CASTELLO DI CALATUBO (Alcamo) .. Un raro esempio di fortificazione…..in abbandono…




1.      Ubicazione



Il castello di Calatubo si trova su una cresta rocciosa nel territorio di Alcamo da cui dista circa 6 km.
Dal sito si domina il golfo di Castellamare ed il vasto entroterra fino al Monte Bonifato (posto alla periferia di Alcamo e sul quale sorge il serbatoio comunale).
Alle pendici dell’altura, lungo il versante orientale si trova il torrente Calatubo (detto anche Finocchio) che sfocia  a mare ad una distanza di circa 3 km dalla rocca.



(in puntini neri e amaranto è indicata la Regia Strada verso la costa)




2.      Etimologia



Il termine “Calatubo” deriva dall’arabo “Qul ‘at’ awbi” (Kalat et tub) ( “Terra di tufo”).   

 3. Storia - Il Sito Archeologico e la prima citazione  di Catalubo

Le origini  del castello sono antiche anche se non si può affermare a che periodo risalga la costruzione originaria.
Il sito presenta delle importante testimonianze archeologiche con resti di un villaggio elimo e relativa necropoli. La posizione del sito vicino ad importanti vie di comunicazione, la ricchezza del territorio e la sua vicinanza al mare, favorirono l’insediamento di comunità sin dal periodo arcaico..
Nell’area antistante l’ingresso del castello furono rinvenute, in modo accidentale, delle tombe pertinenti ad una vasta necropoli che restituirono dell’importante materiale ceramico databile tra il VII ed il V secolo a.C.
La necropoli doveva essere collegata ad un abitato del quale sono ancora incerte sia l’ubicazione che l’identificazione.
Furono rinvenuti numerosi frammenti ceramici pertinenti alla necropoli messi in luce dagli aratri meccanici del contadini e dagli scavatori guidati da ricercatori clandestini. Le tombe erano ad incinerazione e ad inumazione collettive dentro camerette costruite con blocchetti di pietra calcarea oltre che sepolture dentro phitoi.
L’archeologo Giustolici V. pose l’abitato nelle vicinanze della necropoli e cioè nell’area antistante l’ingresso del castello. La documentazione archeologica manca dalla seconda metà del III secolo a.C. alla prima guerra punica.
Con indagini recenti fu rinvenuto anche del materiale databile al I - II secolo d.C.  a dimostrazione che il villaggio fu probabilmente nuovamente abitato o comunque non era in completo abbandono. Un sito danneggiato dai tombaroli e sul quale si è cercato di dare una identificazione. Con molta cautela da parte degli studiosi si è proposta l’ipotesi che il sito possa essere uno dei tre piccoli centri che gravitavano attorno a Segesta e noti attraversi i riferimenti di Diodoro Siculo, storico del I secolo a.C.: Ilarus, Tyrittus, Ascelus.

Il primo documento che attesta l’esistenza di Calatubo è il diploma di fondazione della diocesi di Mazara del 1093, con l’affidamento del seggio vescovile ad un certo Stephanus,  dove fra i suoi possedimenti è riportato anche “Calatub cum omnibus suis pertinentiis”.
Il diploma  fu riportato nella trascrizione di un transunto del 1578 che fu  fatto redigere per ordine del vescovo Ugo Papè nel 1782.

4. Citazione di Idrisi
Il geografo Arabo Idrisi (1154) nella sua rappresentazione cartografica del mondo, evidenziò l’importanza di “Qal’ at’ Awbi” in età normanna. Il territorio comprendeva il castello e un “paese grande”. L’area lambita ad est da un fiume navigabile (il fiume Calatubo o Finocchio), accoglieva anche un “caricatore”, approdo per il trasporto dei cereali provenienti dal vasto feudo. Inoltre, un ulteriore fonte di ricchezza era legata alla stessa natura geologica  della roccia del sito che permetteva di cavare pietra da mola per mulini “persiani”.
“Calatubo è valida fortezza e paese grande, [provveduto] di territorio vasto, buono da seminare
e molto produttivo. E‟ situato a quattro miglia a un di presso dal mare; ha un porto dove si viene a caricar di molto frumento al par che delle altre granaglie. Giace in questo luogo una cava di pietra molare da acqua e di [pietra molare] persiana. Calatubo scostasi da Al Hammah (le acque termali, Bagni Segestani) per dieci miglia; e per dodici da B.rt.nìq (comune di Partinico)… da Calatubo ad Alqamah (comune di Alcamo) un miglio arabico e mezzo…Da Castellammare a Calatubo.. [corron] tre miglia franche ; da Calatubo a Partinico..tre miglia franche...Di qui (la spiaggia sotto Partinico) al fiume di Calatubo cinque miglia”
(Uno dei primi esempi di mulino dove l’acqua veniva raccolta in una prima vasca. Da qui precipitava in una vasca inferiore generando  un flusso d’acqua costante e soprattutto sufficiente a fare muovere la ruota alla quale erano collegate le mole.  La ruota inferiore “farsium” (dall’arabo fars) era fissa, mentre l’altra ruota ruotando sulla prima macinava il grano. Un sistema documentato anche in Andalusia).
Idrisi descriveva il territorio con un castello ed un grande paese. Qualifica Calatubo con il termine arabo “Hisn” che sta a significare o indicare “un abitato di dimensioni e importanza amministrativa ragguardevole con accento sempre sul suo posto fortificato”.
Quindi “Hisn” è un termine che fu impiegato per indicare la “Terra” come abitato mentre con il termine “Qal’a”  si alludeva alla fortificazione che non sempre, nella topografia storica siciliana, era accompagnata da un abitato vero e proprio.
Dell’abitato medievale riferito da Idrisi non rimane alcuna traccia anche se in alcune zone a nord del castello ci sono delle strutture che potrebbero essere pertinenti a quell’epoca come la “Cuba delle Rose”.
Sempre nell’area prospiciente l’ingresso del castello fu rinvenuto abbondante materiale ceramico databile tra l’XI ed il XIII secolo. Frammenti che furono affidati alla Soprintendenza di Trapani accompagnati da un elenco redatto dal dott. Sergio Aiosa.



5.      Citazione di Ibn Giubayr (1184)

Ibn Jubayr, Abù I-Husayn Muhammad ibn Ahmad al-Kinani (Valencia,1145 – Alessandria d’Egitto, 1217)  era un viaggiatore, poeta arabi-andaluso e un grande studioso di scienze religiose e letteratura. Diventò funzionario dei “Wali” di Granada e in seguito ad un improvvisa crisi religiosa decise d’intraprendere un viaggio alla volta di Mecca per poter adempiere al hajj. Partì dunque da Granada nel 1183 e nel suo viaggio di ritorno nel 1184 fece naufragio con la nave nello Stretto di Messina. si fermò nell’isola  sino al febbraio del 1185.


Nei suoi racconti di viaggio riportò anche i momenti della sua permanenza in Sicilia, descrivendo sia i luoghi attraversati che il clima sociale e politico del Regno al momento sotto la dominazione normanna. Saltò in particolare l’intelligenza e la tolleranza del sovrano del tempo, Guglielmo II il Buono.
Riportò anche il suo viaggio da Palermo a Trapani descrivendo il territorio attraversato:
“Noi percorrevamo un seguito non interrotto di villaggi e di masserie e vedevamo de‟ colti e de‟ seminati che mai non ci erano occorsi terreni sì fertili, sì generosi e sì vasti: onde li paragonammo a que‟ della campania di Cordova, se pur questi [di Sicilia] non son più feraci e più forti. Ci riposammo in viaggio, per una sola notte, in un paese che si addimanda Alqamah (Alcamo): grande, opulento, [provveduto di] un mercato e di moschee; essendo tutti musulmani gli abitatori di esso, al par che quelli delle masserie che giacciono su
questa strada. Ci partimmo d'Alcamo a punta di giorno, il ventitré di questo santo mese e ventinove
dicembre. Dopo un breve tratto di via, passammo presso il castello detto Hisn al Hammah (il castello dell'acqua termale), grosso paese con molti bagni. Iddio ha fatto qui scaturire delle polle dal suolo e le ha fatte correre con tali elementi che il corpo umano le soffre a mala pena; sì forte né il calore. Passando accanto ad una di queste sorgenti che [occorre] su la strada, smontammo di cavallo e ci ricreammo con un bagno”.
È probabile che nel suo viaggio da Palermo a Trapani prese una via interna passando per Calatubo ed Alcamo per poi raggiungere le Terme Segestane ripercorrendo lo stesso itinerario di Idrisi. Nelle suo note di viaggio non elencò i nomi dei villaggi e delle masserie  attraversate che dovevano essere numerosi dato che riportò nelle sue note che “lungo il viaggio si presentarono un seguito ininterrotto di villaggi e masserie”.
Siamo alla fine del XII secolo e  Giubayr riportò come gli abitanti di Alqamah (Alcamo) erano “tutti Musulmani come quelli delle masserie e dei villaggi incontrati in questo tragitto”.

San Giovanni degli Eremiti – Palermo

Ibn Giubayr

6      Altre Citazioni (T. Fazello, V.Amico, Maurici, ecc...)

Secondo lo studioso Ferdinando Maurici  il castello di Calatubo era di origini  musulmana.
Il Fazello riferì che ““Calatubo, un tempo abitato dai Saracini, ora conosciuto soltanto per la
rocca e i ruderi, si trova verso il mare a mille passi da Alcamo”.
Giovanni Andrea Massa ..“Calatubo, già Terra, hoggi resta solamente il Castello di nome Saracino” …“Vallone col Torrente di Calatuvo è senz‟acqua ne‟ tempi estivi; entrandosi per due miglia dentro terra, si ritrova sul rialto di elevata Collina il Castello della medesima appellaggione, lavorio de‟Saracini”.
L’abate Vito Maria Amico ……“Castello, e da gran tempo casale, non lungi da Alcamo, verso Settentrione, appellato da Pirri, Calato, compreso nella diocesi di Mazzara, e mentovato nei diplomi del Conte Ruggiero e di Papa Pasquale II, in cui se ne descrivono i confini”.
Ignazio De Blasi …”Pur essendo nel territorio di Alcamo, il “feudo nobile detto di Calattubo col suo mero e misto Impero, colla sua antica Saracena Fortezza che oggi esiste, da esso è segregato. Vi fu anticamente l’abitazione d’una Terra; ma oggi in luogo di essa non si vede altro che l’anzidetto antico Castello”.



7.      Storia del Castello

Le notizie riportate nel paragrafo potrebbero rendere la lettura piuttosto “pesante”. Sono notizie che servono a dare un identità al castello con il susseguirsi di eventi, di feudatari e personaggi che si sono avvicendati nella proprietà. Una ricerca lunga e difficoltosa perché le fonti non sono numerose.  Un monumento potrebbe avere una sua bellezza perché immerso in un ambiente ricco di aspetti paesaggistici e naturalistici o ancora per la sua architettura ma senza storia è un opera “morta” che non riesce a comunicare nulla. Sì sono belle pietre messe in un certo ordine per conferire alla struttura una sua valenza estetica ma alla fine, senza storia, non riescono a comunicare nulla rimangono solo delle fredde pietre anche se lavorate dalla mano dell’uomo.

Ultime indagini sulle strutture del castello hanno datato ad epoca normanna l’impianto originario
del fortilizio, ma senza escludere una possibile fase antecedente musulmana.

1093 -  il diploma con il quale Ruggero il Gran Conte fondò la Cattedrale ed il Vescovado di Mazara nel 1093, nel quale, fra gli altri possedimenti, si citava anche “Calatub cum omnibus suis pertinentis”. Calatubo è fra le Civitates et Castra, ossia, fra gli abitati principali compresi nei confini della nascente Diocesi. Il Diploma fu reso noto, verso la metà del XVII secolo, dall’Abate Rocco Pirri;

1100 - Papa Pasquale II con “Breve Apostolico” del 15 Ottobre 1100 confermò “Calathabubi cum suis” al Vescovo benedettino Stefano di Rouen consanguineo del gran conte Ruggero I;

Stefano di Rouen fu monaco benedettino presso l’abbazia di Notre Dame du Bec e
autore del poema “Draco Normannicus”. Un poema che riporto gli avvenimenti storici
dall’XI secolo al 1169 (anno della sua morte).


1144 - Ruggero II, nel Marzo 1144, riconfermò al Vescovo di Mazara, Oberto, il Privilegio concesso dal padre Ruggero I nel 1093. “confirmantes omnia quae in privilegio ejusdem genitoris nostri facto eidem ecclesje vidimus contineri”;
1154 - Calatubo ( Qal at Awbi ) valida fortezza (Hisn). Descrizione del castello, del geografo arabo Idrisi.

Con la morte del re Guglielmo II, si scatenò nell’isola l’odio dei cristiani verso i musulmani che si concluse con la loro fuga verso località più sicure, alte e fortificate. Questa fuga determinò la crisi dei villaggi agricoli siciliani che avrà il suo culmine nella prima metà del XIII secolo con la scomparsa dell’elemento islamico. Le grandi sollevazioni musulmane del XIII secolo furono l’espressione di una forte contrapposizione musulmana al “Regnum”. Numerose erano le fortezze in  mano ai rivoltosi musulmani ma  il castello di Calatubo non figurava fra questi. La cacciata dei musulmani operata da Federico II di Svevia causò per Calatubo, nella metà del XIII secolo, la fine dell’abitato e il feudo resterà disabitato.

