseguente avvento angioino, Enrico II Ventimiglia seguì le sorti comuni a gran parte dell’aristocrazia siciliana che rimase legata alla dinastia sveva.  Queste difficoltà furono segnalate da un processo nel 1266 che lo obbligava al risarcimento del Vescovo di Cefalù per l’usurpazione dei pascoli di Malvicino e che culmineranno nel 1271 con l’esilio e la confisca dei beni.
Enrico II si vide sottratto dal potere angioino un vero e proprio impero che poggiava sul controllo signorile di numerosi centri abitati e sui territori, tutti posti in gran parte sulle Madonie, e che erano anche frutto delle continue usurpazioni sulle rendite ecclesiastiche.
Quando fu mandato in esilio dal potere angioino, seguendo la regina Costanza in Spagna, gli furono confiscati oltre alle Petralie e Caronia, anche le terre di Geraci, Gangi, Castelluzzo (Castel di Lucio), Ipsigrò (Castelbuono), Fisaula e Montemaggiore.
Il re Carlo I d’Angiò subito investì dell’importante Contea di Geraci i suoi cugini Simone e Giovanni di Montfort-Leicester il 23 gennaio 1271. A Giovanni di Montfort-Leicester furono assegnati i castelli di Gangi, Castelluccio e Geraci “cum terrae et comitatu”.
Il vassallaggio dei Montfort comprendeva inizialmente i castelli di Garaci, San Mauro, Ypsigrò, Fisauli, Belici, Montemaggiore e le terre di Gangi e Castel di Lucio. Ma nel luglio 1271 Giovanni Montfort cedette la Contea di Geraci in cambio della Contea di Squillace in Calabria. Nuova assegnazione a Simone di Montfort delle terre di San Mauro, Ypsigro e Fisauli . A queste “terre” rinunciò per la Contea di Avellino ma gli vennero assegnate dal sovrano, malgrado la rinuncia, anche  Gangi, Castelluccio e Geraci che erano state concesse al fratello Giovanni.

Nel 1273 è documentato un certo Guglielmo de Rahalioanni probabilmente un vassallo angioino.

Il ritorno dei Ventimiglia in Sicilia si realizzerà con Aldoino, figlio di Enrico II, al seguito del re Pietro d’Aragona dopo il Vespro del 1282 e dopo la fine del dominio angioino. Aldoino figura tra i più importanti nobili  al seguito del re ed anche tra i maggiori fideiussori dello stesso Pietro. Enrico II Ventimiglia ritornerà nell’isola solo dopo l’incoronazione di Federico III d’Aragona nel 1296 ed apparirà come una figura piuttosto ambigua nella scena politica. Sembra oscillare tra fedeltà al sovrano aragonese e lo schieramento angioino dato che Carlo d’Angiò, nel 1300, gli confermerà i possedimenti “suoi e della moglie” ormai definiti come “Contea di Geraci”.

Il De Spuches ed il Villabianca  nell’elenco dei feudatari del 1296 inserirono Giovanni de Jheremia come possessore del castello e del feudo di Realgiovanni. A causa della ribellione del barone de Jheremia contro Federico III d’Aragona e contro i Ventimiglia, fedeli al sovrano aragonese, i possedimenti finirono in potere dei Ventimiglia.
Probabilmente il de Jheremia era favorevole agli Angioini e il castello di Gangi così come il castello di Rahal Johannis furono danneggiati dalle agitazioni del 1299.
La fortezza fu probabilmente ricostruita dopo gli eventi del 1299 costituendo il baluardo meridionale della Contea di Geraci per vari aspetti: visivamente collegato con i Castelli di Gangi e di Geraci; dominava la via d’acqua rappresentata dal fiume Gangi  e la trazzera che collegava le Madonie ad Enna.

