ROCCAMENA (Palermo) – LE SUE MERAVIGLIE…..IL CASTELLO E IL PONTE CALATRASI; L'ABITATO INDIGENO DEGLI ELIMI; LA GROTTA "STICCA" CON I GRAFFITI..
Indice:
1.
Il
Comune (cenni);
2.
Monte
Maranfusa – Il sito archeologico – Mappa del Fiume Belice (Destro e Sinistro);
3.
L’Abitato
Indigeno;
4.
Graffiti
Preistorici sulle “Rocche di Maranfusa”;
5.
Le
Grotte di Maranfusa (Grotta Maranfusa e Grotta Sticca”) – Relazione del prof.
Giovanni Mannino;
6.
Altre
Zone Archeologiche (cenni);
7.
Periodo
Medievale – Il Feudo di Calatrasi e il suo Castello - Diocesi di Mazara- Famiglia
Malconvenant - Diocesi di Monreale –
Documenti (Atti);– Nel castello si
rifugiarono dei monaci ribelli al vescovo di Monreale - Covo dei seguaci di
Marcovaldo di Anweiler e Guglielmo Capparone (sequestrarono il piccolo Federico
II di Svevia) – Il castello di Calatrasi occupato dai Musilmani ribelli e
successivamente liberato da Federico II di Svevia – I vari feudatari del
Castello;
8.
Il
castello fu costruito su una preesistenza araba ?
9.
Struttura
Architettonica;
10. Il Ponte Calatrasi
e il Mulino – La Leggenda del diavolo e del "granchio d'oro".
11. Il Melone Giallo - Prodotto Tipico di Roccamena
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1.
Il
Comune (cenni)
Il
centro di Roccamena, posto nella provincia di Palermo, ha avuto origine nel XIX
secolo quando fu fondato da Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca e
principe di Camporeale.
Si
trova su una delle tenute che facevano parte del feudo della Sparacia di
proprietà dei Gesuiti. Dopo la loro espulsione, avvenuta nel 1767 e il
conseguente esproprio dei beni, il feudo rientrò nel piano di riforme agrarie
instaurate dal ministro Bernardo Tanucci, Ministro di Ferdinando IV, re delle
Due Sicilie, e rivolte alla distribuzione delle terre in favore di piccoli
proprietari.
Nel
1779 don Gaetano Morales, prestanome di Giuseppe Beccadelli, acquistò alcuni
feudi tra cui quello di Sparacia e nello stesso anno ottenne la facoltà, “licentia
populandi”, di popolare alcuni feudi. Fu così avviata la costituzione di alcuni
centri abitati tra cui quello di Roccamena.
Nel
1833 diventò frazione di Corleone e il 28 dicembre 1846, con Regio Decreto, il
villaggio fu elevato a Comune. Gli furono assegnati diversi feudi e la piena
autonomia gli fu riconosciuta solo nel 1998 grazie ad un Decreto Ministeriale.
Il
nome è composto da “rocca” e “amena”, parole che, secondo la tradizione, furono
pronunciate da un principe per sottolineare la bellezza del paesaggio.
Piazza matrice
foto del 1900
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2. MONTE MARANFUSA -
IL SITO
ARCHEOLOGICO
Il
Monte Maranfusa è un rilevo calcareo, alto 487 m s.l.m., che si erge maestoso
sulla riva sinistra del fiume Belice (Destro). Una posizione geografica tra i
due bracci del fiume Belice che ebbero una grande importanza per l’insediamento delle comunità.
Monte Maranfusa
Il
sito si trova in punto di fondamentale importanza per la Valle del Belice perché
oltre a lambire il fiume Belice, segnava
fisicamente la linea di demarcazione dell’estremità occidentale dell’isola.
L’altura dista circa 25 km dalla costa settentrionale dell’isola, dal Golfo di
Castellammare, e 35 km dall’emporio punico di Panormos. Uguale distanza anche dalla
costa meridionale dell’isola nel punto cioè in cui il Belice si riserva in
mare. Un altro aspetto da rilevare è la
stessa distanza dal sito di Selinunte, importante colonia megarese , che come
Panormos è distante circa 35 km.
La
posizione dell’abitato, alla luce delle considerazioni su esposte, favorì l’insediamento umano fin dagli inizi
del X secolo a.C. per poi proseguire
anche nel medioevo. Una centralità del sito che favoriva rapporti e relazioni
tra le varie comunità.
Il
Monte, dal punto di vista geologico, è costituito da una roccia di calcare marnoso.
È esteso circa 58 ettari ed ha un aspetto planimetrico quadrangolare con alte
pareti a precipizio ed inaccessibili sui lati meridionali e occidentali, mentre
i fianchi sono meno scoscesi e più bassi nel versante settentrionale e ancora
più lievi sul lato orientale.
La
parte più elevata è quella sud-orientale che presenta una aspra cima rocciosa e
isolata a quota 487 m s.l.m. divisa tramite una profonda insellatura, da un
altro pizzo elevato 486 m s.l.m. che va però degradando verso Nord-ovest. A
nord presenta alcuni tratti con affioramenti rocciosi verticali che
interrompono la naturale continuità verso settentrione, dando alla zona
nord-orientale l’aspetto di un terrazzo anch’esso in pendenza verso Nord-Ovest,
sottostante l’altipiano superiore.
Mappa dei saggi
archeologici
L’angolo
nord-ovest è ormai definitivamente compromesso perché fu interessato da una
intensa ed estesa attività estrattiva, non so se autorizzata ma ho i miei
dubbi, che fu interrotta nel 1987. Anche le strutture murarie e gli strati
archeologici presenti sull’altipiano
sono state danneggiate dai lavori agricoli .. un altro piccolo appunto… chissà
quanto reperti trovati e quindi scomparsi per sempre dallo scenario della
cultura siciliana.
Dal
punto di vista nell’insediamento, tutto il monte fu interessato dalla presenza
di un abitato antico seppure in maniera diversa secondo il vario periodo e in
base anche dall’importanza che aveva il centro abitato.
L’unica zona priva di
difese naturale, e che richiedeva quindi un rinforzo difensivo, era tra due
costoni rocciosi nel lato orientale della collina ed oggi appare chiuso da una
cortina muraria probabilmente risalente ad epoca tardomedievale (indicato nella
mappa con la freccia viola
Cortina muraria di
epoca medievale
Gli
accessi dovevano essere due e quasi contrapposti.
Uno
sul lato sud-orientale, un varco tra due costoni rocciosi potrebbe
rappresentare la via principale d’accesso all’insediamento come dimostrano
anche i segni delle ruote dei carri lasciati sulla roccia affiorante; l’altro
sulla parete settentrionale è attestata una strada tagliata in antico sulla
roccia e riconoscibile solo in cartografia perché distrutta dall’attività estrattiva
della cava….
Le
indagini di superficie hanno permesso di accertare una estensione del centro
abitato piuttosto ampia in età arcaica, tardo-arcaica e nel periodo normanno.
Delle ceramiche riferibili a tale epoche sono sparse sulla superficie del monte
anche se una concentrazione maggiore è stata riscontrata nel pianoro orlato dal
muro di cinta nella zona sud-orientale dell’altopiano ai piedi del castello e
da esso ben visibile e controllabile.
Il
materiale più antico rinvenuto nel corso delle indagini rileva una occupazione
del sito durante l’Età del Bronzo Finale e diventa più consistente nella Prima
Età del Ferro.
Il
periodo di massima espansione fu però a partire dal VI secolo a.C. nel momento
in cui la rocca è interessata da strutture abitative e la parte più elevata
dell’altipiano sembra abbia assunto la funzione di acropoli con la sede di
edifici a carattere sacro e pubblico.
Dal
480 a.C. si ha una contrazione dell’abitato e un probabile abbandono fu
documentato verso la prima metà del V secolo a.C.
Non
c’è traccia della persistenza del centro abitato dopo tale epoca mentre per
quanto riguarda l’occupazione medievale del pianoro nord-orientale sembra sia
stata preceduta da un piccolo insediamento di età tardo- imperiale.
