La Via Francigena della Madonna dell'Alto : Petralia Sottana - Alcamo - Mazara del Vallo












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Indice:
Petralia Sottana: Santuario della Madonna dell'Alto
Alcamo
        1. Santuario della Madonna dell'Alto (sul Monte Bonifato)
         2. Santuario della Madonna dei Miracoli
Mazara del Vallo
         1. Santuario della Madonna dell'Alto o delle "Giummare";
         2. Santuario della Madonna del Paradiso
             (Un dipinto che ha mnifestato, anche davanti al Vescovo, uno  dei prodigi...)
 Vallone "Madonna degli Angeli - L'Abies  Nebrodensis - Video 
                 Raggiungibile dal Santuario della Madonna dell'Alto (Petralia  Sottana)

Il Quadro di San Michele Aracangelo - Raggiungibile da Petralia Sottana 
                                                    (meta di pellegrinaggi non riconosciuti dalla Chiesa)
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1.      SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’ALTO – PETRALIA SOTTANA (Palermo)








L'edificio di culto posto su una delle cime piú alte delle Madonie, il Monte Alto con i suoi 1827 m s.l.m., è forse il Santuario Mariano più alto d’Italia e anche d’Europa. È stato inserito nel registro dell’Eredità Immateriali Locale dell’Unesco (REIL).
Le notizie sulla sua origine non sono molte.
Secondo lo storico Caruso il Santuario fu fondato sui resti di una preesistente cappella dedicata alla Madonna e costruito da San Guglielmo Gnoffi da Polizzi Generosa (L'Eremita delle Madonie), un monaco vissuto tra il XIII e il XIV secolo (La data che riportano alcuni siti sulla costruzione del santuario da parte del monaco avvenuta nel 1328 è errata dato che morì nel 1317).

Sul luogo si trovava una piccola cappella ed “un abitazione quasi diroccata”.

Infatti nel 1454  un piccolo edificio di culto era presente sul sito quando il Conte di Caltabellotta, Antonio De Luna Peralta, signore delle Petralie, concesse a Polizzi Generosa l’acqua che sgorgava dalle sorgenti della Madonna dell’Alto mentre in un atto successivo, risalente al 1464, il Notaio Giovanni Predicanti di Polizzi Generosa citò la strada o “via che va alla Madonna dell’’Alto”.



Sin dal XV secolo un importante luogo di culto per molti centri delle Madonie ma soprattutto per gli abitanti di Petralia Sottana, Caldarelli e Nociazzi, frazioni di Castellana Sicula che sorgono sulle pendici del Monte Alto.

Il culto della Madonna dell'Alto (“Alto” é il nome della vetta su cui sorge in Santuario) era legato alla devozione filiale della cittá di Messina, sotto la cui Diocesi erano poste anche le Petralie, alla Vergine Maria a cui è intitolato il Santuario della Madonna di Montalto sul monte della Capperina.

Messina - Santuario della Madonna di Montalto.
Primitiva Chiesa di Montalto o Chiesa di Santa Maria dell’Alto con monastero
dell’Ordine Cistercense.

Nell'”Atto pubblico di fede solennemente celebrato nella città di Palermo á 6 Aprile 1724 – DAL TRIBUNALE DEL S. UFFIZIO DI SICILIA.....”

è riportato come le Petralie siano ancora sotto la Diocesi di Messina
l'”Atto” riporta l'abiura cioè l'atto di ritrattazione dei propri errori da parte dell'eretico dopo la condanna del tribunale dell'inquisizione. Erano presenti tre tipi di abiura: “de lvi”; “de vehementi suspicione” e “de formali”.
De levi” e “de vehementi suspicione” a seconda che la presunzione di eresia fosse leggera o grave ( in altri testi si cita come solo caso di sospetto o convinto) e “de formali” in cui l'eresia era pienamente accertata (di reso confesso).

Nel primo caso l'abiura si svolgeva in forma semiprivata, in presenza dell'inquisitore, del notaio e di due testimoni mentre nel secondo e terzo caso avveniva il pubblico (in chiesa e raramente nella pubblica piazza).
Tra i “PENITENTI, CHE ABIURARON, DE LEVI”
figura:
“Fra Giuseppe Minneci, Romito, chiamato nel Secolo
Pietro Minneci, nativo della Terra di Petralia,
Diocesi di Messina, di anni 35,
per Sortilegj, e proprosizioni ereticali;
come ancora per conservare polize superstiziose,
abjurò de levi.
Ebbe la pena di servire in uno Spedale, o altro luogo
ad arbitrio del Tribunale, per tre anni”.

Una leggenda cita che la statua della Madonna sarebbe arrivata dal mare, dopo il naufragio di un vascello, all’interno di una cassa e rinvenuta sulla spiaggia nei pressi di Campofelice di Roccella.
Gli scopritori, naturalmente animati da una profonda devozione, decisero di portare la statua a Termini Imerese ma non riuscirono a collocarla “ per qualche motivo misterioso”.

Gli abitanti fecero affidamento sugli animali e caricarono la statua su un carro trainato da buoi. Il carro attraversò diversi paesi: Collesano, Polizzi Generosa, senza alcuna sosta.
Nella strada tra Polizzi e Petralia i buoi imboccarono, sempre spontaneamente, la via per il Monte Alto dove si fermarono.
La leggenda riferisce anche che i buoi ripresero a camminare solo dopo che la statua venne scaricata dal carro e collocata nella chiesa che era quindi già esistente.
Questa leggenda è riportata nel libro “dei privilegi dell'Università di Petralia Sottana” (atti del Notar Antonino Rossi, 1777 – 1778.
Sull'altare si trovano due formelle d'arte popolare che riportano la descrizione della leggenda.
Il nucleo originario della chiesa sarebbe stato quindi edificato da frate Guglielmo da Polizzi. Un aspetto non trascurabile fu la scelta dei luoghi elevati da parte degli eremiti per la fondazione dei cenobi nella povertà assoluta. Una povertà che contrastava con la corruzione degli enti ecclesiastici in seguito al loro inserimento nell’economia curtense e nelle strutture sociali del tempo.
Mettere in comune i beni di quel poco che necessitava aderendo ad una povertà assoluta ad imitazione di Cristo, erano le regole o principi degli eremiti e in seguito anche degli ordini Mendicanti.
Si trattava, spesso, di laici che avevano intrapreso la vita ascetica vivendo in luoghi ricchi di risorse come i boschi e disponendo anche della carità delle persone del luogo. Proprio i boschi delle Madonie furono talvolta luoghi di violenti scontri che si risolvevano con ferimenti e uccisioni tra i membri delle diverse comunità. Nei boschi i membri delle comunitá erano soliti far legna e le secolari liti tra Polizzi e Petralia, protratte fino al XVIII secolo, furono testimonianza dell’interesse comune dei due centri di esercitare sui boschi un dominio strategico e soprattutto la possibilità di sfruttarne le risorse naturali.

In questo caso, i petraliesi erano stati danneggiati dai polizzani tanto da essere ridotti allo sfruttamento di pochissime risorse.
E il bosco ha costituito, da sempre, una risorsa economica di grande rilievo e a tal riguardo, la figura del beato Guglielmo svolse un ruolo importante. Era una figura familiare per i suoi compaesani, con i quali condivideva problemi ed ansie, e la sua presenza nel luogo permise loro di prendere campo in questo sito selvaggio così conteso.



Il Santuario `quindi legato alla figura di Frate Guglielmo Gnoffo da Polizzi Generosa. Del frate, dichiarato Beato dalla chiesa, non si sa quasi nulla se non alcuni piccoli ed importanti momenti della sua vita.



Guglielmo Gnoffi (Polizzi Generosa, 1256; Castelbuono, 16 aprile 1317)
Apparteneva ad una nobile famiglia ed all’età di quindici anni decise
di abbracciare la vita eremitica.
Dopo il quinto anno di vita eremitica, si ritirò in preghiera nei ruderi
del convento normanno, costruito nel 1100,
dei Santi Cosma e Damiano, posto in contrada Rocca di Gonato di Castelbuono.
Un monastero abitato da monaci basiliani e quindi di rito greco.
Probabilmente visse in delle grotte poste vicino al Monastero, e fondò anche un piccola
Chiesa. Qui rimase per circa 11 anni.
Seguito da un gruppo di proseliti si spostò nella contrada “Favare” dove fondò
una chiesa ed un eremo dedicati alla Madonna del Parto.
La fondazione risalirebbe al 1288 grazie anche all’aiuto economico di
Alduino di Ventimiglia, Conte di Geraci
La contrada “Favare” oggi porta il nome di San Guglielmo.
Fra’ Guglielmo non appartenne ad alcun ordine ma sembra che abbia avuto
almeno cinque proseliti. Una vita trascorsa grazie alle elemosine ricevute in
quasi tutti i paesi delle Madonie divulgando la parola di Cristo..il Vangelo.
Nel 1366, il conte Francesco II Ventimiglia, fece erigere l’Abbazia di Santa Maria del Parto, sul luogo in cui fu sepolto.
Restaurò o creò una cappella dedicata alla Madonna dell’Alto, a Petralia,  intorno al 1288.

Le sue reliquie sono conservate a Castelbuono di cui è compatrono e vengono
portate in processione durante la festa di Sant’Anna, la Madre della Madonna, di cui
si conserva un’importante Reliquia nella Cappella Reale del Castello.

Il suo corpo, riesumato nel 1500, fu messo dentro un’urna d’argento che si trova custodita in una nicchia della Matrice Nuova di Castelbuono. Nel 1613 furono redatti gli atti deliberativi alla beatificazione da parte del Vescovo di Cefalù.




INTERNO
È una piccola chiesa con una sagrestia e alcune stanze a disposizione dei pellegrini autorizzati alla sosta.
Sull'altare della chiesa `presente una statua della Madonna dell'Alto attribuita allo scultore palermitano Domenico Gagini e datata 1471, in base ad una trascrizione presente sul piedistallo.






La statua è alta quasi un metro ed è di pregevole fattura. Sembra di assistere attraverso gli sguardi della Vergine e del Figlio, che tiene in braccio, ad un dialogo.
La statua della Madonna dell’Alto è una caratteristica Madonna del Latte di chiara influenza spagnola 

È collocata in un altare rivestito di marmi del 1749. Del 1797 sono invece i marmi policromi. Le corone che adornano il capo della Vergine furono donate dagli abitanti di Petralia Sottana nel 1809.
Sulla parete sinistra si trova una tela di scuola siciliana che raffigura lo “Spasimo di Sicilia” copia del più famoso “Spasimo” di Raffaello Sanzio. Un quadro che era conservato nell'antica chiesa della Provvidenza di Petralia Sottana che fu demolita. Sulle pareti della chiesa e nelle stanze adiacenti sono presenti degli ex-voto (quadri di varia dimensione, gioielli, oggetti in oro e argento) che testimoniano le Grazie ricevute dalla Madonna. Nella cappella principale è conservato un piccolo Crocifisso ligneo di autore ignoto e che era collocato in una piccola cappella sul vicino Monte San Salvatore (1912 m s.l.m.).

Il culto della Vergine sul monte Alto si è mantenuto fino ai nostri giorni e attualmente vengono effettuati annualmente due pellegrinaggi al santuario: uno si svolge la prima domenica di luglio ed è organizzato dalla parrocchia di Calcarelli, l’altro, nei primi quindici giorni di agosto, è organizzato dalla parrocchia di Petralia Sottana.
Nella prima domenica di luglio festeggiano la Madonna dell'Alto anche gli abitanti di Nociazzi e di Castellana Sicula che non possano portare il processione il simulacro della Vergine perchè questo è un privilegio che spetta solo ai petralesi.