Nel periodo tra la caduta di Carlo I d’Angiò e l’incoronazione di Pietro I d’Aragona, s’instaurò in Sicilia un governo provvisorio dove tra i suoi esponenti c’era Aldoino Ventimiglia, conte d’Ischia e designato Signore di Geraci.
Enrico ed Aldoino Ventimiglia, padre e figlio, guidarono politicamente e militarmente il partito svevo-aragonese contro l’esercito angioino.
Il figlio di Aldoino, Francesco I, fu invitato al parlamento dell’isola da re Pietro II (figlio di Federico III d’Aragona e Re di Sicilia). Non si sa il motivo ma Francesco I Ventimiglia rifiutò l’invito “contravvenendo alla volontà del sovrano”.
Francesco I aveva ereditato dal nonno paterno Enrico II il possesso di numerosi beni in Liguria e in Sicilia il titolo di Conte di Geraci a cui aggiunse numerose terre, vassallaggi e castelli tra cui quello di Regiovanni.
Un enorme patrimonio, come riportano le fonti, che gli dava un reddito annuale di 1500 onze.
Il Conte di Geraci era una figura politica di primo piano nel Regno di Sicilia.
Durante il regno di Federico III di Sicilia fu ambasciatore ad Avignone presso papa Giovanni XXII, una figura importante anche dal punto di vista militare nella guerra contro gli angioini. Nel 1318 con l’arcivescovo di Palermo, Francesco de Antiochia, fu a capo di una missione per trattare la pace con Giacomo II d’Aragona dal papa, al quale illustrò la genealogia dei sovrani siciliani come diretti discendenti dai sovrani svevi, ottenendo vantaggi per il suo casato.
Come mai Francesco I, cosi fedele al sovrano Federico III di Sicilia dal quale era considerato come un suo favorito, fu al centro di una vera e propria guerra con il figlio del sovrano, Pietro II ?
Nel 1332 il cognato di Francesco I, Giovanni Chiaramonte gli tese un agguato a Palermo in cui riportò una ferita al capo. Alla base del litigio c’erano diversi motivi sia politici che morali. Il Ventimiglia aveva ripudiato la moglie Costanza, sorella del Chiaramonte, perché non gli “aveva dato figli”.
Dopo la morte del sovrano Federico III, avvenuta nel 1337, Francesco I Ventimiglia si era ritirato nei suoi domini feudali. C’è da dire che lo stesso sovrano, nel 1336 cioè un anno prima della sua morte, lo aveva confermato nell’ufficio di maggior camerario e lo indicava come esecutore testamentario.
Il nuovo sovrano Pietro II, figlio di Federico III, nella sua politica feudale concesse molti poteri ai Palizzi ed ai Chiaramonte, a danno dei Ventimiglia e dei loro seguaci, gli Antiochia.
 Francesco I V. fu invitato a corte dal sovrano ma non si presentò e al suo posto inviò il figlio Francesco, detto “Franceschiello”, che venne imprigionato dai Palizzi insieme al suo segretario, Ribaldo Rosso.  Il segretario, sottoposto a tortura, confessò che Francesco I e Federico d’Antiochia tramavano contro il sovrano.
Il Conte di Geraci fu accusato di tradimento e condannato a morte con sentenza della Magna Curia Regia, riunita a Nicosia, il 30 dicembre 1337.
Il 2 gennaio 1338 re Pietro II con il suo esercito assediò Geraci …. Il Ventimiglia uscì dal castello con una mazza di ferro in mano per affrontare i nemici… nel ritornare nel castello trovò la strada sbarrata dai nemici e al galoppo fuggì verso i boschi. Bell’inseguimento perse il controllo del suo cavallo e precipitò in un burrone. Il suo cadavere venne preso, denudato e offeso, come riportano le cronache, dal catalano Francesco di Valguarnera e dai suoi soldati… che per dimostrare al re di averlo ucciso, infilzarono le loro lance sul suo corpo.
In questo conteso militare sembra che il castello di Rahal Iohannis abbia giocato un ruolo non indifferente nella vicenda se il cronista Michele da Piazza, fra le terre del Ventimiglia che si ribellarono al re Pietro, così lo ricorda nella sua opera: “et Ragal Joannis, quod castrum Ragal Joannis rapuit dictus comes in dicta rebellione cum tractatu hominum terrae Gangij”, per quanto l’autore in un passo successivo lo indichi anche come “castri regii Ragal Joannis
Francesco I Ventimiglia morì quindi nel 1338 e la contea di Geraci, che gli fu confiscata, fu concessa alla regina Elisabetta di Carinzia rimanendo nella camera reginale sino al luglio del 1349.
Gli altri possedimenti furono distribuiti fra i nobili: Caronia a Matteo Palizzi; Collesano e Gratteri a Damiano Palizzi ed altri feudi ai familiari ed amici del re.