Subito
dopo la conquista araba della Sicilia, e soprattutto durante il periodo
normanno l’insediamento di Maranfusa e
soprattutto il suo castello, noto all’epoca con il termine di Calatrasi,
riacquistarono vigore e consistenza per tramontare definitivamente nel XV
secolo.
Della
stessa epoca rimane ancora integro a valle, a cavallo del braccio destro del
Belice, lo splendido ponte ad una luce noto anch’esso con il termine di
Calatrasi.
Mappa risalente al
periodo Normanno
Scavi
Gli
scavi sul monte iniziarono nel 1986 e continuarono, anche se in maniera discontinua,
fino al 2008.
“I primi scavi
interessarono la parte pianeggiante dell'altipiano superiore (Campo A) e la
cima sud-occidentale (Campo B), zona acropolica destinata, probabilmente, ad
usi pubblici ma soggetta a evidenti fenomeni di erosione e dilavamento.
Saggi non troppo
estesi furono realizzati anche in due punti del terrazzo inferiore nord-orientale
(Campo C e Campo D): lo scavo accertò una situazione assai compromessa sotto il
profilo stratigrafico e dello stato di conservazione delle strutture,
certamente a causa del millenario utilizzo agricolo di quei terreni, molto più
sfruttabili dal punto di vista agricolo di quanto non fossero gli accidentati
appezzamenti dell'altipiano superiore.
Successivamente, la
ricerca si estese a un nuovo settore (Campo E), localizzato in un'area
del terrazzo
inferiore assai promettente in relazione alle sue caratteristiche morfologiche.
Le ultime campagne
di scavo hanno rivelato la grande estensione dell’abitato indigeno di età
arcaica,
intercettato in diversi punti dell’altura: il Campo F, situato sempre nel
settore meridionale
del monte,
immediatamente a Nord-Ovest del campo A; il Campo G, nella punta settentrionale
del rilievo, e il
campo H, nella metà orientale, immediatamente a Nord-Est del principale accesso
alla città. In due casi, Campi G e H, le strutture dell’abitato arcaico
risultarono in parte tagliate da sepolture di rito islamico, così come, del
resto, già documentato nel Campo A.
Nel tratto di
abitato arcaico scavato nel Campo A si sono riconosciute diverse fasi di vita
comprese tra la fine del VII secolo ed il 480 a.C. circa, quando l’area fu
improvvisamente abbandonata, probabilmente a causa di eventi naturali”.
Sepoltura Islamica
3. L’ABITATO INDIGENO (Elimo)
Campo “A”
Alcuni edifici
risalgono ad una prima fase databile alla fine del VII secolo a.C. edifici
costituiti da ambienti aggregati a grappolo e organizzati intorno ad ampi spazi
o cortili aperti. A questo primo momento può ricondursi l’impianto di un unità
abitativa (Edificio 1) composta da tre ambienti aperti su un portichetto ad
Ovest e un cortile ad Est. Alcune strutture del primo periodo sopravvissero anche
durante la seconda fase, databile tra la metà del VI ed il primo ventennio del
V sec. a.C.: in questo periodo, certamente in conseguenza di più intensi contatti
con l’ambiente greco coloniale, lo spazio si organizza con maggiore regolarità
e vengono costruiti edifici a pianta allungata, probabilmente utilizzati da più
nuclei familiari, con asse longitudinale orientato in
senso Est-Ovest e
disposti ai lati di un ampia area aperta e a tratti lastricata. Un ultimo
effimero utilizzo delle strutture è documentato dal rifacimento di alcuni muri
e dalla costruzione, al di sopra dei livelli di distruzione, di pochi e rozzi
ambienti che, in qualche caso, si appoggiano alle più regolari murature della
fase precedente.
Una lettura
complessiva delle esigue evidenze riferibili all’abitato di prima fase fa ipotizzare
il parziale abbandono dei modelli insediativi di tipo tradizionale, semplici nella
struttura e nell’organizzazione degli spazi, a favore di più complessi sistemi
che risentono del primo contatto tra coloni e “indigeni”, fenomeno che quasi
certamente dovette stare alla base di quella prima e profonda cesura che determinò
lo spostamento dell’abitato nei punti più elevati della montagna, a
controllo delle
fertili vallate sottostanti, sia in direzione Nord, fino alla barriera naturale
costituita dai monti di Palermo, che verso Sud, a dominio del medio e basso corso
del Belice.
Nella seconda
fase, dunque, è possibile riconoscere una più regolare organizzazione
dello spazio
insediativo e l’esistenza di un impianto rispondente a semplici criteri
prestabiliti.
Di estremo
interesse si è rivelata anche l’analisi dell’arredo mobile raccolto all’interno
dei diversi ambienti, il cui studio ha consentito di definire lo spazio
abitativo e quindi la struttura sociale del gruppo: numerosi gli utensili e le
suppellettili d’uso quotidiano, soprattutto ceramiche di fabbriche locali a
decorazione impressa, incisa e dipinta, spesso associate con produzioni
importate o coloniali.
Di particolare
interesse, infine, è il fatto di avere isolato due fasi precedenti l’impianto dell’abitato
arcaico: uno degli ambienti, infatti, si sovrappone e in parte distrugge un
vano più antico caratterizzato dall’esclusiva presenza di ceramica incisa,
impressa e dipinta nonché, nello strato al di sotto del piano d’uso, dalla presenza
di frammenti a stralucido rosso o a decorazione piumata della Prima Età del
ferro. Alla stessa epoca sembra risalire l’adiacente capanna o recinto semicircolare
con banchina anulare, appoggiata al banco di roccia al cui interno si raccolse
ceramica impressa, incisa e a stralucido rosso, acroma e da cucina, strumenti
litici e un frammento di modellino di capanna/sacello a decorazione impressa.
Pur nella difficoltà di comprendere pienamente il carattere e la funzione
dell’edificio, si potrebbe ipotizzarne un uso di tipo cultuale.
Capanna o recinto
semicircolare
Nel Campo F,
invece, un contesto naturale caratterizzato dalla presenza di un leggero pendio
orlato da una balza rocciosa, situato in posizione baricentrica a mezza costa
del rilievo montuoso e a domino del medio corso del Belice destro, sono venuti
alla luce almeno tre distinti edifici disposti parallelamente secondo la pendenza
naturale del terreno. Sono orientati in senso SE/NO e si distribuiscono su tre
terrazze artificialmente sostenute da muri.
“L’edificio A, sul
terrazzo superiore, è composto di tre vani, due dei quali contigui nel senso
della lunghezza parzialmente appoggiati agli speroni rocciosi che definiscono
il pianoro sul lato meridionale; un probabile percorso viario, largo circa m
3,50 e aperto su un ampio slargo, separa l’edificio A dall’edificio B composto
anch’esso da tre ambienti (Vani 1, 2 e 3), due dei quali integralmente scavati,
contigui nel senso della lunghezza e comunicanti tra loro. Il vano più interno
era privo di affacci esterni e doveva caratterizzarsi, nella sua prima fase di
vita, come ambiente seminterrato. Il vano esterno, elegantemente lastricato, si
apriva sulla terrazza inferiore
caratterizzata da
uno spazio aperto in terra battuta, forse una strada pressoché parallela a
quella che separa l’Edificio1 dall’Edificio 2, che ricopriva una struttura muraria
di una fase precedente. In una seconda fase d’uso l’Edificio 2 subì delle
modifiche: il vano 2 venne suddiviso in due ambienti e furono cambiati gli
accessi.
Vano esterno
lastricato
Un possente muro
di terrazzamento delimitava, infine, il terrazzo inferiore dove, finora, si è
individuato un solo ambiente quadrangolare le cui strutture si integrano con
gli speroni di roccia
affioranti”.
