Selinunte - Sciacca ....Il Dio Fenicio risorto dal mare...





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Nel gennaio del 1955 l’equipaggio del peschereccio l’”Angelina Madre” di Sciacca recuperò nella rete a strascico, dove s’era impigliata, una bellissima statuetta in bronzo, di origine fenicia, alta 36 cm.
Il reperto, che si scoprirà essere di probabile origine fenicia, entrò  in una complicata questione giudiziaria ed archeologica che fu risolta da una sentenza del gennaio 1963, dopo ben otto anni d’attesa.
Il motopeschereccio “Angelina Madre, di Sciacca e battente bandiera italiana, recuperò la statuetta che s’era impigliata nella rete a strascico durante una battuta di pesca.
Il ritrovamento avvenne probabilmente al largo di Sciacca nell’area dei bassifondi Graham, Terribile e Nerita, a circa 20 miglia nautiche  (37 km ) dalla costa italiana al largo di Sciacca.

Sciacca - Scorcio del porto

Zona dichiarata dai marinai del peschereccio per la battuta di pesca

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Il Banco Graham, insieme al Banco Terribile e al Nerita, domina la piattaforma
continentale antistante Sciacca.
I tre Banchi costituiscono un esteso alto strutturale a forma di ferro di cavallo, aperto a nord-ovest, che si erge dal fondale circostante, la cui profondità varia da 250 metri a 500 metri. Il Banco è composto da un sistema vulcanico, che comprende all'interno di un raggio di 5 km oltre 10 edifici vulcanici. Il più famoso è Ferdinandea, un’ isola sommersa, situata a circa 30 miglia da Pantelleria e 16 miglia da Sciacca, che affiorò il 1° agosto 1831. I coni vulcanici del Graham sono piuttosto estesi, variando ampiamente sia per dimensioni, da 50 metri a 1,5 km di diametro, sia per quanto riguarda la profondità minima, da 9 metri s.l.m. (l’Isola Ferdinandea) a 80-100 metri s.l.m..


Nel Banco Graham sono state trovate anche le tanatocenosi, biocenosi morte in epoche antiche, di corallo rosso e coralli bianchi che costituiscono i ricchi giacimenti di corallo fossile di Sciacca, molto sfruttati nel secolo scorso.
Particolare rilevanza ha avuto nell’indagine di studio del luogo, il rinvenimento nell’area del Banco Graham, di ambienti di grande interesse geologico,
come i fondali caratterizzati da emissione di gas, già osservati in passato da INGV,
 e altre aree ricche di mineralizzazioni biancastre.


Un complesso sistema vulcanico, quello dei Campi Flegrei del mare di Sicilia, molto attivo e caratterizzato da improvvise e parossistiche manifestazioni vulcaniche con emissioni di lapilli, bombe, pomici e magma.
Le manifestazioni di questo tipo sono state numerose, su molte si sa pochissimo come su quella occorsa nel mare di Siculiana nel 1846, o quella del 1845 che rischiò di affondare il vascello inglese ''Victory'' oppure sull'esplosione molto potente di cui fu testimone l'ammiraglio di squadra della Regia Marina Alberto Da Zara nel 1942. Spesso ci sono interazioni e contemporaneità di fenomeni fra sismi terrestri e i ''Campi'', per esempio durante l'eruzione che diede i natali a Ferdinandea a Sciacca vi furono scosse di terremoto e si produsse un'oscillazione del livello dell'acqua nei pozzi e ancora durante il terremoto del Belice quando, contestualmente alle scosse terrestri, ribollì in più punti la superficie marina che copre i ''Campi''.
Puntualmente a Torre Salsa dopo scosse sismiche sottomarine si rinvengono spiaggiate pietre pomici e più volte pescatori hanno riferito negli ultimi anni di aver avuto a che fare con potenti e alte onde anomale che si manifestano improvvisamente in totale assenza di vento e con il mare assolutamente piatto. L'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania ha sistemato una rete di sensori subacquei per registrare qualsiasi sisma e l'eventuale aumento delle temperature sul fondo dei ''Campi''. Alla luce di queste assolute evidenze scientifiche appare criminale e scellerata la scelta del governo nazionale e regionale di permettere a numerose compagnie petrolifere di trivellare i ''Campi '' alla ricerca di sacche di idrocarburi (nel 2016).

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La statuetta era coperta da spesse incrostazioni marine e non le fu attribuita alcuna importanza tanto che uno dei marinai, Vitale Santo,  la portò a casa sua  senza alcun problema da parte degli altri marinai.
Fu collocata nel negozio di generi alimentari del padre Calogero ( come  abbellimento) posto nel rione San Michele di Sciacca.  Il Vitale vendette la statuetta per 2.500 lire a un suo vicino di casa, Tovagliari Giovanni o forse fu barattata con alcuni fiaschi di vino (si parlò di due fianchi di vino). Un baratto che 
però non fu mai chiarito.
Il Tovagliari si rese subito conto di trovarsi di fronte ad un reperto di una certa importanza e decise di 
farlo esaminare dallo storico locale Chiappisi Stefano.
Le ricerche del prof. Chiappisi consentirono d’accertare come la statuetta rappresentasse un’antica divinità forse Melqart, dio del mare.
Si trattava quindi di un antichissimo e preziosissimo reperto storico di sicura fattura fenicia che fu attribuito fra l’XI ed il IX secolo a.C.
Un reperto rarissimo perché esistono altri due esemplari al mondo: l’Adad o Baal di Minet el Beida, rinvenuto in Siria ed esposto al Museo Louvre di Parigi e l’Addad del Pelizeus o Resef, conservato in Germania nel museo di Hildeshein.
Il reperto di Sciacca è però più alto rispetto agli atri due esemplari.
Il dott. Pietro Griffo, Soprintendente alle Antichità e Belle Arti della provincia di Agrigento, venuto a conoscenza del prezioso rinvenimento, chiese in nome dello Stato che il Melqart gli fosse consegnato.
Secondo il diritto italiano i beni culturali ritrovati in modo fortuito, appartengono allo Stato ed il ritrovatore ha diritto ad un premio non superiore al quarto del valore del bene ritrovato ( gli art. da  90 a 94 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, approvato con DL del 22 gennaio 2004 n. 41, che riprende una legge dell’ 1 gennaio 1939 n. 1089).
Il Tovagliari per assicurare il Melqart al patrimonio storico cittadino, lo donò al Comune di Sciacca (Sindaco, Giuseppe Molinari ?).
Il Comune affidò la statuetta a Mons. Aurelio Cassar, che lo custodì gelosamente nella sezione storica della biblioteca comunale, opponendosi a qualsiasi richiesta da parte del Soprintendente.Nacque una vertenza giudiziaria tra lo Stato e il Comune di Sciacca che attirò l’attenzione dell’armatore del motopeschereccio l’”Angelina Madre”, Scaglione Michele. L’armatore, che sino allora non era a conoscenza del ritrovamento da parte dei suoi marinai (Santo Vitale, Antonio e Giuseppe Catanzaro, Giuseppe Licata) della statuetta, rivendicò anche lui. a distanza di cinque anni (dallo stesso ritrovamento),  la proprietà del reperto in quanto “res nullius” rinvenuta da un suo natante al di là del limite del mare territoriale italiano e quindi in un luogo dove non si poteva applicare il diritto italiano.
 Lo Scaglione riuscì ad ottenere il sequestro giudiziario del reperto.
Per tre anni, sino al 1963, la statuetta fu rinchiusa nella cassaforte di un locale istituto di credito e in attesa di un giudizio del magistrato..
Nel frattempo l’ambiente scientifico internazionale s’era interessato al pregevole reperto convalidandone l’autenticità.
Questo determinò nei contendenti uno sfrenato desidero di acquisirne la proprietà.
 Il conseguente procedimento di convalida, di fronte al Tribunale di Sciacca, vide impegnati:
-          Il Soprintendente di Agrigento: Pietro Griffo;
-          Il Comune di Sciacca;
-          L’armatore Scaglione;
-          Gli eredi del Sig. Tovagliari  che nel frattempo era deceduto.  Gli Eredi sostenevano che “il loro dante causa” non aveva donato il reperto al Comune ma lo aveva soltanto lasciato in deposito.
Il giudice Francesco Militello si trovava difronte ad una vicenda di non facile soluzione.
Non avendo alcuna possibilità d’intraprendere delle azioni per l’acquisizione di prove sull’esatto luogo del rinvenimento, lo stesso giudice doveva attenersi ad una decisione giuridica “secundum allogata et probata” cioè in pratica era costretto ad accettare le testimonianze che  concordemente dichiaravano come
“la statuetta era stata rinvenuta ad una distanza di oltre venti miglia marine da Capo Granitola su di un fondale fangoso in dolce declivio tra i 31 ed i 58 metri di profondità, mentre il motopesca era impegnato nella battuta di pesca del gambero”.