Castello di Geraci (XII secolo)

Castello di Geraci





La regina Elisabetta il 15 luglio 1349 vendette per 800 onze, al suo segretario Giovanni Paolillo ( de Paulillis), i feudi di Regiovanni, Artesina, Bordonaro, importanti sottofeudi della baronia di Gangi..
Nel 1370 questi sottofeudi erano ancora in possesso dei De Paulillis con Nicolò figlio di Giovanni.

Stemma della famiglia Paolillo o Paulillo
dal Nobiliario Siciliano

“ Si ritrova nel reggimento Normando con carichi militari la famiglia Paolillo in
Sicilia, percioche Antonio Paolillo fu Condottiero d’una banda di Soldati nella
Città di Cosenza, per ordine del Rè Mal Guglielmo, per spettar (rispettare)
ivi la volontà del suo Gran Cancelliero di Sicilia Asclettino Arcidiacono di Catania.
Eschino Paolillo fù Conservador del Tribunale del Real patrimonio nel 1247,
il cui figlio Giovanni Costanzo fù Vice grad’Ammiraglio di Sicilia sotto il Rè Manfredo
nel 1259 come si legge nella vita del Rè Manfredo scritta del Valla.
Si ritrova parimente Antonio P. Notario Regio del Rè Federico II.
Il cui nepote Notaro Matteo P. fù Secretario delle Regina Maria e primo Notario Regio del Regno.
Questi fu figlio di Nicolò P., che per i serviggi Militori hebbe dal Rè Federico III,
nel 1364 il feudo di Ragalgio e con Salva, sorella di Berardo Michilcarari, sua moglie procreò il
predetto Matteo, Giovanni, Antonio…..”.
La storia di questa nobile famiglia presenta un errore  perché Nicolò non ricevette
il feudo di “Ragalgio” (Regiovanni) da Federico III d’Aragona nel 1364 dato che il
sovrano era già morto da circa trent’anni (1337).
Nicolò ricevette il feudo dal padre Giovanni che, come già citato, l’aveva acquistato dalla
regina Elisabetta di Carinzia, moglie di Pietro II di Sicilia.
Pietro II di Sicilia, figlio di Federico III d’Aragona e di Eleonora d’Angiò, morto a
Calascibetta il 15 agosto 1342.
Tesi  che è confermata dal Nobiliario Siciliano in cui è riportato:
“Paulillo o Paolillo.
Nobile famiglia messinese. Un notaro Giovanni, milite, segretario della regina Elisabetta ebbe il feudo di Regiovanni, del quale ottenne conferma a 19 giugno 1349 e ottenne pure concessione dell’ufficio di portulanotto di Girgenti; un Nicolò figlio del precedente, ottenne conferma dei feudi di Regiovanni, Bordonaro, Raulica e Artesina a 24 gennaio 1370; un Matteo ottenne da re Federico concessione del diritto di censo di onza 1.7 sopra i molini della fiumara di Polizzi; un Enrico fu giudice straticoziale di Messina negli anni 1417, 1420, 1422, 1437, 1440; un Pietro fu maestro notaro della curia straticoziale di Messina; un Tommaso acquistò il diritto feudale del rotolo sui macelli di Messina; un Francesco, figlio del precedente, fu ascritto alla mastra nobile del Mollica (lista XIX, anno 1605) e fu senatore di Messina nell’anno 1617-18”.