Terrazzo inferiore
Fu
trovata la deposizione di un’offerta avvenuta in due momenti diversi compresi entro
la seconda metà del VI secolo a.C., nell’angolo nord-est dell’ambiente più
interno. Questo sembra connotare un edificio sacro. La tipologia dell’offerta
richiamano altri luoghi sacri di area sicana. Si tratta di brocchette a decorazione
geometrica dipinta con orlo trilobato o
con beccuccio di versamento, rinvenute in associazione a forme da cucina miniaturizzate che, evidentemente, evocano simbolicamente
la cottura delle offerte”.
Le ceramiche che
costituivano l’offerta
Brocchetta con
orlo trilobato
Significativa è la
presenza di due modellini fittili di capanna/sacello a pianta circolare, uno
dei quali, in forma miniaturizzata, faceva parte dell’offerta, l’altro, del
tipo a decorazione impressa con ingresso rettangolare segnato da stipiti
apicati, è stato rinvenuto, invece, sui livelli d’uso dell’Edificio A.
Sacello con
stipiti apicati
Si tratta dell’attestazione più occidentale per
questo tipo di materiali, se si esclude il più elaborato modello recentemente
recuperato in un contesto domestico di Monte Iato, databile ad età
tardoarcaica in
cui compare la figura di un torello, la cui rappresentazione riveste
un’indubbia valenza simbolica, rafforzando l’idea di un tipo di religiosità
fortemente legata al concetto di
riproduzione della
specie.
Settore “G” –
scavi
Nel
campo “G” in un area posta nord del monte ed in una posizione periferica
rispetto all’altopiano, le indagini archeologiche hanno evidenziato
un’occupazione intensiva estesa anche in questa parte marginale del monte. In
un’area di circa 150 mq fu riportato alla luce un edificio costituito da tre
ambienti di forma quadrangolare disposti a “L” attorno ad un cortile aperto.
Qui furono trovati resti di pasti, frammenti di macine e numeroso vasellame indigeno
a decorazione impressa e dipinta.
Uno
degli ambienti era parzialmente lastricato mentre un altro, anch’esso a pianta
quadrata, era di dimensioni maggiori e conservava un tratto di un accurato
acciottolato pavimentale.
L’ambiente
parzialmente lastricato
Sotto
il pavimento più recente si conservava un pavimento più antico a cui sono da
riferire anche alcune strutture murarie e un focolare con sostegni fittili a
rocchetto e ceramica da fuoco. Anche nel terzo ambiente furono evidenziate due
fasi d’uso e una zona specifica dedicata alla cottura degli alimenti
caratterizzata dalla presenza di una piastra fittile quadripartita utilizzata
come focolare e da alcuni sostegni fittili a rocchetto rinvenuti al di sopra
della piastra.
Sostegni fittili a
rocchetto (Campo “G”)
Anche
in questa zona, come nel campo “A” le strutture di età arcaica (VI secolo a.C.)
furono intercettate in più punti da sepolture di rito islamico costituite da
semplici fosse terragne che utilizzavano gli antichi muri come sponda delle stesse
tombe.
I
numerosi reperti che furono rinvenuti permisero di ricostruire la vita
quotidiana e le attività di sussistenza della comunità presente sul Monte
Maranfusa decisamente legata alle tradizioni locali ma anche aperta alle spinte
culturali provenienti dal mondo greco
coloniale.
Il
numeroso vasellame recuperato era sia di cultura o tradizione indigena ma anche
d’importazione greca o legata agli influssi greci.
Tra
i reperti di produzione locale indigena, oltre alla più comune ceramica acroma
e da cucina, particolarmente diffuse erano le ceramiche a decorazione impressa
e incisa o a decorazione geometrica dipinta con forme legate alla tradizione greca.
Sopra – Una
ceramica acroma
Sotto - una ceramica da cucina
A sinistra – una
Ceramica da cucina
A destra – una
ceramica impressa e incisa
Ceramica a
decorazione impressa e incisa
Ceramica a
decorazione geometrica dipinta
Ceramica a
decorazione geometrica dipinta
La
ceramica d’importazione, discretamente diffusa a partire dal VI secolo a.C.
proveniva soprattutto dalla Ionia e dall’Attica oltre che dalle vicine colonie
di Selinunte e Himera.
Ceramica
d’importazione
Ceramica
d’importazione
Le
macine e i pestelli, entrambi in pietra e rinvenuti in diversi ambienti
dell’abitato, erano legati alla trasformazione dei cereali mentre l’attività
della tessitura, di solito riservata alle donne, è attestata dal rinvenimento
di numerosi pesi da telaio.
Le macine
rinvenute
Peso da telaio
I
ritrovamenti evidenziarono anche altre attività produttive della comunità che
era dedita anche all’allevamento di alcuni specie domestiche come bovini, suini
ed ovini. Erano presenti animali selvatici come il cervo e la volpe.
Tipologia
costruttiva di un edificio
Cratere indigeno a
colonnette con decorazione geometrica
dipinta
Monte Maranfusa
visto da Est
4. GRAFFITI PREISTORICI DI MARANFUSA
La
scoperta dei graffiti in una grotta di Maranfusa risale al febbraio 2015.
Le
incisioni raffigurerebbero l’atto sessuale e la contabilità. Il ritrovamento fu
opera dei volontari del “Gruppo Archeologico Valle dello Jato” che sull’autencicità dei graffiti non mostrarono
alcun dubbio: “La patina presente sui
graffiti è la stessa che si trova sul resto della superficie rocciosa della
grotta”.
Una
scoperta causale….”«Insieme al Gruppo
speleologico ambientale di Trapani - racconta Alberto Scuderi,
vicedirettore nazionale dei Gruppi archeologici d'Italia -, ci trovavamo in località Sticca per un censimento delle grotte.
Stavamo per entrare in una cavità in parete quando la forte pioggia ci ha
costretto a cercare riparo all'interno di un'altra grotta di facile accesso,
utilizzata come ovile e già perlustrata in passato».
A
parlare della grotta erano stati Francesca Spatafora nel suo libro sul Monte
Maranfusa e il prof. Giovanni Mannino nel suo volume “Guida alla Preistoria nel
Palermitano”. Lo stesso prof. Mannino aveva identificato un’incisione sulla
parete d’ingresso della grotta.
Ma
è all’interno della grotta, di natura carsica, che sarebbe avvenuta la scoperta.
Il
dott. Scuderi rilevò che “Guardando con una
lampada ho notato alcune linee incise in
parete, le ho fotografate e la stessa sera ho chiamato Mannino per un
confronto. Ci sono ritornato con più luce ed una macchina fotografica più
potente”. “Nella seconda visita, insieme
all'archeologo Antonio Alfano e ad altri appassionati, sono stati notati altri
tre gruppi di incisioni”.
Della
scoperta fu allora informato il compianto prof. Archeologo Sebastiano Tusa, uno
dei maggiori esperti di Preistoria Siciliana che subito, aveva un grande amore
per la Sicilia e per il suo lavoro che considerava come una missione, visitò il
sito.
Spiegò
che “Nella
grotta si trovano due gruppi di linee incise diverse per natura, per
orientamento e, conseguentemente, per cronologia. Il primo gruppo,
malgrado il non perfetto stato di conservazione, può identificarsi con un
simbolo maschile contrapposto ad un simbolo femminile. Questo gruppo - aggiunge
- per le sue caratteristiche morfologiche e iconografiche sarebbe da attribuire
al Mesolitico, cioè al periodo iniziale dell'Olocene, intorno ai 12.000 anni
fa».
“Nella grotta è presente però anche un secondo gruppo di incisioni. «Si tratta - dice Tusa - di una decina di segmenti sovrastanti l'uno all'altro che potrebbero avere avuto una funzione di promemoria contabile per il gruppo umano che la grotta abitava o frequentava. Tuttavia potrebbe anche trattarsi di un elemento cosiddetto “alberiforme” con valore apotropaico”.
“Nella grotta è presente però anche un secondo gruppo di incisioni. «Si tratta - dice Tusa - di una decina di segmenti sovrastanti l'uno all'altro che potrebbero avere avuto una funzione di promemoria contabile per il gruppo umano che la grotta abitava o frequentava. Tuttavia potrebbe anche trattarsi di un elemento cosiddetto “alberiforme” con valore apotropaico”.
