CASTELLO DI CALATUBO (Alcamo) .. Un raro esempio di fortificazione…..in abbandono…
1.
Ubicazione
Il
castello di Calatubo si trova su una cresta rocciosa nel territorio di Alcamo
da cui dista circa 6 km.
Dal
sito si domina il golfo di Castellamare ed il vasto entroterra fino al Monte
Bonifato (posto alla periferia di Alcamo e sul quale sorge il serbatoio
comunale).
Alle
pendici dell’altura, lungo il versante orientale si trova il torrente Calatubo
(detto anche Finocchio) che sfocia a mare
ad una distanza di circa 3 km dalla rocca.
2.
Etimologia
Il
termine “Calatubo” deriva dall’arabo “Qul
‘at’ awbi” (Kalat et tub) ( “Terra di tufo”).
3. Storia - Il Sito Archeologico e la prima citazione di Catalubo
Le
origini del castello sono antiche anche
se non si può affermare a che periodo risalga la costruzione originaria.
Il
sito presenta delle importante testimonianze archeologiche con resti di un
villaggio elimo e relativa necropoli. La posizione del sito vicino ad
importanti vie di comunicazione, la ricchezza del territorio e la sua vicinanza
al mare, favorirono l’insediamento di comunità sin dal periodo arcaico..
Nell’area
antistante l’ingresso del castello furono rinvenute, in modo accidentale, delle
tombe pertinenti ad una vasta necropoli che restituirono dell’importante
materiale ceramico databile tra il VII ed il V secolo a.C.
La
necropoli doveva essere collegata ad un abitato del quale sono ancora incerte sia
l’ubicazione che l’identificazione.
Furono
rinvenuti numerosi frammenti ceramici pertinenti alla necropoli messi in luce
dagli aratri meccanici del contadini e dagli scavatori guidati da ricercatori
clandestini. Le tombe erano ad incinerazione e ad inumazione collettive dentro
camerette costruite con blocchetti di pietra calcarea oltre che sepolture
dentro phitoi.
L’archeologo
Giustolici V. pose l’abitato nelle vicinanze della necropoli e cioè nell’area
antistante l’ingresso del castello. La documentazione archeologica manca dalla
seconda metà del III secolo a.C. alla prima guerra punica.
Con
indagini recenti fu rinvenuto anche del materiale databile al I - II secolo
d.C. a dimostrazione che il villaggio fu
probabilmente nuovamente abitato o comunque non era in completo abbandono. Un
sito danneggiato dai tombaroli e sul quale si è cercato di dare una
identificazione. Con molta cautela da parte degli studiosi si è proposta
l’ipotesi che il sito possa essere uno dei tre piccoli centri che gravitavano
attorno a Segesta e noti attraversi i riferimenti di Diodoro Siculo, storico
del I secolo a.C.: Ilarus, Tyrittus, Ascelus.
Il
primo documento che attesta l’esistenza di Calatubo è il diploma di fondazione
della diocesi di Mazara del 1093, con l’affidamento del seggio vescovile ad un
certo Stephanus, dove fra i suoi
possedimenti è riportato anche “Calatub
cum omnibus suis pertinentiis”.
Il
diploma fu riportato nella trascrizione
di un transunto del 1578 che fu fatto redigere
per ordine del vescovo Ugo Papè nel 1782.
4. Citazione
di Idrisi
Il geografo Arabo Idrisi (1154) nella sua rappresentazione
cartografica del mondo, evidenziò l’importanza di “Qal’ at’ Awbi” in età
normanna. Il territorio comprendeva il castello e un “paese grande”. L’area lambita ad est da un fiume navigabile (il
fiume Calatubo o Finocchio), accoglieva anche un “caricatore”, approdo per il trasporto dei cereali provenienti dal
vasto feudo. Inoltre, un ulteriore fonte di ricchezza era legata alla stessa
natura geologica della roccia del sito
che permetteva di cavare pietra da mola per mulini “persiani”.
“Calatubo è valida
fortezza e paese grande, [provveduto] di territorio vasto, buono da seminare
e molto
produttivo. E‟ situato a quattro miglia a un di presso dal mare; ha un porto
dove si viene a caricar di molto frumento al par che delle altre granaglie.
Giace in questo luogo una cava di pietra molare da acqua e di [pietra molare]
persiana. Calatubo scostasi da Al Hammah (le acque termali, Bagni Segestani) per
dieci miglia; e per dodici da B.rt.nìq (comune di Partinico)… da Calatubo ad
Alqamah (comune di Alcamo) un miglio arabico e mezzo…Da Castellammare a
Calatubo.. [corron] tre miglia franche ; da Calatubo a Partinico..tre miglia
franche...Di qui (la spiaggia sotto Partinico) al fiume di Calatubo cinque miglia”
(Uno dei primi esempi di mulino dove l’acqua veniva
raccolta in una prima vasca. Da qui precipitava in una vasca inferiore
generando un flusso d’acqua costante e
soprattutto sufficiente a fare muovere la ruota alla quale erano collegate le
mole. La ruota inferiore “farsium”
(dall’arabo fars) era fissa, mentre l’altra ruota ruotando sulla prima macinava
il grano. Un sistema documentato anche in Andalusia).
Idrisi descriveva il territorio con un castello ed un
grande paese. Qualifica Calatubo con il termine arabo “Hisn” che sta a significare o indicare “un abitato di dimensioni e importanza amministrativa ragguardevole con
accento sempre sul suo posto fortificato”.
Quindi “Hisn” è
un termine che fu impiegato per indicare la “Terra”
come abitato mentre con il termine “Qal’a”
si alludeva alla fortificazione che non
sempre, nella topografia storica siciliana, era accompagnata da un abitato vero
e proprio.
Dell’abitato medievale riferito da Idrisi non rimane alcuna
traccia anche se in alcune zone a nord del castello ci sono delle strutture che
potrebbero essere pertinenti a quell’epoca come la “Cuba delle Rose”.
Sempre nell’area prospiciente l’ingresso del castello fu
rinvenuto abbondante materiale ceramico databile tra l’XI ed il XIII secolo.
Frammenti che furono affidati alla Soprintendenza di Trapani accompagnati da un
elenco redatto dal dott. Sergio Aiosa.
5. Citazione
di Ibn Giubayr (1184)
Ibn Jubayr, Abù
I-Husayn Muhammad ibn Ahmad al-Kinani (Valencia,1145 – Alessandria d’Egitto,
1217) era un viaggiatore, poeta
arabi-andaluso e un grande studioso di scienze religiose e letteratura. Diventò
funzionario dei “Wali” di Granada e in seguito ad un improvvisa crisi religiosa
decise d’intraprendere un viaggio alla volta di Mecca per poter adempiere al
hajj. Partì dunque da Granada nel 1183 e nel suo viaggio di ritorno nel 1184
fece naufragio con la nave nello Stretto di Messina. si fermò nell’isola sino al febbraio del 1185.
Nei suoi racconti di viaggio riportò anche i momenti della
sua permanenza in Sicilia, descrivendo sia i luoghi attraversati che il clima
sociale e politico del Regno al momento sotto la dominazione normanna. Saltò in
particolare l’intelligenza e la tolleranza del sovrano del tempo, Guglielmo II
il Buono.
Riportò anche il suo viaggio da Palermo a Trapani
descrivendo il territorio attraversato:
“Noi percorrevamo
un seguito non interrotto di villaggi e di masserie e vedevamo de‟ colti e de‟
seminati che mai non ci erano occorsi terreni sì fertili, sì generosi e sì
vasti: onde li paragonammo a que‟ della campania di Cordova, se pur questi [di
Sicilia] non son più feraci e più forti. Ci riposammo in viaggio, per una sola notte,
in un paese che si addimanda Alqamah (Alcamo): grande, opulento, [provveduto di]
un mercato e di moschee; essendo tutti musulmani gli abitatori di esso, al par
che quelli delle masserie che giacciono su
questa strada. Ci
partimmo d'Alcamo a punta di giorno, il ventitré di questo santo mese e
ventinove
dicembre. Dopo un
breve tratto di via, passammo presso il castello detto Hisn al Hammah (il
castello dell'acqua termale), grosso paese con molti bagni. Iddio ha fatto qui
scaturire delle polle dal suolo e le ha fatte correre con tali elementi che il
corpo umano le soffre a mala pena; sì forte né il calore. Passando accanto ad
una di queste sorgenti che [occorre] su la strada, smontammo di cavallo e ci
ricreammo con un bagno”.
È
probabile che nel suo viaggio da Palermo a Trapani prese una via interna
passando per Calatubo ed Alcamo per poi raggiungere le Terme Segestane
ripercorrendo lo stesso itinerario di Idrisi. Nelle suo note di viaggio non
elencò i nomi dei villaggi e delle masserie
attraversate che dovevano essere numerosi dato che riportò nelle sue
note che “lungo il viaggio si
presentarono un seguito ininterrotto di villaggi e masserie”.
Siamo
alla fine del XII secolo e Giubayr
riportò come gli abitanti di Alqamah (Alcamo) erano “tutti Musulmani come quelli delle masserie e dei villaggi incontrati in
questo tragitto”.
San Giovanni degli Eremiti – Palermo
Ibn Giubayr
6 Altre Citazioni (T. Fazello, V.Amico, Maurici, ecc...)
Secondo
lo studioso Ferdinando Maurici il
castello di Calatubo era di origini
musulmana.
Il
Fazello riferì che ““Calatubo, un tempo
abitato dai Saracini, ora conosciuto soltanto per la
rocca e i ruderi,
si trova verso il mare a mille passi da Alcamo”.
Giovanni
Andrea Massa ..“Calatubo, già Terra, hoggi resta solamente il Castello di
nome Saracino” …“Vallone col Torrente di Calatuvo è senz‟acqua ne‟ tempi
estivi; entrandosi per due miglia dentro terra, si ritrova sul rialto di
elevata Collina il Castello della medesima appellaggione, lavorio de‟Saracini”.
L’abate
Vito Maria Amico ……“Castello, e da
gran tempo casale, non lungi da Alcamo, verso Settentrione, appellato da Pirri,
Calato, compreso nella diocesi di Mazzara, e mentovato nei diplomi del Conte
Ruggiero e di Papa Pasquale II, in cui se ne descrivono i confini”.
Ignazio
De Blasi …”Pur essendo nel territorio di Alcamo,
il “feudo nobile detto di Calattubo col suo mero e misto Impero, colla sua
antica Saracena Fortezza che oggi esiste, da esso è segregato. Vi fu
anticamente l’abitazione d’una Terra; ma oggi in luogo di essa non si vede
altro che l’anzidetto antico Castello”.
7. Storia del
Castello
Le
notizie riportate nel paragrafo potrebbero rendere la lettura piuttosto
“pesante”. Sono notizie che servono a dare un identità al castello con il
susseguirsi di eventi, di feudatari e personaggi che si sono avvicendati nella
proprietà. Una ricerca lunga e difficoltosa perché le fonti non sono numerose. Un monumento potrebbe avere una sua bellezza
perché immerso in un ambiente ricco di aspetti paesaggistici e naturalistici o
ancora per la sua architettura ma senza storia è un opera “morta” che non
riesce a comunicare nulla. Sì sono belle pietre messe in un certo ordine per
conferire alla struttura una sua valenza estetica ma alla fine, senza storia,
non riescono a comunicare nulla rimangono solo delle fredde pietre anche se
lavorate dalla mano dell’uomo.
Ultime
indagini sulle strutture del castello hanno datato ad epoca normanna l’impianto
originario
del
fortilizio, ma senza escludere una possibile fase antecedente musulmana.
1093 - il diploma con il quale Ruggero il Gran
Conte fondò la Cattedrale ed il Vescovado di Mazara nel 1093, nel quale, fra
gli altri possedimenti, si citava anche “Calatub cum omnibus suis
pertinentis”. Calatubo è fra le Civitates et Castra, ossia, fra gli abitati
principali compresi nei confini della nascente Diocesi. Il Diploma fu reso
noto, verso la metà del XVII secolo, dall’Abate Rocco Pirri;
1100 - Papa Pasquale II
con “Breve Apostolico” del 15 Ottobre 1100 confermò “Calathabubi cum suis”
al Vescovo benedettino Stefano di Rouen consanguineo del gran conte Ruggero I;
Stefano di Rouen
fu monaco benedettino presso l’abbazia di Notre Dame du Bec e
autore del poema “Draco Normannicus”. Un poema che riporto
gli avvenimenti storici
dall’XI secolo al
1169 (anno della sua morte).
1144 - Ruggero II, nel
Marzo 1144, riconfermò al Vescovo di Mazara, Oberto, il Privilegio concesso dal
padre Ruggero I nel 1093. “confirmantes omnia quae in privilegio
ejusdem genitoris nostri facto eidem ecclesje vidimus contineri”;
1154 - Calatubo ( Qal
at Awbi ) valida fortezza (Hisn). Descrizione del castello, del
geografo arabo Idrisi.
Con
la morte del re Guglielmo II, si scatenò nell’isola l’odio dei cristiani verso
i musulmani che si concluse con la loro fuga verso località più sicure, alte e
fortificate. Questa fuga determinò la crisi dei villaggi agricoli siciliani che
avrà il suo culmine nella prima metà del XIII secolo con la scomparsa
dell’elemento islamico. Le grandi sollevazioni musulmane del XIII secolo furono
l’espressione di una forte contrapposizione musulmana al “Regnum”. Numerose erano le fortezze in mano ai rivoltosi musulmani ma il castello di Calatubo non figurava fra
questi. La cacciata dei musulmani operata da Federico II di Svevia causò per
Calatubo, nella metà del XIII secolo, la fine dell’abitato e il feudo resterà
disabitato.
1201 - Compare come teste di un documento un tale Riccardus
de Calatub; forse un membro della famiglia feudale del
luogo o un “milites castri”;
1278 - Ponç
de Blancfort (Poncio di Biancoforte) è investito di Calatatubo. Probabilmente
un filo angioino di Carlo d’Angiò.