Nicolò de Paulillis mantenne i sottofeudi di Gangi fino al 1396 quando gli furono confiscati.
Infatti nel 1396 il “castellu et fedu di Rayalhoannis” furono confiscati al De Paulillis per essere concessi a don Chicco (Cecco) Ventimiglia con investitura dell’11 dicembre 1396.
Ma come mai i Ventimiglia riottennero i loro feudi con la vasta Contea dato che gli erano stati confiscati nel 1338  ed erano di pertinenza della camera reginale almeno fino al luglio 1349 ?
Nel testamento di Francesco I Ventimiglia, redatto il 22 agosto 1337 era riportato come il Conte di Geraci aveva ottenuto da Re Federico III di Sicilia il “diritto di percezione delle collette e sovvenzioni del regno in relazione alle sue terre feudali”. Un diritto che faceva parte del patrimonio dei Ventimiglia e che venne lasciato in eredità ai figli. Il diritto di percezione delle collette era un compito che spettava ai giustizieri reali provinciali.
Durante  l’occupazione reale fino al 1353 circa (dopo Elisabetta di Cariniza la Contea fu assegnata all’infante Giovanni e, alla morte di questi intorno al 1352, al fratello Federico futuro re) si verificò il distacco del giustizierato di Geraci da quello di Agrigento. Il distretto amministrativo di Geraci veniva governato da un funzionario di nomina imperiale che rappresentava l’autorità regia a livello provinciale.
Il 3 luglio 1348 è citato il milite Giacomo di Serafino che “agisce come giustiziere reginale della Contea di Geraci”.

Francesco II Ventimiglia (“Franceschello”) vide la tragica fine del padre Francesco nel 1338 e fu fatto prigioniero dalle truppe del Re Pietro II. Fu liberato nel 1348, avendo perduto utti i beni che come abbiamo visto gli erano stati confiscati, aderì alla fazione dei catalani guidata da Blasco Alagona, conte di Mistretta che si opponeva alla fazione dei Latini capeggiata dai Chiaramonte e dai Palizzi a cui erano andati parte dei beni di famiglia dei Ventimiglia.
Spinto dall’odio nel 1350 con Matteo Sclafani, conte di Adernò, devastò e saccheggiò con le sue milizie alcuni territori del Palermitano. La reazione dei Chiaramonte fu violenta, perché Manfredi, Conte di Modica e governatore di Palermo, organizzò una finta rivolta popolare nella città. Una rivolta capeggiata da Lorenzo Morra, un suo antico servitore o parente, per attirare in città:  Matteo Sclafani, che era anche conte di Ciminna; Blasco Alagona e Francesco II Ventimiglia.
Il Ventimiglia, che si trovava in città attirato da un amore giovanile, si salvò miracolosamente riuscendo a fuggire con suo fratello, attraverso un condotto sotterraneo. I suoi uomini furono catturati e barbaramente uccisi.

La Contea assunse i contorni di una provincia autonoma che dopo il 1353 venne gestita dai Ventimiglia.
Nel 1353 i figli di Francesco I Ventimiglia, Emanuele e Francesco II, risultavano già rientrati in possesso dei beni paterni ancora prima delle formale restituzione del 16 – 20 giugno 1354 con l’assunzione delle massime responsabilità di governo nella curia regia
(Nell’agosto 1353 Francesco II Ventimiglia, Conte di Collesano, fu ufficialmente accolto nella corte reale residente in Catania e il 9 settembre dello stesso anno, il re aveva provveduto a reintegrare Elisabetta di Lauria, moglie di Francesco II V., nel possesso della foresta di Taormina con un diploma in cui il marito appare ufficialmente come Conte di Collesano.  Il 5 dicembre 1353 Re Ludovico, con il consenso di Costanza, Vicaria Generale del Regno e badessa del Monastero di Santa Chiara di Messina, grande alleata e protettrice dei Ventimiglia, confermò sempre a Francesco II V., Conte di Collesano, l’incarico di camerario maggiore del Regno. Re Ludovico riconobbe che il Conte di Geraci era stato vittima di un complotto organizzato dai Chiaramonte e dai Palizzi e restituì i beni che erano stato confiscati al padre, Francesco I, nel lontano 1338. Nel febbraio del 1354 Francesco II V. occupò la città di Polizzi allontanando il partito dei Palizzi e Chiaramonte. Quest’ultimo avvenimento fu riportato in un atto del 12 giugno 1354, redatto in Catania  nel quale il fratello Emanuele Ventimiglia “Dei et regia gracia comes Giracii et Yscle Maioris” trasferì al fratello Francesco II “eadem gracia comes Gulisani, Regno Sicilie Maior camerarius” la signoria sulle Petralie e su Belici.