1201 -  Compare come teste di un documento un tale Riccardus de Calatub;  forse un membro della famiglia feudale del luogo o un “milites castri”;

1278 - Ponç de Blancfort (Poncio di Biancoforte) è investito di Calatatubo. Probabilmente un filo angioino di Carlo d’Angiò.
I Vescovi di Monreale fecero delle concessioni, nel 1259 e nel 1291,  a favore di personaggi che avevano appoggiato gli angioini di Carlo d’Angiò. È probabile che il castello di Calatubo per un breve periodo sia stato in possesso della famiglia Porcelletto (Guillielm de Porcellet).

La Casa di Porcellets (Porcellet ) fu un’importante famiglia e una delle più
famose della Provenza.
Il motto  della famiglia era “ Genere Deorum deinde Porcella”
“Prima la razza degli dei, poi la famiglia dei Porcellets”.
“Il nome Porcellets era così famoso e rispettato in Oriente,
che i Sultani, per la garanzia dei trattati, esigevano la consegna di
luoghi importanti, ostaggi o la parola di un Porcellets”.
Nel 1000 un Pocellets era signore della città di Arles
(famosa per le sue vestigia romane).

Il Guillielm de Porcellet citato doveva essere Guillaume III nato nel 1217 e morto nel 1288.
Cavaliere e nobile francese signore di Arles, Fos e Martigues. Prestò servizio militare come Consigliere e Cambellano presso il re Carlo I d’Angiò avendop la conferma dei titoli di Barone di Sicilia e di Provenza.
Fu l’unico francese  a sopravvivere ai vespri siciliani del 1282 quando la Francia perse la Sicilia contro i ribelli”.

Infatti dopo la rivolta del Vespro, nel 1282, contro gli Angioini, i beni di Guglielmo Porcelletto , vice giustiziere angioino nella Sicilia occidentale, passarono a Federico d’Antiochia al quale “si concedevano anche Castellammare e Calatubo”.

Comunque la concessione a Ponc de Blancfort fu la prima Regia concessione feudale di Calatubo documentata. Non si ha invece nessun riferimento  in merito alle “Tassazioni  Angioine” del territorio a riprova che il sito era ormai spopolato o in fase di abbandono.


1295 - Il Castello ed il Feudo di Calattubo viene concesso dal Re Federico III d’Aragona al potente Federico d’Antiochia.
Sotto il Regno Angioino l’aristocrazia Sveva fu costretta all’esilio nell’Italia settentrionale. Tra questi esiliati c’era anche Federico d’Antiochia che vantava sangue reale in quanto discendente di Federico d’Antiochia, figlio naturale dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Federico rientrò in Sicilia nel 1295 e probabilmente nello stesso anno venne investito del feudo e castello di Calatubo.


Federico d’Antiochia (1222/1224; Foggia, 1256) era figlio naturale
(illegittimo) dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Alcuni storici collegarono la sua nascita ad una relazione dell’Imperatore con una
donna musulmana originaria di Antiochia da cui l’appellativo.
Altri storici legano la sua nascita alla  relazione con una certa Maria o
Matilde appartenente alla nobile famiglia siciliana “d’Antiochia”.
È sepolto nella cripta della Cattedrale di Palermo.

Con il nuovo feudatario il castello venne dotato di una “Habitacione”. Venne eretto un palazzo fortificato nell’ambito del rafforzamento delle difese della costa del golfo di Castellammare che era particolarmente esposta agli attacchi angioini – napoletani.
Era collegato visivamente sia con la torre sul Monte Bonifato che con il castello di Castellammare del Golfo, importante avamposto costiero a difesa dell’entroterra dell’isola.
Alla morte del re Federico III d’Aragona, avvenuta nel 1337, gli subentrò nella corona il figlio Pietro molto vicino alla potente famiglia dei Chiaramonte. L’ingerenza dei Chiaramonte nella politica feudale del regno portò alla confisca dei beni di alcune nobili famiglie tra cui i Ventimiglia e gli Antiochia.  Una situazione difficile perché si creò tra le nobili famiglie una serie di contrasti 
legati alla suddivisione delle alte cariche del regno che portò inevitabilmente alla rivolta degli Antiochia e dei Ventimiglia.
Blasco d’Alagona emanò la condanna contro le due famiglie in rivolta. Francesco Ventimiglia morì cadendo da una rupe mentre Federico d’Antiochia ebbe salva la vita ma l’accusa di tradimento lo costrinse all’esilio a Napoli. Ritornò in Sicilia, una prima volta nel 1338, con la spedizione Angioina di Roberto d’Angiò e, una seconda volta nel 1341, a capo sempre di una spedizione Angioina a Milazzo dove morì durante l’assedio della città.
Naturalmente furono confiscati i beni agli Antiochia e concessi ai Peralta, consanguinei della corona. Raimondo Peralta, grande Almirante riuscì ad instaurare in questo modo un egemonia familiare che durante il XIV secolo vedrà il suo massimo splendore anche se seguita dall’estinzione.

Importante famiglia spagnola che ebbe un ramo siculo ed uno piemontese (dei
marchesi alemarici di Saluzzo).
In Spagna sarebbero discendenti dei sovrani di Navarra.
Raimondo Peralta e Fernadez, signore della baronia di peralta in Aragona, fu
il capostipite della famiglia in Sicilia. Era figlio di Filippo Saluzzo e
di Sibilla Peralta, dei sovrani di Navarra, della quale mantenne il cognome.

Stemma dei Peralta di Navarra



1336 - Raimondo Peralta, conte di Caltabellotta, ottenne l’investitura di Calattubo da Pietro II.
L’anno seguente, lo stesso re inserì Calatubo nel “comitatus Caltabillocte” che donò a Raimondo Peralta ed ai suoi eredi che mantennero il feudo fino al 1403.
L’Ammiraglio Raimondo Peralta per i suoi meriti militari fu ricompensato con la concessione degli sbocchi marittimi del Golfo di Castellammare. Fin dal 1336, conte di Caltabellotta, si era fatto investire  da Pietro II, di Calatubo, Borgetto e Castellammare del Golfo. L’anno successivo, con privilegio del 20 gennaio 1337, gli stessi feudi e castelli, che in passato appartenevano a Federico d’Antiochia, furono inseriti dallo stesso re nella Contea di Caltabellotta  (Comitatus Caltabillocte) e concessi, insieme ai loro diritti e pertinenze, a Raimondo Peralta e ai suoi eredi e successori in perpetuo, con l’obbligo del consueto servizio militare, e con riserva di tutte le antiche regalie nascenti dalle costituzioni del Regno e dei diritti spettanti alla Regia Corte. Nel 1340 nuova concessione con la  Terra di Alcamo e il castello di Monte Bonifato (privilegio del 23 agosto 1340).

1346 - Nel 1346 l’arciprete di Alcamo, Clemente de Catania, prebendato di Calatubo, versava 18 tarì per tre anni per le spese dell’armata contro i turchi;

1348
Durante la reggenza del minore Ludovico, Alcamo fu conquistata dai fratelli Enrico e Federico Chiaramonte, esponenti della frazione Latina e Conti di Modica. Un’azione che aveva come obbiettivo l’usurpazione dei domini della frazione nobiliare “Catalana”, per cui tutti i comuni della Val di Mazara passarono sotto il loro dominio.
Anche il castello di Calatubo fu conquistato nello stesso anno malgrado Federico IV, il Semplice, il 4 febbraio 1356 aveva confermato con un privilegio a Guglielmo Peralta, nipote del conte Raimondo e detto Guglielmone per distinguerlo dal padre omonimo, i beni della Contea di Caltabellotta, le Terre di Alcamo, Castellammare del Golfo, Borgetto e Calatubo.

1355 -  fu citato il “Castrum” Calatubo;
1359 – fu citato il castello “quoddam castrum vocatum Calatubu;
1359 - Il re Federico IV, il Semplice, nel giugno del 1359 liberò, con un forte esercito, Calatubo dai temibili Chiaramonte. “Calattubum oppida est adeptus”.
I fratelli Chiaramonte si dimostrarono così forti  nei castelli conquistati che Federico IV, anche se giovanissimo, fu costretto a preparare un esercito per la riconquista dei castelli e dei territori. Dopo essere entrato vittorioso a Salemi,  riuscì a liberare Alcamo, Castellammare del Golfo e Calatubo ..” "Salemim oppidum et arcem mense iunio recepit, et etiam Alcamum, Castrumadmare et Calattubum oppida est adeptus”.
Nello stesso periodo Francesco II Ventimiglia, Conte di Geraci, grazie alla sua fedeltà, riuscì ad ottenere nel 1360 tutti gli affari del regno. Alcamo diventò dominio del Ventimiglia e gli Alcamesi nei Capitoli di Grazie del 1398 chiamarono Guarniero (o Guarnieri) Ventimiglia. Calatubo fu invece restituito a Guglielmo (Guglielmone) Peralta.
Federico IV il Semplice, morì alle fine di maggio del 1277 e Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta e signore di Calatubo, Castellammare del Golfo e Borgetto diventò uno dei quattro tetrarchi del regno durante la minore età della regina Maria. Dopo il matrimonio di Maria con Martino I Il Giovane, diventò Consigliere e Camerlengo del re. Il Peralta alla fine della sua vita si ribellò e scese con il figlio Nicolò in guerra contro il re. Martino I non riuscì a sottomettere il Peralta che morì ribelle nel 1398, mantenendo il possesso di tutte le sue terre.
Il figlio Nicolò nel 1396 era ritornato all’ubbidienza sovrana e re Martino gli restituì le terre. Nel 1399 il Conte di Caltabellotta lasciò due figlie, Giovanna e Margherita.

1403 – “Artale de Luna e Ruis de Azagra”, figlio di Ferdinando Lopez de Luna signore di Villa Felice, fu nominato conte di Caltabellotta per il matrimonio con Giovanna Peralta. Alla sua morte della moglie, sposò la cognata Margherita, “con la dote del Castello e Terra di Calattubo, Contea di Caltabellotta, le Terre di Giuliana, di Bivona ed il castello di Cristia”.
Dal matrimonio nacque Antonio de Luna e Peralta. Nel 1554, un suo erede, Pietro de Luna e Peralta diventò duca di Bivona per concessione di Carlo V.
La famiglia De Luna manterrà il possesso di Calattubo, all’interno della Contea di Caltabellotta, fino al 1583;


I De Luna d’Aragona sono un’antica casata della nobiltà spagnola:
“ una delle otto grandi casate del Regno d’Aragona”.
«La familia Luna, una de las ocho principales familias aragonesas»
Gli esponenti della famiglia più volte s’imparentarono i sovrani aragonesi.
La loro origine risalirebbe ad Ordono I (810-866), re delle Asturie e presero
il nome dal possesso feudale della città di Luna, nella provincia di Saragozza
nel Regno d’Aragona.
Scese in Sicilia con Ximenio o Sigismondo di Luna ai tempi del re Pietro durante il quale
figura un Roderico de Luna castellano di Castrogiovanni (Enna).
“Una Maria de Luna fu moglie di altro Pietro re d’Aragona e madre di re Giovanni
e di Martino il Vecchio, re di Sicilia”.


Antico stemma dei De Luna d’Aragona con i fregi

Con Margherita Peralta si estinse la famiglia e il feudo e il castello di Calatubo, sempre unito alla Contea di Caltabellotta, diventò possesso della famiglia de Luna.



1408 – Calatubo venne descritto come Castrum et Locum. Il termine Locum nei documenti del XV secolo indicava non un abitato ma un piccolo nucleo di case il più delle volte poste vicino ad un vecchio castello e dunque memoria di un antico abitato.
1386 - Un “Frater Marcus de Calatubo” nel 1386 si trovava con fratel Martino e fra Antonello da Alcamo, nel monastero di S. Martino delle Scale, diretto dall’abate Sinisio;
“Frater Marcus” sembra testimoniare la presenza di una piccola comunità a Calatubo verso la fine del XIV secolo e gli inizi del XV secolo e come dimostrerebbe la citazione di cui sopra risalente al 1408.
Nella prima metà del XV secolo molti alcamesi avevano dei vigneti vicino al castello.