Capo Granitola (Campobello di Mazara - Trapani)

Torretta di Capo Granitola

Rinvenuto in acque internazionali e l’unica decisione era la consegna del reperto all’armatore
Scaglione.
Il giudice, probabilmente spinto anche dal desiderio di non far perdere alla comunità Siciliana un 
reperto di così grande importanza, studiò come superare il problema delle acque internazionali ed 
aggiudicare lo stesso reperto al patrimonio culturale Siciliano.
Dopo ben 8 anni, il 9 gennaio 1963, il Tribunale di Sciacca emise la sentenza:

“lo Stato era proprietario del Melqart”
secondo il Tribunale, un peschereccio battente bandiera italiana va considerato
come territorio italiano, e quindi soggetto alla legge italiana, anche
quando esso di trova in alto mare, come disposto dall’articolo 4
del Codice della Navigazione (approvato  con
Regio Decreto, 30 marzo 1942, n. 327.
(“Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o
spazio non soggetto alla sovranità di alcun Stato sono considerati
come territorio italiano”.

In tale norme è evidente che per nave deve intendersi non soltanto uno scafo natante ma  anche tutti i suoi accessori, dal pennone più alto alla rete più profonda che esso trascina, sicchè appena una cosa mobile del fondo marino s’impiglia in tale rete, ed ancora prima che possa dirsi avvenuto qualunque atto di occupazione, o possa dirsi tale cosa scoperta”, essa deve ritenersi entrata nel territorio italiano, il che, già da tale momento, rende operante la norma di legge italiana e, quindi nella specie, acquisita la proprietà della statuetta contesa da parte dello Stato”.

Il reperto non era stato direttamente recuperato dal fondale dall’armatore o dai suoi uomini ma
tratto dalla rete. Appare quindi possibile applicare la legge del 1939 sul ritrovamento di oggetti 
archeologici che assegna gli oggetti archeologici allo Stato italiano.
In termini tecnici gli estremi tradizionali ed indispensabili per il verificarsi di un’occupazione di  
“res nullius, l’adprehensio e l’animus rem sibi hanemdi”, erano intervenuti quando già il reperto si 
trovava in territorio italiano, nè potevano essere esercitati dall’armatore per interposta persona, ad 
esempio il componente del suo equipaggio che aveva estratto il reperto dalla rete.
(L’animus possidendi o “animus rem sibi habendi”  sarebbero la componente soggettiva del 
possesso intesa quale intenzione di esercitare sulla cosa una signoria (appartenenza) corrispondente 
alla proprietà o ad altro diritto reale come l’usucapione..
L’adprehensio è un atto materiale di impossessamento di una cosa; è presupposto, assieme 
all’animus possidendi, dell’acquisto originario del possesso, senza cioè che sia stato trasmesso da 
parte di altri.
Una sentenza che costituì un precedente giurisprudenziale nel caso di oggetti archeologici rinvenuti 
in acque internazionali.
 La statuetta fu quindi dichiarata proprietà dello Stato e consegnata al Sovrintendente ai Beni 
Culturali di Agrigento che concordò uno scambio con il Museo Archeologico Regionale  
“A.Salinas” di Palermo. ottenendo in cambio un altro reperto. Al Museo di Agrigento fu 
consegnato un cratere greco con una scena di amazzonomachia che era stato rinvenuto a Gela.
In margine all’episodio c’à da dire che l’11 febbraio 2017 morì il Sig. Santo Vitale   che ebbe 
l’onore dal caso di pescare il prezioso reperto consegnandolo alla storia dell’umanità mentre il 
peschereccio “Angelina madre” giace in fondo al mare. 
Il realtà  le dichiarazioni sul luogo di rinvenimento impedirono il nascere di ricerche più 
approfondite ( con progetti risalenti al 1969, 1973, 1976).
Fu ricostruito il luogo “esatto” del ritrovamento. La statuetta fu ritrovata a circa un centinaio di 
metri dalla riva ad una profondità di 5 – 10 metri (cinque braccia). Il peschereccio “arava” il 
terreno sabbioso con reti in zona vietata alla pesca a strascico.
Una zona dove l’onda frangendosi sul bassofondo creava un turbinio che era ricercato dai pesci 
affamati.
La zona di pesca ha una certa ampiezza e per quando riguarda l’indagine archeologica, la limitata 
distanza dalla costa e la bassa profondità, dovrebbe incoraggiare la ricerca di altri reperti e forse 
anche dell’imbarcazione. 
La testimonianza di Santo Vitale fu  abbastanza precisa anche perché a distanza di anni 
l’avvenimento della recupero della statuetta era sempre vivo nella sua memoria.
La rete fu calata dinnanzi alla foce del fiume Modione poco distante da Selinunte e ritirata in 
prossimità dell’abitato di Tre Fontane, dopo un percorso  Est – Ovest di circa otto Km, effettuato 
nelle prime ore dell’alba.


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Il fiume Modione è l’antico “Selino o Selinus”, presente nella monetazione di
Selinunte anche sotto la raffigurazione di dio.

Moneta del 540/510 a.C.
Fogli di Selinon, gambo di foglia che ricorda il cuoio capelluto di una pantera:
due palline sopra
Retro: quadrato diviso in otto sezioni
Un fiume della lunghezza di circa 27 km che nasce nel territorio di Santa Ninfa
in contrada “Tre Serroni”. Un tempo la portata del fiume doveva essere maggiore
perché sono presenti sulle sue sponde ben 14 mulini:
Scaglio, Terzi, Guirbi, San Giovanni, Mezzo e Garofalo (del XV secolo), Messerandera, San Nicola, Mulinello, Paratore, Mangogna, Errante, La Rocca e Garibaldi.
Gli antichi Greci lo chiamarono Selinus o Selino e nei pressi della sua foce, sul massiccio calcareo che separa il fiume dal vicino fiume Cottone, fondarono la colonia che prese il nome di Selinunte. Proprio l'antica è così chiamata per "selinòn", ovvero il nome del sedano selvatico che abbondante cresceva sulle sue sponde, riscontrabile anche sul simbolo di alcune monete greche lì ritrovate.

Sulle sponde della sua foce sorgeva anticamente uno dei due porti di Selinunte, gran parte interrato, ma del quale oggi risultano ancora visibili dei grossi basolati.
Ad ovest del fiume si trova la "grande città dei morti" formata dalla estesa necropoli di "Manicalunga", di circa 3 km², che inizia nei pressi del santuario di Demetra Malophoros. Ad est del fiume Modione un'altra necropoli, detta "Manuzza", in contrada Galera-Bagliazzo, con una superficie di quasi 4500 metri quadrati e una terza, in località "Buffa"

