ALCARA LI FUSI (Messina) - I Luoghi dell'Eremita San Nicolò Politi - Il Monastero di S. Maria del Rogato - L'Eremo - L'Acqua Santa - La Grotta del Lauro - Borgo Stella, ecc.

 








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Indice
 
1 -  Il Monastero Basiliano di Santa Maria del Rogato;
1.a – La “Dormitio Verginis”
2 -  Fra Lorenzo da Frazzanò e l’eremita Nicolò Politi – La loro amicizia
3 – La Grotta dell’”Aspicudd” sull’Etna, abitata da Nicolò Politi
4 – Verso l’Abbazia di Maniace
5 – La grotta del Cernaro (o del Giornale) di Maletto
6 – L’incontro fra San Nicolò Politi e San Lorenzo Ravi da Frazzanò
7 – L’arrivo di San Nicolò Politi ad Alcara – Cenni sul fiume Rosmarino e sull’idolo di Monte
      Scurzi
8 – La Pietra dell’Eremo di san Nicolò Politi
8.a – L’”Acqua Santa”
9 – La morte dell’Eremita San Nicolò Politi
10 -  la richiesta di canonizzazione di Nicolò Politi
11 – L’Antica Alcara
12 – San Luca da Demenna – cenni sul Mercurion
13 -  I riferimenti storici su San Nicolò Politi
14 – L’Eremo di San Nicolò Politi
15 – Le reliquie del Santo – Il Libro di Preghiere – I furti
16 – L’Esame delle pergamene in parte trafugate
17 – I Documenti
18 – La Koimesis nell’arte
19 – Alcara Li Fusi (cenni di storia)
20 – La Grotta del Lauro
21 – Borgo Stella
22 –  N. 3  Video su Alcara Li Fusi


1.      Monastero  Basiliano di Santa Maria del Rogato


Il monastero di Santa Maria del Rogato si trova nel territorio di Alcara Li Fusi (Messina), a circa 7 
km ad ovest del centro, sul versante sinistro della Fiumara di Rosmarino.
Antico convento Basiliano, uno dei tanti presenti nell’area dei Nebrodi e importanti per la loro 
funzione religiosa e culturale oltre che storica. Antichi baluardi sopravvissuti alla dominazione 
musulmana.
Non si sa molto sulla sua fondazione o rifondazione forse da collocare verso la fine dell’XI secolo 
cioè durante la dominazione normanna molto attenta alle presenze religiose importanti per il 
controllo del territorio e per la riconversione dei musulmani ancora presenti.
La sua origine sarebbe da collocare prima del 1105 come dimostrerebbe l’antico testamento redatto 
da Gregorio, abate dal 1101 al 1112, del vicino monastero di San Filippo di Fragalà (Frazzanò). 



Abbazia di San Filippo di Fragalà

Gregorio fu un abate (dal 1101 al 1112, del monastero di San Filippo di Fragalà) che ebbe un ruolo
importante nella spiritualità monastica Basiliana della valle di Demenna.
Nel testamento datato maggio 1105, furono elencate le comunità religiose (abbazie, monasteri, 
piccoli conventi) presenti nel vasto territorio compreso fra Naso e San Fratello. Fra questi cenobi fu 
riportato quello di “Santa Maria Madre di Dio” detto pure “Del Rogato o di Alcara”.  Un 
monastero importante come dimostrerebbe la presenza dell’eremita Nicolò Politi che giunse in 
contrada Calanna intorno al 1137 e che incominciò a frequentare il monastero, per accostarsi 
all’Eucarestia ogni sabato. Il luogo gli era stato indicato dall’amico sacerdote Lorenzo Ravì di 
Frazzanò che frequentava da tempo il cenobio.
Il monastero fu fondato quindi poco prima del 1137. Era esistente in epoca musulmana ? Un 
interrogativo da risolvere con scavi archeologici.
San Lorenzo da Frazzanò nel suo viaggio con San Nicolò Politi, da Maniace a Contrada Gazzana, 
parlò all’eremita sia del monastero del Rogato sia dell’abate e Teologo Cusmano di Alcara  … 
San Lorenzo riferì che da molti anni si recava nel monastero del Rogato.
Quando i normanni conquistarono la Sicilia, il Conte Ruggero si preoccupò di ripristinare questi 
antichi cenobi con ricostruzioni, ampliamenti  e donazioni. In un diploma del 1130 Ruggero diede 
una disciplina giuridica ai monasteri basiliani presenti nel territorio di Messina e il monastero  del 
Rogato non venne citato. Probabilmente si trattò di uno sbaglio, di una dimenticanza…. perché il 
monastero era già esistente  come si evince dal testamento di Gregorio del 1105.
La critica storica siciliana annovera numerosi studiosi di cultura bizantina tra cui Mario Scaduto. 
Lo studioso pose il monastero del Rogato tra quelli sorti nel periodo normanno malgrado  il nome 
del monastero non figuri nella disciplina giuridica di tutti i monasteri presenti nel distretto 
dell’arcivescovo di Messina. Monastero che non figurava sia tra quelli autonomi  che tra quelli 
dipendenti dall’Archimandrato di Messina.
Nei documenti pontifici del XIII  e nelle Collettorie pontificie del XIV secolo l’abate del monastero 
fu indicato:
"ABBAS MONASTERII SANCTAE MARIAE DE ALTARI GRAE-CORUM"
e lo Scaduto ritenne che quel
                                                   "SANCTAE MARIAE DE ALTARI"
fu uno sbaglio di trascrizione…invece di
                                                "SANCTAE MARIAE DE ALCARIAE".
Pertanto si potrebbe dedurre, anche in base all'opera dello stesso  Scaduto, che la costruzione di 
questo monastero sia avvenuta verso la fine dell'XI secolo e che, per uno sbaglio, non sia stato 
registrato nel diploma di Re Ruggero del 1130.
Nel monastero fu conservato per 336 anni il corpo del beato Nicolò Politi che vi fu trasportato il 26 
agosto 1167. Il monastero era un importante centro religioso ed economico e si mantenne in vita 
fino al 10 giugno 1490 quando un violento terremoto fece crollare parte dell’edificio. Rimase 
intatta, come per un miracolo, la chiesa dove era custodita l’arca contenente il corpo del Santo 
Politi.
I padri basiliani, non si persero d’animo e cercarono di recuperare e ripristinare una parte del 
monastero con l‘adiacente chiesa che malgrado lesionata, era rimasta miracolosamente in piedi.
Dopo alcuni anni, probabilmente per la precarietà della struttura e per l’inevitabile decadenza del  
culto ortodosso sostituito da quello latino, i monaci si trasferirono nel vicino monastero di San 
Filippo di Demenna detto di Fragalà (Frazzanò).
Nel 1503 il monastero risultava disabitato. Fino al 1503 il corpo del Santo Politi fu custodito nella 
chiesa del Rogato e nella seconda metà del suddetto anno fu trasferito ad Alcara. Il motivo del 
trasferimento fu legato ad un tentativo di rapimento delle spoglie da parte dei cittadini di Adrano.
Tra l’altro si riscontra che, nel 1633 il Monastero era ancora esistente e lo studioso Pirri riferì che 
ancora in quell’anno era presente negli elenhi nella Diocesi di Messina
                                  “ ABBAS D. MARIÆ DE ROCCATO IN ARCARIA ”.
Del sito religioso, esistono i ruderi di alcuni locali del Monastero e la piccola Chiesa d’impianto 
Medievale.  L’aspetto attuale dell’intero complesso architettonico, è frutto degli ampi
rimaneggiamenti e delle integrazioni aggiunte nel corso dei secoli.
Nel XVII secolo il monastero era in completo abbandono.