1410
Nel 1410 morì Martino II, Il Vecchio, padre di Martino I e re di Sicilia. Il Conte Artale seguì il partito di Bernardo Cabrera, Maestro Giustiziere del Regno, contro la regina Bianca di Navarra. Bernardo Cabrera, conte di Modica, insieme ad Artale de Luna ed altri baroni, per anni  restò in conflitto con la regina Bianca di Navarra, Vicaria del Regno. Il proposito del conte era quello di sposare la regina per diventare sovrano di Sicilia.
A causa di questo conflitto la Contea di Caltabellotta gli fu confiscata ed assegnata al vicerè di Sicilia, Antonio Cardona.
Dopo poco tempo  il Conte Artale de Luna ritornò nelle grazie di Alfonso d’Aragona che gli restituì i possedimenti. Il conte morì a Sciacca, lasciando un figlio ancora minorenne, Antonio, che s’investì del possesso dei beni nel 1453.
Antonio de Luna, che si nominava di “Peralta e di Sclafani, per i rami estinti della sua progenie, presentò la richiesta di conferma dei feudi in suo possesso, nell’ambito di quelle “Ricognizioni del 1453-54” dei Feudi e Benefici volute dall’amministrazione viceregia.
Alla morte di Antonio de Luna, successe nella Contea di Caltabellotta e nella signoria di Bivona, il figlio maggiore, Carlo de Luna che non ebbe figli e alla sua morte venne riconosciuta Contessa di Caltabellotta la sorella Eleonora de Luna con privilegio del 14 aprile 1497.
Eleonora de Luna sposò Antonio Alliata da cui non ebbe figli. Alla morte di Eleonora, avvenuta nel 1508, l’Alliata si ritenne padrone dei beni della moglie e intentò causa a Giovanni Vincenzo de Luna, figlio di Sigismondo, Barone di Bivona, e legittimo nonché ultimo erede dei beni dello zio Carlo de Luna.
La Regia Corte diede ragione a Giovanni Vincenzo de Luna che con la sentenza prese l’investitura del “Comitatu et Terra Calatabillotte per se suisque imperpetuum heredibus et successoribus” il 23 dicembre 1511.
Durante le rivolte popolari contro il vicerè Ugo Moncada, l’imperatore Carlo V scelse Giovanni Vincenzo de Luna come Presidente del Regno (1516 – 17).
Il Moncada fu costretto a fuggire da Palermo e la stessa sorte toccò nel 1517 a Giovanni  Vincenzo de Luna. Fuggì dalle ire del popolo palermitano perché sostenitore del vicerè e trovò rifugio o asilo nel castello di Alcamo.
Carlo V teneva in grande considerazione Giovanni Vincenzo de Luna, dato che s’interessò personalmente delle nozze del figlio primogenito del de Luna, Sigismondo che, ancora in minore età, sposò Aloisia Salviati, nipote del papa Leone X.
Pietro de Luna, per grazia speciale di Carlo V, nel 1549 ottenne di succedere negli stati o terre del padre Sigismondo e nel 1554, per concessione di Carlo V, divenne primo Duca di Bivona.
Prima metà del XV secolo - Calatubo è annoverato fra i castelli e feudi disabitati;
1558 - Il “picciol castello” venne descritto come già in rovina dal Fazello;

Pietro de Luna recuperò molti latifondi, usurpati alla sua casata e l’uno novembre 1569 s’investì del feudo di Calattubo, grazie ad una Sentenza della Regia Gran Corte contro Vincenzo, Gaspare e Francesco Corbera, eredi di Don Pietro Corbera giurato del Regno.
Il feudo di Calatubo era stato probabilmente usurpato dai Corbera, anche se in merito non sono riuscito a trovare nulla in merito, per richiedere l’intervento della regia Gran Corte per la restituzione del feudo al De Luna.

Nel “Nobiliario Siciliano”  si cita “nobile ed antica famiglia catalana che
possedette le baronie di Calatubo,Giancascio e Realturco, Gibellina,
S. Margherita. Miserendino, ecc.
Un Calcerando fu maestro razione e presidente del Regno di Sicilia
nel 1446, 1452 e 1456 e pretore di Palermo nel 1451 e primo barone di Miserendino nel 1453.
…Un Antonino barone di Miserendino fu capitano di Giustizia di Palermo nel 1552…”
Un famiglia che subì gravi dissesti finanziari a tal punto che finirono per essere
processati  dalla Regia Corte



Pietro de Luna sposò una figlia del Duca di Medinaceli, Juan de la Cerda y de Silva,  Vicerè di Sicilia e fu vicario generale del Regno di Sicilia, in difesa dei Turchi nel 1573.
Giovanni Peralta e de Luna, per la morte del padre Pietro, s’investì il 26 settembre 1576 del Feudo di Calatubo essendo quest’ultimo unito sempre alla Contea di Caltabellotta.
Giovanni de Luna fu l’ultimo esponente della famiglia de Luna che ebbe il castello di Calatubo perché il 9 febbraio 1583 vendette il feudo e la baronia a Graziano de Ballis.
Giovanni morì senza prole e i suoi beni passarono alla sorella Luigia de Luna (1592). Con Giovanni s’estinse la famiglia De Luna e il feudo di Calatubo, smembrato dalla Contea di Caltabellotta, diventò proprietà dei de Ballis di Alcamo.

La famiglia De Ballis (Ballo) sarebbe originaria di Bologna,
mentre altri fonti citano Piacenza.
Uno dei documenti più antichi che prova l’esistenza della famiglia in
Sicilia risale al 1345, quando il nobile Federico De Ballo, regio milite,
insieme al figlio Jacobi, ottenne nei pressi di Avola delle concessioni di
vasti territori, castelli e diritti feudali.
Ci sono dei diplomi d’investitura, compresi tra il 1345 ed il 1354, che sono
Conservati nell’Archivio di Stato di Palermo.
Nel 1378 si hanno notizie di Sancio de Ballo, probabile figlio di Jacobi, che si
trasferì a Trapani e, il figlio di questi, Ballo de Ballis, Regio Milite, eletto
Viceportulano del Caricadore di Castellammare del Golfo, del
Carricadore di Alcamo, detto del Vallone, e sue Marine, nel 1400 circa
venne nella Terra di Alcamo, costruendovi una casa per sua abitazione.
Nella stessa carica di viceportulano successe il figlio Giovanni De Ballis, da cui
nacque quel Covino De Ballis che dispose nel suo testamento del 1495 la
fondazione nella chiesa Madre di Alcamo, di una cappella gentilizia dedicata
alla Natività di N. Signore.
Giovannello De Ballis, erede universale dei bani del padre Corvino, essendo
divenuto veramente ricco, anche per la considerevole dote che ottenne in
occasione del suo matrimonio con la nobile trapanese Caterina Ravidà nel 1495,
costruì ad Alcamo per sua dimora, un grandioso palazzo con una torre
(l’attuale palazzo e torre De Ballis).
Dalle seconde nozze di Giovannello con Giovanna de Gentilibus di Alcamo,nel 1527,
nacque Graziano De Ballis, primo Barone alcamese di Calatubo.
Graziano De Ballis, anche se non primogenito tra otto fratelli, ereditò il
patrimonio paterno  “ob meritum obedientiae”, come si legge nell’epigrafe
collocata nella cappella gentilizia della chiesa Madre di Alcamo.


Sia per l’eredità paterna, che per la dote della moglie Alfonsina Agliata dei principi di Villafranca che sposò nel 1564, Graziano De Ballis il 9 febbraio del 1583, per atto stipulato presso il notaio Antonino Lazàra di Palermo, ebbe la possibilità di comprare il Feudo e la Baronia di Calattubo con “mero e misto impero “ dal Conte di Caltabellotta e Duca di Bivona, Giovanni De Luna e Peralta.
La ratifica da parte del Duca fu fatta il 26 marzo 1583 per gli atti del notaio Raffaello Risalibi di Bivona. Graziano De Ballis ottenne l’investitura del feudo dopo circa tredici mesi dalla ratifica e precisamente il 6 maggio 1584.
L’epigrafe della cappella gentilizia afferma infatti che  egli ““Calatubi Baronia et Castro auxit”, aumentò l’eredità paterna con la baronia e il castello di Calatubo.
Nell’atto di compravendita si legge che il Duca di Bivona vendette a  “Graciano de Ballis la baronia et fegho di Calattubo cum sua fortezza delli membri et pertinentii del suo stato…ad effetto che collo prezzo di quello possa satisfare et disgravare alcuni redditi che paga sopra detto suo stato et alcuni censi decursi et compliri ad altri soi occurentij”.
Il De Luna per poter vendere la baronia di Calatubo dovette presentare la licenza regia perché nel trasferimento del feudo dovevano essere salvaguardati i diritti della Regia Curia. Nella licenza si precisava che il Duca di Bivona veniva autorizzato ad alienare “baroniam de calattubo cum eius castro seu fortilizio cum iuribus regie curie”, con tutti i privilegi e preminenze, con i pesi e le gabelle, con i censi e i redditi.
Il feudo era esteso circa 260 salme (circa 454 ettari)
Graziano De Ballis morì nel 1589 e dunque se la muova costruzione del castello  fu opera sua, questa non potè essere eseguita che nei suoi ultimi anni di vita.
La novità portata dal De Ballis fu legata ad una totale ristrutturazione. Non poteva allontanarsi dall’antico impianto architettonico che era impostato sopra i due livelli del costone roccioso che è a picco sulle valli che si trovano ad est e a nord. Un adattamento che fu confermato dal mantenimento di alcune parti delle fondamenta e delle muraglie antiche che furono incorporate nelle nuove costruzioni.
Probabilmente i lavori furono completati dai figli di Graziano, Giuseppe  o Giovanni.
I lavori , degli inizi del Seicento, trasformarono il castello di Calatubo da castello militare a dimora baronale.
Il feudo quando entrò in possesso di Graziano De Ballis era già spopolato e il barone non s’interesso di ripopolarlo. Graziano De Ballis ebbe due figli: Giuseppe e Giovanni.

1590 - Giuseppe De Ballis (primogenito di Graziano e nato ad Alcamo nel 1567) ereditò dal padre la baronia di Calattubo con in Alcamo il palazzo baronale “domum magna cum turri”, divenendo il secondo barone di Calatubo.  Atti redatti dal notaio Vincenzo de Mulis di Alcamo del 26 marzo 1590. L’investitura del feudo fu concessa il 5 marzo 1590.Giuseppe fu battezzato a Palermo per fruire, secondo il parere dello storico De Blasi “di tutte le franchigie, delle quali godevano li naturali di quella capitale nell’estrazione di qualunque merce ad essere esenti degli oneri del comune natio.. dunque per potere godere delle franchigie concesse ai cittadini della capitale”.
Giuseppe si distinse nella poesia, nella matematica, nell’astronomia ed astrologia e rinunziò al baronato in favore del fratello Giovanni perchè Giuseppe abbracciò lo stato ecclesiastico

1594 - Giovanni De Ballis (fratello di Giuseppe) ricevette l’investitura di (terzo) Barone di Calattubo il 27 Maggio 1594 e chiese al re la licenza di ripopolare la baronia. La “licentia populandi” gli fu concessa il 7 settembre 1600 con tutti i diritti e i privilegi che  avevano “celeres barones regni” (tutti gli altri baroni del Regno), in quanto, “utilitate non modica” (con non poca utilità) se ne avvantaggiavano per il frumento “la sacra C. Maestà e i regnicoli”. Non rispettandosi la vocazione dei terreni ma la volontà della “Sacra Cesarea Maestà”, la Sicilia doveva restare a coltivazione cerealicola e quindi doveva mostrarsi immutato il paesaggio agrario. Non si sa il motivo per cui il villaggio che il barone poteva “nominare et vocare Calatubo” non fu fondato malgrado la licenza. Neanche il figlio di Giovanni, Giuseppe Antonio De Ballis e Sollima, fondò il paese.
1597 - L’immagine del castello del 1597 è nella “Descrittione dell’Arcivescovato di Monreale con le sue terre…”;
Giuseppe Antonio De Ballis e Sollima diventò quarto barone di Calatubo che “assunse il nome e cognome di Giovanni Sollima e con tali generalità si investì a 23 Maggio 1618 della Baronia, feudo e castello di Calattubo. Reinvestito a 16 Luglio 1621 per il passaggio della Corona da Filippo III a Filippo IV, e a 29 Agosto 1666 per l‟altro passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II. Fu senatore della Città di Palermo nel 1629-30”.
Sposò Antonia Iraci nel 1631, nella chiesa Madre di Alcamo.
Il figlio primogenito Gaspare Ballis e Sabia s’investì della baronia, feudo e castello il 12 marzo 1671 per la morte del padre Giovanni Sollima. Poco tempo dopo fece atto di donazione di Calatubo al fratello Graziano De Ballis che ne ricevette l’investitura il 12 marzo 1676.
Ultima baronessa di Calatubo che porta il cognome dei De Ballis fu Donna Gaetana, figlia di Vincenzo De Ballis (fratello di Gaspare e Graziano) che prese l’investitura l’uno dicembre 1707 per  concesso dallo zio Graziano.
Era figlia unica di Vincenzo e sposò Giuseppe Papè dei Duchi di Giampilieri e dei principi di Valdina, Protonotaro del Regno.
Con donna Gaetana s’estinse la famiglia De Ballis e il feudo di Calatubo, con tutte le sue pertinenze, passò alla famiglia Papè di Valdina e i cui eredi furono gli ultimi proprietari del castello.


“La si vuole originaria di Anversa, passata prima in Milano e poi  portata in
Palermo da un Adriano, che fu padre di Cristofaro, governatore della nobile compagnia
dei Bianchi nel 1642, 1648, protonotaro del Regno, deputato del Regno, giudice
della Gran Corte, ecc….. Giuseppe Papè e Montaperto, di Ugo, fu duca di Giampilieri,
protonotaro del Regno e acquistò il titolo di principe di Valdina,
del quale ottenne investitura a 21 luglio 1706;

Nel XVIII secolo misero l’accampamento ad Alcamo due grandi eserciti: prima gli spagnoli per quattro mesi nel 1718 e successivamente le truppe tedesche nell’aprile del 1720 per dieci giorni.
Un documento, conservato presso l’archivio della Chiesa Madre di Alcamo, riporta che il principe di Valdina, Don Giuseppe Papè, fece istanza al vescovo di Mazara il 19 gennaio 1726, perché fosse ridotto il numero delle messe da celebrarsi nella cappella della Natività di suo patronato nella chiesa,  essendo diminuito il frutto di una sua tenuta di olivi, a motivo “dell’incisione degli alberi avvenuta nel tempo in cui visi erano accampati gli eserciti austriaci”.

