L'ORDINE CISTERCENSE IN SICILIA - TRA I POCHI RESTI, NON RISPETTATI ...UNA PAGINA DI STORIA, SCRITTA ANCHE DAI TEMPLARI, DIMENTICATA....
















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1.      Introduzione: Abbazia di Santa Maria di Spanò (Randazzo – Catania)
2.      L’Ordine Clunicense – L’Abbazia di Cluny – L’Osservanza della Regola Benedettina e la Riforma Gregoriana;
3.      La nascita dell’Ordine Cistercense – Roberto di Molesme – Stefano Harding – L’Abbazia Madre di Citeaux – Le Filiazioni tra cui l’Abbazia di Clairvaux – Il vino della “Borgogna”;
4.      I Rapporti tra i Normanni e i Cistercensi – Bernard di Clairvaux (Bernardo di Chiaravalle) e Ruggero II d’Altavilla – Due famiglie in lotta per l’elezione papale – L’elezione dell’antipapa Anacleto II – I Contrasti tra Ruggero II e il Papato.
5.      L’Ordine Cistercense nell’Italia Meridionale – L’Abbazia di Casamari – Cenni storici tra cui l’uccisione di alcuni monaci nel 1799 da parte dei francesi e l’incendio appiccato dai piemontesi all’Abbazia – La morte dell’abate dell’Abbazia per Coronavirus nel 2020;
6.      Bernard di Clairvaux mandò in Calabria dei monaci provenienti dall’Abbazia Reale di Santa Maria di Moreruela (Zamora – Spagna);
7.      L’Abbazia Cistercense di Santa Maria di Sambucina – Filiazione di Clairvaux o di Casamari ?
8.      Le Filiazione dell’Abbazia di Santa Maria di Sambucina;
9.      L’Abbazia cistercense di Badiavecchia (Novara di Sicilia – Messina) – Sant’Ugo fu il primo abate – Le sue reliquie – La storia dell’Abbazia – La Chiesa – Il Trasferimento nel centro di Novara di Sicilia, la nuova Abbazia  e l’espulsione dalla città – La descrizione delle Reliquie costituite anche da grandi opere d’arte – Cenni di vita economica  e la questione giuridica il merito ai Feudi Carcaci e Pietra Rossa.
10.  Abbazia di Santa Maria di Spanò (Randazzo  - Catania) – Architettura – la Storia dell’Abbazia – I due documenti dell’Archivio di Siviglia – Il Termine “Spanò” – I Templari a Spanò e il loro Simbolo;
11.  Le Tracce dei Cistercensi a Badiavecchia (foto);
12.  I Monaci Cistercensi e il Lavoro – La grande progettualità,  le attività agricole, i commerci, le produzioni tra cui il Grana Padano
13.   La Regola di San Benedetto (da Norcia) (file)

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1.      Introduzione: L'Abbazia di Santa Maria di Spanò (Randazzo – Catania)






Abbazia di Santa Maria di Spanò - Randazzo (Catania)

Con il termine “Spanò” è identificata una piccola catena montuosa che si trova ad occidente dell’Etna sulla cui sommità nordoccidentale sorge l’antica città di  Troina.
È un arco montuoso che è segnato nei due fianchi dai due fiumi che portano il nome di “Troina” a Nord, delimita la valle di Bolo con i due castelli di Bolo e di Torremuzza, e di “Sotto Troina” a Sud che confluisce nel Salso, a sua volta affluente del Simeto.
La città di Trayna era abitata in prevalenza dai greci e venne eletta dai Normanni a capitale dell’isola. Un titolo legato ad aspetti logistici perchè serviva da caposaldo militare per la conquista dell’isola in potere dei Musulmani.
Da Trayna l’esercito normanno avrebbe proseguito la sua marcia di conquista verso l’interno dell’isola. A dimostrazione dell’importanza della città già nel 1079-1082  lo stesso Ruggero il Normanno v’insediò un vescovo (Roberto, cugino di Ruggero, che tra il 1065 ed il 1078, fece costruire la Cattedrale) e nel 1088 vi accolse il papa (Urbano II, il cui nome era Ottone o Oddone de Chàtillon detto di Lagery ).
Nel 1253 il casale di Spanò, con i casali di Bolo e di Maniace, faceva parte di presidi nevralgici militari con collegamenti visivi per controllare da “Trayna” l’imbocco delle valli di Cutò, Saracena e Flascio che permettono il superamento dei Nebrodi.
Oggi con il termine Spanò è indicata una contrada a Sud-Ovest del territorio di Randazzo caratterizzata dalla presenza di Monte Castellazzo che con i suoi 741 m s.l.m. consente un collegamento visivo con Adrano, Centuripe, Agira, Trayna e Cesarò. Lungo i suoi fianchi occidentali si trova il “Castello sottano” con la chiesa di Santa Maria La Stella mentre nella sua parte orientale si trova il famoso “Ponte dei Saraceni” sul Simeto.




Al Idrisi scriveva nella metà del XII scolo come  Trayna sia “un castello da rassomigliare a città” e Randazzo “villaggio… il cui mercato è animato di mercanti e di artigiani, abbondano (il territorio) di legname che si esporta in molti paesi” e aggiunse “ pare una piccola città”.
Nella città di Trayna c’era un castello, dove il Gran Conte conservava il suo tesoro, di cui rimane oggi la torre inglobata come campanile della Cattedrale e che forse faceva parte di una cinta muraria.

La Torre (Troina – Enna)

Nel 1096 la sede vescovile fu trasferita da Trayna a Messina e nel 1166 Trayna e Randazzo figuravano entrambe come “parrocchie” del vescovo messinese.

Nel 1198, nel 1216 e nel 1237 Trayna venne definita “civitas” e Randazzo soltanto “parrocchia”.
Fra il 1173 ed il 1174 l’antico Monastero basiliano di Maniace, forse abbandonato e spopolato, venne donato all’abazia benedettina di Santa Maria la Nova di Monreale, cui seguirono le esenzioni del vescovo di Messina.
Nel 1263  era vescovo di Messina Giovanni Colonna (agosto/settembre 1255 – deceduto, 11 ottobre 1253) dell’Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani).
In questo contesto politico e sociale nel settembre1263 un certo “Nicolaus de Trayna” fondò “ab ipsis fundamentis” (dalle fondamenta, ex novo),  “in penitenza dei suoi peccati”,  un monastero “ad honorem Beatissime semper Virginis Marie ecclesiam Sancte Marie de Spano in situ et territorio Trayne” per la quale stabilisce che deve “cistercensi ordini subiacere”.
La chiesa venne al momento della fondazione dotata anche di un notevole patrimonio fondiario con beni immobili che provenivano da alcuni concessioni del re Ruggero.
L’edificio è distante circa 15 km da Troina e 30 km da Randazzo.
Lo storico Rocco Pirri chiamò la Chiesa “Santa Maria De Stella” e citò anche la sua dotazione riferendo anche che il feudo di Spanò fosse “in Randatii ditione posito”.
Secondo il Fazello  il monastero venne edificato a spese di “Nicola Spano, Troinese, e poi arricchito notevolmente dalla liberalità dei suoi eredi..”
La presenza del Monastero Cistercense di Santa Maria di Spanò pone interrogativi importanti.
Quando i Cistercensi s’insediarono in Sicilia ? Quali furono i loro monasteri ed ebbero dei contatti con i Templari ?
 Sono tutti interrogativi importanti in riferimento ad una pagina di storia non citata, una delle tante, sulla Nostra Sicilia  e quindi dimenticata.
Questo determina anche un mancato rispetto del monumento e dell’ambiente in cui sorge.  Il senso di rispetto  nasce anche dalla conoscenza storica del luogo.

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2. L’Ordine  Cluniacense
L’Ordine Cistercense sorse all’interno della Congregazione Cluniacense dal desiderio di alcuni monaci di vivere in maggiore austerità, tornando al lavoro manuale ed alla stretta osservanza della Regola di San Benedetto.

Nel IX secolo in Francia erano presenti diversi ordini monastici che spesso erano in conflitto tra di loro a cause delle diverse ideologie. Il più antico ordine fu quello “Cluniacense” così chiamato perché sorse dall’abbazia di Cluny, nella regione della Borgogna.
La Congregazione Cluniacense s’ispira quindi alla Regola Benedettina e i suoi religiosi pospongono al loro nome la sigla “O.S.B.Clun”.
Fu istituita il 2 settembre 909 quando Guglielmo I “Il Pio”, duca d’Aquitania, donò la “villa” di Cluny a Bernone, abate di Baume, per fondare un monastero di dodici monaci sotto la regola di San Benedetto.
Fu sotto l’abate Oddone (morto nel 942) che la regola “cluniacense” fu adottata da altri monasteri che formarono attorno all’abbazia di Cluny un vero e proprio impero monastico di priorati autonomi ma sottomessi al governo comune dell’abate di Cluny.
Molte chiese e priorati vennero sottratti all’autorità vescovile e cominciarono a dipendere dall’ordine monastico.
L'Abbazia di Cluny




L’ordine si fece subito portavoce della Riforma Gregoriana, iniziata da Gregorio VII, attraverso la quale la Chiesa cattolica, coinvolta nella Lotta per le Investiture, s’impegnava a riaffermare la propria supremazia sul potere temporale dell’Imperatore del Sacro Romano Impero.
(La Riforma partiva dalla constatazione che i patrimoni ecclesiastici si trovavano depauperati dalla forte ingerenza delle aristocrazie. La riforma quindi aveva diverse direttrici: ottenere un rafforzamento dei patrimoni e quindi della forza d’intervento sia politico che spirituale degli enti ecclesiastici e agire, non come sarebbe accaduto in seguito, considerando le aristocrazie laiche come necessariamente estranee alle chiese, bensì organiche e necessarie al governo; modificare il genere di vita del clero, promuovendone la vita comune a imitazione del modello monastico (una vita vissuta con maggiore rigore per realizzare un modello di chierico assimilato al monaco, fortemente distinto dalla comunità di cui faceva parte).
Non era più accettabile che persone sposate potessero accedere agli ordini sacri e si mirava quindi al principio del celibato del clero, mentre i chierici legittimamente ammogliati fino a quel momento erano accusati di “nicolaismo”. Si mirava a combattere la “sinomia” cioè l’assunzione di cariche ecclesiastiche dietro versamento di un prezzo. C’era nella riforma il desiderio di un rinnovamento per ritornare alla purezza originaria della Chiesa  cioè la “Ecclesiae primivitae forma”.
L’opera di Gregorio VII era quindi rivolta alla “clericalizzazione del Clero” cioè la volontà e la capacità di distinguere i membri del clero rispetto agli altri gruppi sociali, nonché di assumere, da parte degli ecclesiastici, il controllo capillare dello spazio, dei simboli, delle liturgie e di tutti gli aspetti della sacralità.
Il secondo principio era quello di estromettere, quindi direttamente collegato al primo, i laici da tutto cioè che riguardava il governo della chiesa. Il terzo principio era l’estromissione dell’imperatore, ritenuto equiparabile ad un laico, da tutto ciò che riguardava la gestione del sacro, a cominciare dalle investiture dei vescovi (Lotta per le Investiture).
C’era anche la visione della sostituzione dei quadri di riferimento generali cioè passare da un idea di “societas christiana” ordinata nell’appartenenza all’Impero Romano, ad un’idea di “societas” ordinata nell’appartenenza alla Chiesa Romana. La centralità della Chiesa romana e del suo vertice, il pontefice, fu la grande novità che portò avanti Gregorio VII e che non portarono alla sua vittoria. Deposto più volte riuscì ad ottenere il perdono dell’imperatore a Canossa. Fu un grande  papa riformatore e  propugnatore di un’idea altissima del pontificato romano. Ma fu anche denigrato con toni molto accessi dai suoi fedeli ed oppositori e l’ultimo suo atto fu il tentativo di recuperare Roma con l’aiuto dei Normanni che portò al saccheggio della città (1084) e alla sua fuga verso Salerno dove morì e fu sepolto nel 1085).
L’ordine clunicense si schierò quindi contro i reati di “simonia” e di “nicolaismo” che avevano contribuito a determinare la decadenza delle istituzioni religiose e della fede.
La “simonìa” era, come abbiamo visto, la tendenza a comprare le cariche ecclesiastiche. Un comportamento molto diffuso nel medioevo che prendeva spunto da Simon Mago che, in un episodio narrato negli Atti degli Apostoli, aveva tentato di ricevere grazie da San Pietro offrendogli in cambio del denaro.
Il “nicolaismo” era invece una dottrina nata nel I secolo d.C. con Nicola d’Antiochia che prevedeva, tra i molti precetti, la negazione della natura divina di Gesù Cristo.
 I cluniacensi combattevano quindi questi comportamenti ed erano devoti alla Regola di San Benedetto “Ora et Labora” (Prega e Lavora) a cui aggiungevano anche una estrema devozione estrema verso i propri confratelli e il precetto di celebrare la messa quotidianamente.





A causa delle numerose proprietà di cui disponeva, l’ordine iniziò con il tempo ad essere accusato di corruzione e di attaccamento ai beni materiali dagli stessi religiosi del tempo.  Nell’ XI secolo alcuni monaci sentirono il bisogno di osservare una vita religiosa più conforme alla Regola di San Benedetto e, lasciando l’abbazia madre di Cluny. decisero di ritirarsi in altri luoghi fondando spesso dei cenobi.


3        Ordine Cistercense

L’Ordine Cistercense (“Ordo Cisterciensis”, sigla ” O.Cist”) ebbe origine dall’abbazia di Citeaux, in latino “Cistercium”.
 Roberto di Molesme esponente di una nobile famiglia della Champagne e priore di numerosi monasteri Benedettini, dopo un esperienza eremitica condotta nella foresta di Collan,  nel 1075 fondò un monastero benedettino riformato a Molesme, in Borgogna, diventandone abate.
Il monastero diventò una ricca abbazia con alle dipendenze circa una trentina di priorati e Roberto, sempre desideroso di mettere in pratica una stretta osservanza della regola di San Benedetto, lasciò due volte  Molesme per fondare una nuova comunità. Verso il 1090 andò ad Aux e il 21 marzo 1098 con 21 confratelli, con l’approvazione del legato pontificio Ugo di Romans e sotto la protezione del duca Oddone I di Borgogna, fondò una nuova comunità monastica a “Cistercium”, luogo umido e malsano, oggi Citeaux nei pressi di Digione. 

Roberto di Molesme


Qui il visconte Rainaldo (Raynald) di Beaune  donò una chiesa e dei terreni in un territorio acquitrinoso, sparso di cespugli di rose selvatiche (Cistels).
Per sottolineare i loro propositi di condurre un più austero stile di vita nel “novum monasterium”, i monaci della comunità rinnovarono i loro voti davanti al visconte Raynald.
In monaci in quello spazio deserto situato nella diocesi di Chalon,  con il consenso vescovile e del proprietario del terreno, cominciarono a tagliare ed estirpare piante e rovi e a costruire delle baracche in legno grazie all’aiuto economico di Oddone I.
Nell’estate del 1099  Roberto fu invitato “imperiosamente dal legato pontificio di Urbano II e da numerosi vescovi “ a riprendere il proprio posto di abate nell’Abbazia di Molesme  dove morirà nel 1111. I monaci elessero come suo successore Alberico (abate dal 1099 al 1108) che riuscì ad ottenere da papa Pasquale II l’approvazione del suo monastero secondo le regole di San Benedetto e con il “Privilegium romanum” del 19 ottobre 1100, la sua libertà da intromissioni di autorità ecclesiastiche o secolari.


Alberico costruì un nuovo monastero in pietra che fu aperto nel novembre 1106.
Ad Alberico (morto  il 10 gennaio 1109) subentrò l’inglese Stefano Harding (abate dal 1109 al 1133) che aveva studiato presso l’abbazia di Sherborne e successivamente a Parigi e a Roma.
Aveva conosciuto la vita monastica di Cluny, Camaldoli e Vallombrosa ed era entrato tra i monaci di Molesme per poi alla fine aderire al gruppo riformato di Citeaux.
Nella primavera del 1112 entrò nella comunità il nobile Bernard  di Fontaines (San Bernardo di Chiaravalle)  con trenta compagni.

Alberico e il suo successore, l’inglese Stefano Harding, riuscirono ad affrontare e superare il compito di dare al nuovo monastero una nuova liturgia più fedele alla regola di San Benedetto. Sistemarono i problemi amministrativi e crearono il sistema di frati conversi riuscendo ad impedire ogni ingerenza esterna anche se benevola.
L’abate Harding vietò al duca di Borgogna di tenere corte nel monastero, com’era invece tradizione, dato che ne era stato il principale benefattore.
La classe aristocratica decise quindi di sospendere le donazioni, costringendo i monaci, nei due anni seguenti, a vivere in ristrettezze e a mendicare un pezzo di pane. C’era il rischio incombente di dover abbandonare il progetto del nuovo monastero.
Il vescovo di Chalon lanciò un appello in favore del monastero di Citeaux che si riprese economicamente. L’abate accettò terre, vigne, granai permettendo al nascente Ordine di sopravvivere e di consolidarsi.
Un attività non solo spirituale, amministrativa ma anche culturale perché in breve tempo si riuscirà a creare un biblioteca che conterà ben 10.353 volumi di codici ed oggi custoditi nella biblioteca di Digione.
Il grande merito di Stefano Harding fu quello di possedere una personalità non comune per l’epoca, che lo portò ad una concezione “europea”, nonostante la sua appartenenza alla Regola monastica di San Benedetto.
Aveva capito che la Cristianità occidentale passava attraverso differenze etniche, culturali, socio-politiche, giuridiche, linguistiche... Dieci anni di studi classici e venticinque trascorsi a conoscere le realtà dell'Europa del tempo.

Si potrebbe considerare come il capo storico del movimento Cistercense, destinato a trasformare la Cristianità. Con Harding l’Ordine si ingrandì. Volle stabilire due teste di ponte: una che andava in direzione del mondo germanico e oltre; l’altra che andava nel fulcro del Regno Francese.
Riuscì in un breve periodo a creare quattro filiazioni dell’Abbazia madre come vedremo più avanti e nell’ultima, quella dell’Abbazia di Clairvaux, ebbe l’appoggio di Bernard (San Bernardo di Chiaravalle – Clairvaux) che ebbe un importante ruolo nella diffusione dell’Ordine.
La strategia di Stefano Harding era quella di costruire una “rete” di Abbazie autosufficienti e comunicanti tra di loro. Una comunicazione sotto un’unica Regola, con una propria arte, architettura, musica, economia, politica organizzativa e l’abbazia di Morimond fu la base centrale, per la sua posizione geopolitica,  per l’espansione verso l’Est.
Nel periodo compreso tra il 1114 ed il 1121 erano sorte nove abbazie che a loro volta aveva dato vita ad altre abbazie…. Clairvaux riunirà alla fine ben 350 abbazie “figlie”, Morimond  240…
La rete stava assumendo delle proporzioni veramente gigantesche. Padre Harding sospese ogni ulteriore costruzione di abbazie tra il 1121 ed il 1131 per fondare altre tre abbazie tra il 1131 ed il 1133, anno in cui diede le dimissioni.

Roberto di Molesme, Stefano Harding ed Alberico I

Un foglio della Bibbia di Stefano Harding

Negli anni 1130 – 1132   l’abate Stefano Harding, che aveva già come prezioso collaboratore Bernard di Chiaravalle, era tenuto in grande considerazione da papa Innocenzo II.  In quel periodo il papa chiese  ad Harding di intervenire come “mediatore e giudice” nella contesa tra l’abate Erberto di Saint-Etienne in Digione e l’abate Erberto di Saint-Seine a proposito del possesso delle chiese di Estaule e di Dairè e delle relative decime “cum decimis possessio”.
Il 3 dicembre 1130 Innocenzo II scrisse al vescovo Guglielmo di Langres per invitarlo a farsi aiutare da Stefano di Citeaux e da Bernard di Clairvaux per cercare di porre termine alla questione.  Il 4 novembre 1131 il papa scrisse a Stefano per chiedergli di concludere quella controversia. Il papa mostrò di avere grande stima di Stefano e si rivolse a lui definendolo “uomo saggio, equilibrato e religioso”.
Il 30 dicembre 1131, il papa informò il vescovo di Langres dell’incarico conferito a Stefano e a Bernard, e lo invitò ad adoperarsi per fare rispettare le decisioni che saranno prese. Il 12 febbraio 1132, Innocenzo II scrisse all’abate di Saint-Etienne per comunicargli di avere ratificato, “con la propria autorità, il giudizio formulato da Stefano, il quale da uomo religioso e amante della pace, aveva ascoltato le parti in causa e, con il consiglio di Bernard e di altre autorità religiose, aveva stabilito un’equa ripartizione delle proprietà e delle decime”.
Ma l’abate e i monaci di Saint-Seine non accettarono e rispettarono l’accordo. Infatti l’anno successivo, il 19 maggio  1133, Innocenzo II informò il duca Ugo di Borgogna di aver rinnovato la scomunica a quella comunità monastica, “poiché essi non avevano rispettato l’accordo” e con l’appoggio dello stesso duca “tuo favore perpetrata”, avevano assalito e saccheggiato l’abbazia di Saint-Etienne. Il papa presentò Stefano (Harding) come un “uomo sapiente”  e ammonì il duca “ se non vuole essere considerato corresponsabile dei mali che non ha voluto evitare, di fare rispettare l’accordo raggiunto grazie a un uomo così saggio e zelante e di evitare che Stefano venga ulteriormente infastidito”.
In precedenza il 10 febbraio 1132 Innocenzo II, acconsentendo alle “giuste richieste” di Stefano, inviò da Cluny la bolla “Habitantes in domo” con la quale confermava le proprietà di Citeaux, regolava le modalità di elezione degli abati e sottraeva i conversi cistercensi alla giurisdizione episcopale, accordava l’esenzione dalle decime e la sua protezione all’Ordine Cisterciense.
Nel 1133, dopo il 19 maggio, Stefano Harding diede le dimissioni da abate di Citeaux forse a causa della cecità, come successore venne nominato Guido, abate della prima filiazione di Clairvaux, cioè dell’abbazia di Trois-Fontaines. Guido, per motivi che non sono noti, si mostrò indegno dell’incarico e, dopo pochi mesi, venne costretto a dimettersi. Il suo nome non verrà mai inserito nella lista degli abati di Citeaux. Al suo posto venne scelto un monaco di Clairvaux, Rainardo di Bar (1133/1134 – 16 dicembre 1150).
Stefano Harding morì il 28 marzo 1134 e venne sepolto nella primitiva chiesa di Citeauux, accanto ad Alberico. I due corpi vennero poi trasferiti nel grande chiostro, a fianco della nuova chiesa, iniziata nel 1140 e consacrata nel  1193, dove vennero sepolti anche gli altri abati. I testi di tutti, purtroppo, saranno dispersi all’epoca della rivoluzione francese.