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Altre imbarcazioni erano presenti nella zona  pescando sempre a strascico, arando il fondale alla 
minima distanza materialmente consentita dalla costa.
Oltre alla statuetta ed ai pesci nella rete non c’era nient’altro.
In questo tratto di mare sono noti due carichi di navi antiche: una con anfore vinarie italiche di età 
repubblicana e l’altra tardo-romana con un tipo di anfora denominata  “spatheion”.
La ricerca è molto difficile perché sul fondo sono presenti alcune  munizioni inesplose relative 
all’ultimo conflitto mondiale. La presenza di un fondale sabbioso da un lato favorisce la 
conservazione dei reperti  mentre ostacola il loro recupero dato che è sepolto.
Nella zona infatti a causa delle mareggiate si verificano notevoli spostamenti di sabbia dal fondo 
che alternativamente ricopre o riporta in luce gli stessi reperti.
Al momento del ritrovamento era in atto, durante la battuta di pesca, una mareggiata che doveva 
aver smosso il fondale sabbioso ed era stata la tempesta la regione determinante  per la scelta del 
luogo di pesca.
La statuetta del dio fenicio doveva giacere abbattuta in avanti, leggermente inclinata sul fianco 
sinistro ed emergere con le stremità degli arti inferiori dal sedimento misto di sabbia e fango, 
mosso appunto dalla tempesta.
Non era ricoperta, malgrado le testimonianze relative al processo, da concrezioni perché si formano 
con difficoltà su reperti bronzei.
Questo si rileva osservando la stato di corrosione del reperto e le tracce di fango presenti negli 
interstizi del metallo.
È probabile che la statuetta sia stata presa dalla rete per la parte inferiore e che l’urto abbia 
provocato la rottura del foro verticale che attraversa la mano sinistra e la perdita degli oggetti 
impugnati.
È probabile che qualche altro reperto, occasionalmente rinvenuto sulla spiaggia, possa trovarsi in 
qualche abitazione della zona e per questo sarebbe auspicabile un accurata indagine dei fondali per 
riportare alla luce eventuali altri reperti.
Apprezzabile è il risultato pratico ottenuto con la sentenza, visto che l’interesse di natura 
pubblicitaria allo studio e alla protezione del patrimonio culturale che ispira la legislazione italiana.
Chiamato a decidere un caso per il quale non esistevano riferimento normativi specifici o 
precedenti giurisprudenziali, il Tribunale elaborò l’ingegnosa teoria del  “prolungamento” del 
territorio italiano, così da evitare  l’applicazione in alto-mare del criterio “primo-arrivato-meglio-
servito” che avrebbe giocato a esclusivo vantaggio degli interessi privati del proprietario della nave.
Tuttavia, se si considerano gli aspetti generali del caso, la sentenza del Tribunale di Sciacca appare 
molto pericolosa. Seguendo il ragionamento del Tribunale, se il Melqart fosse stato trovato da una 
nave battente la bandiera di uno Stato diverso dall’Italia, il diritto di quello Stato sarebbe risultato 
applicabile.
Che cosa sarebbe successo se il Melqart fosse stato trovato da una nave  battente la bandiera degli 
Stati Uniti  ?


La statuetta è stato oggetto di studio e secondo alcuni studiosi non sarebbe la raffigurazione di 
Melqart .
Melqart è una divinità attestata a partire solo dal IX secolo a.C. (secondo la tesi di alcuni storici) e 
la statuetta rappresenterebbe invece Hadad, dio delle tempeste e della guerra e il cui emblema, la 
testa di un cavallo, appare spesso nelle monete fenicie.
La statuetta  è stata attribuita al (XIV – XIII) secolo a.C. in base al confronto con la statuetta di 
Hadad di Ras Shamrah. 

Baal
(Statuetta in bronzo  - (XVI – XIII) secolo a.C.
Rinvenuta a Ras Shamra, l’antica Ugarit
Braccio destro alzato
Trovata  grazie agli scavi di Claude Schaeffer e Georges Chenet, 1934
Collocazione : Museo di Louvre, Parigi

La collocazione cronologica è legata anche alla presenza di elementi egittizzanti come il 
gonnellino, decisamente più in basso rispetto a quello siriaco, e l’aggiunta di due piume di struzzo 
al copricapo cosiddetto a tiara, che rappresenta la corona osirica (Aspetti che sono normali in 
ambiente siriaco).

Melqart di Selinunte o di Sciacca

Il dio impugnava sulla mano destra alzata una mazza mentre nella sinistra una lancia o un fulmini o 
ancora un’altra mazza.
Le sporgenze aldi sotto dei piedi rendono possibile l’ipotesi che la statuetta del dio fosse infisse su 
una base di legno. La sua probabile collocazione su una base lignea potrebbe essere legata alla sua 
originaria posizione sul dritto di prora di un imbarcazione fenicia.
In alcune raffigurazioni sulla prora delle navi fenicie è presente la testa del cavallo probabile 
simbolo del dio delle tempeste.
La statuetta trovata al largo di Sciacca data le sue dimensiono, 38 cm, doveva trovarsi su 
un’imbarcazione di adeguata lunghezza e cioè di circa 10 metri.
È anche probabile come l’imbarcazione stesse raggiungendo qualche città fenicia, posta sulla costa, 
per la consegna della preziosa statuetta,
L’imbarcazione naufragò e trovare l’esatta indicazione del punto di naufragio sarebbe 
importantissimo perché costituirebbe uno dei più antichi relitti presenti nel fondo del Mediterraneo 
dato che il relitto di Capo Gelidonya risale. all’età del bronzo (circa 1200 a.C.).
In Sicilia, al largo di Lipari (Pignataro) c’è un antichissimo giacimento sottomarino risalente al 
XVII secolo a.C. così come a Sheytan Deresi, in Turchia.
Ma in entrambi i casi non fu ritrovata alcuna parte lignea degli scafi.
Il ritrovamento di una statuetta così antica pose  degli interrogativi sull’espansione temporale dei 
Fenici in Occidente.
Tucidide riportò come i Fenici nell’VIII secolo a.C., a seguito della colonizzazione greca, si 
ritirarono a Mozia, Palermo e Solunto. C’è da dire che le acque siciliane erano già solcate dai 
Fenici a seguito della loro penetrazione in Spagna.
Le testimonianze archeologiche, piuttosto scarse, non hanno permesso di poter affermare con 
sicurezza una presenza fenicia in Sicilia prima del VII secolo a.C. e si è quindi sostenuto come 
Mozia, Solunto e Palermo siano state fondate  non dai Fenici ma da Cartaginesi.
La mancanza di reperti archeologici, secondo alcuni archeologico come  Biagio Pace, sarebbe 
legata alla particolare tipologia dell’insediamento fenicio.
Si trattava di piccoli insediamenti commerciali in prossimità di centri indigeni e prima della 
colonizzazione greca. 
Infatti scavi successivi nell’area archeologica di Selinunte avrebbero portato alla scoperta del 
santuario della Malophoros, facente parte di un preesistente centro indigeno, e polo di attrazione 
religiosa fra le popolazioni indigene della zona. Un santuario che presenta “certi aspetti di origine 
orientale”. 
L’espansione fenicia in occidente potrebbe quindi risalire al XIV – XIII secolo a.C.?
Questa statuetta potrebbe quindi aprire nuovi scenari di pensiero sui fenici in occidente e eppure 
abbiamo visto come il reperto sia stato considerato, al momento del suo ritrovamento,  come  un 
oggetto insignificante. Quando fu ripescato  fu accantonato in un angolo della tolda del 
motopeschereccio e dato che era in bronzo, si decise all’inizio di fonderlo. Per fortuna il criminoso 
progetto fu abbandonato.
Come abbiamo visto la modesta contrattazione del reperto (forse per due fiaschi di vino) fu legata 
al volere della famiglia del marinaio che attribuiva alla statuetta dei poteri  negativi che 
influenzavano le vicende della famiglia. Veniva chiamato “il pupo” nel rione San Michele di 
Sciacca

La statuetta  è un reperto rarissimo e si può considerare un unicum in Italia.Lo storico locale 
Chiappisi fu il primo che studiò il reperto e lo identificò con il dio  Melqart. Una statuetta 
originaria dell’area siro-palestinese  analoga ad un altro reperto proveniente da Ras-Shamra che 
datò al XII – XI  secolo a.C.
Altri storici cominciarono a studiare il reperto giungendo a conclusioni differenti:
-          D. Harden considerò la statuetta di provenienza Cananea, cioè quella regione che comprendeva grosso modo Libano, Israele, Palestina e parti della Siria e della Giordania,  e la datò al XIV – XIII secolo a.C., giunta sulla coste siciliani grazie ai dei mercanti micenei;
-          Anna Maria Bisi, archeologa ed accademica, specializzata in studi Fenici e Punici, accettò le tesi del collega Harden specificando però la sua provenienza cipriota  perchè convinta che il reperto fosse di rame rosso.
Gli studi  accertarono  come la statuetta fosse di bronzo per cui la tesi della prof. Bisi fu superata.
Il prof. Vincenzo Tusa dichiarò come il  “Melqart” fosse una delle prime espressioni 
dell’espansione fenicia nel Mediterraneo sostenendo la sua origine  da Ugarit (in Siria) nel XIII –
XII secolo a.C.
Sia il prof. Tusa che la prof. Bisi erano concordi nell’affermare come la raffigurazione della 
statuetta non fosse di Melqart ma di  Adad o Reshef.  Una ipotesi legata alla considerazione che 
non vi sarebbero testimonianze  iconografiche di Melqart anteriori  al I millennio a.C.
Tutte queste teorie furono riviste dallo storico palermitano Gaetano Falzone che abbassò la 
datazione all’età tarda del Ferro (XIII secolo a.C.). Una datazione che sembrò ritrovare precisi 
riscontri sua nella produzione coeva siro -palestinese che nei reperti della penisola iberica.