Il 15 agosto si concludono le festività in onore della Madonna. La quindicina, che si effettua nei quindici giorni che precedono la ricorrenza della festa di Maria Assunta, prevede che ogni pomeriggio venga celebrata la messa anche nella chiesa Madre di Petralia Sottana (preceduta dalla recita del rosario, preghiere e canti popolari), nei giorni che vanno dal 31 luglio al 15 agosto, per dare l’opportunità a coloro che sono impossibilitati a salire fino al santuario, di prendere parte alla preghiera.
Nel giorno della festa, alle diverse funzioni sacre segue una breve, ma animata, processione. Questa si snoda lungo l'aereo sentiero che circonda il santuario, con brevi soste necessarie per benedire tutti i centri abitati sottostanti.
Il pellegrinaggio, compiuto per tradizione, per sciogliere un voto o per devozione alla Madonna, per la fatica fisica impegnata nella difficoltà del sentiero, va a rafforzare il suo significato penitenziale e purificatore.

Una tradizione recita che il devoto che si reca per la prima volta al santuario della Madonna dell'Alto, una volta raggiunta una fontana posta ai piedi del Monte Alto, debba raccogliere un piccolo sassolino e poggiarlo sul “piliere” in vista dell'abitato di Petralia Sottana. Un operazione che deve effettuare con le labbra tenendo le mani dietro la schiena.
Tenendo sempre in bocca il sassolino deve giungere al santuario per riporlo nell’acqua benedetta e lasciato fino alla fine della messa. Al termine della funzione lo potrà recuperare per custodirlo gelosamente.





Il Santuario è affiliato alla Papale Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore in Roma per cui i fedeli che si recano nel Santuario Madonita godono degli stessi benefici spirituali concessi dal Papa con il dono dell’indulgenza plenaria.






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PETRALIA  SOTTANA -  ALCAMO







1.      ALCAMO: SANTUARIO  MARIA  SS. DELL’ALTO





Sul Monte Bonifato ( 830 m s.l.m.) di Alcamo, vicino ai ruderi del Castello dei Ventimiglia, si trova il  Santuario dedicato alla Madonna dell’Alto.








Il Santuario fu costruito in seguito al miracoloso rinvenimento di un’antica icona mariana che fu trovata interrata tra le mura del castello.
Un culto nato sul monte e testimoniato da un antico documento presente all’interno di una  Sacra Visita del 1774 e custodito presso l’Archivio Storico Diocesano di Mazara del Vallo. Documento che fu redatto in occasione del censimento dei Santuari Cristiani d’Italia.
Un importante documento perché è l’unico testo che cita il ritrovamento dell’icona mariana.
Le ricerche condotte nell’Archivio Diocesano di Mazara non riportano riferimenti in merito alla costruzione della chiesa, che doveva essere extra moenia,  e neanche alla vicenda relativa al  ritrovamento della sacra immagine prima del 1774.
Una leggenda risalente al XVI secolo che cita un’icona di epoca precedente e scomparsa. Fu rinvenuta dopo molto tempo “quasi dipinta al suolo e interrata tra le mura del castello sul Bonifato”. Un devoto cercò di sollevare l’icona dal suolo ma senza esito.. cominciò quindi “a pregare la Santa Vergine affinchè si sollevasse un poco in modo da potervi costruire un altare”.
L’indomani il devoto trovò la sacra Immagine all’altezza desiderata e vi costruì l’altare.
Anche lo storico Riccardo Filangeri collocò la leggenda nel XVI secolo e riferì che “l’icona fu ritrovata presso un ingresso, forse quello dell’antico castello, e rimasta interrata fra i franamenti delle strutture murarie”.
Secondo lo storico fu ritrovata all’ingresso del castello cioè nella cisterna sotto la chiesa. Infatti la cisterna fu il risultato della trasformazione dell’antico fossato del castello che precedeva il ponte levatoio.

Il primo documento che cita la chiesa fu un atto stipulato del notaio di Alcamo, P.A. Balduccio, del 1568-69, trascritto e tradotto dal latino dallo studioso locale Carlo Cataldo.
Questo documento evidenzia degli aspetti importanti. Il primo aspetto è l’esistenza di due chiese, una interna al castello e probabilmente già in rovina ed una esterna  al di fuori delle mura e in ogni caso adiacente al castello dei Ventimiglia.
Una chiesa esterna legata al ritrovamento della sacra immagine che probabilmente era di pertinenza della distrutta cappella odel castello. Una chiesa costruita, sul luogo del rinvenimento,  da tre frati carmelitani di cui si tramandano i nomi: Antonio La Melodia, Vito Foraci e Giuseppe La Chelba e che al momento dell’atto, (1568/69) doveva quindi essere presente. I tre frati dimoravano nel luogo con il permesso del vescovo di  Mazara.
La chiesa costruita da frati carmelitani doveva essere di modeste dimensioni ed è strano che a distanza di circa 10 anni risulti abbandonata o in cattive condizioni strutturali.
Infatti in una lettera del 4 giugno 1583 del vicario generale al Padre Agostino Abbati, priore dei Carmelitani, si evidenzia come la chiesa versava in uno stato di  abbandono. Un abbandono che è confermato dal fatto che la stessa chiesa non figurava tra le chiese extraurbane che tra il 1573 ed il 1578 versavano al vescovo la cosiddetta “chiamata” o tassa annuale.
Nel 1583 la chiesa si trovava in completo abbandono e per restaurarla l’eremita fra’ Rosario da Palermo nel 1643 cercò di raccogliere dei fondi fra i fedeli.

Le offerte furono scarse e il frate abbandonò il progetto e si trasferì a Palermo.
L’edificio era lungo circa 17 metri (otto canne) e largo circa 7 metri (tre canne). L’entrata era rivolta verso est e aveva un piccolo campanile posto proprio sopra l’ingresso. All’interno vi erano due altari: uno, rivolto verso l’entrata, con l’immagine di Gesù Cristo  e l’altro, rivolto a mezzogiorno, con l’icona miracolosa di “Nostra Signora dell’Alto”.. la chiesa distava due miglia dalla città oltre ad essere posta sul Monte Bonifato”.
La chiesa aveva un sagrestia e alcune stanze per il cappellano e per i pellegrini che desideravano sostare.
Fu grazie alla presenza dei preti dell’Oratorio di San Filippo Neri, posto ad Alcamo, che la devozione verso la Vergine si riavviò nel 1646, dopo ben 250 anni, e venne fondata la Congregazione dell’Alto alla quale aderirono molti alcamesi appartenenti ai diversi ceto sociali.
Il 27 ottobre 1646 i devoti ottennero dal Vicario generale della Diocesi ((il Vescovo Giovanni Domenico Spinola era deceduto ad agosto) il permesso per la costituzione della Congregazione di Santa Maria dell’Alto. Una Congregazione composta da “nobili, preti e popolani” che si adoperarono per effettuare le dovute riparazioni alla chiesa.
Congregazione che fu subito regolata da uno statuto approvato sempre nel 1646 dal Vicario della Diocesi di Mazara del Vallo. A quanto sembra l’autorizzazione fu anche legata ad un miracolo.
La nascita della Congregazione mise in atto la stipula di importanti documenti dal grande valore storico come i “Libri dei Conti della Congregazione dell’Alto”.
Per il XVII secolo dal primo libro si hanno notizie sulle riparazioni. Per il XVIII secolo è rimasto il terzo libro dei Conti mentre il secondo è andato perduto.
Due note contabili del 1712 e del 1766 riportano come la chiesa versava la “chiamata”. Per quanto riguarda le vicende edilizie ed economiche per il XIX secolo, non ci sono notizie particolari nel quarto libro dei Conti se non relative a donazioni ed a restauri.
Nel 1905 la Chiesa venne restaurata grazie all’amministratore Domenico Lombardo anche se poi cadde nuovamente in rovina. Secondo un manoscritto, di cui non viene riportata la segnatura archivistica e che fu analizzato dallo storico locale Cataldo, nel febbraio 1930 un donna vestita di nero apparve ad un ragazzo e gli disse “di andare dai figli del notaio Lombardo  per mettersi a capo di una commissione per fare risorgere la chiesa”. E così fu fatto.







I membri della Congregazione, come si legge nel documento, si riunivano il venerdì sera e salivano fino al Santuario per la venerazione della sacra immagine. Qui incontravano i Padri Carmelitani e meditavano insieme. Il giorno seguente era dedicato al culto della Vergine e tutti i membri della Congregazione si confessavano, prendevano l’Eucarestia, per poi ritornare in città
Un attività di fede che venne praticata per tanto tempo dagli alcamesi. C’è da aggiungere che molti alcamesi lasciarono delle rendite alla chiesa con beneficio di messa in un determinato giorno del mese o dell’anno.
Il documento termina riferendo che  “collaterale alle officine della chiesa” era presente un antico monumento costruito dai saraceni e sul quale essi abitavano prima dell’inventio dell’immagine di Maria Santissima.
Il documento testimonia la grande figura cristiana del vescovo Papè (1772-1791)  che era molto attento alle questioni della Diocesi e le sue visite pastorali sono molto dettagliate nell’Archivio storico di Mazara.
Dall’analisi del documento si rileva che il santuario della Madonna dell’Alto era la più antica chiesa campestre, nonché la più antica chiesa della stessa città di Alcamo.
Dopo un riferimento al periodo di dominazione araba, iniziato con lo sbarco a Mazara nell’827 che precede il periodo normanno, durante il quale si ripristinò il Cristianesimo, nel documento si data, in un periodo non proprio definito, tra la fine del medioevo e l’età moderna, il ritrovamento miracoloso dell’antica icona secondo la leggenda, l’immagine venne trovata “in basso sito e quasi al suolo dipinta,,, tra petre rustiche”



Naturalmente dopo il ritrovamento il monte fu frequentato da devoti che con molta fede aiutarono i tre frati sopra citati ad edificare o meglio “riedificare” nello stesso luogo del ritrovamento la chiesa della Madonna dell’Alto.
Dal documento s’apprende che fu sotto il patrocinio dei Padri Carmelitano e di alcuni laici per circa 100 anni.
Il monte era stato abitato attivamente  dal 1182 e aveva condiviso fasi di vita con i quattro borghi, appena nascenti, della sottostante Alcamo. Che comunque prima era solo “casale” e poi con il tempo diventò “Terra”.
Gli abitanti dei due siti erano gli stessi, in gran parte musulmani e immigrati e il monte, , insieme al castello, fu abbandonato nel 1398 quando re martino i Il Giovane lo demolì su richiesta degli abitanti che erano irritati dall’atteggiamento fellone di Enrico Ventimiglia, conte di Alcamo e di Bonifato.
Da allora il monte diventò luogo di rifugio ed è probabile che alcuni laici, privi di risorse economiche, si fossero ritirati sul monte assieme ai Padri Carmelitani assumendo la chiesa dopo un lungo periodo di abbandono.
Il compilatore considerava il castello sul Monte Bonifato una costruzione saracena riferendosi probabilmente alla fonte dell’Fazello. Fazello che attribuiva la costruzione del castello ad un leggendario Alcamaq, da cui prese il nome la città di Alcamo, comandante delle truppe arabe nell’827 d.C.
Sempre secondo il Fazello il castello sarebbe stato trasferito ai piedi del monte ai tempi di Federico II com’è testimoniato in un suo privilegio datato a Giuliana il 31 agosto 1332 poi riconfermato da da re Martino I nel 1399.