La piccola Chiesetta fu sempre officiata, dato che si mantenne viva la devozione popolare  sia alla 
Vergine Assunta raffigurata in un pregevolissimo affresco, la “ Koîmesis ”, sia alle spoglie mortali 
dell’Eremita Basiliano Nicolò Politi. Spoglie che vi furono portate  il 26 Agosto
1167 e che qui rimasero  per ben 336 anni, ovvero fino al 10 Maggio 1503, quando le reliquie,
dell’ormai acclamato Santo Paesano, furono trasportate in paese ad Alcara.  Nonostante questo 
l’edificio continuò ugualmente ad essere frequentato. Della vecchia struttura rimane la Chiesa e una 
parte di fabbricato adibito a convento e probabilmente ricostruito dopo il terremoto del 1490.
L’edificio con i suoi vasti terreni di pertinenza fu per molto tempo proprietà privata e nel 2011 
entrò a fare parte della comunità alcarese grazie alle offerte dei fedeli.

LA STRUTTURA

La chiesa in passato aveva un piccolo abside che crollò a causa degli eventi sismici, forse nel 
1490 o nel 1506. La campana fu realizzata nel 1550 dal “mastro” Giovanni  Salicona di Tortorici 
(Messina).


La chiesa è composta da due locali. In un locale è presente uno spoglio altare e nell’altro un 
altare su cui è posta un’urna di cipresso in cui furono conservate per un secolo le ossa di Politi.
Su di essa è posta una piccola scultura lignea, dell’800, che ritrae il Santo in atteggiamento orante, 
supino, con gli occhi chiusi e le mani incrociate.
Il cinquecentesco portico per l’accoglienza dei pellegrini, evidenzia tracce di un affresco di cui
difficilmente si riesce ad individuarne e leggerne la composizione figurativa e, sulla stessa parete,
una piccola porticina centinata consente di accedere all’interno della piccola Chiesa, pavimentata da
pregevolissime maioliche smaltate di ambito Nasitano.
All’interno della lunetta ricavata nella struttura muraria dell’altare, è custodito un pregevole 
simulacro seicentesco in telacolla raffigurante il Santo Eremita morto, disteso su di un letto di
tavole e con le braccia incrociate sul ventre che abbracciano la Croce ed il libro delle preghiere.
Un dipinto su tela di ottocentesca fattura, che il 15 Agosto viene collocato sull’altare del portico
addobbato con rami di alloro, raffigura l’ascesa della Beata Vergine che, tra soffici nubi viene
accompagnata in Gloria da putti e dallo sguardo degli Apostoli.
Il 15 agosto  il monastero viene raggiunto dai fedeli che all’esterno assistono alla celebrazione della 
Santa Messa in onore dell’Assunzione. Una celebrazione che apre i festeggiamenti in onore di San 
Nicolò Politi e che ricorda anche l’ultima visita che l’Eremita fece nel lontano 15 agosto 1167 al 
monastero basiliano per confessarsi.
La Chiesa di Santa Maria del Rogato è solo una parte dell’antico cenobio basiliano, o meglio di ciò 
che ne resta di esso, a causa di crolli e rifacimenti susseguitesi nel corso dei secoli. Poche le notizie 
storiche sull’edificio. Di certo è documentata la frequentazione del Santo patrono di Alcara, Nicolò 
Politi (Adrano 1117 – Alcara 1167), con la comunità monastica a partire dal 1137.Dopo la sua 
morte le spoglie dell’eremita vennero ivi trasportate il 26 agosto dello stesso anno e venerate fino al 
10 maggio 1503.


Nelle pareti laterali della chiese dei pregevoli affreschi che furono realizzati tra il XII ed il 
XIV secolo e restaurati tra il 2014 ed il 2015. Stupendo la Κοιμησισ o Dormitio Virginis
Ascensione della Vergine (datato tra il 1196 ed il 1215)   che segue i canoni artistici bizantini. 
Sempre sulla parete di destra è presente una singolare immagine di San Giovanni Battista con altre 
figure di santi molto frammentarie. Sulla parete di sinistra si trovano altre rappresentazioni con la 
Vergine che allatta il Bambino e altri frammenti pittorici poco leggibili.

La “ Koimess” prima dei restauri.


1.a  La. Κοιμησισ o Dormitio Virginis, Ascensione della Vergine

L’opera più importante ed interessante del Monastero, è la “ Koîmesis ”, un raro affresco 
ascrivibile in un arco temporale che va tra il 1230 e il 1300 e che riprende lo stile pittorico
dell’arte bizantina.
Il preziosissimo manufatto, si trovava in pessimo stato di conservazione a causa di infiltrazioni, 
muffe, cedimenti della struttura architettonica che avevano compromesso la stabilità dell’intero
edificio. Presentava disastrose scrostature della pellicola pittorica, ampie lacune cromatiche 
mancanze del supporto murario volgarmente e frettolosamente tamponati ed imbrattati di calce.
L’affresco è stato oggetto di un restauro, durato 9 mesi, che lo ha riportato al suo fascino originario 
dopo secoli di incuria e di abbandono.
Il restauro dell’affresco ha rinvigorito la spiritualità legata alla venerazione del Santo Patrono San 
Nicolò Politi. Gli affreschi furono recuperati grazie all’impegno del Comitato di Alcara Li Fusi e 
del Rotary Club di Sant’Agata di Militello.
L’affresco rappresenta una delle poche testimonianze pittoriche della Sicilia Bizantina.
L’intervento di restauro fu realizzato dal Dott. Davide Rigaglia sotto la direzione della 
Soprintendenza ai beni Culturali di Messina diretta dalla dott.ssa Grazia Musolino.
L’affresco era rovinato a causa delle muffe antiche (secolari) e  delle infiltrazioni d’acqua. I lavori 
di restauro riportarono alla luce, nelle restante parete, altri affreschi di pregevole fattura, 
contemporanei con le figure pittoriche di Santi che fanno da cornice, come in un grande pannello, 
alla Dormitio Verginis.
Tra le figure pittoriche si notano San Giovanni Battista e un Sant’Antonio Eremita che fu fondatore 
del monachesimo orientale. Quest’ultima figura potrebbe essere anche Sant’Anastasio di 
Alessandria che nelle iconografie presente il medesimo abbigliamento.
I restauri permisero di rilevare la presenza di due strati preparatori tipici della pittura murale 
bizantina. Un  primo strato, costituito da una malta di colorazione ambrata e dalla granulometria 
grossolana e  un secondo, superficiale (intonaco) costituito da una malta biancastra composta da 
calce, sabbia calcarea e paglia.
Gli esami tecnici permisero anche di rilevare come l’intonaco sia stato messo in opera in un solo 
giorno dato che non furono trovate “tracce di giornate”. Una considerazione che permise di 
giungere all’affermazione della presenza contemporanea di più artisti per la stesura della 
raffigurazione.
“L’opera rappresenta una preziosa e rara testimonianza anche in considerazione del fatto che l’iconografia della “dormizione” è sopravvissuta, in Italia, in pochi luoghi di culto».
(Dott.ssa Musolino)
L’affresco sarebbe il simbolo di una cultura e di un mondo collegato agli ultimi monasteri 
italo-greci di Sicilia.











