ROCCAMENA (Palermo) – LE SUE MERAVIGLIE…..IL CASTELLO E IL PONTE CALATRASI; L'ABITATO INDIGENO DEGLI ELIMI; LA GROTTA "STICCA" CON I GRAFFITI..







Indice:
1.      Il Comune (cenni);
2.      Monte Maranfusa – Il sito archeologico – Mappa del Fiume Belice (Destro e Sinistro);
3.      L’Abitato Indigeno;
4.      Graffiti Preistorici sulle “Rocche di Maranfusa”;
5.      Le Grotte di Maranfusa (Grotta Maranfusa e Grotta Sticca”) – Relazione del prof. Giovanni Mannino;
6.      Altre Zone Archeologiche (cenni);
7.      Periodo Medievale –  Il Feudo di Calatrasi  e il suo Castello - Diocesi di Mazara- Famiglia Malconvenant -  Diocesi di Monreale – Documenti (Atti);–  Nel castello si rifugiarono dei monaci ribelli al vescovo di Monreale - Covo dei seguaci di Marcovaldo di Anweiler e Guglielmo Capparone (sequestrarono il piccolo Federico II di Svevia) – Il castello di Calatrasi occupato dai Musilmani ribelli e successivamente liberato da Federico II di Svevia – I vari feudatari del Castello;
8.      Il castello fu costruito su una preesistenza araba ?
9.      Struttura Architettonica;
10.  Il Ponte Calatrasi e il Mulino – La Leggenda del diavolo e del "granchio d'oro".
11. Il Melone Giallo - Prodotto Tipico di Roccamena

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1.      Il Comune (cenni)
Il centro di Roccamena, posto nella provincia di Palermo, ha avuto origine nel XIX secolo quando fu fondato da Giuseppe Beccadelli, marchese della Sambuca e principe di Camporeale.
Si trova su una delle tenute che facevano parte del feudo della Sparacia di proprietà dei Gesuiti. Dopo la loro espulsione, avvenuta nel 1767 e il conseguente esproprio dei beni, il feudo rientrò nel piano di riforme agrarie instaurate dal ministro Bernardo Tanucci, Ministro di Ferdinando IV, re delle Due Sicilie, e rivolte alla distribuzione delle terre in favore di piccoli proprietari.
Nel 1779 don Gaetano Morales, prestanome di Giuseppe Beccadelli, acquistò alcuni feudi tra cui quello di Sparacia e nello stesso anno ottenne la facoltà, “licentia populandi”, di popolare alcuni feudi. Fu così avviata la costituzione di alcuni centri abitati tra cui quello di Roccamena.
Nel 1833 diventò frazione di Corleone e il 28 dicembre 1846, con Regio Decreto, il villaggio fu elevato a Comune. Gli furono assegnati diversi feudi e la piena autonomia gli fu riconosciuta solo nel 1998 grazie ad un Decreto Ministeriale.
Il nome è composto da “rocca” e “amena”, parole che, secondo la tradizione, furono pronunciate da un principe per sottolineare la bellezza del paesaggio.




Piazza matrice foto del 1900
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2. MONTE  MARANFUSA - 
    IL SITO  ARCHEOLOGICO
Il Monte Maranfusa è un rilevo calcareo, alto 487 m s.l.m., che si erge maestoso sulla riva sinistra del fiume Belice (Destro). Una posizione geografica tra i due bracci del fiume Belice che ebbero una grande importanza  per l’insediamento delle comunità.



Monte Maranfusa











Il sito si trova in punto di fondamentale importanza per la Valle del Belice perché oltre a lambire il fiume Belice,  segnava fisicamente la linea di demarcazione dell’estremità occidentale dell’isola. L’altura dista circa 25 km dalla costa settentrionale dell’isola, dal Golfo di Castellammare, e 35 km dall’emporio punico di Panormos. Uguale distanza anche dalla costa meridionale dell’isola nel punto cioè in cui il Belice si riserva in mare.  Un altro aspetto da rilevare è la stessa distanza dal sito di Selinunte, importante colonia megarese , che come Panormos è distante circa 35 km.
La posizione dell’abitato, alla luce delle considerazioni su esposte,  favorì l’insediamento umano fin dagli inizi del X secolo a.C.  per poi proseguire anche nel medioevo. Una centralità del sito che favoriva rapporti e relazioni tra le varie comunità.


Il Monte, dal punto di vista geologico, è costituito da una roccia di calcare marnoso. È esteso circa 58 ettari ed ha un aspetto planimetrico quadrangolare con alte pareti a precipizio ed inaccessibili sui lati meridionali e occidentali, mentre i fianchi sono meno scoscesi e più bassi nel versante settentrionale e ancora più lievi sul lato orientale.



La parte più elevata è quella sud-orientale che presenta una aspra cima rocciosa e isolata a quota 487 m s.l.m. divisa tramite una profonda insellatura, da un altro pizzo elevato 486 m s.l.m. che va però degradando verso Nord-ovest. A nord presenta alcuni tratti con affioramenti rocciosi verticali che interrompono la naturale continuità verso settentrione, dando alla zona nord-orientale l’aspetto di un terrazzo anch’esso in pendenza verso Nord-Ovest, sottostante l’altipiano superiore.







Mappa dei saggi archeologici

L’angolo nord-ovest è ormai definitivamente compromesso perché fu interessato da una intensa ed estesa attività estrattiva, non so se autorizzata ma ho i miei dubbi, che fu interrotta nel 1987. Anche le strutture murarie e gli strati archeologici  presenti sull’altipiano sono state danneggiate dai lavori agricoli .. un altro piccolo appunto… chissà quanto reperti trovati e quindi scomparsi per sempre dallo scenario della cultura siciliana.


Dal punto di vista nell’insediamento, tutto il monte fu interessato dalla presenza di un abitato antico seppure in maniera diversa secondo il vario periodo e in base anche dall’importanza che aveva il centro abitato.
L’unica zona priva di difese naturale, e che richiedeva quindi un rinforzo difensivo, era tra due costoni rocciosi nel lato orientale della collina ed oggi appare chiuso da una cortina muraria probabilmente risalente ad epoca tardomedievale (indicato nella mappa con la freccia viola

Cortina muraria di epoca medievale

Gli accessi dovevano essere due e quasi contrapposti.
Uno sul lato sud-orientale, un varco tra due costoni rocciosi potrebbe rappresentare la via principale d’accesso all’insediamento come dimostrano anche i segni delle ruote dei carri lasciati sulla roccia affiorante; l’altro sulla parete settentrionale è attestata una strada tagliata in antico sulla roccia e riconoscibile solo in cartografia perché distrutta dall’attività estrattiva della cava….

Le indagini di superficie hanno permesso di accertare una estensione del centro abitato piuttosto ampia in età arcaica, tardo-arcaica e nel periodo normanno. Delle ceramiche riferibili a tale epoche sono sparse sulla superficie del monte anche se una concentrazione maggiore è stata riscontrata nel pianoro orlato dal muro di cinta nella zona sud-orientale dell’altopiano ai piedi del castello e da esso ben visibile e controllabile.




Il materiale più antico rinvenuto nel corso delle indagini rileva una occupazione del sito durante l’Età del Bronzo Finale e diventa più consistente nella Prima Età del Ferro.
Il periodo di massima espansione fu però a partire dal VI secolo a.C. nel momento in cui la rocca è interessata da strutture abitative e la parte più elevata dell’altipiano sembra abbia assunto la funzione di acropoli con la sede di edifici a carattere sacro e pubblico.
Dal 480 a.C. si ha una contrazione dell’abitato e un probabile abbandono fu documentato verso la prima metà del V secolo a.C.
Non c’è traccia della persistenza del centro abitato dopo tale epoca mentre per quanto riguarda l’occupazione medievale del pianoro nord-orientale sembra sia stata preceduta da un piccolo insediamento di età tardo- imperiale.
Subito dopo la conquista araba della Sicilia, e soprattutto durante il periodo normanno l’insediamento di  Maranfusa e soprattutto il suo castello, noto all’epoca con il termine di Calatrasi, riacquistarono vigore e consistenza per tramontare definitivamente nel XV secolo.
Della stessa epoca rimane ancora integro a valle, a cavallo del braccio destro del Belice, lo splendido ponte ad una luce noto anch’esso con il termine di Calatrasi.