I membri della Congregazione, come si legge nel documento, si riunivano il venerdì sera e salivano fino al Santuario per la venerazione della sacra immagine. Qui incontravano i Padri Carmelitani e meditavano insieme. Il giorno seguente era dedicato al culto della Vergine e tutti i membri della Congregazione si confessavano, prendevano l’Eucarestia, per poi ritornare in città

Un attività di fede che venne praticata per tanto tempo dagli alcamesi. C’è da aggiungere che molti alcamesi lasciarono delle rendite alla chiesa con beneficio di messa in un determinato giorno del mese o dell’anno.
Il documento termina riferendo che  “collaterale alle officine della chiesa” era presente un antico monumento costruito dai saraceni e sul quale essi abitavano prima dell’inventio dell’immagine di Maria Santissima.
Il documento testimonia la grande figura cristiana del vescovo Papè (1772-1791)  che era molto attento alle questioni della Diocesi e le sue visite pastorali sono molto dettagliate nell’Archivio storico di Mazara.
Dall’analisi del documento si rileva che il santuario della Madonna dell’Alto era la più antica chiesa campestre, nonché la più antica chiesa della stessa città di Alcamo.
Dopo un riferimento al periodo di dominazione araba, iniziato con lo sbarco a Mazara nell’827 che precede il periodo normanno, durante il quale si ripristinò il Cristianesimo, nel documento si data, in un periodo non proprio definito, tra la fine del medioevo e l’età moderna, il ritrovamento miracoloso dell’antica icona secondo la leggenda, l’immagine venne trovata “in basso sito e quasi al suolo dipinta,,, tra petre rustiche”



Naturalmente dopo il ritrovamento il monte fu frequentato da devoti che con molta fede aiutarono i tre frati sopra citati ad edificare o meglio “riedificare” nello stesso luogo del ritrovamento la chiesa della Madonna dell’Alto.
Dal documento s’apprende che fu sotto il patrocinio dei Padri Carmelitano e di alcuni laici per circa 100 anni.
Il monte era stato abitato attivamente  dal 1182 e aveva condiviso fasi di vita con i quattro borghi, appena nascenti, della sottostante Alcamo. Che comunque prima era solo “casale” e poi con il tempo diventò “Terra”.
Gli abitanti dei due siti erano gli stessi, in gran parte musulmani e immigrati e il monte, , insieme al castello, fu abbandonato nel 1398 quando re martino i Il Giovane lo demolì su richiesta degli abitanti che erano irritati dall’atteggiamento fellone di Enrico Ventimiglia, conte di Alcamo e di Bonifato.
Da allora il monte diventò luogo di rifugio ed è probabile che alcuni laici, privi di risorse economiche, si fossero ritirati sul monte assieme ai Padri Carmelitani assumendo la chiesa dopo un lungo periodo di abbandono.
Il compilatore considerava il castello sul Monte Bonifato una costruzione saracena riferendosi probabilmente alla fonte dell’Fazello. Fazello che attribuiva la costruzione del castello ad un leggendario Alcamaq, da cui prese il nome la città di Alcamo, comandante delle truppe arabe nell’827 d.C.
Sempre secondo il Fazello il castello sarebbe stato trasferito ai piedi del monte ai tempi di Federico II com’è testimoniato in un suo privilegio datato a Giuliana il 31 agosto 1332 poi riconfermato da da re Martino I nel 1399.


L’edificio nel corso del tempo ha subito vari interventi e rifacimenti e l’attuale costruzione risalirebbe al 1930.
La Chiesa è ad unica navata e con tre altari: l’altare maggiore, l’altare di San Giuseppe e quello del Crocifisso. Importante una statua in legno della Madonna dell’Alto del 1950 opera di Luigi Santifaller; un'altra statua sempre in legno del 1933 opera dell’artista Giuseppe Ospedale (in sacrestia) e sull’altare maggiore la pittura della Madonna su lamiera di zinco opera di Liborio Mirabile e restaurata nel 1930.
Purtroppo l’icona originaria, raffigurante la Madonna e la statua lignea del 1644 sono andate perdute.





I viaggi penitenziali in onore della Madonna dell’Alto si effettuavano per diverse ragioni, ma pellegrinaggi frequenti si svolgevano soprattutto per propiziare la pioggia, necessaria a far crescere rigogliosi raccolti e per il suffragio dei defunti il 2 novembre. Sul monte erano collocate lungo la via Sacra quattordici “figurelle”, ovvero delle stazioni-edicole della Via Crucis, lungo la quale si recitava il Rosario della Madonna dell’Alto. Qualche anno fa l’amministrazione comunale ne ha collocate delle nuove in legno. Per quanto riguarda il culto contemporaneo, le festività religiose si svolgono ancora tra agosto e settembre. Nell’ultima domenica di agosto si compie il pellegrinaggio a piedi dalla parrocchia del Sacro Cuore di Gesù al santuario della Madonna dell’Alto e l’8 settembre, festa della natività di Maria SS. dell’Alto, si porta in processione la sacra statua della Madonna.

Nel Cinquecento delle fanciulle vestite con l’abito della madonna e coperte con un velo nero, si recavano in pellegrinaggio in cima al monte per chiedere la Grazia della pioggia.

La festa era accompagnata dall’uso delle “vampe” (falò) e delle fiaccole che rappresentavano un antichissima tradizione propiziatoria legata ala fuoco. Il fuoco simbolo di purificazione dove la fiamma significa la morte del vecchio peccato e la rinascita dell’uomo.
Lungo le strade (Via SS Salvatore e Piazzetta della Trinità) di Alcamo, sempre nel passato, venivano creati degli altarini e la sera la gente vi cantava le litanie dedicate alla Madonna dell’Alto alla luce dei lumini.

Di lu munti cumparìu
Chista amabili Signura
e la vitti sant'Elia
ch'è di l'autu Maria

Una processione anni 60

Il Sentiero che conduce al Santuario





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2.  ALCAMO
SANTUARIO MADONNA  DEI MIRACOLI





Secondo la tradizione locale il 21 giugno 1547 alcune donne, tra cui una cieca ed una sorda, erano intente a lavare i panni nel torrente vicino al borgo di San Vito, a nord del centro.. Videro apparire una donna con un  bambino in braccio e subito furono colpite da delle pietre scagliate dal bosco sovrastante. Pietre che avevano un effetto curante. Le pietre pur colpendo le due donne non procuravano ferite ma le guarivano dalle loro infermità.
Un evento decisamente miracoloso. I mariti delle donne credendo ad una burla si recarono sul luogo ma non videro nulla. Le autorità del tempo decisero di disboscare il terreno sovrastante il torrente e in una piccola cavità, coperta da rovi e cespugli e quindi celata alla vista delle persone, fu trovata una piccola cappella di cui si era persa la memoria.
Dentro la cappella fu rinvenuta un icona della Vergine dipinta su pietra.

Il Ritrovamento dell’affresco della Madonna dei Miracoli
Dipinto di Sebastiano Bagolino, seconda metà del XVI secolo
(Disegno monocromo. Sagrestia del Santuario)

Ottavio Gaetani, (Siracusa, 22 aprile 1566 – Palermo, 8 marzo 1620; gesuita e storico), riportò il ritrovamento della sacra immagine “sotto una piccola “cuba” entro un bosco, dipinta nel medesimo muro della volta”.. dopo che Essa stessa aveva avvertito della sua presenza delle donne che lavavano i panni nel torrente sottostante colpite con dei sassi che non facevano tuttavia male”.
“Con licenza del Vescovo fu detto luogo intorno spianato e fabricatovi una bella Chiesa sotto il titolo della Madonna de’ Miracoli e fonte di Misericordia”.
L’affresco rinvenuto nel 1547 fu ridipinto dopo il 1890 a causa di un incendio che lo aveva danneggiato. Un “restauro” ad opera di Luigi Pizzillo che operò in base alle regole artistiche del tempo e quindi seguendo le sue intenzioni artistiche cercò di “abbellirla”.

Madonna dei Miracoli – affresco Santuario di Alcamo
Pizzillo – pittore siciliano del XV secolo
L’affresco dopo il restauro del XIX secolo.

L’affresco in anni recenti ha subito ulteriori restauri che hanno cambiato l’aspetto dell’immagine anche rispetto a quella tramandata dal Pizzillo. Il restauro non aveva come obiettivo il recupero dell’antica immagine e quindi alla fine l’affresco venne ridipinto ancora una volta con un intervento di restauro che si potrebbe definire  antistorico e antiscientifico oltre che anacronistico.

Restauro del XX secolo

Più fedele alla realtà è l’incisione del Greuter.

Giovanni Federico Greuter, Nostra Signora di Alcamo,
incisione del 1664

Nella sacrestia del Santuario si conserva il disegno monocromo su tela del pittore alcamese Sebastiano Bagolino che riporta il ritrovamento della tela. Un disegno che fu restaurato nel 1947.

Attorno all’Immagine Sacra fu raccolto un tesoro costituito da monili ed ex voto che furono donati da orafi siciliani della seconda metà del XVIII e del XIX secolo. Non c’è traccia dei tesori più antichi.
Le testimonianze del tempo citavano una “cuba”  specificando anche come era “un antico arco di mulino di cui s’era persa la memoria”.
 Vicino a quest’arco di mulino era dipinta la sacra immagine e probabilmente il luogo era anche di preghiera perchè la gente recandosi al mulino si fermava a meditare. Con la fine dell’attività lavorativa della struttura probabilmente l’antico arco finì progressivamente con l’essere sommerso dai rovi e la gente ne perse la memoria.
La popolazione cominciò a recarsi sul luogo del ritrovamento per pregare di fronte all’immagine della Vergine. Si verificarono delle guarigioni e il dipinto venne in un primo momento chiamato Madonna Fonte della Misericordia e in seguito, a causa dei numerosi miracoli, il 19 dicembre 1583 fu chiamata Madonna dei Miracoli o Maria SS. dei Miracoli.
A partire dal 1547 la madonna dei Miracoli diventò la Santa Patrona di Alcamo sostituendo il SS. Crocifisso che era il Santo Patrono della città e di alcuni comuni limitrofi come Calatafimi e Segesta.
Il ricordo dell'antico santo patrono permane comunque nella cultura alcamese: infatti gli alcamesi chiamano San Francesco di Paola "santu patri" (che tradotto significa "Santo Patrono") poiché la chiesa ad egli intitolata una volta era chiamata Chiesa del Santissimo Crocifisso.

Nel luogo del ritrovamento il nobile condottiero spagnolo Fernando de Celada y de Vega, all’epoca governatore di Alcamo e capitano di Giustizia, decise di fare costruire il Santuario affidando l’incarico nl 1547 all’architetto palermitano Girolamo Vicchiuzzo.



Nel Santuario è presente un sarcofago di marmo bianco, scolpito da Rocco di Rapi nel 1557, in cui si trovano le generi del governatore Don Fernando De Vega per “suo stesso volere”.
Nel 1754 venne associato alla Basilica di Santa Maria Maggiore di Roma e nel 1784 ebbe luogo la solenne Incoronazione della Madonna. Nel 1901 si costituì al suo interno la pia congregazione Le predilette di Maria.
Nel 2015, in concomitanza con il Giubileo straordinario della Misericordia, il Santuario della Madonna dei Miracoli fu proclamato "Porta santa" della città di Alcamo assieme alla Chiesa Madre.

Il Santuario nel tempo subì diverse ristrutturazioni tra cui una all’inizio del XVIII secolo.
Nel 1762 si ebbe il completamento delle parti architettoniche e, allo stesso tempo, venne realizzata una nuova pavimentazione marmorea, rifatta poi nel 1884.
Il 15 aprile 1890 scoppiò, all'interno della cappella della Madonna dei Miracoli, un devastante incendio che portò al danneggiamento della sacra immagine, alla distruzione dell'apparato decorativo, degli arredi sacri e della suppellettile ecclesiastica.
Nel 1947 si è proceduto ad un ulteriore restauro del Santuario, che è stato arricchito con pregevoli dipinti murali ad encausto realizzati dal pittore catanese Alessandro Abate.