Le abbazie crescevano con una media paurosa… una abbazia all’anno.
Un sistema economico perfetto perché ogni abbazia aveva un sistema di grange o dipendenze, vere e proprie aziende agricole che producevano..
Un sistema che si propagò in tutta l’Europa medievale.

Abbazia di Citeaux

Abbazia di Citeaux

Navata Centrale della Chiesa

Stemma dell’Abbazia di Citeaux

Il sempre crescente numero di persone desiderose di fare parte della comunità rese necessaria la fondazione di monasteri filiali:

Le “filiazioni” dell’Abbazia di Citeaux



-          La Fertè nel 1113;


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-          Pontigny nel 1114;




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-          Morimond;





Morimond – Cappella di Santi’Orsola

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-          Clairvaux (o Chiaravalle) nel 1115.





Cappella di Sant'Anna


Il Monastero di Clairvaux  fu fondato da Bernard di Fontaneis, nominato abate, e da dodici monaci.
Le quattro abbazie furono chiamate “abbazie primigenie”.
Bernard diede un contributo notevoli alla diffusione dell’ordine in tutta Europa ed al consolidamento del suo assetto organizzativo. Monasteri affiliati a Citeaux sorsero anche al di fuori del territorio francese, in Italia, Renania,  Svizzera, Spagna, Svezia  ed Isole Britanniche.
L’Ordine Cistercense fu il più accanito oppositore dell’Ordine Cluniacense, che all’epoca era ritenuto il più potente ordine monastico conosciuto in Francia. Nelle sue prestigiose scuole cluniacensi si erano formati numerosi religiosi, tra cui alcuni papi, e lo stesso ordine era molto stimato dalla Chiesa.
Fin dalla sua nascita l’Ordine Cistercense fu caratterizzato da un estremo rigore morale e da un’assoluta povertà per cercare di differenziarsi il più possibile dagli usi e dai costumi dell’abbazia di Cluny. Perfino il colore dell’abito monacale era bianco per contrapporsi all’abito nero dell’ordine benedettino indossato dai cluniacensi.

Monaci Cistercensi a Lourdes

L’Abbazia di Citeaux fu più volte saccheggiata: nel 1360, 1365, 1434 e 1438.
All’inizio del XVI secolo, malgrado le sue vicissitudini,  contava 200 monaci.
Nel 1698, a causa delle guerre di religione (cattolici e protestanti), contava 72 monaci.
Durante la Rivoluzione Francese l’abbazia fu purtroppo confiscata e venduta
a degli speculatori che dopo averla orrendamente saccheggiata,
la smantellarono per venderne le pietre da costruzione.
 Diventò, almeno per quello che rimase, una residenza e successivamente
una fabbrica di zucchero, una colonia industriale ed infine
una colonia penale per ragazzi…!!!!!!!!
I monaci riuscirono a riacquistarla solo nel 1898. Delle antiche costruzioni
erano rimaste abitabili solo: la biblioteca, costruita nel XV secolo, comprendente
al pianterreno i locali dello “scriptorium” dove venivano eseguiti i codici
per la biblioteca (1250); il “Definitorio”, l’edificio dove si preparavano
i lavori dei capitoli Generali dell’Ordine, del XVII secolo; il grande edificio
abbaziale costruito nel XVIII secolo e dove ancora alloggiano i monaci.
La chiesa fu ristrutturata nel XX secolo ed era stata costruita per la
colonia penale e purtroppo della Chiesa originaria s’è persa la visione

Un aspetto importante della Riforma Cistercense era legato alla Regola
Benedettina in merito al lavoro manuale. Nelle abbazie Cluniacensi i monaci
si dedicavano quasi esclusivamente ad attività non manuali mentre i
cistercensi, fra le tante attività, avevano una grande considerazione del
lavoro agricolo. Si deve infatti ai monaci Cistercensi l’elaborazione di
tecniche che ancora oggi sono valide per la vinificazione del vino detto “Borgogna”.
Citeaux era tra i maggiori proprietari terrieri della ristretta zona dove il
Celebre vino nacque ed era nota come “Cote de Beaune” e “Cote de Nuits”.
Il giorno di Natale del 1098, pochi mesi dopo la fondazione, il monastero
ottenne in dono un vigneto nei pressi di Meursault.
In pochi anni seguirono altre donazioni di vigneti in luoghi prestigiosi come
Chambolle, Aloxe Corton e Les Petits-Musigny.
I monaci cominciarono quindi a recintare e sfruttare il famoso “Clos de Vougeots”,
il più famoso vigneto al mondo. Accanto a questo vigneto costruirono
un “cellier”, una cantina e una “cuverie”, edificio per
la vinificazione. Grazie alle sperimentazioni dei monaci e anche dei conversi, la vinificazione in Borgogna raggiunse  ben presto punte di altissimo livello e già nel
XIII e XIV secolo il Borgogna era il miglior vino del mondo.
I cistercensi si dedicarono alla sperimentazione in tutte le aree dove
sorsero i loro monasteri ma è a Citeaux che l’attività vinicola sorse
e continuò fino alle spoliazioni.

Cheatau “Clos de Vougeots” costruito verso il 1551 dai Cistercensi



L’Abbazia di Citeaux è ancora oggi dell’Ordine dei Cistercensi con la sede di una comunità dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza (circa 35 membri). Sono presenti gli edifici dell’antica abbazia che datano dal 1260 (resti del chiostro) al XX secolo (Chiesa Abbaziale).

L’Abbazia di Clairvaux, “Chiaravalle “ in italiano) si trova nell’odierna Ville-sous-la-Fertè a circa 15 km da Bar-sur-Aube in Francia.
Attualmente è una prigione.

Sorse nel 1115 , contemporaneamente all’abbazia di Morimond, entrambe come abbiamo visto filiazione dell’Abbazia di Citeaux, sulle terre e con l’aiuto economico di Ugo I di Champagne, nella diocesi di Langres.
Il luogo si trovava in una radura molto isolata ricca d’acqua e di legname, elementi indispensabili per la creazione dell’abbazia cistercense.
La solitudine, l’isolamento e l’autosufficienza erano elementi fondamentali per la creazione di un’abbazia cistercense secondo la regola di San Benedetto.
Fu creato il convento per monaci e conversi, la chiesa (con tre altari di cui uno alla Vergine e gli altri due a San Lorenzo e a San Benedetto) ed anche gli edifici di servizio come mulini, cucine. ecc,. Tutti edifici che si raggrupparono attorno ad un chiostro.
La struttura primitiva si trovava a circa due km ad ovest dall’odierna abbazia, su un colle e circondata da una fitta foresta.
Nel 1135 sembra che fu Bernardo che decise di spostare l’abbazia in un luogo più pianeggiante e anche più adatto ad accogliere un comunità monastica più numerosa.



I primi anni di fondazione furono difficili ma grazie alla santità dell’abate Bernardo, l’abbazia diventò uno dei centri più importanti dell’Ordine Cistercense. Nel 1145 uno dei suoi monaci fu eletto papa con il nome di Eugenio III.
Nel 1201 l’abbazia aveva già mille atti di donazione da parte di fedeli più o meno illustri. Nel XIV secolo le donazioni subirono una forte contrazione a causa della presenza nel tessuto sociale e religioso degli ordini mendicanti. Comunque grazie alla donazioni l’abbazia fece degli investimenti immobiliari che crearono altri notevoli fonti di reddito.
Bernard de Fontaine (Bernardus Claravallensis) (Fontaine lès Dijon, 1090; Ville-sous-la-Fertè, 20 agosto 1153) grazie anche alla sua opera aveva costituito un abbazia che contava ben 700 religiosi fra le proprie mura ed oltre 150 conventi affiliati sia in Francia che all’estero.



Apparizione della Vergine a San Bernardo di Chiaravalle
(Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino -
Città della Pieve, 1448 circa – Fontignano, febbraio 1523)


Bernard alla sua morte nel 1153 fu sostituito dal monaco Laurent. La chiesa era ormai piccola e il Laurent durante un suo viaggio in Sicilia ricevette da Guglielmo I (il Malo) di Sicilia la somma per edificare una basilica più grande. Basilica che fu consacrata nel 1174. In merito c’è da dire che anche Enrico II d’Inghilterra nel 1178 donò dei fondi necessari per realizzare una copertura di piombo e l’abate in senso di riconoscenza donò al re una reliquia di Bernard, che da poco era stato canonizzato: il suo dito.

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4. I Rapporti tra i Normanni e i Cistercensi
 Bernard di Chiaravalle e Ruggero II d’Altavilla


Ruggero II d’Altavilla, grazie anche alla mediazione e sostegno di papa Innocenzo II, malgrado i precedenti rapporti difficili e contrari tra lo stesso sovrano e il papa, chiese all’abate di Chiaravalle di inviare nel Regno di Sicilia alcuni monaci.
I rapporti tra la casa d’Altavilla e Bernard di Chiaravalle non erano dei migliori e per questo motivo malgrado gli inviti di Ruggero II, l’abate rispose sempre in modo negativo.
Solo negli ultimi anni del 1140 – 1150, dietro l’ennesima richiesta di Ruggero II, acconsentì all’invio di alcuni monaci che provenivano dal Monastero Reale di Santa Maria de Moreruela in Spagna e non Moterola come riportano alcuni testi su Internet (“Motorola” è un marchio di cellulari !!!!!!!).
Inizialmente i monaci si stabilirono in Calabria, nel monastero di Santa Maria Requisita Nucis. Un monastero fondato nel 550 dai bizantini e che diventò , grazie all’arrivo dei cistercensi, Abbazia di Santa Maria della Sambucina (Cosenza). Fu questa la prima abbazia cistercense nell’Italia Meridionale.

I contrasti tra Bernard di Chiaravalle e Ruggero II d’Altavilla nascevano dalle posizioni che il Normanno assunse nei confronti dell’elezione di un antipapa, avvenuta nel 1130, e della guerra civile che vedeva contrapposti due grossi schieramenti militari: da un lato i baroni e le città della Campania e della Puglia e dall’altra la monarchia siculo-normanna di Ruggero II.
Il monaco cistercense cercò di svolgere il suo importante ruolo diplomatico  per   trovare una soluzione ai problemi politici e religiosi del suo tempo.
È una pagina di storia forse poco conosciuta perché diede origine ad un antipapa (il 28mo della storia).
Nel febbraio 1130 il papa Onorio II (Lambero Scannabecchi) era in condizioni gravissime di salute. Il cardinale Pietro Pierleoni, uno dei più influenti, aveva  tra i suoi obiettivi il soglio pontificio. Aveva l’appoggio di un discreto, anche se non maggioritario, numero di esponenti del sacro collegio cardinalizio e godeva di un notevole prestigio presso molte famiglie aristocratiche e soprattutto verso il popolo grazie alla sua ricchezza e liberalità. Ai suoi piani, certamente non celati, s’opponevano altri cardinali che costituivano il partito “ildebrandino” (da Gregorio VII – Ildebrando di Soana, morto nel 1085) che era capeggiato dalla potente famiglia dei Frangipane.

Famiglia Francipane che sostenevano per l’elezione papale un proprio esponente, il cardinale Aimerico Frangipane.

Papa Onorio II

C’erano quindi due famiglie aristocratiche che si contrapponevano: i  Pierleoni e i Frangipane.


I due leoni tengono quattro pani

La famiglia Frangipane o Frangipani in precedenza aveva avuto delle condotte scandalose  in occasione dell’elezione del pontefice.
La notte di Natale del 1075 mentre a Roma nella basilica di Santa Maria Maggiore, il papa Gregorio VII stava celebrando la messa, Cencio Frangipane, forse su istigazione di Guiberto arcivescovo di Ravenna ed aspirante al papato, entrò in chiesa con le sue milizie. Prese il papa e lo malmenò per poi rinchiuderlo in prigione in uno dei suoi castelli.
Il popolo corse in aiuto del papa e il Frangipane fu costretto a liberare il papa e il Frangipane fu salvato dal linciaggio grazie all’intervento dello stesso papa. Gregorio VII tornò in chiesa e riprese la funzione da dove era stata interrotta come se non fosse successo nulla.
Nel 1119 un altro avvenimento simile quando fu eletto papa un monaco cassinese, Giovanni di Gaeta che prese il nome di papa Gelasio II.
 Sempre Cencio Frangipane corse in Laterano con la sua squadra di armati, entrò in chiesa e prese l’anziano pontefice portandolo fuori nel sagrato a forza di calci e pugni.
Il pontefice fu rinchiuso in una prigione e ancora una volta il popolo accorse in aiuto del papa.
Cencio Frangipani fu costretto a rilasciare il pontefice che lo perdonò.

Tolfa (Roma) – Uno dei castelli dei Frangipani


A titolo di cronaca c’è da aggiungere che la famiglia Frangipani si macchiò della grave colpa d’ignominia  in una pagina di Storia Siciliana.
Giovanni Frangipane, signore di Astura, nel 1268 tradì Corradino di Svevia il quale sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo dalle truppe angioine e del pontefice, gli  chiese riparo e protezione per tornare in Germania e preparare una nuova offensiva contro gli Angioini. Il Frangipane, sperando di ottenere onori e privilegi da Carlo I d’Angiò, nuovo re di Sicilia, consegnò Corradino in mano ai suoi nemici che lo decapitarono a Napoli nella Piazza del mercato. Si estinse in questo modo la gloriosa casata Sveva.
La flotta Siciliana, al comando di Bernardo Sarriano, fedele agli Svevi, per vendicare il tradimento nel 1286 occupò il castello di Astura ed uccise Michele, figlio di Giovanni Frangipane.

Castello di Astura


Il cardinale  Aymery de la Chatre, cancellire delle Curia, conoscendo le intenzioni del Pierleoni pensò  di ostacolarne i propositi.
Il pontefice Onorio II chiese di morire presso il monastero di Sant’Andrea. Un monastero particolarmente caro al pontefice e che era ubicato al Celio cioè nel territorio dei Frangipane.
I sostenitori di Pierleoni accusarono il cardinale Aymery di aver portato il papa in quel luogo per ritardare l’annuncio della sua morte ed avere quindi il tempo di organizzare accordi per l’elezione del nuovo papa contro il Pierleoni.
Lo stesso cardinale Aymery l’11 febbraio convocò  presso lo stesso monastero i cardinali, di cui riteneva di potersi fidare, per preparare la nuova elezione. Il resto della Curia rispose invocando l’anatema su tutti coloro che si accingessero all’elezione del papa prima della sua effettiva morte. Si chiedeva quindi il rispetto del decreto di papa Niccolò II del 1059, che regolava le elezioni papali, e la nomina di una commissione di otto cardinali elettori, in rappresentanza di ambo le parti, che avrebbero dovuto incontrarsi nella chiesa di Sant’Adriano ma solo dopo la sepoltura di Onorio II.
La chiesa di Sant’Adriano era stata chiesta, come luogo d’incontro, dai Pierleoni per evitare di essere sotto l’influenza dei Frangipane nella chiesa di Sant’Andrea. Il cardinale Aymery inviò delle guardie a presidiare la chiesa di Sant’Adriano  e i cardinali fedeli ai Pierleoni si videro quindi costretti a ritirarsi nella chiesa di San Marco.
Il 13 febbraio si sparse la voce sulla morte di Onorio II. La folla inferocita si recò presso la chiesa di Sant’Andrea ma fu sciolta quando il papa tremante e delirante s’affacciò dalla balconata. Onorio probabilmente  a causa dello sforzo sostenuto per la sua apparizione pubblica durante la notte spirò.
Secondo le  norme vigenti il corpo del Pontefice sarebbe dovuto rimanere esposto ai fedeli per tre giorni e poi sepolto. Solo dopo questi rituali si sarebbe potuto eleggere il nuovo pontefice. Aymary accelerò i tempi. Espletate le funzioni liturgiche fece trasportare la salma di Onorio II in Laterano. L’indomani   lo stesso Aymary e i 16 cardinali del partito “ildebrandino” si riunirono ed elessero un cardinale famoso per il suo zelo religioso, il cardinale Gregorio Papareschi, diacono di Sant’Angelo. I cardinali si portarono in Laterano, dove il nuovo papa prese il nome di Innocenzo II e quindi si ritirarono nella chiesa di Santa Maria in Palladio al sicuro, nuovamente in territorio controllato dai Frangipane.
La notizia raggiunse i quattordici cardinali che erano riuniti in San Marco i quali dichiararono che l’elezione di Innocenzo II non era canonica e si decise di eleggere papa il cardinale Pierleoni che scelse il nome di Anacleto II.


Iniziava uno scisma destinato a durare fino al 1138, anno della morte di Anacleto.
Pochi giorni dopo alcuni cardinali, elettori di papa Innocenzo, decisero di approvare l’elezione di Anacleto il quale finì per avere la maggioranza del collegio cardinalizio oltre che il consenso del popolo e di quasi tutta la nobiltà romana.
Nessuno dei due papi decise però di rinunciare alla nomina e scelsero lo stesso giorno, 23 febbraio, per la consacrazione: Innocenzo II in Laterano con poca folla ed in fretta, per tornare a rifugiarsi nella fortezza dei Frangipane sul Palatino; Anacleto in San Pietro, con gli onori e l'appoggio del popolo e dell'amministrazione della città in mano ai Pierleoni.
Anacleto avendo la maggioranza della popolazione dalla sua parte, il 15 febbraio ottenne il controllo del Laterano, e il 16 febbraio prese anche San Pietro, mentre Innocenzo perse progressivamente la sua influenza. Sembra che Anacleto, disponendo di molte ricchezze, comprasse la fedeltà di molti Romani a “suon dell'oro” ottenuto, secondo i suoi avversari, almeno in parte dalla spoliazione di alcune chiese. Comunque la sua famiglia era tra le più ricche di Roma e riuscì a reclutare fra i suoi partigiani anche personaggi appartenenti alla opposta fazione dei Frangipane, loro storici antagonisti. Da qui anche le accuse di “simonia” che Anacleto ricevette successivamente e riportate storicamente. 


Stemma della Famiglia Pierleoni

Ai primi di maggio Innocenzo lasciò Roma avendo compreso di non avere molte possibilità di successo anche perché il popolo romano non gli era favorevole.
Anacleto regnava a Roma mentre Innocenzo  cercava appoggio nelle varie corti europee e non solo. Si recò a Pisa, a Genova e successivamente in Francia ed in Inghilterra. Il suo viaggio importante fu in Germania dove ebbe il riconoscimento  ufficiale della propria elezione dall’imperatore Lotario II .
In Francia ottenne l’appoggio da parte di uno degli ecclesiastici più importanti del tempo, l’abate cistercense Bernard di Chiaravalle (massimo teologo del XII secolo) e dall’abate Sugerio di Saint-Denis.
Enrico d’Inghilterra lo salutò come papa legittimo e gli garantì il proprio appoggio.
Innocenzo II promise a Lotario II di Supplimburgo la corona imperiale purchè lo avesse riaccompagnato a Roma liberandolo dall’avversario Anacleto II.
Anche questo papa dunque usò quel ricatto che, da almeno tre secoli, era usato dai papi per vincolare a sé  ed ottenere il sostegno dei sovrani: il conferimento dell’imperium e della romanitas.


 Anacleto aveva solo l’appoggio del normanno Ruggero II, in cambio della promessa corona del Regno di Sicilia, e cercò di contrastare le mosse politiche di Innocenzo.
Per rendersi amico Lotario III, scomunicò il suo rivale al trono, Corrado di Hohenstaufen,  naturalmente inimicandosi la fazione che lo appoggiava.
Lotario non si lasciò influenzare e nell’ottobre del 1130  convocò a Wurzburg un sinodo di 16 vescovi che al termine della riunione si pronunciarono a favore di Innocenzo. Una linea del sinodo che seguiva quella di un precedente sinodo che si era tenuto un Francia ad Etampes alcune settimane prima.
Il 5 novembre 1130 Anacleto convocò un sinodo a Melfi, città cara ai Normanni e successivamente agli Svevi, che non fu considerato valido dalla chiesa cattolica perchè convocato da un antipapa.