Mappa risalente al periodo Normanno

Scavi


Gli scavi sul monte iniziarono nel 1986 e continuarono, anche se in maniera discontinua, fino al 2008.

“I primi scavi interessarono la parte pianeggiante dell'altipiano superiore (Campo A) e la cima sud-occidentale (Campo B), zona acropolica destinata, probabilmente, ad usi pubblici ma soggetta a evidenti fenomeni di erosione e dilavamento.
Saggi non troppo estesi furono realizzati anche in due punti del terrazzo inferiore nord-orientale (Campo C e Campo D): lo scavo accertò una situazione assai compromessa sotto il profilo stratigrafico e dello stato di conservazione delle strutture, certamente a causa del millenario utilizzo agricolo di quei terreni, molto più sfruttabili dal punto di vista agricolo di quanto non fossero gli accidentati appezzamenti dell'altipiano superiore.
Successivamente, la ricerca si estese a un nuovo settore (Campo E), localizzato in un'area
del terrazzo inferiore assai promettente in relazione alle sue caratteristiche morfologiche.
Le ultime campagne di scavo hanno rivelato la grande estensione dell’abitato indigeno di età
arcaica, intercettato in diversi punti dell’altura: il Campo F, situato sempre nel settore meridionale
del monte, immediatamente a Nord-Ovest del campo A; il Campo G, nella punta settentrionale
del rilievo, e il campo H, nella metà orientale, immediatamente a Nord-Est del principale accesso alla città. In due casi, Campi G e H, le strutture dell’abitato arcaico risultarono in parte tagliate da sepolture di rito islamico, così come, del resto, già documentato nel Campo A.
Nel tratto di abitato arcaico scavato nel Campo A si sono riconosciute diverse fasi di vita comprese tra la fine del VII secolo ed il 480 a.C. circa, quando l’area fu improvvisamente abbandonata, probabilmente a causa di eventi naturali”.

Sepoltura Islamica








3. L’ABITATO  INDIGENO (Elimo)

Campo “A”

Alcuni edifici risalgono ad una prima fase databile alla fine del VII secolo a.C. edifici costituiti da ambienti aggregati a grappolo e organizzati intorno ad ampi spazi o cortili aperti. A questo primo momento può ricondursi l’impianto di un unità abitativa (Edificio 1) composta da tre ambienti aperti su un portichetto ad Ovest e un cortile ad Est. Alcune strutture del primo periodo sopravvissero anche durante la seconda fase, databile tra la metà del VI ed il primo ventennio del V sec. a.C.: in questo periodo, certamente in conseguenza di più intensi contatti con l’ambiente greco coloniale, lo spazio si organizza con maggiore regolarità e vengono costruiti edifici a pianta allungata, probabilmente utilizzati da più nuclei familiari, con asse longitudinale orientato in
senso Est-Ovest e disposti ai lati di un ampia area aperta e a tratti lastricata. Un ultimo effimero utilizzo delle strutture è documentato dal rifacimento di alcuni muri e dalla costruzione, al di sopra dei livelli di distruzione, di pochi e rozzi ambienti che, in qualche caso, si appoggiano alle più regolari murature della fase precedente.


Una lettura complessiva delle esigue evidenze riferibili all’abitato di prima fase fa ipotizzare il parziale abbandono dei modelli insediativi di tipo tradizionale, semplici nella struttura e nell’organizzazione degli spazi, a favore di più complessi sistemi che risentono del primo contatto tra coloni e “indigeni”, fenomeno che quasi certamente dovette stare alla base di quella prima e profonda cesura che determinò lo spostamento dell’abitato nei punti più elevati della montagna, a
controllo delle fertili vallate sottostanti, sia in direzione Nord, fino alla barriera naturale costituita dai monti di Palermo, che verso Sud, a dominio del medio e basso corso del Belice.
Nella seconda fase, dunque, è possibile riconoscere una più regolare organizzazione
dello spazio insediativo e l’esistenza di un impianto rispondente a semplici criteri prestabiliti.
Di estremo interesse si è rivelata anche l’analisi dell’arredo mobile raccolto all’interno dei diversi ambienti, il cui studio ha consentito di definire lo spazio abitativo e quindi la struttura sociale del gruppo: numerosi gli utensili e le suppellettili d’uso quotidiano, soprattutto ceramiche di fabbriche locali a decorazione impressa, incisa e dipinta, spesso associate con produzioni importate o coloniali.
Di particolare interesse, infine, è il fatto di avere isolato due fasi precedenti l’impianto dell’abitato arcaico: uno degli ambienti, infatti, si sovrappone e in parte distrugge un vano più antico caratterizzato dall’esclusiva presenza di ceramica incisa, impressa e dipinta nonché, nello strato al di sotto del piano d’uso, dalla presenza di frammenti a stralucido rosso o a decorazione piumata della Prima Età del ferro. Alla stessa epoca sembra risalire l’adiacente capanna o recinto semicircolare con banchina anulare, appoggiata al banco di roccia al cui interno si raccolse ceramica impressa, incisa e a stralucido rosso, acroma e da cucina, strumenti litici e un frammento di modellino di capanna/sacello a decorazione impressa. Pur nella difficoltà di comprendere pienamente il carattere e la funzione dell’edificio, si potrebbe ipotizzarne un uso di tipo cultuale.

Capanna o recinto semicircolare

Nel Campo F, invece, un contesto naturale caratterizzato dalla presenza di un leggero pendio orlato da una balza rocciosa, situato in posizione baricentrica a mezza costa del rilievo montuoso e a domino del medio corso del Belice destro, sono venuti alla luce almeno tre distinti edifici disposti parallelamente secondo la pendenza naturale del terreno. Sono orientati in senso SE/NO e si distribuiscono su tre terrazze artificialmente sostenute da muri.

 Campo “F”



“L’edificio A, sul terrazzo superiore, è composto di tre vani, due dei quali contigui nel senso della lunghezza parzialmente appoggiati agli speroni rocciosi che definiscono il pianoro sul lato meridionale; un probabile percorso viario, largo circa m 3,50 e aperto su un ampio slargo, separa l’edificio A dall’edificio B composto anch’esso da tre ambienti (Vani 1, 2 e 3), due dei quali integralmente scavati, contigui nel senso della lunghezza e comunicanti tra loro. Il vano più interno era privo di affacci esterni e doveva caratterizzarsi, nella sua prima fase di vita, come ambiente seminterrato. Il vano esterno, elegantemente lastricato, si apriva sulla terrazza inferiore
caratterizzata da uno spazio aperto in terra battuta, forse una strada pressoché parallela a quella che separa l’Edificio1 dall’Edificio 2, che ricopriva una struttura muraria di una fase precedente. In una seconda fase d’uso l’Edificio 2 subì delle modifiche: il vano 2 venne suddiviso in due ambienti e furono cambiati gli accessi.

Vano esterno lastricato

Un possente muro di terrazzamento delimitava, infine, il terrazzo inferiore dove, finora, si è individuato un solo ambiente quadrangolare le cui strutture si integrano con gli speroni di roccia
affioranti”.