I
Vescovi di Monreale fecero delle concessioni, nel 1259 e nel 1291, a favore di personaggi che avevano appoggiato
gli angioini di Carlo d’Angiò. È probabile che il castello di Calatubo per un
breve periodo sia stato in possesso della famiglia Porcelletto (Guillielm de
Porcellet).
La Casa di
Porcellets (Porcellet ) fu un’importante famiglia e una delle più
famose della
Provenza.
Il motto della famiglia era “ Genere Deorum deinde Porcella”
“Prima la razza degli dei, poi la famiglia dei
Porcellets”.
“Il nome Porcellets era così famoso e rispettato in
Oriente,
che i Sultani, per la garanzia dei trattati, esigevano
la consegna di
luoghi importanti, ostaggi o la parola di un
Porcellets”.
Nel 1000 un
Pocellets era signore della città di Arles
(famosa per le sue
vestigia romane).
Il
Guillielm de Porcellet citato doveva essere Guillaume III nato nel 1217 e morto
nel 1288.
Cavaliere
e nobile francese signore di Arles, Fos e Martigues. Prestò servizio militare
come Consigliere e Cambellano presso il re Carlo I d’Angiò avendop la conferma
dei titoli di Barone di Sicilia e di Provenza.
“Fu l’unico francese a sopravvivere ai vespri siciliani del 1282
quando la Francia perse la Sicilia contro i ribelli”.
Infatti
dopo la rivolta del Vespro, nel 1282, contro gli Angioini, i beni di Guglielmo
Porcelletto , vice giustiziere angioino nella Sicilia occidentale, passarono a
Federico d’Antiochia al quale “si
concedevano anche Castellammare e Calatubo”.
Comunque
la concessione a Ponc de Blancfort fu la prima Regia concessione feudale di
Calatubo documentata. Non si ha invece nessun riferimento in merito alle “Tassazioni Angioine” del territorio a riprova che il
sito era ormai spopolato o in fase di abbandono.
1295 - Il Castello ed il
Feudo di Calattubo viene concesso dal Re Federico III d’Aragona al potente
Federico d’Antiochia.
Sotto
il Regno Angioino l’aristocrazia Sveva fu costretta all’esilio nell’Italia
settentrionale. Tra questi esiliati c’era anche Federico d’Antiochia che
vantava sangue reale in quanto discendente di Federico d’Antiochia, figlio
naturale dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Federico
rientrò in Sicilia nel 1295 e probabilmente nello stesso anno venne investito
del feudo e castello di Calatubo.
Federico
d’Antiochia (1222/1224; Foggia, 1256) era figlio naturale
(illegittimo)
dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Alcuni storici
collegarono la sua nascita ad una relazione dell’Imperatore con una
donna musulmana
originaria di Antiochia da cui l’appellativo.
Altri storici
legano la sua nascita alla relazione con
una certa Maria o
Matilde
appartenente alla nobile famiglia siciliana “d’Antiochia”.
È sepolto nella
cripta della Cattedrale di Palermo.
Con
il nuovo feudatario il castello venne dotato di una “Habitacione”. Venne eretto un palazzo fortificato nell’ambito del
rafforzamento delle difese della costa del golfo di Castellammare che era
particolarmente esposta agli attacchi angioini – napoletani.
Era
collegato visivamente sia con la torre sul Monte Bonifato che con il castello
di Castellammare del Golfo, importante avamposto costiero a difesa
dell’entroterra dell’isola.
Alla morte del re
Federico III d’Aragona, avvenuta nel 1337, gli subentrò nella corona il figlio
Pietro molto vicino alla potente famiglia dei Chiaramonte. L’ingerenza dei
Chiaramonte nella politica feudale del regno portò alla confisca dei beni di
alcune nobili famiglie tra cui i Ventimiglia e gli Antiochia. Una situazione difficile perché si creò tra
le nobili famiglie una serie di contrasti
legati
alla suddivisione delle alte cariche del regno che portò inevitabilmente alla
rivolta degli Antiochia e dei Ventimiglia.
Blasco
d’Alagona emanò la condanna contro le due famiglie in rivolta. Francesco
Ventimiglia morì cadendo da una rupe mentre Federico d’Antiochia ebbe salva la
vita ma l’accusa di tradimento lo costrinse all’esilio a Napoli. Ritornò in
Sicilia, una prima volta nel 1338, con la spedizione Angioina di Roberto
d’Angiò e, una seconda volta nel 1341, a capo sempre di una spedizione Angioina
a Milazzo dove morì durante l’assedio della città.
Naturalmente
furono confiscati i beni agli Antiochia e concessi ai Peralta, consanguinei
della corona. Raimondo Peralta, grande Almirante riuscì ad instaurare in questo
modo un egemonia familiare che durante il XIV secolo vedrà il suo massimo
splendore anche se seguita dall’estinzione.
Importante
famiglia spagnola che ebbe un ramo siculo ed uno piemontese (dei
marchesi alemarici
di Saluzzo).
In Spagna
sarebbero discendenti dei sovrani di Navarra.
Raimondo Peralta e
Fernadez, signore della baronia di peralta in Aragona, fu
il capostipite
della famiglia in Sicilia. Era figlio di Filippo Saluzzo e
di Sibilla
Peralta, dei sovrani di Navarra, della quale mantenne il cognome.
Stemma dei Peralta
di Navarra
1336 - Raimondo Peralta,
conte di Caltabellotta, ottenne l’investitura di Calattubo da Pietro II.
L’anno
seguente, lo stesso re inserì Calatubo nel “comitatus Caltabillocte” che
donò a Raimondo Peralta ed ai suoi eredi che mantennero il feudo fino al 1403.
L’Ammiraglio
Raimondo Peralta per i suoi meriti militari fu ricompensato con la concessione
degli sbocchi marittimi del Golfo di Castellammare. Fin dal 1336, conte di
Caltabellotta, si era fatto investire da
Pietro II, di Calatubo, Borgetto e Castellammare del Golfo. L’anno successivo,
con privilegio del 20 gennaio 1337, gli stessi feudi e castelli, che in passato
appartenevano a Federico d’Antiochia, furono inseriti dallo stesso re nella
Contea di Caltabellotta (Comitatus
Caltabillocte) e concessi, insieme ai loro diritti e pertinenze, a Raimondo
Peralta e ai suoi eredi e successori in perpetuo, con l’obbligo del consueto
servizio militare, e con riserva di tutte le antiche regalie nascenti dalle
costituzioni del Regno e dei diritti spettanti alla Regia Corte. Nel 1340 nuova
concessione con la Terra di Alcamo e il
castello di Monte Bonifato (privilegio del 23 agosto 1340).
1346 - Nel 1346
l’arciprete di Alcamo, Clemente de Catania, prebendato di Calatubo, versava 18
tarì per tre anni per le spese dell’armata contro i turchi;
1348
Durante
la reggenza del minore Ludovico, Alcamo fu conquistata dai fratelli Enrico e
Federico Chiaramonte, esponenti della frazione Latina e Conti di Modica.
Un’azione che aveva come obbiettivo l’usurpazione dei domini della frazione
nobiliare “Catalana”, per cui tutti i comuni della Val di Mazara passarono
sotto il loro dominio.
Anche
il castello di Calatubo fu conquistato nello stesso anno malgrado Federico IV,
il Semplice, il 4 febbraio 1356 aveva confermato con un privilegio a Guglielmo
Peralta, nipote del conte Raimondo e detto Guglielmone per distinguerlo dal
padre omonimo, i beni della Contea di Caltabellotta, le Terre di Alcamo,
Castellammare del Golfo, Borgetto e Calatubo.
1355 - fu citato il “Castrum” Calatubo;
1359 – fu citato il
castello “quoddam castrum vocatum Calatubu;
1359 - Il
re Federico IV, il Semplice, nel giugno del 1359 liberò, con un forte esercito,
Calatubo dai temibili Chiaramonte. “Calattubum oppida est adeptus”.
I
fratelli Chiaramonte si dimostrarono così forti
nei castelli conquistati che Federico IV, anche se giovanissimo, fu
costretto a preparare un esercito per la riconquista dei castelli e dei
territori. Dopo essere entrato vittorioso a Salemi, riuscì a liberare Alcamo, Castellammare del
Golfo e Calatubo ..” "Salemim
oppidum et arcem mense iunio recepit, et etiam Alcamum, Castrumadmare et
Calattubum oppida est adeptus”.
Nello
stesso periodo Francesco II Ventimiglia, Conte di Geraci, grazie alla sua
fedeltà, riuscì ad ottenere nel 1360 tutti gli affari del regno. Alcamo diventò
dominio del Ventimiglia e gli Alcamesi nei Capitoli
di Grazie del 1398 chiamarono Guarniero (o Guarnieri) Ventimiglia. Calatubo
fu invece restituito a Guglielmo (Guglielmone) Peralta.
Federico
IV il Semplice, morì alle fine di maggio del 1277 e Guglielmo Peralta, conte di
Caltabellotta e signore di Calatubo, Castellammare del Golfo e Borgetto diventò
uno dei quattro tetrarchi del regno durante la minore età della regina Maria.
Dopo il matrimonio di Maria con Martino I Il Giovane, diventò Consigliere e
Camerlengo del re. Il Peralta alla fine della sua vita si ribellò e scese con
il figlio Nicolò in guerra contro il re. Martino I non riuscì a sottomettere il
Peralta che morì ribelle nel 1398, mantenendo il possesso di tutte le sue
terre.
Il
figlio Nicolò nel 1396 era ritornato all’ubbidienza sovrana e re Martino gli
restituì le terre. Nel 1399 il Conte di Caltabellotta lasciò due figlie,
Giovanna e Margherita.
1403 – “Artale de Luna e Ruis de Azagra”, figlio di
Ferdinando Lopez de Luna signore di Villa Felice, fu nominato conte di Caltabellotta
per il matrimonio con Giovanna Peralta. Alla sua morte della moglie, sposò la
cognata Margherita, “con la dote del
Castello e Terra di Calattubo, Contea di Caltabellotta, le Terre di Giuliana,
di Bivona ed il castello di Cristia”.
Dal
matrimonio nacque Antonio de Luna e Peralta. Nel 1554, un suo erede, Pietro de
Luna e Peralta diventò duca di Bivona per concessione di Carlo V.
La
famiglia De Luna manterrà il possesso di Calattubo, all’interno della Contea
di Caltabellotta, fino al 1583;
I De Luna
d’Aragona sono un’antica casata della nobiltà spagnola:
“ una delle otto grandi casate del Regno d’Aragona”.
«La familia Luna, una de las ocho principales familias
aragonesas»
Gli esponenti
della famiglia più volte s’imparentarono i sovrani aragonesi.
La loro origine
risalirebbe ad Ordono I (810-866), re delle Asturie e presero
il nome dal
possesso feudale della città di Luna, nella provincia di Saragozza
nel Regno
d’Aragona.
Scese in Sicilia
con Ximenio o Sigismondo di Luna ai tempi del re Pietro durante il quale
figura un Roderico
de Luna castellano di Castrogiovanni (Enna).
“Una Maria de Luna fu moglie di altro Pietro re
d’Aragona e madre di re Giovanni
e di Martino il Vecchio, re di Sicilia”.
Antico stemma dei De Luna d’Aragona con i fregi
Con
Margherita Peralta si estinse la famiglia e il feudo e il castello di Calatubo,
sempre unito alla Contea di Caltabellotta, diventò possesso della famiglia de
Luna.
1408 – Calatubo venne
descritto come Castrum et Locum. Il
termine Locum nei documenti del XV
secolo indicava non un abitato ma un piccolo nucleo di case il più delle volte
poste vicino ad un vecchio castello e dunque memoria di un antico abitato.
1386 - Un “Frater
Marcus de Calatubo” nel 1386 si trovava con fratel Martino e fra Antonello
da Alcamo, nel monastero di S. Martino delle Scale, diretto dall’abate Sinisio;
“Frater
Marcus” sembra testimoniare la presenza di una piccola comunità a Calatubo
verso la fine del XIV secolo e gli inizi del XV secolo e come dimostrerebbe la
citazione di cui sopra risalente al 1408.
Nella
prima metà del XV secolo molti alcamesi avevano dei vigneti vicino al castello.
1410 –
Nel
1410 morì Martino II, Il Vecchio, padre di Martino I e re di Sicilia. Il Conte
Artale seguì il partito di Bernardo Cabrera, Maestro Giustiziere del Regno,
contro la regina Bianca di Navarra. Bernardo Cabrera, conte di Modica, insieme
ad Artale de Luna ed altri baroni, per anni
restò in conflitto con la regina Bianca di Navarra, Vicaria del Regno.
Il proposito del conte era quello di sposare la regina per diventare sovrano di
Sicilia.
A
causa di questo conflitto la Contea di Caltabellotta gli fu confiscata ed
assegnata al vicerè di Sicilia, Antonio Cardona.
Dopo
poco tempo il Conte Artale de Luna
ritornò nelle grazie di Alfonso d’Aragona che gli restituì i possedimenti. Il
conte morì a Sciacca, lasciando un figlio ancora minorenne, Antonio, che
s’investì del possesso dei beni nel 1453.
Antonio de Luna, che si nominava
di “Peralta e di Sclafani, per i rami estinti della sua progenie, presentò la
richiesta di conferma dei feudi in suo possesso, nell’ambito di quelle
“Ricognizioni del 1453-54” dei Feudi e Benefici volute dall’amministrazione
viceregia.
Alla
morte di Antonio de Luna, successe nella Contea di Caltabellotta e nella
signoria di Bivona, il figlio maggiore, Carlo
de Luna che non ebbe figli e alla sua morte venne riconosciuta Contessa di
Caltabellotta la sorella Eleonora de
Luna con privilegio del 14 aprile 1497.