Melfi (Potenza)

Fu in ogni caso un avvenimento importante per i suoi aspetti politici.
Anacleto istituì per la prima volta il titolo di “Rex di Sicilia” in un periodo in cui mancava un potere centrale nel sud Italia e il Ducato Normanno era in crisi. Anacleto elevò da Ducato a Regno il territorio posseduto dalla casata Altavilla e naturalmente incoronò a Melfi Ruggero II di Sicilia.  Lo stesso antipapa confermò a Ruggero II i titoli già concessi di Duca di Calabria e di Puglia e principe di Capua. L’incoronazione ufficiale fu definitivamente celebrata, alla presenza di un delegato pontificio di Anacleto come investitore, nel Natale del 1130 a Palermo.

Ruggero II ricevere la Corona da Cristo
Palermo – Chiesa della Martorana – mosaico


Re di Sicilia era un titolo, secondo gli storici, che il papa aveva istituito per l’occasione con i territori che erano stati bizantini. Questo atto si poneva come una vera usurpazione ai danni dell’impero poiché, in nome della comunità romana, tutti i territori perduti dall’impero d’Oriente venivano considerati spettanti a quello d’Occidente. Questo fu probabilmente uno dei motivi che spinse Lotario II ad intervenire con Ruggero II.
La vita politica di Anacleto e di Ruggero II si saldarono con un sottile doppio filo. Infatti i due sovrani si videro ben presto costretti a fronteggiare  due distinte spedizioni punitive imperiali.
Innocenzo II e Lotario II nella loro discesa verso Roma erano accompagnati da Bernardo di Chiaravalle. Le forze imperiali erano però esigue e non riuscirono a cacciare Anacleto da San Pietro. Innocenzo II incoronò l’imperatore Lotario II in Laterano il 4 giugno 1133.

Roberto di Capua e Rainulfo di Alife, abbandonato Ruggero II, si recarono subito a Roma per partecipare ad un importante curia convocata dall’Imperatore e a cui partecipò anche l’abate Bernardo.
L’esito della consultazione fu l’appoggio della Chiesa e dell’Impero alla causa della rivolta contro i Normanni.
Bernardo, a quanto sembra, si assunse il compito di creare una forte propaganda contro il re siculo.
Ruggero II era criticato dal monaco cistercense per diversi motivi:
1)      con il suo appoggio aveva legittimato l’antipapa Anacleto davanti ai romani ed ai suoi sudditi;
2)      impose il suo dominio su terre che appartenevano alla Chiesa; (un annoso problema che anche il padre di Ruggero II, Ruggero I, aveva dovuto affrontare così come i sovrani successivi e che prende il nome di “legazia Apostolica”;
3)      S’era appropriato di una corona che spettava all’Imperatore.
Il papa, Lotario II e lo stesso Bernardo ascoltarono le richiese del principe e del conte che chiedevano con insistenza l’aiuto della flotta pisana e genovese per "ricacciare il normanno al di là del Faro".
La vita politica di Anacleto subì un forte colpo e fu l’inizio di un inarrestabile declino.
Dopo una ventina di giorni Lotario tornò in Germania per fronteggiare una rivolta guidata dagli Hohenstaufen di Svevia.
Prima della partenza Bernardo gli ricordò che se  “si voleva insediare Innocenzo II a Roma occorreva togliere la corona a Ruggero II” definito "usurpartor siculus" e "tyrannus siculus".
Anacleto, che era rimasto asserragliato in Vaticano, approfittando della partenza dell’imperatore cercò di riprendersi il potere della città appellandosi al popolo e invocando l’intervento di Ruggero II che riuscì subito ad avere il controllo su Roma e sul suo territorio. Innocenzo lasciato solo fu costretto nuovamente a fuggire da Roma per tornare a Pisa.
Ma la situazione stava ormai volgendo al peggio per Anacleto dato che non aveva l’appoggio delle corti europee e degli stessi monaci cluniacensi, da cui proveniva, e che si erano schierati apertamente con Innocenzo II.
Anche lo stesso Ruggero II, ottenuta la desiderata corona, non aveva più interesse ad appoggiare Anacleto mettendo a repentaglio la sua vita e la stabilità politica e sociale del suo Regno.
Fino al 1134 sia Pisa che Genova non avevano mandato le flotte che erano state pagate per aiutare l’esercito imperiale e Bernardo scrisse ai Genovesi in termini alquanto adirati: "Ho saputo che avete ricevuto inviati del conte di Sicilia, non so cosa abbiano portato, né con che cosa abbiano fatto ritorno. A dir la verità con le parole del poeta Timeo Danaos et dona ferentes (=Temo i greci anche se portano doni; cita Virgilio) se scoprite che qualcuno di voi si è mostrato tanto corrotto da aver steso la mano per ricevere vile denaro, sinceratevene subito e giudicatelo come nemico del vostro buon nome e come traditore."
Il 1134 terminava con la vittoria di Ruggero, dopo la pace offerta da Rainulfo di Alife e l'esilio a Pisa di Roberto di Capua. Nel 1135, la guerra divampava ed era più cruenta di prima: Rainulfo, Roberto, Sergio di Napoli si rifugiarono nella città partenopea, l'unica città del Sud che Ruggero II non riuscì a conquistare.
Nel 1136, finalmente convinto da Bernardo (Bernard di Chiaravalle) e da Innocenzo II, Lotario II decise la spedizione nel Sud, alla quale si unirono i Pisani e le forze di Rainulfo e Roberto.

Si tentò la via diplomatica e fu indetto un incontro a Salerno nei primi mesi del 1137.
L’incontro fu un fallimento perché ciascuno cercò di avere la conferma delle proprie alleanze. Anacleto si rese conto che tutti gli ordini religiosi erano stati aizzati contro di lui dall’abile opera di Bernard di Chiaravalle e che solo i monaci di Montecassino continuavano ad essergli fedeli. Anche molti del nobili gli si erano schierati contro. Tra questi c’era anche il suo cancelliere pisano Pietro della Gherardesca.
All’incontro era presente anche Bernard che era ospite del metropolita salernitano, Guglielmo da Ravenna (?),  signore di Olevano e del santuario micaelico.

Olevano sul Tusciano (Salerno)
Grotta di San Michele Arcangelo



Battesimo di Cristo – IX secolo



Lotario II nella Pasqua del 1137 giunse ai confini della Puglia e conquistò: Castelpagano, Canne, Barletta ed altri territori. Giunse sotto le mura di Bari che si arrese dopo un accanita resistenza. 
“Il castello di Bari resistè quaranta giorni agli eserciti riuniti dell’imperatore e del pontefice; ma da ultimo fu vinto, ed i suoi prodi difensori parte trucidati, parte in mare sommersi”

Qui i tedeschi crearono il loro quartier generale in attesa dell’arrivo della seconda parte dell’esercito.
Lo storico (patriota, politico) Siciliano, Giuseppe La Farina (Messina, 20 luglio 1815; Torino, 5 settembre 1863 e zio di Annibale Maria di Francia) nella sua “Storia della Sicilia” citò gli avvenimenti: “ .—Nella Pasqua del 1137 Lottario entrò in Puglia, ed espugnò  Castel Pagano e Siponto. Di là mandò Corrado suo genero con alcune schiere verso castel Reggiano, che si arrese, e Monte Gargano, che resistè tre giorni, e poi si sottomise vedendo comparire il grosso dell’esercito guidato dall’imperatore. Questi trovò resistenza a Troia, a Canne e a Barletta, né seppe vincerla. Trani gli aprì le porte, e quivi furono sommerse otto navi del re (Ruggero II) venute a difesa della città”.

La seconda parte dell’esercito, guidato dal duca di Baviera, passando per Montecassino, raggiunse San Germano e puntò su Benevento. La città, dopo una breve resistenza, si arrese aprendo le porte ai tedeschi il 23 maggio. Anche la città di Capua  non oppose resistenza ed ebbe il ritorno del suo principe Roberto.
Da Benevento, passando per Troia, il duca di Baviera seguito dal Pontefice, si ricongiunse a Bari con l’esercito di Lotario II.
Ruggero II il Normanno perse i suoi domini pugliesi malgrado avesse offerto una pace vantaggiosa.
“Queste vittorie, le esortazioni di papa Innocenzo, l’eloquenza di San Bernardo procuratore di quella guerra, il malcontento dè baroni e l’inoperosità in cui rimase Ruggiero, fecero sì che gran parte della Puglia si sottomise a Lottario”.

Dalla Puglia gli eserciti di Lotario e del papa si postarono verso Melfi dove nel maggio 1137 si concentrarono nei pressi del castello di Lagopesole, sulla via Herculea che collega a Melfi ed alla Calabria, dove si accamparono per tutto il mese. ed assediarono l’ex capitale Melfi.


Assediarono la città di Melfi che fu conquista il 29 giugno, costringendo Ruggero II alla fuga.
Il papa Innocenzo II tenne il Concilio nel castello di Melfi (il quinto Concilio che si teneva nel castello) nello stesso anno 1137 dal 4 luglio al 18 luglio.
Il Concilio era naturalmente presieduto da papa Innocenzo II.
Tra gli ecclesiastici erano presenti: Rainaldo Abate di Montecassino, Pietro Diacono, Pandolfo Vescovo di Teano e forse Bernard di Chiaravalle; presente anche l’imperatore Lotario II.
Pietro Diacono, bibliotecario di Montecassino raccontò che la delegazione partì il 24 giugno 1137 (con Rainaldo e lo stesso Diacono, Pandolfo vescovo di Teano, Amfredo tesoriere, Mauro Curopolato, Pietro Maccabeo) e l’uno luglio arrivò a Lagopesole”.
Prima della convocazione del Concilio erano sorti dei contrasti tra il papa e l’imperatore sui diritti sul Monastero di Montecassino e per questo motivo fu convocato l’abate Rainaldo.
Le decisioni del Concilio furono:
-          La Deposizione definitiva dell’antipapa Anacleto II e quindi la caduta di tutte quelle norme che aveva instaurato tra cui il titolo di “Rex di Sicilia”;
-          La delegittimazione di Ruggero II di Sicilia della Casata degli Altavilla in favore di Rainulfo di Alife, della Casata Drengot, nuovo Duca di Puglia;
-          Il perdono ai benedettini di Montecassino, sostenitori dell’antipapa Anacleto II e l’annullamento della scomunica agli stessi monaci.

Ruggero II subì una grave ed umiliante sconfitta  morale. Il castello di Melfi era stato il luogo dove  era stato incoronato da Anacleto che aveva istituito il titolo di Rex di Sicilia.
Al rifiuto di trattare da parte di Lotario, Ruggero II non tentò di riconquistare subito i territori. Sapeva benissimo che tutte le spedizioni germaniche nell’Italia meridionale erano:
-          incursioni di breve durata;
-          conquiste che sarebbero sempre risultate dannose agli invasori per vari motivi: la perdita di uomini,  le conseguenze di un clima avverso; lo scoppio di epidemie o anche le diserzioni;
-          alleanze che non sarebbero durate a lungo dato che tutti avevano interessi contrari.
In base a queste considerazioni aspettò che la “tempesta” si dissipasse e con un rischio minore tentare successivamente di riconquistare i territori perduti.
La visione politico militare di Ruggero II non fu sbagliata. I contrasti tra gli invasori non tardarono nel verificarsi. I primi a disertare furono i Pisani che non riuscirono, come era nei loro propositi, a saccheggiare Salerno e subito dopo i dissidi tra Innocenzo II e l’imperatore tedesco.  Ognuno dei conquistatori vantava diritti sui territori conquistati e in particolare la disputa era sul possesso della ricca città di Salerno, sull’altro patronato di Montecassino e su altri territori.
Ben presto si passò dai dissidi verbali all’aspra lotta  quando si decise di dare un preciso assetto politico alla Puglia appena conquistata. Papa ed imperatore si trovarono d’accordo sulla scelta come Duca di Puglia di Rainulfo di Alife ma  il problema era legato all’investitura…. Chi doveva investirlo del ducato ?
Secondo il pontefice la nomina del duca gli spettava di diritto secondo un antico accordo tra Leone IX e il normanno Roberto il Guiscardo mentre l’imperatore tedesco  vantava, a sua volta, un diritto per il regalo fatto da Dragone ad Enrico III.
Dopo accese discussione la questione fu risolta in modo banale.. entrambi investirono  Rainulfo del Ducato. Nel gonfalone che fu consegnato al Duca c’erano le insegne del papa in un’estremità e quelle dell’imperatore nell’altra. Una bandiera a ”due facce”….




Lotario II ed Innocenzo II, trovato l’accordo, si separarono dopo aver confermato il possesso dei suo beni a Giovanni di Tuscolo giunto a San Germano per portare le insegne del patriziato all’imperatore. Lotario II cominciò a risalire l’Italia per tornare in Germania e giunto nell’Italia settentrionale s’ammalò.
Nel novembre 1137 si mise in viaggio per passare il valico del Brennero ma giunto a Tirolo, nei pressi del villaggio di Breitenwang, si dovette fermare per la gravità del  male. Fu portato in una misera capanna di contadini dove morì il 4 dicembre. La sua salma fu portata in Sassonia e sepolta nel convento di Lutter.
Verso la fine del 1137 Anacleto ormai aveva perso il suo controllo su Roma tanto che Innocenzo II datava le sue lettere e le sue norme con “Romae” anziché con il termine ambiguo di “in territorio Romano” come aveva usato in precedenza.

Lotario II aveva lasciato al Duca di Puglia Rainulfo un migliaio di soldati tedeschi. Ruggero II con un migliaio di soldati apparve sulla terraferma per scatenare l’’attesa controffensiva. Salerno gli aprì le porte, mentre Nocera, Capua ed Avellino, che avevano resistito, furono espugnate e saccheggiate. Il duca di Napoli chiese perdono e l’ottenne mentre Benevento scacciò i sostenitori di papa Innocenzo e si sottomise a Ruggero II.
Il papa temendo il Normanno e un suo possibile arrivo a Roma, gli inviò al campo Bernard di Chiaravalle con miti pretese. Il monaco non riuscì a mediare  perché il papa pretendeva la restituzione di Capua che Ruggero II non era disposto a cedere.
Il duca di Puglia Rainolfo non si lasciò scoraggiare dai successi militari di Ruggero II e  con un esercito composto da tedeschi e da milizie raccolte a Bari, Troia, Trani e Melfi, verso la metà d’ottobre del 1137 andò incontro al cognato Ruggero II a Ragnano.
Bernard di Chiaravalle fu incaricato di mettere d’accordo i due condottieri. Come abbiamo visto aveva più volte svolto dei compiti diplomatici e la sua capacità nel risolvere le ostilità o diatribe era nota.
“In questa società spesso violenta, Bernardo si sforza di indurre i responsabili  della lotta e della pace a un esame di coscienza basato su due punti: sui motivi che hanno di combattere e sul loro modo di farlo".(Leclerc)
Il monaco si prodigò affinchè i due evitassero di scontrarsi fra loro, per mettere invece al servizio dei valori religiosi, “l’arte” della guerra, e quel “gusto” proprio dei Normanni per l’avventura.  Bernard , malgrado i suoi problemi fisici, affrontò l’incarico con l’entusiasmo che gli si sprigionava da una forte carica interiore; sapeva attrarre a sé con il fascino che  gli si sprigionava in forma carismatica.
Era dotato di una straordinaria forma d’espressione e  lo stesso Rainulfo non gli era meno.
Bernard incontrò Rainulfo, duca di Puglia, e lo stesso monaco rimase profondamente colpito dall’umanità del Duca.
Il colloquio con Ruggero II fu invece un autentico disastro dato che il re Normanno dichiarò espressamente che non intendeva avanzare trattative di pace senza la preventiva rinuncia di Rainulfo al titolo ducale.
Il monaco s’adirò sul comportamento del re Normanno a tal punto che si augurò, nell’ ormai vicino scontro militare, la vittoria dell’esercito ducale.
La battaglia si svolse il 29 ottobre 1137 presso Rignano Garganico e fu una grave sconfitta per Ruggero II.
Il Palmeri riportò come le vittime nell’esercito regio furono “tre mila di loro, fra i quali il duca di Napoli e molti baroni, davanti agli Alemanni scatenati e al valore di Rainulfo”.

Ruggero con pochi seguaci riuscì a fuggire e a rifugiarsi a Salerno. Il vincitore Rainulfo morirà colpito da una terribile febbre nell’aprile del 1139.
Le città di Salerno e di Benevento offrirono al re dei soccorsi e degli uomini per metterlo in grado di ritornare sul campo di battaglia. Ruggero II non accettò l’offerta,
un rifiuto legato ad un preciso disegno militare. Rimettere in lotta un esercito scoraggiato dalla disfatta e con la vicina stagione invernale non era prudente.
“Immenso fu il bottino che conquistarono i vincitori, onde ciascun guerriero tornò ricco a casa sua. I Salernitani accolsero e tennero fede al vinto re, offrendosi di aiutarlo cogli averi e le persone: il medesimo fecero quei di Benevento, a’ quali Ruggiero concesse per privilegio l’esenzione di ogni tributo; ma egli non volle avventurarsi a una nuova giornata, prima di aver seco esercito rispondente alle forze nemiche; onde, munite le città e i castelli di maggiore considerazione, lasciò che Rainulfo di Alife occupasse senza contrasto i luoghi di minore importanza”.



La vittoria di Rainulfo non era definitiva era solo un evento bellico negativo e forse anche sfortunato perché le prime mosse militari avevano dato ragione all’esercito regio.
Dello stesso parere era anche Innocenzo II, sicuro che il normanno sarebbe tornato in campo, appena le condizioni lo avrebbero permesso, per scatenare l’offensiva in primavera. Innocenzo II era sempre più convinto che era necessario intavolare delle trattative di pace con il sovrano.
Innocenzo II mandò quindi dei legati a Salerno proponendogli di rimettere al suo giudizio la soluzione del grave problema dello scisma. La stessa cosa fece anche l’antipapa Anacleto.

Ruggero II, da buon diplomatico, senti le ragioni di entrambi le parti e stabilì di affidare la decisione della contesa ai vescovi siciliani e con i legati dei due pontefici in un Concilio.
Bernard, “uomo assai mirevole e prudente”, da vero diplomatico accettò anche le aperture che Ruggero II gli propose. La questione fondamentale era legata a chi doveva essere il papa di Roma: Anacleto o Innocenzo II ?
Ruggero II, come già accennato, propose tre esperti per ognuna delle parti che si sarebbero confrontati, anche con la partecipazione dei vescovi siciliani, in sua  presenza.
Bernard aggiunse che.. “ se l’Arca della salvezza è una sola, ci deve salire chi ha con sé tutto il mondo occidentale o chi si trova da solo “.

Ciascuno dei due papi inviò tre rappresentanti per sostenere la propria causa.
“….Da ultimo manifestavagli il desiderio: fra difensori d’Innocenzo disputassero in sua presenza con tre difensori di Anacleto; udite le ragioni pro e contro, si sarebbe dichiarato per colui, cui assisteva il miglior diritto, ed in servigio di quello avrebbe adoperato le armi…”.  Ruggero II si costituiva in questo modo a giudice del papato  appropriandosi di “un’autorità che era stata tolta agl’imperatori”.
Malgrado l’atteggiamento di Ruggero II, papa Innocenzo II accettò l’invito ed
inviò al re: Americo (Aymery de la Chatre) cancelliere; Gherardo cardinale e lo stesso San Bernardo”.
L’antipapa Anacleto II inviò: “ Matteo Cancelliere, Pietro Pisano e Gregorio cardinali”.
“Quattro giorni parlarono i difensori d’Innocenzo, quattro giorni quelli di Anacleto; ma Ruggero non volle dar sentenza, senza prima udire il consiglio de’ vescovi di Sicilia, per dove partì menando seco un legato d’Innocenzo ed un altro di Anacleto”.
Falcone di Benevento (Benevento, 1070; ?, 1144) storico longobardo notaio e giudice della curia pontificia a Benevento.. “il quale narra questi fatti, non dice quale fosse il parere de’ vescovi siciliani…”.




Non si raggiunse l’accordo e Anacleto, pur  mantenendo l’appoggio di Ruggero II, perse quello di Pietro della Gherardesca  (Pietro Pisano) , il proprio Cancelliere e capo delegazione, che venne convinto da Bernard di Chiaravalle a schierarsi a favore di papa Innocenzo.
L’abbandono da parte del cancelliere fu un duro colpo per Anacleto.

Verso la fine del 1337  Ruggero si trovava in Sicilia e all’inizio del 1138 Anacleto controllava il Vaticano e Castel Sant’Angelo. Ma prima che un nuovo  Concilio si riunisse, Anacleto moriva il 28 gennaio  (secondo alcuni storici il 7 gennaio) 1138 evitando una disfatta totale… Un aspetto curioso… la sua tomba non fu mai trovata.
Bernard di Chiaravalle scrisse in merito: “Il ramo inutile, il ramo malato è stato reciso”.