Entrando nei dettagli della raffigurazione il tema sarebbe quindi il “Transito della Beata Vergine”. Come già riferito l’autore o gli autori dell’opera, sarebbero dei monaci bizantini  dello stesso monastero e provenienti dall’area macedone e balcanica.
La Vergine è abbigliata con una veste di color porpora ed è avvolta da un manto scuro. Ha le mani incrociate sul ventre e il suo corpo è posto sorpa un catafalco di color amaranto e decorato da volute molto semplici.
Attorno alla Vergine si trovano gli Apostoli e i Dottori della Chuesa orientale che indossano il tipico Pallio Liturgico.
In alto si trovano due angeli che sorreggono una mandorla con all’interno il Redentore che tiene tra le braccia l’anima benedetta della beata Vergine raffigurata da una bambina in fasce.
Sullo sfondo della scena si trovano degli edifici con finestre bifore da cui alcuni personaggi assistono all’evento.
In alto l’iscrizione

“ H KOIMHCIC THC U_EPA!IAC "KO ”
“ dormitio della Santissima Madre di Dio ”


Ai lati del Cristo si trovano:
sulla destra :  IC

dal lato opposto : XC
forma greca abbreviata di IHCOYC XRICTOC, Gesù Cristo

la parte inferiore del ciclo pittorico è ormai inesistente.
Varie parti dell’affresco, lateralmente si presentano coperte  dalla cornice in muratura che in alcuni punti si è staccata dal supporto murario mettendo in evidenza le tracce di altri affreschi tra cui un San Giovanni Battista e due volti forse da identificare con due monaci del monastero.
L’intera parete era quindi affrescata e successivamente l’unico elemento raffigurativo ad essere lasciato visibile, o ad essersi salvato dall’incuria fu proprio la preziosa “Koimesis”.
Sulla porta d’ingresso principale, sormontata da una piccola apertura di forma circolare, è posta
un’antica e semplice Croce greca, forse in origine dipinta, che in origine,  ma di cui oggi,
 non si vede altro che il legno.
Il 15 Agosto di ogni anno, la campana del Rogato richiama i fedeli alcaresi che si riuniscono
devotamente per accostarsi alla Mensa Eucaristica in onore della Beata Vergine Assunta e per
rinnovare la memoria dell’ultima visita fatta dall’Eremita Nicolò Politi al Monastero, nell’ormai
lontano 15 Agosto 1167.
La festività dell'Assunzione celebrata in occidente il 15 agosto, corrisponde alla festività ortodossa della Dormizione nella stessa data. Visti i resti dell'affresco conservati nella chiesa del Rogato, conformi alla tradizione figurativa bizantina della Dormitio Virginis, attorniata dagli Apostoli, che trasfigura la morte della Madre di Cristo in un sonno transitorio immune dalla morte, si potrebbe affermare come  la  chiesa del Rogato sia stata, nel corso di un millennio, al centro di un avvicendamento di culti, da quello ortodosso dei monaci basiliani a quello occidentale, con implicazioni sociali e storici da studiare.
La presenza del Santo Eremita Nicolò Politi fu giustificata dal fatto che viveva in una grotta posta nella Valle Calanna.

Il suo confessore fu proprio l’abate del Monastero del Rogato, Cusmano (Gusmano, Cosmo, Cosmanus) detto il Teologo.
Padre Cusmano era quindi un monaco siculo, di cui non si conosce la città natale, vissuto intorno all'anno 1167 e Abate del Monastero di Santa Maria del Rogato presso la città di Alcara, dell'ordine di S. Basilio. Fu ricordato negli annali storici successivi come uno dei maggiori autori in lingua greco-medievale proprio a partire dal magnifico Inno Acatisto al Santo (di cui purtroppo ci è giunto solo qualche frammento). Un autore successivo, Placido Merlino, a metà del '600, citò la medesima figura del Cusmano chiamandola "Don Urbano".
Padre Cusmano fu il primo autore a narrare e tramandare la storia di San Nicolò Politi.

"Vita S. Nicolai Adernionensis Eremitae"
"Cosmani Theologi ad D. Nicolaum Eremitam, Hymnus"

Salve Nicola inclito
d’Alcara protettore
accogli i voti fervidi del nostro afflitto cuore,
dal trono tuo di gloria prega per noi Gesù.
O giovinetto angelico bello qual vago fiore
la tua innocente infanzia sacrasti al divo amore,
nell’aspre solitudini vivesti con Gesù.
Nelle più dolci estasi di fervida preghiera
la tua serafica anima fu in ciel da mani a sera,
impetra a noi colpevoli di non peccar mai più.
Di penitenza vittima in questo mondo triste
piangesti a calde lagrime le passioni di Cristo,
l’esempio tuo sì fulgiso ci sproni alla virtù.

Anche in Sicilia erano presenti le antiche Vie Francigene… le strade dei pellegrini che nel Medioevo si recavano a Messina per proseguire il pellegrinaggio verso Roma o altri luogo di culto. Molte di queste antiche vie furono cancellate dalle continue trasformazioni sul territorio (molte diventarono le attuali statali) ed altre sono delle vere e proprie trazzere.  Archeologi, topografi e storici sono riusciti a ricostruire in Sicilia  le reti delle antiche Vie Francigene:

·         La “Magna Via Francigena”, ricalcava la via Aurelia romana e, passando da Castronovo, collegava Palermo ad Agrigento;
·         La “Palermo – Messina per le montagne”, attraversava le Madonie, i  Nebrodi ed i Peloritani. Era  la variante Montana, nel Medioevo, della “Marina”;
·         La “Via Francigena Fabaria” , così chiamata perché passava per una contrada di Vizzini, “Fabara”. Iniziava da Gela verso Maniace e Bronte, dove si innestava con la via Palermo-Messina per le montagne;
·         La “Via Selinuntina”, via romana che da Marsala andava  a Siracusa, attualmente seguita da Marsala a Gela.
·         La “Via Francigena mazarense” , da Mazara a Palermo, testimoniata dal diploma che parlava di una via Francigena in una contrada di Marsala.  Era presenta  anche la variante  che procedeva verso la valle dello Jato;
·         La via “Palermo – Messina per la marina , o dal traghetto (Messina) a Lilibeo chiamata via Valeria (via costa). Era la linea più antica e fu in uso fino al 1850.
Probabilmente il Monastero del Rogato era incluso nella Via Francigena : “Palermo – Messina per le montagne”,

2. Lorenzo Ravi da Frazzanò e Nicolò Politi: l'amicizia fra i due Santi

L’amicizia tra i due Santi  fu narrata in uno dei passi della vita di San Lorenzo.
Per questo motivo le due comunità di Frazzanò, in riferimento a San Lorenzo, e di Alcara Li Fusi, per San Nicolò Politi di cui è patrono, si gemellarono   per la prima volta nel 1665 e successivamente nel 1996 e nel 2000.
Come abbiamo visto i due Santi s’incontrarono nel 1137. Entrambi giovanissimi ma differenti nella loro personalità, nel modo di vivere e soprattutto nella spiritualità.
Lorenzo era un giovane austero, che spese la sua vita al servizio del prossimo, a contatto con la gente, predicando e convertendo i peccatori.
Nicolò, giovane bellissimo, timido e schivo, visse invece  tutta la sua vita nascondendosi agli occhi del mondo e celando quindi la sua vera identità. Un atteggiamento forse anche legato ad un perenne intento di sfuggire alle ricerche dei suoi genitor , che aveva abbandonato nel cuore della notte, ma anche di dedicarsi in modo totale ed esclusivo alla preghiera e dalla meditazione.
Giovanni Petronio Russo (Adrano, 24 giugno 1840- Adrano, 14 dicembre 1910; inventore, saggista ed artista) descrisse San Nicolò Politi come 

“Media è la sua statura, regolare delle membra, gentile alle fattezze: bionde e inanellate ha le sue chiome, serena ed aperta la fronte, nere le sopracciglia, vaghi lucenti e cerulei gli occhi; bianco e rotondo  il volto, rubiconde le guance, non grande ma profilato il naso”.