Eleonora
de Luna sposò Antonio Alliata da cui non ebbe figli. Alla morte di Eleonora,
avvenuta nel 1508, l’Alliata si ritenne padrone dei beni della moglie e intentò
causa a Giovanni Vincenzo de Luna,
figlio di Sigismondo, Barone di Bivona, e legittimo nonché ultimo erede dei
beni dello zio Carlo de Luna.
La
Regia Corte diede ragione a Giovanni Vincenzo de Luna che con la sentenza prese
l’investitura del “Comitatu et Terra
Calatabillotte per se suisque imperpetuum heredibus et successoribus” il 23 dicembre 1511.
Durante
le rivolte popolari contro il vicerè Ugo Moncada, l’imperatore Carlo V scelse
Giovanni Vincenzo de Luna come Presidente del Regno (1516 – 17).
Il
Moncada fu costretto a fuggire da Palermo e la stessa sorte toccò nel 1517 a
Giovanni Vincenzo de Luna. Fuggì dalle
ire del popolo palermitano perché sostenitore del vicerè e trovò rifugio o
asilo nel castello di Alcamo.
Carlo
V teneva in grande considerazione Giovanni Vincenzo de Luna, dato che
s’interessò personalmente delle nozze del figlio primogenito del de Luna,
Sigismondo che, ancora in minore età, sposò Aloisia Salviati, nipote del papa
Leone X.
Pietro
de Luna, per grazia speciale di Carlo V, nel 1549 ottenne di succedere negli stati o terre del padre Sigismondo
e nel 1554, per concessione di Carlo
V, divenne primo Duca di Bivona.
Prima metà del XV
secolo - Calatubo
è annoverato fra i castelli e feudi disabitati;
1558 - Il “picciol castello” venne descritto come già in rovina dal Fazello;
Pietro
de Luna recuperò molti latifondi, usurpati alla sua casata e l’uno novembre 1569 s’investì del feudo di Calattubo,
grazie ad una Sentenza della Regia Gran Corte contro Vincenzo, Gaspare e
Francesco Corbera, eredi di Don Pietro Corbera giurato del Regno.
Il
feudo di Calatubo era stato probabilmente usurpato dai Corbera, anche se in
merito non sono riuscito a trovare nulla in merito, per richiedere l’intervento
della regia Gran Corte per la restituzione del feudo al De Luna.
Nel “Nobiliario
Siciliano” si cita “nobile ed antica famiglia catalana che
possedette le baronie di Calatubo,Giancascio e
Realturco, Gibellina,
S. Margherita. Miserendino, ecc.
Un Calcerando fu maestro razione e presidente del
Regno di Sicilia
nel 1446, 1452 e 1456 e pretore di Palermo nel 1451 e
primo barone di Miserendino nel 1453.
…Un Antonino barone di Miserendino fu capitano di
Giustizia di Palermo nel 1552…”
Un famiglia che
subì gravi dissesti finanziari a tal punto che finirono per essere
processati dalla Regia Corte
Pietro
de Luna sposò una figlia del Duca di Medinaceli, Juan de la Cerda y de Silva, Vicerè di Sicilia e fu vicario generale del
Regno di Sicilia, in difesa dei Turchi nel 1573.
Giovanni
Peralta e de Luna, per la morte del padre Pietro, s’investì il 26 settembre 1576 del Feudo di Calatubo essendo
quest’ultimo unito sempre alla Contea di Caltabellotta.
Giovanni
de Luna fu l’ultimo esponente della famiglia de Luna che ebbe il castello di
Calatubo perché il 9 febbraio 1583 vendette
il feudo e la baronia a Graziano de
Ballis.
Giovanni
morì senza prole e i suoi beni passarono alla sorella Luigia de Luna (1592).
Con Giovanni s’estinse la famiglia De Luna e il feudo di Calatubo, smembrato
dalla Contea di Caltabellotta, diventò proprietà dei de Ballis di Alcamo.
La famiglia De
Ballis (Ballo) sarebbe originaria di Bologna,
mentre altri fonti
citano Piacenza.
Uno dei documenti
più antichi che prova l’esistenza della famiglia in
Sicilia risale al
1345, quando il nobile Federico De Ballo, regio milite,
insieme al figlio
Jacobi, ottenne nei pressi di Avola delle concessioni di
vasti territori,
castelli e diritti feudali.
Ci sono dei
diplomi d’investitura, compresi tra il 1345 ed il 1354, che sono
Conservati
nell’Archivio di Stato di Palermo.
Nel 1378 si hanno
notizie di Sancio de Ballo, probabile figlio di Jacobi, che si
trasferì a Trapani e, il figlio di questi, Ballo de
Ballis, Regio Milite, eletto
Viceportulano del Caricadore di Castellammare del
Golfo, del
Carricadore di Alcamo, detto del Vallone, e sue
Marine, nel 1400 circa
venne nella Terra di Alcamo, costruendovi una casa per
sua abitazione.
Nella stessa carica di viceportulano successe il
figlio Giovanni De Ballis, da cui
nacque quel Covino De Ballis che dispose nel suo
testamento del 1495 la
fondazione nella chiesa Madre di Alcamo, di una
cappella gentilizia dedicata
alla Natività di N. Signore.
Giovannello De Ballis, erede universale dei bani del
padre Corvino, essendo
divenuto veramente ricco, anche per la considerevole
dote che ottenne in
occasione del suo matrimonio con la nobile trapanese
Caterina Ravidà nel 1495,
costruì ad Alcamo per sua dimora, un grandioso palazzo
con una torre
(l’attuale palazzo
e torre De Ballis).
Dalle seconde nozze di Giovannello con Giovanna de
Gentilibus di Alcamo,nel 1527,
nacque Graziano De Ballis, primo Barone alcamese di
Calatubo.
Graziano De Ballis, anche se non primogenito tra otto
fratelli, ereditò il
patrimonio paterno
“ob meritum obedientiae”, come si legge nell’epigrafe
collocata nella cappella gentilizia della chiesa Madre
di Alcamo.
Sia
per l’eredità paterna, che per la dote della moglie Alfonsina Agliata dei
principi di Villafranca che sposò nel 1564, Graziano De Ballis il 9 febbraio
del 1583, per atto stipulato presso il notaio Antonino Lazàra di Palermo, ebbe
la possibilità di comprare il Feudo e la Baronia di Calattubo con “mero e misto impero “ dal Conte di
Caltabellotta e Duca di Bivona, Giovanni De Luna e Peralta.
La
ratifica da parte del Duca fu fatta il 26 marzo 1583 per gli atti del notaio
Raffaello Risalibi di Bivona. Graziano De Ballis ottenne l’investitura del
feudo dopo circa tredici mesi dalla ratifica e precisamente il 6 maggio 1584.
L’epigrafe
della cappella gentilizia afferma infatti che
egli ““Calatubi Baronia et Castro
auxit”, aumentò l’eredità paterna con la baronia e il castello di Calatubo.
Nell’atto
di compravendita si legge che il Duca di Bivona vendette a “Graciano de Ballis la baronia
et fegho di Calattubo cum sua fortezza delli membri et pertinentii del suo
stato…ad effetto che collo prezzo di quello possa satisfare et disgravare
alcuni redditi che paga sopra detto suo stato et alcuni censi decursi et
compliri ad altri soi occurentij”.
Il
De Luna per poter vendere la baronia di Calatubo dovette presentare la licenza
regia perché nel trasferimento del feudo dovevano essere salvaguardati i
diritti della Regia Curia. Nella licenza si precisava che il Duca di Bivona veniva
autorizzato ad alienare “baroniam de
calattubo cum eius castro seu fortilizio cum iuribus regie curie”, con
tutti i privilegi e preminenze, con i pesi e le gabelle, con i censi e i
redditi.
Il
feudo era esteso circa 260 salme (circa 454 ettari)
Graziano
De Ballis morì nel 1589 e dunque se la muova costruzione del castello fu opera sua, questa non potè essere eseguita
che nei suoi ultimi anni di vita.
La
novità portata dal De Ballis fu legata ad una totale ristrutturazione. Non
poteva allontanarsi dall’antico impianto architettonico che era impostato sopra
i due livelli del costone roccioso che è a picco sulle valli che si trovano ad
est e a nord. Un adattamento che fu confermato dal mantenimento di alcune parti
delle fondamenta e delle muraglie antiche che furono incorporate nelle nuove
costruzioni.
Probabilmente
i lavori furono completati dai figli di Graziano, Giuseppe o Giovanni.
I
lavori , degli inizi del Seicento, trasformarono il castello di Calatubo da
castello militare a dimora baronale.
Il
feudo quando entrò in possesso di Graziano De Ballis era già spopolato e il
barone non s’interesso di ripopolarlo. Graziano De Ballis ebbe due figli:
Giuseppe e Giovanni.
1590 - Giuseppe De Ballis
(primogenito di Graziano e nato ad Alcamo nel 1567) ereditò dal padre la
baronia di Calattubo con in Alcamo il palazzo baronale “domum magna
cum turri”, divenendo il secondo barone di Calatubo. Atti redatti dal notaio Vincenzo de Mulis di
Alcamo del 26 marzo 1590. L’investitura del feudo fu concessa il 5 marzo 1590.Giuseppe
fu battezzato a Palermo per fruire, secondo il parere dello storico De Blasi “di tutte le franchigie, delle quali godevano
li naturali di quella capitale nell’estrazione di qualunque merce ad essere
esenti degli oneri del comune natio.. dunque per potere godere delle franchigie
concesse ai cittadini della capitale”.
Giuseppe
si distinse nella poesia, nella matematica, nell’astronomia ed astrologia e
rinunziò al baronato in favore del fratello Giovanni perchè Giuseppe abbracciò
lo stato ecclesiastico
1594 - Giovanni De Ballis
(fratello di Giuseppe) ricevette l’investitura di (terzo) Barone di
Calattubo il 27 Maggio 1594 e chiese al re la licenza di ripopolare la
baronia. La “licentia populandi” gli
fu concessa il 7 settembre 1600 con tutti i diritti e i privilegi che avevano “celeres
barones regni” (tutti gli altri baroni del Regno), in quanto, “utilitate non modica” (con non poca
utilità) se ne avvantaggiavano per il frumento “la sacra C. Maestà e i regnicoli”. Non rispettandosi la vocazione
dei terreni ma la volontà della “Sacra Cesarea Maestà”, la Sicilia doveva
restare a coltivazione cerealicola e quindi doveva mostrarsi immutato il
paesaggio agrario. Non si sa il motivo per cui il villaggio che il barone
poteva “nominare et vocare Calatubo”
non fu fondato malgrado la licenza. Neanche il figlio di Giovanni, Giuseppe
Antonio De Ballis e Sollima, fondò il paese.
1597 - L’immagine del
castello del 1597 è nella “Descrittione dell’Arcivescovato di Monreale con
le sue terre…”;
Giuseppe
Antonio De Ballis e Sollima diventò quarto barone di Calatubo che “assunse il nome e cognome di Giovanni
Sollima e con tali generalità si investì a 23 Maggio 1618 della Baronia, feudo
e castello di Calattubo. Reinvestito a 16 Luglio 1621 per il passaggio della
Corona da Filippo III a Filippo IV, e a 29 Agosto 1666 per l‟altro passaggio
della Corona da Filippo IV a Carlo II. Fu senatore della Città di Palermo nel
1629-30”.
Sposò
Antonia Iraci nel 1631, nella chiesa Madre di Alcamo.
Il
figlio primogenito Gaspare Ballis e Sabia s’investì della baronia, feudo e
castello il 12 marzo 1671 per la morte del padre Giovanni Sollima. Poco tempo
dopo fece atto di donazione di Calatubo al fratello Graziano De Ballis che ne
ricevette l’investitura il 12 marzo 1676.
Ultima
baronessa di Calatubo che porta il cognome dei De Ballis fu Donna Gaetana,
figlia di Vincenzo De Ballis (fratello di Gaspare e Graziano) che prese
l’investitura l’uno dicembre 1707 per
concesso dallo zio Graziano.
Era
figlia unica di Vincenzo e sposò Giuseppe Papè dei Duchi di Giampilieri e dei
principi di Valdina, Protonotaro del Regno.
Con
donna Gaetana s’estinse la famiglia De Ballis e il feudo di Calatubo, con tutte
le sue pertinenze, passò alla famiglia Papè di Valdina e i cui eredi furono gli
ultimi proprietari del castello.
“La si vuole originaria di Anversa, passata prima in
Milano e poi portata in
Palermo da un Adriano, che fu padre di Cristofaro,
governatore della nobile compagnia
dei Bianchi nel 1642, 1648, protonotaro del Regno,
deputato del Regno, giudice
della Gran Corte, ecc….. Giuseppe Papè e Montaperto, di Ugo, fu duca
di Giampilieri,
protonotaro del Regno e acquistò il titolo di principe
di Valdina,
del quale ottenne investitura a 21 luglio 1706;
Nel XVIII secolo misero l’accampamento ad Alcamo due
grandi eserciti: prima gli spagnoli per quattro mesi nel 1718 e successivamente le truppe tedesche nell’aprile del 1720 per dieci giorni.
Un documento, conservato presso l’archivio della
Chiesa Madre di Alcamo, riporta che il principe di Valdina, Don Giuseppe Papè,
fece istanza al vescovo di Mazara il 19 gennaio 1726, perché fosse ridotto il
numero delle messe da celebrarsi nella cappella della Natività di suo patronato
nella chiesa, essendo diminuito il
frutto di una sua tenuta di olivi, a motivo “dell’incisione degli alberi
avvenuta nel tempo in cui visi erano accampati gli eserciti austriaci”.
1770 - Venne investito
della Baronia, Feudo e Castello di “Calattubo”, Ignazio Papè e Ballo, figlio primogenito
di Gaetana de Ballis e Giuseppe Papè dei duchi di Giampilieri e dei Principi di
Valdina;
Alla
morte di Donna Gaetana De Ballis, avvenuta a Palermo nel 1769, il feudo di
Calatubo passò ad Ignazio Papè e Ballo, come figlio primogenito ed erede
universale dei beni della madre, di cui prese l’investitura il 16 febbraio
1770.