Entrambe
le spiegazioni fanno comunque ipotizzare una loro datazione tra il Neolitico e
la prima Età dei metalli, ovvero tra VII e V millennio a.C. Il ritrovamento è
stato comunicato alla sezione archeologica della Sovrintendenza di Palermo, che
su monte Maranfusa ha già effettuato diverse ricerche. La scoperta dovrà adesso
essere approfondita.
Questo
quello che accadde a febbraio di circa 5 anni fa. I risultati delle
indagini…….silenzio assoluto…….
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5. LE GROTTE DI
MONTE MARANFUSA
La Grotta di Maranfusa – La Grotta Sticca
(Relazione del prof. G. Mannino)
a)
La Grotta di
Maranfusa
La grotta si trova in prossimità della
cima sud-occidentale del Monte. Una grotta posta sui calcari argillosi del
Cretaceo Inferiore. Presenta un ingresso al suolo roccioso ed è di pianta
allungata. Secondo il prof. Mannino sarebbe una cavità di origine tettonica
cioè dovuta ad una voragine di crollo conseguenza del cedimento della volta di
una cavità sottostante e non accessibile.
“Vive
uno stato piuttosto avanzato della sua genesi; la perforazione del soffitto,
qualunque sia stata la sua causa che l’ha determinata, ha innescato un processo
di crolli che si concluderanno con il collasso del soffitto e la trasformazione della grotta in dolina di
crollo”.
(Le doline di crollo si originano per il
cedimento della volta di grotte poste vicine alla superficie).
La cavità è costituita da un unico
ambiente, di forma quasi circolare che si allunga da Sud verso Nord per circa
10 m.
“L’accesso
ha luogo da un foro dal quale si discende passando su frane. Il suolo è
completamente ricoperto di frane di dimensioni anche notevoli e nulla consente
di arguire l’età dei crolli; neppure l’accurata ispezione del piano di
calpestio ha fornito elementi che possano provare o negare la frequentazione in
antico della cavità e solo la rimozione delle frane renderebbe possibili
accertamenti in tal senso”.
b. La Grotta Sticca
La grotta è quella
in cui furono rinvenuti i graffiti nel 2015. La relazione del prof. Mannino e
della prof.ssa Francesca Spatafora risale al 2003 e fu inserita nel testo “Le
Grotte di Calatrasi”.
La
grotta si apre quasi all’estremità settentrionale di un grosso affioramento
roccioso carbonatico, dallo sviluppo triangolare, alto 410 m. nella tavoletta
dell’IGM non ha una denominazione mentre nella tradizione locale è conosciuto
con il nome di “Rocche di Maranfusa” o “Cozzo Sticca” dal nome della contrada
omonima e fattoria.
L’ingresso
è esposto a N-N/E e “seppure ampia, ha una forma circolare e un
diametro di 4 m, è poco visibile perché sempre coperta da una colossale
“ficarra” (fico selvatico) presente a memoria d’uomo”.
L’ingresso
è posto a circa un centinaio di metri dall’abbeveratoio (quota 292 m) situato
lungo la strada provinciale per Roccamena e dista circa 500 m dalle falesie
meridionali di Monte Maranfusa.
“La grotta è il
relitto di un antico complesso carsico del quale sopravvive una parte, forse
solo quella terminale. Appena entrati nella grotta si ha l’impressione di
trovarsi in presenza di una delle tante cavità marine che, numerosissime,
interessano le antiche linee di riva di mari quaternati della costa
nord-occidentale dell’isola. Impressione giustificata dal modesto sviluppo
rispetto all’ampiezza del condotto e confortata
anche, dalle deduzioni espresse da Teodosio De Stefani che, in alcuni
ingrottati, falesie e “solchi del battente” notati negli affioramenti rocciosi
nei dintorni di Roccamena, aveva riconosciuto “tipiche forme di erosione
marina” riferibili al Tortoniano”.
(Per
“solchi del battente” s’intende l’azione erosiva del mare contro una parete
rocciosa che si esplica tramite le onde. Durante le burrasche, sia per la
pressione della massa d’acqua delle onde stesse che s’infrangono contro la
parete, sia per il lancio o l’urto di sabbia, ghiaia e ciottoli contro la base
della parete stessa, producono alla fine una specie di solco orizzontale che è
detto appunto “solco di battente”).
“Visitando la
grotta ed osservando le morfologie dei fenomeni abrasivi non si può che
attribuire l’intero fenomeno ad un impetuoso corso d’acqua sotterraneo che la
topografia attuale dei luoghi non lascia neppure immaginare. A conferma, né
nella grotta né nei “solchi del battente” si evidenziano fenomeni biocarsici,
cioè escavazioni di organismi animali marini come i litofagi, i chitoni, ecc. I
fenomeni scambiati per marini trovano spiegazione nel fenomeno, meno diffuso e
meno conosciuto, di fitocarsismo col quale viene definita l’azione corrosiva
dell’acqua su rocche carbonatiche quando si combina, esaltata notevolmente nel
rendimento, con l’azione biologica di vegetali inferiori quali le alghe ed
altri microorganismi. Il fenomeno di fitocarsimo più conosciuto è la “vaschetta
di corrosione”, molto diffusa nei rilievi calcarei del palermitano”.
Lo
sviluppo della grotta, una galleria freatica, è ad andamento imbutiforme ed è
molto modesto. La sua percorribilità s’arresta a circa 34 m, raggiunta la bocca
di una piccola cavità, discendente, purtroppo interrata, che non raggiunge il
metro di diametro, il cui aspetto fa pensare ad un sifone e non ad una semplice
marmitta come tante se ne ritrovano al suolo e sul soffitto. L’eventuale
disostruzione, se di sifone si tratta, garantirebbe alla grotta un ulteriore
sviluppo attualmente non prevedibile.
Nella
parte inziale della grotta,, su entrambi i lati, la roccia è affiorante, “levigata
dal vello degli animali; andando più avanti uno spesso strato di letame
che si arresta solo ad una decina di metri dalla fine della galleria per dare
posto alla roccia, ovunque presente, e qui s’incontra, concrezionato al suolo
roccioso (F – figura superiore), un deposito granuloso giallastro”.
“Una coppia di
marmitte, entrambe interrate, sono scavate nel fianco destro subito dopo
l’ingresso; ad una dozzina di metri dalle prima un’altra marmitta è nel
soffitto; altre marmitte si trovano nella parte terminale, sia al suolo che nel
soffitto, ed un paio di queste ultime, per l’esiguo spessore del soffitto e per
la probabile ostruzione del sifone, sono state sfondate dai vortici del corso
d’acqua che da sotterraneo è qui ritornato a vedere la luce per affluire, dopo
poche centinaia di metri, nel grande Belice”.
“Arrampicandosi
per qualche metro su rocce facili si perviene sul dorso della collina
costituito da un “tavolato carsico” con piccoli crepacci. Poco a valle
dell’abbeveratoio menzionato si è in grado di cogliere una delle migliori
sezioni geologiche. Essa è orientata NE-SW ed ha una pendenza di una trentina
di gradi. Dal basso in alto:
-
Calcari bianchi
del Lias Inferiore, formazione Inici;
-
Spessa crosta di
Ferro-Manganese di circa 10 – 20 cm;
-
Calcilutiti con
ammoniti del Giurassico Superiore;
-
Calcilutiti e
marne con ciottoli;
-
Calcareniti
glauconiche di Corleone, del Miocene Inferiore;
-
Marne di San
Cipirello del Miocene Medio-Superiore (a valle della rotabile).
La grotta è
scavata nel banco di calcari bianchi del Lias Inferiore. Nella parte centrale
della grotta, dove il soffitto è più alto, fino a raggiungere in una marmitta
l’altezza di 7 metri, appare la crosta nerastra di Ferro-Manganese”.