Il bronzetto rappresenta una figura virile gradiente nella posa del “dio abbattente”. Ha la gamba 
sinistra avanzata, il braccio destro levato in aria, il sinistro abbassato con l'avambraccio proteso in 
avanti. Entrambe le mani sono serrate a pugno e attraversate da due fori che dovevano ospitare 
degli attributi oggi andati perduti. Il personaggio, barbato, porta  in testa una corona il tipico atef  
fenicio, ha il petto nudo e indossa lo shenti, gonnellino di foggia egiziana. Il bronzo, lavorato con la 
tecnica della cera persa, è alto 35 cm ed era fissato ad un piedistallo tramite due tentoni oggi assai 
rovinati. La superficie della statua è corrosa soprattutto nella parte posteriore a causa dell'ambiente 
marino in cui era sepolta; ciò ha fatto sì che alcuni dettagli anatomici e della veste andassero 
perduti. Le parti meglio conservate sono l'atef, il collo, i piedi e la gamba sinistra; risultano invece 
molto rovinate la gamba destra e la mano sinistra che è mutila della sua parte anteriore. La figurina, 
alquanto slanciata, presenta gli arti assai sottili, le proporzioni anatomiche sono rispettate seppur il 
braccio sinistro è visibilmente più corto.
La resa della parte superiore del torso risulta alquanto schematica quasi si trattasse di un solido 
geometrico con facce e spigoli netti. La parte inferiore del corpo risulta invece più plastica con la 
resa dell'allargamento dei fianchi, dell'andamento delle gambe e dal lieve rigonfiamento della parte 
inferiore dell'addome.
Il volto è caratterizzato da una lunga barba a punta che doveva essere distinta sulle gote da una 
linea incisa continua di cui resta un breve tratto sul mento. La linea della bocca è appena accennata, 
le orecchie sono prominenti, le cavità oculari molto profonde così come le sopracciglia  che 
dovevano essere distinte dal resto dei tratti del viso tramite l'impiego della tecnicadell'incrostazione 
mediante l'utilizzo di altro materiale.
L'atef, tipico attributo di Osiride, è reso in maniera canonica ed è costituito da un'alta tiara 
fiancheggiata da due piume di struzzo stilizzate e terminante con un puntale a bottone.
Lo shenti, che dalla vita scendeva fino al ginocchio, doveva essere movimentato, nella parte 
anteriore, da incisioni che risultano oggi poco visibili; non v'è traccia della cintura che serrava il 
gonnellino sui fianchi e dei due teli laterali ricurvi; ben delineato è invece il telo centrale che è reso 
in maniera tridimensionale e pende tra le gambe.
Incerti risultano gli attributi retti nelle mani della divinità. Dalle coeve rappresentazioni si potrebbe 
ipotizzare che questa fosse quasi certamente armata e rispettivamente: con un oggetto verticale 
(una lancia o una saetta ?)  impugnato nella mano protesa mentre in quella levata era tenuta 
orizzontalmente un'ascia o una mazza. La mano levata risulta, inoltre, avanzata rispetto all'asse 
verticale della figura; ciò implica che l'arma doveva trovarsi davanti alla testa vicino alla fronte 
come un analogo esemplare proveniente da Megiddo (Israele).
Il Melqart di Sciacca rientra in una nota classe di scultura in bronzo di accezione siro-palestinese, 
quella del dio abbattente. Questo tipo iconografico, che trova la sua primitiva genesi in Egitto, è 
caratterizzato dal braccio destro levato in alto nell'atto di scagliare e rappresenta una divinità in 
atteggiamento bellicoso. Si tratta con ogni probabilità del dio della tempesta contemplato nel 
pantheon cananeo sin dal II millennio a.C.; ciò  ha fatto sì che i numerosi esemplari venissero 
riconosciuti di volta in volta come Adad, Reshef, Baal o Teshub ma essendo in genere anepigrafi 
(senza titolo o nome d’autore) risulta quanto mai difficoltoso dare a questi bronzi un'identificazione 
certa.
Questa produzione artistica è rappresentata grandemente nell'area siro-palestinese da ben 150 
esemplari, solo pochi provengono da altre aree quali l'Anatolia, l'Egitto, Cipro, l'Egeo e l'occidente 
punico. Cronologicamente parlando il tipo statuario della divinità abbattente s'inserisce nel tardo 
Bronzo (1550-1200 a.C.) e sembra esaurirsi nell'età del Ferro recente; tuttavia esistono bronzetti 
riferibili ad un periodo ancora più tardo.
Il tipo iconografico della divinità abbattente ebbe una lunga vita nel repertorio artistico fenicio è 
quindi plausibile che ancora nel I millennio tale classe artistica trovasse ancora grande espressione; 
ciò quindi potrebbe confermare la datazione bassa della statuetta siciliana suggerita da Falsone.
Altro dato interessante è costituito dalle dimensioni della statua che è alta ben 35 cm; essa è in 
pratica uno degli esemplari maggiori che si conoscano.
Ad Enkoni (Έγκωμη), sito archeologico dell’età del Bronzo nell’isola di Cipro (presso la città di 
Famagusta) furono trovati due reperti di dimensioni simili.
Il sito sorse sulla riva settentrionale del fiume Pedieos e dal XVI al XII secolo a.C. fu un 
importante centro per il commercio del rame che veniva fuso nel luogo.  Enkoni ebbe stretti legami 
culturali e commerciali con Ugarit (Siria).
Nel santuario fu trovata una statuetta in bronzo del “Dio cornuto”, alta 35 cm, e 
probabilmente oggetto di culto.


Il santuario di Enkomi era costituito da tre sale: una sala in cui vi era un altare sacrificale e due 
piccole sale interne. All'altare durante gli scavi furono rinvenuti numerosi teschi di bestiame: buoi e 
anche cervi, vasi rituali per la libagione, ma la figura bronzea del "Dio cornuto" era in una delle sue 
stanze interne. Si presume che questa sia una statua del dio dell'abbondanza e il patrono del 
bestiame, che viene identificato con il successivo Apollo.
In un altro santuario, gli archeologi recuperarono una statuetta in bronzo, chiamata "Dio del 
metallo". "Dio" è armato con una lancia e uno scudo, sulla sua testa è un elmo con le corna, e lui 
stesso si erge sulla base, con la forma di talento (un lingotto rettangolare di rame, simile a una pelle 
di toro allungata). Una simile statuetta femminile (anch'essa a forma di lingotto di rame), realizzata 
a Cipro nella stessa epoca, si trova oggi in un museo di Oxford. E la presenza di una somiglianza 
compositiva così evidente ha permesso ai ricercatori di vedere in queste due sculture ... una coppia 
sposata - il fabbro Dio Efesto e la dea Afrodite - che raffigura in una forma così simbolica la 
ricchezza delle miniere di rame dell'isola di Cipro.

Statua "Il dio del metallo". Bronzo. XII secolo a.C. L'altezza di 35 cm
Museo Archeologico di Nicosia.


Erikon – Gioiello tra i reperti del santuario




Nel I millennio le dimensioni delle statue bronzee del dio abbattente aumentano; possiamo 
segnalare come esempi i bronzetti provenienti dall'Heraion di Samo, quello scoperto a Barra de 
Huelva o ancora i quattro esemplari da Cadice.
 

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La statuetta di Sciacca sarebbe da identificare con Hadad, dio delle tempeste e della guerra e
il cui  emblema, la testa di un cavallo, appare spesso nelle monete fenicie ?
La  risposta non è facile e ci sarebbe molto da indagare su quella che era la religione dei  Fenici.
Nel poema rinvenuto a Ras Shamra, l’antica Ugarit, Ba’al (Signore) conquistò la sovranità 
combattendo “Yarm” (Il Mare), che era stato nominato sovrano dall’essere supremo “El” (termine 
semitico per indicare Dio), difendendola successivamente dalle azioni del dio infero “Mot”.