San Nicolò (nato ad Aadrano nel 1117) era figlio di Almidoro ed Alpine Politi, una nobile famiglia di Adernò e per evitare  il matrimonio combinato dai genitori con una ricca e nobile fanciulla,  fuggì a nord-est di Adernò rifugiandosi in una spelonca  sull’Etna, dove visse in penitenza per 3 anni.

3. La grotta è detta di “San Nicolò Politi” ed è ubicata in contrada “Aspicuddu”.





Una grotta di scorrimento lavico ed una delle più complesse dal punto di vista planimetrico per la presenza di cavità che s’intersecano e che si sovrappongono per formare una serie di bellissimi labirinti.
Cavità che presentano pendenze differenti per uno sviluppo complessivo di circa 800 metri.





 


In tutta la cavità è presente un discreto stilicidio e nel lato Sud l’acqua si raccoglie, nella galleria principale, in una pozzanghera fangosa.
Dopo la pozzanghera la galleria si divide in due cunicoli che si sviluppano a diversi livelli e, dopo pochi metri, si incrociano per svilupparsi in modo separato prima di immettersi in un unico ambiente.
Alcuni cunicoli hanno uno sviluppo cilindrico regolare, con diametro di circa 1 metro, mentre il pavimento è costituito da lava rappresa. La galleria bassa in direzione Sud ha l'aspetto tipico delle grotte molto antiche: la volta e le pareti sono rivestite da una patina bianca di concrezionamento; i piccoli brandelli di lava parzialmente rifusi che pendono dalla volta sono anch'essi rivestiti da questa patina e a volte prolungati da brevi stalattiti; il pavimento e la parte inferiore delle pareti sono invece scuri a causa del fango trasportato dalle acque. In questa cavità sono stati rinvenuti frammenti di ceramica attribuibili alla cultura di Castelluccio, ad età classica e medievale.





 

Scheda Tecnica
Si CT 032: Grotta del Santo
Comune: Adrano (Ct)
Località: Lava Grande
IGM: 261 II SE M. Minardo (1969)
Latitudine N:  37° 42' 31"
Longitudine W:  14° 52' 35"
Quota: 1030 m s.l.m.
Sviluppo: 800 m
Dislivello: 20 m
Idrologia:  Stillicidio intenso
Percorribilità:  Buona
Andamento:  Orizzontale
Terreno:  Lave non datate del Mongibello recente
Percorribilità:  Buona
Andamento:  Orizzontale
Terreno:  Lave non datate del Mongibello recente
Percorribilità:  Buona
Andamento:  Orizzontale
Terreno:  Lave non datate del Mongibello recente









Come raggiungere la grotta.
Al km 29 della SS 284 che da Adrano conduce a Bronte, si prende una strada verso Est
che attraversa la ferrovia Circumetnea all’altezza di un casello.
La strada conduce a Monte Turchio e dopo circa 3 km, in contrada Timpone,  diventa una
carrareccia  che, solo in alcuni tratti, è coperta da calcestruzzo.
Dopo altri 400 m si lascia sulla destra una breve strada asfaltata che conduce ad un pozzo, e si prosegue per 1.5 Km salendo attraverso le lave del 1595 (Lave del Gallo Bianco). Percorsi in totale 5 Km, a q 985, si lascia la carrareccia e si imbocca una traversa chiusa da una sbarra e orientata verso M. Minardo. 0.5 Km più avanti si incontra una dagala interamente recinta da un muro a secco e coltivata a mandorli e viti. Nella parte più alta di questa dagala si trova un secondo recinto, all'interno del quale si apre la grotta. Qui è stato eretto un altarino in memoria del Santo Nicola Politi, patrono di Adrano, che, secondo la tradizione, visse in questo luogo dal 1134 al 1137
Dal sito:
http://www.mungibeddu.it/MUNGIBEDDU/schede/032.html

Trascorso questo periodo, Dio suggerì al giovane di lasciare la sua caverna dove i genitori avrebbero potuto trovarlo e di andare verso Alcara, sotto il monte Calanna, guidato da un’aquila celeste. In questo luogo sarebbe vissuto fino alla morte.
Lungo la strada, Nicolò si fermò nella chiesa di “quel valorossimo di Maniace”.

4.  Vero l’Abbazia di  Maniace



Era l’antica Abbazia di Santa Maria di Maniace con annesso convento Benedettino e qui,
per un caso fortuito o per volere del Signore, c’era anche frate Lorenzo Ravi da Frazzanò.
Frate Lorenzo era, reduce dall’Etna, dove aveva digiunato per 40 giorni, e si era fermato  all’abbazia di Maniace, prima di dirigersi, conforme al volere del Signore, verso il monastero di San Filippo di Fragalà. 

Abbazia di Maniace



San Lorenzo Ravi da Frazzanò
Lorenzo Ravi (Frazzanò, 22 ottobre 1120 – Frazzanò 30 dicembre 1162)
Monaco cristiano, presbitero e venerato dalla Chiesa Cattolica ed Ortodossa
I suoi genitori, Cosmano Ravi e Costanza Monaco, morirono nell’arco di tempo di un anno
Dopo la morte del padre, la madre era già deceduta da un anno, nella vita del
giovane Lorenzo entrò un importante figura femminile di nome Lucia.
Era una vicina di casa che, con amore, si prese cura del giovane e sfortunato ragazzo.
All’età di sei anni chiese alla madre adottiva Lucia di intraprendere lo studio delle lettere
umane e divine nel Monastero di San Michele Arcangelo a Troina.

Troina – Monastero Basiliano di San Michele Arcangelo il Vecchio

Nel monastero Lorenzo fu invitato a vestire l’abito monacale basiliano, per poi 
successivamente ricevere gli ordini minori e maggiori.
I confratelli rimasero stupiti dalle virtù umane e religiose di Lorenzo, tanto che lo stesso
Niceforo (?), Vescovo di Troina, lo invitò subito a vestire l’abito monacale basiliano
A vent’anni Lorenzo era già sacerdote e subito si diffuse nel territorio la sua fama soprattutto
in merito alla sua fede ricca di penitenze che osservava dalla più tenera età.
pensieri di cielo", come riferisce l'antica leggenda greca.
Il giovane desiderava una vita da eremita e lasciò il monastero per vivere sei anni in
una grotta dell’Etna.
Per divina ispirazione fece ritorno al monastero di Troina per poi recarsi nel Monastero di Agira.