La fine dello scisma ? No..
I partigiani di Anacleto, forse dietro consiglio di Ruggero II, elessero il cardinale Gregorio, con il nome di papa Vittore IV. I romani, convinti dai discorsi di Bernard di Chiaravalle non riconobbero il nuovo antipapa. Vittore IV rimasto senza sostenitori, abbandonato dalla sua stessa fazione, depose di sua iniziativa la scomoda tiara e si sottomise come prete ad Innocenzo II.

Dietro la rinunzia di Vittore IV ci furono ancora una volta le saggie argomentazioni di Bernard di Chiaravalle. Lo scisma finì e  il monaco sconfisse sul piano della diplomazia Ruggero II.
Nella prima settimana di Pasqua del 1139, un Concilio Ecumenico, riunito in Laterano, annunziò al mondo che “dopo otto anni, lo scisma papale era definitivamente finito e che il papa era uno solo”.
Nel Concilio   Ruggero II venne scomunicato da papa Innocenzo II. Fu anche discusso l’uso di una nuova arma che si andava diffondendo in Europa, la balestra. Un’arma che poteva facilmente forare la armature  per cui ne fu vietato l’uso tra gli eserciti cristiani.


La situazione politica era ormai chiara. Tutti i personaggi militari che potevano contrastare Ruggero II era morti : Lotero II  e Rainulfo morto a Troia di febbre il 30 aprile 1139, probabilmente per degli errori medici, che era l’unico condottiero capace di poterlo contrastare con la sua perizia militare.
Il papa non accontentandosi della scomunica pose il suo quartier generale a S. Germano ma fu minacciato dal Normanno. Tolse quindi il campo e con le milizie si postò su un altro lato.
Ruggero mandò nel nuovo campo suo figlio primogenito Ruggero con mille soldati scelti per sorprenderlo nella via che l’esercito papale doveva attraversare mentre lo stesso Ruggero II con il grosso dell’esercito lo seguiva.
L’avanguardia pontificia comandata da Roberto di Capua, cadde nell’agguato e fu dispersa senza che l’esercito papale, che seguiva, se ne accorgesse. Improvvisamente l’esercito papale si trovò circondato dalle truppe siciliane. Innocenzo II, il suo cancelliere Bimerico, i cardinali e i nobili romani, furono fatti prigionieri era il 22 luglio 1139.
Ruggero II si comportò da vero cavaliere non abusando della sua vittoria. Rispettò il pontefice e gl’inviò i suoi ministri per chiedergli di porre fine alla guerra.
Le preghiere di Ruggero in quelle circostanze equivalevano a delle imposizioni”, disse il “papa” successivamente.


Innocenzo dovette concludere la pace e alcuni giorni dopo,  il 25 luglio del 1139, fu pubblicata a Mignano la bolla pontificia.
Bolla emessa  il 27 luglio “in territorio Marianensi”, cioè a Mignano, nell’”anno millesimo centesimo trigesimo nono”  e fu sottoscritta: dal papa “Innocentius Catholicae Ecclesiae Episcopus”; da Aymery de la Chatre, cancelliere della Chiesa (Haimericus S.R.E. Diaconus Cardinalis) e da Alberico, vescovo di Ostia (Albericus Ostiensis Episcopus).
La bolla  fu indirizzata a Ruggero, “illustre e glorioso Re di Sicilia” (“Rogerio illustri, et Glorioso Siciliae Regi”).  Dopo l’introduzione si ricordarono Roberto il Guiscardo e il Gran Conte (Ruggero il Normanno), suoi predecessori che avevano combattuto i nemici della Chiesa (Saraceni). Il papa ricordò anche il trattato di Onorio II con il re (Ruggero II. Si tratta del trattato di Benevento, 22 agosto 1128, con cui Ruggero II rispettava la Contea di Capua e i possedimenti papali di Benevento).

Con la bolla il papa  concesse a Ruggero II:
-          La revoca della scomunica;
-          Il titolo di sovrano cambiando l’investitura di duca di Puglia che era stata concessa da papa Onorio II nel trattato di pace di Benevento del 1128;
-          La legittimità del titolo di re di Puglia, Calabria e Sicilia con la clausola che tutti i re di Sicilia dovranno prestare giuramento al pontefice. (rex Siciliae ducatus Apuliae et principatus Capuae)
-          Il riconoscimento del possesso delle terre da lui conquistate, esclusa Benevento.
-          La nomina del figlio Ruggero a Duca di Puglia e ad un altro figlio, Alfonso, il titolo di Principe di Capua.

Ruggero II a sua volta s’impegnò a:
-          Riconoscere Innocenzo II come vero ed unico pontefice;
-          Un censo annuo di 600 schifati;
-          La restituzione di Benevento.

(Con il termine di “schifato” o “scifato” s’intendeva un particolare tipo di moneta emessa nell’impero bizantino. Aveva una particolare forma a coppa o scodella.

Scifato bizantino

Un termine che deriva dal greco σκύφος (skýfos) che significa “coppa” o “tazza”. Il termine venne poi riportato nei documenti, nelle bolle papali e nei testi del XII secolo.
Furono coniati sia in elettro (oro misto ad argento) che in biglione (argento con un titolo inferiore al 500/1000).
Il “Ducale” coniato dal Re di Sicilia Ruggero II, era uno “scifato/schifato” e fu  emesso  dallo stesso re quando fu investito del titolo di Duca di Puglia da Papa Onorio II nell’agosto del 1128.
Il motivo per cui queste monete siano state coniate con questa forma non è noto anche se alcuni storici sono concordi nel sostenere che la particolare forma sia legata alla facilità dell’impilamento.


A sinistra:
+IC XC RC IN ÆTRN,
busto di Cristo di fronte, Vangelo nelle mani

A destra:
R•R SLS, (Re Ruggero)
R•DX•AP, Duca Ruggero (figlio di Ruggero II)
stanti di fronte, che tengono una lunga croce tra loro;
AN R X (accanto all'asta della croce)


I  nemici  interni di Ruggero, e le città sempre a lui ostili, furono abbandonate alla loro sorte. Troia aprì le porte a Ruggero; Bari fece la stessa cosa anche se dopo una breve resistenza mentre il suo principe fu processato e condannato alla forca; il conte d’Ariano fu confinato in Sicilia; furono confiscati tutti i beni di quei baroni che avevano preso le armi contro il normanno; Napoli tornò a sottomettersi e accettò Anfuso come suo duca e in brevissimo tempo tutta l’Italia meridionale riconobbe la sovranità di Ruggero II.
A Troia (prov. Foggia) Ruggero II fu conquistato dall’ira.
Il re accolse con grande soddisfazione la morte di suo cognato Rainulfo e pretese, dalla città riconquistata, la riesumazione del cadavere  e la sua degradazione.
Secondo Falcone di Benevento, il re avrebbe intimato ai troiani di:
“non entrerò in città finchè resterà tra voi quel grandissimo traditore di Rainulfo”.
Il corpo fu esumato dalla sepoltura nella cattedrale di Troia. La lastra tombale fu infranta e la salma, ancora in putrefazione, trascinata dal cavallo di Ruggero II per l’intera città. Dopo la salma fu espulsa simbolicamente dalla città, venendo gettata ad di là delle mura.
“ Spiacque questa vile vendetta a’ cavalieri; spiacque allo stesso duca di Puglia (Ruggero, figlio di Ruggero II), il quale chiese ed ottenne dal padre il permesso di dare onorevole sepoltura a’deformi resti dello zio”.
Falcone commentò l’episodio collegandolo alla ferocia di Ruggero II..”per soddisfare la sua rabbia fece contro un morto quello che non aveva potuto fare contro il vivo”.



“Et siluit terra in conspectu eius” (la terra al suo cospetto) riportano gli Annali Cavensi per testimoniare la potenza del re  ..ma riportano anche che finirono con alzarsi anche lodi al re Normanno.
Bernard di Chiaravalle gli scrisse che “per tutto il mondo si è sparsa la vostra potenza: e dove mai on sarebbe penetrata la gloria del vostre nome?” e l’abate di Cluny riportò che “ Sicilia, Calabria, Puglia, una volta covo di Saraceni e di ladroni, sono oggi, grazie a voi, divenuti luoghi di pace, posto di riposo e regno nobilissimo, in cui impera un secondo pacifico Salomone”.
Quando Innocenzo II tornò a Roma vi furono delle critiche sul trattato di Mignano e la pace fu messa in rischio due volte.
La prima nel 1140 quando Ruggero fece occupare dal suo primogenito la provincia di Pescara sulla quale il re Normanno sosteneva di vantare diritti. Nel 1143 morì Innocenzo II e prima di spirare , il 24 settembre, ritrattò il trattato di pace di Mignano perché “stipulato in stato di soggezione”.
Il suo successore Celestino, nominato il 26 settembre 1143, si rifiutò di confermare il trattato di Mignano e Ruggero già prima ancora dell’inizio della primavera (del 1144) si era mosso con il suo esercito dalla Sicilia verso il continente, ma la morte del pontefice avvenuta l’8 marzo 1144 scongiurò un nuovo conflitto.
Con papa Lucio II, eletto il12 marzo 1144, che aveva le stesse idee dei suoi due predecessori, scoppiò il conflitto.
Non diede alcun risultato un convegno a Ceprano e Ruggero II occupò nello Stato Pontificio le città di Ferentino e Terracina e strinse d’assedio Veroli.
Da qualche mese Roma  era impegnata a farsi Comune. I romani sostenitori dell’autonomia ribellandosi al papa (nel 1143 con Innocenzo II, subito dopo con Celestino II) avevano costituito sul Campidoglio un governo comunale con a capo un consiglio detto “Sacer Senatus”.
Scese in campo lo stesso Lucio  con le sue milizie per conquistare il Campidoglio e il “covo di ribelli”. Ma furono quest’ultimi a vincere nello scontro e a ferire gravemente il papa che morì il 15 febbraio 1145.
La morte di Lucio e la situazione critica del suo successore Eugenio III (monaco cistercense, discepolo di Bernard di Chiaravalle, eletto e consacrato il 18 febbraio) arrestarono i progressi e le conquiste del re normanno, che però si vide confermato tacitamente il trattato di  Mignano.
Bernard di Chiaravalle era affranto per la dolorosa conclusione della vicenda dato che Ruggero II in appena tre mesi aveva conquistato il Regno.
Negli anni seguenti il predicatore francese, morirà nel 1153, ritornerà più volte a riaprire la questione della Sicilia con i pontefici successivi. I suoi contatti con i Normanni saranno sporadici e legati alla fondazione di qualche monastero avvenuta solo dopo il superamento di tante titubanze e negazioni.
La storiografia non ha ben tracciato  una visione ben precisa dei rapporti tra i cistercensi e i Normanni e lo stesso Bernard scrisse un brano sulle armate della sua epoca… “Che cosa vi muove alle guerre e accende i contrasti, se non una collera irragionevole, la frenesia di vanagloria, oppure la brama di ricchezze terrene? Per motivi di tal genere non vale di certo la pena né uccidere, né di essere uccisi".



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5. La Regola Cistercense nell’Italia Meridionale

Prima della sua morte Bernard  (20 agosto 1153 – Clairvaux) aveva introdotto la riforma cistercense nell’abbazia benedettina di Casamari posta nell’estremo territorio orientale di Veroli (provincia di Frosinone). Un abbazia benedettina fondata nel 1033 – 1035. Tra il 1149 ed il 1151 fu introdotta nell’abbazia la riforma cistercense della filiazione di Clairvaux, di cui Beranrd era abate, grazie anche all’interessamento di papa Eugenio III.
Un abbazia che raggiunse presto periodi di grande splendore anche con la fondazione di numerose dipendenze che furono realizzate nei primi due secoli di storia.

Il Monastero Cistercense di Casamari




L’etimologia di Casamari è “Casa Marii”, cioè villa, residenza o patria di Caio Mario,
il console romano e avversario di Silla nella guerra civile dell’88 a.C.
In base ai rinvenimenti archeologici l’abbazia sorse sull’antico municipio romano.
Le testimonianze legate alla presenza di monaci sono documentate a partire dal secolo XI, quando a “Cereate” (l’antico nome del sito) era presente una piccola comunità di
monaci benedettini.
La fondazione del monastero è riportata nella “Cronaca del Cartario” un documento del
XIII secolo. Si tratta di un documento redatto sul finire del’400 dal monaco
di Casamari Gian Giacomo de Uvis su incarico dell’abate commendatario
Giuliano della Rovere.
Nell’anno 1005 (alcuni storici indicano la data di fondazione nell’anno 1036) alcuni
ecclesiastici di Veroli decisero di riunirsi e costruire un cenobio a Casamari.
Utilizzarono per la costruzione dell’edificio, da dedicare ai Santi Giovanni e Paolo,
 dei materiali provenienti da un antico tempio dedicato a Marte.
Quattro di loro si recarono nel vicino monastero di Sora per ricevere l’abito religioso
dall’abate il venerabile Giovanni: Benedetto, Giovanni, Orso e Azo.
Il monastero fu subito al centro di donazioni da parte dei fedeli ma subì
 successivamente una grave crisi sul piano economico e soprattutto religioso.
I problemi economici erano legati al venir meno dell’economia curtense (economia
agraria legata alla coltivazione dei fondi ed al relativo commercio dei prodotti) con
l’avvento dell’economia commerciale. I problemi causarono le dimissioni di alcuni abati e
nel campo religioso si verificò un grave disorientamento legato alla riforma gregoriana.
Tra il 1140 ed il 1152, come abbiamo vito, ai nomaci benedettini si sostituirono i monaci cistercensi. I monaci benedettini erano chiamati “neri” mentre i monaci cistercensi “bianchi”
per i differenti colori dei loro abiti.
La “Cronaca del Cartario riporta che: “nel 1143 i monaci neri erano diventati tanto indisciplinati, disonesti e dimentichi della salvezza della loro anima, che Eugenio III [...] trovò il monastero di Casamari dai sopraddetti monaci neri ridotto all'indisciplina, dilapidato nelle sostanze e fatiscente nei fabbricati e cominciò allora a prenderne cura e vi introdusse i monaci dell'ordine cistercense nell'anno 1152 [...]".
I monaci cistercensi erano stati inviati dall’abate dell’Abbazia Cistercense di Clairvaux, Bernard di Chiaravalle, con il consenso di papa  Eugenio III.
L’Abbazia di Casamari diventava quindi una filiazione dell’Abbazia di Clairvaux.
I monaci Cistercensi con la loro spiritualità, senso di fraternità e semplicità
della loro vita, si fecero subito amare dalla popolazione.
Tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII fu iniziata la costruzione del nuovo
Monastero che nel 1203 fu benedetto da Innocenzo III. Una costruzione secondo
i canoni dell’architettura gotico-cistercense che ancora oggi si possono ammirare.
Dal XII secolo l’abbazia acquisì un grande prestigio non solo sul piano religioso ma
anche economico con l’acquisizione di possedimenti nelle zone vicine.  Ma c’è un latro aspetto importante da rilevare nell’attività dell’Abbazia di Casamari:
 nuove fondazioni monastiche soprattutto nel meridione d’Italia.
Nella seconda metà del ‘400 ci fu un periodo di decadenza forse a causa della “commenda”
decretata da Martino V nel 1430 a favore del cardinale Prospero Colonna, nipote del papa.
Nel 1569, don Nicola Boucherat I, abate dell’abbazia cistercense (Madre) di Citeaux,
visitò ben 34 monasteri cistercensi,  filiazioni dell’abbazia madre, che si trovano tutti
sotto commenda. Nella sua relazione scrisse che:
"Bisogna tener presente che tutti i suddetti monasteri non dispongono neanche dei libri e della suppellettile necessari per la celebrazione dell'ufficio divino".
Nel 1623 l’abbazia di Casamari aveva solo otto religiosi e fu annessa, con altre ottobre abbazie, alla Congregazione Cistercense Romana. Una Congregazione nata
per volere di papa Gregorio XV con l’obiettivo di dare nuovo stimolo ad alcune
abbazie del Regno di Napoli e dello Stato Pontificio.
I risultati furono negativi e solo nel 1717 il centro religioso ebbe un nuovo impulso di vita grazie all’opera di papa Clemente XI che in precedenza era stato abate commendatario
di Casamari. Rimosse giustamente dall’abbazia i cistercensi della Provincia Romana ed
introdusse una colonia di monaci cistercensi riformati, detti anche Trappisti, che
provenivano da Buonsollazzo (Firenze).

Badia di Buonsollazzo (Firenze)

Il 13 maggio del 1799 dei soldati francesi di ritorno da Napoli si fermarono a
Casamari e dopo aver ucciso alcuni religiosi, depredarono l’abbazia.
Dal 1811 al 1814 l’abbazia fu soggetta ai soprusi del regime napoleonico.
Il pontefice Pio IX cercò di risvegliare l’abbazia ma fu tutto vano  perché durante
la lotta tra i soldati borbonici e quelli piemontesi.. proprio i Piemontesi incendiarono
gran parte dell’edificio. Nel 1874 l’abbazia fu dichiarata monumento nazionale e
con un lento progredire nel 1929 fu aggregata  alle altre abbazie dell’Ordine Cistercense.
Se nel 1929 contava appena 50 monaci, distribuiti in 5 monasteri (Casamari,
San Domenico di Sora, Valvisciolo, Santa Maria di Cotrino a Brindisi
e Santa Maria della Consolazione a Lecce ), attualmente la congregazione di Casamari
conta circa 200 monaci in 18 monasteri.
Nel corso degli anni, difatti, furono aggregati all'abbazia di Casamari
i monasteri di San Domenico di Sora, di Valvisciolo, di Chiaravalle della Colomba,
di S. Maria di Piona, di S. Maria Assunta in Asmara, della Certosa di Trisulti,
di S. Maria di Chiaravalle in Brasile, di S. Maria di Mendita in Etiopia,
della certosa di Firenze, di Nostra Signora di Fatima negli Stati Uniti, della Certosa di Pavia. La casa madre di tutta la Congregazione è l'abbazia di Casamari.
Le fondazioni in Eritrea e in Etiopia furono erette per incarico del pontefice Pio XI che,
nel 1930, diede mandato alla comunità di Casamari della diffusione del monachesimo cattolico in queste nazioni, dove sorsero
sei monasteri e delle stazioni missionarie, con quasi 100 monaci.
L'abbazia di Casamari è divenuta in questi anni sede di varie attività che ancora oggi vedono impegnati i monaci che, oltre alla partecipazione assidua alla preghiera,
curano anche l'insegnamento presso il collegio San Bernardo, interno all'abbazia;
la farmacia, la liquoreria, il restauro dei libri, la gestione della biblioteca e del museo archeologico.


A marzo è morto l’Abate di Casamari, Don Eugenio Romagnuolo, colpito dal Covid-19.
Penso che sia giusto ricordare Don Eugenio perché la sua tragica perdita ha
gettato nello sconforto la comunità di Veroli e Frosinone.
E’ purtroppo una delle decine di migliaia di vittime colpite dal terribile male che,
malgrado il grande senso del dovere e la professionalità dei medici, non si sono potute salvare.
La colpa è di quei burocrati che hanno messo la Sanità  in secondo piano nel
sistema finanziario tagliando, anno dopo anno, i fondi necessari per lo sviluppo e la ricerca.
Quando persone si sarebbero potuto salvare dalla morte ? Quante volte i medici si saranno trovati nel decidere a chi aiutare  in considerazione della mancanza di attrezzature (respiratori in particolare) ? Purtroppo le polemiche non potranno ridare vita a coloro che se ne
sono andati per sempre sottratti, con forza,  dagli affetti familiari….
E’ una questione di coscienza ..

di etica sociale… una frase così difficile da capire per i nostri burocrati….



Abbazia di Casamari





Abbazia di Casamari

Ruggero II d’Altavilla, grazie anche alla mediazione e sostegno di papa Innocenzo II, malgrado i precedenti rapporti difficili e contrari tra lo stesso sovrano e il papa, chiese all’abate di Chiaravalle di inviare nel Regno di Sicilia alcuni monaci.
I rapporti tra la casa Normanna e Bernard di Chiaravalle non erano dei migliori e per questo motivo malgrado gli inviti di Ruggero II rispose sempre in modo negativo.
Solo negli ultimi anni del 1140 – 1150, dietro l’ennesima richiesta di Ruggero II, acconsentì all’invio di alcuni monaci che provenivano da Moreuela di Spagna.


Dopo tante precedenti perplessità, che avevano portato l’abate e rifiutare l’invito del re normanno, questa volta lo stesso Bernard   affrontò la questione con una nuova visione.  Una visione che coincideva in entrambi. Bernard di Clairvaux  desiderava allargare i confini del suo ordine e Ruggero II, con la discesa dei Cistercensi, avrebbe potuto continuare l’opera intrapresa da suo padre Ruggero II con la latinizzazione della Calabria e della Sicilia dove erano d’altra parte presenti i monaci basiliani di rito greco tanto importanti sia dal punto di vista religioso che culturale.
Ci sono quattro lettere di Bernard, di cui tre indirizzate a Ruggero II, che testimoniano lo stanziamento dei Cistercensi nel Meridione.
La quarta lettera fu invece indirizzata all’abate Amedeo, che era stato incaricato dallo stesso Bernard di trasmettere un suo messaggio agli ambasciatori del Re di Sicilia.
In base ai riferimenti contenuti nelle missive si è potuto stabilire che l’abbazia di Sambucina passò ai Cistercensi nell’anno 1141, in precedenza dei Benedettini, a seguito della donazione da parte di Goffredo di Loritello, Conte di Catanzaro e cugino di Ruggero II.