Tavolette – Poema Mitologico del ciclo di Ba’al  ....
Datazione: XIV secolo a.C. – Materiale: argilla
Artista: Sconosciuto
Collocazione: Museo del Louvre. Parigi

L’ordinamento dell’universo sarebbe quindi basato su un mondo governato da Baʽal e due anti-
mondi (mare e inferi) retti rispettivamente da Yam e Mot: il tutto è forse alla base della concezione 
cosmologica tripartita che fu anche dei Greci con le divinità Zeus (corrispondente a 
Baʽal), Posidone (corrispondente a Yam) e Ade (corrispondente a Mot). Altri tratti sottolineano la 
corrispondenza di Baʽal con Zeus: il fulmine come arma e strumento di potere, la facoltà d’inviare 
la pioggia e la venerazione sulle alture. “Alture” (bâmôth) erano detti i suoi santuari tipici, 
consistenti in uno spiazzo per il pubblico, una nicchia per i sacerdoti, un monumento di stele di 
pietra incise (massêbôth) e poste attorno a una stele più piccola (betilo), un altare per sacrifici e 
serbatoi d’acqua. Il culto di Baʽal, diffuso tra i Fenici asiatici (orientali) e quelli africani 
(occidentali), fu conosciuto e persino praticato, con sdegno dei profeti, anche dagli Ebrei. La 
tradizione ebraica ortodossa lo ha tuttavia inteso come un anti-Dio, il Signore degli spiriti del male. 
Due suoi nomi cultuali “Baʽal di Phegor” (un monte nei pressi del Mar Morto), divenuto Belfagor, 
“Baʽal-Zebub” (forse “Baʽal delle mosche”), divenuto Belzebù, passarono a indicare due diavoli 
della tradizione giudeo-cristiana. Nei testi di Ugarit Baʽal era identificato con Hadad, dio della 
tempesta e dell’uragano. Nell’area siriaca era spesso invocato come Aliyan e si trovava al centro di 
una serie di miti, in cui si accompagnava alla sorella ‘Anat e si contrapponeva al nemico Mot.

(XV – XIII secolo a.C.)
Acropoli, Ras Shamra (antica Ugarit)
Scavi di C. Schaeffer, 1930, 1930
Museo del Louvre, Parigi

La decorazione di questa stele ad arco mostra il grande dio della tempesta Baal che brandisce una mazza e spinge nel terreno una lancia che fa germogliare la vegetazione. Una figura più piccola, probabilmente il re di Ugarit, sembra essere sotto la protezione del dio. Questa stele, la più importante di quelle scoperte a Ugarit, testimonia la diffusa produzione di stele nel Vicino Oriente, dove sono emerse come uno dei principali mezzi di espressione artistica durante la tarda età del bronzo.
Un dio guerriero
La grande stele del Louvre reca il rilievo scolpito di una monumentale figura maschile in azione, che sovrasta una figura molto più piccola in piedi su un piedistallo. Il copricapo con le corna indossato dalla figura principale indica che è un dio. È rivolto a destra, il braccio destro sollevato sopra la testa e brandisce un bastone, l'altro braccio teso e porta una lancia, la cui testa è conficcata nel terreno, mentre la vegetazione spunta dal suo albero. Il dio porta la barba e due lunghe ciocche di capelli cadono sotto le sue spalle. Alla vita del suo corto perizoma, decorato a strisce, pende un pugnale, la cui punta sembra toccare la testa della piccola figura. Quest'ultimo indossa una lunga veste bordata di treccia, che nasconde le braccia. La sua piccola testa rotonda è nuda. Il piedistallo su cui sta è un altare più piccolo e meno ornato di quello su cui si trova la figura principale: questo altare è costituito da due ordini rettangolari con angoli sporgenti, ciascuno decorato da una doppia linea fluente di spessore disuguale.
Il dio della tempesta che protegge il re
Oggi è generalmente accettato che questa scena raffigura il dio Baal che scatena una tempesta, dagli elementi che ha nelle mani e dalla sua posa tipica degli dei della tempesta adorati in tutto il Levante. ( il dio greco Zeus e il dio romano Giove avrebbero successivamente assunto la stessa posa e attributi). La bellissima metafora visiva della lancia trasformata in pianta è un'allusione agli effetti benefici della pioggia prodotta dai temporali. La piccola figura accovacciata tra il dio e la sua lancia è generalmente considerata il re di Ugarit, in abito da cerimonia, le braccia incrociate in preghiera e il destinatario della protezione divina. Come il dio, è stato mostrato posto su un altare come allusione al suo ruolo di officiante nelle cerimonie? Più difficili da nterpretare sono i motivi scolpiti sull'altare a due livelli su cui si trova il dio.
Il mostruoso serpente che causerà la morte di Baal è raffigurato sopra le onde scolpite dell'oceano? O è l'orizzonte delle montagne che circondavano il regno di Ugarit, protetto da Baal, la cui dimora è "nella parte più interna del monte Sapon".
La stele raffigurante il dio della tempesta Baal è la più grande e la più significativa delle stele scoperte a Ras Shamra.

Figura divina, bronzo, alt. cm 15,3, Parigi, Louvre. La figurina rappresenta un dio della tempesta, gradiente, con un braccio levato a sorreggere un’arma perduta, secondo un’iconografi a alquanto diffusa. Le figure gradienti, che possono avere le braccia realizzate a parte e applicate, sono spesso caratterizzate dal corto gonnellino a pieghe orizzontali, fermato in vita da un’alta cintura, con i lembi frontali ricurvi. Questa immagine, che aveva gli occhi intarsiati, ha un copricapo particolare, senza confronti nelle altre fi gure della stessa categoria, mentre, come altre statuine, era forse coperta di foglia d’oro, almeno nelle parti nude del corpo.




Hadad era il dio della tempesta (dei fulmini) e della pioggia nelle regioni cananee e mesopotamiche 
antiche. Fu introdotto in Mesopotamia  dagli Amorrei , popolazione nomade semitica, per poi 
diffondersi in tutti il Levante.
Abbiamo visto come nelle tavole di Ugarit è chiamato “Ba’al” (Signore).
Il toro era il suo animale simbolico ed era raffigurato con la barba, spesso con un mano una mazza 
un fulmine. Indossava un copricapo con corna di toro. Nei testi religiosi Hadad è associato al 
Ba’al e viene indicato come il signore del cielo che governa la pioggia e quindi la germinazione 
delle piante con il potere di determinare la fertilità.
È quindi il protettore della vita e della crescita degli agricoltori della regione.


Statua colossale del dio Hadad, da Gerdshin vicino a Sam'al, (Turchia), 775 a.C.
 Museo di Pergamon

Melqart (Melkart) era invece il nome tutelare della città fenicia di Tiro. A questo  dio tutelare era 
spesso associato il titolo di Ba’al (“Signore”). i Greci  lo collegarono all’Erache di Tiro e per i 
Latini era l’Ercole di Tiro.
Lo storico Erodoto scrisse:
Volendo io su questi fatti sapere qualche cosa di preciso da coloro che potevano esserne informati, feci vela anche per Tiro di Fenicia, essendo a conoscenza che colà c'era un venerato santuario di Eracle. E vidi il tempio riccamente adorno di molti doni votivi, tra l'altro c'erano due stele, una d'oro puro, l'altra di smeraldo, che nella notte emanava intensi bagliori. Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiesi loro da quanto tempo era stato innalzato il santuario. Ma trovai che neppure quelli s'accordavano con i Greci poiché assicuravano che la costruzione del tempio era stata contemporanea alla fondazione di Tiro e Tiro era abitata già da 2300 anni. Siccome, poi, a Tiro avevo visto un altro tempio di Eracle, detto Tasio, mi recai anche a Taso e vi trovai il santuario di Eracle fondato dai Fenici, i quali, messisi in mare per ricercare Europa, avevano colonizzato Taso: e ciò era avvenuto ben cinque generazioni umane prima che, in Grecia, venisse alla luce Eracle, figlio di Anfitrione. Le mie ricerche, dunque, dimostrano all'evidenza l'antichità del dio Eracle. E a mio parere, fanno molto bene quei Greci che hanno santuari eretti a due Eracli: a uno, che chiamano Olimpio, offrono sacrifici come a un dio; all'altro onori funebri come a un eroe.