Francesco II Ventimiglia aveva sposato Elisabetta di Lauria da cui ebbe quattro figli (Aldoino, probabilmente morto in giovane età; Enrico, Antonio e Francesco, citato come Chicco o Cecco) e quattro figlie (Isabella, Eleonora, Giacomina ed Eufemia).
Nel suo testamento, morì nel 1387, dichiarò suoi eredi Enrico II, Conte di Geraci, e Antonio, Conte di Collesano.
Il terzogenito Francesco fu diseredato dal padre per aver disonorato l’abito talare e aver rifiutato il sacerdozio.
La causa sarebbe stata un nobildonna della quale il giovane Ventimiglia si sarebbe invaghito e che gli avrebbe dato due figli ( secondo il De Spuches i figli sarebbero almeno tre: Antonio, Eufemia e Fiordiligi).
Pur essendo stato dispensato dal vescovo di Cefalù, Guglielmo de Salamone (Polizzi Generosa, ? - 1398), dal suo stato sacerdotale, don Chicco era incorso nella clausola testamentaria con la quale il conte padre imponeva ai due fratelli Enrico ed Antonio di non prestargli alcuni aiuto.  Mossi da pietà i due contravvennero però alla condizione imposta dal padre e aiutarono il fratello, ritrovandosi insieme allorquando i Martini d’Aragona e Maria, regnanti di Sicilia, li dichiararono ribelli per essersi opposti all’avvento dei nuovi Sovrani nel Regno di Sicilia. Nell’occasione fu proprio don Chicco a recarsi a corte per negoziare la pace con i regnanti a favore dei fratelli.
Ed è proprio nel documento riguardante i “Capitoli di Pace” concordati fra re Martino d’Aragona, Martino”Il Giovane” e Maria, e i tre fratelli Antonio, Enrico e Francesco Ventimiglia (per mezzo del loro procuratore Francesco Berth Ventimiglia) che si riporta l’assegnazione fatta a don Chicco del castello e del feudo di Rahal Iohannis insieme alle baronie di Bordonaro, Raulica e Altesina. Con quei Capitoli, dati a Catania l’8 e il 12 ottobre 1396, i Sovrani perdonarono le colpe dei Ventimiglia e li reintegrarono nei loro possedimenti restituendo loro sia i beni che le cariche: non senza il pagamento di uno scotto come la restituzione delle rettorìe e castellanìe di Cefalù, Nicosia e Sperlinga fino allora in mano alla famiglia madonita.
“Il detto don Chicco chiese quindi ai Sovrani il possesso del castello di Rahal Iohannis: “Item supplica lu dictu don Chiccu ki sia data a si et a soy heredi in baronia et impertuum lu castellu et fegu di Rayalaiohanni cum lu feudu di Burdunaru et Raulica et lu terrenu di Lartissina comu la tinia lu baruni et teni hogi don Chiccu non obstanti ki altru chi havissi raxuni”, e i regnanti accordarono la donazione: “Plachi a li dicti maiestati”.
Il privilegio fu dato da re Martino a Messina l’11 dicembre 1396 e i Ventimiglia tennero l’antico castello di Rahal Iohannis fino al XVI secolo.

Contea dei Ventimiglia nel XIV secolo

Il castello di Regiovanni è ancora in possesso dei Ventimiglia nel 1452 con Antonio figlio di Chicco;  nel 1475 con Francesco (figlio di Antonio) e nel 1487 con il minorenne Antonello, figlio di Francesco.
Nel 1512 un Antonio Ventimiglia era in possesso di Regiovanni e dei feudi vicini di Raulica, Artesina, Bordonaro e Bilici.