Don
Ignazio Papè, Principe di Valdina, Duca di Giampilieri e Protonotaro del Regno,
fu l’ultimo dei baroni di Calatubo che portò il cognome materno De Ballis.
Ricoprì
la carica di Intendente Generale degli Eserciti sotto il regno di Carlo III di
Borbone.
1773 - Fino al 1773 il
Castello era in piena efficienza ed ospitava una compagnia di soldati. Il 3
Marzo 1773, mons. Ugo Papè, (fratello di Ignazio Papè e Ballo) nominato Vescovo
di Mazara dal re Ferdinando III, prese possesso della Diocesi e “vi andarono
all’incontro in distanza di più miglia…il capitano del Castello di
Calattubo D. Pasquale Rotunda con sua compagnia”.
Il primogenito di Ignazio Papè e Ballo, Pietro Papè
e Bologna, diventò padrone di Calatubo alla morte del padre avvenuta nel 1793.
Non prese l’investitura, così come tutti gli eredi di Pietro che si sono
succeduti nella proprietà come figli
primogeniti e alla morte dei rispettivi padri.
Salvatore Papè Gravina successe come primogenito
alla morte di Pietro, suo padre, nel 1822. Sposò nel 1829 Vittoria Vanni figlia
di Francesco Vanni, terzo duca di Archirafi e di Rosalia Vanni. Dal loro matrimonio nacque Pietro il 22
maggio 1832.
Pietro Papè Vanni successe come primogenito alla
morte del padre Salvatore nel 1870 e sposò il 28 gennaio 1856, a Palermo, Marianna Lanza Filingeri
(Filangeri). Ebbero 13 figli (5 maschi ed otto femmine).
Nel corso del XIX
secolo il castello subì un periodo
di abbandono. Ci troviamo in un momento di grande instabilità politica e
sociale che culmineranno con i moti del 1820-21; con la rivoluzione
antiborbonica del 1848; con la rivoluzione del 1860 che portò alla fine della
dominazione borbonica. Tutti avvenimenti che consigliarono, per ragioni di
sicurezza, l’abbandono del castello come residenza baronale. Nell’aspetto
sociale è da rilevare la presenza di una crisi fondiaria dell’aristocrazia
siciliana.
Nel 1879 lo storico Polizzi scrisse..” “Kalatubo, castello innalzato su d‟una collina a 3
miglia da Alcamo verso il mare; oggi del Principe di Valdina. Non offre di
antico altro vestigio che il nome, essendo il diruto casamento opera del 17°
secolo. N‟è però pittoresca la massa”.
Fine del XIX secolo - Pietro Papè di Valdina trasformò Calatubo
in una azienda agraria lanciando sul mercato internazionale il vino “Castel
Calattubo”, premiato dal 1885 al 1902 con “più di trenta medaglie
d’oro e d’argento e Grandi Diplomi d’onore nelle più importanti
Esposizioni d’Europa, tra cui quelle Universali di Parigi del 1889 e
1900, dove ottenne il maggior premio concesso ai vini Italiani”.
Pietro
Papè Vanni alla fine dell’Ottocento ristrutturò ed abitò il “diruto casamento”. Morì nel 1906 in
questo castello e la salma fu trasportata con la sua carrozza a Palermo.
Fu
riconosciuto nell’Elenco Ufficiale definitivo delle famiglie nobili e titolate
di Sicilia del 1902 come possessore dei titoli di Duca di Giampilieri, Barone
di Calattubo, Principe di Valdina e Barone di Vallelunga.
Fu
proprio Pietro che alla fine dell’ottocento stravolse l’aspetto agrario della
sua baronia cambiandone radicalmente il paesaggio. Era un esperto imprenditore
agricolo e coltivò a vigna larghe estensioni di terreno. Lanciò sul mercato
nazionale ed estero il suo vino “Castel Calattubo”. Un vino che fu subito
ricercato perchè lavorato con particolari tecniche e veniva conservato nei nove
grandi magazzini che fece costruire nel secondo cortile inferiore del castello
“fattoria”.
Fu
premiato dal 1885 al 1902 con oltre trenta medaglie d’oro e d’argento e con
grandi Diplomi delle più importanti Esposizioni d’Europa tra cui quelle
universali di Parigi del 1889 e 1900. Ottenne anche il brevetto di fornitore
della Real Casa con facoltà di potersi fregiare dello stemma reale.
Pietro
Papè di Valdina ristrutturò il pittoresco castello, già ricostruito sul primo e
secondo costone roccioso da Giovanni De Ballis agli inizi del Seicento,
conferendogli l’aspetto, che peraltro ancora oggi conserva, di grande masseria
fortificata.
L’attività
imprenditoriale fu portata avanti da Salvatore Papè Lanza erede del padre. ma
la prima guerra mondiale e le sue conseguenze pesarono sul futuro dell’azienda.
La crisi economica e la stasi del commercio vinicolo che colpì la Sicilia nel primo dopoguerra continuarono anche in
epoca fascista.
Il
castello, comunque, in piena efficienza e signorilmente arredato, fu abitato
fino al 1940, quando fu requisito
dal Comando delle Forze armate italiane per essere destinato ad osservatorio e
baluardo contro la temuta invasione anglo americana. Dopo un vandalismo ingiustificato furono
definitivamente abbandonati i circa trenta vani tra stanze e magazzini così
bene architettati per una dimora principesca.
Dal
secondo dopoguerra, dunque, il castello di Calatubo fu definitivamente
abbandonato.
2007 - Il castello è
stato acquistato dal Comune di Alcamo con atto n. 8445 del 10 maggio 2007. Era
in possesso, per 1/7 ciascuno, di Stefania Plugy Papè, Peter Rolf Lezius, Claudia
Lezius Papè, Claudio Flugy Papè, Maria Diaconia, Carla Lanza Papè, Bianca Lanza
Papè, Gandolfo Pucci Di
Benischi,
Paolo Pucci Di Benischi che, come recita l'atto "sono proprietari di
diverse unità immobiliari costituenti, nel loro complesso, nella sua
interezza il castello di Calatubo, sito in territorio di Alcamo, inteso
come complesso monumentale edificato".
L'importo
di particolare favore (€ 60.000), sarà ricordato dal Comune di Alcamo, a restauro
ultimato, da una targa posta all'ingresso del maniero, a ricordo della
sensibilità dimostrata dai principi Papè.
8. STRUTTURA
ARCHITETTONICA
Un
complesso unitario di notevoli dimensioni (150 x 35 ) m ed i cui corpi di
fabbrica si sviluppano lungo un compatto banco di roccia calcarea,
assecondandone l’andamento in direzione prevalente est – ovest.
Inaccessibile
sui versanti settentrionale ed orientale caratterizzati da un forte
scoscendimento della roccia, il suo ingresso si trova ad occidente dove la rupe
scende verso la valle in dolce declivio.
Qui
una rampa gradonata conduce al monumentale fronte occidentale turrito ed al
primo piano della corte (26 x 20) m. Un pozzo, una chiesa ad aula ed alcuni
diruti locali attigui costituiscono le uniche strutture architettoniche
comprese entro questa prima linea difensiva chiusa a sud da un muro continuo.
Il
cortile è dominato dal castello che vi prospetta dall’alto dell’incombente
costone di roccia con la sua facciata sovrastata da torrette che conservano
tracce di merlatura. Un portale prossimo al centro del lato est della corte
introduce al secondo cortile.
Questo
cortile presenta una forma piuttosto allungata (20 x 100) m ed è compreso fra
le ripide pareti di roccia su cui si fondono le strutture del castello ed un
interrotto corpo di fabbrica, che nell’ultima fase di vita del complesso, era
adibito a magazzini per la produzione vinicola. Un muro che in parte si è
conservato chiude il perimetro ad est. Questo muro raggiunge un terzo recinto
che si trova nella zona più elevata dell’altura, dove si attesta ad una torre
All’XI secolo risalirebbero ampie porzioni del
circuito murario che ancora si conserva nella parte più alta del costone, la
torre oblunga, con alcuni tratti del sottostante recinto.
Fra
le strutture quella che evidenzia la sua funzione difensiva è la torre orientale
detta anche “oblunga”. Una torre di (8 x 2,50) m che chiude il perimetro
murario che cinge il rilievo roccioso.
L’imprendibilità
di questa torre era legata alla sua posizione inaccessibile piuttosto che alla
sua robustezza strutturale. Presenta infatti uno spessore modesto dei muri (77
– 78 )cm e di quelli del camminamento da (52 a 62 ) cm.
Torre
e muro di camminamento che sono contemporanei
in relazione ai materiali costruttivi e alla tecnica di messa in opera.
La
torre presenta quella che potremo definire una forma o pianta primitiva che si
differenza da quella delle altre torri presenti nella struttura che sono tutte
a pianta quadra nonostante le asperità del terreno su cui poggiano.. Una pianta
irregolare che segue adattandosi l’andamento
orografico o profilo del banco roccioso.
Lungo il lato nord del banco roccioso, alla torre
oblunga si attesta il tratto di muro meglio conservato, circa 8,00 m, nel quale
furono rinvenuti quattro fori passanti (in media 21 x 27)cm, praticati ad intervalli
regolari di circa 80 cm l’uno dall’altro, e al di sotto di soli 40 cm dalla
sommità del muro (3,60 m)..
Analoghi fori sono visibili nel muro meridionale della
torre lungo il quale sono allineati su
due file parallele distanti fra loro meno di un metro d’altezza. Una tale
disposizione esclude che possa trattarsi di buchi pontaie. Tutti i fori sono
stati lasciati aperti in corrispondenza dei piani di posa della muratura,
costruita per ricorsi regolari, la cui altezza varia nei diversi fronti da 60 a
95 cm. Stesso accorgimento costruttivo venne adottato anche per il muro
settentrionale della torre. Per questo fronte, intonacato e fondato sul limite
di un forte strapiombo, fu possibile misurare dall’interno soltanto uno dei
quattro fori passanti, le cui dimensioni (20 x 22 ) cm erano simili a quelle
delle analoghe aperture presenti nel muro di cinta.
L’accurata predisposizione di questi buchi,
naturalmente realizzati contestualmente al muro, la regolarità del loro
interasse e l’altezza alla quale sono stati
praticati, inducono a pensare che siano elementi di un sistema difensivo in uso
nel castello ed in particolare per alloggiamento di travi di sostegno di
“bertesche di circostanza” o di piattaforme in legno in aggetto rispetto alle
cortine murarie.
Nelle
fortificazioni medievali il muro di cinta con la sua massiccia fisicità
assicurava una valida difesa passiva che unitamente al coronamento merlato del
muro, completava le difese della cortina offrendo la possibilità di respingere
gli aggressori mediante il tiro con l’arco e il lancio dalle piombatoie.
“Quando il nemico
mostrava di volere attaccare un determinato punto della cinta, vi si
costruivano in alto “bertesche di circostanza”. Nel muro erano
preventivamente preparati all’altezza del girone, dei fori entro i quali si
infilavano appositi travetti di legno, detti “sorgozzoni”, e su questi si
costruiva una bertesca di tavole, nel cui pavimento si ricavano le caditoie e
nelle pareti le feritoie”.
I
fori di alloggiamento delle bertesche venivano praticati in prossimità della
sommità del muro per cui l’altezza finale della torre oblunga doveva coincidere
con buona approssimazione con quella che si conserva lungo il versante
meridionale cioè di circa 4 m.
Le bertesche
A
questa misura si dovrebbe aggiungere l’altezza dei si devono merli di cui non
c’è alcun indizio.
Il
muro d’attico che si conserva parzialmente al di sopra del robusto manto di
cocciopesto che ricopre la volta a botte della torre, ha spessore di 40 cm, contro i 77 – 78 cm del
muro sottostante. Uno spessore sufficiente a sostenere un parapetto ma non un
altro piano con relativa copertura.
Generalmente
i camminamenti sui muri di cinta era protetti da un parapetto alto da 1 a 1,20
m e sormontato da merli larghi circa 1 m ed altri un po’ meno. In base a tali considerazioni l’intera
struttura, compresi i merli, doveva avere un altezza di circa 6 metri.
Il
muro settentrionale è stato interessato da crolli e purtroppo da prelievi di
materiale per possibili reimpieghi in fabbricati vicini. È probabile che nel
muro fosse presente una seconda fila di buchi, nella parte più alta, per
l’allestimento delle strutture difensive.
Sempre
sul lato settentrionale c’era l’originario ingresso della fortificazione.
L’ampia breccia rilevata lungo questo muro era il risultato del cedimento della
muratura proprio in corrispondenza della soluzione di continuità costituita da
tale apertura.
Un
vano, appoggiato successivamente al muro di cinta, conservava un tratto dello
stipite della vecchia porta d’ingresso
al castello, per circa un metro d’altezza dal piano di calpestio dello stesso
vano.
L’accesso
era garantito da scale temporanee che venivano collocate solo all’occorrenza.
Nel
lato settentrionale c’era una scala tagliata nella roccia che in seguito
avrebbe assicurato il collegamento con il cortile inferiore.
Dalla
Torre nord, aggiunta successivamente nell’ XI – XII secolo, è possibile invece
ricostruire il tracciato del muro settentrionale fino al cortile triangolare
che era certamente compreso nel perimetro originario della fortificazione. Nel
cortile triangolare si apre la cisterna,
e
da questo cortile fino alla torre nord i muri esterni attuali poggiano sui muri
originari del perimetro della fortificazione. I limiti dei corpi di fabbrica,
aggiunti successivamente, coincidono con quello della balza rocciosa.
La facciata del castello si sovrappone ad un
preesistente muro dello spessore di 1,30 m che si nota a partire dallo stipite
sinistro del portale d’ingresso attuale e prosegue lungo i fronti meridionale
ed occidentale della torre nord.