In
merito alle testimonianze archeologiche, nella grotta furono rinvenute schegge
di selce, di frustuli di terracotta ad impasto, un frammento di macina di
quarzoarenite e anche un coprolite forse di iena. Tutti reperti rinvenuti
percorrendo il talus della grotta e quindi indizi di una frequentazione del
sito da parte dell’uomo in età preistorica ed ancora prima, molte decine di millenni
orsono, da parte anche del feroce carnivoro.
La
grotta appare svuotata del suo antico deposito e al suolo si ritrova uno spesso
strato di letame.
“Nella tavola di
roccia, nel lato sinistro dell’ingresso, s’individua una incisione lineare. Si
tratta, purtroppo, di una semplice linea graffita nel duro calcare, così come
in moltissime altre grotte della cuspide nord-occidentale della Sicilia e del
resto della penisola alla Puglia alla Liguria. Di questi segni s’ignora ancora
l’effettivo significato, tuttavia si è riusciti a datarle al Paleolitico
Superiore finale – Mesolitico. Per quanto riguarda il loro significato non è da
escludere un fine apotropaico nella considerazione che in tutti questi casi
queste linee sono tracciate all’ingresso delle grotte”.
Il
prof. Mannino con condivideva nei graffiti un significato “contabile”.
“Sempre nei pressi dell’ingresso, alla
profondità di una decina di centimetri, si rinvenne poi un frammento di corno
di cervide e minuti frammenti d’ossa fortemente fossilizzate”.
“Furono effettuati
dei sondaggi archeologici che non rilevarono alcuna stratificazione. In
mancanza di questa stratificazione, il deposito che si sarebbe accumulato nella
grotta in millenni di frequentazione di animali e uomini, risulta asportato”.
“Lo svuotamento
oltre a causa dei pastori, nell’asportazione del letame, oppure di tombaroli o ancora per trasporto
d’acque che penetrano dall’apertura del tetto nella parte terminale di questo.
I dati desumibili
dall’indagine possono così riassumersi:
-
La più antica
frequentazione della grotta può farsi risalire al Pleistocene finale, ed è
attestata da alcuni coproliti (di iena ?), da frammenti di corna di cervidi e
da una settantina di frammenti di ossa varie, caratterizzate da un alto grado
di fossilizzazione;
-
Al Paleolitico
Finale-Mesolitico si può datare la piò antica presenza umana testimoniata
soltanto dall’incisione lineare e dalle schegge di selce;
-
Di dubbia
interpretazione sono una dozzina di frammenti “ad impasto”, senza altre
caratteristiche, da definire preistorici-protostorici. A quest’ultimo periodo
potrebbe farsi risalire un frammento di tavola fittile ed uno di vaso carenato
decorato con un motivo a “V” sovrapposte che trovano confronti con la ceramica
dell’abitato di Maranfusa;
-
La ceramica di
“età storica” è presente con una cinquantina di frammenti di età imprecisabile,
così come circa venti frammenti d’ossa e alcuni denti di capro-ovino;
-
Con termine
“recente” definiamo infine alcune frammenti delle classiche pignatte di
terracotta invetriate ed un frammento di piatto con superfice decorata ed
invetriata.
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6. ALTRE
ZONE ARCHEOLOGICHE ( Cenni)
a) “Pomo de Vegna” – La concentrazione
di frammenti fittili, su un piccolo rilievo quotato 266 m,
sono indizi della presenza di un
insediamento databile all’Età del Bronzo-Ferro;
a)
Contrada Muranna; in un’area di
circa 600 mq, tra le Case Casalotto ed il Fiume Belice, furono rinvenuti
abbondanti elementi d’industria litica Epigravettiana.
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7. PERIODO
MEDIEVALE
Dopo
l’abbandono del centro antico, il sito venne rioccupato in modo intensivo in
epoca normanna quando il territorio di Calatrasi entrò a fare parte, per
donazione di Guglielmo I, dei territori della Diocesi di Santa Maria La Nuova di Monreale.
(Calatrasi è il nome con cui nelle fonti e nei documenti
medievali furono citati il territorio e il castello).
L’origine
del castello nel periodo arabo non è molto sicura anche se in qualche documento
è indicato un casale con l’appellativo di “Cataltaczarut”. Un termine presente
in un diploma di donazione del 1093 del Conte Ruggero al vescovo della neofondata
Diocesi di Mazara. Una donazione che fu confermata da papa Pasquale II nel
1100.
Nel
1150 Calatrasi fu citata dal geografo arabo Idrisi come “.. castello molto visibile (appariscente) e fortilizio primitivo e
valido da farvi affidamento, ha terreni da seminare: il suo contado confina a
settentrione con quel di Giato, ed a mezzogiorno con quel del castello di
Qurliun (Corleone), dal quale Calatrasi è distante otto miglia circa”.
Alla
fine dell’XI secolo (verso il 1095) il territorio di Calatrasi venne concesso
in feudo alla famiglia dei Malconvenant che successivamente lo rimise nel
potere sovrano di Guglielmo II nel 1162.
La Famiglia
Malcovenant erano originari di Coutances
(oggi comune
francese del Dipartimento della manica nella regione Bassa Normandia).
Scesero in Sicilia
con Normanni e furono signori di
Calatrasi, Bisacquino, Racalmuto e Cellario.
Un documento del
1108 cita che fu costruita ad Agrigento
una chiesa dedicata a
Santa Margherita
per volontà di Roberto Malconvenant, signore di Racalmuto mentre un
Gilberto
Malconvenant s’impegnò a dotarla di rendite e beni. Fu questo il primo
documento in cui
venne citata la famiglia.
Lo stesso Roberto
Malconvenant nel 113 presenziò ad un atto dell’arcivescovo di
Palermo, Gualtiero
Offamilio.
Tra il 1183 ed il
1203 è documentato Guglielmo Malconvenant che ricevette
il titolo di
“amiratus” del regno di Sicilia dopo aver servito Guglielmo II di Sicilia come “regie curie magister justiciarius”
almeno dal maggio 1183 fino a gennaio 1186. Sposò in prime nozze Margherita de
Luci, figlia del conte normanno Bartolomeo de Luci che era imparentato con gli
Altavilla. Alla morte del suocero diventò Conte di Butera.
Chateau de Gratot,
a 4 km circa da Coutances
GIARDINI DI COUTANCES
La
famiglia Malconvenant tenne il feudo ed il castello di Calatrasi, “con undici miles” fino al 1162 quando
ritornò al regio Demanio sotto la reggenza di Guglielmo II.
Giovanni
Malconvenant (“male convencionis”)
non potè fare fronte al dovere di prestare il servizio di “undici miles” per cui dovette restituire il castello con il
casale.
Per
ricompensare la perdita del feudo di Calatrasi, nello stesso anno Guglielmo II
concesse alla famiglia il feudo di Cellaro. Una concessione data a Giovanni
Malconvenant che in quell’occasione fu anche nominato cavaliere.
C’è
da aggiungere che fino al 1196 appartenne alla famiglia anche il Casale di
Curbici.
Nel
1176 il feudo di Calatrasi venne assegnato, per volontà di Guglielmo II, alla
Chiesa di Santa Maria la Nuova di Monreale con annesso monastero benedettino..
Alla chiesa di Monreale furono anche assegnate altre località, Giato e
Corleone, tutte indicate da Idrisi. Un
vasto territorio che venne descritto in una pergamena redatta nel 1178 (giarida
o platea) che riportava “gli uomini del
registro” appartenenti al territorio assegnato al Monastero di Monreale.
Con
il termina di “giarida” o “platea” s’intende una speciale carta pubblica
contenente descrizioni territoriali ed elenchi nominativi dei servi e dei
villani di una data terra o casale appartenti al Demanio regio o concessi a
chiese, monasteri, vescovati e feudatari.
I
nomi furono rilevati dai “dafar al-diwan al-ma’mur “ o dalle antiche “platee” e
i componenti della “famiglia” di Calatrasi erano 373 a cui si aggiungevano “52 degli ammogliati di essi e dei loro
fratelli”.