1770 - Venne investito della Baronia, Feudo e Castello di “Calattubo”, Ignazio Papè e Ballo, figlio primogenito di Gaetana de Ballis e Giuseppe Papè dei duchi di Giampilieri e dei Principi di Valdina;

Alla morte di Donna Gaetana De Ballis, avvenuta a Palermo nel 1769, il feudo di Calatubo passò ad Ignazio Papè e Ballo, come figlio primogenito ed erede universale dei beni della madre, di cui prese l’investitura il 16 febbraio 1770.
Don Ignazio Papè, Principe di Valdina, Duca di Giampilieri e Protonotaro del Regno, fu l’ultimo dei baroni di Calatubo che portò il cognome materno De Ballis.
Ricoprì la carica di Intendente Generale degli Eserciti sotto il regno di Carlo III di Borbone.
1773 - Fino al 1773 il Castello era in piena efficienza ed ospitava una compagnia di soldati. Il 3 Marzo 1773, mons. Ugo Papè, (fratello di Ignazio Papè e Ballo) nominato Vescovo di Mazara dal re Ferdinando III, prese possesso della Diocesi e “vi andarono all’incontro in distanza di più miglia…il capitano del Castello di Calattubo D. Pasquale Rotunda con sua compagnia”.

Il primogenito di Ignazio Papè e Ballo, Pietro Papè e Bologna, diventò padrone di Calatubo alla morte del padre avvenuta nel 1793. Non prese l’investitura, così come tutti gli eredi di Pietro che si sono succeduti  nella proprietà come figli primogeniti e alla morte dei rispettivi padri.
Salvatore Papè Gravina successe come primogenito alla morte di Pietro, suo padre, nel 1822. Sposò nel 1829 Vittoria Vanni figlia di Francesco Vanni, terzo duca di Archirafi e di Rosalia Vanni.  Dal loro matrimonio nacque Pietro il 22 maggio 1832.
Pietro Papè Vanni successe come primogenito alla morte del padre Salvatore nel 1870 e sposò il 28 gennaio  1856, a Palermo, Marianna Lanza Filingeri (Filangeri). Ebbero 13 figli (5 maschi ed otto femmine).

Nel corso del XIX secolo  il castello subì un periodo di abbandono. Ci troviamo in un momento di grande instabilità politica e sociale che culmineranno con i moti del 1820-21; con la rivoluzione antiborbonica del 1848; con la rivoluzione del 1860 che portò alla fine della dominazione borbonica. Tutti avvenimenti che consigliarono, per ragioni di sicurezza, l’abbandono del castello come residenza baronale. Nell’aspetto sociale è da rilevare la presenza di una crisi fondiaria dell’aristocrazia siciliana.
Nel 1879 lo storico Polizzi scrisse..” “Kalatubo, castello innalzato su d‟una collina a 3 miglia da Alcamo verso il mare; oggi del Principe di Valdina. Non offre di antico altro vestigio che il nome, essendo il diruto casamento opera del 17° secolo. N‟è però pittoresca la massa”.


Fine del XIX secolo - Pietro Papè di Valdina trasformò Calatubo in una azienda agraria lanciando sul mercato internazionale il vino “Castel Calattubo”, premiato dal 1885 al 1902 con “più di trenta medaglie d’oro e d’argento e Grandi Diplomi d’onore nelle più importanti Esposizioni d’Europa, tra cui quelle Universali di Parigi del 1889 e 1900, dove ottenne il maggior premio concesso ai vini Italiani”.
Pietro Papè Vanni alla fine dell’Ottocento ristrutturò ed abitò il “diruto casamento”. Morì nel 1906 in questo castello e la salma fu trasportata con la sua carrozza a Palermo.
Fu riconosciuto nell’Elenco Ufficiale definitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia del 1902 come possessore dei titoli di Duca di Giampilieri, Barone di Calattubo, Principe di Valdina e Barone di Vallelunga.
Fu proprio Pietro che alla fine dell’ottocento stravolse l’aspetto agrario della sua baronia cambiandone radicalmente il paesaggio. Era un esperto imprenditore agricolo e coltivò a vigna larghe estensioni di terreno. Lanciò sul mercato nazionale ed estero il suo vino “Castel Calattubo”. Un vino che fu subito ricercato perchè lavorato con particolari tecniche e veniva conservato nei nove grandi magazzini che fece costruire nel secondo cortile inferiore del castello “fattoria”.
Fu premiato dal 1885 al 1902 con oltre trenta medaglie d’oro e d’argento e con grandi Diplomi delle più importanti Esposizioni d’Europa tra cui quelle universali di Parigi del 1889 e 1900. Ottenne anche il brevetto di fornitore della Real Casa con facoltà di potersi fregiare dello stemma reale.
Pietro Papè di Valdina ristrutturò il pittoresco castello, già ricostruito sul primo e secondo costone roccioso da Giovanni De Ballis agli inizi del Seicento, conferendogli l’aspetto, che peraltro ancora oggi conserva, di grande masseria fortificata.
L’attività imprenditoriale fu portata avanti da Salvatore Papè Lanza erede del padre. ma la prima guerra mondiale e le sue conseguenze pesarono sul futuro dell’azienda. La crisi economica e la stasi del commercio vinicolo che colpì la Sicilia  nel primo dopoguerra continuarono anche in epoca fascista.
Il castello, comunque, in piena efficienza e signorilmente arredato, fu abitato fino al 1940, quando fu requisito dal Comando delle Forze armate italiane per essere destinato ad osservatorio e baluardo contro la temuta invasione anglo americana.  Dopo un vandalismo ingiustificato furono definitivamente abbandonati i circa trenta vani tra stanze e magazzini così bene architettati per una dimora principesca.
Dal secondo dopoguerra, dunque, il castello di Calatubo fu definitivamente abbandonato.


2007 - Il castello è stato acquistato dal Comune di Alcamo con atto n. 8445 del 10 maggio 2007. Era in possesso, per 1/7 ciascuno, di Stefania Plugy Papè, Peter Rolf Lezius, Claudia Lezius Papè, Claudio Flugy Papè, Maria Diaconia, Carla Lanza Papè, Bianca Lanza Papè, Gandolfo Pucci Di
Benischi, Paolo Pucci Di Benischi che, come recita l'atto "sono proprietari di diverse unità immobiliari costituenti, nel loro complesso, nella sua interezza il castello di Calatubo, sito in territorio di Alcamo, inteso come complesso monumentale edificato".
L'importo di particolare favore (€ 60.000), sarà ricordato dal Comune di Alcamo, a restauro ultimato, da una targa posta all'ingresso del maniero, a ricordo della sensibilità dimostrata dai principi Papè.


8. STRUTTURA ARCHITETTONICA

Un complesso unitario di notevoli dimensioni (150 x 35 ) m ed i cui corpi di fabbrica si sviluppano lungo un compatto banco di roccia calcarea, assecondandone l’andamento in direzione prevalente est – ovest.
Inaccessibile sui versanti settentrionale ed orientale caratterizzati da un forte scoscendimento della roccia, il suo ingresso si trova ad occidente dove la rupe scende verso la valle in dolce declivio.
Qui una rampa gradonata conduce al monumentale fronte occidentale turrito ed al primo piano della corte (26 x 20) m. Un pozzo, una chiesa ad aula ed alcuni diruti locali attigui costituiscono le uniche strutture architettoniche comprese entro questa prima linea difensiva chiusa a sud da un muro continuo.
Il cortile è dominato dal castello che vi prospetta dall’alto dell’incombente costone di roccia con la sua facciata sovrastata da torrette che conservano tracce di merlatura. Un portale prossimo al centro del lato est della corte introduce al secondo cortile.
Questo cortile presenta una forma piuttosto allungata (20 x 100) m ed è compreso fra le ripide pareti di roccia su cui si fondono le strutture del castello ed un interrotto corpo di fabbrica, che nell’ultima fase di vita del complesso, era adibito a magazzini per la produzione vinicola. Un muro che in parte si è conservato chiude il perimetro ad est. Questo muro raggiunge un terzo recinto che si trova nella zona più elevata dell’altura, dove si attesta ad una torre



All’XI secolo risalirebbero ampie porzioni del circuito murario che ancora si conserva nella parte più alta del costone, la torre oblunga, con alcuni tratti del sottostante recinto.
Fra le strutture quella che evidenzia la sua funzione difensiva è la torre orientale detta anche “oblunga”. Una torre di (8 x 2,50) m che chiude il perimetro murario che cinge il rilievo roccioso.
L’imprendibilità di questa torre era legata alla sua posizione inaccessibile piuttosto che alla sua robustezza strutturale. Presenta infatti uno spessore modesto dei muri (77 – 78 )cm e di quelli del camminamento da (52 a 62 ) cm.
Torre e muro di camminamento che sono contemporanei  in relazione ai materiali costruttivi e alla tecnica di messa in opera.  



La torre presenta quella che potremo definire una forma o pianta primitiva che si differenza da quella delle altre torri presenti nella struttura che sono tutte a pianta quadra nonostante le asperità del terreno su cui poggiano.. Una pianta irregolare che segue adattandosi l’andamento  orografico o profilo del banco roccioso.
Lungo il lato nord del banco roccioso, alla torre oblunga si attesta il tratto di muro meglio conservato, circa 8,00 m, nel quale furono rinvenuti quattro fori passanti (in media 21 x 27)cm, praticati ad intervalli regolari di circa 80 cm l’uno dall’altro, e al di sotto di soli 40 cm dalla sommità del muro (3,60 m)..
Analoghi fori sono visibili nel muro meridionale della torre lungo il quale sono  allineati su due file parallele distanti fra loro meno di un metro d’altezza. Una tale disposizione esclude che possa trattarsi di buchi pontaie. Tutti i fori sono stati lasciati aperti in corrispondenza dei piani di posa della muratura, costruita per ricorsi regolari, la cui altezza varia nei diversi fronti da 60 a 95 cm. Stesso accorgimento costruttivo venne adottato anche per il muro settentrionale della torre. Per questo fronte, intonacato e fondato sul limite di un forte strapiombo, fu possibile misurare dall’interno soltanto uno dei quattro fori passanti, le cui dimensioni (20 x 22 ) cm erano simili a quelle delle analoghe aperture presenti nel muro di cinta.
L’accurata predisposizione di questi buchi, naturalmente realizzati contestualmente al muro, la regolarità del loro interasse e l’altezza alla quale  sono stati praticati, inducono a pensare che siano elementi di un sistema difensivo in uso nel castello ed in particolare per alloggiamento di travi di sostegno di “bertesche di circostanza” o di piattaforme in legno in aggetto rispetto alle cortine murarie.
Nelle fortificazioni medievali il muro di cinta con la sua massiccia fisicità assicurava una valida difesa passiva che unitamente al coronamento merlato del muro, completava le difese della cortina offrendo la possibilità di respingere gli aggressori mediante il tiro con l’arco e il lancio dalle piombatoie.
“Quando il nemico mostrava di volere attaccare un determinato punto della cinta, vi si costruivano in alto “bertesche di circostanza”. Nel muro erano preventivamente preparati all’altezza del girone, dei fori entro i quali si infilavano appositi travetti di legno, detti “sorgozzoni”, e su questi si costruiva una bertesca di tavole, nel cui pavimento si ricavano le caditoie e nelle pareti le feritoie”.
I fori di alloggiamento delle bertesche venivano praticati in prossimità della sommità del muro per cui l’altezza finale della torre oblunga doveva coincidere con buona approssimazione con quella che si conserva lungo il versante meridionale cioè di circa 4 m.

Le bertesche



A questa misura si dovrebbe aggiungere l’altezza dei si devono merli di cui non c’è alcun indizio.
Il muro d’attico che si conserva parzialmente al di sopra del robusto manto di cocciopesto che ricopre la volta a botte della torre, ha  spessore di 40 cm, contro i 77 – 78 cm del muro sottostante. Uno spessore sufficiente a sostenere un parapetto ma non un altro piano con relativa copertura.
Generalmente i camminamenti sui muri di cinta era protetti da un parapetto alto da 1 a 1,20 m e sormontato da merli larghi circa 1 m ed altri un po’ meno.  In base a tali considerazioni l’intera struttura, compresi i merli, doveva avere un altezza di circa 6 metri.
Il muro settentrionale è stato interessato da crolli e purtroppo da prelievi di materiale per possibili reimpieghi in fabbricati vicini. È probabile che nel muro fosse presente una seconda fila di buchi, nella parte più alta, per l’allestimento delle strutture difensive.
Sempre sul lato settentrionale c’era l’originario ingresso della fortificazione. L’ampia breccia rilevata lungo questo muro era il risultato del cedimento della muratura proprio in corrispondenza della soluzione di continuità costituita da tale apertura.
Un vano, appoggiato successivamente al muro di cinta, conservava un tratto dello stipite della vecchia porta  d’ingresso al castello, per circa un metro d’altezza dal piano di calpestio dello stesso vano.
L’accesso era garantito da scale temporanee che venivano collocate solo all’occorrenza.
Nel lato settentrionale c’era una scala tagliata nella roccia che in seguito avrebbe assicurato il collegamento con il cortile inferiore.
Dalla Torre nord, aggiunta successivamente nell’ XI – XII secolo, è possibile invece ricostruire il tracciato del muro settentrionale fino al cortile triangolare che era certamente compreso nel perimetro originario della fortificazione. Nel cortile triangolare si apre la cisterna,
e da questo cortile fino alla torre nord i muri esterni attuali poggiano sui muri originari del perimetro della fortificazione. I limiti dei corpi di fabbrica, aggiunti successivamente, coincidono con quello della balza rocciosa.
La facciata del castello si sovrappone ad un preesistente muro dello spessore di 1,30 m che si nota a partire dallo stipite sinistro del portale d’ingresso attuale e prosegue lungo i fronti meridionale ed occidentale della torre nord.