Agira – Abbazia di San Filippo

La tradizione citò il del suono delle campane che svanì solo quanto Lorenzo abbracciò
i confratelli. La santità di Lorenzo si diffuse in tutta l’area nebroidea e i fedeli, a costo di gradi
sacrifici, si recavano ad Agira per ascoltare la parola illuminata del sacerdote Lorenzo.
I fedeli, grazie alla sua intercessione presso Dio, ottennero  dei miracoli e delle guarigioni.
Dopo alcuni anni di permanenza nel monastero di Troina, verso il 1145 e all’età di 29 anni e con
il parere favorevole dell’abate troinese Galieno e con Erasmo, abate del Monastero di Agira, decise di lasciare il cenobio dell’Argangelo per andare a vivere in un luogo solitario, in eremitaggio.
Non si hanno riferimenti sul luogo in cui si recarono.
L’unico riferimento fu la costruzione da parte di San Lorenzo della costruzione di una
piccola chiesetta dedicata alla martire Santa Lucia. Probabilmente i tre mantennero nei
cinque anni di permanenza, un certo contatto con il mondo esterno.
Nel 1150 San Lorenzo si congedò, tra le lacrime dei due abati, per andare a vivere in completa solitudine in una grotta alle falde dell’Etna.  Il sito rimase sconosciuto (forse la grotta Del Cernaro o di Maletto  ?).

5. Etna – Grotta del Cernaro ( o del Giornale) di Maletto





L'ingresso inferiore immette in una sala, il cui pavimento è ricoperto da terriccio e da alcuni massi crollati dalla volta, dove si procede eretti. Verso monte la volta è assai bassa e occorre procedere carponi per una decina di metri sino a raggiungere la base di una scala di pietra dove si trova l'ingresso superiore, costituito da una apertura nella volta. Poco prima di questa scala si trova una galleria lunga circa cinque metri situata ad un livello superiore. Segue una galleria dalla sezione quadrangolare. Più avanti si incontra un piccolo salto che dà accesso ad una galleria, alta poco più di 2 m, molto ben conservata, di sezione dapprima ellittica e quindi triangolare. Il pavimento è costituita da lava scoriacea. Dopo circa 40 m la galleria, per circa 4 m, si articola su due gallerie sovrapposte dove la volta è assai bassa. Si superano due buche profonde più di 1 m, e si giunge in una galleria alta 5 m con sezione a goccia. Continuando si raggiunge una lingua di lava che ingombra la galleria per una decina di metri. Si osservano qui delle lamine distaccate dalla parete. La cavità termina con la volta che degrada progressivamente.
Grotta di scorrimento lavico lunga circa 160 m in lave preistoriche.

Sinonimi:  Grotta Giornale (o “Del Cernaro”)
Comune:  Maletto
Località:  Sciarella del Cernaro
I.G.M.:  261 II NE Bronte (1969)
Latitudine N:  37° 48' 13"
Longitudine W:  14° 55' 44"
U.T.M.:  
Quota:  1400
G.P.S. (geo):  
G.P.S. (utm):  
Sviluppo:  165
Dislivello:  19,5
Idrologia:  Stillicidio
Percorribilità:  Buona
Andamento:  Orizzontale
Terreno:  Lave non datate del Mongibello antico

Da Maletto si percorre la strada statale 284 in direzione di Randazzo sino al Km 7. Si imbocca una strada asfaltata in direzione nordest e la si percorre sino a M. La Nave, un cono avventizio di colore rosso, a 5 Km dal paese. Si prosegue per 500 m su una carrareccia che costeggia dapprima le falde del monte e successivamente curva sulla destra ed in leggera salita si addentra in un querceto e conduce ad un cancello che delimita il demanio forestale. Alla destra del cancello si diparte una mulattiera, transitabile con automezzi per fuoristrada, che si inerpica nei boschi. Dopo 1 Km si incontra una diramazione ad angolo retto sulla destra. Si percorre questa diramazione, molto erta, per 500 m, attraversando un castagneto, sino ad un breve tratto in piano. Da qui si prosegue a piedi per circa 150 m, in direzione est, mantenendosi in quota, sino a raggiungere una radura. Qui si trova uno degli ingressi della grotta, poco visibile ma segnalato da una piccola piramide di pietre. Più avanti si trova l'ingresso inferiore.







In queste grotta Lorenzo fu arricchito da innumerevoli consolazioni da parte dello 
Spirito Santo fra continue
lotte contro le tentazioni del maligno. In questa solitudine fu consolato dalla visita di
pii eremiti che come lui, dimoravano tra i boschi del vulcano, in grotte o in ripari di fortuna.
Fra questi eremiti ci fu anche San Nicolò Politi, tra l’altro contemporaneo di Lorenzo;
San Luca, abate di Sant’Elia in Calabria; con il quele scambiò  “pensieri del cielo”
come riferisce un’antica leggenda greca.
Nel 1155 fece ritorno nella sua natia Frazzanò ed entrò nel Monastero di  San Filippo di Fragalà.,
“distante appena mille passi da casa sua”.

In questo monastero in fermò per circa tre anni, facendo edificare a “Frainos”
(altro nome di Frazzanò), una chiesa dedicata a San Filadelfo che fu arricchita di molte reliquie.
La sua vita nel monastero era intensa, dedicata alla parola del Vangelo ed alle numerose
visite dei fedeli che chiedevano le Grazie.
Nei primi anni del 1158 fu chiamato a predicare in alcune zone della Puglie e della Calabria che
ancora non si erano riprese dalla dominazione saracena..
Lorenzo deide una grande prova di fede mostrando ai fedeli la Grazia di Dio.
Si recò a Reggio  in seguito alle suppliche dei cittadini colpiti dalla peste.
In breve tempo ridiede la salute del corpo non solo a chi lo invocava ma, come il profeta Giona,
riportò i peccatori, grazie alla penitenza, alla sincera conversione.
A Reggio costruì ben tre chiese i cui ruderi sono sparsi per i colli della città.
Alla sua partenza erano presenti il Duca, l’Arcivescovo Metropolita di Messina e
una gran folla riconoscente al Santo per le sue intercessioni presso Dio.
Ritornò a Frazzanò, nel piccolo borgo natio, dove si dedicò ancora con
 maggiore fede ai divini misteri perché gli era stata annunciata la sua dipartita
dal monto terreno. Un anziano, con toni apocalittici, gli aveva riferito i voleri divini ed anche
le meraviglie che Dio avrebbe operato alla sua morte.
Le leggende citarono come Lorenzo affrontò delle continue penitenze, sin da piccolo,
anche con spargimento di sangue. Tutti riferirono il “prodigio della camicia”.
Il sangue versato per tutta la notte, scomparve del tutto e la camicia del santo rimase candida.
Secondo l’agiografia laurenziana ci furono anche numerose visioni che costellarono tutta la vita
di santità di Lorenzo.