Al
monastero vennero concessi anche dei privilegi e delle immunità.
Nello
stesso anno il Vescovo di Mazara rinunziò a qualunque diritto sul “municipium Calatrasi” cedendo il
possesso al monastero di Santa Maria La Nuova di Monreale.
Nel
1182 venne confermata la “giarida” o “platea”. Un documento che era un vasto
polittico che riportava la descrizione dettagliata dei confini delle terre e
dei casali concessi dal re (sempre Guglielmo II) alla Chiesa di Monreale. Nel
documento fu riportata anche la “divisa” di Calatrasi.
Nel
1183 lo stesso Guglielmo II emanò un ordine affinchè “nel solo territorio appartenente alla chiesa di Monreale, sulle terre
occupate, rimangano coloni e borghesi anche se appartenenti ad altre terre”. In
conseguenza di questo nuovo ordine venne rilasciata una nuova “platea” dove “nel territorio di Calatrasi e nei suoi
casali sono presenti 20 coloni”.
Papa
Lucio III confermerà queste donazioni con una bolla papale del 1183.
ATTO DI FONDAZIONE
DI S. MARIA LA NOVA DI MONREALE (CATTEDRALE)
REGESTO NEL QUALE
VENGONO DESCRITTI I CONFINI E I
POSSEDIMENTI
CONCESSI ALLA DIOCESI DI MONREALE NEL 1182
REGESTO IN CUI IL
VESCOVO DI MAZARA RINUNCIA AI DIRITTI
EPISCOPALI
SULLE TERRE DI IATO E
CALATRASI (1176)
REGESTO IN CUI IL
VESCOVO DI MAZARA RINUNCIA AI DIRITTI
EPISCOPALI SULLE
TERRE DI IATO E CALATRASI (1182)
Nel
1203 il papa Innocenzo III indirizzò una lettera ai monaci di Monreale accusandoli, con toni accessi, di
essersi ribellati al loro arcivescovo Caro (O.S.B. – Ordo Sancti Benedicti – Ordine
Benedettino), di aver stretto alleanza con Guglielmo Capparono e di essersi
impossessati dei castelli di Giato e Calatrasi,…”commettendo scelleratezze di ogni tipo e vivendo in lussuria”.
Le
vicende relative alla rivolta dei monaci sono state raccontante attraverso uno studio di Francesca Spatafora:
«In una lettera
del pontefice Innocenzo III redatta nel 1202 si legge di una rivolta di monaci
di Monreale i quali, con mezzi brutali, si erano impadroniti del castello e del
territorio della chiesa. Inoltre, in connivenza prima con Gualtiero di
Pagliara, vescovo troiano e cancelliere del Regno di Sicilia, poi con
Marcovaldo di Anweiler, marchese anconitano e conte romagnolo, avevano tentato
di prendere prigioniero lo stesso arcivescovo di Monreale; non avendo raggiunto
lo scopo, con l’aiuto di Guglielmo Capparono, venuto in Sicilia al seguito di
Enrico VI e passato dalla loro parte per denaro, avevano torturato e mutilato
gli uomini fedeli alla chiesa (…). Nel 1203 Innocenzo III inviava una lettera
ai monaci di Monreale accusandoli apertamente di essersi ribellati al loro
arcivescovo, di avere stretto alleanza con Guglielmo Capparono e di essersi
impadroniti dei castelli di Giato e Calatrasi, commettendo scelleratezze di
ogni tipo e vivendo nella lussuria».
La
gravità dell’episodio fu sottolineata proprio dall’intervento diretto del papa
affinchè il castello venga restituito.
Ma
chi erano Marcovaldo di Anweiler e soprattutto Guglielmo Capparono ?
Entriamo in una pagina di storia del Regno di
Sicilia sconosciuta perché raramente riportata nei libri di testo.
Il
primo nome riporta alla mente una collana di libri per ragazzi pubblicata da
Einaudi nel 1963. Si trattava di una serie di racconti “Marcovaldo ovvero le stagioni in città” incentrati sul personaggio Marcovaldo, un
magazziniere ingenuo e buono, che viveva in un ambiente urbano e moderno. Il
protagonista provava però una grande nostalgia per il mondo della natura. Nei
racconti si unirono aspetti fiabeschi ed ironici e vennero affrontati temi e
problemi che ancora oggi si potrebbero definire attuali: la vita caotica in
città, l’urbanizzazione senza razionalità ed ordine, l’industrializzazione con
le sue minacce, la povertà delle fasce più basse della popolazione, la
difficoltà dei rapporti umani ed interpersonali. Un libro che fu presentato
nelle scuole per permettere ai ragazzi una lettura sui temi della vita
contemporanea, trattati con spirito pungente e senza retorica, per invitarli ad
una costante riflessione.
Il
personaggio storico è invece Marcovaldo (Marquardo) di Annweiler, un importante
ministro dell’epoca sveva che riuscì ad avere un suo spazio politico. Della
famiglia d’origine non si sa molto. Forse proprietaria di alcuni terreni nei
territori del medio corso del Reno e anche il riferimento alla cittadina di
Annweiler (am Trifels) non è chiaro.
La
sua vertiginosa carriera politica ebbe inizio alle dipendenze di Enrico VI,
figlio dell’Imperatore Federico I Barbarossa, quando nel settembre 1185 diventò
suo scalco (dapifer regis)(servitore
imperiale o addetto alla sicurezza).
Marcovaldo
partecipò con Federico I Barbarossa alla terza crociata dove si distinse sia in
campo militare sia come ambasciatore
presso la corte imperiale bizantina.
Nel
1192 rientrò in Italia gravitando sempre nell’orbita di Enrico VI che nel
frattempo era diventato imperatore.
Nel
1194 riuscì ad ottenere per l’imperatore Enrico VI l’appoggio di Genova per la
spedizione di conquista del Regno di Sicilia. Durante questa campagna militare
fu comandante supremo della flotta genovese e pisana contribuendo in modo
determinante al successo dell’impresa.
Dall’imperatore
ricevette il ducato di Ravenna (con la Romagna) e anche la città di Ancona.
Ottenne anche la libertà personale (Libertate
donavit) cioè l’unico caso noto di esonero ministeriale avvenuto in epoca
sveva.
Nell’autunno
del 1195 gli furono concesse prima la Contea dell’Abruzzo e l’anno successivo
quella del Molise (con le Marche).
Nel
maggio-giugno 1197 soffocò in Sicilia, insieme al maresciallo Enrico di Kalden,
la rivolta contro l’imperatore. Sembra
che in punto di morte Enrico VI (morì il 28 settembre 1197) affidò al
Marcovaldo il suo testamento. Testamento che fu poi rinvenuto dalle truppe
pontificie nelle salmerie di Marcovaldo sul campo di battaglia di Monreale nel
1200. Le disposizioni contenute nel testamento sembra che lo invitassero a
delle trattative con il papa per tutelare gli interessi del piccolo Federico
nella successione.
L’imperatrice
Costanza, dopo la morte del marito, espulse senza alcun indugio Marcovaldo e
tutti i tedeschi del regno e pretese che “s’impegnassero
sotto giuramento a non rientrarvi mai più senza il suo consenso”.
I
tedeschi più in vista si assoggettarono alle direttive dell’Imperatrice anche
per non perdere i propri possedimenti nell’Italia Centrale. Marcovaldo e qualche altro principe tedesco nel
frattempo non riuscirono ad opporsi alla politica del papa Innocenzo III
rivolta a recuperare i territori che gli erano stati sottratti nell’Italia
centrale.
Si
sparse la voce di un ritorno di Marcovaldo in Sicilia e Costanza, nell’autunno
del 1198, lo dichiarò “nemico dell’Impero
e vietò qualsiasi contatto con lui”.
Tra
il 1198 ed il 1199, dopo la morte “subitanea” dell’Imperatrice, nell’ottobre
del 1199 sbarcò in Sicilia e sempre basandosi sul presunto testamento di Enrico
VI, rivendicò il diritto di assumere la reggenza affiancando l’erede al trono
Federico, ancora minorenne.