Sambucina fu il primo insediamento Cistercense nell’Italia meridionale e diventò un importante centro sia religioso che culturale. Da Sambucina il monachesimo cistercense s’irradiò in Sicilia e in altre zone del meridionale  collaborando l’antica Casamari alla diffusione dell’Ordine.

Inizialmente i monaci si stabilirono in Calabria, nel monastero di Santa Maria Requisita Nucis. Un monastero fondato nel 550 dai bizantini e successivamente in mano ai Benedettini che diventò, grazie all’arrivo dei cistercensi, Abbazia di Santa Maria della Sambucina (Cosenza). Fu questa la prima abbazia cistercense nell’Italia Meridionale.


Le filiazioni attribuite all’Abbazia di Casamari


L’Abbazia di Santa Maria della Sambucina (Luzzi - Cosenza)

Abbazia Santa Maria di Sambucina (Luzzi - Cosenza)


Nel Tabulario dell’ordine Cistercense è riportata la fondazione dell’Abbazia di Santa Maria di Sambucina come appartenete alla linea dell’Abbazia di Clairvaux, filiazione dell’Abbazia di Casamari del 1160.
L’Abbazia si trova nel Comuni di Liuzzi, nella bellissima Calabria Greca,  in provincia di Cosenza. Il suo nome di “Sambucina” è probabilmente legato alla presenza  delle piante di Sambuco.
Gli storici non sono concordi nella filiazione attribuita a Casamari.
Per fare luce sulla complessa vicenda sarebbe necessario partire da alcune considerazioni.
1-      Dopo le complesse vicende politiche e religiose che videro in piena opposizione Ruggero II e l’abate Bernard, alla fine lo stesso abate rispose positivamente alla richiesta del re Normanno d’inviare dei monaci cistercensi nel suo Regno per quel processo di cristianizzazione che aveva iniziato suo padre Ruggero I;
2-      Bernard inviò dei monaci dalla bellissima Abbazia Reale di Santa Maria de Moreruela in Spagna che s’insediarono nell’ex monastero dei Benedettini di “Sambucina” in Calabria cioè nel regno di Ruggero II. I monaci s’insediarono probabilmente negli anni tra il 1140 -1150. L’abate Bernard morirà nel 1153.
3-      È probabile che i monaci cistercensi di “Sambucina” abbiano avuto un grande aiuto da parte dei confratelli di Casamari nella ricostruzione del monastero, anche se le date riportate dalle cronache sono sfalsate di alcuni anni . Alla fine si sentirono come collegati da un filo religioso ed economico all’importante Abbazia di Casamari che comunque dipendeva anch’essa dall’abbazia madre di Clairvaux. I monaci Cistercensi, in conformità alle Regole di San Benedetto, avevano una grande senso della fratellanza. L’abbazia di Casamari nel 1149 era già nell’Ordine (Secondo il Tabulario dell’Ordine).

 L’Abbazia di Santa Maria di Moreruela è un monastero Cistercense situato nel Comune di Granja de Moreruela, in provincia di Zamora (Castilla e Leon).
Fu fondata dai Benedettini nel IX secolo e ricostruita dai Cistercensi nel XII secolo. Il fondatore fu Ponce Giraldo de Cabrera





In base alla considerazioni su descritte si può quindi considerare l’Abbazia di Santa Maria di Sambucina come una filiazione dell’’Abbazia di Clairvaux.

Il primo documento in merito all’abbazia di Sambucina fa riferimento al libro su Gioacchino da Fiore, fondatore dell’ordine florense ed eremita francescano, scritto dall’abate di Sambucina Luca Campano, in carica dal 1193 al 1202 e successivamente sino al 1224 Arcivescovo di Cosenza.
L’abate citò Gioacchino da Fiore come “figlio della Sambucina, figlia di Casamari”.
Il secondo documento risale invece al 1184 quando a causa di un forte terremoto che colpì con devastazioni la Val di Crati, l’abbazia di Sambucina fu ripristinata grazia all’intervento dei monaci di Casamari.
Per questo motivo papa Celestino III, con privilegio del 6 maggio 1192 riconobbe all’abbazia di Casamari la supremazia sull’abbazia di Sambucina.
(In diversi siti internet si cita come San Bernardo  inviò dei monaci nell’Italia meridionale per la fondazione dei monasteri. Monaci che provenivano da “Motorola” in Spagna”. Non esiste un monastero con questo nome… un nome che fa riferimento ad una marca di cellulari, ed è strano come nessuno si sia accorto dell’errore dato che si tratta dell’Abbazia Reale di Santa Maria de Moreruela e non “Motorola”).
In ogni caso Sambucina fu  certamente il primo insediamento cistercense del regno Normanno. Fu tenuta in gran considerazione da papi, re ed imperatori e divenne, in breve tempo,  in importante centro artistico, culturale ed economico. Ospitò personaggi importanti come Gioacchino da Fiore fondatore dell’Ordine florense.
Ma c’è un altro aspetto importante da rilevare sull’abbazia di Sambucina. Fu la madre di numerosi monasteri che sorsero in Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.
L’abbazia fu colpita più volte da frane e terremoti. Nel 1220 a causa dell’ennesimo movimento tellurico i monaci furono costretti a trasferirsi provvisoriamente presso l’abbazia di Santa Maria della Matina, nel territorio di San Marco Argentano. Ritornarono nel proprio monastero di Sambucina solo in estate dopo le opportune riparazioni.
Il XV secolo fu l’inizio degli abati commendatari  con la conseguente crisi.
Nel 1569 un’altra frana, anche questa dovuta ad un terremoto, danneggiò gravemente  parte del monastero e della chiesa. Il monastero venne chiuso e solo nel 1625 furono completati i lavori di ristrutturazione ed un epigrafe, posta sul portale della chiesa, ricorda la conclusione dei lavori.
Nel 1633 l’abbazia entrò a fare parte della Congregazione Calabro Lucana.
Nel corso del XVII secolo altri terremoti disastrosi tra cui quello del 1731, con danni che furono riparati nel 1733, e quello più forte del 1783 che provocò danni consistenti.
Nel 1780 l’abbazia fu definitivamente soppressa con decreto del re di Napoli, Ferdinando IV (Ferdinando I di Borbone) ed i resti furono incamerati dallo Stato
Nel 1807 ci fu la soppressione dell’Ordine Cistercense decretata dal governo di Giuseppe Bonaparte, 13 febbraio 1807. Il convento fu successivamente messo in vendita dal demanio ed acquistato da privati mentre la chiesa diventò sede parrocchiale e dal punto di vista architettonico presenta un aspetto legato ai restauri del ‘600.

Santa Maria di Sambucina





Affresco della Madonna con il Bambino

Un aspetto  da indagare  sarebbe relativo al numero dei monaci che Bernard inviò dall’Abbazia di Moreruela a Sambucina.
I monaci giunti in Calabria dovevano essere alcune decine dato che alcuni di loro si sarebbero poi trasferiti in Sicilia per fondare delle abbazie. Tra questi c’era anche un monaco Ugo d’origine francese.
Le fonti parlano di una prima comunità monastica di Sambucina composta da quattro religiosi, guidati dal monaco Brunone, che San Bernardo fece arrivare proprio da Moreruela.
Ammessa l’esistenza del monaco Brunone si dovrebbe trattare di un religioso che prese il nome del monaco Bruno di Colonia che fu un Certosino e che morì nel 1101.
Il monaco Brunone quindi non si dovrebbe confondere con  il monaco cristiano tedesco Bruno di Colonia (Colonia, 1030; Serra San Bruno – Vibo Valentia, 6 ottobre 1101) anche lui chiamato “Brunone” (forma latinizzata).
Bruno di Colonia in seguito a controversie religiose sorte con i vescovi, decise di ritirarsi nell’eremo di Molesme sotto la guida di Roberr di Molesme che abbiamo visto fondatore dell’abbazia cistercense di Citeaux. Lasciò l’abbazia di Molesme con sei compagni per cercare un luogo di preghiera solitario. Dopo l’apparizione di sette stelle , che guidarono il loro cammino, fondò in una valle detta “Cartusia”, da cui il nome di “Certosa” e di “Certosini”, il suo eremo.
Il Conte Ruggero I il Normanno gli offrì un territorio in contrada “Torre”, l’attuale Serra San Bruno, posto nel cuore della Calabria “Ulteriore” cioè la Calabria centro-meridionale.
Bruno vi fondò l’eremo di Santa Maria mentre più a valle, a circa 2 km di distanza, fondò per i fratelli conversi il monastero di Santo Stefano cioè l’attuale Certosa.
Ruggero I morì nel giugno 1101 assistito da Bruno di Colonia (poi diventato San Bruno) che morì pochi mesi dopo, il 6 ottobre sempre del 1101.
(All’epoca Bernard di Chiaravalle aveva 11 anni).

Certosa di Serra San Bruno (Vibo Valentia)


8. Le Filiazioni dell’Abbazia di Santa Maria di Sambucina in Sicilia

Filiazioni dell'Abbazia di Sambucina


L’Abbazia di Sambucina fondò nell’Italia meridionale ed in Sicilia altri cenobi cistercensi:
-          Palermo: Santo Spirito del Vespro (23/01/1172 – 1516)
-          Nuara (Novara di Sicilia - Messina) – 14/03/1172 – 1784:
-          Roccadia (Lentini – Siracusa) – 1176 – 1693;
-          Galeso (Taranto) – 27/09/1195 – 1392;
-          Acquaformosa (Cosenza) – 1197 -1807
-          Sant’Angelo in Frigido (Mesoraca – Cosenza) 01/04/1220 – 1652.
Ci furono altre filiazioni di cui non è certa la dipendenza da “Sambucina”:
-          Abbazia Santa Maria di Corazzo

Fondazione: 1173
Cistercense: 1173 – Chiusura: 1809
Filiazione di : Fossanova (Latina) -  Linea di: Clairvaux
Comune: Carlopoli (Catanzaro)
-
Abbazia di Fossanova (Latina) – Filiazione di: Hautecombe
Linea di: Clairvaux
Fondazione: 1135 – Cistercense: Ottobre 1135 – Chiusura: 1810


Abbazia Santa Maria di Corazzo



-          Abbazia di Santa Maria delle Terrate (Rocca di Neto – Crotone)
(dalle ricerche sembra che dell’antica Abbazia sia rimasta solo una cappella nel Palazzo Ape- 

Fondazione: 1178
Cistercense: 1178 – Chiusura: 1784

-          Abbazia Santa Maria de Ligno Crucis
Era ubicata nel “castro” di Crepacore (Corigliano Calabro – Cosenza) dove oggi sorge il castello ducale.


L’abbazia di Sambucina svolse un ruolo importantissimo dal punta di vista culturale e religioso attraverso numerose filiazioni. Anche l’abbazia di Casamari (Frosinone) e di Fossavecchia (Latina) ebbero un ruolo fondamentale nello sviluppo delle comunità Cistercensi tutte legate alla linea dell’Abbazia di Clairvaux.

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9.  Monastero Cistercense di Nuara (Badiavecchia - Novara di Sicilia)

Ruggero II chiese a Bernard di Chiaravalle l’invio di alcuni monaci cistercensi presso Nuara, Novara di Sicilia, in un convento dei monaci basiliani di cui aveva iniziato la ricostruzione nel 1137.
I monaci giunsero dall’Abbazia di Santa Maria di Sambucina guidati dal monaco Ugo.
Approdarono a Palermo per poi portarsi nell’ex feudo di San Basilio (?) per  completare i lavori di edificazione del monastero.
Il luogo per i suoi aspetti naturalistici non era adatto la vota monacale e i monaci decisero di costruire un  nuovo cenobio in una valle che chiamarono  “Bona” per  il clima mite del luogo e per la sua fertilità secondo quello che era il costume della cultura cistercense da sempre legata  anche ai lavori agricoli.
Ruggero II assegnò al monastero “la cospicua somma di onze 15,000”  e secondo il F.M.E. Gaetani frate Ugo giunse a Noara con altri due frati. Lo stesso Gaetani riportò come il monastero sia stato costruito in circa trent’anni e con la morte di frate Ugo diventò meta di pellegrinaggi.


Il monastero fu completato nel 1167 ( Ruggero II morì nel 1154 e Bernardo di Chiaravalle nell’agosto 1153))  e fu eretto canonicamente il 14 marzo del 1172 come risulta riportato nel Tabulario dell’Ordine.
Lo storico ed abate Rocco Pirri (Noto, 13 luglio 1577; Palermo, 22 maggio 1651) riportò la fondazione del monastero “avvenuta nel 1171”.

 Tra i monaci giunti da Sambucina c’era frate Ugo ( morto il 17 novembre 1175 ?), discepolo di Bernard di Chiaravalle e facente parte del gruppo di monaci che da Santa Maria de Moreruela erano stati inviati proprio a Sambucina per fondare l’abbazia.
Ugo fu il primo abate del monastero che fu intitolato a Maria Santissima Annunziata e successivamente a “Santa Maria di Novara Vallebona” che potrebbe considerarsi il secondo monastero cistercense della Sicilia.
Il primo infatti fu il Monastero  del Santo Spirito  del Vespro a Palermo, canonicamente  eretto appena due mesi prima (secondo il tabulario dell’Ordine Cistercense).
Ugo era di nazionalità francese ed erano stato uno dei venti monaci che con Bernard di Chiaravalle avevano lasciato l’abbazia madre di Citeaux per fondare l’abbazia di Clairvaux.  Gli venne affidata l’abbazia di Nuara ed ebbe come confratelli i monaci Paolo, Eligio e Marco che , dopo la morte di Ugo, fu nominato abate.
Morì a Novara di Sicilia il 17 novembre  e non si conosce l’anno anche se nel 1175 è documentato come priore del monastero il confratello Marco.
Nel 1666 fu proclamato patrono di Novara di Sicilia e la sua festa è celebrata il 16 agosto e il 17 novembre.
È invocato dai novaresi nei periodi di siccità. 


A Novara di Sicilia sono custodite  le reliquie che sono legate alla figura ed alla vita del Santo:
Il corpo del Santo.
I guanti di lana finissima indossati nelle cerimonie ufficiali.
Il fazzoletto di seta regalo della sorella recante l'iscrizione in ricamo: 
Non cesso, non cessavi, nec cessabo orare pro te.
Un'anfora denominata Giara di Sant'Ugo, utilizzata dall'Abate nel Cenobio di Vallebona, in terracotta, con tracce di smalti e decori, alla quale i novaresi attingevano per impetrare grazie e favori: l'acqua è bevuta per devozione e per ottenere guarigioni. La giara è un vaso arabo, di bellissima fattura.
Moltissime reliquie di santi portate in Novara dal beato Ugo. Gran parte di esse sono custodite nell'altare reliquiario presente nella chiesa di Sant'Ugo abate o "Abbazia di Sant'Ugo" di Novara di Sicilia.
L'artistica vara in legno.
Una Spina della Corona di Spine di Gesù.
Una Pietra del Santo Sepolcro.
Una Pietra del Monte Calvario.
Un cofanetto in avorio,  ritenuto oggetto personale di sant'Ugo, databile intorno al 1140. Il suo pregevole intarsio lo rende particolarmente prezioso. Insieme ad esso, si trovano anche uno scrigno cilindrico in legno ed un cofanetto ovale anch'essi doni del santo. I contenitori provengono da botteghe artigianali islamiche che operavano all'epoca in Sicilia.
Un fonte di bronzo fuso proveniente dall'antico Monastero di Vallebona. Il fonte, di elegante fattura si innalza per due ordini colonnati di stile gotico, con evidenti caratteristiche d'epoca Normanna. Alla base, sullo zoccolo di marmo è riportata la data 1714. Ha la forma di un campanile gotico, in caratteri bizantini reca incisa l'iscrizione "Ave Maria Grazia Plena Dominus Tecum". Questi oggetti sacri sono esposti in parte nelle sale del Museo del Duomo di Santa Maria Assunta.


Più complicato è il discorso in merito all’ubicazione del primitivo monastero.
Si trovava nella zona detta “Badiavecchia” un piccolo borgo cistercense, a circa tre chilometri da Novara di Sicilia nel cuore di valli solitari tra i monti Peloritani ed i Nebrodi ?






Le prime case del borgo sorsero probabilmente con la venuta dei monaci cistercensi.
Un luogo silenzioso ed è facile immaginare quella che doveva essere la vita di questi monaci dediti ai lavori agricoli ed alla preghiera. Monaci  che condividano con i pochi abitanti del luogo una quotidianità  ricca di umiltà…un’atmosfera d’altri tempi.
In questo piccolo borgo sorse l’antico monastero cistercense con la chiesa di Santa Maria Annunziata.
Il poeta novarese Ugo di Natale, scomparso il 21 maggio 2013, con i suoi versi riesce a creare l’immagine della valle con i suoi aspetti religiosi:
Come il grido d'una rondine ferita
il suo acerbo e stanco addio
singhiozza,
nell'eco di una valle,
che ha sottratto al monte
le pietre secolari di chiostri venerati
e marmi candidi e spenti tabernacoli
e distrutti altari,
scolpiti di pietre e pastorali.
Con l'ampio saio bianco,
venne il costruttore,
preci insegnando,
dopo il paventato mille,
in quella valle,
che piange la rovina,
che geme sugli avanzi
del Siculo Cistercio.
In Silenzio, i tempi gemono
e la memoria tace
e del frate di Cistercio
pallida l'eco d'una lenta salmodia
per questa valle sale.
Che, profondo, dorme il sonno
d'una gloria lusinghiera
e quello d’una fede che non si spegne mai!
                                                       Ugo Di Natale
 
In realtà sul Monastero cistercense di  Novara di Sicilia ci sono tanto punti oscuri come quello della sua originaria ubicazione e anche della sua architettura.
L’identificazione dei luoghi non è facile anche perché molti storici, Antonio Mongitore e Vito Amico ad esempio, lasciarono delle descrizioni spesso molto discordanti tra loro o incomplete.
Un dato sembra emergere dagli studi: il monastero fu edificato almeno tre volte e tutti in luoghi differenti.
Le citazioni quindi non aiutano a svelare il mistero.
Gregorio Romanus ricorda l’esistenza del monastero presso il territorio di Novara , non lontano da Messina.
Antonio Mongitore, fu più dettagliato nella descrizione dei luoghi e, per i suoi tempi, concordò con l’edificazione del monastero due volte ed in loghi diversi:
Proximum Oppido Noarae, Messanensis Dioecesis, S. Mariae, sub titulo Annunciationis, nobile Monasterium Ordinis Cistercensis in supercilio hodie ingentis lapidae molis, quae ipsi Oppido Latissime, ac terris circumquaque dominatur, exurgit; sed olim sub montibus ad duo circiter millia pass. A Noara circa Regionem illam, cui nomen a S. Basilio, ubi etiamnum rudera cernuntur, situm…”

Noarus città più vicina, Messanensis Diocesi, Santa Maria dell'Annunciazione nel titolo di un famoso monastero di cistercense sulla parte superiore di questa enorme massa di pietra, che si trova nelle vicinanze, ampia e più intorno regna sole; Ma una volta in montagna per circa due miglia. Un Noarus il paese in cui il nome di San Basilio, dove le rovine sono ancora visibili posizione ...".
L’autore citò l’antica esistenza del Monastero a San Basilio dove le rovine erano ancora visibili e la tradizione che citava S. Ugone fondatore del complesso.
Lo storico Vito Maria Amico riportò notizie simili a quelle del Mongitore affermando però che il monastero un tempo“sorgesse sotto la famosa rocca Salvatesta, che domina l’abitato di Novara e che erano chiaramente visibili i ruderi di questa prima fondazione”.
Vito Amico affermò che il monastero fu trasferito in luoghi più “favorevoli alla vita” ma non indicò il nome della contrada oggetto della ricostruzione.
Non mancarono le citazioni degli storici locali come G. Borghese (XX secolo).
Lo storico affermò come i monaci cistercensi guidati da Ugone abbiano scelto la contrada S.Anna come luogo ideale per la costruzione del loro monastero.
La contrada si dimostrò inospitale ed i tre monaci si spostarono in luoghi più adatti cioè presso l’odierno Borgo di Badiavecchia, piccolo agglomerato di abitazioni ricadenti nell’antica contrada di “Vallebona”.







Il monastero  nel XVII secolo fu colpito da una calamità naturale e a quanto sembra fu abbondato per cui venne costruito un nuovo monastero nel centro abitato di Novara. Altre fonti citano che l’edificio di Badiavecchia sia stato abbandonato definitivamente solo nel 1731.
Tutte le testimonianze concordano quindi sia sulla presenza del monastero a Badiavecchia che sul successivo trasferimento a Novara di Sicilia.
L’unica incertezza è legata all’impianto originario. Si trovava in contrada Sant’Anna o ai piedi della Rocca Salvatesta dove sono presenti dei ruderi  alla base della rocca che potrebbero essere anche dei resti più antichi ?