Terrazzo inferiore

Fu trovata la deposizione di un’offerta  avvenuta in due momenti diversi compresi entro la seconda metà del VI secolo a.C., nell’angolo nord-est dell’ambiente più interno. Questo sembra connotare un edificio sacro. La tipologia dell’offerta richiamano altri luoghi sacri di area sicana. Si tratta di brocchette a decorazione geometrica dipinta con orlo trilobato  o con beccuccio di versamento, rinvenute in associazione a forme da cucina miniaturizzate che, evidentemente, evocano simbolicamente la cottura delle offerte”.

Le ceramiche che costituivano l’offerta

Brocchetta con orlo trilobato

Significativa è la presenza di due modellini fittili di capanna/sacello a pianta circolare, uno dei quali, in forma miniaturizzata, faceva parte dell’offerta, l’altro, del tipo a decorazione impressa con ingresso rettangolare segnato da stipiti apicati, è stato rinvenuto, invece, sui livelli d’uso dell’Edificio A.

Sacello con stipiti apicati

Si tratta dell’attestazione più occidentale per questo tipo di materiali, se si esclude il più elaborato modello recentemente recuperato in un contesto domestico di Monte Iato, databile ad età 
tardoarcaica in cui compare la figura di un torello, la cui rappresentazione riveste un’indubbia valenza simbolica, rafforzando l’idea di un tipo di religiosità fortemente legata al concetto di
riproduzione della specie.


Settore “G” – scavi

Nel campo “G” in un area posta nord del monte ed in una posizione periferica rispetto all’altopiano, le indagini archeologiche hanno evidenziato un’occupazione intensiva estesa anche in questa parte marginale del monte. In un’area di circa 150 mq fu riportato alla luce un edificio costituito da tre ambienti di forma quadrangolare disposti a “L” attorno ad un cortile aperto. Qui furono trovati resti di pasti, frammenti di macine e numeroso vasellame indigeno a decorazione impressa e dipinta.
Uno degli ambienti era parzialmente lastricato mentre un altro, anch’esso a pianta quadrata, era di dimensioni maggiori e conservava un tratto di un accurato acciottolato pavimentale.

L’ambiente parzialmente lastricato

Sotto il pavimento più recente si conservava un pavimento più antico a cui sono da riferire anche alcune strutture murarie e un focolare con sostegni fittili a rocchetto e ceramica da fuoco. Anche nel terzo ambiente furono evidenziate due fasi d’uso e una zona specifica dedicata alla cottura degli alimenti caratterizzata dalla presenza di una piastra fittile quadripartita utilizzata come focolare e da alcuni sostegni fittili a rocchetto rinvenuti al di sopra della piastra.

Sostegni fittili a rocchetto (Campo “G”)

Anche in questa zona, come nel campo “A” le strutture di età arcaica (VI secolo a.C.) furono intercettate in più punti da sepolture di rito islamico costituite da semplici fosse terragne che utilizzavano gli antichi muri come sponda delle stesse tombe.
I numerosi reperti che furono rinvenuti permisero di ricostruire la vita quotidiana e le attività di sussistenza della comunità presente sul Monte Maranfusa decisamente legata alle tradizioni locali ma anche aperta alle spinte culturali provenienti dal mondo greco  coloniale.
Il numeroso vasellame recuperato era sia di cultura o tradizione indigena ma anche d’importazione greca o legata agli influssi greci.
Tra i reperti di produzione locale indigena, oltre alla più comune ceramica acroma e da cucina, particolarmente diffuse erano le ceramiche a decorazione impressa e incisa o a decorazione geometrica dipinta con forme  legate alla tradizione greca.

Sopra – Una ceramica acroma
Sotto -  una ceramica da cucina

A sinistra – una Ceramica da cucina
A destra – una ceramica impressa e incisa

Ceramica a decorazione impressa e incisa

Ceramica a decorazione geometrica dipinta

Ceramica a decorazione geometrica dipinta

La ceramica d’importazione, discretamente diffusa a partire dal VI secolo a.C. proveniva soprattutto dalla Ionia e dall’Attica oltre che dalle vicine colonie di Selinunte e Himera.

Ceramica d’importazione

Ceramica d’importazione

Le macine e i pestelli, entrambi in pietra e rinvenuti in diversi ambienti dell’abitato, erano legati alla trasformazione dei cereali mentre l’attività della tessitura, di solito riservata alle donne, è attestata dal rinvenimento di numerosi pesi da telaio.

Le macine rinvenute

Peso da telaio

I ritrovamenti evidenziarono anche altre attività produttive della comunità che era dedita anche all’allevamento di alcuni specie domestiche come bovini, suini ed ovini. Erano presenti animali selvatici come il cervo e la volpe.

Tipologia costruttiva di un edificio

Cratere indigeno a colonnette con decorazione  geometrica dipinta

Monte Maranfusa visto da Est


4. GRAFFITI  PREISTORICI DI MARANFUSA

La scoperta dei graffiti in una grotta di Maranfusa risale al febbraio 2015.



Le incisioni raffigurerebbero l’atto sessuale e la contabilità. Il ritrovamento fu opera dei volontari del “Gruppo Archeologico Valle dello Jato” che  sull’autencicità dei graffiti non mostrarono alcun dubbio: “La patina presente sui graffiti è la stessa che si trova sul resto della superficie rocciosa della grotta”.
Una scoperta causale….”«Insieme al Gruppo speleologico ambientale di Trapani - racconta Alberto Scuderi, vicedirettore nazionale dei Gruppi archeologici d'Italia -, ci trovavamo in località Sticca per un censimento delle grotte. Stavamo per entrare in una cavità in parete quando la forte pioggia ci ha costretto a cercare riparo all'interno di un'altra grotta di facile accesso, utilizzata come ovile e già perlustrata in passato».
A parlare della grotta erano stati Francesca Spatafora nel suo libro sul Monte Maranfusa e il prof. Giovanni Mannino nel suo volume “Guida alla Preistoria nel Palermitano”. Lo stesso prof. Mannino aveva identificato un’incisione sulla parete d’ingresso della grotta.
Ma è all’interno della grotta, di natura carsica, che sarebbe avvenuta la scoperta.
Il dott. Scuderi rilevò che “Guardando con una lampada  ho notato alcune linee incise in parete, le ho fotografate e la stessa sera ho chiamato Mannino per un confronto. Ci sono ritornato con più luce ed una macchina fotografica più potente”.  “Nella seconda visita, insieme all'archeologo Antonio Alfano e ad altri appassionati, sono stati notati altri tre gruppi di incisioni”.
Della scoperta fu allora informato il compianto prof. Archeologo Sebastiano Tusa, uno dei maggiori esperti di Preistoria Siciliana che subito, aveva un grande amore per la Sicilia e per il suo lavoro che considerava come una missione, visitò il sito.
Spiegò che Nella grotta si trovano due gruppi di linee incise diverse per natura, per orientamento e, conseguentemente, per cronologia. Il primo gruppo, malgrado il non perfetto stato di conservazione, può identificarsi con un simbolo maschile contrapposto ad un simbolo femminile. Questo gruppo - aggiunge - per le sue caratteristiche morfologiche e iconografiche sarebbe da attribuire al Mesolitico, cioè al periodo iniziale dell'Olocene, intorno ai 12.000 anni fa».
Nella grotta è presente però anche un secondo gruppo di incisioni. «Si tratta - dice Tusa - di una decina di segmenti sovrastanti l'uno all'altro che potrebbero avere avuto una funzione di promemoria contabile per il gruppo umano che la grotta abitava o frequentava. Tuttavia potrebbe anche trattarsi di un elemento cosiddetto “alberiforme” con valore apotropaico”. 
Entrambe le spiegazioni fanno comunque ipotizzare una loro datazione tra il Neolitico e la prima Età dei metalli, ovvero tra VII e V millennio a.C. Il ritrovamento è stato comunicato alla sezione archeologica della Sovrintendenza di Palermo, che su monte Maranfusa ha già effettuato diverse ricerche. La scoperta dovrà adesso essere approfondita.
Questo quello che accadde a febbraio di circa 5 anni fa. I risultati delle indagini…….silenzio assoluto…….