TORRE NORD 


La Torre Nord a sinistra (fino ad un paio d’anni fa ancora in discrete condizioni) e
la Torre Sud a destra
Una torre a pianta quadra (5,50 x 5,80) m. di cui, fatta eccezione del basamento, conserva ben poco del suo impianto originario. Un impianto originario distinguibile per la differenza tra lo spessore dei muri: il muro medievale con uno spessore di 1,30 m mentre gli altri tre, che chiudono il perimetro della torre, presentano spessori compresi tra i 55 ed i 69,5 cm.
Questi ultimi appartengono almeno a tre distinti cicli costruttivi databili a partire dal XVII secolo e determinati da crolli che hanno interessato nel tempo il corpo di fabbrica.
Di questa torre del primitivo impianto si conservano: il muro meridionale alto circa 3,97 m lungo il quale era visibile la nascita o l’impostazione di una volta a botte; un modesto tratto del muro occidentale che prosegue per 86 cm oltre l’angolo comune ai due lati; l’intero basamento di questo fronte e forse anche di quello settentrionale.
Al tratto meridionale di questa torre si collega il tratto di cortina che prosegue fino all’ingresso del castello e su questa originaria struttura si è parzialmente sovrapposto il muro costruito nello stesso periodo della torre meridionale della facciata o torre ovest.
La Torre Sud solo in apparenza è gemella di quella nord. La Torre Nord ha una sua singolarità non solo in relazione alle altre fabbriche del castello ma anche nell’espressione dell’architettura fortificata siciliana
L’angolo sud ovest della torre è costruito con l’impiego di pietre di diversa natura e dimensione  (da 23 x 10 cm a 78 x 22 cm). La muratura è costruita per ricorsi alti circa 90 cm ed è allettata con una malta di calce che presenta numerosi inclusi gessosi e pochissima sabbia. In corrispondenza dei ricorsi, la muratura è rinsaldata con due assi di legno ortogonali appena sbozzati (0,28 x 1,40 m: spessore 6 cm) messe in luce dalle brecce apertasi nei due muri. Analoghi assi sono impiegati lungo un altro orizzontamento della muratura che ricorre circa 3 metri più in alto. Le barre lignee così disposte collegano trasversalmente  i due tratti di muri prossimi all’angolo, rendendo più solidale la porzione della fabbrica staticamente più critica.
È una precisa tecnica costruttiva che non risulta  documentata in altri edifici siciliani. Una tecnica che fu adoperata in antico proprio nella costruzioni delle fortificazioni e anche Vitruvio, ingegnere militare e costruttore di macchine belliche, a proposito delle torri di difesa indicava nell’impiego del legno un ottimo sistema di incatenatura della struttura.
Lungo il muro si disporranno il più fittamente possibile delle travi d’ulivo temprate al fuoco in modo che le due parti del muro saldate fermamente tra loro per mezzo di fibbie acquistino solidità… Tale sistema di incatenatura… si rileva particolarmente adatto e duraturo non solo nell’erigere le mura di una città, ma anche nella costruzione di opere murarie di un certo spessore” (Vitruvio)
Qualunque fosse il materiale usato, pietra o legno, il rinforzo assolveva sempre lo stesso compito perché permetteva al muro di avere una maggiore resistenza ai colpi d’ariete.
Nel mondo islamico erano adottate entrambe le soluzioni.
La tecnica costruttiva delle fortificazioni ha lasciato molte testimonianze in  merito.
Nel 1087 nella costruzione di una cinta muraria della cittadella fatimida del Cairo furono impiegate numerose colonne di spoglio che furono introdotte trasversalmente nella muratura in corrispondenza dei loro ricorsi.
Le colonne così disposte permettevano un incatenamento dei paramenti esterni delle mura con il nucleo centrale costituito da pietrame informe legato con malta.
In alcuni casi, come ad Aleppo o a Palmira, furono impiegate barre di basalto che sporgevano verso l’esterno del muro diventando delle mensole in forte aggetto sulle cortine.
Il prof. Marino L.  riportò il sistema costruttivo adoperato a Calatubo nella torre affermando che fu impiegato in alcune fabbriche del vicino oriente in un periodo antecedente al X secolo: “le funzioni principali delle barre sono quelle di assicurare, ad intervalli più o meno regolari e ripetuti in altezza, piani di posa regolarizzati per le murature superiori, per collegare trasversalmente le parti estreme del muro o accorpare murature diverse, per evitare il rischio di carichi concentrati, e sollecitazioni eccessive di taglio”.
L’uso di introdurre colonne nella muratura fu prontamente adottato dai Normanni nella costruzione dei castelli in Terrasanta.
La torre nord è in posizione avanzata sulla cinta muraria attraverso la quale si accedeva alla fortificazione. L’ingresso originario era identificabile con un vano, in seguito tompagnato posto al centro del lato meridionale della torre. Quest’ingresso determinava un’entrata indiretta nella fortificazione soluzione che costringeva eventuali assalitori ad esporre il fianco destro.

La natura e le dimensioni del materiale impiegato e la soluzione adottata negli angoli, con la messa in opera di conci perfettamente lavorati (60 x 25 ) cm, non trovano riscontro nelle murature della torre orientale e della cinta muraria settentrionale posta nella parte più alta dell’altura rocciosa.
Infatti tra queste strutture non sono presenti conci perfettamente squadrati neanche in corrispondenza dello stipite della porta d’ingresso della torre orientale, costruito con pietre appena sbozzate.
Inoltre i muri della torre e del tratto di mura di cinta adiacente sono spessi quasi il doppio di quelli della torre orientale. La torre orientale era più protetta, quindi non necessitava di grosse opere di consolidamento, mentre la torre Nord era più esposta agli attacchi frontali, anche con l’ausilio di macchine d’assedio.
Le differenti tecniche costruttive dei manufatti costruiti sul costone roccioso più alto portano ad includere in una fase successiva la costruzione sia delle cinta difensiva più robusta, in corrispondenza dell’ingresso del castello, sia della torre nord detta anche “barbacane” per la sua posizione.
L’origine dei “barbacani” è probabilmente bizantina e si collega alle torri d’ingresso di molte fortezze giustiniane del Nord Africa.
Nella fortezza di Amathous, sulla costa meridionale di Cipro, gli scavi archeologici hanno riportato alla luce un barbacane, datato intorno al VII secolo.  Addossato ad una preesistente cinta muraria munita di ben sei torri. Un tipo di struttura che sarebbe da iscrivere nell’architettura fortificata islamica e la tecnica costruttiva impiegata a Calatubo fa proprio riferimento alla cultura islamica. La Torre Nord fu costruita dai Musulmani siciliani oppure dai Normanni che, assimilando, le tecniche costruttive dei musulmani, li misero in pratica come fecero nella costruzione di numerosi castelli in Terrasanta ?
Una costruzione datata intorno all’XI – XII secolo quando era ancora  presente un forte elemento musulmano malgrado la conquista dell’Isola da parte dei Normanni.
Lo studio delle murature ha permesso di datare allo stesso periodo il muro che delimita ad occidente la rampa d’ingresso (50 cm) nel quale è stato riconosciuto un antemurale. Cioè una struttura esterna al recinto fortificato concepita per difendere l’ingresso della struttura costringendo gli assalitori ad un percorso obbligati. Un muro che non aveva funzione di contenimento della rampa. Il muro d’ingresso del castello è simile a quello della torre ed all’antemurale costruito sul limite della balza roccia e non presenta le barre lignee.


Intorno alla metà del XII secolo si ha l’attuale configurazione dell’ingresso del castello determinata dalla costruzione della Torre Sud e del muro che collega le due torri nord e sud.
Nello stesso periodo venne costruito il Mastio, nel secondo cortile e un’altra Torre posta a difesa dell’ingresso tra il primo e il secondo cortile. Strutture che si trovano all’interno del primitivo recinto fortificato medievale dell’XI secolo

LA  TORRE  SUD

La Torre Sud , posta sulla facciata del castello, è un corpo di fabbrica a base rettangolare (6,50 x  6,00) m.
Nel corso del tempo ha subito diversi crolli seguiti da successivi restauri.  Poggia su un piano roccioso più basso di circa 6,50 m rispetto a quella della prima corte del castello.
Il lato meridionale è rovinato da un vistoso crollo che ha interessato la fabbrica nell’ultimo decennio. Nel lato occidentale si nota sul muro una risega orizzontale a circa 6,00 m dal piano roccioso di fondazione. Una risega legata al ripristino della struttura con una  diversa muratura. Una linea obliqua evidenzia la stessa differenza di muratura sul lato settentrionale. Ripristini che furono legati ai crolli delle pareti e riscontrabile anche nell’angolo superiore nord-ovest della torre dove per la ricucitura furono impiegati dei piccoli conci squadrati.
In corrispondenza di questo spigolo i De Ballis collocarono, a testimonianza del loro intervento di ripristino, uno stemma lapideo.
In seguito ai restauri delle torre si conservano: l’intero basamento fino all’altezza di circa 6,00 m; il lato orientale rivolto verso il primo cortile del castello e anche se parzialmente, il lato settentrionale provvisto di due feritoie.
La torre in età medievale si sviluppava su almeno tre livelli:
-          Il piano terra alto circa 6,00 m e coperto da una volta a botte;
-          Il primo piano con uno sviluppo di circa 3,50 m e separato dal secondo piano da un solaio ligneo;
-          Il secondo piano, sventrato dal calpestio alla copertura, risulta privo della porzione sommitale.
 La torre che presentava al momento dell’indagine un altezza di circa 11,50  e costituiva solo una parte della costruzione perché priva del suo coronamento.
Perché fu costruita ?
Una costruzione legata a nuove esigenze difensive che misero in attenzione la necessità di fiancheggiare l’accesso al castello con torri di fiancheggiamento.
Infatti l’erezione contemporanea della torre sud e del muro di facciata delinea il tipo di difesa presente nel castello.
Attraverso le feritoie aperte nei muri delle torri, era possibile esercitare una difesa estrema ed ostacolare gli assalitori fino al limite dell’ingresso della fortificazione.
“Queste torri servivano a meglio sorvegliare il terreno dinanzi alle cortine ed anche per battere con tiri laterali il nome che si accostasse alle mura, ossia a fiancheggiare le cortine… esse si elevavano pressochè sempre al di sopra delle cortine e la loro altezza spesso giungeva ai trenta metri…”.
“La feritoia arciera era adatta all’uso dell’arco, e poiché l’arciere usava l’arco tenendolo verticalmente, così la feritoia doveva presentarsi lungo dall’alto in basso, stretta e leggermente svasata verso l’interno. Tali feritoie assieme a quelle “balestriere” furono le sole impiegate prima del XIV secolo…”.
In Sicilia, almeno dalla prima metà del XII secolo, la tecnica di fortificazione bizantino-araba era stata assimilata dai nuovi dominatori dell’isola, i Normanni, che l’applicarono nella costruzione di edifici militari inediti cioè non bizantini e nemmeno musulmani.
La relativa tranquillità e stabilità del Regno di Ruggero II (1130 – 1154) coincise con l’avvio di numerose costruzioni normanne. Lo stesso Idrisi allude ad opere, anche se sotto il termine di restauro, di strutture fortificate promosse da Ruggero.
Gli interventi sulla preesistente fortificazione di Calatubo, riferibili a  questo periodo (metà del XII secolo), sembrano aderire ad un programma generale di ammodernamento e potenziamento della difesa.
Infatti nel momento in cui si ha il raddoppio delle torri dinnanzi alla facciata del castello, s’inserì probabilmente anche una torre posta vicino all’ingresso che dal primo cortile introduceva al secondo cortile. Una costruzione ipotizzata in base ai resti delle strutture murarie presenti.
Una torre legata a quel piano di difesa progressiva che opponeva un ostacolo ad ogni possibile avanzata del nemico.
A Calatubo sono quindi presenti ben tre sbarramenti difensivi corrispondenti all’incirca ai salti di quota del banco roccioso.

Torre Sud

Torre  Sud (a destra)

I livelli difensivi 

Torre Nord (a sinistra) e Torre Sud (a destra)

PORTALE

Foto risalente al mese di maggio del 2014



Muro perimetrale entrata castello con i fori difensivi e con pietra calcarea solamente  lavorata

Portale d'Ingresso


Il portale d’ingresso fu aggiunto in epoche successive dal momento che all’esterno è semicircolare, realizzato con pietra calcarea compatta e perfettamente squadrata, mentre all’interno è presente un arco ribassato di piccoli mattoni in terracotta.



La parte del muro che definisce la rampa verso est, si collega alla torre sud creando un angolo quasi retto ed è formato da conci ben quadrati di 60 x 25 cm. La rampa è ancora presente anche se in stato di abbandono e coperta da vegetazione.

LA  TORRE MASTRA  (MASTIO)
Un impronta normanna conserva inoltre l’impianto della torre mastra all’interno del perimetro della fortificazione.
Tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, il mastio fu incorporato in un piccolo palazzo fortificato che è distinto dagli ambienti che vi si addossarono sul lato ovest. Una chiara soluzione di continuità verticale che è riscontrabile in corrispondenza dello spigolo nord-ovest della torre.
La torre di pianta quadrata ( 7 x 7 )m e con un notevole spessore dei muri (da 1,30 a 2,30 )m si sviluppa oggi (se non ci sono stati crolli recenti) su due livelli.
Le pareti sono costituite da conci di calcare. Nell’angolo nord-est sono presenti delle bugne quadrate di vario tipo e dimensioni (17,5 x 18 e 71,5 x 18) cm mentre nell’angolo sud-est sono presenti dei grandi conci di calcare compatto che consolida la parte della struttura che va da terra fino ad un altezza di circa 6 metri.