Il Santuario si raggiunge a piedi scendendo  lungo un sentiero acciottolato. Un selciato in stile cinquecentesco lungo circa 156 metri ricco di un artistico disegno geometrico e che termina con una larga scalinata. Fu restaurato nel 1683 a spese del clero alcamese e alla fine del sentiero, nel quadrilatero centrale, c’è raffigurato il Monogramma di Maria.



Dal punto di vista architettonico il santuario ha un aspetto importante perché rappresenta il momento di transizione tra il periodo gotico e quello rinascimentale.
Presenta una facciata con una pregevole muratura concia, le forme classiche nelle aperture architravate del portale con colonne, capitelli e frontone.  Elementi che sono riproposti anche nel portale dell’ingresso laterale.





La facciata presenta una finestra a tribuna con due nicchie più piccole ai lati. Lungo tutto il perimetro dell’edificio si sviluppa una cornice sommitale che è caratterizzata da medaglioni alternati a formelle intagliate nella pietra che attestano la formazione dell’architetto-progettista alla scuola degli scalpellini.
A sinistra dell’abside è presente il campanile a pianta quadra con una cuspide piramidale coperta da maioliche policrome.

L’interno  è ad unica navata con 8 altari e presenta delle decorazioni in stucco opera di Nicolò Curti nel 1762
Sulla volta è presente un affresco che raffigura la Glorificazione della Madonna dei Miracoli mentre nell’abside sono presenti due affreschi: uno raffigura l’apparizione della Madonna dei Miracoli a un gruppo di donne e l’altro il ritrovamento dell’icona della Madonna.
Affreschi che furono realizzati nel 1947 dal pittore catanese Alessandro Abate.
Altre opere d’arte:
-          nel primo altare a sinistra. “La Nascita della Vergine Maria” opera del pittore palermitano Giuseppe Patania nel 1851;
-          terzo altare a sinistra: “La Sacra Famiglia”, opera di G. Patania nel 1847
-          sull’altare maggiore la “Madonna dei Miracoli” con San Rocco, Santa Rosalia e San Sebastiano (compatroni della città di Alcamo) durante la cessazione della peste nel 1575. Tela di Giuseppe Patania del 1828,


Ai lati dell’altare maggiore due affreschi di Alessandro Abate datati 1947: “le lavandaie colpite dalle pietre al torrente” e “le autorità scoprono sotto l’arco del “Mulinazzo” l’immagine della Madonna , Fonte di Misericordia”.






Nella cappella dedicata a Maria SS dei Miracoli, circondata da un arco a tutto sesto in marmo rosso, si trova il quadro che raffigura la Madonna. Il 21 giugno 1784 la Madonna venne incoronata e il quadro fu ridipinto nel 1890 in seguito ad un incendio e ritoccato nel 1963 dal pittore siciliano Gianbecchina.


Secondo altare a destra “Crocifissione” del Patania  (1847)


Sulla parete destra della navata si trova un medaglione in marmo del Gagini che rappresenta Giuditta. Un medaglione che proviene dalla chiesa dell’Annunziata.
In sagrestia si trovano altri dipinti tra cui il “Ritrovamento dell’Immagine di Maria Santissima dei Miracoli” opera di Sebastiano Bagolino e due dipinti di Fra Felice da Sambuca risalenti al XVIII secolo ( “La Natività della Vergine”“L’Immacolata”).
















Ogni anno nella città di Alcamo ricorrono i festeggiamenti in onore della Madonna dei Miracoli dal 19 al 21 giugno.

Simulacro processionale di Maria SS dei Miracoli, opera di Lorenzo Curti di Castelvetrano, 1720.






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ALCAMO – MAZARA DEL VALLO.



1.      MAZARA DEL VALLO : SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’ALTO   O
                               DELLE  “GIUMMARE”



A Mazara del Vallo si trova un altro Santuario della Madonna dell’Alto anche se è conosciuto come Santuario della Madonna delle “Giummare”. Un termine dialettale per indicare le palme nane, “gemme”, un tempo molto presenti attorno al santuario.
L’edificio è posto su una collinetta e la sua datazione risale all’XI secolo quando Giuditta,  figlia del Gran Conte Ruggero il Normanno, fece edificare il tempio. Una costruzione sorta proprio sul punto più alto della città come ad indicare il segno della vittoria dei Normanni sui Saraceni e il ripristino della cristianità.
Alcuni siti internet indicano la fondazione della Chiesa da parte del Gran Conte Ruggero IL Normanno (d’Altavilla) e della moglie Giuditta d’Evreux. Una definizione probabilmente errata. Giuditta d’Evreux morì nel 1076 circa e il Duomo che Ruggero I fece costruire , sui resti di un antica basilica distrutta dai Saraceni nell’826, dedicandolo al SS Salvatore, risalirebbe al 1086 – 1093 con i lavori diretti da Etienne de Rouen. La Chiesa della Madonna delle Giummare fu costruita successivamente per volere di Giuditta, figlia della seconda moglie di Ruggero I,  Eremburga di Mortain. Giuditta d’Altavilla morì nel 1134 e probabilmente in quell’anno la Chiesa era stata ultimata.



Giuditta fu data in sposa, dal fratello Ruggero II, ad un vassallo della casa reale,  Roberto I di Barravilla  proveniente da Dieppe in Normandia).
È importante analizzare gli eventi storici che portarono alla edificazione del santuario in segno di ringraziamento alla Madonna per l’aiuto nella battaglia contro i Saraceni.
Verso la metà di luglio 1071, salparono da porto pugliese di Otranto 58 navi, cariche di vettovaglie e truppe, dirette a  Reggio Calabria.
Roberto il Guiscardo, con un forte seguito di cavalli e fanti, si recò a Reggio via terra e negli ultimi giorni di luglio ed i primi di agosto, passò lo Stretto per entrare a Messina.
Ruggero I il Normanno si trovava già in Sicilia dove da tempo preparava i suoi uomini per sferrare l’attacco ai Saraceni.
Saputo dell’arrivo del fratello, Ruggero si recò a Catania con un piccolo esercito che comprendeva anche gli uomini dei successori del saraceno Ibn Thimna  e con i quali aveva mantenuto dei rapporti cordiali. Fece credere ai saraceni di aspettare il fratello Roberto per muovere alla conquista di Malta. Quando giunse a Catania Roberto , i due fratelli s’impadronirono della città con pochissima resistenza.
Conquistata Catania Roberto mandò il suo esercito per via di terra a Palermo mentre  lui con 50 navi fece rotta verso la capitale dell’isola.
Precedeva tutti Ruggero con il suo esercito e nei pressi di Palermo ebbe un primo scontro con i Saraceni.
Flotta ed esercito giunsero a Palermo quasi contemporaneamente e i Normanni s’impadronirono ben presto dei sobborghi palermitani lasciati indifesi da Saraceni e tutte le ville nei dintorni.
I Normanni crearono il quartier generale a Castel Giovanni, sulla sponda destra del fiume Oreto e ad un miglio a levante della città.
In quel punto s’attestarono Roberto il Guiscardo con il suo esercito formato da Pugliesi e Calabresi mentre Ruggero, si pose con il suo esercito a ponente ad un chilometro circa dall’odierna “Porta Nuova”.
L’Ameri riportò meticolosamente la disposizione dell’esercito Normanno…”di modo che stando l’uno a ponente-libeccio, l’altro a scirocco-levante e comunicando insieme, dominavano la città, per più d’un terzo del suo perimetro dal lato meridionale, mentre al greco la flotta chiudeva il porto”.
Le poche forze navali dei Palermitani per evitare di farsi chiudere nel porto dalla flotta Normanna, presero il largo  ma fu vano. Furono spinte nuovamente dentro il porto e durante le operazioni due navigli palermitani furono affondati.
La città si era preparata per la difesa in modo accurato e quando i Musulmani furono costretti a barricarsi dentro le mura, da alcune porte e con alcune sortite, peraltro molto frequenti, riuscivano con fortuna ad ostacolare le operazioni degli assedianti ..”con indefessa vigilanza si guardavano, e con  valore e ostinazione combattevano”.
“E così i particolari di questo assedio non li ripeterò, perché si trovano nella sola cronica ritmica di Guglielmo; luoghi comuni che forse parevano corredo necessario alle Muse dell’autore. Ma non passerò sotto silenzio un episodio narrato dall’Anonimo del XII secolo quando narra che “… lasciando spesso i Palermitani le porte della città aperte, quasi come una sfida ad entrare, accadde che un impavido cavaliere musulmano tornando in città dopo aver ucciso parecchi Normanni, sostasse sotto la porta rivolgendo con scherno la faccia ai nemici, quando un giovane guerriero, parente di casa Hauteville, offeso dai sarcastici sberleffi, minaccioso, spronò il suo cavallo contro l’uomo e lo trapassò da parte a parte con la lancia. Ma richiusasi la porta dietro le sue spalle, senza stare un attimo in forse in quella trappola, spinse innanzi il cavallo in una corsa disperata in mezzo ai Musulmani, che gli saettavano attorno per dargli addosso, e si diresse verso un’altra porta, ne uscì illeso e giunse tra i suoi mentre già lo piangevano morto”.
Per tutto il resto dell’estate e dell’autunno (1071) si ebbero attorno a Palermo solo alcune piccoli scontri. Le città resisteva magnificamente ma era colpita dalla carestia e dalle epidemie.
Lo scontro bellico più importante nel periodo in esame fu uno scontro navale provocato  dai Musulmani che, avendo ricevuto come rinforzi alcuni navigli giunti dall’Africa, attaccarono. Lo scontro navale fu forte da entrambe le parti e parecchie navi musulmane furono catturate o affondate e il porto più volte forzato.
La vittoria normanna non fu prestigiosa ma utile perché costrinse i nemici a distrarre parte delle loro forze belliche dal lato di terra per difendere il porto. La difesa generale della città fu in questo modo indebolita.
Roberto il Guiscardo approfittò del momento favorevole per tentare un assalto.
Il compito più difficile spettava a Ruggero che con parte del suo esercito doveva attaccare da ponente la città vecchia mentre la flotta normanna avrebbe agito con un azione diversiva o di disturbo.
Roberto, nel caso che l’impresa del fratello  fosse fallita, doveva con un colpo di mano impadronirsi della cittadella della Khalesa.
L’1 gennaio 1072 all’alba Ruggero sferrò il suo attacco scagliando macigni con le macchine da guerra, sassi con le frombole e gli archi contro i difensori musulmani che circondavano le mura della città. La fanteria in quel frastorno era pronta a sferrare il suo attacco quando all’improvviso si aprì una delle porte della città e uscirono con impeto e coraggio i Musulmani. La cavalleria normanna riuscì a respingere i nemici ricacciandoli dentro la città. I musulmani riuscirono a rientrare in città e chiusero la porta mentre quelli che erano rimasti fuori furono uccisi.
I Normanni erano ormai decisi nella loro azione bellica. Presero delle scale  e con grande audacia, armi in pugno, si arrampicarono verso la sommità delle mura tentando in questo modo di rompere la difesa.
Una difesa forte perché i Musulmani facevano piovere sugli assalitori frecce e massi enormi o spezzavano le loro scale facendoli precipitare al suolo. Quelli che riuscivano a raggiungere la merlatura venivano trafitti dai difensori e i loro corpi venivano lanciati come proiettili sui soldati che si assiepavano  ai piedi delle mura.
La battaglia non ebbe tregua perché le cronache del tempo citarono che durò fino al tramonto per poi spegnersi nella sera.
Dopo qualche ora di tregua l’assalto normanno alla città vecchia riprese e i Musulmani commisero un grave errore. Visto che gli assalti Normanni venivano da ponente lasciarono sguarnite o con scarse difese le altre porte e mura della città.
Era il piano Normanno che si attuava perché Roberto il Guiscardo voleva proprio che una parte delle difese della città fossero scarsamente presidiate per attaccare da levante.
Ad un segno di Ruggero, Roberto alla testa di 300 uomini assalì la Khalesa. Appoggiate le scale, alcuni Normanni furono in un attimo sulle mura della città e uccisero le guardie musulmane che vi erano a presidio. Scesero quindi nella Cittadella ed aprirono le porte permettendo a Roberto con i suoi uomini di entrare.
I Musulmani si accorsero troppo tardi dello stratagemma militare e quando giunsero nella Khalesa si scagliarono con forza contro gli assalitori ma fu tutto vano. La Khalesa rimase sotto il presidio di Roberto che si rafforzò grazie anche agli aiuti militari mandati dal fratello Ruggero.
Secondo le previsioni l’indomani i Normanni sarebbero passati all’azione per la conquista della città vecchia ma i Musulmani saggiamente decisero di intraprendere delle trattative di pace. Alcuni notabili saraceni si presentarono a Ruggero pattuendo la resa. Chiesero ed ottennero che “fossero salvi gli averi, le persone, cittadini o soldati, che rimanessero in vigore le loro leggi e i giudizi fossero pronunciati dai loro magistrati e che nessuno fosse costretto a rinnegare la fede musulmana”.
I Normanni furono molto leali perché rispettarono gli accordi. Un comportamento che fece del Regno Normanno uno degli stati più democratici oltre che tollerante di ogni tradizione culturale, religiosa e politica, rispetto a tutti gli altri stati d’Europa.
Una tolleranza non negativa, perché permise ai “signori” del nord di assimilare tutta la ricchissima cultura araba, e trasmetterla al resto d’Europa.
E se Palermo con gli Arabi era diventata il “fiore” del Mediterraneo, con i Normanni Palermo iniziò a diffondere i “frutti” che le molteplici culture avevano proprio nella Conca d’Oro messo le “radici”.
Da Ruggero II (figlio di Ruggero I) fino a Federico II di Svevia, le successive “piante” con le ramificazioni del sapere, saranno curate con scrupoloso amore.
Trattata la Resa Ruggero entrò nella città con il suo esercito. Mise delle guardie nei punti strategici per poi ritornare da Roberto che fece il suo ingresso a Palermo qualche giorno dopo.
Preceduto da mille cavalieri e accompagnato dal fratello, dalla moglie (la principessa longobarda Sichelgaita di Salerno), dai cognati e da altri conti, il Guiscardo si recò al Duomo e giunto con le lagrime di gioia sulla soglia, fece togliere i simboli musulmani dalla chiesa che gli Arabi avevano convertito in moschea. Riconsacrata al culto cristiano con il nome di Santa Maria, l’arcivescovo Nicodemo celebrò con grande solennità la messa
Riportò l’Amari..”Ritornò in tal modo dopo duecentoquaranta anni il nome cristiano alla chiesa di Palermo, assai più splendida, vasta, ricca, popolosa, civile, ma bagnata di sangue e di lagrime; che “il numero dei Saraceni che furono uccisi e di quelli che poi furono presi e furono venduti come schiavi, superò ogni esempio”.
Dopo Palermo, si diede a Roberto il Guiscardo anche la città di Mazara, ..”obbligandosi a pagare tributo”.
In realtà la presa di Mazara non fu così facile malgrado la pattuita resa.
Sempre nel 1072 Roberto il Guiscardo ritornò in continente lasciando a Ruggero il compito di conquistare definitivamente la Sicilia.  Roberto tenne per sé la Val Demone, Messina e Palermo dove costruì due fortezze: “l’El-Haika” a ponente e quella di Castellammare presso l’importante porto.
Rimasto solo in Sicilia Ruggero I si dedicò ad assicurare i suoi domini sull’isola dalle minacce dei Musulmani che avevano ancora nell’emiro Benavert una valida guida.
Nel 1073 edificò due castelli. Uno a Mazara per fronteggiare i Saraceni nei territori occidentali e l’altro a Paternò.
Nel 1075 Mazara si trovava assediata dai Musulmani, che erano riusciti a sopraffare i Normanni, guidati dal nipote del re di Tunisi Tenemisio.  Un assedio musulmano che durò otto giorni fino a quando Ruggero I riuscì ad entrare a Mazara e a scacciare i Musulmani in mare.
Tra i Musulmani c’era il condottiero Mokarta la cui disfatta è rappresentata su un rilievo posto sulla facciata della Cattedrale di Mazara..