Ai piedi della rocca sono presenti delle creste murarie che potrebbe essere però riferibili ad epoche anteriori al monastero ed in particolare al periodo bizantino, quindi collegabili ad un probabile monastero basiliano.
E’ quindi possibile che  Ruggero II abbia scelto il pianoro di Rocca Novara/Salvatesta come primo luogo dove fondare il nuovo monastero cistercense adattando ruderi di un preesistente monastero basiliano. Il sito dopo poco tempo venne  abbandonato, per motivi forse legati all’inospitalità dei luoghi e al decadimento delle strutture.












Rocca Salvatesta o Salvateste







Rocca Salvateste  e Rocca Leone

Anche lungo il torrente che passa in contrada Vallebona Badiavecchia sono presenti dei resti che potrebbero essere collegati al monastero.
Fino agli anni ’60  Badiavecchia apparteneva al feudo di San Basilio e la Chiesa di Santa Maria Annunziata era l’unico centro di grande spiritualità per tutto il territorio. Negli anni ’60 con la costruzione di una nuova chiesa nella parte più alta avvenne una spaccatura culturale nella vallata.
A testimonianza dell’antica denominazione di San Basilio di tutta la vallata è  presente nella chiesa di Badiavecchia un quadro di San Basilio.
Oggi a causa di questo aspetto culturale per San Basilio s’intende solo la parte alta del feudo e comprendente le contrade Case Cacciulla, Case Morte, Ruggio ed altre zone vicine.
Chiappera, Piano Vigna, Vallebona (ormai disabitata), sono considerate parti integranti del Borgo di Badiavecchia.

A Vallebona ai giorni nostri sopravvive una piccola chiesa ad una navata, che la tradizione vuole facente parte dell’abbazia di S. Ugo. La valle offre  delle caratteristiche che non passarono inosservate ai cistercensi, come la ricchezza di acque, salubrità dei luoghi, pace lontana dai rumori di paesi e città. Dell’antico monastero sopravvivono la citata chiesa e alcuni locali ormai in stato di abbandono. La chiesa possiede una pianta rettangolare con orientamento est-ovest, avente la singolare anomalia dell’ingresso posto a oriente e l’altare rivolto verso occidente. La singolarità è, comunque, solo apparente, poiché ad un’attenta analisi è possibile notare come l’impianto strutturale abbia subito notevoli rifacimenti, quali soprattutto l’eliminazione dell’originaria abside rivolta in origine ad est e al posto della quale si è ricavato un nuovo ingresso.

 L’Ingresso della Chiesa dove una volta sorgeva l’abside

L’ingresso originario della chiesa, oggi murato.
All’interno fu ricavato l’altare

L’antico portale della chiesa, pur conservandosi fino ai giorni nostri, venne murato attraverso interventi di dubbio gusto estetico. Dell’antica abside, invece, si conserva solo la fondazione con la caratteristica forma semicircolare.


L’edificio possiede una copertura a doppio spiovente, evidentemente rifatta in tempi recenti. Due piccoli ingressi ogivali si conservano lungo i corrispettivi fianchi settentrionali e meridionali. L’interno della chiesa risulta ampiamente restaurato e lo stravolgimento della originaria pianta permette di percepire solo a stento l’antico assetto. La scomparsa dell’abside ha, inoltre, privato l’edificio di una importante fonte di luce, che comunque filtra per mezzo di finestre a tutto sesto (tre lungo la parete nord, quattro in quella sud) poste poco sotto le capriate della copertura. Inoltre, una piccola finestra circolare sopravvive sopra l’antico portale di ingresso occidentale e un’ampia finestra a sesto ribassato trova posto ad oriente, poco sopra l’attuale ingresso.







Il Lato settentrionale.. si nota un piccolo ingresso murato



Di fatto sarebbe inutile azzardare una datazione della chiesa sulla base delle sopravvivenze strutturali. L’edificio potrebbe pure celare sopravvivenze normanno/sveve, ma i recenti restauri, che hanno totalmente ricoperto di intonaco sia l’interno che l’esterno della chiesa, e i citati mutamenti di orientamento hanno nascosto, o nella peggiore delle ipotesi hanno cancellato, importanti tracce utili per una corretta datazione. Osservando l’edificio sarebbe difficile fare risalire questo edificio sacro alla prima età normanna o alla metà del XII sec. d.C., come vorrebbe la tradizione di S. Ugo e dei suoi seguaci. Più in dettaglio, l’antico portale orientale attualmente murato, con timpano e caratteristica ogiva, richiamano forme tre/quattrocentesche similmente a quanto è possibile osservare, ad esempio, nei resti del convento di S. Francesco presso la sommità del colle di Paternò, non lontano dall’antico dongione normanno.


Presumibilmente anche le citate finestre, all’esterno strette e lunghe, con leggero strombo, risalirebbero a simile epoca.




Si evidenzi che il corpo di fabbrica presenta anche un ingresso laterale posto sulla parete settentrionale. Questo portale si caratterizza per un arco ad ogiva, poggiante su due semplici mensole e impreziosito da una sobria cornice. Anche lungo il lato meridionale della chiesa si osserva un ingresso simile al precedente, invisibile però all’esterno causa gli interventi costruttivi che rendono di difficile lettura questo lato dell’edificio. Fra le strutture addossate spicca certamente il campanile, opera recente, posto a sinistra dell’attuale prospetto principale, poggiante su contrafforte e su di un ampio arco leggermente ogivale.


In realtà gran parte del prospetto meridionale della chiesa è risultato di numerosi interventi, che ne hanno modificato fortemente l’aspetto. Proprio in mezzo alle interventi edilizi del lato sud della chiesa spicca, tra una scala in ferro e alcuni tubi di rame, un arco ad ogiva poggiante su mensole che fa indubbiamente parte di un antico ingresso ormai murato e parzialmente obliterato causa il rialzamento del piano di calpestio. Quest’apertura, se nelle linee generali richiama la sobrietà decorativa del resto dell’edificio, di fatto presenta una manifattura diversa, sia perché composto da grandi conci privi di qualsivoglia decorazione, sia perché la pietra utilizzata presenta un colore giallognolo, calcarenitico o arenario, che sottolinea un contrasto stridente con il resto della muratura, sia antica che moderna. Che questo ingresso sia, dunque, quanto rimane di una struttura più antica? L’ipotesi potrebbe avere un suo fondamento e non è del tutto da scartare.



Oltre alla chiesa, permangono anche alcuni ruderi di edifici facenti capo al monastero. Il chiostro risulta del tutto scomparso, mentre delle strutture che forse un tempo ospitavano i monaci sopravvivono resti non ben identificabili, forse gli alloggi, che ormai fanno parte integrante di quelle abitazioni civili che nel corso degli anni hanno progressivamente occupato i resti in disuso dell’abbazia. Rimane pure una porzione di grande arco che forse faceva parte del muro di cinta, svolgendo funzioni di ingresso e portineria. I lunghi anni di abbandono, ma soprattutto le gravi condizioni finanziarie in cui versava l’abbazia già a metà del XV secolo e il perdurante stato di fatiscenza in cui versavano gli edifici hanno facilmente contribuito alla scomparsa dell’intero complesso, tranne la chiesa rimasta come luogo di culto per la contrada. Un interessante documento che testimonia lo stato di decadenza raggiunto da S. Maria la Noara tra XV e XVI sec. venne rinvenuto in Messina intorno agli inizi del XX sec.  Si tratta di un atto risalente al 29 ottobre del 1504 stipulato tra frate Geronimo Minacapilli, procuratore di S. Maria la Novara, e Simone Acampo, maestro scalpellino. Il frate effettua un pagamento pari a onze 3 e mezza per un lavoro che l’Acampo stesso prometteva di terminare entro il gennaio del 1505. L’impegno dello scalpellino era quello di “…frangendum quamdam roccam intus flumen existentem prope monasterum…”. L’atto testimonia la presenza di rocce che in quel tempo ostruivano il libero corso del torrente; di conseguenza l’acqua, soprattutto nei mesi invernali, facilmente si riversava nei pressi del monastero, causando danni ingenti. Il documento continua, specificando che: “… lacqua (sic) si faza andari per aliam viam que non noceat monasterio… li peczi chi rumpira sianu chi dui homini li poczano pigliari et levari di locu…”. Inoltre, l’allora abate del monastero, Giovanni Pujades, consegnava a titolo di anticipo ben 10 tarì in “… ferro et azaro…” (moneta) e prestava anche “… una maza et tri cugni et landi de ferru…” all’operaio per il completamento dei lavori. Le opere di pulizia del torrente furono probabilmente efficaci e il complesso sacro ebbe la possibilità di prolungare la permanenza nei luoghi in cui era sorto per altri due secoli.

La natura inesorabilmente prese il sopravvento sulla struttura nell’inverso del 1626 quando una terribile alluvione che sconvolse la zona.
I monaci furono costretti ad abbandonare il luogo e a costruire una nuova Abbazia a Novara di Sicilia fuori le mura della città.
Il disastro ambientale fu il colpo definitivo per la decadenza del monastero che era già iniziata nel 1400 quando passò sotto l’amministrazione dei Padri Commendatari. Padri commendatari spesso laici che sfruttavano i monasteri per le loro risorse finanziarie.
Nel 1659 si decise, infatti, di costruire un nuovo edificio all’interno del centro abitato di Novara, poiché l’antico edificio era in rovina e presumibilmente per assecondare anche i desideri dei monaci, stanchi di condurre una vita eccessivamente isolata.  Solo nel 1731 i monaci abbandonarono l’abbazia e si trasferirono nei nuovi edifici nell’abitato di Novara di Sicilia.







I lavori per la costruzione del nuovo monastero iniziarono nel 1659 e solo nel 1713 i monaci vi si trasferirono definitivamente. L’Abbazia prese il nome di “Santa Maria La Noara”, la chiesa (di regio patronato) è anche chiamata “Chiesa di Sant’Ugo” e i monaci cistercensi vi trasferirono naturalmente le numerose reliquie di Santi Martiri e Confessori e quelle provenienti dai luoghi Santi, il corpo di Sant’Ugo, la “giara”, la tavola della Beata Vergine Annunziata a cui è dedicata l’Abbazia, e tanti altri arredi sacri.
Sembra, comunque, che i rapporti tra gli abitanti e l’ordine religioso non siano stati dei migliori. Nel 1783 i monaci vennero espulsi, perché accusati di molestare le famiglie del paese e di condurre una vita di abusi e l’allora governo borbonico si interessò ad incamerare beni e rendite del monastero, dichiarando la chiesa patronato regio e condannando parimenti questa struttura sacra ad un lento ma inesorabile decadimento, quale era possibile osservare già nel 1848 ed alla fine del 1800  “era distrutto dai vandali”.
I monaci da Novara di Sicilia si trasferirono nel monastero Cistercense di Santa Maria di Roccamadore, nella frazione di Tremestieri – Messina. Monastero che fu distrutto dal terremoto del 1908.
Sui ruderi del monastero sorse nel 1927 l’Orfanotrofio Antoniano Femminile per volontà dell’arciprete mons. Abadessa e ad opera di S. Annibale Maria Di Francia.
La chiesa invece si presentava in condizioni leggermente migliori e resistette all’usura fino all’inizio degli anni  ’70 quando delle gravi infiltrazioni d’acqua piovana la resero impraticabile.
Ci furono dei successivi interventi della Soprintendenza per il rifacimento del tetto e per delle opere di consolidamento strutturale.
L’edificio sacro è ad unica navata e presenta cinque altari.



Nel suo interno si conservano delle grandi opere d’arte che appartennero all’Abbazia di Santa Maria di Noara a Badiavecchia.
-          Dipinto su tavola raffigurante la scienza dell’”Assunzione del Signore”, opera dell’artista veneto Francesco Stetera, realizzato nel 1570.

“ ..In Sicilia un Francesco Stetera buon dipintore veneto, il quale probabilmente fermò sua dimora in Messina, e nel 1579 dipinse una bella tavola dell’Annunziazione, finora esistente nella chiesa della Badia Vecchia  nel comune di Novara. Da quel quadro, pregevole per l’armonia dei colori e reso più vago nel fondo da bella architettura e da bel cielo, l’artefice apparisce figliuolo veramente degno della scuola di Venezia. Ma reca meraviglia l’essere del tutto ignoto il nome di lui nella sua patria e nell’intera penisola, e dà argomento a credere che in Sicilia egli abbia passato la miglior parte degli anni suoi, senza più vedere il continente italiano. Però di altre opere da lui eseguite non si ha certezza, all’infuori del quadro or ora accennato di Novara, ove al di sotto si legge in parte sdrucito il suo nome in questa iscrizione:
Hoc opus factum fuit tempore
D.O. Francisci Gattinane
Abbatis. Anno M.D.L.X.X.
Pinxit Franciscus
Stetera Venetus

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-          Un pregevole reliquiario ligneo del 1700, che s’innalza sulla parete e che espone alla venerazione circa 130 Sacre Reliquie. Tra queste Reliquie una spina della Corona di Cristo, un pezzetto della Croce, una Pietra del Sepolcro, sangue ed ossa di Martiri, oltre al Cranio, Ossa ed ai guanti di S. Ugo. In una nicchia del Reliquiario erano nascoste tre cassettine, una in legno e due eburnee, scrigni preziosi e rari, opera di un artigiano islamico del XII secolo e  denominate le Arche di S. Ugo. Secondo la tradizione sembra che siano state usate dal Santo per trasportare alcune delle Sacre reliquie nel suo viaggio da Clairvaux a Sambucina e poi a Vallebona (Badiavecchia) (Noara – Novara di Sicilia).






Teca cilindrica con coperchio, XII – XIII secolo, con il suo contenuto.
Iscrizione: “Pietre di Terra Santa”.
Nella teca si contano 10 pietre menzionate dalla storiografia siciliana:
“Lapide S. Preaesepis, de Lapide S. Sepulcri, e lapidis Montis Sion,
Montis Tabor, Calvariae, alique lapides incogniti”.

Cassetta Eburnea in avorio decorata, XII secolo.

Ampolline dei Cistercensi che potevano contenere sia olio,
preso dalla lampade che ardevano sulle tombe dei Martiri, sia acqua, sia altri tipi di reliquie (sangue, spine della Corona di Cristo, ecc..

Cofanetto d’avorio a base ellissoidale del XII secolo.
Al suo interno è presente un’iscrizione:
“Fiale Sangue Martiri”.
Die queste fiale se ne conservano 12 rispetto alle 15 riportate nell’elenco.
Le tre fiale mancanti non si sa che fine abbiano fatto

Sette vetri graffiti su fondo oro, XII secolo. Che si trovavano all’interno
della cassetta eburnea dipinta.


-          La Giara di Sant’Ugo
Un bellissimo vaso arabo, in terracotta con tracce di smalti e decori, ispano dell’XI secolo di pregevole fattura. Presenta una bocca esagonale e fu utilizzata dal Santo come contenitore dell’acqua purificatrice per ottenere dal Signore conversioni, guarigioni e grazie.


il collo della Giara di Sant’Ugo


Lo storico Ugo di Natale scriveva che “… in un angolo (dell’Abbazia
di S. Maria di Noara, a Novara di Sicilia), giace la famosa “Giara”
di S. Ugo, già venerata nel Monastero di Vallebona. All’acqua in essa
contenuta i Novaresi avevano molta fede. La bevevano nelle
infermità,  sicuri di una pronta guarigione”.


Un legame di Sant’Ugo con l’acqua.
“Nei periodi di siccità i contadini portavano la statua del Santo
in processione fino ad icona tra Novara e "Bagliavecchia", luogo
ove si dice andasse a pregare o si recava in meditazione.
I contadini  gridavano: “acqua Sant’Ugo e presto seguivano le piogge”.


-          Un turibolo (incensiere) in bronzo realizzato tra il 1195 ed il 1225 di elegante fattura, di stile gotico e che per decenni fu impropriamente adibito a fontana. Ha la forma di un campanile gotico a caratteri bizantini e reca l’iscrizione:
“Ave Maria Gratia Plena Dominus Tecum”.
Di epoca normanna, si innalza in due piani colonnati di stile gotico e reca alla base, su uno zoccolo di marmo, la data 1714. Segno evidente di successivi interventi sull’opera. Lungo 62 cm e con una circonferenza di 85, questo turibolo dei cistercensi di Noara è un reperto di gran pregio come quello che si trova nella cattedrale di Santiago de Compostela.
Fra le immagini riportate nell’opera è presente anche la figura di Federico II a cavallo con in mano un falco.




-          Un dipinto ad olio che raffigura Sant’Ugo. Il quadro è ritenuto il vero ritratto del Santo Abate. Fu danneggiato da un incendio e restaurato nel 1990.


-          I guanti e un panno di lino che la sorella gli mandò dalla Francia. Nel panno di puro lino è presente la dedica ricamata: Non cesso, non cessavi, nec cessabo orare pro te.
I guanti, di lana finissima, erano adoperati dal santo nelle cerimonie ufficiali.


-          il Corpo del Santo







Altre opere importanti legati ai Cistercensi sono:
-          un Crocifisso ligneo del 1300;
-          paramenti sacri: pianete ricamate in oro e “splendore”, alcune delle quali risalgono al 1600; una tonacella in seta damascata del 1700; piviali ricamati in oro ed argento.
(Molte delle opere sono custodite presso il Museo del Duomo).





Aspetti storici  sull’Abbazia di Santa Maria di Vallebona (Badiavecchia)
A quanto sembra il primo atto documentato sul monastero risalirebbe al 1195. Un atto nel quale  si trascriveva  la concessione  “della libertà di pascolo nel territorio alle numerose mandrie e greggi dell’abbazia”.
Un documento svevo del 1221  conferma i privilegi  concessi in precedenza al monastero.
In epoca angioina non ci sono testimonianze documentali sul monastero che comunque sembra non risentire  della grave situazione politica e sociale legata alla guerra del Vespro.
In merito all’età aragonese la vita del monastero è attestata dalla presenza di numerosi documenti.
In un documento risalente alla fine del 1200 il monastero  era impegnato in una vertenza giudiziaria con la curia regia per il possesso del feudo “Custi”, oggi chiamato “Carcaci”.
Era un’ampia porzione di terreno posto ai piedi dell’Etna e che dal 1268 era in possesso del Monastero di Santa Maria di Spanò e che verso la fine del XIII secolo era posto sotto il controllo dell’abbazia di Noara. (secondo fonti non ben chiarite).
Nel 1292 il feudo di “Carcaci” entrò nelle pretese del governo siciliano, forse per le sue prerogative agricole legate ai terreni fertili posti vicino al Simeto, fino ad ottenerne il controllo a discapito dell’abbazia di Noara a cui rimase il possesso di un altro feudo, anche questo appartenuto all’abbazia di Santa Maria di Spanò, di Pietrarossa.