Il piano terra della torre, coperto da una volta a botte, non è direttamente raggiungibile dall’esterno. La finestra posta all’altezza di 5 m e che si apre sul cortile inferiore della fortificazione è chiaramente frutto di rimaneggiamenti successivi,. L’unico vano che consente l’accesso a questo livello è praticato all’interno del corpo di fabbrica, lungo il muro comune alla torre ed all’ambiente ad esso attiguo.

La rilevante differenza di quota tra i piani di calpestio ha reso necessario compensare il dislivello di circa 1,10 m mediante una piccola scala ricavata nello spessore murario.
Tuttavia nemmeno questo ingresso è contestuale alla costruzione della torre.
La volta del piano terra fu rialzata in corrispondenza di questo passaggio tra i due ambienti. Un adattamento  che non sarebbe stato necessario se al momento della costruzione della torre fosse stato previsto un ingresso ubicato in questa posizione.
L’ingresso era piuttosto  praticato dal primo livello della torre attraverso una porta aperta al centro del suo muro ovest e chiusa a seguito dei lavori di ampliamento del castrum.
La parte superiore di questo ingresso era perfettamente conservata al disopra del solaio fra il piano terra ed il primo piano. L’altezza complessiva del vano doveva essere di circa 2 metri.
La torre prevedeva un ingresso dall’interno del recinto, cioè da una posizione protetta da aggressioni esterne. L’assenza di tracce di un collegamento verticale fra i piani induce a pensare che l’accesso ai vari livelli sia stato affidato ad una scala lignea.
L’originario ingresso della torre esclude con certezza la pertinenza al primo impianto dei locali che si aprono sulle altre pareti.
Il numero di aperture sulla torre mastra, per evidenti ragioni di sicurezza, dovevano essere ridotte al massimo e in ogni caso si trattava di feritoie che garantivano il controllo visivo della zona oltre che all’areazione interna. La configurazione attuale è il frutto dei successivi adattamenti che hanno annullato progressivamente la sua funzione militare.
L’ingresso era quindi situato al primo piano mentre il piano terra, più esposto agli attacchi, era completamente isolato dall’esterno da pareti senza aperture ed era destinato ad accogliere riserve idriche o alimentari.
L’attenta ricerca della studiosa Rosa Di Liberto ha infatti rilevato il considerevole spessore dei muri perimetrali della torre, tipica in ogni caso delle torri mastre. Torri dallo spiccato sviluppo verticale che prevedevano anche la specializzazione nella destinazione d’uso dei vari livelli.
Vistose tracce di rivestimento in cocciopesto, rilevato al di sotto delle pitture della volta del piano terra della torre, potrebbero rilevare l’utilizzo dell’uso di questo ambiente come cisterna destinata appunto alle riserve idriche. Una affermazione che la ricercatrice avanzò con cautela perché sarebbero necessari degli studi archeologici con analisi del campione di rivestimento per poter confermare una simile ipotesi.

Purtroppo la torre mastra di Calatubo è priva delle coperture e si conservavano almeno fino ad un paio di anni fa solo due piani. I 9,50 metri d’altezza rilevabili erano solo una parte dell’altezza dell’originaria struttura che doveva essere costituita da un altro piano oltre che dal coronamento.
Il crollo della volta a botte che copriva il primo piano non ha cancellato le tracce della sua impostazione lungo i muri occidentali ed orientali. Una impostazione legata alla naturale presenza di una risega, al di sopra della quale si nota un restringimento del muro di circa 25 cm. A partire da questa quota, si conservava una porzione di muro dello spessore di 90 cm, che attestava l’esistenza di un altro livello oltre al secondo. Infatti la stessa continuità di questo muro, alto 1,70 m, escluderebbe che si trattasse del parapetto della torre.
Se agli 11 metri circa di altezza che avrebbe raggiunto la volta di copertura del primo piano della torre, si aggiungono almeno altri 4 metri per l’altezza di un altro livello, in età medievale la torre avrebbe avuto un altezza di circa 15 metri oltre al coronamento.
C’è una rappresentazione del castello, un incisione datata 1597, che dà una perfetta visione anche della struttura della torre mastra.
La torre presentava un coronamento costituito da una esile torretta conclusa da una copertura piramidale che svettava al di sopra del piano del terrazzo. Un qualcosa di simile alle torri che serrano le facciate delle cattedrale normanne di Cefalù e Monreale.
Inoltre nella rappresentazione del’ 500 si distingue la fabbrica addossata all’originario baluardo.

(un immagine rilevabile nella Descrittione dell’arcivescovado di Monreale con le sue terre , un incisione che si trova nell’opera di G.L. Lello, Histyoria della Chiesa di Monreale, rist. an. Dell’edizione del 1596).


LA ZONA  RESIDENZIALE


Il castello nel 1295 fu concesso a Federico d’Antiochia.  In questo periodo avvenne la trasformazione da struttura militare in residenza fortificata.

La fabbrica che costituiva in nucleo residenziale in età medievale


Trasformazione che determinarono l’unione della vecchia Torre Mastra normanna con le nuove stanze nobiliari. Una torre “Mastra” che aveva ancora una sua validità difensiva caratterizzata dall’assenza di aperture nel cortile inferiore. La nuova residenza fortificata era costituita da due piani, con tre sale a volta nel piano terra e tre stanze rivestite con piastrelle al primo livello. Queste tre stanze a cupola erano disposte su diversi livelli, collegati tra di loro da piccoli passaggi. La prima stanza era coperta da una volta di bordo.

“Volta di bordo”

Si superava un dislivello di 1,10 metri e si giungeva nella sala seguente che era coperta da una volta a crociera. In questa stanza si apriva una finestra sul cortile e che fu aggiunta successivamente ed infine la terza stanza con copertura simile alla precedente.


Il primo piano si raggiungeva grazie ad una scala di legno posta all’esterno della residenza.
Il castello nel XIII secolo fu abbandonato.
Nel 1583 Graziano De Ballis acquistò il feudo ed il castello dal Conte di Caltabellotta e Duca di Bivona, De Luca e Peralta, con atto stipulato presso il notaio Lazzara di Palermo.
Tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XVII secolo il castello fu oggetto di lavori strutturali di recupero da parte della famiglia De Ballis. Lavori importanti perché fu costruita una nuova ala ad ovest della preesistenza struttura residenziale e una chiesa nel cortile d’ingresso cioè nei pressi della torre Nord. Altri lavori interessarono la facciata principale con il portale d’ingresso e la torre sud.


Il portale d’ingresso del castello fu  ristrutturato ed anche la torre sud evidenzia delle ristrutturazioni legati al periodo storico della famiglia De Ballis. (Ristrutturazione che ho citato in precedenza nel paragrafo “La Torre Sud).
Nella stessa torre aprirono due finestre una sul lato ovest ed una sul lato nord.
Anche il palazzo fortificato subì delle modifiche con dei lavori risalenti al 1597.  I documenti del 1702 non citano più la torre Mastra come elemento importante nell’architettura del castello dato che era ormai inglobata nel palazzo fortificato.
 Nella torre Maestra furono anche aperte delle finestre sui tre lati dell’edificio che in precedenza erano assenti per ovvie ragioni di sicurezza ed in ogni caso erano presenti delle feritoie.
Il corpo residenziale ovest, costruito tra il XVII ed il XIX secolo fu unito al palazzo fortificato e poggiato al muro di cinta medievale.
In questo stesso periodo venne costruita la chiesa nel cortile d’ingresso (primo cortile), vicino alla torre Nord.



 LA  CHIESA
La chiesa ha una pianta rettangolare con una superficie di circa 50 mq e una copertura con volta a botte.
Una chiesa che come già accennato fu costruita dalla famiglia De Ballis come dimostra lo stemma posto sull’architrave della porta d’ingresso della cappella.
Una piccola chiesa che anche se non contraddistinta da particolari caratteristiche estetiche o formali  ha la sua importanza storica.
Una piccola chiesa rurale caratterizzata da una forte semplicità nelle soluzioni architettoniche.
Nel prospetto esterno, grossi blocchi di calcare compatto incorniciano le due finestre ed il portale d’ingresso.




All’interno la chiesa è ad un aula ed è ancora visibile, addossato alla parete settentrionale, un piccolo altare sopraelevato di un paio di gradini. L’altare è l’unica sopravvivenza rimasta a testimonianza della destinazione d’uso di questo edificio.



La tecnica muraria impiegata nella costruzione della chiesa, i cui muri hanno uno spessore di circa  un metro, presenta delle analogie con altre chiese riscontrate negli ambienti residenziali seicenteschi.
La chiesa  è in rovina a non so se il Comune abbia effettuato dei lavori di messa in sicurezza dell’edificio come erano stati  previsti nel lontano dicembre 2016.




Nella parte meridionale c'è una scala parzialmente scavata nella roccia, costruito in epoca moderna, che collega le fabbriche residenziali con il cortile.
Nonostante gli stravolgimenti e la mancanza di veri elementi decorativi, il castello non ha mai perduto il suo aspetto originario di “fortificazione di campagna”.
Nel 1707 il castello passò a Donna Gaetana de Ballis, ultima baronessa di Calatubo.
Donna Gaetana sposò Domenico Papè e alla morte della  consorte il castello e il feudo passarono a
Ignazio Papè e Ballo.

RISTRUTTURAZIONI E MODIFICHE DEL XVIII – XIX SECOLO

Nel XVIII secolo il castello subì un ulteriore modifica con la costruzione  di due sottili torre merlate. Venne anche creata una scala esterna per rendere più agevole l’accesso alle aree residenziali.

Le due torri merlate costruite nel XVIII secolo.

Le due torri merlate evidenziate in rosso del XVIII secolo.

Le due torri non avevano alcuna funzione militare e furono costruite con piccoli conci quadrati, con spessore minimo di 54 cm e con merli nella parte superiore. 

le due torri costruite da Papè di Valdina .- foto del 1985

Segni, nell'angolo del muro che consentono di identificare il passaggio tra la muratura  di una delle
Torri merlate (XVIII secolo) e la muratura sottostante.

Parete rocciosa del muro perfettamente levigata

La zona residenziale, sul lato ovest, s'affacciava sul primo cortile.
Si vede chiaramente il muro che separava il primo dal secondo cortile e il relativo
il portale d'intresso. oggi scomparso come gran parte del muro.
Il castello fino a pochi anni fa era...... un ovile.......
si vedono ancora le mangiatoie in legno per gli animali.......
Avranno trovato qualche reperto ?????????



Copertura del XVI secolo con travi di legno e tegole (coppi siciliani)
La copertura degli edifici del XVIII secolo è invece piana.






Dal cortile triangolare si raggiungevano i piani superiori attraverso una scala, ricavata nella roccia, costruita nel XIX secolo.


Apertura sul cortile triangolare

Antico ingresso sul cortile triangolare


Questi cambiamenti dimostrano come il castello, sia con la famiglia De Ballis che con la famiglia Papè non fu abbandonato ma diventò luogo di  villeggiatura soprattutto per i Papè di Valdina.
Alla  fine del XVIII secolo, con il declino dell’aristocrazia e la crisi politica, nel 1879 il castello fu nuovamente abbandonato dopo circa 6 secoli di presidio.
Fu un abbandono temporaneo perché alcuni anni dopo don Papè di Valdina intervenne nuovamente sulla struttura. Furono costruite una scala a sbalzo, che conduceva dal cortile triangolare ai locali residenziali di nuova costruzione, e  sul lato occidentale, un balcone in pietra (fine XIX secolo) di cui rimangono solo i tre mensoloni e il piccolo ballatoio.


Don Papè costruì dei vasti magazzini per la produzione di vino e l’ennesima ristrutturazione con nuovi ambienti, nella parte residenziale


Il Principe di Valdina era un grande esperto di vini e produttore del vino denominato “Castel Calattubo” che ebbe un grande successo nel mercato enologico perché aveva alla base delle tecniche speciali per la produzione e lo stoccaggio nei novi magazzini da  lui fabbricati.


Il nucleo residenziale (7 x 21,50) m ha al suo interno nel cortile triangolare un grande serbatoio d’acqua che sfrutta una cavità naturale. Gli ambienti del nucleo sono ormai in totale abbandono ed in alcuni sono ancora visibili le travi del tetto.

Con la prima guerra  mondiale la crisi economica portò gravi conseguenze nel commercio del vino. Il castello fu abitato fino al 1940 quando il comandante delle forze armate italiane sequestrò il castello per adibirlo a posto di vedetta militare.
Dopo la seconda guerra mondiale era ancora in abbandono. Negli anni 50 crollò unaa parte del muro sud e fu l’inizio di un declino inarrestabile.
Il terremoto del Belice del 1968 diete un ulteriore colpo e la scossa del 2002, nella struttura già lesionata ci fu il crollo degli edifici sul lato sud; nel 2003 crollò parte della torre sud; nel 2004 parte del muro della facciata nord e le stanze  che erano appoggiate a questo muro.




Nel 2005 fu la volta della facciata d’ingresso… a cui si aggiungono le spoliazioni da parte dei soliti amanti della coltura con in particolare gli artistici pavimenti originali.
Un castello che è oggetto di visite e studi da parte di università straniere perchè ripeto, malgrado i diversi interventi che si sono susseguiti nei secoli, ha sempre mantenuto il suo aspetto originario di castello o fortificazione di campagna a protezione di un villaggio o casale.
Ed è triste vedere leggere nei commenti delle università straniere che hanno visitato e studiato il sito…” I soffitti sono quasi completamente crollati, le pareti hanno lesioni gli elementi di divisione profondi e verticali sono impraticabili. Sembra una rovina coperta di vegetazione, ma ha ancora un enorme Fascino”.






le due torri in una foto del 1968

Il Castello nel luglio 2014

Copertura del XVI secolo con travi di legno e tegole (coppi siciliani)
La copertura degli edifici del XVIII secolo è invece piana.