 Evidenze archeologiche del culto di Melqart sono state trovate dapprima in Tiro 
sembrano  essersi diffuse verso occidente con le colonie fenicie stabilite da questa città, fino a 
mettere in ombra Esmun di Sidone. Il nome di Melqart era invocato nella stipula di contratti, 
secondo il dott. Aubet, divenne abitudine, per questo motivo, innalzare un tempio a Melqart, 
protettore dei mercanti di Tiro, in ogni colonia fenicia: a Cadice il tempio di Melqart è antico 
quanto le prime vestigia dell'occupazione fenicia. I Greci seguirono un percorso parallelo per i loro 
Eracle.
A Tiro il Gran Sacerdote di Melqart era secondo solo al re. Perfino Cartagine mandava un tributo 
annuo del 10% del pubblico tesoro al dio di Tiro fino al periodo ellenistico.
Molti nomi cartaginesi riflettevano questa importanza di Melqart; per esempio Amil(car)e, 
Bomil(car)e; ma Baal o Bal, come parti di nome per Asdru(bal)e e Anni(bal) e quasi certamente 
non portavano a Melqart ma a Ba'al, il capo degli dèi di Cartagine, un dio identificato dai Greci 
con Crono e dai Romani con Saturno (divinità).
Melqart proteggeva le terre puniche della Sicilia e sono stati trovati templi dedicati a Melqart in 
almeno tre siti fenici in Spagna: a Cadice, a Ibiza nelle Baleari, e a Cartagena, in Marocco: a Lixus.
Vicino a Gades/Gadeira (Cadice) "era situato il più occidentale tempio dell'Eracle di Tiro, vicino 
alla spiaggia più orientale dell'isola" (Strabone 3.5.2–3). Strabone annotava (3.5.5–6) che le due 
colonne di bronzo all'interno del tempio, entrambe alte otto cubiti, erano proclamate essere le 
vere Colonne d'Ercole da molti di coloro che avevano visitato il posto e vi avevano compiuto 
sacrifici a Eracle. Ma Strabone riteneva un falso questa pretesa, in parte evidenziando che le 
iscrizioni sulle colonne non parlavano di Eracle e descrivevano solo le spese che avevano 
affrontato i Fenici per erigerle.
Un altro tempio a Melqart si innalzava a Ebusus (Ibiza), in uno dei quattro insediamenti fenici sulla 
costa meridionale dell'isola. Nel 2004, durante i lavori all'Avenida España, una delle principali 
strade dell'isola, scoprirono un altro tempio punico. Testi rinvenuti menzionano Melqart assieme ad 
altri dèi fenici come Esmun, Astarte e Baal.
La protezione del dio di Tiro si estendeva fino al promontorio sacro di Cabo de São Vicente oggi 
in Portogallo, il punto più occidentale del mondo conosciuto; una terra così sacra che era vietato 
trascorrervi la notte.

Cabo de São Vicente (Portogallo)
Sagres – Distretto di Faro 

È stato suggerito che Melqart sia nato come dio marino al quale siano state dati, in seguito, attributi 
solari o, in alternativa, che sia nato come dio solare ed abbia ricevuto gli attributi marini più tardi. 

Cadice - Due statue votive del Tempio di Melqart

Gli studiosi sarebbero quindi propensi ad identificare la statuetta di Selinunte con il dio Ba’al o 
Hadad anche se il Museo Salinas di Palermo, che detiene il prezioso reperto,  la collega al dio 
mediterraneo Reshef del periodo hyksos dell’Antico Egitto.
È notevole, come abbiamo visto, la somiglianza con il Ba’al di Ugarit esposto al Museo del Louvre 
(del XIV secolo a.C.).
Il copricapo con protuberanza a bottone, la posizione ammonitrice del braccio destro riscontrabile 
nella produzione artistica delle civiltà del tempo], è spesso di sostegno a fulmini, scettri, oggetti o 
armi (asce, mazze, clave) che ne attestano la potenza di dio atmosferico, degli uragani e delle 
tempeste. Lo spazio vuoto nelle mani del bronzetto di Selinunte suggerisce un esito analogo. La 
presenza della barba a punta, caratteristica dei popoli mesopotamici, discosta ulteriormente da 
Melqart (che è un "figlio" e, come tale, viene raffigurato imberbe) e avvicina la statuetta al contesto 
iconografico di Ba'al, Hadad, Teshup e Reshef.
Naturalmente, il ritrovamento in mare non qualifica di per sé il reperto come autoctono, ma rafforza 
il collocamento della Sicilia pre-ellenica lungo le rotte principali del Mediterraneo antico e la pone 
certamente in un contesto di assidua frequentazione culturale con i popoli egei e del vicino Oriente. 
Una frequentazione dei popoli dell’oriente  già in atto negli ultimi secoli del II millennio a.C.

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I fondatori dell’antica “Onuba” (Huelva), intorno all’anno 1000 a.C. furono i Fenici. Una statuetta
di Melqart fu trovata nell’estuario dell’Huelva.


Estuario dell'Huelva

Figura del dio Melqart
In bronzo  (VIII – VI) secolo a.C.
Epoca fenicia arcaica, segue la iconografia de Reshef (dio egizio) o
del dio fenicio Melqart
Museo de Huelva

Queste statuette appaiono sulla costa atlantica andalusa e ci sono esempi sia nel Museo di Huelva 
che nel Museo di Cadice. Figura maschile che rappresenta il dio egizio Reshef o il dio siro-cananeo 
Melqart, in atteggiamento di attacco. Un guerriero e un dio minaccioso, Melqart è anche 
considerato dagli orientali come il protettore del commercio marittimo. I Fenici, nella loro 
espansione verso l'Occidente, istituirono molteplici santuari dedicati a questo dio nei punti di 
maggior interesse commerciale. Uno di loro avrebbe potuto essere a Huelva, un importante 
emporio in questo periodo
I Fenici di Tiro erano abilissimi navigatori e dal Libano si spinsero in estremo occidente nei 
dintorni dello Stretto di Gibilterra, creando lungo le coste del Mediterraneo degli scali o empori, 
delle colonie.
Per quale motivo coprirono così grandi distanze?
La risposta  penso che sia unica: la ricerca di materie prime. Gli insediamenti felici erano posti in 
particolare nelle zone più ricche , non solo dal punto di vista agricolo, ma anche per le risorse 
minerarie come argento, rame, stagno.
Stesicoro nel VI secolo a.C. ricordò le “radici argentee” del fiume Tartesso  (nell’Iberia 
meridionale, in particolare  in Andalusia, nell’area del delta del Guadalquivir).


La fondazione di Cadice (Gadir) oltre a rientrare nell’ottica della commercializzazione 
delle materie prime, non a caso la città è ubicata presso lo sbocco delle vie attraverso le quali 
transitava l’argento, conferma sia il ruolo primario di Tiro nell’iniziativa commerciale fenicia 
nell’estremo occidente, sia l’importanza del culto di Melqart, che segnava materialmente e 
proteggeva, attraverso la costruzione di santuari, le zone di influenza commerciale fenicia.
La fondazione di Gades (Cadice) non fu impresa facile, infatti fu portata a termine dopo due 
spedizioni andate a vuoto.
Scrisse Strabone:
“Dall’oracolo fu comandato ai Tirii che dovevano mandare colonie presso le Colonne d’Ercole. 
Quelli che furono mandati per riconoscerle, essendo giunti allo stretto di Calpe e stimando quei 
promontori, che fanno lo stretto, fossero il fine della terra abitata e delle imprese di Ercole e che 
fossero quelli stessi che l’oracolo chiamava colonne, si fermarono in quel luogo dentro lo stretto, 
dov’è ora la città degli Axitani, quivi avendo sacrificato e non trovando alcun segno di di buon 
augurio se ne tornarono a casa. Dopo qualche tempo coloro che di nuovo furono mandati, uscirono 
dallo stretto di 1500 stadi e arrivati in un’isola consacrata ad Ercole fecero a quella deità un 
solenne sacrificio, ma non trovando neanche questa volta alcun segno di buon augurio se ne 
tornarono di nuovo a casa. Quelli che con la terza spedizione, arrivarono a Gadir vi si fermarono e 
vi edificarono un tempio nella parte orientale dell’isola e nell’occidente la città“.
Nel racconto di Strabone i coloni di Tiro  cercarono di riconoscere i luoghi delle Colonne d’Ercole 
lo stesso racconto contribuì a risolvere il dibattito sul posizionamento delle mitiche colonne. 