Alcuni feudi, tra cui quello di Regiovanni, furono venduti a Francesco Starrabba e successivamente furono riacquistati dalla famiglia Ventimiglia in cambio del “contado e della Terra di Naso” che erano stati acquistati in precedenza dagli stessi Ventimiglia.
Tra la fine del XVI e il primo ventennio del XVII secolo, a causa di gravi problemi finanziari, in parte superati ma che incideranno in ogni caso sul futuro della importante casata madonita, i Ventimiglia furono costretti a vendere alcune delle vecchie e numerose baronie che formavano la vasta Contea di Geraci.
Nel 1625 vendettero il castello di Regiovanni con i suoi feudi assieme alle terre ed al castello di Gangi a Francesco Graffeo.

Stemma Grifeo- Graffeo
La storia della famiglia bel file:
Partanna (Tp) – Il Castello Grifeo… Uno Scrigno di Tesori

Sempre nello stesso anno il Graffeo, per concessione regia ottenne il titolo di Marchese.

La Contea dei Ventimiglia nel XVII secolo

Dai Graffeo, per dote matrimoniale, l’antico castello passò ai Valguarnera che nel frattempo erano diventati principi di Gangi. Il castello ritornerà nuovamente, nel XVIII secolo, dopo varie vicende, in possesso di un ramo collaterale dei Ventimiglia di Geraci.


Resti del castello di Regiovanni

3. Struttura


Il vecchio e importante castello oggi è una masseria che potremo definire “aggrappata” al costone roccioso e che evidenzia, purtroppo, gli sconvolgimenti architettonici che si sono verificati nel corso dei secoli.
Un fabbricato rurale costituito da un piano terra ed un primo piano, coperto da un tetto con tegole a due spioventi, e con un altro copero edilizio addossato su un lato e coperto da un tetto ad un solo spiovente.

 Il costone roccioso presenta ancora oggi delle testimonianze della struttura difensiva sorta per il controllo militare del territorio e a protezione del borgo che esisteva nei pressi della rocca.
Lo storico H. Bresc. inserì il castello tra i “castelli rupestri” presenti nell’Italia Meridionale e caratterizzati da forti aspetti paleocristiani e bizantini, collegati ai castelli rupestri dei massicci montuosi berberi del Nord Africa”. Tra l’altro collegò il castello alla fortezza di Sperlinga,  all’interno di un vasto sistema di fortezze rupestri che erano in funzione durante il medioevo siciliano, in particolare nel trecento.
Nonostante le distruzioni, sul costone roccioso restano: i resti di alcune scale intagliate direttamente nella roccia, che testimoniano camminamenti e collegamenti fra le varie parti del castello; ambienti e ingrottati ricavati per il ricovero di uomini o  per il deposito di derrate; resti di opere murarie impostate direttamente sulla roccia, a strapiombo sulla valle sottostante;  i sesti ricavati nella roccia per collocare le travi in legno per la messa in opera di coperture o magari a sostegno di ambienti sovrastanti.

Particolare delle scale intagliate nella roccia

Questi aspetti testimoniano l’uso che fu fatto della fortezza a presidio militare; il suo riutilizzo in epoca normanna e la presenza della linea fortificata della Contea di Geraci dei Ventimiglia. Alla fortezza era probabilmente collegato anche il vicino impianto di Casalgiordano 8della nobile famiglia Fisauli ?) e la masseria fortificata di Bordonaro della quale rimane la torre, che comunque fu costruita in epoca più tarda, e l’impianto originario.
La struttura attuale o parte di essa, posta ai piedi del costone roccioso, è da collegare ad un intervento edilizio effettuato dai Ventimiglia dove le evidenti modifiche e le manomissione subite durante gli anni si manifestano in modo evidente.
Malgrado questi interventi, il piano terra dell’edificio mostra ancora qualche antico segno come l’ingresso originario dell’antico castello rupestre.