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5. LE GROTTE DI MONTE MARANFUSA
    La Grotta di Maranfusa – La Grotta Sticca (Relazione del prof. G. Mannino)

a)      La Grotta di Maranfusa
La grotta si trova in prossimità della cima sud-occidentale del Monte. Una grotta posta sui calcari argillosi del Cretaceo Inferiore. Presenta un ingresso al suolo roccioso ed è di pianta allungata. Secondo il prof. Mannino sarebbe una cavità di origine tettonica cioè dovuta ad una voragine di crollo conseguenza del cedimento della volta di una cavità sottostante e non accessibile.
Vive uno stato piuttosto avanzato della sua genesi; la perforazione del soffitto, qualunque sia stata la sua causa che l’ha determinata, ha innescato un processo di crolli che si concluderanno con il collasso del soffitto e la  trasformazione della grotta in dolina di crollo”.
(Le doline di crollo si originano per il cedimento della volta di grotte poste vicine alla superficie).
La cavità è costituita da un unico ambiente, di forma quasi circolare che si allunga da Sud verso Nord per circa 10 m.
L’accesso ha luogo da un foro dal quale si discende passando su frane. Il suolo è completamente ricoperto di frane di dimensioni anche notevoli e nulla consente di arguire l’età dei crolli; neppure l’accurata ispezione del piano di calpestio ha fornito elementi che possano provare o negare la frequentazione in antico della cavità e solo la rimozione delle frane renderebbe possibili accertamenti in tal senso”.




b. La Grotta  Sticca
La grotta è quella in cui furono rinvenuti i graffiti nel 2015. La relazione del prof. Mannino e della prof.ssa Francesca Spatafora risale al 2003 e fu inserita nel testo “Le Grotte di Calatrasi”.
La grotta si apre quasi all’estremità settentrionale di un grosso affioramento roccioso carbonatico, dallo sviluppo triangolare, alto 410 m. nella tavoletta dell’IGM non ha una denominazione mentre nella tradizione locale è conosciuto con il nome di “Rocche di Maranfusa” o “Cozzo Sticca” dal nome della contrada omonima e fattoria.





L’ingresso è esposto a N-N/E e  seppure ampia, ha una forma circolare e un diametro di 4 m, è poco visibile perché sempre coperta da una colossale “ficarra” (fico selvatico) presente a memoria d’uomo”.
L’ingresso è posto a circa un centinaio di metri dall’abbeveratoio (quota 292 m) situato lungo la strada provinciale per Roccamena e dista circa 500 m dalle falesie meridionali di Monte Maranfusa.
“La grotta è il relitto di un antico complesso carsico del quale sopravvive una parte, forse solo quella terminale. Appena entrati nella grotta si ha l’impressione di trovarsi in presenza di una delle tante cavità marine che, numerosissime, interessano le antiche linee di riva di mari quaternati della costa nord-occidentale dell’isola. Impressione giustificata dal modesto sviluppo rispetto all’ampiezza del condotto e confortata  anche, dalle deduzioni espresse da Teodosio De Stefani che, in alcuni ingrottati, falesie e “solchi del battente” notati negli affioramenti rocciosi nei dintorni di Roccamena, aveva riconosciuto “tipiche forme di erosione marina” riferibili al Tortoniano”.
(Per “solchi del battente” s’intende l’azione erosiva del mare contro una parete rocciosa che si esplica tramite le onde. Durante le burrasche, sia per la pressione della massa d’acqua delle onde stesse che s’infrangono contro la parete, sia per il lancio o l’urto di sabbia, ghiaia e ciottoli contro la base della parete stessa, producono alla fine una specie di solco orizzontale che è detto appunto “solco di battente”).



“Visitando la grotta ed osservando le morfologie dei fenomeni abrasivi non si può che attribuire l’intero fenomeno ad un impetuoso corso d’acqua sotterraneo che la topografia attuale dei luoghi non lascia neppure immaginare. A conferma, né nella grotta né nei “solchi del battente” si evidenziano fenomeni biocarsici, cioè escavazioni di organismi animali marini come i litofagi, i chitoni, ecc. I fenomeni scambiati per marini trovano spiegazione nel fenomeno, meno diffuso e meno conosciuto, di fitocarsismo col quale viene definita l’azione corrosiva dell’acqua su rocche carbonatiche quando si combina, esaltata notevolmente nel rendimento, con l’azione biologica di vegetali inferiori quali le alghe ed altri microorganismi. Il fenomeno di fitocarsimo più conosciuto è la “vaschetta di corrosione”, molto diffusa nei rilievi calcarei del palermitano”.






Lo sviluppo della grotta, una galleria freatica, è ad andamento imbutiforme ed è molto modesto. La sua percorribilità s’arresta a circa 34 m, raggiunta la bocca di una piccola cavità, discendente, purtroppo interrata, che non raggiunge il metro di diametro, il cui aspetto fa pensare ad un sifone e non ad una semplice marmitta come tante se ne ritrovano al suolo e sul soffitto. L’eventuale disostruzione, se di sifone si tratta, garantirebbe alla grotta un ulteriore sviluppo attualmente non prevedibile.
Nella parte inziale della grotta,, su entrambi i lati, la roccia è affiorante, “levigata  dal vello degli animali; andando più avanti uno spesso strato di letame che si arresta solo ad una decina di metri dalla fine della galleria per dare posto alla roccia, ovunque presente, e qui s’incontra, concrezionato al suolo roccioso (F – figura superiore), un deposito granuloso giallastro”.
“Una coppia di marmitte, entrambe interrate, sono scavate nel fianco destro subito dopo l’ingresso; ad una dozzina di metri dalle prima un’altra marmitta è nel soffitto; altre marmitte si trovano nella parte terminale, sia al suolo che nel soffitto, ed un paio di queste ultime, per l’esiguo spessore del soffitto e per la probabile ostruzione del sifone, sono state sfondate dai vortici del corso d’acqua che da sotterraneo è qui ritornato a vedere la luce per affluire, dopo poche centinaia di metri, nel grande Belice”.
“Arrampicandosi per qualche metro su rocce facili si perviene sul dorso della collina costituito da un “tavolato carsico” con piccoli crepacci. Poco a valle dell’abbeveratoio menzionato si è in grado di cogliere una delle migliori sezioni geologiche. Essa è orientata NE-SW ed ha una pendenza di una trentina di gradi. Dal basso in alto:
-          Calcari bianchi del Lias Inferiore, formazione Inici;
-          Spessa crosta di Ferro-Manganese di circa 10 – 20 cm;
-          Calcilutiti con ammoniti del Giurassico Superiore;
-          Calcilutiti e marne con ciottoli;
-          Calcareniti glauconiche di Corleone, del Miocene Inferiore;
-          Marne di San Cipirello del Miocene Medio-Superiore (a valle della rotabile).
La grotta è scavata nel banco di calcari bianchi del Lias Inferiore. Nella parte centrale della grotta, dove il soffitto è più alto, fino a raggiungere in una marmitta l’altezza di 7 metri, appare la crosta nerastra di Ferro-Manganese”.