Costanza
nel suo testamento aveva invece affidato il “balium
Regni” al pontefice.
I
principi favorevoli alla casata Sveva riconobbero Marcovaldo come reggente
imperiale (procurator Regni Siciliae)
e quindi valida figura per il
mantenimento dell’unione del Regno all’Impero.
Il
pontefice accusò il Marcovaldo di ambizioni personali sulla corona del Regno di
Sicilia e giunse addirittura a proclamare che “questo nemico di Dio e della Chiesa e persecutore del Regno aveva
definito Federico un figlio presunto”.
La
situazione era molto tesa e la campagna di propaganda ostile orchestrata dal
papa non s’allentò vedendo in Marcovaldo il nemico più pericoloso. Lo stesso
papa cercò di sobillare contro di lui anche i saraceni di Sicilia. Il
Marcovaldo con abili azioni militari riuscì a conquistare consistenti territori
dell’isola, ma nel 1200 subì due pesanti sconfitte dall’esercito pontificio, a
Monreale e a Randazzo. A Monreale nella fuga lasciò i suoi effetti personali
tra cui il testamento di Enrico VI.
Alla
fine dell’anno il cancelliere Gualtiero di Palearia, ammise il Marcovaldo al
“Colleggio dei Familiari” (governo composto da alti prelati e dallo stesso Gualtiero).
Questa iniziativa portò alla definitiva rottura con il papa. Il piccolo
Federico, suo malgrado, si trovò convolto in questa triste situazione politica.
Il
controllo del fanciullo fu affidata ad un fratello di Gualtiero, il Conte
Gentile di Manopello. Alla fine del 1201 Marcovaldo s’impadronì di
Palermo e catturò il piccolo Federico… un testimone oculare riportò la
drammatica consegna del bambino.
Federico
ebbe una violenta reazione al sequestro “che
lo portò a ferirsi e a stracciarsi le vesti”.
Alcuni
storici riportano che sia riuscito anche a fuggire per vagabondare per le
strade di Palermo, per i vicoli del Cassero, a farsi degli amici alla Kalsa ed
alla Vucciria, a provare la fame per giorni.
Una
vita non da re nel periodo tra il 1202 ed il 1206.
In
realtà questa visione di Federico II vagabondo è legata alla fantasia di
diversi autori moderni anche se si rifacevano alle notizie, secondo la critica
storica, non attendibili riportate nel “Breve
Chronicon de rebus Siculis” dove in modo esplicito si rileva che “Federico abbia sofferto la fame, avrebbe
vagato per le strade di Palermo ricevendo il sostentamento dei sudditi”.
Un
aspetto è però veritiero perché il giovane vide il popolino alle prese con la
miseria ed i tedeschi di Marcovaldo rubare e dilapidare ogni ricchezza.
Esperienze, visioni, che influirono sulla sua formazione spirituale in modopositivo
perché faranno di lui uno degli imperatori più amati della storia ed ancora
oggi vivo e presente nella cattedrale di Palermo.
Il
nuovo arcivescovo di Palermo, Gualtieri della Pagliara, giunse ad un accordo con il Marcovaldo a
danno di Federico nella divisione del potere sui territori dell’arcidiocesi.
Entrambi ricevettero la scomunica papale
Il
Marcovaldo con quest’azione diventò padrone dell’isola ma a settembre del
1202, al culmine dei suoi successi, morì
di dissenteria a Patti. Le cronache riportano che soffrisse di calcolosi renale
e fu proprio uno di questi calcoli che gli provocò un blocco renale che lo
portò alla morte nel settembre o dicembre del 1202.
Marcovaldo di Annweiler in
un'illustrazione del
Liber ad honorem Augusti di Pietro
da Eboli.
Guglielmo
Capparone, fu anche lui un condottiero tedesco venuto in Sicilia al seguito
dell’Imperatore Enrico VI. Nel 1197 era presente in Sicilia e al servizio di
Marcovaldo di Annwiler. Quando il Marcovaldo morì, il Capparone si precipitò a
Palermo e con l’appoggio dei Pisani riuscì ad occupare il Palazzo Reale e a
catturare il giovane Federico che rimase
in suo potere dal 1202 al 1206.
Nel
dicembre del 1202 emanò, a nome del re Federico, dei diplomi “Guillelmus regis custos et magister capitaneus
Sicilie”
mentre papa Innocenzo III gli diede la scomunica.
In
seguito s’accordò con il papa giurando di rispettare la tutela del pontefice
sul giovane Federico. Il governo dell’isola passò al cardinale Gerardo
Allucingoli cioè un rappresentante del pontefice.
La
mancata intesa tra il cancelliere del Regno di Sicilia, Gualterio di Palearia,
e lo stesso Guglielmo, costrinse il cardinale a ritirarsi a Messina.
Nel novembre 1206 il conte Diopoldo
di Acerra costrinse Guglielmo a consegnarli il giovane Federico affidandolo a
Gualtiero di Palearia. Il Guglielmo rimase a capo del partito filoimperiale in
Sicilia dove morì verso il 1208.
Diopoldo di Acerra consegnò
Federico II al vescovo di Troia, Gualtieri di Palearia, che come abbiamo visto,
era cancelliere del regno. Diopoldo venne scomunicato dal papa ed entrò in conflitto
con il cancelliere che lo fece catturare. Riuscì a fuggire verso Salerno infliggendo agli inseguitori
una pesante sconfitta.
Nel 1209 Ottone IV di
Brunswick lo nominò “magister capitaneus
totius Apuliae et Terre Laboris”. Quando
Ottone ricevette la corona imperiale s’incontrarono a Pisa e Diopoldo
convinse l’imperatore ad occupare il Regno di Sicilia, ma le cose andarono
diversamente perché Ottone fu destituito e Federico II fu nominato Re dei
Romani e poi Imperatore. Diopoldo fu catturato e tenuto prigioniero in Germania
(1218) e nel 1221 fu liberato per unirsi
ai cavalieri Teutonici ma di lui si persero le tracce.
In merito a Federico II nel
periodo in cui fu sotto la “custodia” del Capparone c’è una lettera inviata dal
pontefice allo stesso Capparone in cui “esprimeva
la propria gioia per il fatto che
crescesse costantemente sia in età sia in sapienza e capacità”. Il papa era
informato di continuo sugli avvenimenti palermitani grazie a Tommaso da Gaeta,
giustiziere di Corte, molto stimato dalla Curia Pontificia. Tommaso da Gaeta
nell’autunno del 1204 si trovava a Roma come inviato di Guglielmo Capparone.
Nel 1206 il papa Innocenzo III scrisse direttamente a Federico II mostrandosi
molto contento del fatto che “avvicinandosi
all’età della pubertà, crescesse così bene e per le sue virtù e la sua sapienza
apparisse davanti a Dio e agli uomini molto più maturo di quanto la sua età
lasciasse presagire”.
Il
castello di Calatrasi fu occupato dai musulmani ribelli e nel 1222 fu definitivamente occupato e
liberato dalle truppe dell’imperatore Federico II.
Questo
avvenimento è datato “Calatrasi 10 settembre 1222” e fu riportato in un
documento di Federico II che aveva liberato definitamente la roccaforte dai
musulmani ribelli e da quel luogo espletava la sua corrispondenza diplomatica.
Nella
prima metà del XIV secolo il castello fu nominato tra le rocche esistenti in
Sicilia e nel 1348 il territorio fu dato dall’arcivescovo di Monreale in affitto al “nobilis Goffridonio de
Alemanna”. Il casale era ancora esistente .
Nel
1351 il “fortelicium Calatrasi” era diventato un covo di “latrones”.
Nel
1374 – 77 Manfredi III Chiaramonte aggiunse il castello ai suoi numerosi feudi.
Un possesso solo temporaneo dato che nel 1392 il castello con il feudo vennero
restituiti dal re Martino I alla Chiesa di Monreale.