Il mito affermava che quando Melqart oltrepassò lo stretto di Gibilterra stabilì che oltre era il regno 
della morte e per segnare i confini tra esso e il regno dei viventi vi pose a perenne monito dei 
naviganti due pilastri: i Pilastri di Melqart identificati poi dai Greci e dai Romani con le colonne di 
Ercole. Il luogo scelto dai Fenici per la fondazione di Cadice si trova oltre la baia di Algesiras, qui 
insistono tre isolotti: Kotinoussa, Erytheia e Antipolis che sicuramente nell’immaginario fenicio 
furono assimilati alle rocce erranti sulle quali, per volere di Melqart, era stata fondata Tiro. 
Le isole, i promontori, le foci dei fiumi erano luoghi preferiti dai Fenici sia perché offrivano facili 
approdi sia perché consentivano scambi e commerci senza addentrarsi nel retroterra indigeno.


La scelta del sito per la fondazione di Gades, fu certamente una scelta mirata se si pensa che a 
ridosso delle isole gaditane era stanziata la comunità dei Tartessi, diventa chiaro che i Tirii 
intendevano realizzare un insediamento mercantile pienamente inserito anche geograficamente 
nella rete complessa di scambi e intermediazioni avviata dalle comunità tartessiche fin dalla fine 
dell’età del bronzo.
Lo storico Livio scrisse che presso il tempio di Melqart, a Cadice, si era recato anche Annibale, il 
nemico mortale di Roma, che trovandosi in Spagna. ove preparava l’invasione dell’Italia, si era 
recato in pellegrinaggio a Gades per offrire sacrifici al dio e per chiederne la protezione. Lo storico 
narra poi che prima della partenza sia apparso in sogno al condottiero cartaginese un inviato di 
Melqart per i mostrargli la via da percorrere sulle Alpi per invadere l’Italia.
Sembra che anche il grande condottiero cartaginese Annibale Barca, figlio di Amilcare 
Barca, fosse molto devoto a Melqart. Lo storico Livio ci narra la leggenda che vuole che prima 
di compiere la marcia verso l'Italia, Annibale si fosse recato in pellegrinaggio a Gades (l'attuale 
Cadice) e avesse offerto un sacrificio a Melqart. La notte prima della partenza, al condottiero 
apparve in sogno un bellissimo giovane, inviato da Melqart per mostrargli la via per l'Italia. Il 
giovane raccomandò ad Annibale di non voltarsi indietro durante il percorso, ma il Barcide 
non resistette e vide dietro di sé un enorme serpente che distruggeva ogni cosa che incontrasse 
sul suo cammino. Quando Annibale chiese al suo accompagnatore il significato di quella 
visione, Melqart stesso gli disse che ciò che aveva visto era la desolazione della terra d'Italia. 
Quindi, il dio intimò al condottiero di seguire la sua stella e di non indagare oltre riguardo ai 
disegni oscuri del cielo.


Europa Occidentale con Hispania e Galizia nell'angolo inferiore destro accanto alle Colonne d'Ercole. Particolare della mappa del mondo di autore anonimo, stampata da Lucas Brandis.
(Delitzsch, Sassonia, 1450 – Lubecca, 1500)

Per capire l’importanza del dio Melqart nella cultura fenicia è necessario fare riferimento 
all’importante città di Tiro posta su una piccola penisola della costa libanese.
La città venne costruita su due isolotti poco distanti tra loro e lontani circa 600 metri dalla 
terraferma. Nel secolo X a.C. re Hiram I li riunì facendo colmare il braccio di mare che le separava. 
Secondo la leggenda il dio Melqart, che sarà chiamato “Signore della città di Tiro”, dopo aver 
insegnato ai Fenici l’arte del navigare, ordinò loro di stabilirsi su due isole galleggianti, in una 
erano un ulivo secolare e un’aquila. Non appena quest’ultima venne sacrificata al dio, le radici del 
gigantesco ulivo fissarono le due isolette in fondo al mare. I due isolotti, ovvero le due grandi rocce 
vennero allora chiamati “Pilastri di Melqart” e furono raffigurate, come confermano non pochi 
storici,  in tutti i templi che gli abitanti di Tiro fecero edificare in onore del dio. I due pilastri di 
Melqart presenti nel tempio di Gadir (Cadice), come del resto tutti gli altri, vennero chiamate dai 
romani “ Colonne di Ercole” )(Melqart dai Romani fu assimilato ad Ercole).
Euristeo ordinò Melqart (Ercole) di recarsi presso l’isola di Eritheia, che faceva parte del mitico 
regno di Tartesso, il cui sovrano era Gerione, e a questi avrebbe dovuto sottrarre la pregiata 
mandria di buoi rossi. Ercole riuscì nell’impresa, sottrasse i buoi, li trasportò in Italia e da lì 
aggrappatosi alle corna di un bue –guida, assieme alla mandria avrebbe attraversato a nuoto lo 
stretto di Messina, per giungere Erice dove entrò in conflitto con il re  per sottrargli il regno.
I miti sono fantasia ?
La risposta non è facile dato che i miti nascondono spesso delle verità. G.B. Vico diceva:
“La favola è alcuna volta un adombramento della storia, in maniera che sotto gli ornamenti di 
quella vi siano racchiusi dei fatti che si riferiscono o alla storia degli uomini o della natura”.
 I Fenici ritenevano la rossa porpora un dono di Melqart. Il colore rosso si riscontra infatti con 
notevole frequenza nelle loro vicende. L’Eritheia, nome dell’isola dove si recò Ercole, significa la 
“rossastra”;  Melqart era definito il dio che apre l’orizzonte, quell’orizzonte occidentale dove 
tramonta il sole rendendo il cielo rossastro ed infine rossi erano i buoi di Gerione.
I mitografi sono dell’avviso che il rosso sia una metafora, considerando che le coste in prossimità 
dello stretto di Gibilterra sono ricche di stagno e di rame. Il colore rosso potrebbe alludere al rame, 
il minerale dalle sfumature rossastre, l’oro di quel periodo storico, che i Fenici usavano per la 
costruzione di monili e di armi e che definivano “ la divina porpora pietrificata”. Il rame, d’altra 
parte, veniva commerciato fuso in lingotti in una forma che ricorda la pelle di un bue o oxide, e 
ogni lingotto valeva sul mercato un bue vivo. Questa interpretazione fa supporre che i buoi rossi 
alludano al rame e che il viaggio a nuoto di Ercole con i buoi, fino in Sicilia, sia metafora di come 
Melqart, dio del mare, guidasse le navi fenicie col loro carico fino in Sicilia. La vicenda, poi, della 
lotta contro il re Erice ha radici in un fatto storico: la lotta per il predominio sulla Sicilia 
occidentale tra i fenici vincitori e gli Elimi di cui Erice era il re.

lingotto di pelle di bue

lingoyyi di rame e di pelle

Ricostruzione paleografica della baia di Cadice in epoca protostorica effettuata dopo recenti indagini geoarcheologiche (secondo De Frutos e Muñoz, 2004).

Particolare dell'incisione di G. Höfnagel (1564) raffigurante le operazioni pesca effettuate nel cosiddetto Hercules, situato sulla costa atlantica dell'isola di Cadice. L'uso degli arpioni per finire il tonno può essere visto chiaramente, come descritto da Horozco alcuni decenni dopo (secondo López e Arbex, 1991).