In merito alle testimonianze archeologiche, nella grotta furono rinvenute schegge di selce, di frustuli di terracotta ad impasto, un frammento di macina di quarzoarenite e anche un coprolite forse di iena. Tutti reperti rinvenuti percorrendo il talus della grotta e quindi indizi di una frequentazione del sito da parte dell’uomo in età preistorica ed ancora prima, molte decine di millenni orsono, da parte anche del feroce carnivoro.
La grotta appare svuotata del suo antico deposito e al suolo si ritrova uno spesso strato di letame.
“Nella tavola di roccia, nel lato sinistro dell’ingresso, s’individua una incisione lineare. Si tratta, purtroppo, di una semplice linea graffita nel duro calcare, così come in moltissime altre grotte della cuspide nord-occidentale della Sicilia e del resto della penisola alla Puglia alla Liguria. Di questi segni s’ignora ancora l’effettivo significato, tuttavia si è riusciti a datarle al Paleolitico Superiore finale – Mesolitico. Per quanto riguarda il loro significato non è da escludere un fine apotropaico nella considerazione che in tutti questi casi queste linee sono tracciate all’ingresso delle grotte”.
Il prof. Mannino con condivideva nei graffiti un significato “contabile”.
Sempre nei pressi dell’ingresso, alla profondità di una decina di centimetri, si rinvenne poi un frammento di corno di cervide e minuti frammenti d’ossa fortemente fossilizzate”.
“Furono effettuati dei sondaggi archeologici che non rilevarono alcuna stratificazione. In mancanza di questa stratificazione, il deposito che si sarebbe accumulato nella grotta in millenni di frequentazione di animali e uomini, risulta asportato”.
“Lo svuotamento oltre a causa dei pastori, nell’asportazione del letame,  oppure di tombaroli o ancora per trasporto d’acque che penetrano dall’apertura del tetto nella parte terminale di questo.
I dati desumibili dall’indagine possono così riassumersi:
-          La più antica frequentazione della grotta può farsi risalire al Pleistocene finale, ed è attestata da alcuni coproliti (di iena ?), da frammenti di corna di cervidi e da una settantina di frammenti di ossa varie, caratterizzate da un alto grado di fossilizzazione;
-          Al Paleolitico Finale-Mesolitico si può datare la piò antica presenza umana testimoniata soltanto dall’incisione lineare e dalle schegge di selce;
-          Di dubbia interpretazione sono una dozzina di frammenti “ad impasto”, senza altre caratteristiche, da definire preistorici-protostorici. A quest’ultimo periodo potrebbe farsi risalire un frammento di tavola fittile ed uno di vaso carenato decorato con un motivo a “V” sovrapposte che trovano confronti con la ceramica dell’abitato di Maranfusa;
-          La ceramica di “età storica” è presente con una cinquantina di frammenti di età imprecisabile, così come circa venti frammenti d’ossa e alcuni denti di capro-ovino;
-          Con termine “recente” definiamo infine alcune frammenti delle classiche pignatte di terracotta invetriate ed un frammento di piatto con superfice decorata ed invetriata.


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6.  ALTRE  ZONE ARCHEOLOGICHE ( Cenni)
a) “Pomo de Vegna” – La concentrazione di frammenti fittili, su un piccolo rilievo quotato 266 m,   
    sono indizi della presenza di un insediamento databile all’Età del Bronzo-Ferro;






a)      Contrada Muranna; in un’area di circa 600 mq, tra le Case Casalotto ed il Fiume Belice, furono rinvenuti abbondanti elementi d’industria litica Epigravettiana.

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7. PERIODO MEDIEVALE
Dopo l’abbandono del centro antico, il sito venne rioccupato in modo intensivo in epoca normanna quando il territorio di Calatrasi entrò a fare parte, per donazione di Guglielmo I, dei territori della Diocesi  di Santa Maria La Nuova di Monreale.
(Calatrasi  è il nome con cui nelle fonti e nei documenti medievali furono citati il territorio e il castello).
L’origine del castello nel periodo arabo non è molto sicura anche se in qualche documento è indicato un casale con l’appellativo di “Cataltaczarut”. Un termine presente in un diploma di donazione del 1093 del Conte Ruggero al vescovo della neofondata Diocesi di Mazara. Una donazione che fu confermata da papa Pasquale II nel 1100.

Nel 1150 Calatrasi fu citata dal geografo arabo Idrisi come “.. castello molto visibile (appariscente) e fortilizio primitivo e valido da farvi affidamento, ha terreni da seminare: il suo contado confina a settentrione con quel di Giato, ed a mezzogiorno con quel del castello di Qurliun (Corleone), dal quale Calatrasi è distante otto miglia circa”.
Alla fine dell’XI secolo (verso il 1095) il territorio di Calatrasi venne concesso in feudo alla famiglia dei Malconvenant che successivamente lo rimise nel potere sovrano di Guglielmo II nel 1162.

La Famiglia Malcovenant erano originari di Coutances
(oggi comune francese del Dipartimento della manica nella regione Bassa Normandia).
Scesero in Sicilia con  Normanni e furono signori di Calatrasi, Bisacquino, Racalmuto e Cellario.
Un documento del 1108 cita  che fu costruita ad Agrigento una chiesa dedicata a
Santa Margherita per volontà di Roberto Malconvenant, signore di Racalmuto mentre un
Gilberto Malconvenant s’impegnò a dotarla di rendite e beni.  Fu questo il primo
documento in cui venne citata la famiglia.
Lo stesso Roberto Malconvenant nel 113 presenziò ad un atto dell’arcivescovo di
Palermo, Gualtiero Offamilio.
Tra il 1183 ed il 1203 è documentato Guglielmo Malconvenant che ricevette
il titolo di “amiratus” del regno di Sicilia dopo aver servito Guglielmo II di Sicilia come “regie curie magister justiciarius” almeno dal maggio 1183 fino a gennaio 1186. Sposò in prime nozze Margherita de Luci, figlia del conte normanno Bartolomeo de Luci che era imparentato con gli Altavilla. Alla morte del suocero diventò Conte di Butera.



Chateau de Gratot, a 4 km circa da Coutances


GIARDINI DI COUTANCES







La famiglia Malconvenant tenne il feudo ed il castello di Calatrasi, “con undici miles” fino al 1162 quando ritornò al regio Demanio sotto la reggenza di Guglielmo II.
Giovanni Malconvenant (“male convencionis”) non potè fare fronte al dovere di prestare il servizio di “undici miles” per cui dovette restituire il castello con il casale.
Per ricompensare la perdita del feudo di Calatrasi, nello stesso anno Guglielmo II concesse alla famiglia il feudo di Cellaro. Una concessione data a Giovanni Malconvenant che in quell’occasione fu anche nominato cavaliere.
C’è da aggiungere che fino al 1196 appartenne alla famiglia anche il Casale di Curbici.

Nel 1176 il feudo di Calatrasi venne assegnato, per volontà di Guglielmo II, alla Chiesa di Santa Maria la Nuova di Monreale con annesso monastero benedettino.. Alla chiesa di Monreale furono anche assegnate altre località, Giato e Corleone, tutte indicate da Idrisi.  Un vasto territorio che venne descritto in una pergamena redatta nel 1178 (giarida o platea) che riportava “gli uomini del registro” appartenenti al territorio assegnato al Monastero di Monreale.
Con il termina di “giarida” o “platea” s’intende una speciale carta pubblica contenente descrizioni territoriali ed elenchi nominativi dei servi e dei villani di una data terra o casale appartenti al Demanio regio o concessi a chiese, monasteri, vescovati e feudatari.
I nomi furono rilevati dai “dafar al-diwan al-ma’mur “ o dalle antiche “platee” e i componenti della “famiglia” di Calatrasi erano 373 a cui si aggiungevano “52 degli ammogliati di essi e dei loro fratelli”.