Nell’autunno del 1162 ritornò definitivamente a Frazzanò ed ebbe appena il
tempo di vedere ultimata la nuova chiesa di Tutti I Santi, da lui tanto desiderata
ad honore della Santissima Trinità.
In questa chiesa si compirono numerosi prodigi e Frazzanò diventò faro di luce divina per tutte
le comunità Nebroidee e non solo. I fedeli ricorrevano a lui per avere delle Grazie sia per
la guarigione del corpo che per lo Spirito. Nel Natale del 1162, dopo il Vespro del 30 dicembre, verso le 18, l’angelo della morte venne a visitarlo nella celletta in cui viveva e dalla quale non
usciva da circa tre giorni. Tre giorni vissuti  nell'ansia di essere finalmente riunito al suo
Divino Maestro, e nello sforzo di purificare ancora la sua anima con la penitenza,
per renderla più degna  nel presentarsi dinanzi al trono dell'Altissimo.
Emise il suo ultimo respiro ed il suo corpo cominciò ad emanare un soave profumo che tutti, dall’abate di Frazzanò al più piccolo bambino” riuscirono a percepire. Nella cittadina è rimasta una forte devozione
che dura da circa otto secoli. Le reliquie sono conservate nella Chiesa che i frazzanesi
dedicarono al loro Santo concittadino e patrono nel XV secolo.


Frazzanò – La Chiesa di San Lorenzo

6. L’Incontro tra San Nicolò Politi e san Lorenzo Ravi da Frazzanò. La partenza dei due Santi da Maniace verso Alcara e Frazzanò

Nicolò Politi e Lorenzo Ravi s’incontrarono quindi nell’Abbazia di Maniace.
Lorenzo, mosso da un sentimento istintivo, accolse il giovane con affetto, con molti atti di carità e simpatia fraterna. I due strinsero subito amicizia partecipando insieme alla Santa Messa e sedendosi vicini durante la parca cena. A tavola, durante la lettura della passione di Nostro Signore, Nicolò si turbò versando copiose lacrime  per la sofferenza e la morte di Cristo. Lorenzo, insieme agli altri confratelli, ebbe modo di apprezzare la grande sensibilità e l’immenso amore che il giovane Nicolò serbava nell’animo. Tutti i confratelli,  commossi, dissero tra loro:
“ Se costui così giovane rivela tanta perfezione, che sarà negli anni maturi?”
L’indomani, Lorenzo e Nicolò si avviarono insieme. Lorenzo, che già alla tenera età di sei anni era entrato in convento, conosceva  i monasteri basiliani della zona ed indicò all’amico  il monastero di S. Maria del Rogato, nei pressi di Alcara, come luogo nel quale avrebbe potuto recarsi per ascoltare la messa e comunicarsi .  Il Monastero era guidato dall’abte Cusmano, detto il Teologo.
Gli parlò anche del padre Confessore, Cusmano di Alcara, uomo di grandi virtù ed abate del monastero, al punto di meritare  l’epiteto de “Il Teologo”.
A padre Cusumano e a Lorenzo, Nicolò aprirà il suo cuore negli anni successivi, fino a poche ore prima della morte.
Quando i due frati giunsero a Portella Gazzana,  si separarono con la promessa di rivedersi.



Portella Gazzana (Longi)




Nel mese di luglio si svolge a Portella Gazzana  la festa del grano ovvero “A Pisera”.

Una manifestazione  con riti ed usanze di un tempo.
Dopo la raccolta del grano, i covoni sono lascati al sole per una ulteriore
maturazione. Si procede quindi alla pesatura con i cavalli che effettuano nell’aia
dei giri circolari per separare il frumento dalla spiga. Il grano pulito viene prelevato
per essere portato al mulino per la macina.

Frate Lorenzo proseguì per Frazzanò mentre frate Nicolò per Alcara.






 

7. L’Arrivo di Nicolò Politi ad Alcara

Il cammino di San Nicolò Politi fu difficoltoso. Giunse nel territorio di Alcara , discese lungo la vallata, passò il fiume come racconta la leggenda, “a piedi asciutti”e seguì l’aquila che lo guidava. Risalì lo scosceso pendio verso il Monte Calanna, l’antico “Kalannia o Kalapnia”.
Una salita difficile.. a metà del percorso giunse in una zona caratterizzata da grandi sassi. Il caldo e l’assenza d’acqua non riuscirono a fermarlo dal compimento della volontà di Dio.
Invocò l’aiuto di Dio e ricevette  l’avviso di battere la roccia con bastone per ottenere l’acqua.
L’eremita colpì con il suo bastone cruciforme il masso e subito cominciò a sgorgare dell’acqua limpida e fresca. (Il luogo è detto “Acqua Santa”).
 Riprese il cammino lungo il pendio e vide l’aquila posarsi su una roccia dalla forma piuttosto singolare.
Raggiunse il luogo e vide che non si trattava di una grotta ma di un riparo. Una spelonca coperta da rovi, tana per serpenti e vipere, ed esposta alle intemperie.
Era questa la sua nuova abitazione.
L’aquila s’allontanò per poi ritornare portando  mezzo pane fresco che depose presso l’ingresso del riparo.
L’aquila s’era fermata alla Rocca della Calanna dove il frate trascorrerà tutta la sua vita.



Il Santuario Eremo di San Nicolò Politi nella Valle Calanna





Le Rocche del Castro sono un rilievo alto circa 1315 m che appartiene alla Catena dei Nebrodi,
appartenenti all’Appennino Siculo. Geologicamente sono costituite da roccia calcarea
dell’era Mesozoica e ricadono nei territori di Alcara Li Fusi e di Longi, centri entrambi
nella provincia df Messina.
Il rilievo calcareo presenta degli evidenti specchi di faglia che formano
delle bellissime pareti di roccia. Interessante è lo specchio di faglia a strapiombo della
Valle Calanna dove nidifica l’aquila reale. Su un versante si apre la Grotta del Lauro che
presenta stalattiti e stalagmiti. Sul versante nord-occidentale, a bassa quota, nidifica il
grifone che negli anni passati fu sterminato per un criticabile comportamento dei pastori.
Grifone che fu reintrodotto da poco tempo e con grande successo.
Sulla cima doveva sorgere un antica città greca (“ Krastos”). In lingua siciliana il termine
“Castrus” indica il maschio della pecora ma in questo caso il toponimo dovrebbe derivare dal
latino “castrum” che significa “fortezza”.

Rocche del Castro


Rocche del Castro e Rifugio del Sole

 





 


Rocche del Castro – Nel Regno dei Grifoni e dell'Aquila

Rocche del Castro – Nido dell’Aquila Reale


Ogni sabato, per accostarsi al SS. Sacramento, si recava a piedi all’abbazia basiliana di S. Maria del Rogato. Un percorso di 12 km circa che percorreva in circa 2 h e 45 m passando per Alcara.
Nell’abbazia conobbe padre Cusmano che Nicolò scelse come suo confessore. 