Feudo di Carcaci

Feudo Pietre Rosse 

Feudo Pietre Rosse (Adrano - Bronte/ Prov. Catania)

L’Abbazia di Santa Maria di Novara aveva ereditato questi territori nel 1310 dal monastero di Santa Maria di Spanò che si era ridotta a grangia o dipendenza. Era quindi accettabile la tesi secondo la quale i monaci di Santa Maria di Novara difendevano i diritti  dei loro territori di cui erano entrati in possesso con atti pubblici avente valore legale.
L’atto mette  in risalto due aspetti importanti:
1-      L’impoverimento e decadenza del Monastero di Santa Maria di Spanò;
2-       L’espansione del complesso novarese tra la fine del XIII  secolo e durante il corso del XIV secolo verso il territorio etneo.
 L’espansione verso il territorio etneo, Novara di Sicilia è nel territorio della provincia di Messina, fu attestato da due documenti risalenti al 1375 e conservati presso il tabulario dei Monasteri di San Nicolò La Rena (Catania)  e di S. Maria di Licodia.
Sarebbero due scritti relativi ad un unico testamento nel quale Filippo de Samona, miles, diede delle disposizioni sui propri beni fra i quali donava al “…monasterio Sancte Marie de Nucaria quandam peciam terre sitam et positam in territorio Trayne in contrata Scalette…”.
Solo l’abate e storico Rocco Pirri citò le dipendenze dell’Abbazia di Santa Maria di Nucaria (o Noara):
-          Abbazia di Santa Maria della Stella di Spanò, la più importante ed in ogni caso grangia solo a partire dal 1310;
-          Chiesa intitolata a S. Vincenzo di Messina, costruita nei pressi del propugnacolo di Andria;
-          “S. Maria de Thermis”, posta nel territorio di Castroreale;
-          “S. Maria de Nive” nei pressi di Francavilla di Sicilia;
-          “S. Maria di Noaria”, edificata poco lontano dalla città di Patti;
-          “S. Nicola” presso l’abitato di Tripi.
Verso la metà del XIV secolo ripresero i problemi con il governo siciliano e nel 1348 l’abate Giacomo fu costretto con forza a rinunciare al governo dell’abbazia.
All’abate Giacomo subentrò un monaco proveniente da Santa Maria de Matina in Calabria, frate Nicolò di Montealto.
Una situazione non felice per la vita spirituale dell’abbazia.
Papa Innocenzo IV intervenne per reintegrare frate Giacomo ad abate dell’Abbazia.
Mantenne l’incarico per tre anni  per poi essere sostituito, prima del settembre 1363, nuovamente da frate Nicolò al quale il papa Innocenzo IV aveva perdonato la violazione e confermandolo abate  alla fine del 1365.
Non fu una vita serena quella di frate Nicolò perché fu posto sotto giudizio dagli abati del S. Spirito (Palermo) e di S. Maria dell’Arco (Noto). Venne scomunicato e successivamente deposto.
Il monastero fu quindi interessato da un periodo di crisi finanziaria legata anche ai problemi di natura religiosa.
 Intorno alla metà del XIV secolo fu nominato abate Nicolò de Sanvincenzo che si trovò in presenza di un monastero in rovina ed in abbandono.
Sempre a causa della grave crisi finanziaria nel 1376 il Sanvincenzo non potè corrispondere la somma di 100 fiorini dovuta alla camera apostolica. Una grave inadempienza che venne pagata dall’abate con la relativa scomunica.
Anche i successori del Sanseverino subirono guai rilevanti tanto che un abate Nicolò, alla fine del XIV secolo, veniva addirittura privato da re Martino dell’abbazia che veniva data in commenda ad un monaco di Monreale.
Nel 1396 Martino reintegrò Nicolò nella sua carica di abate del monastero ma con la perdita della grangia di “S. Maria de Nive” presso Francavilla di Sicilia.
Grangia che ritornò, poco dopo, di pertinenza nuovamente del monastero visto che le rendite del monastero erano veramente precarie quasi nulle.
(in Un atto notarile del 9 agosto 1674, rogato dal notaio Horatio Merlo di Francavilla, raccolse le ultime volontà del visconte di Francavilla Jacopo Ruffo. All’art 36 del testamento fu riportato “ il lascito di 5 onze l’anno alla Chiesa di S. Maria ad Ives, ubicata nel suo giardino di Contrada Arancia. Tale appannaggio deriva dagli interessi annuali maturati sul “capitale di bolla le quali siano veri buoni et esigibili”)


E’ probabile che fra le cause della decadenza del complesso sacro vi sia la vecchiaia di frate Nicolò che, rimasto del tutto solo agli inizi del XV sec., amministrò i beni e i monaci attraverso persone laiche. Motivo sufficiente per spingere il re a porre ancora una volta il monastero in regime di commenda sotto la direzione di frate Giacomo de Borrellis, cantore della cattedrale di Catania.   Frate  Borrellis avrebbe ottenuto la carica di abate alla morte di frate Nicolò, che di fatto, invece, sopravvisse al prelato catanese, morendo solo dopo il 1406.  Anno in cui Martino il giovane assegnò S. Maria di Novara all’arciprete di Paternò, Gerardo de Fino, e si preoccupò anche di inventariare i beni residui, mobili e immobili, del monastero. Sembra che nessun intervento sia riuscito, in ogni caso, ad arrestare la decadenza del complesso sacro, che necessitava di urgenti opere di restauro. L’interesse diretto della regina Bianca risultò inconsistente. Ella, nel 1410, dispose che nell’amministrazione e riscossione delle rendite che il monastero percepiva dai possedimenti presenti nella città di Messina e nei territori limitrofi, il priore di S. Maria di Novara doveva essere assistito da due cittadini messinesi, affinché la cifra riscossa fosse destinata, oltre al culto e al sostentamento dei monaci, anche alla riparazione della chiesa di S. Vincenzo e della grangia che l’abbazia possedeva in Messina. La regina inoltre sospese e impedì sia i pagamenti verso i creditori, sia i sequestri contro l’istituto sacro. Ma gli interventi della corona non impedirono che la nomina del nuovo abate avvenisse senza quei traumi, che invece funestarono ulteriormente la ormai precaria esistenza della comunità religiosa di Novara di Sicilia. Il monastero cadde in mezzo agli intrighi che nacquero a seguito dello scisma che agli inizi del XV secolo colpì il papato. Il papa eletto dal concilio di Pisa, Alessandro V, diede in commenda S. Maria la Novara al vescovo di Porto. Probabilmente il provvedimento venne considerato nullo o rimase senza effetto, giacché nel 1411 Gregorio XII, papa della linea romana, nominò abate un monaco dello stesso monastero, Luca de San Vincenzo. Il frate, per motivi non sindacabili, decise comunque di abbandonare l’obbedienza romana e, passando a quella pisana, ottenne la conferma della carica da Giovanni XXIII, papa della linea pisana.
(Giovanni XXIII fu deposto il 29 maggio  1415 e l’11 novembre 1417 fu eletto papa Martino V).

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10. Abbazia di Santa Maria di Spanò (Randazzo – Catania)






L’abbazia si trova su un’emergenza di roccia calcarenitica. Una cresta dove erano presenti delle grotte adoperate per esigenze abitative ed in parte crollate. Queste grotte, integrate con parti in muratura, costituiscono un aggregato di fabbriche, piuttosto disordinato , che si sviluppa sui ripidi fianchi della cresta.
Una volta la chiesa presentava una sua volumetria che era dominante sui fabbricati circostanti ma oggi il rilievo è tutto sconvolto.
L’abbazia occupa la cresta sul quale svettano anche i ruderi di una torre a pianta circolare che fu costruita  integrando gli anfratti che segnano la calcarenite.

Un’antica foto di Spanò vista da Nord-Est

Accanto alla chiesa altri due fabbricati minori forniti di coperture che costituivano l’antico aggregato di Spanò.
Un fabbricato è addossato alla parte settentrionale della chiesa, composto di due elevazioni, e che si prolunga oltre la facciata della stessa chiesa; l’altro, a pianta prismatica, distaccato dal primo ma in successione nella parte occidentale, delimita parzialmente una corte antistante la chiesa, disegnando un sagrato sul quale probabilmente si affacciavano altri fabbricati dal lato meridionale che  con il tempo sono crollati. Ma questa è solo un ipotesi dato che non sono mai stati fatti delle indagini archeologiche.



L’abbazia vista da Sud-Ovest

Tutte le costruzioni hanno un volume che è inferiore rispetto a quello della Chiesa e la stessa chiesa si trova più in basso rispetto ai ruderi, non so se ancora esistenti, della vecchia torre circolare.

Sono strane tutte queste manomissioni in un sito che doveva essere salvaguardato come una delle prime testimonianze di insediamento Cistercense nell’Isola.
La Chiesa  merita una maggiore considerazione non solo dal punto di vista storico,  (la storia non interessa a nessuno dato che non si ha conoscenza, e quindi rispetto, del proprio passato), ma anche architettonico.
I due fabbricati adiacenti, di cui ne rimane solo uno (?), nei tempi passati erano difficilmente accessibili perché destinati a ricoveri d’animali e quando visitai il luogo, negli anni ’70, c’erano dei cani che impedivano ogni possibilità d’ingresso.
La chiesa  si potrebbe considerare come uno dei pochi edifici sopravvissuti in Sicilia dall’età medievale gotico-sveva e presenta due ambienti che sono caratteristici di ogni edificio di culto: l’aula ed il presbiterio.



Il presbiterio presenta il transetto, la cupola e gli absidi.
Una costruzione che non presenta fasti volumetrici particolari e lo storico Filangeri mise in evidenza la particolarità che “ varchi o raccordi spaziali,  sono sottolineati da fantasiose, quanto preziose, terminazioni a virgola, in evidente adesione ai tipi decorativi dell’età sveva”.
La tecnica costruttiva è costituita dall’impiego di murature in pietra lavorata e posta in opera a filari regolarmente sovrapposti, interponendo strati di malta e rinzeppature di scaglie di pietra e spesso anche rari frammenti di laterizio. I frammenti di laterizio provenienti probabilmente da grossi mattoni dello spessore di circa 8 cm e lunghi più di 35 cm.
Per la copertura dei vani vennero realizzati degli archi, composti in alcuni casi da conci alternati di calacarenite e di lava, e delle volte.
(l’Alternanza dell’uso di conci dai due colori, legati alla calcarenite ed alla lava,  era una consuetudine nell’età sveva come si nota anche nella cattedrale di Troina nella finestra del secondo ordine del campanile).
Negli stipiti vennero usati blocchi squadrati ed ammorsati con il resto delle murature.
Per la realizzazione della volta dell’aula, che potrebbe essere stata rifatta, furono impiegate catene di legno che furono integrate con altre catene di ferro.
L’intera costruzione sembra che abbia avuto una totale intonacatura e imbiancatura con calce nel 1861.
Una data posta sopra l’arco trionfale e che coincide con un periodo di fermo nei lavori eseguiti nel campanile di Santa Maria di Randazzo progettato da Domenico Cavallari.
Nell’edificio c’è un aspetto della copertura che è molto interessante.
I muri di testata del fabbricato sono sviluppati oltre i piani di displuvio. Piani di displuvio formati da falde di canali e coppi in terracotta che sporgono all’esterno del muro, senza grondaie, distaccate e al di sopra di un’altra fila di canali e coppi.
La sopraelevazione delle testate potrebbe derivare da ispirazione artistiche “lombarde” o potrebbe anche essere interpretata come protezione dai venti.
La fila orizzontale di tegole sotto gli spioventi potrebbe assecondare la volontà di creare come una cornice con l’interruzione del filo di gronda delle falde di displuvio.



Sia la cupola sopra il santuario, che le tre absidi terminali sono invece rivestite con malta impermeabile.
Gli spazi interni hanno uno sviluppo  secondo un asse principale Ovest-Est partendo dalla porta d’ingresso dell’aula.
Una porta che dà sul sagrato che presenta un piano di roccia più basso di quota rispetto alla stessa aula. Per superare il dislivello fu creata una scala costituita da tre rampe le quali, iniziando dal piano di roccia, portano ad una piccola terrazza -nartece balconata, che dà l’accesso  anche alla seconda elevazione del fabbricato settentrionale.

L’insieme degli edifici primitivi  potrebbe spiegare l’uso del sito come abbazia, convento.
L’aula è composta da un vano a pianta rettangolare. L’interno del vano è coperto da una volta a botte cilindrica, che si sviluppa dai muri perimetrali, sui lati lunghi, ed interseca i muri occidentale ed orientale di testata del vano.

Arco trionfale

Di questi ultimi, in quello occidentale, sopra la porta d’accesso, è presente una finestra circolare che fu ricavata ad una quota tale da entrare in contatto con la volta e che pertanto fu parzialmente oscurata verso l’alto. Un aspetto che probabilmente è legato ad interventi successivi. Nel muro orientale un alto varco archiacuto, l’arco trionfale, introduce al presbiterio.
Lungo il fianco meridionale, che fu riaperto a seguito di una violenta manomissione, il varco di una porta segna il centro della murata. Questa a sua volta è forata, in alto, dai varchi di due piccolissime monofore architonde, simmetriche ed altre due simili si trovano aperte lungo il muro settentrionale
Sopra ciascuna delle monofore quattro vele raccordano il piano delle pareti con la volta, la cui imposta si trova ad una quota inferiore a quella della soglia delle monofore.


Volta e finestre dell’aula.

È presente nell’edificio una distribuzione degli spazi e  una perizia tecnica che sono importanti perché sviluppate in un’area geografica che potremo definire periferica.
La volta dell’aula, ad esempio, così come per le volte del presbiterio, sembrano costruite in pietra e si rileva l’elemento tecnico di notevole importanza perché richiede un impegno notevole e una grande padronanza creativa specialmente nella soluzione, piuttosto elegante, di avere fonti d’illuminazione dall’alto dove le monofore, sia dall’interno che dall’esterno, furono create con un ricercato spirito artistico.
 Il secondo ambiente dell’aula, il presbiterio destinato alla celebrazione dei riti, si sviluppa sopra un piano sopraelevato rispetto all’aula, delimitata dall’arco trionfale.
Arco trionfale che è aperto nel muro orientale dell’aula e nel cui spessore murario furono ricavati i gradini di raccordo fra i due ambienti.

Il presbitero ha una pianta rettangolare il cui asse maggiore è perpendicolare rispetto all’asse maggiore della chiesa ed è adiacente ad altri vani che caratterizzavano la celebrazione dei riti, in particolare il coro ed i pastophòria paritariamente orientati ed absidati.


Chiesa, coro e le finestre dei pastophòria

Le dimensioni dell’edificio furono legate ad esigenze  condizionate all’esiguità della superficie posta sulla cresta rocciosa.
Ritornando al presbiterio , risulta formato dal santuario, il coro ed i due pastophòra (Pròthesis e il Diaconicon).
(Prothesis, πρόϑεσις,  è il piccolo ambiente dove viene effettuata la preparazione della liturgia nella Chiesa ortodossa  orientale e nella chiesa cattolica orientale. È posto a fianco dell’abside, sul lato Nord in opposizione al “Diakonikòn”.
Il Diaconicon (Διακονικόν, diakonikon) è nella chiesa ortodossa orientale e in quella cattolica orientale, il nome dato al locale posto a sud dell’abside centrale della chiesa. In questo locale vengono custoditi i paramenti sacri, messali, ecc. adoperati durante l’officiazione della liturgia.
Ai due ambienti, Prothesis e Diaconicon, viene comunemente dato il nome di “Pastophoria”).

Il santuario, il piano rialzato sull’aula ha il valore di bema (luogo sopraelevato), è sormontato da una cupola emisferica e permette l’accesso ad altri vani del presbiterio.

Spanò – la cupola sul presbiterio e profilo del coro

Spanò – Presbiterio – volte e curve

Il presbiterio assume  anche la funzione di area di transito.
Il coro è absidato e coperto da semicatino dal profilo archiacuto. Ha un impianto allungato secondo l’asse di penetrazione, con il piano rialzato che fu ricavato in epoca posteriore sul presbiterio; i due pastophòria, presentano un imbocco molto stretto, absidati e coperti da semicatini dal profilo architondo. Hanno il piano fortemente rialzato tanto da assumere la connotazione di nicchie e sono precedute da due vani.
Questi due vani presentano una pianta rettangolare  e una disposizione che deriva da modelli di impianto a croce con cupola usuali nella cultura architettonica bizantina sin dall’età giustinianea.
Nell’estremità meridionale, lungo il muro occidentale opposto al diaconicon, è aperto il varco di accesso ad una scala a chiocciola che, risvoltando sul fianco meridionale della chiesa conduce nelle parti alte dell’edificio ed alla campana.
Gli spazi che compongono questo importante e delicato ambiente presbiteriale, le cui dimensioni sono limitate, risultano caratterizzate dalle coperture che li sovrastano e che sembrano accentuare, con le rispettive altezze, le differenze legate alle diverse funzioni degli ambienti.
Sia il santuario che i due vani adiacenti sono coperti da volte a botte ed impostate ad altezze differenti. Le volte sono rialzate fino ad intersecare i raccordi sferici di collegamento fra la calotta emisferica terminale ed il suo quadrato di base, ritagliato nella volta del santuario.

Spanò, arco trionfale e le coperture del santuario.

La chiesa contiene elementi eterogenei e fusi ed è quindi una delle massime espressioni latino-cistercense di età sveva.
L’edificio è una delle poche architetture superstiti del XII secolo ed è quindi in grado di offrire delle testimonianze utili per  permettere di studiare esperienze architettoniche anche precedenti..
Le due parti fondamentali dell’edificio, l’aula ed il presbiterio, pur appartenendo ad un edificio, che fonti indicano come cistercense, e quindi presentare caratteristiche tipiche degli edifici dell’ordine, sembra ricalcare  l’indirizzo pluralistico della cultura religiosa siciliana , greco bizantina latina.
Le citazioni di Filagato da Cerami sono veritiere: “qui l’aula, con le sue pur limitate dimensioni, spaziosa ed accogliente, attraverso l’alto e maestoso arco di trionfo, sottolineando il significato dell’”ecclesia”  s’affaccia a mediare la “vista dello spettacolo sacro”; qui il presbiterio, contenuto e limitato nella calibrata geometria degli spazi, che identifica, garantendo riservatezza per i luoghi del mistero, l’”adyton”, l’impenetrabile, nell’assetto e nelle dimensioni ostenta indiscutibili caratteri di identità tardobizantina; in particolare nello spazio di questa “sacrystia”, voluta da Nicola di Trayna, sfavillando le gemme ed i cammei incastonati nei vasi nelle croci e nelle icone, d’oro e d’argento donate dal Fondatore”.
L’edificio si può quindi ricondurre ad una testimonianza architettonica della Sicilia Sveva soprattutto in confronto ad altri edifici di costruzione precedente.
I confronti si potrebbero fare con le chiese di San Michele di Trayna e con quella di Maniace. Entrambe le chiese, anche se con tempi  e condizioni differenti, furono interessate dal processo di latinizzazione della cultura siciliana.
Delle tre absidi, ciascuna caratterizzata da una monofora a doppio strombo, quella centrale presenta all’esterno una abside più piccola che all’interno non trova alcuna corrispondenza.



Il portale è veramente una bella opera architettonica. È archiacuto e modellato ad archivolti progressivamente rincassati. Intorno al portale la tecnica muraria in conci di calcare ben squadrati contribuisce a dare un bell’aspetto all’opera d’arte.




sulle piccole mensole d'impostazione dell'arco sono 
scolpiti dei tori.

Sopra l’ogiva dell’ingresso si trova un rilievo raffigurante una Croce inscritta in un cerchio. Al di fuori del cerchio si trovano contrapposti due dischi con impressi il sole e la luna. Sembra che si tratti della Croce ad otto punte simbolo dei Templari.
L’estremità del braccio inferiore della croce presenta una terza punta,  simboleggiante un pugnale atto a sorreggere la Croce che prende il nome di “crocefichè”.





Questo prominente simbolo indicherebbe la frequentazione del monastero di monaci cistercensi, come denunciato dal documento di fondazione, e da parte dei Cavalieri Templari, se non la configurazione di S. Maria della Stella di Spanò nella forma di una magione Templare.
In realtà anche le date di fondazione e di cessione del monastero corrispondono a due periodi fondamentali per la storia dei Cavalieri Templari.
Nel 1263 papa Urbano IV confermò la scomunica a Manfredi e concesse la Sicilia in feudo a Carlo I d’Angiò. Con Federico II di Svevia e con Manfredi i templari subirono una politica sfavorevole perché i re favorirono i cavalieri Teutonici che ingrandirono i loro possedimenti. Con Carlo I d’Angiò ed anche con Federico III d’Aragona i Templari ebbero un nuovo vigore. La data del 1310 rientra nel periodo della  persecuzione dei Templari ad opera di Filippo il Bello, re di Francia. La repentina cessione di Santa Maria di Spanò al Monastero di Santa Maria di Noara (Novara di Sicilia), cessione che era stata tentata già nel 1309, servì ad affermare  la volontà di non fare cadere in mani estranee l’abbazia che nell’atto di fondazione non sarebbe mai dovuta diventare grangia o dipendenza di un altro monastero.
Nel muro meridionale c’era un altro ingresso che fu murato in un epoca imprecisata.
Nel 1992 il muro fu sfondato per trafugare le parti scolpite della ghiera sopraciliare esterna.




Vicino alla Chiesa una costruzione circolare. Una piccola torre o un monumento funebre come è stata definito da alcuni storici ?




I due documenti nell’Archivio di Siviglia
Nell’Archivio di Siviglia sono conservati i documenti di fondazione della Chiesa e del Convento di S. Maria di Spanò.
Tra i documenti il privilegio originale di fondazione della chiesa che fu redatto nel mese di settembre 1263 da Nicola di Troina.
Il documento (A.D.M. n. 370) è in cattivo stato di conservazione e non consente la lettura di alcune parti del testo. Fu redatto in duplice copia, uno per la chiesa e l’altro per la famiglia del fondatore. Fu munito di sigillo pendente in ceralacca, andata perduta, in teca lignea con filo di seta. Una terza copia fu redatta sotto forma di pubblico transunto dal notaio messinese Federico di Monte Albano.
Nel documento furono riportati anche gli oggetti di oreficeria sacra e la glittica (l’incisione di gemme e pietre dure) in epoca sveva.
La quantità e la qualità di arredi liturgici come le croci d’oro e d’argento, le pietre preziose furono descritte e forniscono un quadro di quella che era l’oreficeria sacra del tempo.
Il prof. Francesco Giunta, profondo conoscitore della storia medievale di Sicilia, definì la scoperta di queste pergamene, come “il ritrovamento del secolo”.
Nel privilegio di fondazione il fondatore dichiarò che la chiesa e convento dovevano appartenere all’Ordine dei Cistercensi e sebbene in un primo momento la chiesa fu creata come filiazione della chiesa di S. Maria di Novara di Sicilia, subito dopo, tale filiazione fu sottratta come risulta da un privilegio dei cardinali Giovanni dell’episcopato di Santa Rufina, Guido di San Lorenzo in Lucina e Alberto di Manna dell’Ordine dei Cistercensi.
La chiesa rispettando proprio le volontà del fondatore avrebbe dovuto avere il proprio abate e quindi pervenire al grado di abbazia secondo quelle che erano le regole dell’ordine cistercense.
Il primo abate che fu menzionato nel documento fu un certo Leone.
Tutti i beni posseduti dall’abbazia dovevano essere liberi ed immuni da qualsiasi servizio ecclesiastico e civile e non sottoposti ad alcuna giurisdizione, se non a quella dell’ordine Cistercense.
Soltanto la massima autorità dell’Ordine avrebbe potuto rimuovere l’abbate e ridurre, eventualmente, l’abbazia a grangia o dipendenza.
Alla chiesa fu donata una grande dote che era costituita da beni immobili e mobili di proprietà del donatore. Fu messo in evidenza che il “tenimento di terre” in cui sorgeva la chiesa era pervenuto al fondatore per successione familiare e venne chiamato per la prima volta “Spanò” in un privilegio del Re Ruggero.