Verso
la fine del XIV secolo iniziò lo stato di decadenza del castello. A quell’epoca
il castello è ricordato con i castelli di Giato e Corleone e nel 1395 un
Francesco Morana da Monte San Giuliano fu nominato castellano di Calatares.
Nel
1398, Martino il Giovane, dando nuove disposizioni sull’utilizzazioni dei forti
redditi della chiesa di Monreale, destinò alcune somme al pagamento delle
provisioni (vettovaglie) dei castelli di Monreale, Patellaro e Calatrasi.
Nel
1432 il castello doveva essere ancora in condizioni discrete dato che vi si fermò
per qualche giorno Alfonso il Magnanimo durante una battuta di caccia.
Nel
1458 era già in precarie condizioni strutturali anche se aveva un suo
castellano, un tale Gracianu Marju contro il quale venne emesso un ordine a
procedere perchè dedito, insieme ad altri, a derubare ed uccidere.
Nel 1558
il Fazello lo descriveva ormai in rovina.
8. NEL CASTELLO UNA PREESISTENZA ARABA ?
La
fase araba è documentata solo da pochi frammenti rinvenuti in superficie o in
alcuni strati di riempimento. Al periodo
svevo, cioè nella fase in cui il castello fu occupato da ribelli musulmani,
sono riferite le sepolture nei campi A e G dell’antico centro indigeno.
Rinvenimenti che testimoniano una certa presenza musulmana.
Sepoltura Islamica
campo A dove furono rinvenute le sepolture Islamiche
Sono
semplici fosse, orientate in senso Est-Ovest, di pianta rettangolare piuttosto
irregolare, arrotondate sui lati brevi e caratterizzate, a volte, da una
copertura a lastre accostate poste orizzontalmente o obliquamente.
Le
caratteristiche di giacitura dei corpi sono omogenee e tipiche della tradizione
islamica. I corpi sono tutti appoggiati sul fianco destro con il capo rivolto
ad Ovest ed il voto rivolto a sud; le gambe leggermente flesse e le braccia
distese lungo il corpo. Le analisi al C14 e il risultati delle indagini
antropologiche evidenziarono importanti aspetti. L’appartenenza dei corpi a
tipologie berbere e mostrano forti patologie carenziali da attribuire a deficit
nutrizionali mentre per la datazione i
risultati farebbero collocare le sepolture all’età sveva. Il castello di
Calatrasi, insieme ai castelli di Iato ed Entella, fu una roccaforte dei
musulmani ribelli prima della loro cacciata
dalla Sicilia avvenuta nel 1246.
Roccaforti dei
Musulmani ribelli
Monte Iato
Monte Iato – Resti
del Castello – La Porta Araba
Castello di
Entella
9. STRUTTURA
ARCHITETTONICA
Il
castello è posto sulla cima orientale del monte cioè su quella parte più
inaccessibile e naturalmente fortificata e sovrasta un ampio pianoro
nord-orientale dell’altura in cui doveva trovarsi il villaggio d’età normanna.
Posto
sulla cima sud-orientale del monte con i versanti sud-orientale e
sud-occidentale molto scoscesi quasi a precipizio.
Dal
sito si domina tuttala vallata del Belice Destro e il Ponte di Calatrasi che
all’epoca costituiva forse l’unico attraversamento del fiume, più vicino al
castello. Dal monte sono visibili i castelli del lato Nord, di Montagna Vecchia
(ad est) e di Entella a Sud.
L’edificio
seguiva nella sua planimetria l’orografia accidentata del rilievo e s’integrava
perfettamente con le ripide e scoscese pareti che circondano l’altipiano alto
487 m s.l.m.
Le
ricerche archeologiche hanno permesso di mettere in rilievo come l’edificio
abbia subito nel corso dei secoli molte distruzioni e rifacimenti.
Il
complesso edilizio occupa una superficie di circa 1000 mq con un perimetro
circa 120 m. La parte sommitale doveva costituire una valida difesa militare
fornita di torrioni ed ambienti che si disponevano attorno ad una corte
centrale aperta.
Le
mura che cingevano l’area del castello furono elevate direttamente sulla roccia
e anche il percorso d’accesso fu ricavato adattandosi all’orografia del terreno
attraverso un sentiero costituito da numerosi tornanti.
Una
piccola torre controllava il percorso in salita e probabilmente anche la zona
sottostante cinta da un muro largo oltre due metri.
Probabilmente
all’inizio assieme al recinto sorsero i due torrioni di NO e NE che delimitano
l’ingresso, e quello di SE, al cui interno si trova una cisterna con copertura
a volta e fondo costituito dalla roccia lavorata e ricoperta da uno strato di
malta idraulica.
Successivamente
furono realizzati i due ambienti voltati adiacenti al torrione di NO e i vani
di servizio costruiti a ridosso del muro di cita orientale.
L’ultima
fase edilizia vide la costruzione di ambienti addossati al muro di cinta occidentale.
Il
materiale archeologico raccolto del corso delle indagini non ha permesso di
costruire le diverse fasi costruttive del complesso.
Si
tratta di pochi frammenti ceramici databili tra il XII ed il XIV secolo che
furono raccolti all’interno di riempimenti cioè di depositi di rifiuti.
10. IL PONTE
CALATRASI
A
meno di un chilometro a sud-ovest di Monte Maranfusa, sul fiume Belice Destro,
sorge il Ponte di Calatrasi che fu realizzato in epoca normanna, verso il 1170,con la caratteristica
forma a schiena d’asino, ad una luce con grande arco a sesto acuto e a doppia ghiera.
A
Sud del Ponte, lungo la sponda destra del fiume, sono presenti i ruderi di un
mulino la cui ultima fase di produzione si attesta alla metà circa del
Novecento. Nello stesso periodo erano attivi altri due impianti denominati
Malvello e Rosamarina.
Fra
le strutture ancora visibili alcune sono riferibili a probabili preesistenze
come un arco a sesto acuto, realizzato con blocchi di calcarenite bianca
compatta, in parte tagliato dalla torre dell’acqua che è invece costruita in pietra di colore
ocra scuro. L’arco sembra collegato a una struttura muraria, rinvenuta durante
gli scavi, a cui risultavano associati pochi frammenti di parti d’anfore o
brocche con superficie segnata da solchi di tornitura e databili tra il XII ed
il XIII secolo.
La
torre d’acqua è costituita da una struttura a pianta quadra con un sistema di
gradoni restringenti verso l’alto, alla cui base era collocata la macchina che,
alimentata dalla cascata d’acqua, assicurava la rotazione continua della macina
e, attraverso un cinghia, dell’ingranaggio per il lavaggio del grano.
In
asse con la torre e con la macina correva, al di sotto del livello pavimentale,
un ampio canale di scarico che, attraverso un arco aperto sul prospetto
meridionale, assicurava la smaltimento dell’acqua dopo il ciclo lavorativo.
Da
qui, attraverso un sistema di canalizzazioni scavato nel banco roccioso,
alternato ad un
sistema
di vasche, l'acqua tornava al fiume.
La
leggenda vuole che il ponte sia
stato costruito dagli spiriti, chiamati Fati. Come afferma il Pitrè..” i Fati lo costruirono in una notte, non
riuscirono a fare le ringhiere. In più occasioni gli abitanti hanno cercato di
alzare i parapetti, ma in ogni occasione i fari, o secondo altri, i diavoli, li
hanno abbattuti”.
Altre
leggende sul magnifico ponte come quella del “granchio d’oro” e della “fata
Faranfusa”.
In
merito al “granchio d’oro” è sempre il Pitrè
a rilevare che “il Ponte di
Calatrasi è così stretto che appena uno per volta i viandanti possono passarvi
sopra. Un’enorme granchio d’oro appare di tanto in tanto ai viandanti, i quali
tentano di acchiapparlo perché quell’animale è pronto a ritirarsi”.
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11. Prodotto Tipico - Il Melone Giallo di Roccamena
Liquore al Melone Giallo di Maranfusa
Nel Mese di Agosto
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