Padre Cusmano raccolse le confessioni del frate, che fuggiva i clamori del mondo per vivere la sua santità nel sacrificio e nella preghiera. Il padre confessore capì subito di trovarsi di fronte ad un giovane di grande spessore morale e ne intuì la santità. Infatti annotò in un codice le vicende della vita di frate Nicolò ed esattamente dai vent’anni, trascorsi nella terra natale e sull’Etna, al trentennio vissuto nella Val Calanna.
Grazie a questo codice fu possibile venire a conoscenza della vita esemplare e santificata di San Nicolò Politi, il cui sacrificio altrimenti sarebbe andato perduto.
Sempre attraverso questo codice si ebbero delle notizie sull’amicizia che legava il Santo di Frazzanò  (Lorenzo Ravi) all’eremita di Alcara perché nessun altro autore, nemmeno il Gaetani,  ne fecero menzione.
I biografi di S. Lorenzo curarono di riportare scrupolosamente i particolari ufficiali della sua vita e non mancarono di elencare tutte le sue opere di apostolato e di santità  compiute sotto gli occhi di tutti. Però non potevano conoscere una vicenda così delicata e intima, come la sua amicizia con S. Nicolò.
Quest’amicizia faceva parte della sfera privata dell’uomo S. Lorenzo  e, proprio perché privata, sfuggiva  ai clamori della gente, al controllo dei contemporanei e soprattutto degli agiografi.
Solo padre Cusmano ne era a conoscenza così come della presenza dell’eremita che viveva nascosto tra i monti.
La tradizione sulla vita di S. Lorenzo, dunque, si biforca: da un lato, la biografia ufficiale, che lo descrisse santo e prediletto a Dio; dall’altro, gli appunti dell’abbate del Rogato, che immortalarono l’affetto amichevole  di due uomini che percorsero il difficile cammino dell’ascesi e della penitenza per amore di Dio. Sarà padre Cusmano  a far conoscere al mondo questa meravigliosa amicizia, sulla scorta  delle confidenze che Nicolò gli fece in privato ed è per questo motivo che la sua amicizia con Lorenzo entrerà a far parte  solo degli scritti della vita del santo di Alcara, che risalgono tutti al manoscritto di Padre Cusmano ed al suo inno in onore di San Nicolò. 
Nel 1162 San Lorenzo apprese da Dio la sua imminente fine dopo anni di intensa predicazione e fervente apostolato. Visitò quindi l’abbazia del Rogato per salutare i suoi vecchi confratelli e, benchè non fosse di sabato, per uno strano gioco del destino, incontrò il suo caro amico Nicolò.

“Un venerando Padre onorava a quei dì  la religiosa famiglia  basiliana. Egli era di penitenza esemplare, di specchiatissima condotta, di zelo instancabile, Amore

vole confortatore degli afflitti, maestro degli ascetici, salute ai peccatori, tutto fervore nelle  concioni, promovendo generose offerte dei fedeli in più luoghi come per incanto avea fatto sorgere  nuovi sacri templi , molti ne aveva restaurato. Avea liberato Reggio dalla pesre, e la fama di sua santità divulgatasi avea operato  prodigi immensi a quantieziando da lontano partitisi chiedano il supremo soccorso in loro sollievo. La terra di Frazanò fu il fortunato  paese che diedegli i natali, Lorenzo era il suo nome, poco dopo la sua prodigiosa morte, venne elevato  all’onore degli altari. 25 primavere aveano ammirato il giglio di purità. l’adranita Penitente, nella grotta del Calanna: correa l’anno 1162. Lorenzo il santo, reduce dalle sue meravigliose fatiche, fattasi corona del merito acquistato per tante missioni, trovavasi per pochi dì tra i suoi correligiosi in s.Maria del Rogato. Nicola che ivi si porta  periodicamente a chieder lume dal suo maestro in divinità, a purificarsi nel cuore con la più esatta delle debolezze…s’imbattè nel venerando Lorenzo”.

I due amici s’incontrarono dopo tanto tempo e a prima vista non si erano riconosciuti. La vita di solitudine, di povertà estrema, di penitenze  avevano finito con il modificare il loro aspetto.
Lorenzo, in  particolare, rimase colpito dal fisico invecchiato, imbrunito e malaticcio di Nicolò, dai suoi capelli lunghissimi ed incolti, dalla veste logora da mèndico, dalla spaventosa magrezza, indizi che svelavano a quali sacrifici si fosse sottoposto in tutto quel tempo per amore del Signore:

“Stupivasi Lorenzo; e à larga vena da gli occhi mandava torrenti di tenerissime lagrime, vedendo in tale stato un nobilissimo Cavaliere, che per amor di Dio, spogliatosi di quanto avea, rinunziò, fuggendo il mondo con tutte le ricchezze, anche i propri genitori, e la sua destinata, nobile, e virtuosa Sposa; e si confondea tra se stesso , pensando ch’egli non avrebbe mai potuto, per poco tempo, non che per tutto il corso di sua vita, sostenerlo così penosamente, e martirizzata, come la portava l’ammirabile Anacoreta. Alla fine corse ad abbracciare Nicolò, e con tanto amore e spirito affetto stringendolo, gli disse: Così ti riveggo caro Fratello in Cristo? In questa forma ti trovo, amato mio Nicolò? O quanto può il santo amor di Dio, ò quali fervori egl’infonde né cuori de’ Servi suoi! Ah, che io troppo agghiacciato  mi riconosco nel Divino Amore; ah, che troppo debole sono in servirlo! Felice te, e fortunato Nicolò, che con tanto ardore, e vigor di spirito, amante ti mostri, e servo fedelissimo del Signore”.

Le sue erano parole commosse che solo un santo poteva pronunciare. Lui, l’uomo instancabile, che tanti luoghi aveva visitato  e tanta gente aveva convertito;  che aveva operato miracoli,  aveva ricondotto a Dio intere popolazioni; aveva edificato chiese, portando i massi sulle proprie spalle; che si era mortificato fino alla morte indossando il cilicio e percuotendosi il petto con un masso; lui, che aveva vissuto ogni sorta di patimenti, digiuni e sofferenze e portato ad esempio di santità dai suoi confratelli, si stupì del sacrificio dell’amico  e reputò minimo tutto ciò  che aveva compiuto, in confronto all’abnegazione di Nicolò. Com’è grande l’umiltà dei Grandi!
I due santi si abbracciano amorevolmente:  era una festa ritrovarsi! Lorenzo, più tardi, espresse il desiderio di accompagnare l’amico  nell’antro di Calanna.
Nicolò acconsentì e così Lorenzo sarà l’unica persona  a vedere con i propri occhi, finché Nicolò visse, la roccia che fu, per tanti anni, il suo unico riparo. Nel vedere il cammino lungo e difficile per giungervi; la strada in pietra lavica  che tagliava i piedi di Nicolò fino a procurargli delle ferite; le spine ed i rovi che gli si conficcavano nelle carni, senza che  Nicolò facesse segno di curarsene minimamente, Lorenzo ebbe parole di meraviglia e di ammirazione. Ma quale, maggiore  meraviglia provò nel vedere la spelonca in cui viveva Niccolò! Vi si accedeva con difficoltà da una piccola apertura, attraverso la quale giungeva solo una pallida luce: sembrava una tana per serpenti o per bestie selvatiche; d’inverno quel luogo era senz’altro freddissimo; d’estate, i raggi del sole lo trasformavano  in insopportabile fornace. Nemmeno un mucchio di foglie alleviava il giaciglio della nuda terra e grossi, informi macigni, fungevano da guanciale. In un angolo della grotta stavano la catena ed il flagello con cui Niccolò soleva martoriarsi le carni in segno di penitenza.  Le lacrime sgorgarono copiose dagli occhi di Lorenzo, nel vedere tanta desolazione. Niccolò rispose sereno che gli erano care quelle rigidezze, e che esse non potevano eguagliare il sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce. Lorenzo ebbe allora, ancora una volta, per l’amico Nicolò parole di elogio e di ammirazione, insieme a tanta considerazione e dolore per la vita che gli conduceva. Insieme consumarono il pasto che l’aquila celeste, per benigno volere del Signore, portò loro; un pane bianco, al posto delle amare radici di cui soleva cibarsi Niccolò ogni giorno. Poi trascorsero il tempo meditando sulla Passione di nostro Signore Gesù Cristo e flagellandosi entrambi fino ad abbeverare l’antro del loro sangue innocente. Alla fine di una lunga notte di preghiere e discorsi, così Lorenzo si congedò dal confratello:

“un’altra volta ci rivedremo in cielo, o  Niccola; e ci rivedremo per sempre, per non separarci mai più innanzi al trono dell’Eterno! Il nuovo anno troverà  disanimata questa salma, l’anima sarà svincolata dalle catene di questo corpo il dì 30 del prossimo dicembre. Mille anni sembra a me il trascorrere di ogni giorno! Quanto ti sospiro o moneto felice, che  porrai termine alle lagrime  del mio pellegrinaggio!”.