Gadir (Cadice) citata da Omero aveva un tempio dedicato al dio Melqart.
Sulle rovine del tempio fu costruito il Castello di San Pietro, sull’omonima isola. Furono trovati 
vari ed importanti reperti archeologici tra cui un bronzetto del dio fenicio.
I ritrovamenti archeologici confermano ciò che già Strabone nel I secolo scrisse in modo chiaro: " I 
tiri fondarono Cadice costruendo il santuario nella parte orientale dell'isola e la città nella parte 
occidentale ..."  Il bronzetto trovato in Sancti Petri rappresenta un sacerdote-guerriero in posa di 
attacco, ed è la chiara rappresentazione di un dio in atteggiamento ieratico, riportabile a Reshef, il 
Melqart egiziano. L'importanza del tempio fu fondamentale. In una concezione della vita 
mercantilista, come era quella fenicia, il tempio del Melqart, regolava le attività commerciali svolte 
sotto la sua protezione, ed era considerato il garante dei rapporti commerciali concordati. Il tempio 
di Ercole Gaditanus o Herakleion Gaditanus sorgeva nell'antichità nell’isolotto oggi chiamato 
Sancti Petri, che si trova a San Fernando (Cádiz). Omero scrisse che fu fondato al termine della 
guerra di Troia, ossia nei primi anni del XII a.C. Il santuario contava una serie di edifici che si 
affacciavano in un cortile che ospitava il tempio principale a cui si accedeva da un ingresso 
affiancato da due grandi colonne. Secondo l’autore Silio Italico nel frontespizio c’erano le Fatiche 
di Ercole scolpite in bronzo. Non c'era alcuna immagine del dio all'interno dell’edificio.
Inoltre si racconta che i sacrifici umani erano proibiti perché nell’altare bruciava un fuoco 
perpetuo, curato e vigilato incessantemente dai suoi sacerdoti. Secondo Strabone, nell’ingresso, fra 
le colonne, i navigatori sacrificavano alle divinità. Sono celebri i due pozzi di acqua dolce che 
riuscivano a contrastare il regime delle maree e mantenere la potabilità. Lo storico latino Pomponio 
Mela affermò che sotto il tempio furono sepolti i resti Ercole, ed è da ciò che deriva la sua grande 
fama. Essa conteneva anche altre reliquie famose, come la cintura di Teucro, eroe greco figlio di 
Telamone, e l'albero di Pigmalione che produceva frutti preziosi come lo smeraldo. Le fonti 
storiche classiche riferirono che molti personaggi famosi per le loro imprese o la loro nobiltà, 
visitarono il tempio. Tito Livio narrò che Annibale arrivò ​​sull'isola per offrire alla divinità i suoi 
voti prima di intraprendere la conquista d'Italia. In questo santuario, Giulio Cesare ebbe un sogno 
premonitore, quello del dominio globale sul mondo, dopo aver pianto davanti al busto di 
Alessandro Magno, il grande condottiero che morì precocemente e non riuscì a coronare il suo 
sogno di conquista.
Il declino della città iniziò nel IV secolo, fino a perdere del tutto la sua importanza durante il 
dominio dei Visigoti. Il santuario subì attacchi e distruzione, l'azione del mare, lo sfruttamento 
come cava di pietra e allevamento di ostriche e occupazioni successive che lo portarono alla 
scomparsa. Secondo alcuni, l'apostolo Giacomo sbarcò sull'isola di Sancti Petri per sradicare il 
culto pagano nel tempio e consacrare al culto cristiano l’isola. Oggi, sulle alture dell'isola sorge un 
castello-fortezza di pianta irregolare costruita nel XVIII secolo, su cui si nota una torre edificata nel 
XVI secolo. Per la sua condizione insulare, è raggiungibile solo in barca. Dalla terraferma partiva 
una strada verso l'isola di Cadice ma oggi non esiste più a causa dell’azione del mare, pur se si 
notano ancora le tracce di questa unione.






Cadice - Castello Sancti Petri



I bronzi del dio Melqart trovati a Cadice (un ripostiglio votivo ?)
vicino all’ex tempio del dio fenicio (oggi Castello Sancti Petri)



















Localizzazione sconosciuta


(A) - Bronzo della Collezione Vives – Museo Archeologico Nazionale
(B)  (B) – Bronzo “procedente” di Merida – Hispanic Society – New York


BRONZI TROVATI A HUELVA



(A) – Bronzo di Sciacca
(B)  (C)(D) – Bronzi dell’Heraion de Samos



(A) – Guerriero de la Torres – British Museum – Londra
(B)  – Guerriero di Cadice – Museo del Louvre - Parigi



(A) Hercules – Melqart – Museo Archeologico di Siviglia
(B)(C) – Bronzi Iberici- Collezione Vives – origine Andalusa
Museo Archeologico Nazionale

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Un tempio, citato da alcuni storici greci, di cui non rimangono tracce, era presente a Ibiza, 
nelle Baleari, sosta obbligata per le navi che si avventuravano lungo la rotta settentrionale.
Nel 2003 è stata rinvenuta, proprio a Ibiza, un’iscrizione in sette linee, incisa su una 
tavoletta di osso, databile attorno al VII sec. a.C.
La tavoletta presenta quattro fori circolari, uno in ogni angolo, probabilmente era destinata 
ad essere appesa ad una porta di qualche edificio cultuale. Oggetto della dedica è la porta 
stessa, il dedicante di nome Eshmunab ricorda l’offerta al dio e menziona la sua ascendenza 
fino alla sesta generazione. Il destinatario della porta è Eshumun-Melqart o si tratta di un 
dio dal nome doppio o più probabilmente di un’associazione cultuale che implicava la 
venerazione congiunta delle divinità poliadi delle due più prestigiose città fenicie: Sidone e 
Tiro.
Non deve stupire che l’oggetto della dedica sia una porta: presso i Fenici esistevano riti di 
protezione degli ingressi, soprattutto nelle cerimonie che accompagnavano la costruzione di 
un tempio. Alla “Porta” era affidata la difesa del tempio dalle forze del male, un simile 
valore avevano anche le colonne di Tiro, i pilastri di Melqart. Del resto la collocazione delle 
colonne all’ingresso dei templi richiama il concetto di porta, che rivestiva grande 
importanza nel mondo orientale antico, presso la porta infatti sedeva il  Consiglio degli 
anziani, là si esercitava la giustizia e si trattavano gli affari.



1) l'dn. PSmnmlqr
2)t. rr. >zpc
l. >S
3) mn'b. bn cbd'mn b
4) n 'bdtwyn bn hy
5) d/ry bn bdgd. bn d'mlk
6) bn. ìfb. kSmc
 ql dbr
7)v

 

I) Al signore Eshmun-Melqar-
2) t. questa porta ha fatto *$-
3) mn'b figlio di 'bd'mn fi-
4) glio di 'bdtwyn figlio di hy-
5) d/ry figlio di h'b, poiché egli ha ascoltato la voce delle sue paro-
6) le.

------------------------ 

Il Porto di Melqart – Capo Malfatano  (SU – Provincia del Sud Sardegna)

I Fenici si stanziarono in Sardegna sin dall’VIII secolo a.C.
L’isola con la sua posizione geografica e la fertilità dei suoi vasti territori, era una base 
importante lungo le rotte commerciali che conducevano alle Baleari ed alla penisola iberica.



In questo periodo i rapporti con le popolazioni nuragiche si svolsero all’insegna della 
pacifica frequentazione. Tharros, Nora e alcuni villaggi nuragici nelle vicinanze furono i 
primi luoghi di contatto tra i due popoli. Questi stessi siti, che via via si ingrandirono, 
accolsero, poi, stabilmente alcuni gruppi di Fenici in fuga dal Libano. I due popoli 
coabitarono pacificamente ed i villaggi costieri di Karalis, Sulcis, Tharros s’ingrandirono 
diventando importanti centri urbani organizzati in città-stato.
I Fenici introdussero nell’isola il culto di Melqart che verrà mantenuto anche con la 
successiva conquista da parte dei Cartaginesi che riuscirono a controllare tutti i porti ed a 
impedire i commerci con l’esterno assediando l’isola con un blocco navale per avere 
ragione della popolazione Sardo-nuragica.




Lungo la costa sud- occidentale della Sardegna, esattamente a Capo Malfatano, dopo un 
enorme sperone roccioso che scende a picco sul mare, si apre una grande rada dai fondali 
sabbiosi, interrotta ad est da una mastodontica struttura in pietra: una muraglia che si 
interrompe dopo essersi sviluppata per 90 metri circa.
Sul lato ovest della stessa rada, a circa 100 metri di profondità, un’altra muraglia, costruita 
con la stessa tecnica e lo stesso materiale, sono i due bracci dell’antichissimo porto di 
Melqart, forse il più grande di tutto il Mediterraneo antico. Le due muraglie formate da 
grosse pietre sagomate, disposte ad incastro o sovrapposte, lasciano un varco di circa 240 
metri che permetteva il transito delle navi.
“Un porto antichissimo - scrive l’archeologo Bernardini - che poteva ospitare 400 grandi 
navi e di cui abbiamo testimonianza nelle carte di Tolomeo; due calette più in là verso 
Teulada – continua l’archeologo– si vedono ancora le cave da cui i massi per costruirlo 
furono estratti”.
Nelle città- stato fenicie la funzione dell’”agora” greca era sostituita dal tempio, edificato 
quasi sempre in prossimità del porto, qui pulsava la vita, si concludevano trattati 
commerciali e accordi vari, questa singolarità ci fa supporre che nelle adiacenze del porto 
sommerso di Capo Malfatano sorgesse anche un tempio dedicato al dio Melqart, aspettiamo 
che la Sovrintendenza si decida a promuovere altre campagne di scavo.


Capo Malfatano





























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