TORRE
NORD
La
Torre Nord a sinistra (fino ad un paio d’anni fa ancora in discrete condizioni)
e
la
Torre Sud a destra
Una
torre a pianta quadra (5,50 x 5,80) m. di cui, fatta eccezione del basamento, conserva
ben poco del suo impianto originario. Un impianto originario distinguibile per
la differenza tra lo spessore dei muri: il muro medievale con uno spessore di 1,30
m mentre gli altri tre, che chiudono il perimetro della torre, presentano
spessori compresi tra i 55 ed i 69,5 cm.
Questi
ultimi appartengono almeno a tre distinti cicli costruttivi databili a partire
dal XVII secolo e determinati da crolli che hanno interessato nel tempo il
corpo di fabbrica.
Di
questa torre del primitivo impianto si conservano: il muro meridionale alto
circa 3,97 m lungo il quale era visibile la nascita o l’impostazione di una
volta a botte; un modesto tratto del muro occidentale che prosegue per 86 cm
oltre l’angolo comune ai due lati; l’intero basamento di questo fronte e forse
anche di quello settentrionale.
Al
tratto meridionale di questa torre si collega il tratto di cortina che prosegue
fino all’ingresso del castello e su questa originaria struttura si è
parzialmente sovrapposto il muro costruito nello stesso periodo della torre
meridionale della facciata o torre ovest.
La
Torre Sud solo in apparenza è gemella di quella nord. La Torre Nord ha una sua
singolarità non solo in relazione alle altre fabbriche del castello ma anche
nell’espressione dell’architettura fortificata siciliana
L’angolo sud ovest della torre è costruito con
l’impiego di pietre di diversa natura e dimensione (da 23 x 10 cm a 78 x 22 cm). La muratura è
costruita per ricorsi alti circa 90 cm ed è allettata con una malta di calce
che presenta numerosi inclusi gessosi e pochissima sabbia. In corrispondenza
dei ricorsi, la muratura è rinsaldata con due assi di legno ortogonali appena
sbozzati (0,28 x 1,40 m: spessore 6 cm) messe in luce dalle brecce apertasi nei
due muri. Analoghi assi sono impiegati lungo un altro orizzontamento della
muratura che ricorre circa 3 metri più in alto. Le barre lignee così disposte
collegano trasversalmente i due tratti
di muri prossimi all’angolo, rendendo più solidale la porzione della fabbrica
staticamente più critica.
È una precisa tecnica costruttiva che non risulta documentata in altri edifici siciliani. Una
tecnica che fu adoperata in antico proprio nella costruzioni delle
fortificazioni e anche Vitruvio, ingegnere militare e costruttore di macchine
belliche, a proposito delle torri di difesa indicava nell’impiego del legno un
ottimo sistema di incatenatura della struttura.
“Lungo il muro
si disporranno il più fittamente possibile delle travi d’ulivo temprate al
fuoco in modo che le due parti del muro saldate fermamente tra loro per mezzo
di fibbie acquistino solidità… Tale sistema di incatenatura… si rileva
particolarmente adatto e duraturo non solo nell’erigere le mura di una città,
ma anche nella costruzione di opere murarie di un certo spessore” (Vitruvio)
Qualunque
fosse il materiale usato, pietra o legno, il rinforzo assolveva sempre lo
stesso compito perché permetteva al muro di avere una maggiore resistenza ai
colpi d’ariete.
Nel
mondo islamico erano adottate entrambe le soluzioni.
La
tecnica costruttiva delle fortificazioni ha lasciato molte testimonianze
in merito.
Nel
1087 nella costruzione di una cinta muraria della cittadella fatimida del Cairo
furono impiegate numerose colonne di spoglio che furono introdotte trasversalmente
nella muratura in corrispondenza dei loro ricorsi.
Le
colonne così disposte permettevano un incatenamento dei paramenti esterni delle
mura con il nucleo centrale costituito da pietrame informe legato con malta.
In
alcuni casi, come ad Aleppo o a Palmira, furono impiegate barre di basalto che
sporgevano verso l’esterno del muro diventando delle mensole in forte aggetto
sulle cortine.
Il
prof. Marino L. riportò il sistema
costruttivo adoperato a Calatubo nella torre affermando che fu impiegato in
alcune fabbriche del vicino oriente in un periodo antecedente al X secolo: “le funzioni principali delle barre sono
quelle di assicurare, ad intervalli più o meno regolari e ripetuti in altezza,
piani di posa regolarizzati per le murature superiori, per collegare
trasversalmente le parti estreme del muro o accorpare murature diverse, per
evitare il rischio di carichi concentrati, e sollecitazioni eccessive di
taglio”.
L’uso
di introdurre colonne nella muratura fu prontamente adottato dai Normanni nella
costruzione dei castelli in Terrasanta.
La
torre nord è in posizione avanzata sulla cinta muraria attraverso la quale si
accedeva alla fortificazione. L’ingresso originario era identificabile con un
vano, in seguito tompagnato posto al centro del lato meridionale della torre.
Quest’ingresso determinava un’entrata indiretta nella fortificazione soluzione
che costringeva eventuali assalitori ad esporre il fianco destro.
La
natura e le dimensioni del materiale impiegato e la soluzione adottata negli
angoli, con la messa in opera di conci perfettamente lavorati (60 x 25 ) cm, non
trovano riscontro nelle murature della torre orientale e della cinta muraria
settentrionale posta nella parte più alta dell’altura rocciosa.
Infatti
tra queste strutture non sono presenti conci perfettamente squadrati neanche in
corrispondenza dello stipite della porta d’ingresso della torre orientale,
costruito con pietre appena sbozzate.
Inoltre
i muri della torre e del tratto di mura di cinta adiacente sono spessi quasi il
doppio di quelli della torre orientale. La torre orientale era più protetta,
quindi non necessitava di grosse opere di consolidamento, mentre la torre Nord
era più esposta agli attacchi frontali, anche con l’ausilio di macchine
d’assedio.
Le
differenti tecniche costruttive dei manufatti costruiti sul costone roccioso
più alto portano ad includere in una fase successiva la costruzione sia delle
cinta difensiva più robusta, in corrispondenza dell’ingresso del castello, sia
della torre nord detta anche “barbacane” per la sua posizione.
L’origine dei “barbacani” è probabilmente bizantina e
si collega alle torri d’ingresso di molte fortezze giustiniane del Nord Africa.
Nella
fortezza di Amathous, sulla costa meridionale di Cipro, gli scavi archeologici
hanno riportato alla luce un barbacane, datato intorno al VII secolo. Addossato ad una preesistente cinta muraria munita
di ben sei torri. Un tipo di struttura che sarebbe da iscrivere
nell’architettura fortificata islamica e la tecnica costruttiva impiegata a
Calatubo fa proprio riferimento alla cultura islamica. La Torre Nord fu
costruita dai Musulmani siciliani oppure dai Normanni che, assimilando, le
tecniche costruttive dei musulmani, li misero in pratica come fecero nella
costruzione di numerosi castelli in Terrasanta ?
Una
costruzione datata intorno all’XI – XII secolo quando era ancora presente un forte elemento musulmano malgrado
la conquista dell’Isola da parte dei Normanni.
Lo
studio delle murature ha permesso di datare allo stesso periodo il muro che
delimita ad occidente la rampa d’ingresso (50 cm) nel quale è stato
riconosciuto un antemurale. Cioè una struttura esterna al recinto fortificato
concepita per difendere l’ingresso della struttura costringendo gli assalitori
ad un percorso obbligati. Un muro che non aveva funzione di contenimento della
rampa. Il muro d’ingresso del castello è simile a quello della torre ed
all’antemurale costruito sul limite della balza roccia e non presenta le barre
lignee.
Intorno
alla metà del XII secolo si ha
l’attuale configurazione dell’ingresso del castello determinata dalla
costruzione della Torre Sud e del muro che collega le due torri nord e
sud.
Nello
stesso periodo venne costruito il Mastio,
nel secondo cortile e un’altra Torre
posta a difesa dell’ingresso tra il primo e il secondo cortile. Strutture
che si trovano all’interno del primitivo recinto fortificato medievale dell’XI
secolo
LA TORRE
SUD
La
Torre Sud , posta sulla facciata del castello, è un corpo di fabbrica a base
rettangolare (6,50 x 6,00) m.
Nel
corso del tempo ha subito diversi crolli seguiti da successivi restauri. Poggia su un piano roccioso più basso di
circa 6,50 m rispetto a quella della prima corte del castello.
Il
lato meridionale è rovinato da un vistoso crollo che ha interessato la fabbrica
nell’ultimo decennio. Nel lato occidentale si nota sul muro una risega
orizzontale a circa 6,00 m dal piano roccioso di fondazione. Una risega legata
al ripristino della struttura con una diversa muratura. Una linea obliqua evidenzia
la stessa differenza di muratura sul lato settentrionale. Ripristini che furono
legati ai crolli delle pareti e riscontrabile anche nell’angolo superiore
nord-ovest della torre dove per la ricucitura furono impiegati dei piccoli
conci squadrati.
In
corrispondenza di questo spigolo i De Ballis collocarono, a testimonianza del
loro intervento di ripristino, uno stemma lapideo.
In
seguito ai restauri delle torre si conservano: l’intero basamento fino
all’altezza di circa 6,00 m; il lato orientale rivolto verso il primo cortile
del castello e anche se parzialmente, il lato settentrionale provvisto di due
feritoie.
La
torre in età medievale si sviluppava su almeno tre livelli:
-
Il
piano terra alto circa 6,00 m e coperto da una volta a botte;
-
Il
primo piano con uno sviluppo di circa 3,50 m e separato dal secondo piano da un
solaio ligneo;
-
Il
secondo piano, sventrato dal calpestio alla copertura, risulta privo della
porzione sommitale.
La torre che presentava al momento
dell’indagine un altezza di circa 11,50 e costituiva solo una parte della costruzione
perché priva del suo coronamento.
Perché
fu costruita ?
Una
costruzione legata a nuove esigenze difensive che misero in attenzione la necessità
di fiancheggiare l’accesso al castello con torri di fiancheggiamento.
Infatti
l’erezione contemporanea della torre sud e del muro di facciata delinea il tipo
di difesa presente nel castello.
Attraverso
le feritoie aperte nei muri delle torri, era possibile esercitare una difesa
estrema ed ostacolare gli assalitori fino al limite dell’ingresso della
fortificazione.
“Queste torri
servivano a meglio sorvegliare il terreno dinanzi alle cortine ed anche per
battere con tiri laterali il nome che si accostasse alle mura, ossia a
fiancheggiare le cortine… esse si elevavano pressochè sempre al di sopra delle
cortine e la loro altezza spesso giungeva ai trenta metri…”.
“La feritoia arciera
era adatta all’uso dell’arco, e poiché l’arciere usava l’arco tenendolo
verticalmente, così la feritoia doveva presentarsi lungo dall’alto in basso,
stretta e leggermente svasata verso l’interno. Tali feritoie assieme a quelle
“balestriere” furono le sole impiegate prima del XIV secolo…”.
In
Sicilia, almeno dalla prima metà del XII secolo, la tecnica di fortificazione
bizantino-araba era stata assimilata dai nuovi dominatori dell’isola, i
Normanni, che l’applicarono nella costruzione di edifici militari inediti cioè
non bizantini e nemmeno musulmani.
La
relativa tranquillità e stabilità del Regno di Ruggero II (1130 – 1154)
coincise con l’avvio di numerose costruzioni normanne. Lo stesso Idrisi allude
ad opere, anche se sotto il termine di restauro, di strutture fortificate
promosse da Ruggero.
Gli
interventi sulla preesistente fortificazione di Calatubo, riferibili a questo periodo (metà del XII secolo), sembrano
aderire ad un programma generale di ammodernamento e potenziamento della
difesa.
Infatti
nel momento in cui si ha il raddoppio delle torri dinnanzi alla facciata del
castello, s’inserì probabilmente anche una torre posta vicino all’ingresso che
dal primo cortile introduceva al secondo cortile. Una costruzione ipotizzata in
base ai resti delle strutture murarie presenti.
Una
torre legata a quel piano di difesa progressiva che opponeva un ostacolo ad
ogni possibile avanzata del nemico.
A
Calatubo sono quindi presenti ben tre sbarramenti difensivi corrispondenti
all’incirca ai salti di quota del banco roccioso.
Torre Sud
Torre Sud (a destra)
I livelli
difensivi
Torre Nord (a sinistra) e Torre Sud (a destra)
PORTALE
Foto risalente al mese di maggio del 2014
Muro perimetrale entrata castello con i fori difensivi e con pietra
calcarea solamente lavorata
Portale d'Ingresso
Il
portale d’ingresso fu aggiunto in epoche successive dal momento che all’esterno
è semicircolare, realizzato con pietra calcarea compatta e perfettamente
squadrata, mentre all’interno è presente un arco ribassato di piccoli mattoni
in terracotta.
La
parte del muro che definisce la rampa verso est, si collega alla torre sud
creando un angolo quasi retto ed è formato da conci ben quadrati di 60 x 25 cm.
La rampa è ancora presente anche se in stato di abbandono e coperta da
vegetazione.
LA TORRE MASTRA
(MASTIO)
Un
impronta normanna conserva inoltre l’impianto della torre mastra all’interno
del perimetro della fortificazione.
Tra
la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, il mastio fu incorporato in un
piccolo palazzo fortificato che è distinto dagli ambienti che vi si addossarono
sul lato ovest. Una chiara soluzione di continuità verticale che è
riscontrabile in corrispondenza dello spigolo nord-ovest della torre.
La
torre di pianta quadrata ( 7 x 7 )m e con un notevole spessore dei muri (da
1,30 a 2,30 )m si sviluppa oggi (se non ci sono stati crolli recenti) su due
livelli.
Le
pareti sono costituite da conci di calcare. Nell’angolo nord-est sono presenti
delle bugne quadrate di vario tipo e dimensioni (17,5 x 18 e 71,5 x 18) cm
mentre nell’angolo sud-est sono presenti dei grandi conci di calcare compatto
che consolida la parte della struttura che va da terra fino ad un altezza di
circa 6 metri.