Al monastero vennero concessi anche dei privilegi e delle immunità.
Nello stesso anno il Vescovo di Mazara rinunziò a qualunque diritto sul “municipium Calatrasi” cedendo il possesso al monastero di Santa Maria La Nuova di Monreale.
Nel 1182 venne confermata la “giarida” o “platea”. Un documento che era un vasto polittico che riportava la descrizione dettagliata dei confini delle terre e dei casali concessi dal re (sempre Guglielmo II) alla Chiesa di Monreale. Nel documento fu riportata anche la “divisa” di Calatrasi.
Nel 1183 lo stesso Guglielmo II emanò un ordine affinchè “nel solo territorio appartenente alla chiesa di Monreale, sulle terre occupate, rimangano coloni e borghesi anche se appartenenti ad altre terre”. In conseguenza di questo nuovo ordine venne rilasciata una nuova “platea” dove “nel territorio di Calatrasi e nei suoi casali sono presenti 20 coloni”.
Papa Lucio III confermerà queste donazioni con una bolla papale del 1183.

ATTO DI FONDAZIONE DI S. MARIA LA NOVA DI MONREALE (CATTEDRALE)

REGESTO NEL QUALE VENGONO DESCRITTI I CONFINI E I
POSSEDIMENTI CONCESSI ALLA DIOCESI DI MONREALE NEL 1182

REGESTO IN CUI IL VESCOVO DI MAZARA RINUNCIA AI  DIRITTI
EPISCOPALI SULLE  TERRE DI IATO  E  CALATRASI (1176)

REGESTO IN CUI IL VESCOVO DI MAZARA RINUNCIA AI DIRITTI
EPISCOPALI SULLE TERRE DI  IATO E CALATRASI (1182)



Nel 1203 il papa Innocenzo III indirizzò una lettera ai monaci di Monreale accusandoli, con toni accessi, di essersi ribellati al loro arcivescovo  Caro (O.S.B. – Ordo Sancti Benedicti – Ordine Benedettino), di aver stretto alleanza con Guglielmo Capparono e di essersi impossessati dei castelli di Giato e Calatrasi,…”commettendo scelleratezze di ogni tipo e vivendo in lussuria”.
Le vicende relative alla rivolta dei monaci sono state raccontante attraverso  uno studio di Francesca Spatafora:
«In una lettera del pontefice Innocenzo III redatta nel 1202 si legge di una rivolta di monaci di Monreale i quali, con mezzi brutali, si erano impadroniti del castello e del territorio della chiesa. Inoltre, in connivenza prima con Gualtiero di Pagliara, vescovo troiano e cancelliere del Regno di Sicilia, poi con Marcovaldo di Anweiler, marchese anconitano e conte romagnolo, avevano tentato di prendere prigioniero lo stesso arcivescovo di Monreale; non avendo raggiunto lo scopo, con l’aiuto di Guglielmo Capparono, venuto in Sicilia al seguito di Enrico VI e passato dalla loro parte per denaro, avevano torturato e mutilato gli uomini fedeli alla chiesa (…). Nel 1203 Innocenzo III inviava una lettera ai monaci di Monreale accusandoli apertamente di essersi ribellati al loro arcivescovo, di avere stretto alleanza con Guglielmo Capparono e di essersi impadroniti dei castelli di Giato e Calatrasi, commettendo scelleratezze di ogni tipo e vivendo nella lussuria».
La gravità dell’episodio fu sottolineata proprio dall’intervento diretto del papa affinchè il castello venga restituito.
Ma chi erano Marcovaldo di Anweiler e soprattutto Guglielmo Capparono ?
 Entriamo in una pagina di storia del Regno di Sicilia sconosciuta perché raramente riportata nei libri di testo.
Il primo nome riporta alla mente una collana di libri per ragazzi pubblicata da Einaudi nel 1963. Si trattava di una serie di racconti “Marcovaldo ovvero le stagioni in città”  incentrati sul personaggio Marcovaldo, un magazziniere ingenuo e buono, che viveva in un ambiente urbano e moderno. Il protagonista provava però una grande nostalgia per il mondo della natura. Nei racconti si unirono aspetti fiabeschi ed ironici e vennero affrontati temi e problemi che ancora oggi si potrebbero definire attuali: la vita caotica in città, l’urbanizzazione senza razionalità ed ordine, l’industrializzazione con le sue minacce, la povertà delle fasce più basse della popolazione, la difficoltà dei rapporti umani ed interpersonali. Un libro che fu presentato nelle scuole per permettere ai ragazzi una lettura sui temi della vita contemporanea, trattati con spirito pungente e senza retorica, per invitarli ad una costante riflessione.

Il personaggio storico è invece Marcovaldo (Marquardo) di Annweiler, un importante ministro dell’epoca sveva che riuscì ad avere un suo spazio politico. Della famiglia d’origine non si sa molto. Forse proprietaria di alcuni terreni nei territori del medio corso del Reno e anche il riferimento alla cittadina di Annweiler  (am Trifels) non è chiaro.
La sua vertiginosa carriera politica ebbe inizio alle dipendenze di Enrico VI, figlio dell’Imperatore Federico I Barbarossa, quando nel settembre 1185 diventò suo scalco (dapifer regis)(servitore imperiale o addetto alla sicurezza).
Marcovaldo partecipò con Federico I Barbarossa alla terza crociata dove si distinse sia in campo militare sia come ambasciatore  presso la corte imperiale bizantina.
Nel 1192 rientrò in Italia gravitando sempre nell’orbita di Enrico VI che nel frattempo era diventato imperatore.
Nel 1194 riuscì ad ottenere per l’imperatore Enrico VI l’appoggio di Genova per la spedizione di conquista del Regno di Sicilia. Durante questa campagna militare fu comandante supremo della flotta genovese e pisana contribuendo in modo determinante al successo dell’impresa.
Dall’imperatore ricevette il ducato di Ravenna (con la Romagna) e anche la città di Ancona. Ottenne anche la libertà personale (Libertate donavit) cioè l’unico caso noto di esonero ministeriale avvenuto in epoca sveva.
Nell’autunno del 1195 gli furono concesse prima la Contea dell’Abruzzo e l’anno successivo quella del Molise (con le Marche).
Nel maggio-giugno 1197 soffocò in Sicilia, insieme al maresciallo Enrico di Kalden, la rivolta contro l’imperatore.  Sembra che in punto di morte Enrico VI (morì il 28 settembre 1197) affidò al Marcovaldo il suo testamento. Testamento che fu poi rinvenuto dalle truppe pontificie nelle salmerie di Marcovaldo sul campo di battaglia di Monreale nel 1200. Le disposizioni contenute nel testamento sembra che lo invitassero a delle trattative con il papa per tutelare gli interessi del piccolo Federico nella successione.
L’imperatrice Costanza, dopo la morte del marito, espulse senza alcun indugio Marcovaldo e tutti i tedeschi del regno e pretese che “s’impegnassero sotto giuramento a non rientrarvi mai più senza il suo consenso”.
I tedeschi più in vista si assoggettarono alle direttive dell’Imperatrice anche per non perdere i propri possedimenti nell’Italia Centrale. Marcovaldo  e qualche altro principe tedesco nel frattempo non riuscirono ad opporsi alla politica del papa Innocenzo III rivolta a recuperare i territori che gli erano stati sottratti nell’Italia centrale.
Si sparse la voce di un ritorno di Marcovaldo in Sicilia e Costanza, nell’autunno del 1198, lo dichiarò “nemico dell’Impero e vietò qualsiasi contatto con lui”.
Tra il 1198 ed il 1199, dopo la morte “subitanea” dell’Imperatrice, nell’ottobre del 1199 sbarcò in Sicilia e sempre basandosi sul presunto testamento di Enrico VI, rivendicò il diritto di assumere la reggenza affiancando l’erede al trono Federico, ancora minorenne.
Costanza nel suo testamento aveva invece affidato il “balium Regni” al pontefice.