 La facciata occidentale del fabbricato, posta tra due alti costoni rocciosi presenta il portale in conci con l’arco policentrico sormontato dallo stemma lapideo dei Ventimiglia e la data del 1418.
È probabile, come afferma il prof. Fardella, che dopo la conferma di re Martino, avvenuta nel 1396, i Ventimiglia abbiano ricostruito quella parte che rimaneva dell’antico edificio  facendogli assumere  più l’aspetto di una residenza baronale che non quello di un castello vero e proprio a presidio del feudo, conservando comunque alcuni aspetti del vecchio castello.
Infatti al piano terra sono visibili alcuni aspetti del vecchio impianto: la piccola feritoia esterna ricavata nell’unghia di roccia che, a destra di chi guarda, era rivolta verso il portale d’ingresso a controllo e a difesa dell’ingresso; l’altra piccola feritoia rivolta anch’essa all’ingresso e ricavata nel parapetto della scala interna che conduce al piano superiore; gli ambienti con le volte a crociera archiacute;  la cisterna e gli ambienti scavati nella roccia.
Superato il portale d’ingresso ci si trova in un ampia entrata quadrangolare  coperta da una volta a crociera e dopo aver oltrepassato un grande arco, si arriva ad un cortile, in parte coperto, con una volta leggermente ogivale.
Dal cortile inizia una scala che è addossata alla parte rocciosa e che conduce al piano superiore.
Questo piccole cortile o conte interna disimpegnava i vari ambienti che, costruiti in muratura o ricavati nella roccia, si trovano nella parte retrostante dell’edificio. Naturalmente le diverse differenze di quota sono raccordate da brevi rampe di scale. Due di questi ambienti sono interamente ricavati nella roccia mentre altri due, posti alle estremità dell’edificio, risultano in parte scavati nel masso e in parte delimitati da solide strutture murarie che tramite delle finestre consentono l’affaccio all’esterno. Probabilmente questi ambienti al piano terra erano destinati al servizio del complesso fortificato.

Resti di strutture murarie

Nella parte anteriore della costruzione,  a lato dell’ingresso, ci sono due grandi ambienti che sono accessibile dal disimpegno. In quello di destra, coperto da una volta a botte, si  apre la piccola feritoia strombata posta a difesa dell’ingresso. Salendo grazie alla scala che si trova nel piccolo cortile, si giunge al piano superiore dell’edificio che un tempo costituiva il piano nobile. Dell’originale struttura non rimane niente essendo stata completamente ristrutturata in epoca successiva con interventi, discutibili, che hanno cancellato ogni traccia originaria.
Di particolare interesse sono naturalmente gli ambienti ipogeici scavati nella viva roccia in epoca anteriore e riutilizzati successivamente. Ambienti che oggi sono difficilmente accessibili e che furono descritti dalla gente del luogo come grandi, a volte enormi stanze, che svolgevano funzioni non certamente di servizio perché dotati di sedili e di incavi dove venivano appoggiate le lucerne. In uno di questi ambienti c’è una bellissima colonna ricavata dalla roccia e che sorregge il soffitto di roccia alto circa 2 metri dal piano di pavimento. Gli ambienti ipogeici erano  collegati tra di loro tramite passarelle in legno o scalette lignee appoggiate e collegate alle pareti verticali del masso ad incastro.
Infatti una piccola serie di buchi, (piuttosto piccoli) e fori di diametro maggiore permettono di ipotizzare la collocazione di travi lignee che dovevano reggere delle strutture pensili di camminamento.
Resti di murature costruiti sui pennacoli del costone e scalette intagliate nella roccia denunciano l’utilizzo dell’elemento affiorante ad uso visivo di controllo del territorio.
Nonostante i vari passaggi di proprietà durante il corso del XVI e XVII secolo la fortezza di Rahl Johannis conservò sempre la sua funzione di struttura a difesa del territorio  e a controllo del vasto feudo che comprendeva ben 10 feudi come si rileva da alcuni documenti del Cinquecento e del Seicento che attestano l’attività svolta in quella struttura che veniva ancora chiamata “castello”.
Oggi ha praticamente un aspetto agricolo e di masseria rurale. Ma nonostante i rovinosi interventi edilizi è rimasto intatto il suo aspetto misterioso ed affascinante di struttura medievale piuttosto particolare dove l’opera dell’uomo e la natura si fondarono in un unico aspetto unendo fascino e mistero che avvolgono gran parte dell’area Madonita, del Parco delle Madone.





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