Il
piano terra della torre, coperto da una volta a botte, non è direttamente
raggiungibile dall’esterno. La finestra posta all’altezza di 5 m e che si apre
sul cortile inferiore della fortificazione è chiaramente frutto di
rimaneggiamenti successivi,. L’unico vano che consente l’accesso a questo
livello è praticato all’interno del corpo di fabbrica, lungo il muro comune
alla torre ed all’ambiente ad esso attiguo.
La
rilevante differenza di quota tra i piani di calpestio ha reso necessario
compensare il dislivello di circa 1,10 m mediante una piccola scala ricavata
nello spessore murario.
Tuttavia
nemmeno questo ingresso è contestuale alla costruzione della torre.
La
volta del piano terra fu rialzata in corrispondenza di questo passaggio tra i
due ambienti. Un adattamento che non
sarebbe stato necessario se al momento della costruzione della torre fosse
stato previsto un ingresso ubicato in questa posizione.
L’ingresso
era piuttosto praticato dal primo
livello della torre attraverso una porta aperta al centro del suo muro ovest e
chiusa a seguito dei lavori di ampliamento del castrum.
La
parte superiore di questo ingresso era perfettamente conservata al disopra del
solaio fra il piano terra ed il primo piano. L’altezza complessiva del vano
doveva essere di circa 2 metri.
La
torre prevedeva un ingresso dall’interno del recinto, cioè da una posizione
protetta da aggressioni esterne. L’assenza di tracce di un collegamento
verticale fra i piani induce a pensare che l’accesso ai vari livelli sia stato
affidato ad una scala lignea.
L’originario
ingresso della torre esclude con certezza la pertinenza al primo impianto dei
locali che si aprono sulle altre pareti.
Il
numero di aperture sulla torre mastra, per evidenti ragioni di sicurezza,
dovevano essere ridotte al massimo e in ogni caso si trattava di feritoie che
garantivano il controllo visivo della zona oltre che all’areazione interna. La
configurazione attuale è il frutto dei successivi adattamenti che hanno
annullato progressivamente la sua funzione militare.
L’ingresso
era quindi situato al primo piano mentre il piano terra, più esposto agli
attacchi, era completamente isolato dall’esterno da pareti senza aperture ed
era destinato ad accogliere riserve idriche o alimentari.
L’attenta
ricerca della studiosa Rosa Di Liberto ha infatti rilevato il considerevole
spessore dei muri perimetrali della torre, tipica in ogni caso delle torri
mastre. Torri dallo spiccato sviluppo verticale che prevedevano anche la
specializzazione nella destinazione d’uso dei vari livelli.
Vistose
tracce di rivestimento in cocciopesto, rilevato al di sotto delle pitture della
volta del piano terra della torre, potrebbero rilevare l’utilizzo dell’uso di
questo ambiente come cisterna destinata appunto alle riserve idriche. Una affermazione
che la ricercatrice avanzò con cautela perché sarebbero necessari degli studi
archeologici con analisi del campione di rivestimento per poter confermare una
simile ipotesi.
Purtroppo
la torre mastra di Calatubo è priva delle coperture e si conservavano almeno
fino ad un paio di anni fa solo due piani. I 9,50 metri d’altezza rilevabili
erano solo una parte dell’altezza dell’originaria struttura che doveva essere
costituita da un altro piano oltre che dal coronamento.
Il
crollo della volta a botte che copriva il primo piano non ha cancellato le
tracce della sua impostazione lungo i muri occidentali ed orientali. Una
impostazione legata alla naturale presenza di una risega, al di sopra della
quale si nota un restringimento del muro di circa 25 cm. A partire da questa
quota, si conservava una porzione di muro dello spessore di 90 cm, che
attestava l’esistenza di un altro livello oltre al secondo. Infatti la stessa
continuità di questo muro, alto 1,70 m, escluderebbe che si trattasse del
parapetto della torre.
Se
agli 11 metri circa di altezza che avrebbe raggiunto la volta di copertura del
primo piano della torre, si aggiungono almeno altri 4 metri per l’altezza di un
altro livello, in età medievale la torre avrebbe avuto un altezza di circa 15
metri oltre al coronamento.
C’è
una rappresentazione del castello, un incisione datata 1597, che dà una
perfetta visione anche della struttura della torre mastra.
La
torre presentava un coronamento costituito da una esile torretta conclusa da
una copertura piramidale che svettava al di sopra del piano del terrazzo. Un
qualcosa di simile alle torri che serrano le facciate delle cattedrale normanne
di Cefalù e Monreale.
Inoltre
nella rappresentazione del’ 500 si distingue la fabbrica addossata
all’originario baluardo.
(un immagine rilevabile nella Descrittione
dell’arcivescovado di Monreale con le sue terre , un incisione che si trova
nell’opera di G.L. Lello, Histyoria della Chiesa di Monreale, rist. an.
Dell’edizione del 1596).
LA ZONA RESIDENZIALE
Il
castello nel 1295 fu concesso a Federico d’Antiochia. In questo periodo avvenne la trasformazione da
struttura militare in residenza fortificata.
La fabbrica che
costituiva in nucleo residenziale in età medievale
Trasformazione
che determinarono l’unione della vecchia Torre Mastra normanna con le nuove
stanze nobiliari. Una torre “Mastra” che aveva ancora una sua validità
difensiva caratterizzata dall’assenza di aperture nel cortile inferiore. La
nuova residenza fortificata era costituita da due piani, con tre sale a volta
nel piano terra e tre stanze rivestite con piastrelle al primo livello. Queste
tre stanze a cupola erano disposte su diversi livelli, collegati tra di loro da
piccoli passaggi. La prima stanza era coperta da una volta di bordo.
“Volta di bordo”
Si superava un dislivello di 1,10 metri e
si giungeva nella sala seguente che era coperta da una volta a crociera. In
questa stanza si apriva una finestra sul cortile e che fu aggiunta
successivamente ed infine la terza stanza con copertura simile alla precedente.
Il
primo piano si raggiungeva grazie ad una scala di legno posta all’esterno della
residenza.
Il
castello nel XIII secolo fu abbandonato.
Nel 1583 Graziano De Ballis acquistò il feudo ed il
castello dal Conte di Caltabellotta e Duca di Bivona, De Luca e Peralta, con
atto stipulato presso il notaio Lazzara di Palermo.
Tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XVII secolo il
castello fu oggetto di lavori strutturali di recupero da parte della famiglia
De Ballis. Lavori importanti perché fu costruita una nuova ala ad ovest della
preesistenza struttura residenziale e una chiesa nel cortile d’ingresso cioè
nei pressi della torre Nord. Altri lavori interessarono la facciata principale
con il portale d’ingresso e la torre sud.
Il
portale d’ingresso del castello fu
ristrutturato ed anche la torre sud evidenzia delle ristrutturazioni
legati al periodo storico della famiglia De Ballis. (Ristrutturazione che ho
citato in precedenza nel paragrafo “La Torre Sud).
Nella
stessa torre aprirono due finestre una sul lato ovest ed una sul lato nord.
Anche
il palazzo fortificato subì delle modifiche con dei lavori risalenti al
1597. I documenti del 1702 non citano
più la torre Mastra come elemento importante nell’architettura del castello
dato che era ormai inglobata nel palazzo fortificato.
Nella torre Maestra furono anche aperte delle
finestre sui tre lati dell’edificio che in precedenza erano assenti per ovvie
ragioni di sicurezza ed in ogni caso erano presenti delle feritoie.
Il
corpo residenziale ovest, costruito tra il XVII ed il XIX secolo fu unito al
palazzo fortificato e poggiato al muro di cinta medievale.
In
questo stesso periodo venne costruita la chiesa nel cortile d’ingresso (primo
cortile), vicino alla torre Nord.
La
chiesa ha una pianta rettangolare con una superficie di circa 50 mq e una
copertura con volta a botte.
Una
chiesa che come già accennato fu costruita dalla famiglia De Ballis come
dimostra lo stemma posto sull’architrave della porta d’ingresso della cappella.
Una
piccola chiesa che anche se non contraddistinta da particolari caratteristiche
estetiche o formali ha la sua importanza
storica.
Una
piccola chiesa rurale caratterizzata da una forte semplicità nelle soluzioni
architettoniche.
Nel
prospetto esterno, grossi blocchi di calcare compatto incorniciano le due
finestre ed il portale d’ingresso.
All’interno
la chiesa è ad un aula ed è ancora visibile, addossato alla parete
settentrionale, un piccolo altare sopraelevato di un paio di gradini. L’altare
è l’unica sopravvivenza rimasta a testimonianza della destinazione d’uso di
questo edificio.
La
tecnica muraria impiegata nella costruzione della chiesa, i cui muri hanno uno
spessore di circa un metro, presenta
delle analogie con altre chiese riscontrate negli ambienti residenziali
seicenteschi.
La
chiesa è in rovina a non so se il Comune
abbia effettuato dei lavori di messa in sicurezza dell’edificio come erano
stati previsti nel lontano dicembre
2016.
Nella parte meridionale c'è una scala parzialmente scavata
nella roccia, costruito in epoca moderna, che collega le fabbriche residenziali
con il cortile.
Nonostante gli stravolgimenti e la mancanza di veri
elementi decorativi, il castello non ha mai perduto il suo aspetto originario
di “fortificazione di campagna”.
Nel 1707 il castello passò a Donna Gaetana de Ballis,
ultima baronessa di Calatubo.
Donna Gaetana sposò Domenico Papè e alla morte della consorte il castello e il feudo passarono a
Ignazio Papè e Ballo.
RISTRUTTURAZIONI
E MODIFICHE DEL XVIII – XIX SECOLO
Nel XVIII secolo il castello subì un ulteriore modifica con
la costruzione di due sottili torre
merlate. Venne anche creata una scala esterna per rendere più agevole l’accesso
alle aree residenziali.
Le due torri
merlate costruite nel XVIII secolo.
Le due torri merlate evidenziate in rosso del
XVIII secolo.
Le
due torri non avevano alcuna funzione militare e furono costruite con piccoli
conci quadrati, con spessore minimo di 54 cm e con merli nella parte superiore.
le due torri
costruite da Papè di Valdina .- foto del 1985
Segni, nell'angolo
del muro che consentono di identificare il passaggio tra la muratura di una delle
Torri merlate
(XVIII secolo) e la muratura sottostante.
Parete rocciosa
del muro perfettamente levigata
La zona residenziale, sul lato ovest, s'affacciava sul primo cortile.
Si vede chiaramente il muro che separava il primo dal secondo cortile e il relativo
il portale d'intresso. oggi scomparso come gran parte del muro.
Il castello fino a pochi anni fa era...... un ovile.......
si vedono ancora le mangiatoie in legno per gli animali.......
Avranno trovato qualche reperto ?????????
Copertura del XVI
secolo con travi di legno e tegole (coppi siciliani)
La copertura degli
edifici del XVIII secolo è invece piana.
Dal
cortile triangolare si raggiungevano i piani superiori attraverso una scala,
ricavata nella roccia, costruita nel XIX secolo.
Apertura sul
cortile triangolare
Antico ingresso
sul cortile triangolare
Questi
cambiamenti dimostrano come il castello, sia con la famiglia De Ballis che con
la famiglia Papè non fu abbandonato ma diventò luogo di villeggiatura soprattutto per i Papè di
Valdina.
Alla fine del XVIII secolo, con il declino
dell’aristocrazia e la crisi politica, nel 1879 il castello fu nuovamente
abbandonato dopo circa 6 secoli di presidio.
Fu
un abbandono temporaneo perché alcuni anni dopo don Papè di Valdina intervenne
nuovamente sulla struttura. Furono costruite una scala a sbalzo, che conduceva
dal cortile triangolare ai locali residenziali di nuova costruzione, e sul lato occidentale, un balcone in pietra
(fine XIX secolo) di cui rimangono solo i tre mensoloni e il piccolo ballatoio.
Don Papè costruì dei vasti magazzini per la produzione di vino e
l’ennesima ristrutturazione con nuovi ambienti, nella parte residenziale
Il
Principe di Valdina era un grande esperto di vini e produttore del vino
denominato “Castel Calattubo” che ebbe un grande successo nel mercato enologico
perché aveva alla base delle tecniche speciali per la produzione e lo
stoccaggio nei novi magazzini da lui
fabbricati.
Il nucleo
residenziale (7 x 21,50) m ha al
suo interno nel cortile triangolare un grande serbatoio d’acqua che sfrutta una
cavità naturale. Gli ambienti del nucleo sono ormai in totale abbandono ed in
alcuni sono ancora visibili le travi del tetto.
Con
la prima guerra mondiale la crisi economica
portò gravi conseguenze nel commercio del vino. Il castello fu abitato fino al
1940 quando il comandante delle forze armate italiane sequestrò il castello per
adibirlo a posto di vedetta militare.
Dopo
la seconda guerra mondiale era ancora in abbandono. Negli anni 50 crollò unaa
parte del muro sud e fu l’inizio di un declino inarrestabile.
Il
terremoto del Belice del 1968 diete un ulteriore colpo e la scossa del 2002,
nella struttura già lesionata ci fu il crollo degli edifici sul lato sud; nel
2003 crollò parte della torre sud; nel 2004 parte del muro della facciata nord
e le stanze che erano appoggiate a
questo muro.
Nel
2005 fu la volta della facciata d’ingresso… a cui si aggiungono le spoliazioni
da parte dei soliti amanti della coltura con in particolare gli artistici pavimenti
originali.
Un
castello che è oggetto di visite e studi da parte di università straniere
perchè ripeto, malgrado i diversi interventi che si sono susseguiti nei secoli,
ha sempre mantenuto il suo aspetto originario di castello o fortificazione di
campagna a protezione di un villaggio o casale.