I principi favorevoli alla casata Sveva riconobbero Marcovaldo come reggente imperiale (procurator Regni Siciliae) e quindi  valida figura per il mantenimento dell’unione del Regno all’Impero.
Il pontefice accusò il Marcovaldo di ambizioni personali sulla corona del Regno di Sicilia e giunse addirittura a proclamare che “questo nemico di Dio e della Chiesa e persecutore del Regno aveva definito Federico un figlio presunto”.
La situazione era molto tesa e la campagna di propaganda ostile orchestrata dal papa non s’allentò vedendo in Marcovaldo il nemico più pericoloso. Lo stesso papa cercò di sobillare contro di lui anche i saraceni di Sicilia. Il Marcovaldo con abili azioni militari riuscì a conquistare consistenti territori dell’isola, ma nel 1200 subì due pesanti sconfitte dall’esercito pontificio, a Monreale e a Randazzo. A Monreale nella fuga lasciò i suoi effetti personali tra cui il testamento di Enrico VI.
Alla fine dell’anno il cancelliere Gualtiero di Palearia, ammise il Marcovaldo al “Colleggio dei Familiari” (governo composto da alti prelati e dallo stesso Gualtiero). Questa iniziativa portò alla definitiva rottura con il papa. Il piccolo Federico, suo malgrado, si trovò convolto in questa triste situazione politica.
Il controllo del fanciullo fu affidata ad un fratello di Gualtiero, il Conte Gentile  di Manopello.  Alla fine del 1201 Marcovaldo s’impadronì di Palermo e catturò il piccolo Federico… un testimone oculare riportò la drammatica consegna del bambino.
Federico ebbe una violenta reazione al sequestro “che lo portò a ferirsi e a stracciarsi le vesti”.
Alcuni storici riportano che sia riuscito anche a fuggire per vagabondare per le strade di Palermo, per i vicoli del Cassero, a farsi degli amici alla Kalsa ed alla Vucciria, a provare la fame per giorni.
Una vita non da re nel periodo tra il 1202 ed il 1206.
In realtà questa visione di Federico II vagabondo è legata alla fantasia di diversi autori moderni anche se si rifacevano alle notizie, secondo la critica storica, non attendibili riportate nel “Breve Chronicon de rebus Siculis” dove in modo esplicito si rileva che “Federico abbia sofferto la fame, avrebbe vagato per le strade di Palermo ricevendo il sostentamento dei sudditi”.
Un aspetto è però veritiero perché il giovane vide il popolino alle prese con la miseria ed i tedeschi di Marcovaldo rubare e dilapidare ogni ricchezza. Esperienze, visioni, che influirono sulla sua formazione spirituale in modopositivo perché faranno di lui uno degli imperatori più amati della storia ed ancora oggi vivo e presente nella cattedrale di Palermo.

Il nuovo arcivescovo di Palermo, Gualtieri della Pagliara,  giunse ad un accordo con il Marcovaldo a danno di Federico nella divisione del potere sui territori dell’arcidiocesi. Entrambi ricevettero la scomunica papale
Il Marcovaldo con quest’azione diventò padrone dell’isola ma a settembre del 1202,  al culmine dei suoi successi, morì di dissenteria a Patti. Le cronache riportano che soffrisse di calcolosi renale e fu proprio uno di questi calcoli che gli provocò un blocco renale che lo portò alla morte nel settembre o dicembre del 1202.


Marcovaldo di Annweiler in un'illustrazione del
Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli.

Guglielmo Capparone, fu anche lui un condottiero tedesco venuto in Sicilia al seguito dell’Imperatore Enrico VI. Nel 1197 era presente in Sicilia e al servizio di Marcovaldo di Annwiler. Quando il Marcovaldo morì, il Capparone si precipitò a Palermo e con l’appoggio dei Pisani riuscì ad occupare il Palazzo Reale e a catturare il giovane Federico  che rimase in suo potere dal 1202 al 1206.
Nel dicembre del 1202 emanò, a nome del re Federico, dei diplomi  “Guillelmus regis custos et magister capitaneus Sicilie” mentre papa Innocenzo III gli diede la scomunica.
In seguito s’accordò con il papa giurando di rispettare la tutela del pontefice sul giovane Federico. Il governo dell’isola passò al cardinale Gerardo Allucingoli cioè un rappresentante del pontefice.
La mancata intesa tra il cancelliere del Regno di Sicilia, Gualterio di Palearia, e lo stesso Guglielmo, costrinse il cardinale a ritirarsi a Messina.
Nel novembre 1206 il conte Diopoldo di Acerra costrinse Guglielmo a consegnarli il giovane Federico affidandolo a Gualtiero di Palearia. Il Guglielmo rimase a capo del partito filoimperiale in Sicilia  dove morì verso il 1208.
Diopoldo di Acerra consegnò Federico II al vescovo di Troia, Gualtieri di Palearia, che come abbiamo visto, era cancelliere del regno. Diopoldo venne scomunicato dal papa ed entrò in conflitto con il cancelliere che lo fece catturare. Riuscì a fuggire  verso Salerno infliggendo agli inseguitori una pesante sconfitta.
Nel 1209 Ottone IV di Brunswick lo nominò “magister capitaneus totius Apuliae et Terre Laboris”. Quando  Ottone ricevette la corona imperiale s’incontrarono a Pisa e Diopoldo convinse l’imperatore ad occupare il Regno di Sicilia, ma le cose andarono diversamente perché Ottone fu destituito e Federico II fu nominato Re dei Romani e poi Imperatore. Diopoldo fu catturato e tenuto prigioniero in Germania (1218) e nel 1221 fu liberato  per unirsi ai cavalieri Teutonici ma di lui si persero le tracce.
In merito a Federico II nel periodo in cui fu sotto la “custodia” del Capparone c’è una lettera inviata dal pontefice allo stesso Capparone in cui “esprimeva la propria gioia  per il fatto che crescesse costantemente sia in età sia in sapienza e capacità”. Il papa era informato di continuo sugli avvenimenti palermitani grazie a Tommaso da Gaeta, giustiziere di Corte, molto stimato dalla Curia Pontificia. Tommaso da Gaeta nell’autunno del 1204 si trovava a Roma come inviato di Guglielmo Capparone. Nel 1206 il papa Innocenzo III scrisse direttamente a Federico II mostrandosi molto contento del fatto che “avvicinandosi all’età della pubertà, crescesse così bene e per le sue virtù e la sua sapienza apparisse davanti a Dio e agli uomini molto più maturo di quanto la sua età lasciasse presagire”.
Il castello di Calatrasi fu occupato dai musulmani ribelli  e nel 1222 fu definitivamente occupato e liberato dalle truppe dell’imperatore Federico II.
Questo avvenimento è datato “Calatrasi 10 settembre 1222” e fu riportato in un documento di Federico II che aveva liberato definitamente la roccaforte dai musulmani ribelli e da quel luogo espletava la sua corrispondenza diplomatica.
Nella prima metà del XIV secolo il castello fu nominato tra le rocche esistenti in Sicilia e nel 1348 il territorio fu dato dall’arcivescovo di Monreale  in affitto al “nobilis Goffridonio de Alemanna”. Il casale era ancora esistente .
Nel 1351 il “fortelicium Calatrasi” era diventato un covo di “latrones”.
Nel 1374 – 77 Manfredi III Chiaramonte aggiunse il castello ai suoi numerosi feudi. Un possesso solo temporaneo dato che nel 1392 il castello con il feudo vennero restituiti dal re Martino I alla Chiesa di Monreale.
 Verso la fine del XIV secolo iniziò lo stato di decadenza del castello. A quell’epoca il castello è ricordato con i castelli di Giato e Corleone e nel 1395 un Francesco Morana da Monte San Giuliano fu nominato castellano di Calatares.
 Nel 1398, Martino il Giovane, dando nuove disposizioni sull’utilizzazioni dei forti redditi della chiesa di Monreale, destinò alcune somme al pagamento delle provisioni (vettovaglie) dei castelli di Monreale, Patellaro e Calatrasi.
Nel 1432 il castello doveva essere ancora in condizioni discrete dato che vi si fermò per qualche giorno Alfonso il Magnanimo durante una battuta di caccia.
Nel 1458 era già in precarie condizioni strutturali anche se aveva un suo castellano, un tale Gracianu Marju contro il quale venne emesso un ordine a procedere perchè dedito, insieme ad altri, a derubare ed uccidere.
 Nel 1558  il Fazello lo descriveva ormai in rovina.