 La costruzione del Santuario viene quindi inserita in un contesto storico e culturale molto ampio.
Ruggero il Normanno aveva fatto costruire la Basilica Cattedrale dedicandola al SS. Salvatore e probabilmente favorì la costruzione, in un punto strategicamente visibile per elevarne anche l’importanza,  del Santuario per dedicarlo alla Madonna.

Mazara del Vallo – Cattedrale del SS. Salvatore

Mazara del Vallo – Cattedrale del SS. Salvatore

Mazara del Vallo – Cattedrale del SS. Salvatore

Le notizie sul Santuario non sono molte e gli storici hanno avanzato varie ipotesi. Secondo il De Simone fu costruito su una preesistente torre di avvistamento araba che in parte è individuabile in alcuni elementi architettonici della struttura tra cui una scala a chiocciola.
In epoca medievale  vi fu annesso un monastero basiliano di cui oggi purtroppo non resta alcuna traccia.
L’abbazia fu prima tenuta dai monaci basiliani e fu citata con il titolo di “S. Maria de Mazara” in un diploma del re Ruggero II, datato 1145, con il quale veniva resa dipendente dell’Archimandrato del SS. salvatore di Messina.
Dal 1479 al 1568 fu unita al Convento di Santa Maria della Gancia di Palermo.
Nel 1567/68 diventò commenda dei Cavalieri  della Religione di San Giovanni di Gerusalemme (oggi Sovrano Ordine di Malta) 
L’ordine militare di Malta, precedentemente di Cipro e Rodi, esercitava l’attività di difesa dei pellegrini diretti in terra santa dagli attacchi barbareschi. Sotto la giurisdizione del Gran Priorato di Messina nacquero dei centri assistenziali in tutta l’isola e tra questi la Commenda di Santa Maria delle Giummare a Mazara nel 1568 che poteva usufruire della chiesa e del monastero giusta bolla papale di Pio IV del 19 dicembre 1567. Rocco Pirri sosteneva che la Commenda di Mazara era sotto la giurisdizione del Priore di Lombardia con una rendita annuale di 900 onze, mentre fra Andrea Minutolo nella sua opera “Memorie del Gran Priorato di Messina” del 1699 ne affermava l’appartenenza al priorato di Messina con una rendita di 1657 scudi e una paga di responsioni di 212 scudi. Al primo commendatore della chiesa fra Giovanni Giorgio Vercelli si deve la commissione della statua in marmo della Madonna con Bambino allo scultore Giacomo Castagnola.

Nel 1810/12 passò al regio patronato.
La chiesa fu lasciata in completo abbandono dopo “L’unità d’Italia” e nel 2011 fu oggetto di restauro.
Un edificio che abbraccia tre stili: bizantino, islamico e normanno.
In origine un modesto cenobio basiliano come testimoniano le iconografie presenti nella piccola absidiola del lato settentrionale del tempio che rappresentano San Basilio e San Giovanni Crisostomo.  Con l’arrivo dei Musulmani  il piccolo cenobio fu trasformato in una fortificazione d’avvistamento per la sua posizione topografica sul punto più alto della città. I Normanni successivamente riedificarono il tempio, modificandone in parte la planimetria  e sfruttando, anche loro, il sito come torre d’avvistamento  mantenendo la scala a chiocciola che consentiva di accedere alle terrazze del tempio.
L’accesso alla chiesa è da un ampia scalinata in parte intagliata nella roccia.


Sulla detra una palma nana, un tempo molto presenti nel territorio.

Oltre al portale principale, vi sono altri due ingressi secondari, relativi alla struttura del monastero.
A causa degli interventi in epoca successiva, che hanno stravolto l’aspetto architettonico del complesso, la struttura monastica forma una planimetria irregolare che racchiude la chiesa.

Planimetria della chiesa  (1979, da Scuderi)

Assonometria di Chiesa e complesso monastico (Di Simone, 2007)

Planimetria della Soprintendenza

Il portico (esonartece) è aperto ad ovest e presenta una pianta quadra con arcone d’ingresso a sesto acuto e due arcate minori laterali.


La chiesa non ha un abside vero e proprio. Alcune chiese normanne presentano degli absidi che non sono sporgenti dal perimetro della chiesa come quello del bellissimo monastero dei SS Pietro e Paolo di Forza d’Agro o Casalvecchio.
Probabilmente i normanni intervennero nell’edificio bizantino operando un prolungamento ed ampliamento del santuario che forse era costituito da tre ambienti distinti voltati a botte.

(Confronto con la cappella ruggeriana di Altofonte e con la chiesetta di Santa Filomena a Santa Venerina).
Nel XIV secolo fu aggiunto alla chiesa un portico, esonartece, che aveva una funzione statica per il rinforzo della struttura con pilastri su cui si caricavano le spinte della volta a crociera.
Le robuste ed eleganti costolonature sono impostate su dei pilastri a sezione quadrata, sul quale si poggiano colonnine angolari che sono coronate da capitelli decorati da elementi fitomorfi stilizzati.
Il portico si apre all’esterno con un unico grande arco sulla facciata e due piccole arcate a sesto acuto sul versante occidentale che sono i residui dio una diversa composizione architettonica originaria.
Il grande portale che introduce nell’aula ha una cornice a doppia ghiera, di cui la più esterna è a “punta di diamante”.

In tempi recenti fu spostato dall’entrata  dell’esonartece e rimontato all’ingresso della navata della chiesa.





Il tetto mostra una raffinata volta a crociera costolonata mentre il bel portale scolpito in pietra arenaria è un aggiunta trecentesca.


L’interno presente aspetti legati anche ad interventi successivi. Oltre allo spostamento del portale si aggiunse  l’inserimento di un grande arco chiaramontano, oggi chiuso, che si nota entrando nell’aula a destra. Probabilmente era legato alla presenza di una cappella o di locali sussidiari. In una foto dell’epoca erano ancora visibili resti di edifici che comunicavano con l’aula grazie alla presenza di quest’arco. L’arcone è sormontato da uno stemma recante la data del 1301 ed una croce “patriarcale” a doppie braccia, interpretata dal Di Simone come una croce bizantina “da etimasia”.







L’aula di culto è ad unica navata (29 x 5,50)m ed è scandita da tre arconi a sesto acuto. Il tetto è caratterizzato dalla sequenza di tre volte a botte che sono costruite in senso perpendicolare all’asse della navata. La navata riceve da luce tra tre finestre circolari poste sul lato nord-est..
Gli archi trasversali, che in origine erano a largo ogiva, furono successivamente modificati nel XVI secolo per reggere le volte a botte estradossate.
Non è presente l’abside ma due absidiole o nicchie laterali nelle quali sono visibili gli affreschi con due Santi della tradizione agiografica orientale. La nicchia centrale fu frutto di una modifica per ospitare la statua della Madonna con il Bambino di Giacomo Castagnola del 1572 ed è affiancata da due loculi.

Dalla sacrestia si giunge alle terrazze grazie ad una scala a chiocciola di pietra arenaria. Una elemento architettonico di pregevole fattura ed elemento superstite di una probabile torre di avvistamento di epoca islamica.