Ed
è triste vedere leggere nei commenti delle università straniere che hanno
visitato e studiato il sito…” I soffitti sono quasi completamente crollati, le
pareti hanno lesioni gli elementi di divisione profondi e verticali sono
impraticabili. Sembra una rovina coperta di vegetazione, ma ha ancora un enorme
Fascino”.
le
due torri in una foto del 1968
Il
Castello nel luglio 2014
Copertura del XVI
secolo con travi di legno e tegole (coppi siciliani)
La copertura degli
edifici del XVIII secolo è invece piana.
9. LA LEGGENDA ?
NEI SOTTERRANI FU RINCHIUSO UN BAMBINO/A CHE ERA EREDE
AL TRONO ?
Il
4 aprile 2003 il quotidiano “La Repubblica” riportò un interessante articolo,
scritto da Baldo Carollo e dal titolo “Calatubo,
le rovine dell’Islam”.
“Qal’
at Awb” sta morendo, pensò il geografo
arabo Idrisi, lasciando il castello alle sue spalle per raggiungere il
villaggio saraceno di Alquamah. Uno strano destino per questo castello che,
malgrado le sue condizioni, è uno degli esempi
più affascinanti di fortificazione che potremo definire di campagna. Castello
che dominava le colline ricche allora di grano ed oggi coperte da estesi
vigneti.
“Calatubo.. sta
morendo”
è una frase che suona come il presagio
di uno strano destino perché ripetuta dal bibliotecario Roberto Calia che
accompagnò il giornalista nella visita del castello.
Mons.
Regina, presbitero e storico, amava molto il suo territorio e scrisse anche un
libro sul castello “Calatubo dalla
protostoria ai nostri giorni”.
Il
castello allora stava lentamente sgretolandosi sotto il peso dei secoli, si dice costruito nel
1093, e sotto l’azione dei soliti tombaroli, dei pecorai, ecc..
Il
bibliotecario di Alcamo, anche lui amante della sua terra, rilevò al
giornalista la presenza di cunicoli che secondo la fantasia popolare collegavano
il castello di Calatubo con il castello dei Conti di Modica ad Alcamo e anche
con la Torre dei Ventimiglia di Monte Bonifato.
Un
dialogo con il giornalista ricco di sentimento perché il bibliotecario riportò
gli antichi racconti che tante volte il nonno Sasà gli aveva rilevato, attorno
ad un braciere nelle freddi serate d’inverno, sugli incantesimi, sui cunicoli e sulle introvabili “truvature”… Rilevò la storia del
sito legata ai proprietari, Peralta, Moncada, De Ballis, Papè. Una vera enciclopedia
vivente arricchita da un amore sincero e vivo verso per la sua terra.
In
merito ai cunicoli “infiniti” rilevò che la loro esistenza non era provata ma
che esisteva un imbocco, lungo un centinaio di metri, che fu scoperto. “Proprio
da questo imbocco anni fa un giovane di
Calatafimi s’addentrò nei dedali intricati e ne uscì alla fine scioccato perché
assalito da strani gemiti forse di gatti selvatici”.
Il
giornalista ed il bibliotecario percorsero la ex regia trazzera fino alla falde di
Calatubo.. Il giornalista rimase colpito dall’ambiente.. “Salendo attraverso un campo di grano mi rendo conto della posizione
strategica di questa rocca inaccessibile che è strategica, sia militarmente sia
spiritualmente, come ogni insediamento elimo. Le colline di olivi, viti e
frumento sembrano uno smisurato tappeto riccamente intrecciato, tra monte
Bonifato, Alcamo, il complesso montuoso dell' Inici, il golfo di Castellammare,
il Mediterraneo. Dall' alto tutto sembra magia. Mentre percorro un viottolo
calpesto innumerevoli resti di ceramiche e mi imbatto in tracce superstiti di
architetture sepolcrali”.
Ancora
una volta riviveva l’immagine di una Terra ricca di storia mai e mai del tutto valorizzata ma anzi..depredata..” A Balestrate e a Partinico, nell'
Antiquarium comunale, si trovano frammenti, vasi greci, coppe ioniche,
"kylikes", "skyphoi", anfore, lucerne ombelicate, assi
romani. Ma il reperto più intrigante è una maschera fittile di produzione
locale del VI secolo a.C., misteriosamente perduta, di cui ci resta solo una
foto. È un volto magnetico, con gli
occhi a mandorla che fissano lontano e un naso prominente sopra la bocca chiusa
atteggiata a un sorriso enigmatico. Potrebbe essere maschio o femmina, un
giovane o una vecchia. Questo viso fissa i millenni. è il volto imperscrutabile
di uno sciamano elimo?”
Seduto sopra una
rupe fisso il castello ormai caduto in una rovina senza ritorno, mentre il
torrente Finocchio mormora sotto la rocca e un' ape ronza tra i fiori viola di
un enorme ciuffo di camedrio. Dove c' era un' indaffarata civiltà ora rimane un
maniero caduto non per le mani di invasioni barbariche ma per l' erosione dell'
indifferenza. Le uniche invasioni sono quelle delle colonie di assenzio
argenteo, di ortiche, di malva verde rigogliosa e di un pastore che vi ha impiantato
da decenni un ovile. Il castello muore in una malinconica eutanasia. Tutto
viene travolto dal tempo. I ruderi sono il simbolo del fatalismo isolano. L'
oblio è la categoria dello spirito che Tomasi di Lampedusa identificò con l'
anima dei siciliani. «Sono eterni, non svegliateli dal loro sonno millenario»,
scrisse. è sensuale e mistico questo sentimento ancestrale d' atarassia e di
destino. è il sorriso ironico dell' eternità, il sorriso di sciamano del
misterioso "uomodonna" della maschera fittile.
Mi svegliano dall'
incantesimo un cambio improvviso di luce e un tubare di colombe. Quella lì in
fondo, triangolare, è la «torre dei colombi», sempre invasa. E questa è la
torre di sud ovest (Torre Sud). Il barone Nicolò Flugj Papè raccontò
personalmente a monsignor Regina che «sotto questa torre si trova una galleria
segreta. Fu murata all' inizio del secolo dal principe Pietro Papè in seguito
al grave incidente occorso a un giovane impiegato del castello”.
È questa la
LEGGENDA (?) del Castello di Calatubo
Una
leggenda che dalla tradizione locale è citata come “La Turri di lu Re biddicchiu” (La Torre del re un po’ spavaldo”).
Nei
primi anni del’ 900 il castello era di proprietà del principe di Valdina, Don
Pietro Papè che aveva alle dipendenza un ragazzino che svolgeva le funzioni di
stalliere badando ai suoi cavalli.
Il
giovane un giorno per curiosità forzò la vecchia grata che si trovava nei sotterranei della torre
sud del castello. Una grata che chiudeva da tantissimo tempo un passaggio
segreto che portava fuori le mura del castello. Le fonti locali citano oltre al
passaggio segreto anche l’esistenza di un antica cripta.
Il ragazzo mosso da curiosità, tipica degli
adolescenti, e desideroso di scoprire le verità su quelle antiche leggende,
entrò nel cunicolo tenebroso.
Dopo
un pò di tempo il ragazzo venne fuori correndo all’impazzata. Tremava
paurosamente a tal punto da svenire. Si riprese e il personale del castello
cercò di capire cosa gli fosse successo e quindi la causa di quel terrore. Il
ragazzo era analfabeta e non seppe mai spiegare con precisione gli avvenimenti
perché a causa della paura aveva perso l’uso della parola….
I
dipendenti del principe entrarono nel cunicolo e rinvennero tantissimi
scheletri umani che erano stati depositati nel luogo da tantissimo tempo.
Resiti
umani che forse erano venuti alla luce durante le vangature dei terreni sottostanti
la rupe e collegati alla presenza di un villaggio arcaico. Resti che furono
posto in questa cripta ?
Subito
dopo l’accaduto il principe diede l’ordine perentorio di chiudere il passaggio
che ancora oggi si trova murato e inabissato in una spessa coltre di detriti
nelle fondamenta della torre.
Fin
qui la leggenda ma il termine “la Turri
di lu re biddicchiu” farebbe risalire la “leggenda” ai primi anni del 1400.
La
tradizione cita infatti che in quei sotterranei fu tenuto prigioniero il figlio/a
naturale ( quindi illegittimo/a) del Re di Sicilia Martino I. Un figlio/a non
legittimo/a e frutto delle frequenti relazioni che il re, un vero “casanova”,
aveva nella corte palermitana.
Alla
morte del re Martino I, avvenuta in Sardegna, anche qui la causa della sua
morte fu legata ad una leggenda perché causata dai “baci di una donna”, gli
successe al trono l’anziano padre Martino il Vecchio. Prese il nome di Martino
II e fu il primo caso nella storia che un padre successe al figlio.
Sembra
che il bambino/a fu chiuso/a nei cunicoli durante l’interregno, cioè nel
passaggio della reggenza da Martino I a Martino II, perché ritenuto/a naturalmente
scomodo per la successione al trono. I baroni siciliani erano contrari ai Martini
e certamente la presenza di un erede avrebbe determinato una situazione
politica non facile da gestire.
Del
bambino/a, purtroppo non si seppe più nulla e sicuramente fu lasciato/a morire
di terribili stenti dentro quei cunicoli o cripta segreta.
Rimase il
nome dato alla torre e a quanto sembra nel castello, che negli anni 30 e 40 era
abitato perchè erano presenti i magazzini del vino “Calattubo” prodotto dai
Papè, gli abitanti sentivano spesso durante la notte le urla strazianti di un
bambino/a che invocava aiuto … una voce terribile con un pianto struggente che
proveniva sempre dallo stesso punto,,, dalla Torre Sud.
Ammessa
l’esistenza di questo bambino/a cerchiamo
di svelare il carattere di
Martino I, detto anche il Giovane, per capire
il periodo storico al quale è legata la “leggenda”.
Martino
I era nato a Barcellona il 25 luglio 1374 e morì giovanissimo, all’età di 35 anni, a Cagliari
il 25 luglio 1409.
Fu
re consorte di Sicilia (o di Trinacria) dal 1392 al 1401 e re di Sicilia dal
1401 al 1409.
Tra il 1389 ed il 1392 aveva sposato Maria di Sicilia, regina titolare del
Regno di Trinacria, in quanto figlia del re Federico il Semplice. Un matrimonio
che fu contrastato da gran parte della
nobiltà siciliana. Regnò quindi sulla Sicilia insieme alla moglie Maria fino
alla morte della regina avvenuta nel 1401.
Rifiutando gli accordi stipulati
nel Trattato di Avignone, governò da solo senza considerarsi vassallo dei
sovrani di Napoli.
Martino
fu alla fine riconosciuto re di Sicilia
e il 26 dicembre 1402 sposò Bianca di Navarra.
Nel
1408 Marino I partì per la Sardegna per riconquistare l’isola che si era
ribellata al re d’Aragona Martino il Vecchio (padre di Martino I). Una
ribellione nata dopo la morte del giudice di Arborea Mariano V senza
eredi. La crisi di successione aveva
favorito la ribellione dell’isola che si era affidata al visconte di Narbona,
Guglielmo II, che fu eletto giudice della Corona de Logi il 13 gennaio 1409 ad
Oristano.
In quest’isola Martino il Giovane morì nel 1409 ucciso, a “forza di baci”, da una donna, la “Bella di San Luri”.
Lo scontro tra l’esercito di
Guglielmo e quello aragonese di Martino I si verificò a Sanluri, il 30 giugno
1409 e fu una vittoria aragonese. I genovesi che erano alleati di Guglielmo dovettero
abbandonare l’isola. La Sardegna tornò ad essere dominio della casa aragonese.
Martino I, dall’alto di una collina,
dove aveva fatto collocare la sua tenda, osservò il suo esercito catalano che “dava il sacco al sottostante villaggio di Sanluri,
e rideva”.
Don Martino era un giovinetto pallido pallido, e con un
volto quasi femminile. Egli era tanto tristo da meravigliare chi pensava come
in un cuore così giovane potesse albergare tanta efferata crudeltà”.
“Rotto ad ogni vizio, non conosceva freno alle sue
violenti passioni, così che per la Sicilia andarono un giorno famose le orge
scandalose di quel re di vent’anni, che pare covare in sé tutti i vizi che
resero esecrati gli ultimi imperatori romani. Ma questo re dissoluto aveva una
virtù: la febbre della battaglia lo faceva delirare come la febbre dell’amore.
ed ecco perché, sapendo egli come i sardi tentassero di leberarsi dal gioco che
gli teneva soggetti agli Aragonesi, un bel giorno lasciò il suo regno di
Sicilia, disse addio alle sue favorite, e con il fiore dei suoi soldati venne
in Sardegna per ricondurre sotto il dominio di suo padre, il re d’Aragona
(Martino Il vecchio), quelle province dell’Isola che gli si erano ribellate”
“La vittoria sorrise al giovane re; nella pianura di Sanluri
i sardi vennero posti in rotta, ed i loro corpi furono calpestati dalle unghie
dei cavalli del re di Sicilia”.
Martino
I con la sua corte risiedeva nel castello di Cagliari (“Castellu de Susu” – Castello Superiore).
Nella
grande sala si banchettava festeggiando la vittoria ma Martino I era
febbricitante, tremante, aveva contratto la malaria.
“Il re, più
pallido dell’usato,, con occhi che luccicavano come quelli di un febbricitante,
portò con mano tremante la sua tazza divino ricolma alle labbra e disse:
Cavalieri, Marte
ci ha assistito in questa giornata e
vincemmo; Bacco fu a noi propizio e ne fanno fede le vuote tazze, e i
vostri volti nei quali io leggo l’ebrezza come sopra quelli dei nemici oggi ho
letto la paura. Perché noi possiamo chiamare bello questo giorno ci mancano i
favori di un’altra dea. Dite, non avete incontrata in questo villaggio una
qualche fanciulla, che amabilmente a noi sorridendo, ci porga occasione di
sciogliere un inno all’amore? e sì, che nell’isola non avvi penuria di belle, e
i volti pallidi e gli occhi neri, pieni di fuoco, delle donne sarde mi
ricordano quelli delle belle siciliane. Dunque in Sanluri non vi sarà una donna
capace di rubarmi un bacio?”