8. NEL CASTELLO UNA PREESISTENZA ARABA ?
La fase araba è documentata solo da pochi frammenti rinvenuti in superficie o in alcuni  strati di riempimento. Al periodo svevo, cioè nella fase in cui il castello fu occupato da ribelli musulmani, sono riferite le sepolture nei campi A e G dell’antico centro indigeno. Rinvenimenti che testimoniano una certa presenza musulmana.


Sepoltura Islamica

campo A dove furono rinvenute le sepolture Islamiche

Sono semplici fosse, orientate in senso Est-Ovest, di pianta rettangolare piuttosto irregolare, arrotondate sui lati brevi e caratterizzate, a volte, da una copertura a lastre accostate poste orizzontalmente o obliquamente.
Le caratteristiche di giacitura dei corpi sono omogenee e tipiche della tradizione islamica. I corpi sono tutti appoggiati sul fianco destro con il capo rivolto ad Ovest ed il voto rivolto a sud; le gambe leggermente flesse e le braccia distese lungo il corpo. Le analisi al C14 e il risultati delle indagini antropologiche evidenziarono importanti aspetti. L’appartenenza dei corpi a tipologie berbere e mostrano forti patologie carenziali da attribuire a deficit nutrizionali mentre per la datazione  i risultati farebbero collocare le sepolture all’età sveva. Il castello di Calatrasi, insieme ai castelli di Iato ed Entella, fu una roccaforte dei musulmani ribelli prima della loro cacciata  dalla Sicilia avvenuta nel 1246.

Roccaforti dei Musulmani ribelli

Monte Iato

Monte Iato – Resti del Castello – La Porta Araba

Castello di Entella


9. STRUTTURA ARCHITETTONICA
Il castello è posto sulla cima orientale del monte cioè su quella parte più inaccessibile e naturalmente fortificata e sovrasta un ampio pianoro nord-orientale dell’altura in cui doveva trovarsi il villaggio d’età normanna.





Posto sulla cima sud-orientale del monte con i versanti sud-orientale e sud-occidentale molto scoscesi quasi a precipizio.
Dal sito si domina tuttala vallata del Belice Destro e il Ponte di Calatrasi che all’epoca costituiva forse l’unico attraversamento del fiume, più vicino al castello. Dal monte sono visibili i castelli del lato Nord, di Montagna Vecchia (ad est) e di Entella a Sud.
L’edificio seguiva nella sua planimetria l’orografia accidentata del rilievo e s’integrava perfettamente con le ripide e scoscese pareti che circondano l’altipiano alto 487 m s.l.m.
Le ricerche archeologiche hanno permesso di mettere in rilievo come l’edificio abbia subito nel corso dei secoli molte distruzioni e rifacimenti.





Il complesso edilizio occupa una superficie di circa 1000 mq con un perimetro circa 120 m. La parte sommitale doveva costituire una valida difesa militare fornita di torrioni ed ambienti che si disponevano attorno ad una corte centrale aperta.
Le mura che cingevano l’area del castello furono elevate direttamente sulla roccia e anche il percorso d’accesso fu ricavato adattandosi all’orografia del terreno attraverso un sentiero costituito da numerosi tornanti.
Una piccola torre controllava il percorso in salita e probabilmente anche la zona sottostante cinta da un muro largo oltre due metri.





Probabilmente all’inizio assieme al recinto sorsero i due torrioni di NO e NE che delimitano l’ingresso, e quello di SE, al cui interno si trova una cisterna con copertura a volta e fondo costituito dalla roccia lavorata e ricoperta da uno strato di malta idraulica.
Successivamente furono realizzati i due ambienti voltati adiacenti al torrione di NO e i vani di servizio costruiti a ridosso del muro di cita orientale.
L’ultima fase edilizia vide la costruzione di ambienti addossati al muro  di cinta occidentale.
Il materiale archeologico raccolto del corso delle indagini non ha permesso di costruire le diverse fasi costruttive del complesso.
Si tratta di pochi frammenti ceramici databili tra il XII ed il XIV secolo che furono raccolti all’interno di riempimenti cioè di depositi di rifiuti.


10. IL  PONTE  CALATRASI

A meno di un chilometro a sud-ovest di Monte Maranfusa, sul fiume Belice Destro, sorge il Ponte di Calatrasi che fu realizzato in epoca normanna, verso il 1170,con la caratteristica forma a schiena d’asino, ad una luce con grande arco a sesto acuto e a doppia ghiera.


A Sud del Ponte, lungo la sponda destra del fiume, sono presenti i ruderi di un mulino la cui ultima fase di produzione si attesta alla metà circa del Novecento. Nello stesso periodo erano attivi altri due impianti denominati Malvello e Rosamarina.





Fra le strutture ancora visibili alcune sono riferibili a probabili preesistenze come un arco a sesto acuto, realizzato con blocchi di calcarenite bianca compatta, in parte tagliato dalla torre dell’acqua  che è invece costruita in pietra di colore ocra scuro. L’arco sembra collegato a una struttura muraria, rinvenuta durante gli scavi, a cui risultavano associati pochi frammenti di parti d’anfore o brocche con superficie segnata da solchi di tornitura e databili tra il XII ed il XIII secolo.



La torre d’acqua è costituita da una struttura a pianta quadra con un sistema di gradoni restringenti verso l’alto, alla cui base era collocata la macchina che, alimentata dalla cascata d’acqua, assicurava la rotazione continua della macina e, attraverso un cinghia, dell’ingranaggio per il lavaggio del grano.
In asse con la torre e con la macina correva, al di sotto del livello pavimentale, un ampio canale di scarico che, attraverso un arco aperto sul prospetto meridionale, assicurava la smaltimento dell’acqua dopo il ciclo lavorativo.
Da qui, attraverso un sistema di canalizzazioni scavato nel banco roccioso, alternato ad un
sistema di vasche, l'acqua tornava al fiume.

La leggenda vuole che il ponte sia stato costruito dagli spiriti, chiamati Fati. Come afferma il Pitrè..” i Fati lo costruirono in una notte, non riuscirono a fare le ringhiere. In più occasioni gli abitanti hanno cercato di alzare i parapetti, ma in ogni occasione i fari, o secondo altri, i diavoli, li hanno abbattuti”.
Altre leggende sul magnifico ponte come quella del “granchio d’oro” e della “fata Faranfusa”.
In merito al “granchio d’oro” è sempre il Pitrè  a rilevare che “il Ponte di Calatrasi è così stretto che appena uno per volta i viandanti possono passarvi sopra. Un’enorme granchio d’oro appare di tanto in tanto ai viandanti, i quali tentano di acchiapparlo perché quell’animale è pronto a ritirarsi”.















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11. Prodotto Tipico - Il Melone Giallo  di Roccamena



Liquore al Melone Giallo  di Maranfusa

Nel Mese di Agosto

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