9.   LA LEGGENDA ?
NEI SOTTERRANI FU RINCHIUSO UN BAMBINO/A CHE ERA EREDE AL TRONO ?
Il 4 aprile 2003 il quotidiano “La Repubblica” riportò un interessante articolo, scritto da Baldo Carollo e dal titolo “Calatubo, le rovine dell’Islam”.
“Qal’ at Awb”  sta morendo, pensò il geografo arabo Idrisi, lasciando il castello alle sue spalle per raggiungere il villaggio saraceno di Alquamah. Uno strano destino per questo castello che, malgrado le sue condizioni,  è uno degli esempi più affascinanti di fortificazione che potremo definire di campagna. Castello che dominava le colline ricche allora di grano ed oggi coperte da estesi vigneti.
“Calatubo.. sta morendo” è una frase che suona come  il presagio di uno strano destino perché ripetuta dal bibliotecario Roberto Calia che accompagnò il giornalista nella visita del castello.
Mons. Regina, presbitero e storico, amava molto il suo territorio e scrisse anche un libro sul castello “Calatubo dalla protostoria ai nostri giorni”.
Il castello allora stava lentamente sgretolandosi sotto  il peso dei secoli, si dice costruito nel 1093, e sotto l’azione dei soliti tombaroli, dei pecorai, ecc..
Il bibliotecario di Alcamo, anche lui amante della sua terra, rilevò al giornalista la presenza di cunicoli che secondo la fantasia popolare collegavano il castello di Calatubo con il castello dei Conti di Modica ad Alcamo e anche con la Torre dei Ventimiglia di Monte Bonifato.
Un dialogo con il giornalista ricco di sentimento perché il bibliotecario riportò gli antichi racconti che tante volte il nonno Sasà gli aveva rilevato, attorno ad un braciere nelle freddi serate d’inverno, sugli incantesimi, sui  cunicoli e sulle  introvabili “truvature”… Rilevò la storia del sito legata ai proprietari, Peralta, Moncada, De Ballis, Papè. Una vera enciclopedia vivente arricchita da un amore sincero e vivo verso per la sua terra.
In merito ai cunicoli “infiniti” rilevò che la loro esistenza non era provata ma che esisteva un imbocco, lungo un centinaio di metri, che fu scoperto.  “Proprio da questo imbocco  anni fa un giovane di Calatafimi s’addentrò nei dedali intricati e ne uscì alla fine scioccato perché assalito da strani gemiti forse di gatti selvatici”.
Il giornalista ed il bibliotecario percorsero  la ex regia trazzera fino alla falde di Calatubo.. Il giornalista rimase colpito dall’ambiente.. “Salendo attraverso un campo di grano mi rendo conto della posizione strategica di questa rocca inaccessibile che è strategica, sia militarmente sia spiritualmente, come ogni insediamento elimo. Le colline di olivi, viti e frumento sembrano uno smisurato tappeto riccamente intrecciato, tra monte Bonifato, Alcamo, il complesso montuoso dell' Inici, il golfo di Castellammare, il Mediterraneo. Dall' alto tutto sembra magia. Mentre percorro un viottolo calpesto innumerevoli resti di ceramiche e mi imbatto in tracce superstiti di architetture sepolcrali”.
Ancora una volta riviveva l’immagine di una Terra ricca di storia mai  e mai del tutto valorizzata ma anzi..depredata..” A Balestrate e a Partinico, nell' Antiquarium comunale, si trovano frammenti, vasi greci, coppe ioniche, "kylikes", "skyphoi", anfore, lucerne ombelicate, assi romani. Ma il reperto più intrigante è una maschera fittile di produzione locale del VI secolo a.C., misteriosamente perduta, di cui ci resta solo una foto. È  un volto magnetico, con gli occhi a mandorla che fissano lontano e un naso prominente sopra la bocca chiusa atteggiata a un sorriso enigmatico. Potrebbe essere maschio o femmina, un giovane o una vecchia. Questo viso fissa i millenni. è il volto imperscrutabile di uno sciamano elimo?”
Seduto sopra una rupe fisso il castello ormai caduto in una rovina senza ritorno, mentre il torrente Finocchio mormora sotto la rocca e un' ape ronza tra i fiori viola di un enorme ciuffo di camedrio. Dove c' era un' indaffarata civiltà ora rimane un maniero caduto non per le mani di invasioni barbariche ma per l' erosione dell' indifferenza. Le uniche invasioni sono quelle delle colonie di assenzio argenteo, di ortiche, di malva verde rigogliosa e di un pastore che vi ha impiantato da decenni un ovile. Il castello muore in una malinconica eutanasia. Tutto viene travolto dal tempo. I ruderi sono il simbolo del fatalismo isolano. L' oblio è la categoria dello spirito che Tomasi di Lampedusa identificò con l' anima dei siciliani. «Sono eterni, non svegliateli dal loro sonno millenario», scrisse. è sensuale e mistico questo sentimento ancestrale d' atarassia e di destino. è il sorriso ironico dell' eternità, il sorriso di sciamano del misterioso "uomodonna" della maschera fittile.
Mi svegliano dall' incantesimo un cambio improvviso di luce e un tubare di colombe. Quella lì in fondo, triangolare, è la «torre dei colombi», sempre invasa. E questa è la torre di sud ovest (Torre Sud). Il barone Nicolò Flugj Papè raccontò personalmente a monsignor Regina che «sotto questa torre si trova una galleria segreta. Fu murata all' inizio del secolo dal principe Pietro Papè in seguito al grave incidente occorso a un giovane impiegato del castello”.

È questa la LEGGENDA (?) del Castello di Calatubo
Una leggenda che dalla tradizione locale è citata come “La Turri di lu Re biddicchiu” (La Torre del re un po’ spavaldo”).
Nei primi anni del’ 900 il castello era di proprietà del principe di Valdina, Don Pietro Papè che aveva alle dipendenza un ragazzino che svolgeva le funzioni di stalliere badando ai suoi cavalli.
Il giovane un giorno per curiosità forzò la vecchia grata  che si trovava nei sotterranei della torre sud del castello. Una grata che chiudeva da tantissimo tempo un passaggio segreto che portava fuori le mura del castello. Le fonti locali citano oltre al passaggio segreto anche l’esistenza di un antica cripta.
 Il ragazzo mosso da curiosità, tipica degli adolescenti, e desideroso di scoprire le verità su quelle antiche leggende, entrò nel cunicolo tenebroso.
Dopo un pò di tempo il ragazzo venne fuori correndo all’impazzata. Tremava paurosamente a tal punto da svenire. Si riprese e il personale del castello cercò di capire cosa gli fosse successo e quindi la causa di quel terrore. Il ragazzo era analfabeta e non seppe mai spiegare con precisione gli avvenimenti perché a causa della paura aveva perso l’uso della parola….
I dipendenti del principe entrarono nel cunicolo e rinvennero tantissimi scheletri umani che erano stati depositati nel luogo da tantissimo tempo.
Resiti umani che forse erano venuti alla luce durante le vangature dei terreni sottostanti la rupe e collegati alla presenza di un villaggio arcaico. Resti che furono posto in questa cripta ?
Subito dopo l’accaduto il principe diede l’ordine perentorio di chiudere il passaggio che ancora oggi si trova murato e inabissato in una spessa coltre di detriti nelle fondamenta della torre.
Fin qui la leggenda ma il termine “la Turri di lu re biddicchiu” farebbe risalire la “leggenda” ai primi anni del 1400.
La tradizione cita infatti che in quei sotterranei fu tenuto prigioniero il figlio/a naturale ( quindi illegittimo/a) del Re di Sicilia Martino I. Un figlio/a non legittimo/a e frutto delle frequenti relazioni che il re, un vero “casanova”, aveva nella corte palermitana.
Alla morte del re Martino I, avvenuta in Sardegna, anche qui la causa della sua morte fu legata ad una leggenda perché causata dai “baci di una donna”, gli successe al trono l’anziano padre Martino il Vecchio. Prese il nome di Martino II e fu il primo caso nella storia che un padre successe al figlio.
Sembra che il bambino/a fu chiuso/a nei cunicoli durante l’interregno, cioè nel passaggio della reggenza da Martino I a Martino II, perché ritenuto/a naturalmente scomodo per la successione al trono. I baroni siciliani erano contrari ai Martini e certamente la presenza di un erede avrebbe determinato una situazione politica non facile da gestire.
Del bambino/a, purtroppo non si seppe più nulla e sicuramente fu lasciato/a morire di terribili stenti dentro quei cunicoli o cripta segreta.

Rimase il nome dato alla torre e a quanto sembra nel castello, che negli anni 30 e 40 era abitato perchè erano presenti i magazzini del vino “Calattubo” prodotto dai Papè, gli abitanti sentivano spesso durante la notte le urla strazianti di un bambino/a che invocava aiuto … una voce terribile con un pianto struggente che proveniva sempre dallo stesso punto,,, dalla Torre Sud.



Ammessa l’esistenza di questo bambino/a cerchiamo  di svelare  il carattere di Martino I, detto anche il Giovane, per capire  il periodo storico al quale è legata la “leggenda”.
Martino I era nato a Barcellona il 25 luglio 1374 e morì  giovanissimo, all’età di 35 anni, a Cagliari il 25 luglio 1409. 
Fu re consorte di Sicilia (o di Trinacria) dal 1392 al 1401 e re di Sicilia dal 1401 al 1409.

Tra il 1389 ed il 1392 aveva sposato Maria di Sicilia, regina titolare del Regno di Trinacria, in quanto figlia del re Federico il Semplice. Un matrimonio che fu  contrastato da gran parte della nobiltà siciliana. Regnò quindi sulla Sicilia insieme alla moglie Maria fino alla morte della regina avvenuta nel 1401.  Rifiutando  gli accordi stipulati nel Trattato di Avignone, governò da solo senza considerarsi vassallo dei sovrani di Napoli.

Martino fu alla fine riconosciuto re di Sicilia  e il 26 dicembre 1402 sposò Bianca di Navarra.
Nel 1408 Marino I partì per la Sardegna per riconquistare l’isola che si era ribellata al re d’Aragona Martino il Vecchio (padre di Martino I). Una ribellione nata dopo la morte del giudice di Arborea Mariano V senza eredi.  La crisi di successione aveva favorito la ribellione dell’isola che si era affidata al visconte di Narbona, Guglielmo II, che fu eletto giudice della Corona de Logi il 13 gennaio 1409 ad Oristano.



In quest’isola Martino il Giovane morì nel 1409 ucciso, a “forza di baci”, da una donna, la “Bella di San Luri”.

Lo scontro tra l’esercito di Guglielmo e quello aragonese di Martino I si verificò a Sanluri, il 30 giugno 1409 e fu una vittoria aragonese. I genovesi che erano alleati di Guglielmo dovettero abbandonare l’isola. La Sardegna tornò ad essere dominio della casa aragonese.
Martino I, dall’alto di una collina, dove aveva fatto collocare la sua tenda, osservò il suo esercito catalano che “dava il sacco al sottostante villaggio di Sanluri, e rideva”.
Don Martino era un giovinetto pallido pallido, e con un volto quasi femminile. Egli era tanto tristo da meravigliare chi pensava come in un cuore così giovane potesse albergare tanta efferata crudeltà”.
“Rotto ad ogni vizio, non conosceva freno alle sue violenti passioni, così che per la Sicilia andarono un giorno famose le orge scandalose di quel re di vent’anni, che pare covare in sé tutti i vizi che resero esecrati gli ultimi imperatori romani. Ma questo re dissoluto aveva una virtù: la febbre della battaglia lo faceva delirare come la febbre dell’amore. ed ecco perché, sapendo egli come i sardi tentassero di leberarsi dal gioco che gli teneva soggetti agli Aragonesi, un bel giorno lasciò il suo regno di Sicilia, disse addio alle sue favorite, e con il fiore dei suoi soldati venne in Sardegna per ricondurre sotto il dominio di suo padre, il re d’Aragona (Martino Il vecchio), quelle province dell’Isola che gli si erano ribellate”
“La vittoria sorrise al giovane re; nella pianura di Sanluri i sardi vennero posti in rotta, ed i loro corpi furono calpestati dalle unghie dei cavalli del re di Sicilia”.
Martino I con la sua corte risiedeva nel castello di Cagliari (“Castellu de Susu” – Castello Superiore).
Nella grande sala si banchettava festeggiando la vittoria ma Martino I era febbricitante, tremante, aveva contratto la malaria.
“Il re, più pallido dell’usato,, con occhi che luccicavano come quelli di un febbricitante, portò con mano tremante la sua tazza divino ricolma alle labbra e disse:
Cavalieri, Marte ci ha assistito in questa giornata e  vincemmo; Bacco fu a noi propizio e ne fanno fede le vuote tazze, e i vostri volti nei quali io leggo l’ebrezza come sopra quelli dei nemici oggi ho letto la paura. Perché noi possiamo chiamare bello questo giorno ci mancano i favori di un’altra dea. Dite, non avete incontrata in questo villaggio una qualche fanciulla, che amabilmente a noi sorridendo, ci porga occasione di sciogliere un inno all’amore? e sì, che nell’isola non avvi penuria di belle, e i volti pallidi e gli occhi neri, pieni di fuoco, delle donne sarde mi ricordano quelli delle belle siciliane. Dunque in Sanluri non vi sarà una donna capace di rubarmi un bacio?”