Lo storico Scuderi per la caratteristica architettura delle volte accostò la chiesa alle chiese tardoanctiche o mediorientali tra cui le Terme di Leptis Magna, di età romana, e quelle giordane di Quasayr-Amra (sec. VIII)

Un intervento radicale fu effettuato alla metà del secolo XVI, quando per collocare la statua della Madonna con bambino, appena commissionata a Giacomo Castagnola, si smantellò la conca absidale di cui è ancora visibile lo spicco, chiudendo l’incavo centrale e creando in alto  una nicchia per la statua. Una nicchia affiancata da due oculi. In basso, due aperture squadrate vennero aperte tra le nicchie-absidali e l’altare centrale. Nelle strette nicchie absidali laterali, si leggono ancora resti pittorici di rilevante interesse  e valore sebbene in precario stato di conservazione e di età forse contemporanea a quelli di  Santa Maria della Grotta a Marsala.
Le pitture furono rinvenute durante i lavori di restauro effettuati negli anni cinquanta del secolo XX. In quel periodo gli affreschi erano ancora leggibili e mostravano degli aspetti particolari che sono andati perduti perché non più leggibili.
Le piccole absidi misurano 1,70 m di altezza  con una larghezza di  cm 60.
Gli affreschi raffigurano due personaggi dell’agiografia bizantina, uno dei quali, quello della nicchia di destra, risulta poco leggibile, la nicchia di sinistra invece conserva meglio lo strato pittorico anche se interessato da fratture dell’intonaco e distacchi di colore,
Il Patera che vide e studiò gli affreschi, subito dopo la loro scoperta,  fece una accurata descrizione affermando che “ nella nicchia di destra si individua la raffigurazione di San Basilio come indicavano le superstiti lettere della didascalia oggi invisibili [BA] CI [L] EIOC.
Il santo è raffigurato secondo i canoni dell’iconografia bizantina tradizionale: erano un tempo leggibili il volto, la parte superiore decorata con croci a quadrifoglio e la mano che sorreggeva il codex della Scrittura, all’altezza del petto. La nicchia di sinistra, invece, ha ancora al suo interno una figura in discrete condizioni di conservazione. L’immagine ha cornice pittorica costituita da una larga fascia dorata in due strisce rosse, all’interno della fascia dorata vi sono una serie di oculi concentrici in rosso e blu. All’interno, su uno sfondo intenso si staglia la sagoma frontale di un Santo, di cui si distingue bene la sagoma del capo tondo, avvolto da un’aureola dorata dai contorni perlinati; sull’ampia fronte rotonda sporge un piccolo ciuffetto di capelli, mentre del viso si distinguono solo il perimetro, tracce dell’occhio sinistro e della corta barba. Si distingue la mano destra benedicente, mentre la sinistra regge il libro delle Scritture. I puntini bianchi attorno all’aureola e la mano benedicente sono opera di ridipinture e ritocchi posteriori. . I paramenti sono stati identificati come quelli liturgici bizantini e comprendono anche l’omophorion crucisignato. Il personaggio è stato interpretato come San Giovanni Crisostomo, spesso associato a San Basilio, entrambi Santi di importanza decisiva per la Chiesa d’Oriente. Per l’iconografia dei Santi, è stata suggerito un confronto con i mosaici della Cattedrale di Cefalù; il Patera, infatti, ha osservato che «[…] questi dipinti mazaresi sono soprattutto vicini alle allungate solenni immagini del presbiterio del duomo cefaludese […]», rispetto alle quali, però presenterebbero maggior scioltezza e sarebbero da datare al secolo XII. Un interessante confronto stilistico può essere istituito con il quasi coevo affresco palinsesto del Pantokratore, raffigurato nella nicchia del transetto della Cattedrale. Utili confronti possono essere istituiti anche con i Santi della Cripta di San Marciano a Siracusa, in particolare per le forti linee, i colori vividi e l’impostazione della figura, frontale e stante, costruita secondo il modulo stilistico bizantino; anche questi affreschi sono datati ad età normanna”.




La statua della Madonna con il Bambino venne commissionata da fra Giovanni Giorgio da Vercelli, primo commendatore della chiesa, ormai sotto il patrocinio dell’Ordine degli Spedalieri di San Giovanni nel 1572. Fu opera di uno scultore lombardo di scuola michelangiolesca Giacomo Castagnola.  L’opera è firmata “Iacobi Castegniola manu” e alcuni storico definiscono il cognome non come Castagnola ma Cassignola.
Giacomo da Cassignola  fu citato nello “Statuto della insigne artistica Congregazione de’ virtuosi al Pantheon”.


L’opera sostituì probabilmente un affresco o un icona che andò perduta della Vergine Maria “Theotokos”


Un tempo come racconta lo storico locale Filippo Napoli nel lontano 1934, i cittadini percorrevano un sentiero pietroso per giungere sul colle dal quale si osservava la campagna circostante e il mare all’orizzonte.
La contrada era priva di costruzioni e le palme nane, giummare, avevano il loro habitat naturale. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto  il santuario denominato in quel tempo “Madonna dell’Alto”, diventava punto di pellegrinaggio da parte di fedeli di qualsiasi età che partecipavano all’ascolto della funzione religiosa.
All’inizio della salita, sulla destra, era presente una roccia con l’incisione delle parole “Viva Maria” e una Croce che i fedeli baciavano. Una fede legata alla tradizione che su quella pietra fosse stata deposta per una breve sosta la statua della Madonna opera del Castagnola che ancora oggi si ammira in tutta la sua bellezza. Una pietra presente nel 1572 e che qualche mano “sacrilega” ha asportato magari per costruire qualche villetta o  per altri scopi.
Davanti a quella pietra i fedeli recitavano un’orazione:


“Santa rocca biniditta,/lu me cori è tantu afflittu,
cu la vostra santità,/datimi la saluti
e la vostra santa binidizioni”
(Santa roccia benedetta/ il mio cuore è tanto afflitto,
con la vostra santità/ datimi la salute
e la vostra santa benedezione”

raggiunto sul colle il santuario, i fedeli recitavano un’altra invocazione:

“Virgini Santa aiutami!
pi stu bamminu c’aviti ‘mbrazza
cunciditimi la grazia”
(Vergine Santa aiutami !
Per questo Bambino che avete in braccio
Concedetemi la Grazia !”.

Preghiera alla Madonna
Ricordati, o piissima Vergine Maria,
non essersi mai udito al mondo che qualcuno abbia ricorso al tuo patrocinio,
implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato.

Animato da tale confidenza, a te ricorro, o Madre, o Vergine delle vergini,
a te vengo e, peccatore contrito, innanzi a te mi prostro.

Non volere, o Madre del Verbo,
disprezzare le mie preghiere, ma ascoltami, propizia ed esaudiscimi.
Amen
(Indulgenza parziale)


È  una statua in legno (copia della Madonna dell'Alto) dello scultore Giuseppe Stuflesser di Ortisei (BZ). Fu commissionata perché la si voleva portare in processione. Ma l'iniziativa non ebbe successo. Fu collocata all'esterno nello spiazzale e cominciò il suo degrado a causa degli agenti atmosferici. Oggi è conservata all’interno del santuario.
Solennità dell'Abbazia è l'Assunzione della Beata Vergine Maria in cielo il 15 agosto, preceduta da una storica Quindicina.

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2.    MAZARA DEL VALLO
SANTUARIO DELLA MADONNA DEL PARADISO




Anno 1515, nella zona dove oggi sorge il Santuario della Madonna del Paradiso, era presente un piccolo convento che era denominato “Casa Santa” e nelle cui vicinanze era presente una piccola chiesa dedicata alla Vergine del Rosario.
Per circa un secolo sia il convento che la chiesa furono gestiti, a vario titolo, dai Padri Domenicani.
(La Chiesa fu  officiata dal padri domenicani dal 1475 al 1515).

In seguito gli edifici sacri furono gestiti dai Padri Carmelitani per un certo periodo di tempo. La chiesa venne infatti successivamente chiusa e il convento fu adibito a sede del Tribunale dell’Inquisizione della Diocesi.
Nel 1797  i padri Liquorini (Congregazione del Santissimo Redentore) furono invitati dal vescovo di Mazara del Vallo, Mons. Orazio De La Torre che resse la Diocesi sino al 1816, a tenere un corso di esercizi spirituali di due mesi. Esercizi spirituali che avevano come tema: Il Perdono, La Grazia e la Gloria Futura.
Gli esercizi si svolgevano nella Cappella del Paradiso della “Casa Santa”.
In questa cappella si trovava un quadro dell’Immacolata che era stato dipinto dal cavaliere Sebastiano Conca (1680 – 1764).



La tela, (72 x 97) cm, è un ovale e la Beata Vergine è rappresentata a mezzo busto e a grandezza naturale.  Il volto in estasi misto a dolore e gioia, la bocca leggermente aperta, gli occhi rivolti verso l’alto e con lo sguardo immerso in una grandezza infinita , di stupore.
Le mani sono conserte sul petto con la destra appoggiata sulla sinistra. I capelli, di color castano, confluiscono con delicatezza sulle spalle.
La veste di abbondante e finissimo cotone bianco le impreziosisce il corpo mentre il mantello azzurro le scende dalle spalle e con pieghe molto delicate le circonda il corpo.
La tela non è firmata dall’autore e non presenta nemmeno la data di esecuzione. Fu probabilmente ordinata da Padre Milazzo, il superiore dei padri Gesuiti della comunità di Mazara del Vallo per collocarla nella Cappella del Paradiso del convento “Casa Santa”.
La data di stesura dell’opera dovrebbe essere tra il  1760-61.
Si narra che il pittore, originario di Gaeta, una volta giunto sul punto di finire la bella opera, ebbe un momento d’incertezza legato all’incapacità artistica di dipingere il volto della Madonna. Tanto era l’ansia che cadde in un sonno profondo. Uno stato di ansietà che gli procurò una sorta di estasi. Quando si risvegliò vide davanti a sé il quadro completo con un bellissimo volto della Madonna.


Il pittore fu considerato uno dei migliori artisti della scuola romana del 1700. Fu molto stimato da papa Clemente XI e dal cardinale Ferrari che ricambiò con sue opere per le chiese di S. Clemente e del Laterano.

La tela della Madonna del Paradiso non fu firmata. Era un uomo di grande umanità e religiosità e cercando di testimoniare l’estasi avuta durante la lavorazione del quadro disse che “questa opera avrebbe dovuto nel tempo portare la firma della devozione dei cristiani che l'avrebbero utilizzata per elevarsi al Signore per mezzo di Maria Santissima”.

Il 3 novembre 1797, verso le ore 21 i catechisti si trovano a pregare e a discutere nella cappella del paradiso nella “Casa Santa”. Un fedele in preghiera guardò con attenzione la sacra immagine della Madonna e si rese conto che alle parole “rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi”, il volto della Madonna si animava con un leggero movimento degli occhi. Il fedele naturalmente disorientato e incredulo su quello che aveva visto, si rivolse ai suoi compagni di preghiera che, stupiti ed entusiasti dell’evento, attivarono un forte passaparola che incominciò ad attirare una gran numero di persone. Persone che diventarono a loro volta testimoni del prodigio miracoloso perché l’evento si ripetè più volte.
Il vescovo Orazio De La Torre fu a sua volta incredulo sull’accaduto e in ogni caso agì cautamente.



Il vescovo inviò nel convento “Casa Santa” un vicario generale per  invitare i fedeli che partecipavano agli esercizi spirituali ad essere più razionali. Nella Diocesi c’era quindi la convinzione di trovarsi di fronte ad un fenomeno di suggestione collettiva. Ma con grande stupore, anche il Vicario si rese conto del prodigioso fenomeno e diventò uno dei più validi estimoni dell’avvenimento. Avvenimento che coinvolse in modo molto passionale monsignor La Torre fino alla sua morte.
Il prodigio si ripetè più volte e dopo un paio di giorni fu disposta la traslazione della Sacra Immagine nella Cattedrale.