Castello di Sanluri
Cagliari nella metà del XIX secolo. La città è dominata dal castello
Il
re aveva appena finito di parlare quando la porta della sala s’aprì e apparve
una “giovinetta spinta innanzi da alcuni
soldati”.
“Allo entrare che
fece la fanciulla nella sala del banchetto, un grido di gioia brutale uscì dai
petti dei convitati, e cento occhi, che mandavano lampi di sfrenata cupidigia,
si fissarono sopra il di lei volto. Poi si fece silenzio: tutti quei dissoluti
contemplavano meravigliati quel tipo di bellezza affascinante perché quella
giovinetta era bella davvero. Giovane che non toccava ancora i vent’anni, ella
aveva un volto che Murillo, il pittore celebre per le belle donne dipinte nei
suoi quadri, non avrebbe sdegnato tenere a modello”.
“ A giudicarla dal
vestito doveva appartenere ad agiata famiglia. Una sottana di fine lana con
mille pieguzze le cadeva lungo i fianchi torniti; un giubbetto, ricamato a
fiori e fettucce d’oro, stretto alla vita flessuosa ed aperto sul petto, faceva
risaltare la esuberanza del di lei seno, pudicamente coperto da bianchi lini”.
“La giovane
Sanlurese girava i suoi occhi bellissimi
intorno, come per cercare un varco alla fuga”.
“Chi è queste
bella ?” – disse il re rivolto ai soldati che stavano a fianco della fanciulla.
“Sire”- rispose
uno di costoro – “ è una donna che ha ucciso due dei vostri migliori
ufficiali”.
“Ma essi avevano
prima ucciso il mio vecchio padre” – così rispose la giovine donna con voce
sicura, mentre le lacrime le inumidivano il ciglio.
“Essa – seguitò a
parlare il soldato - avrebbe già pagato col sangue la morte dei nostri compagni
d’arme, se la sua bellezza non la avesse resa degna di essere offerta in dono
al nostro valorosissimo e graziosissimo signore e re”.
“E bene faceste,
per la croce ! Grazie miei bravi – rispose Martino – Ed ora uscite tutti. A me
solo spetta giudicare se questa donna deve morire. Domani o messeri, udrete la
mia sentenza”.
I Convitati si
alzarono e sogghignando obbedirono all’ordine del loro re.
Quando Martino si
vide solo con la bella fanciulla, le andò incontro barcollando, e presala perla
mano che tremava, dolcemente la trasse a sé.
Poi le chiese con
voce blanda:
“Come ti chiami
?”;
“Giovanna” rispose
la poveretta e tremava come foglia;
“Vieni, o gentile
e graziosa giovinetta; vieni; i baci del tuo re asciugheranno le tue lacrime”.
Ed il dissoluto
con un braccio le cinse la vita, ed accostò le labbra sopra la di lei fronte
coperta da freddo sudore.
Dopo qualche
istante il re ubriaco dormiva col capo chino sul petto, e la Sanrulese lo
guardava con certi occhi che gli avrebbero fatto paura se egli fosse stato
desto.
Il re di Sicilia
ha preso stabile dimora in Cagliari e Giovanna di Sanluri è divenuta la sua
favorita.
Tra le braccia
della bella Sanlurese Martino scorda il regno, e si abbandona con tutto
l’ardore suo giovanile ai fascini di questa novella passione.
Ma il re da
qualche giorno è malinconico.
I suoi occhi
diventati vitrei non si animano che sotto gli sguardi procaci di Giovanna: le
sue membra tremano tutte come quelle di un vecchio ottuagenario; il suo volto
pare di cera, come quello di un morto, e solo un po’ di rossore appare di
quanto in quando sopra i pomelli delle sue guance incavate. Soffre lo dicono
tutti, e lo sente egli stesso.
Ma gli resta
ancora tanta forza da stringere fra le sue braccia il corpo voluttuoso di
Giovanna, e non pensa alle sue membra fiacche, e alla febbre che lo consuma.
“Quella donna è un
vampiro; i di lei baci vi uccidono, o mio re”.
Così gli parlavano
i suoi cortigiani, indicando Giovanna.
Ed egli rispondeva
loro sorridendo:
“Trovatemi una
morte di questa più dolce, ed io rinunzio ai baci di questa bella fanciulla”.
Ed il re, non mai
sazio d’amore, ritornava agli amplessi che gli davano la morte.
Era solo l’amore
che uccideva così il re di Sicilia ?
Fuori della città
di Cagliari, in riva al mare, sopra uno scoglio eravi una torre mezzo
diroccata. Fra quell’ammasso di pietre sconnesse, flagellate dal vento e dagli
spruzzi delle onde quando il mare inferociva, insieme ai gufi dal sinistro
canto, abitava una donna che il popolo chiamava Rica la maliarda.
Era questa una
vecchia, bruttissima in volto e coperta di luridi cenci.
Sarda non era,
perché con gran stento parlava il linguaggio dell’isola.
La si diceva
venuta d’Oriente sopra un qualche naviglio di pirati. Viveva dell’altrui
carità, e vendendo filtri e amuleti per guarire piaghe e ferite, e succhi
d’erbe, delle quali ella solo conosceva le misteriose virtù.
Un giorno però si
disse che Rica era una fattucchiera, che
al sabato andava al ballo delle streghe, e ci fu chi asserì averla veduta in
una notte sospesa nello spazio a cavalcione di una lunga scopa.
Il vicerè,
Giraberto di Cruillas, fece allora chiamare la vecchia accusata di sortilegio,
e dopo averla minacciata di rogo e peggio, le vietò per sempre di abitare nel
recinto della città.
Cacciata da
Cagliari, fatta segno ai motteggi e anche alle percosse di chi l’incontrava per
via, Rica andò a cercare un asilo fra i ruderi di quella vecchia torre in riva
al mare.
Là, ella viveva
tutta sola, soccorsa dalla carità di un qualche pescatore, col quale cambiava
un’erba, per guarire quella o l’altra infermità, con un po’ di cibo.
In una notte buia
buia, una donna si avvicinava con passo concitato, e voltandosi di quando in
quando indietro per la tema di essere seguita, verso la dimora della
fattucchiera.
Arrivata innanzi
alla torre, battè per due volte, e in un certo modo, insieme le palme delle
mani, e si fermò. Dopo un istante l’uscio cigolò sopra i cardini arrugginiti, e
la voce di Rica disse:
“Entra”.
Quella donna seguì
la vecchia, e fatti alcuni passi, si trovò in un recinto di pietre, stretto,
stretto, illuminato scarsamente dalla luce giallognola di una lampada appesa al
muro.
In quel covo non
si scorgevano mobili alcuni.
In un angolo eravi
il letto di Rica, se si può chiamare con questo nome un ammasso di paglia,
frammista ad alga marina, coperto da una logora coperta di lana.
Sopra poche pietre
eravi sparse alcune erbe secche; e in un cantuccio, ammonticchiati alla
rinfusa, certi vasi di terra cotta di forma bizzarra.
Del resto, non uno
di quei tanti simboli, così cari alle fattucchiere, si vedeva penzolare dalle rozze
muraglie.
Rica si assise sul
suo canile, mentre la donna, che alla luce della lampada il lettore avrebbe
riconosciuta per Giovanna, si poneva a sedere sopra una pietra che sporgeva
dalla parete.
“Ebbene, Giovanna,
sei tu contenta dei filtri della vecchia Rica ?” – cominciò la maliarda.
“Si”.
“E me lo dici con
quell’accento tanto triste ?”.
“Il tuo filtro,
che certo devono aver manipolato i demoni nello inferno, rende troppo lunga
l’agonia. Io non mi sento più il coraggio di vederlo soffrire cotanto quel
dissoluto”.
“Oh! Oh! Il tuo
cuoricino sentirebbe forse pietà per il giovane re ? O forse… i suoi baci hanno
incominciato a solleticarti le labbra ? Eh ! eh! Si comincia con l’odio e si
finisce con l’amore. dimmelo allora, e vedremo di mettere un po’ d’olio in
quella lampada già vicina a spegnersi”.
”Cessa lo scherno,
o Rica. Io non so se quello che ho fatto e fo è cosa infame. I bianchi capelli
di mio padre, strappati ad uno ad uno dai soldati di Martino, il suo petto
squarciato da venti ferite, il mio corpo gettato in balia di questo re
libertino alla fine di un’orgia rischiarata dalle fiamme che distruggevano il
mio villaggio natio, mi trovino grazia innanzi a Dio nell’ora della mia morte.
Io venni a
trovarti, perché voglio che la vendetta finisca; perché la veste di carnefice
comincia a pesarmi e a farmi orrore. Su dunque, o vecchia, dammi una droga che
uccida con celerità del lampo. Intendi ? Eccoti dell’oro, e ne avrai ancora se
questo non basta”.
E Giovanna gettò
presso la maliarda una borsa colma di monete.
Rica si alzò,
raccolse l’oro ed esclamò:
“Giacchè tu lo
vuoi, appagherò le tue brame. Aspetta”.
E sì dicendo,
tolse di sotto alla putrida paglia del suo letto un involto, lo aprì, prese una
piccolissima fiala, che conteneva una polvere cristallina, biancastra, e
porgendola a Giovanna le disse:
“Pochi atomi di
questa polvere, e il tuo re comparirà innanzi ad un altro re, cento volte di
lui più potente”.
Giovanna prese con
mano febbrile la fiala, uscì dalla torre, e riprese la via della città.
Un’ora più tardi
la bella fanciulla di Sanluri, assisa presso il letto del re, ascoltava il di
lui respiro affannoso e diceva:
“Tu non hai
rispettato il mio dolore, e i tuoi sozzi baci si sono posati sul mio volto
bagnato di pianto per la morte del padre mio, trucidati dai tuoi vili soldati;
tu non hai ascoltato le grida di disperazione di mille innocenti; tu hai fatto
del mio villaggio un mucchio di rovine. Ora tutte quelle vittime, o re,
chiedono vendetta e tu devi morire !”
E il re di Sicilia
mormorava fra il sonno:
“Come sei bella, o
Giovanna !”.
Al mattino un
grido risuonò per le reggia.
“Il re è morto !”.
Nessuno seppe la
cagione di una tal morte. Si disse che solo l’amore e i piaceri, avevano reciso
il fiore della vita di Don Martino; ma nessuno sospettò di Giovanna.
Le ceneri di
questo principe sono chiuse in un bel mausoleo nella chiesa maggiore di
Cagliari, ed una pomposa iscrizione rammenta le di lui virtù, e tace dei suoi
vizi.
Rievocazione storia "La Battaglia di Sanluri"
Martino
I lasciò un testamento in cui ricordava i due figli illegittimi con le
rispettive madri e la moglie Bianca….”
filium nostrum don Fredericum natum ex…Tarsie muliere…Blanca consors
nostra…filiam nostrum naturalem…Violanti… Agatuciam matrem dicte Violantis”.
Il
racconto della fine del re Martino I (il Giovane), tratto dal testo “In
Sardegna – Leggende e Cronache dei tempi Antichi”, permette di fare luce sulla
personalità e sulle concezioni di vita del giovane re.
Il giovane fanciullo rinchiuso nei sotterranei
del castello di Calatubo chi poteva esssere ?
Come
abbiamo visto Martino I sposò tra
il 1389 ed il 1392 Maria, regina di
Sicilia, figlia di Federico il Semplice. Maria morì nel 1401. Un matrimonio che
durò circa 12 anni e dal quale nacque Pietro.
Pietro
nacque nel castello Ursino di Catania il 19 novembre 1398.
Morì
il 16 agosto/8 novembre 1400 a Catania. Una morte legata ad un terribile
incidente. Fu ucciso da un colpo di lancia alla testa durante una giostra. La
perdita del figlio gettò Maria nella più profonda prostrazione. Il bambino su
sepolto nella Cattedrale di Catania.
Nel
1402 sposò Bianca di Navarra da cui era nato Martino anche lui morto in giovane
età.
Dal
testamento si rileva l’esistenza di due figli illegittimi (naturali): Violante
e Federico Luna.
Violante
era nata da una relazione avuta con una certa Agata.. mentre Federico Luna era nato tra il 1400 e il 1403 da una
relazione avuta con una nobile di Catania, Tarsia Rizzari.
Quindi
nessuno dei figli nati dai due matrimoni riuscì a sopravvivere e quando Martino
I morì, il padre Martino II diventò nel 1409 re di Sicilia e cercò di fare
legittimare Federico Luna per nominarlo suo erede della Corona d’Aragona. Non
riuscì a portare a termine la complessa
operazione di legittimazione e il successivo arbitrato, Compromesso di Caspe,
lo escluse definitivamente dalla successione alla corona.
Visto
il modo di comportarsi di Martino I è probabile che abbia avuto qualche altro
figlio illegittimo magari con qualche popolana e che Martino II decise di
escludere dalla eventuale successione dato che la sua scelta era caduta su
Federico Luna ?
Con
Maria ebbe effettivamente un solo figlio Pietro o prima di questo una figlia? Dal momento del
matrimonio passarono 6/9 anni prima della nascita di Pietro
I
Siciliani erano molto legati a Maria e alla sua morte avrebbero rivendicato il
trono anche per una figlia legittima.
La
“leggenda” parla di un pianto di un bambino che poteva anche essere una
bambina.
Nella
torre sud c’è quindi un grande segreto che non è stato mai svelato…
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Il
Castello, malgrado un progetto risalente al 2016 di messa in sicurezza, è
ancora in abbandono..
L’Associazione
“Salviamo il Castello di Calatbubo” da tempo si batte per la salvaguardia dell’importante
monumento che si è classificato terzo nella classifica nazionale del FAI
Le
ultime notizie risalgono al 21 ottobre 2019 e riportate nel sito internet “ALPA
UNO”..
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