Castello di Sanluri

Cagliari nella metà del XIX secolo. La città è dominata dal castello


Il re aveva appena finito di parlare quando la porta della sala s’aprì e apparve una “giovinetta spinta innanzi da alcuni soldati”.
“Allo entrare che fece la fanciulla nella sala del banchetto, un grido di gioia brutale uscì dai petti dei convitati, e cento occhi, che mandavano lampi di sfrenata cupidigia, si fissarono sopra il di lei volto. Poi si fece silenzio: tutti quei dissoluti contemplavano meravigliati quel tipo di bellezza affascinante perché quella giovinetta era bella davvero. Giovane che non toccava ancora i vent’anni, ella aveva un volto che Murillo, il pittore celebre per le belle donne dipinte nei suoi quadri, non avrebbe sdegnato tenere a modello”.
“ A giudicarla dal vestito doveva appartenere ad agiata famiglia. Una sottana di fine lana con mille pieguzze le cadeva lungo i fianchi torniti; un giubbetto, ricamato a fiori e fettucce d’oro, stretto alla vita flessuosa ed aperto sul petto, faceva risaltare la esuberanza del di lei seno, pudicamente coperto da bianchi lini”.
“La giovane Sanlurese  girava i suoi occhi bellissimi intorno, come per cercare un varco alla fuga”.
“Chi è queste bella ?” – disse il re rivolto ai soldati che stavano a fianco della fanciulla.
“Sire”- rispose uno di costoro – “ è una donna che ha ucciso due dei vostri migliori ufficiali”.
“Ma essi avevano prima ucciso il mio vecchio padre” – così rispose la giovine donna con voce sicura, mentre le lacrime le inumidivano il ciglio.
“Essa – seguitò a parlare il soldato - avrebbe già pagato col sangue la morte dei nostri compagni d’arme, se la sua bellezza non la avesse resa degna di essere offerta in dono al nostro valorosissimo e graziosissimo signore e re”.
“E bene faceste, per la croce ! Grazie miei bravi – rispose Martino – Ed ora uscite tutti. A me solo spetta giudicare se questa donna deve morire. Domani o messeri, udrete la mia sentenza”.
I Convitati si alzarono e sogghignando obbedirono all’ordine del loro re.
Quando Martino si vide solo con la bella fanciulla, le andò incontro barcollando, e presala perla mano che tremava, dolcemente la trasse a sé.
Poi le chiese con voce blanda:
“Come ti chiami ?”;
“Giovanna” rispose la poveretta e tremava come foglia;
“Vieni, o gentile e graziosa giovinetta; vieni; i baci del tuo re asciugheranno le tue lacrime”.
Ed il dissoluto con un braccio le cinse la vita, ed accostò le labbra sopra la di lei fronte coperta da freddo sudore.
Dopo qualche istante il re ubriaco dormiva col capo chino sul petto, e la Sanrulese lo guardava con certi occhi che gli avrebbero fatto paura se egli fosse stato desto.
Il re di Sicilia ha preso stabile dimora in Cagliari e Giovanna di Sanluri è divenuta la sua favorita.
Tra le braccia della bella Sanlurese Martino scorda il regno, e si abbandona con tutto l’ardore suo giovanile ai fascini di questa novella passione.
Ma il re da qualche giorno è malinconico.
I suoi occhi diventati vitrei non si animano che sotto gli sguardi procaci di Giovanna: le sue membra tremano tutte come quelle di un vecchio ottuagenario; il suo volto pare di cera, come quello di un morto, e solo un po’ di rossore appare di quanto in quando sopra i pomelli delle sue guance incavate. Soffre lo dicono tutti, e lo sente egli stesso.
Ma gli resta ancora tanta forza da stringere fra le sue braccia il corpo voluttuoso di Giovanna, e non pensa alle sue membra fiacche, e alla febbre che lo consuma.
“Quella donna è un vampiro; i di lei baci vi uccidono, o mio re”.
Così gli parlavano i suoi cortigiani, indicando Giovanna.
Ed egli rispondeva loro sorridendo:
“Trovatemi una morte di questa più dolce, ed io rinunzio ai baci di questa bella fanciulla”.
Ed il re, non mai sazio d’amore, ritornava agli amplessi che gli davano la morte.
Era solo l’amore che uccideva così il re di Sicilia ?
Fuori della città di Cagliari, in riva al mare, sopra uno scoglio eravi una torre mezzo diroccata. Fra quell’ammasso di pietre sconnesse, flagellate dal vento e dagli spruzzi delle onde quando il mare inferociva, insieme ai gufi dal sinistro canto, abitava una donna che il popolo chiamava Rica la maliarda.
Era questa una vecchia, bruttissima in volto e coperta di luridi cenci.
Sarda non era, perché con gran stento parlava il linguaggio dell’isola.
La si diceva venuta d’Oriente sopra un qualche naviglio di pirati. Viveva dell’altrui carità, e vendendo filtri e amuleti per guarire piaghe e ferite, e succhi d’erbe, delle quali ella solo conosceva le misteriose virtù.
Un giorno però si disse che Rica  era una fattucchiera, che al sabato andava al ballo delle streghe, e ci fu chi asserì averla veduta in una notte sospesa nello spazio a cavalcione di una lunga scopa.
Il vicerè, Giraberto di Cruillas, fece allora chiamare la vecchia accusata di sortilegio, e dopo averla minacciata di rogo e peggio, le vietò per sempre di abitare nel recinto della città.
Cacciata da Cagliari, fatta segno ai motteggi e anche alle percosse di chi l’incontrava per via, Rica andò a cercare un asilo fra i ruderi di quella vecchia torre in riva al mare.
Là, ella viveva tutta sola, soccorsa dalla carità di un qualche pescatore, col quale cambiava un’erba, per guarire quella o l’altra infermità, con un po’ di cibo.
In una notte buia buia, una donna si avvicinava con passo concitato, e voltandosi di quando in quando indietro per la tema di essere seguita, verso la dimora della fattucchiera.
Arrivata innanzi alla torre, battè per due volte, e in un certo modo, insieme le palme delle mani, e si fermò. Dopo un istante l’uscio cigolò sopra i cardini arrugginiti, e la voce di Rica disse:
“Entra”.
Quella donna seguì la vecchia, e fatti alcuni passi, si trovò in un recinto di pietre, stretto, stretto, illuminato scarsamente dalla luce giallognola di una lampada appesa al muro.
In quel covo non si scorgevano mobili alcuni.
In un angolo eravi il letto di Rica, se si può chiamare con questo nome un ammasso di paglia, frammista ad alga marina, coperto da una logora coperta di lana.
Sopra poche pietre eravi sparse alcune erbe secche; e in un cantuccio, ammonticchiati alla rinfusa, certi vasi di terra cotta di forma bizzarra.
Del resto, non uno di quei tanti simboli, così cari alle fattucchiere, si vedeva penzolare dalle rozze muraglie.
Rica si assise sul suo canile, mentre la donna, che alla luce della lampada il lettore avrebbe riconosciuta per Giovanna, si poneva a sedere sopra una pietra che sporgeva dalla parete.
“Ebbene, Giovanna, sei tu contenta dei filtri della vecchia Rica ?” – cominciò la maliarda.
“Si”.
“E me lo dici con quell’accento tanto triste ?”.
“Il tuo filtro, che certo devono aver manipolato i demoni nello inferno, rende troppo lunga l’agonia. Io non mi sento più il coraggio di vederlo soffrire cotanto quel dissoluto”.
“Oh! Oh! Il tuo cuoricino sentirebbe forse pietà per il giovane re ? O forse… i suoi baci hanno incominciato a solleticarti le labbra ? Eh ! eh! Si comincia con l’odio e si finisce con l’amore. dimmelo allora, e vedremo di mettere un po’ d’olio in quella lampada già vicina a spegnersi”.
”Cessa lo scherno, o Rica. Io non so se quello che ho fatto e fo è cosa infame. I bianchi capelli di mio padre, strappati ad uno ad uno dai soldati di Martino, il suo petto squarciato da venti ferite, il mio corpo gettato in balia di questo re libertino alla fine di un’orgia rischiarata dalle fiamme che distruggevano il mio villaggio natio, mi trovino grazia innanzi a Dio nell’ora della mia morte.
Io venni a trovarti, perché voglio che la vendetta finisca; perché la veste di carnefice comincia a pesarmi e a farmi orrore. Su dunque, o vecchia, dammi una droga che uccida con celerità del lampo. Intendi ? Eccoti dell’oro, e ne avrai ancora se questo non basta”.
E Giovanna gettò presso la maliarda una borsa colma di monete.
Rica si alzò, raccolse l’oro ed esclamò:
“Giacchè tu lo vuoi, appagherò le tue brame. Aspetta”.
E sì dicendo, tolse di sotto alla putrida paglia del suo letto un involto, lo aprì, prese una piccolissima fiala, che conteneva una polvere cristallina, biancastra, e porgendola a Giovanna le disse:
“Pochi atomi di questa polvere, e il tuo re comparirà innanzi ad un altro re, cento volte di lui più potente”.
Giovanna prese con mano febbrile la fiala, uscì dalla torre, e riprese la via della città.
Un’ora più tardi la bella fanciulla di Sanluri, assisa presso il letto del re, ascoltava il di lui respiro affannoso e diceva:
“Tu non hai rispettato il mio dolore, e i tuoi sozzi baci si sono posati sul mio volto bagnato di pianto per la morte del padre mio, trucidati dai tuoi vili soldati; tu non hai ascoltato le grida di disperazione di mille innocenti; tu hai fatto del mio villaggio un mucchio di rovine. Ora tutte quelle vittime, o re, chiedono vendetta e tu devi morire !”
E il re di Sicilia mormorava fra il sonno:
“Come sei bella, o Giovanna !”.
Al mattino un grido risuonò per le reggia.
“Il re è morto !”.
Nessuno seppe la cagione di una tal morte. Si disse che solo l’amore e i piaceri, avevano reciso il fiore della vita di Don Martino; ma nessuno sospettò di Giovanna.
Le ceneri di questo principe sono chiuse in un bel mausoleo nella chiesa maggiore di Cagliari, ed una pomposa iscrizione rammenta le di lui virtù, e tace dei suoi vizi.




Rievocazione storia "La Battaglia di Sanluri"

Martino I lasciò un testamento in cui ricordava i due figli illegittimi con le rispettive madri e la moglie Bianca….” filium nostrum don Fredericum natum ex…Tarsie muliere…Blanca consors nostra…filiam nostrum naturalem…Violanti… Agatuciam matrem dicte Violantis”.

Il racconto della fine del re Martino I (il Giovane), tratto dal testo “In Sardegna – Leggende e Cronache dei tempi Antichi”, permette di fare luce sulla personalità e sulle concezioni di vita del giovane re.
 Il giovane fanciullo rinchiuso nei sotterranei del castello di Calatubo chi poteva esssere ?
Come abbiamo visto Martino I  sposò tra il  1389 ed il 1392 Maria, regina di Sicilia, figlia di Federico il Semplice. Maria morì nel 1401. Un matrimonio che durò circa 12 anni e dal quale nacque Pietro.
Pietro nacque nel castello Ursino di Catania il 19 novembre 1398.
Morì il 16 agosto/8 novembre 1400 a Catania. Una morte legata ad un terribile incidente. Fu ucciso da un colpo di lancia alla testa durante una giostra. La perdita del figlio gettò Maria nella più profonda prostrazione. Il bambino su sepolto nella Cattedrale di Catania.
Nel 1402 sposò Bianca di Navarra da cui era nato Martino anche lui morto in giovane età.
Dal testamento si rileva l’esistenza di due figli illegittimi (naturali): Violante e Federico Luna.
Violante era nata da una relazione avuta con una certa Agata.. mentre Federico Luna  era nato tra il 1400 e il 1403 da una relazione avuta con una nobile di Catania, Tarsia Rizzari.
Quindi nessuno dei figli nati dai due matrimoni riuscì a sopravvivere e quando Martino I morì, il padre Martino II diventò nel 1409 re di Sicilia e cercò di fare legittimare Federico Luna per nominarlo suo erede della Corona d’Aragona. Non riuscì a portare a termine  la complessa operazione di legittimazione e il successivo arbitrato, Compromesso di Caspe, lo escluse definitivamente dalla successione alla corona.
Visto il modo di comportarsi di Martino I è probabile che abbia avuto qualche altro figlio illegittimo magari con qualche popolana e che Martino II decise di escludere dalla eventuale successione dato che la sua scelta era caduta su Federico Luna ?
Con Maria ebbe effettivamente un solo figlio Pietro  o prima di questo una figlia? Dal momento del matrimonio passarono 6/9 anni prima della nascita di Pietro
I Siciliani erano molto legati a Maria e alla sua morte avrebbero rivendicato il trono anche per una figlia  legittima.
La “leggenda” parla di un pianto di un bambino che poteva anche essere una bambina.
Nella torre sud c’è quindi un grande segreto che non è stato mai svelato…

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Il Castello, malgrado un progetto risalente al 2016 di messa in sicurezza, è ancora in abbandono..
L’Associazione “Salviamo il Castello di Calatbubo” da tempo si batte per la salvaguardia dell’importante monumento che si è classificato terzo nella classifica nazionale del FAI
Le ultime notizie risalgono al 21 ottobre 2019 e riportate nel sito internet “ALPA UNO”..



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