Mazara del Vallo (Trapani) – Cattedrale del SS Salvatore

La traslazione avvenne con grande solennità e con una grandissima partecipazione di popolo. Durante la veglia notturna ed il giorno seguente il prodigio si ripetè lascando esterrefatti i presenti. La Madonna abbassava ed alzava gli occhi e non solo. A volte li girava a destra e a sinistra e fissava i presenti per poi richiuderli e riaprirli. Un fenomeno che non era di suggestione collettiva perché erano vari e complessi i movimenti degli occhi e tutti concordavano nelle loro descrizioni.
Il prodigio si verificò nel collegio San Carlo e nei monasteri di Santa Caterina, di Santa Veneranda e di San Michele.

Collegio San Carlo oggi Museo della Diocesi

Chiesa e Monastero di San Michele

Nella Chiesa di San Michele avvenne qualcosa di incredibile perché il prodigio si ripetè per ben 24 ore di seguito.
Dal 10 dicembre 1797 a tutto il mese di giugno del 1798, su ordine del vescovo, fu celebrato il processo sul prodigio a prova della sua veridicità.
Lo stesso Vescovo assistè al prodigio e supplicò il Capitolo Vaticano di coronare l’immagine della Madonna secondo il legato di Alessandro Sforza.
Il Capitolo Vaticano, il 10 aprile 1803 decretò l’incoronazione che ebbe aluogo a Mazara.
Il movimento degli occhi si rinnovò nel tempo:
-          il 20 ottobre 1807 e ne fu testimone anche Don Giuseppe Maria Tomasi dei principi di Lampedusa;
-          nel 1810 nel Santuario e il 21 gennaio 1811;
-          il 5 marzo 1866 ed altre volte;
-          il 4 novembre 1918 quando la Madonna del dipinto aveva aperto e chiuso gli occhi più volte per annunciare la fine prossima della prima guerra mondiale.
-          a quanto sembra l’ultimo fu osservato nel 1981 in Cattedrale.
La  Madonna del Paradiso è patrona della Diocesi e compatrona (assieme alla Madonna dell’Alto ed ai Santi Vito, Modesto e Crescenza) della città di Mazara del Vallo. Una proclamazione che risale ad una bolla del 1962 ad opera di papa Giovanni XXIII.
La chiesa dedicata alla Madonna del Paradiso sorse grazie alla pietà ed all’amore di Mons. Orazio De La Torre. Una volta concluso il processo canonico il vescovo si adoperò per la costruzione di una chiesa al posto dell’angusto convento “Case Sante” e della Chiesa dedicata alla Vergine del Rosario da tempo chiusa.
Gli interventi costruttivi iniziarono nel 1807 e furono consistenti dato che le origini dell’edificio risalivano al 1475.

Fu proprio in questa chiesa che il vescovo concentrò le sue attenzioni e grazie anche al concorso spontaneo del popolo, trasformò l’antica chiesa aggiungendovi l’abside e quattro sondi laterali con relativi altari.
I maestri dell’opera di trasformazione dell’originaria chiesa furono: l’architetto Cenci di Palermo, il plastificatore Curto di Castelvetrano e il pittore Francesco Cutrona.
La chiesa è ad un'unica navata e nell’alto dell’abside, sopra all’altare, venne incastonato il prezioso quadro con una cornice marmorea sorretta da due angeli.
Nell’abside sono collocati quattro quadri  (Annunciazione, incoronazione, primo prodigio e quello della cattedrale), opere del Gianbecchina che realizzò per il santuario negli anni cinquanta del secolo scorso.
Negli altari laterali si trovano tre quadri del 1700: San Vito, San Sebastiano e la Madonna del Rosario.
La maestosa volta e le pareti sono dipinte con grandi affreschi allegorici mentre il frontone, in alto, è semplice e richiama linee del’ 700.
La facciata, molto semplice, richiama linee settecentesche. Essa presenta un portale architravato su cui si apre una finestra rotonda, e in alto è completata da un frontone con timpano fregiato con sopra una croce.

Il campanile, costruito a fianco della chiesa, è a pianta quadra ed è di stile barocco. Sulla cella campanaria una torretta a pianta ottagonale con piastrelle.
Esso si erge su un alto zoccolo da cui emerge, nel primo ripiano, uno stemma; la cella campanaria, aperta su i quattro lati con agili archi a tutto sesto, è sovrastata da una torretta ottagonale con piastrelle colorate.

La chiesa fu consacrata ed aperta al pubblico il 6 novembre 1808 e fu proclamata Santuario il 9  luglio 1978 da sua ecc. Mons. Costantino Trapani.
trasformandola nella chiesa della Madonna del Paradiso, come attualmente noi possiamo vederla e dove la prodigiosa immagine fu trasferita il 6 novembre 1808 con solenne processione. Così a partire dal 1808, ogni anno nella seconda domenica di luglio si rinnova la processione in onore della Sacra immagine di Maria SS. del Paradiso.

Fin dal 1943 il Santuario della Madonna del Paradiso è custodito dai Missionari Servi dei Poveri, che sono sacerdoti dell’Opera del Boccone del Povero, fondata a Palermo dal Beato Giacomo Cusmano (1834-1888). Questi nel 1875 ebbe modo di venerare la Regina del Paradiso durante la sua permanenza in questa città e volle che l’Istituzione del Boccone del Povero fosse sotto la protezione della Gran Madre di Dio, additandoLa come la vera fondatrice dell’Opera e regola per ogni religioso.

La chiesa non è meta solo dei fedeli e devoti della Madonna, ma anche di numerosi pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Tra i tanti personaggi illustri che hanno sostato in preghiera ai piedi della Madonna nel santuario, perché non vada perduta memoria ricordiamo la regina Maria Carolina e il principe Leopoldo nei giorni 9 e 13 giugno 1813. Festività liturgica il 4 novembre; festività cittadina la 2 domenica di luglio.
PROCESSO
Il vescovo La Torre studiò i fatti, i prodigi per provarne la veridicità e si svolse un regolare processo investigativo secondo le regole stabilite dal Concilio di Trento.
Durante il processo furono ascoltati ben 171 testimoni oculari che resero tutti la stessa testimonianza affermando cioè che mentre pregavano la Madonna “illos tuos misericordes oculos ad nos converte” , che fissava nel quadro gli occhi in alto verso il cielo, cominciò a muoverli in alto e in basso con movimenti rotatori tali da nascondere in alcune occasioni anche le pupille e addirittura versando lacrime.
L’anno successivo, il 23 agosto 1798, dopo il giudizio positivo del Patrono Fiscale della Curia, il Vescovo proclamava l'autenticità del miracolo e il 10 aprile del 1803 il venerabile dipinto venne solennemente incoronato.

"Il colore del viso rapisce e confonde il pensiero, per cui non ci si rende conto se ci si trovi a contatto con una persona vivente o con uno spirito soprannaturale. Arricchiscono il capo dodici lucenti stelle, simbolo delle sue esimie virtù. A lettura più spirituale che intellettuale ci si accorge di essere a contatto non tanto con un capolavoro, ma con una reliquia preziosissima di colei che è Immacolata Vergine; sicura speranza; Madre del Verbo incarnato, Madre della misericordia che tutti accoglie sotto la sua protezione" (P. Pisciotta) 
 Le anonime copie del dipinto, certamente del 1800, conservate presso la chiesa del Miracolo e in S.Michele, hanno ai quattro angoli dei simboli che richiamano le invocazioni rivolte alla Madonna: Regina del Mondo; Regina delle Vergini; Regina dei martiri; Regina dei veri cristiani. L'originale è esposta per la venerazione sull'altare centrale del santuario, al centro di un gruppo marmoreo formato da due angeli che sorreggono una corona al cui centro è incastonata la sacra effige.


La traslazione della sacra effige (dalla chiesa del Miracolo al Santuario) avvenne il 6.11.1808, stabilendo che ogni anno si celebrassero le solennità del prodigio dal 4 all'11 Novembre e l'incoronazione la seconda domenica di luglio. Su suo espresso desiderio, approssimandosi l'ora della sua morte, gli fu portata la sacra immagine, e mentre Egli recitava per l'ultima volta: "rivolgi a noi i tuoi occhi misericordiosi", la Regina del Paradiso, volgendogli nuovamente i suoi occhi, lo stringeva al suo petto come figlio carissimo e lo conduceva con sé dove siede gloriosa tra i santi. Era il 21.12.1811. Le sue ossa riposano nel presbiterio del santuario in attesa della beata glorificazione.







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VALLONE "MADONNA DEGLI  ANGELI" -  L'"ABIES  NEBRODENSIS"
 Raggiungibile dal Santuario ddella Madonna dell'Alto  (Petralia Sottana)








Un tempo le abetaie dovevano essere presenti anche sui monti della Sicilia  e in particolare in quelle zone montuose dove persisteva più a lungo il manto nevoso.
Una presenza arborea molto forte tanto che la colonie greca di Halaesa, (l’odierna Tusa in provincia di Messina), coniava una moneta con l’immagine dell’abete siciliano.
A testimonianza  di questo aspetto storico naturalistico sono presenti in Sicilia degli esemplari che potremmo definire come i superstiti di quelle antiche abetaie del passato cioè gli Abies Nebrodensis.
In passato l’abete dei Nebrodi per molti anni fu ritenuto come una specie che aveva avuto origine dall’abete bianco a causo del suo lungo isolamento in cui si sarebbe venuta a trovare la specie in seguito alle fasi interglaciali.
In realtà i botanici considerano oggi l’Abies Nebrodensis una specie  a sé stante presente in Sicilia sin dal Terziario e ancora prima quindi dell’arrivo dell’abete bianco che si fa risalire all’ultima glaciazione.
Una realtà storica naturalistica confermata dal ritrovamento sulle Madonie nord-orientali di una “stazione fossile” con due abeti presenti nel sito ben 9000 anni fa.
Gli abeti prendono la denominazione “Nebrodensis” cioè “dei Nebrodi”, pur trovandosi nelle Madonie perché un tempo quest’ultima catena montuosa faceva parte dei Nebrodi.


Gli Abies Nebrodensis sono circa 30 esemplari adulti  e si trovano ad una quota compresa tra i 1400 e il 1650 metri s.l.m., sul versante settentrionale di Monte Scalone, noto anche come “Manca i Pini”, a ridosso del vallone che è chiamato “Madonna degli Angeli” nel Comune di Polizzi Generosa.

A questi esemplari vanno aggiunti altri quattro esemplari che si trovano sparsi nell’isola: uno a Piazza Armerina nella Villa del Casale; uno accanto ai ruderi del castello di Polizzi Generosa, ed altri tre, innestati sull’abete bianco nei primi anni del Novecento,  nella Villa Lanza , nei pressi di Gibilmanna.
Un tempo l’abete veniva usato per la produzione di travi per la realizzazione di coperture di case, palazzi e chiese dei centri madoniti. È quindi probabile che fu soggetto ad un forte taglio tanto da ridurne in modo drastico la popolazione.
Un tempo era quindi endemico della catena settentrionale sicula e dal 1900 era stato considerato estinto. Fu riscoperto nel 1957 proprio nel vallone Madonna degli Angeli. Una sopravvivenza, abbiamo visto di 31 esemplari, legata proprio all’isolamento e quindi alla minore competitività con altre specie arboree più forti come il faggio.
L’abete dal colore verde scuro ha un caratteristico portamento “a campana” e può raggiungere i 10 – 15 metri d’altezza. La corteccia del tronco è di colore bianco-grigiastra mentre i rami sono di colore bruno e quelli più giovani di colore rossastro. Un aspetto particolare è legato alla disposizione dei rametti. Da un ramo principale  si dipartano due laterali e così di seguito come a formare tante piccole croci. Per questo particolare aspetto l’albero è chiamato in lingua siciliana come “arvulu cruci cruci”. 