 Al monastero venivano donati le seguenti terre e casali:
Terre Apano;  Casali Carcachi e Petra Russa; in Troyna la Chiesa di Sant’Ippolito  con le sue terre;
le terre di: Chumati; sandali  ed capurico; Sancte Dominice;  Scarilluse; Grutte Strapovodi;  Chorchea; Spano, ecc.
i seguenti animali:
Oves trecentas; porcos duecentos;
vaccas ed iencos (giovane toro della razza “cinisara”) centum
vitulus viginti quinque; Boves laboratores quin/decim
búfalos sex cum quatuor eorum vitulis;
aumenta equina sec; mulam unam; pullos equinos duos;
roncinos quinque; stallonem unum; asinos octo ed asinas quatuor.
Un ricco corredo d’argenteria e pietre preziose:

Nell’atto di fondazione ..”…domino nostro domino Manfrido Dei gracia inclito Sicilie Rege anno sexto, feliciter amen…”


Il secondo documento è un pubblico strumento che fu redatto il 15 febbraio 1310 dai giudici e dal notaio di Messina. Con la redazione dell’atto si giunse ad una transizione tra Costanza, figlia ed erede del defunto Nicola di Traina e vedova di Abbamonte di Oppido, da una parte e l’abate del monastero di S. Maria di Novara, sempre dell’Ordine dei Cistercensi, dall’altra.

Il documento mette in evidenza quanto stabilito in precedenza dal fondatore del monastero e l’accordo tra Costanza e l’abate dell’abbazia di  S. Maria di Vallebona.
Costanza in cambio di una rendita vitalizia “per sé e i suoi eredi pari a dieci onze annuali” cede all’abate di S. Maria di Novara la chiesa di S. Maria di Spanò, ridotta in grangia o dipendenza, nonostante le diverse volontà paterne.

I due documenti completano sul piano storico la dipendenza di S. Maria di Spanò da Santa Maria di Novara e forniscono elementi per comprendere le varie ragioni di questa dipendenza.

Da documento risulta che la stessa Costanza aveva già ceduto la chiesa a S. Maria di Novara nel 1309 per la somma di 8 onze annuali. A garanzia della predetta obbligazione viene indicata una vigna di proprietà del monastero di S. Maria di Novara confinante con l’orto di Solumbra, moglie del noto giudice e scrittore messinese Bartolomeo di Neocastro.
L’atto fu stipulato durante la reggenza di Federico III d’Aragona…
Regnante serenissimo domino nostro domino Rege Friderico tercio regni sui anno quintodecimo, feliciter amen….”   e fu sottoscritto da:
“Ego Ansalonus de Castellione iudex Messane
Ego Ugolinus de Deviva testor
Ego Johannes de Andrea testor
Ego Timoterius de Grillo Testor
Ego Gerardus Sallimpipi testor
Ego Nicolaus de Farinata testor
Ego Nicolaus Chicara iudex Messane
Ego Bartholomeus Bisganga miles testor
Ego Nicolaus de Sancta Epifronia de Messana regius puplicus insule Sicilie notarius  supradicta… signavi”.

Il Termine Spanò
In merito alla denominazione “Spanò” non ho trovato dei riferimenti ben precisi.
Dalle ricerche ho rilevato la presenza di una nobile famiglia Spanò di Reggio Calabria, “compresa tra le sei storiche(famiglie) di tale città”, di origine greca e che si propagò nel corso dei secoli in diverse regioni d’Italia.
La nobiltà della famiglia Spanò è confermata dalla sia presenza nell’opera “Il Dizionario Storico – Blasonico delle famiglie Nobili e Notabili Italiane estinte e fiorenti”  del  “genealogista Giovan Battista di Crollalanza, pubblicata a Piasa nel 1886 in tre volumi di oltre 1400 pagine”.
Nel “Nobiliario Siciliano” in merito alla famiglia Spanò è citato un Antonio, che fu barone di San Giuliano, nella prima metà del 1700 e presenti nella città di Marsala.
È probabile che  il fondatore dell’Abbazia, Nicola de Traina, fosse imparentato  con una Spanò proprietaria del feudo. Infatti nell’atto di fondazione cita come le terre gli sia pervenute per successione familiare.



Notizie Storiche
1089 – Urbano II, nel suo viaggio verso Troina, sostò a Randazzo dove concesse all’arciprete della chiesa di S. Maria il titolo abbaziale, donando al nuovo abate anche la giurisdizione su alcuni territori circostanti tra cui Spanò;
1263 (settembre) – fondazione del monastero cistercense da parte di Nicola di Troina;
1282: Damiano Spatafora da re Pietro sembra sia stato insignorito di Spanò. Poteva trattarsi, però, solo del feudo, in seguito anch'esso donato all'abbazia di S. Maria di Novara dalla vedova dello stesso Damiano. In anni di grandi incertezze per il destino della Sicilia, due entità distinte presenti nello stesso territorio, monastero e feudo, subiscono il medesimo destino. Non si esclude che tra la famiglia dei "Troina" e gli "Spatafora" vi fosse un grado di parentela.
Febbraio del 1310: tutti i beni e le sostanze della Stella entrano a far parte del monastero, altrettanto cistercense, di S. Maria di Novara.
1348: Spanò, probabilmente il feudo, rientra nell'elenco dei siti dipendenti dal giustizierato di Randazzo.
Ancora esistente nel 1425, perché nominata in un diploma di Alfonso d’Aragona, scomparve in data imprecisata non lasciando alcuna traccia della sua esistenza.
Del complesso abbaziale, se mai fu edificato, non resta più nulla.
Spanò fece un tempo parte del territorio di Bronte; fu aggregato a Randazzo nel 1831, per via di una lite.
I signori Collima di Troina, a cui appartiene il feudo, hanno ridotto la chiesa a fienile.


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I Templari a Spanò










 L’Abate Bernard di Clairvaux (Chiaravalle) diventò uno dei principali pensatori dell’Ordine Cistercense ed assunse, come abbiamo visto, un ruolo fondamentale nella chiesa del tempo colpita da innumerevoli problemi religiosi e politici.
L’abate ebbe un ruolo fondamentale, anche se misterioso, nella nascita dei “Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone”  cioè dei Templari.




Geoffroy d’Auxerre scrisse nella sua “S. Bernardi Vita prima” come Bernard sia stato lo “specialis patronus” dei Cavalieri templari, regalando al “magister Hugo” (uno dei fondatori dell’Ordine del Tempio), il “De laude novae militiae” e la “Regola”.
Alcuni anni dopo i templari giunsero nel regno di Sicilia. Una scelta che fu dettata dalla posizione geografica dell’isola  che con i suoi porti fu sempre un dei più importanti capisaldi per il traffico marittimo, militare e mercantile da e per la Terra Santa.
Dire quando s’insediò la Militia Christi in Sicilia non è facile anche se gli storici sembrano concordi  nel fissare la loro venuta prima del 9 gennaio 1144 (giorno della morte di papa Celestino II). Una data quindi importante perché legata al papa Celestino II che sollecitò i prelati a proteggere e sostenere gli stanziamenti templari presenti sul territorio.

Il simbolo della “croce spinata” presente sull’arco dell’Abbazia di Santa Maria di Spanò, con i suoi ulteriori aspetti, è un preciso segno della frequentazione dell’Abbazia da parte dei Templari.
(Sopra l’ogiva dell’ingresso si trova un rilievo raffigurante una Croce inscritta in un cerchio. Al di fuori del cerchio si trovano contrapposti due dischi con impressi il sole e la luna. Sembra che si tratti della Croce ad otto punte simbolo dei Templari.
L’estremità del braccio inferiore della croce presenta una terza punta,  simboleggiante un pugnale atto a sorreggere la Croce che prende il nome di “crocefichè”).
Gli insediamenti templari si trovavano a ridosso delle maggiori vie di comunicazione e in punti che potremo definire strategici dal punto di vista militare.
Questo prominente simbolo indicherebbe la frequentazione del monastero di monaci cistercensi, come denunciato dal documento di fondazione, e da parte dei Cavalieri Templari, se non la configurazione di S. Maria della Stella di Spanò nella forma di una magione Templare.
In realtà anche le date di fondazione e di cessione del monastero corrispondono a due periodi fondamentali per la storia dei Cavalieri Templari.
Nel 1263 papa Urbano IV confermò la scomunica a Manfredi e concesse la Sicilia in feudo a Carlo I d’Angiò. Con Federico II di Svevia e con Manfredi i templari subirono una politica sfavorevole perché i re favorirono i cavalieri Teutonici che ingrandirono i loro possedimenti. Con Carlo I d’Angiò ed anche con Federico III d’Aragona i Templari ebbero un nuovo vigore. La data del 1310 rientra nel periodo della  persecuzione dei Templari ad opera di Filippo il Bello, re di Francia. La repentina cessione di Santa Maria di Spanò al Monastero di Santa Maria di Noara (Novara di Sicilia), cessione che era stata tentata già nel 1309, servì ad affermare  la volontà di non fare cadere in mani estranee l’abbazia che nell’atto di fondazione non sarebbe mai dovuta diventare grangia o dipendenza di un altro monastero.

Vicino Spanò passava la “Via Pubblica”, poi  Regia Trazzera, che conduceva a Messina, (attraverso Randazzo) e verso Sud a Catania costeggiando  l’importante fiume Simeto.
Successivamente i Templari si stabilirono anche a Randazzo e a quanto sembra, anche se non ci sono prove documentabili, nel quartiere di San Giovanni Battista.
Costruirono la loro commenda che, dopo la soppressione dell’Ordine, ordina ed eseguita da papa Clemente V, venne concessa all’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme. Qui i templari lasciarono molti segni della loro presenza.


Ritornando all’Abbazia di Spanò non so in che condizioni sia.
Mi trovo in Spagna e con le mie ricerche viaggio per la Sicilia rivedendo i luoghi visitati e purtroppo quelli che non ho avuto il piacere di vedere.
Non so se un giorno tornerò…. Sarà difficile. Studiare la mia Sicilia è un modo per sentirmi vivo, per apprendere aspetti sconosciuti , per confrontarmi.

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11. Le tracce dei Cistercensi a Vallebona – Badiavecchia (foto)














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12. I Monaci Cistercensi e il lavoro
I monaci Cistercensi svilupparono in tutto il continente delle tecniche agricole molto avanzate; opere d’ingegneria idraulica; di architettura, tanto da creare nelle loro costruzioni uno stile “ cistercense”; lavorazione di manoscritti e soprattutto  lo sviluppo di una seria organizzazione del lavoro.



Nelle bellissime abbazie cistercensi non c’erano solo i monaci ma anche i conversi.  Essi costituivano nella comunità una cospicua presenza. Erano dei laici che avevano scelto di vivere secondo le regole di uno spirito austero, seguendo la Regola di San Benedetto, e vivevano quindi all’interno dei monasteri cistercensi. La loro preparazione nei vari campi del sapere fu importante perché si unì a quella dei monaci e contribuì all’affermazione in tutti i continenti di questa comunità, a struttura reticolare, nei vari campi della conoscenza oltre che religiosi.
Uno dei più antichi documenti sulla fondazione dell’Ordine Cistercense è la “Charta Caritatis” , risalente al maggio 1114. Successivi sono l’”Exordium Parvum “ (Piccolo Esordio), con finalità strico-giuridiche, e l’”Exordium Cistercii” (databile al 1123 – 1124), centrato sugli aspetti spirituali.
Fu Stefano Harding, come abbiamo visto nella ricerca, che fondò i tre pilastri del pensiero e della legislazione dell’Ordine che furono successivamente sviluppati dal confratello Bernard di Clervaux:
-          La “Charta Caritatis” , cioè le norme della Costituzione Cistercense, l’antica legislazione;
-          Il Capitolo Generale;
-          La Visita Annuale.

Le Tecniche Cistercensi

a.       Bonifica, Idraulica ed Agricoltura
Le fondazioni dei monaci Cistercensi erano delle costruzioni ex novo. Sceglievano il terreno su cui costruire in base a dei principi fondamentali ed irrinunciabili: la presenza di acqua nelle vicinanze, necessaria per il fabbisogno idrico della comunità e per le esigenze lavorative, e la disponibilità di legname come foreste o boschi. Spesso l’Ordine si installava su monasteri preesistenti, come nell’Italia meridionale,  gestiti ad esempio dei Benedettini e sulle strutture effettuavano degli interventi edilizi più o meno consistenti mirati anche ad un arricchimento artistico della stessa struttura.
Spesso i luoghi dove costruivano ex novo erano da bonificare perché zone sommerse, paludose e malsane. Bonificare una zona richiedere una grande tecnica progettuale a monte. Si tratta di un vasto campo dell’ Idraulica Agraria che è una materia a sè stante proprio per la sua complessità.
Naturalmente la bonifica richiede notevoli mezzi economici, pratici e materiali eppure nelle fondazioni cistercensi la bonifica dei terreni avveniva in tempi veramente brevi. Questo presuppone la conoscenza da parte dei monaci di tecniche efficienti, anche dal lato organizzativo, piuttosto avanzate per i tempi in questione.

I monaci nei loro lavori non chiedevano aiuti o interventi progettali esterni. Erano gli stessi monaci che spesso venivano chiamati per consigli sulle tecniche da adottare  da nobili e comuni. Erano degli esperti consulenti in tutti gli aspetti della vita materiale del tempo. Emblematico è il caso della Lombardia dove il prestigio dei monaci cistercensi spinse alcuni Comuni a concedere loro il privilegio giuridico d’essere giudici nelle proprie cause.
Dimostrarono una grande capacità progettuale e realizzativa nella costruzione di dighe e canali. Clairvaux fu una delle prime fondazioni a subire questi interventi e  si hanno anche notizie della creazione, sempre a Clairvaux di marcite, una tecnica che fu poi trapiantata nella Pianura Padana. Lo sfruttamento di piccole pendenze create appositamente e lo scorrimento continuo delle acque permetteva di mantenere la terra ad una temperatura superiore a quella atmosferica e di poter ottenere quindi maggiori tagli d’erba. Il primo taglio a marzo da cui il termine di “marcita”.
Il termine di “marcita” appare per la prima volta in Lombardia nel 1188 in merito ai terreni annessi all’Abbazia di Morimondo, fondata dai Cistercensi.

Abbazia di Morimondo (Milano)




In Piemonte, nella provincia di Cuneo, i Cistercensi fondarono nel 1135 un Abbazia consacrata a Santa Maria in una zona acquitrinosa chiamata “La Staffarda”, da cui prese il nome.  Grazie all’opera di bonifica dei territori, avuti in dono dal primo Marchese di Saluzzo Manfredo I del Vasto, effettuata dai Cistercensi si creò un centro agricolo molto fiorente soprattutto tra il XII ed il XVI secolo.

Abbazia Santa Maria di Staffarda




Nelle Abbazie “primigenie” di Fontenay e di Clairvaux si hanno notizie sulla costruzione di dighe, nel 1118 circa, per bloccare le acque che periodicamente inondavano il fondo valle.
Con le canalizzazioni misero in atto lo sfruttamento dell’acqua come energia con più ruote in sequenza, adibite alla lavorazione del ferro. Un sistema lavorativo che non aveva un fine a se stesso ma in previsione di un impiego che supportasse altre attività lavorative come ad esempio quella del ferro.
A Maubisson fu trovata una canalizzazione sotterranea di acqua potabile.

Nell’Abbazia di Maubisson, presso Pontoise, il 14 settembre 1307,
nel riunito Consiglio reale, il re (Filippo “Il Bello”) firmò l’ordine di arresto dei  Templari. L’ordine fu inviato a tutti i balivi del regno… era sigillato e segreto…
da aprirsi solo il giorno prima di venerdì 13 ottobre quando, all’alba, andrà eseguito…

Filippo IV “Il Bello”

“Papa” Clemente V (Bertrand de Got o Gouth)


A Ottenberg furono trovate delle tubature in legno e a Fiastra furono individuate delle dighe e un sistema di decantazione delle acque pluviali. Nell’Abbazia di Chiaravalle (Milano – Parco Agricolo Sud) fu anche scoperta la struttura originaria di un mulino. Nella creazione dei bacini d’acqua i monaci cistercensi praticavano anche l’allevamento dei pesci oltre ad utilizzare l’acqua per le attività agricole. (A Morimond è presente un bacino per l’allevamento di pesci). Gli esempi sono tantissimi. In ogni sito i monaci Cistercensi lasciarono delle importanti tracce delle loro attività.
In parecchie abbazie furono trovate delle fornaci che venivano adoperate per produrre mattoni da costruzione.

Abbazia di Fountenay

Martello idraulico

Allevamenti e Commerci
I monaci Cistercensi erano ottimi allevatori di bestiame e dei pesci; grandi esperti ella viticoltura e nella produzione del sidro. Nella produzione di vini famoso quello della Borgogna. Molte abbazie avevano vigneti lungo il reno, la Mosella e il commercio dei vini si estendeva dalla Francia alla Germania, ai Paesi bassi, all’Italia.



Scambi commerciali importanti avvenivano nel campo dell’allevamento del bestiame e fiorente era la produzione di formaggi e di burro.
Non tutti sanno che il famoso “Grana Padano” sia nato proprio dall’attività dei Cistercensi. Nel 1135 i monaci dell’Abbazia di Chiaravalle, un volta bonificate le terre della Pianura del Po, vi svilupparono l’agricoltura e l’allevamento. Naturalmente lo sviluppo degli allevamenti determinò una grande disponibilità di latte decisamente superiore al fabbisogno della comunità religiosa e della popolazione limitrofa. Studiarono quindi un modo per conservare il latte per un periodo più o meno lungo.
Probabilmente  con qualche riflessione e qualche procedimento non ben riuscito, alla fine decisero di cuocere a lungo il latte aggiungendovi del caglio e sottoponendolo poi a salatura.  In questo modo diedero origine al formaggio a pasta dura che acquistava, con il passare del tempo, un sapore maggiore e la cui stagionatura permetteva di conservare intatti i principi nutritivi del latte.
Cominciò ad essere prodotto nelle caldaie dei monasteri che diventarono i primi caseifici della storia. Nella comunità religiosa nacquero così delle figure professionali nuove come il casaro che con il tempo acquisto sempre una maggiore capacità nella produzione del formaggio.
I monaci cistercensi chiamarono il formaggio “caseus vetus” cioè “formaggio vecchio” per mettere in evidenza la caratteristica principale che lo distingueva dagli altri formaggi che, essendo freschi, dovevano essere consumati in breve tempo.
La gente del luogo chiamò il formaggio “grana” per la sua pasta compatta punteggiata di granelli bianchi, piccoli cristalli di calcio residui del latte trasformato.


Abbazia Chiaravalle (Milano)

Alcune abbazie  esercitavano il controllo dei mulini su zone molto vaste e alcune si distinsero anche per l’estrazione e il commercio del carbone.
Fino alla metà del XIV secolo molte abbazie inglesi, nello Yorkshire. Si dedicavano al commercio della lana realizzato su scala internazionale.
Con i loro commerci i monaci Cistercensi diedero un immagine di un Europa  con un mercato comune che nulla a che vedere con il mercato comune europeo di oggi  troppo vincolato agli assetti finanziari dei vari Stati  e alle relative banche.
I cistercensi diedero l’immagine di un Europa Moderna che con il tempo è svanita nel nulla.
Le abbazie madri avevano delle “grange” o dipendenze che erano delle vere e proprie fattorie agricole. Una loro distribuzione capillare sul territorio dove permetteva un razionale sfruttamento delle risorse agricole del territorio. Il termine “grangia” indicava infatti sia il territorio in senso amministrativo, sia gli stessi edifici rurali costruiti in funzione del lavoro da svolgere.
Pur trattandosi di dipendenze è importante rilevare come questi edifici avevano nella loro costruzione una grande ricercatezza dello stile  secondo gli schemi dell’architettura cistercense.

Abbazia di Fossanova (Latina)

Anche nelle grange quindi veniva rispettata la pianta delle abbazie madri con una precisa distribuzione dei locali. Si rispetta una metodica costruttiva legata al “modulo” cioè di una pianta tipica delle abbazie cistercensi. Molte grange con il tempo furono munite anche di torri e di sistemi difensivi.
L’imperatore Federico II di Svevia ebbe un grande rispetto per i Cistercensi di cui ammirò le grandi capacità progettuali e realizzative.  Nella sua corte  erano presenti matematici, astronomi, letterati, filosofi  e  finanziò la costruzione della celebre abbazia
Cistercense di San Galgano (Siena) pur non avendo un buona rapporto con i vari papi da cui fu scomunicato più volte.


Abbazia San Galgano – (Chiusdino – Siena)




Un ricercatore si chiese ..”Perché un Ordine che nasce per espletare una vita più distaccata dalle cose terrene, lontana dai luoghi abitati, in cui perfino nella chiesa dell’Abbazia non c’era posto per altre persone se non i monaci e i conversi… dimostrava di conoscere meglio di chi stesse fuori dal monastero tutte le Arti ?
Chi aveva dato ai Cistercensi tutte quelle conoscenze così varie ? E a chi essi le trasmisero ?”.

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13. La Regola di San Benedetto



Codice Sangallese 914 - Inizio della Regola

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