 Le foglie, aghiformi, sono appiattite e presentano una scanalatura lungo la nervatura centrale e due linee longitudinali, di colore bianco, nella pagine inferiore.
Gli strobili, sono eretti e lunghi circa 20  e raggiungono la maturità sessuale in autunno quando liberano i semi dalle brattee.



Secondo il ricercatore L. Parducci l’origine dell’Abete dei Nebrodi risalirebbe all’inizio del Miocene quando un “abies” progenitore era ampiamente presente in tutto l’emisfero Nord e nell’Europa meridionale. Durante la crisi climatica del Miocene l’areale di questa pianta si è frammentato permettendo  la differenziazione di nuove specie.
In quel periodo Abies Alba era probabilmente confinato nell’Europa centrale e scendeva a sud sino all’Appennino mentre altre specie erano presenti in alcune catene montuose della Spagna, Nord Africa e Penisola Balcanica.
Alla fine del Miocene, con la crisi di salinità del Messiniano (chiusura del Mediterraneo), si creò un collegamento tra Europa e Africa, permettendo alle specie africane (come A. numidica) di entrare in contatto con A. alba, e tramite ibridazione la comparsa di A. nebrodensis.  Nella successiva era glaciale del Pleistocene, il cambiamento del livello del mare può aver favorito ulteriori contatti tra le tre specie. Con il successivo riscaldamento del clima nell'Olocene, A. nebrodensis si è definitivamente isolato dalle altre specie. Il declino sarebbe poi avvenuto principalmente negli ultimi 200 anni a causa dell'azione antropica.

​​​In Sicilia è inoltre presente Abies cephalonica Loud., come naturalizzato sui monti della Sicilia settentrionale, risultato della opere di rimboschimento con altre conifere esotiche come Cupressus sempervirens L., Cedrus atlantica (Manetti ex Endl.) Carriere e Cedrus deodara (D. Don) G Don.

Per molti anni l’abete delle Madonie è stato ritenuto sterile e quindi destinato all’estinzione. Negli ultimi decenni, fortunatamente, alcuni esemplari hanno iniziato a produrre strobili con semi fertili grazie a cui l’Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana ha potuto intraprendere un’opera di ripopolamento, in piccole aree sperimentali, che lascia ben sperare per la sopravvivenza di questa specie vegetale.
Nonostante tutto la pianta continua ad essere a rischio di estinzione e non a caso l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) l’ha inserita nella lista delle specie botaniche dell’area mediterranea maggiormente minacciate.
Nel dicembre 2018, a seguito di una votazione coordinata dal professore Lorenzo Peruzzi, docente di botanica presso l’Università degli Studi di Pisa, l’abete delle Madonie è stato scelto quale pianta simbolo della Sicilia.











Per le visite è opportuno rivolgersi a guide naturalistiche.
Per informazione sulla partecipazione rivolgersi all’Ufficio Turistico – Qui Parco al n. 0921/649187 oppure tramite email : quiparco.polizzi@parcodellemadonie.it


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IL QUADRO  DI SAN  MICHELE  ARCANGELO
            (Luogo di culto non riconosciuto dalla Chiesa )




Il 13 maggio 2012, sulle pendici di Monte Alto su cui si eleva il Santuario della Madonna,  un quadro raffigurante San Michele Arcangelo fu posizionato all’interno di una edicola votiva in legno, a circa 1300 metri di quota, nei pressi di una fonte.
Il luogo fu indicato al Sig. Salvo Valenti  a cui sarebbe apparso in sogno San Michele Arcangelo invitandolo a deporre il quadro nei pressi di una sorgente delle Madonie e “su di un masso dove è presente la Madonna di Bianco”.
Un quadro che il sig. Valenti aveva acquistato durante la festa della Madonna della Milicia e dopo un anno la tela si animò (7 settembre 2008).
San Michele lo portò su un monte, gli fece vedere la roccia ed il ruscello e gli disse di collocare il quadro che lo raffigurava proprio su quel monte.
La montagna si trovava tra Polizzi Generosa e Petralia e alla cima vi era posta una statua della Madonna e l’Arcangelo gli disse che doveva prendere come riferimento proprio la Statua della Madonna per essere successivamente in grado di tornare sul luogo.
Passò il tempo e l’Arcangelo riapparve il sogno al sig. Valenti rimproverandolo di non aver adempiuto alla sua missione. Durante le apparizioni gli consegnò dei messaggi.
Grazie ad un medico il sig. Valenti riuscì a trovare il luogo indicato dall’Arcangelo e vide in cima al monte, a circa 200 metri dal luogo indicato, il Santuario Mariano dedicato alla Madonna dell’Alto.
Naturalmente per collocare il quadro dovette attendere circa quattro anni per i relativi permessi dell’Ente Parco.
Nel marzo 2012 ottenne l’autorizzazione e San Michele Arcangelo gli apparve nuovamente in sogno invitandolo a collocare il quadro la seconda domenica di maggio e di ritornare l’ultima domenica di settembre.
Il 13 maggio dopo la benedizione del prete che “dichiarò venerabile il quadro” e la Santa Messa, salì sul monte per depositare il quadro.
Fu costruita grazie ai fedeli un edicola votiva in legno e da allora si recano in centinaia sul monte per pregare ed ottenere delle grazie.

I pellegrinaggi per le guarigioni fisiche e spirituali sembra anche abbiano coinvolto circa 1000 persone e durante uno dei questi pellegrinaggi San Michele A. sembra che abbia aperto gli occhi ed anche lacrimato.


Si verificarono dei miracoli bevendo l’acqua della sorgente vicina che  fu benedetta da San Michele A.


Contrada Cedda


Nella bacheca è riportato uno dei messaggi dell’Arcangelo che gli fu dettato il 27 settembre 2015:
“Sono Michele, Generale e Arcangelo del Signore, sono oggi qui per volere dell’Onnipotente. Ho dato indicazioni per dare vita al movimento di preghiera formato da più gruppi, tanti gruppi uniti dall’amore di Gesù in un unico gruppo, “l’Armata di Cristo”.
Unitevi il 29 di ogni mese e pregate nostro signore Gesù ed Io, Arcangelo Michele, sarò lì in mezzo a voi. L’Onnipotente Mi ha mandato per proteggervi. In questo tempo Satana sta cercando di distruggere le famiglie e la Chiesa, sappiate che la Chiesa, anche se attaccata, non verrà distrutta. Io proteggo l’umanità e sono stato mandato per ricordarvi che Gesù non vi ha abbandonato, siete voi che non Lo cercate. Le famiglie vengono distrutte perché non pregano, ovvero perché uno dei coniugi non prega; le famiglie, che pregano, vanno a messa e si comunicano con Gesù, anche se subiscono l’attacco di satana non potranno essere distrutte.
Leggete il Vangelo e vivete il vangelo ! Tutti i sacerdoti operano per volontà di Dio, ma ci sono alcuni di loro che, con comportamenti non conformi, svuotano le chiese.
Non lasciatevi condizionare dai comportamenti errati di alcuni sacerdoti, andate a messa tutte le domeniche e comunicatevi con Gesù !
Sappiate che l’unica vostra salvezza è Gesù.
Vescovi, che guidate la Chiesa, sappiate che il Buon pastore dà la vita per le sue pecore.
Uscite in mezzo al popolo e guidatelo verso la salvezza; ci sono pochi esorcisti, satana si nasconde tra la gente, nominate più esorcisti.
A voi, uomini tutti, voglio ricordarvi di non giudicare, perché un giorno, con la stessa misura che giudicate, sarete giudicati.
Nuovamente vi invito a partecipare ogni Domenica alla Santa Messa e di comunicarvi con Gesù.
Successore di Pietro, recita in tutto il mondo la preghiera di Papa Leone XIII, alla fine di ogni Messa, prima delle benedizione, ed Io, Arcangelo Michele, per volere dell’Onnipotente libererò la Chiesa dalle tentazioni di Satana.
Vi invito a riflettere sui Messaggi che vi ho dato in questo tempo, perché ciò che è stato detto non si dica che non è stato detto.
Io, Arcangelo Michele, per volere dell’Onnipotente, con quest’acqua da Me consacrata, vi benedico.
Andate in pace e pregate,  pregate, pregate nostro Signore Gesù!”.





I pellegrini si riuniscono nel sito due volte l’anno: la seconda domenica di maggio  e l’ultima di settembre. Si sono formati circa 36 gruppi di preghiera che si riuniscono per pregare il giorno 29 di ogni mese.

Naturalmente l’atteggiamento della Chiesa  è cauto.  Infatti  “Monsignor Marciante, vescovo di Cefalù, fa sapere che nel territorio di Petralia Sottana, Comune della nostra diocesi, alle pendici di «Mont'Alto», non è stato eretto nessun Santuario dedicato a San Michele Arcangelo come meta di relativi pellegrinaggi che vedano la partecipazione di presbiteri o fedeli della Chiesa cefaludense.  Tali «pellegrinaggi» sono iniziative di carattere esclusivamente personale, che rispondono a possibili esigenze spirituali di singoli individui, comunque non concordate né approvate dall’autorità ecclesiastica competente. Da quanto ci risulta, il «veggente» Salvo Valenti non gode di alcun riconoscimento e di nessuna approvazione da parte delle autorità ecclesiastiche competenti della sua arcidiocesi di Palermo, né della nostra diocesi, riguardo sue visioni, sogni e colloqui con San Michele Arcangelo». 

Del 24 Novembre 2018 un altro comunicato del Vescovo di Cefalù Giuseppe Marciante  in merito alle apparizioni:
«In riferimento a quanto si verifica nel territorio del Comune di Petralia Sottana, relativamente ad episodi di incontri finalizzati al culto di San Michele Arcangelo in un contesto di visioni soprannaturali da parte di un presunto veggente nella persona del Sig. Salvatore Valenti dell’Arcidiocesi di Palermo, ritengo doveroso richiamare le Norme per procedere nel discernimento di presunte apparizioni e rivelazioni, promulgate dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede il 25 febbraio 1978 e confermate dalla medesima Congregazione il 14 dicembre 2011». Il Presule dice che  l’iter per arrivare al discernimento circa la verità di tali fenomeni per dichiararne il “Constat de supernaturalitate o il Non constat de supernaturalitate” prevede anzitutto che l’Ordinario del luogo giudichi il fatto positivo o negativo. Solo quando l’Ordinario ha giudicato positivamente il fatto si può procedere alla seconda tappa dell’iter che consiste nel permettere «alcune manifestazioni pubbliche di culto o di devozione, proseguendo nel vigilare su di essa con grande prudenza». Quindi l’autorità ecclesiastica competente può concedere il “Pro nunc nihil osbstare” che chiaramente non deve indurre i fedeli a ritenere che questo pronunciamento sia riconoscimento e approvazione del carattere soprannaturale da parte della Chiesa.
«Non constat de supernaturalitate» ed è fatto divieto di organizzare pellegrinaggi sul luogo indicato dalle presunte apparizioni nel territorio della Parrocchia di Petralia Sottana. Per il Vescovo «è fatto altresì divieto di erigere edicole votive per il culto pubblico legate al suddetto fenomeno, senza il “nihil obstat” dell’Ordinario del luogo».
A conclusione del comunicato il Vescovo ricorda che a Gibilmanna è da secoli che esiste un culto speciale a San Michele Arcangelo; prova ne è la tela raffigurante l’apparizione dell’Arcangelo ai frati raccolti a mensa, esposta nel Santuario.

Foto del 29 settembre 2019
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