E Nicola rispose
”deh! All’arrivo nella celeste Gerusalemme ti sovvenga di me; ivi stando di faccia a faccia, pregalo, prega tu il buon Dio, perché non cessi  largirmi il suo supremo aiuto: e che sebbene rassegnato io sia nell’adempiere con rigorosa esattezza il suo voler divino, pure ah! Io bramo  con ansia cocente l’ora che io giunga al suo santo regno!”
Era l’alba, l’ora dell’addio. Lorenzo si incamminò nuovamente per l’erto sentiero, ritornando al Rogato. Qui i frati lo stavano aspettando, per chiedergli notizie di quel che aveva veduto

“Fratelli miei cari (Lorenzo rispose) non può la lingua narrarvi, e appena la mente capisce l’asprezza del luogo, la rigidezza dell’antro, l’amarezza de’ cibi, il fervore dello spirito, la crudeltà santa, che usa con l’estenuato suo corpo; le discipline sanguinolenti, i disaggi osi viaggi, il disprezzo di se stesso, il dormir sù la nuda terra; l’appoggiar l’affannato capo su duri sassi, le lunghe vigilie, le fervorose orazioni, le dolorose meditazioni di Gesù appassionato, la corrente delle lagrime, l’impeto de’ singhiozzi, e l’abbondanza del pianto: Ma frà tanti rigori, e cordogli, dopo le assaggiate amaritudini, che gli martirizzarono il corpo, o felice, e cento , e mille beato di Nicolò (da voi sol  conosciuto di vista) chi mi potrà discrivere l’abisso, ch’egli gose di consolazioni celesti, le contentezze di quell’anima, le delizie di quello spirito? E quì piangendo Lorenzo passar non potea più oltre con le parole, essendogli impedite dalla corrente di un tenero lagrimare: finalmente alle vive istanze di quegli stupefatti Religiosi, proseguì il racconto: come Dio li provvide di un pane intiero, certamente del Cielo, portato loro da un’Aquila, che lasciando la sua naturale alterezza, da colomba comparve, e fedela ancella  à prò del suo caro Romito, che con tanti vezzi mostrò corteggiar, e servire. E sopra tutto, non potea finir di esagerare il gusto, e le delizie, che loro apportò quel Celeste pane, poiché lo stesso fù assaggiarlo, e restarne imparadisati”.

Padre Cusmano ascoltò attentamente il racconto di Lorenzo  e
“tutto serbava in cuore e nella mente”.
Pochi mesi dopo l’estremo incontro tra Lorenzo e l’eremita di Alcara, il trenta dicembre (1162), mentre Niccolò  era assorto in preghiera nella sua grotta, udì in cielo cantici e suoni celestiali: il Paradiso esultava, perché l’anima di Lorenzo era giunta in Cielo, accompagnata da una schiera di Angeli. Niccolò sorrise e lodò Iddio perché, nella sua suprema bontà, aveva concesso che l’amicizia di Lorenzo alleviasse la sua solitudine.

“Prega per me, Lorenzo”-
disse commosso
“amico, prega per me”

Per recarsi al Monastero del Rogato l’Eremita Nicolò Politi doveva attraversare il fiume Fiumetto affluente dell’importante fiume Rosmarino (che la leggenda riporta “a piedi asciutti”).

Il fiume Rosmarino, anticamente denominato “Ghida” o “Chydas”, nasce nella contrada
Scafi nel Comune di Alcara Li Fusi. Lambisce Alcara e Militelòlo Rosmarino e, dopo
un percorso di circa 30 km, sfocia nel Mar Tirreno tra Sant’Agata di Militello e Torrenova.
(L’etimologia del termine “Ghida” è ignoto, forse di origine araba)
Il termine Rosmarino è invece legato alla presenza delle piante di rosmarino che,
soprattutto nel tratto inferiore del suo percorso, crescono spontanee sulle sue sponde.


Si tratta di una delle tante fiumare che contraddistinguono il paesaggio della Sicilia (Nord-Est)
e di parte della Calabria. Un percorso tra i rilievi montuosi dei Nebrodi che,
nel bacino in esame, superano i 1800 metri. La vicinanza al mare limita l’ampiezza del
bacino idrografico e quindi anche la portata che ha un carattere torrentizio legato alle condizioni climatiche della zona con piogge generalmente concentrate nei mesi invernali.
Il grande dislivello ha permesso alle acque di creare un ampio e profondo alveo che
presenta grandi massi erratici (massi di grandi dimensioni trasportati lontano
dal loro luogo d’origine) e un forte processi d’erosione dei suoi argini.
Gli altri corsi d'acqua vicini, scorrono paralleli gli uni agli altri e presentano caratteristiche molto simili (Furiano, Zappulla ecc.) I suoi affluenti principali sono: i torrenti CudirìFiumetto e Fiere a sinistra e i torrenti MurazzaSant'AnaniaStella e Niresa a destra.
Il corso del fiume negli anni passati, forse ancora oggi, è stato oggetto di attività estrattiva
molto intensa con danni ambientali incalcolabili.
Nell’ aerofotogrammetria sono evidenti le zone chiare oggetto di estrazione.
Sempre  sul tratto terminale del Fiume Rosmarino si trova, sulla sinistra del suo coso, un monte
dall’aspetto conico posto vicino al confine tra i comuni di Militello Rosmarino e
Sant’Agata di Militello. Si tratta del Monte Scurzi, alto circa 494 metri e distante circa 2,5 km
dalla costa tirrenica.







Per le sue caratteristiche topografiche, per la sua breve distanza dal mare e dalle
montagne circostanti, era nell’antichità un punto strategico molto importante.
Nel sito, una stazione della tarda età del Bronzo inizi dell’età del Ferro, fu rinvenuto uno
dei più interessanti bronzetti del Museo d Siracusa. Un bronzetto dal carattere barbarico e
prodotto dall’industria sicula
È un idoletto bronzeo  siculo, alto 10,3 cm ed è simile ad un altro idoletto rinvenuto nel
Mendolito. Simili nell’imperfezione della lega metallica, come della fusione, che
sull’occipite, sul dorso, nelle natiche ed in una coscia ha lasciato delle minuscole porosità.
La struttura craniale è diversa da quella del Mendolito. Il viso molto piccolo e molto
prognato (prominenza della mandibola, tipica delle scimmie), gote gonfie ed è
contratto  in un ghigno, fra l’orrido ed il grottesco. Occhi naso e bocca sono
piccolissimi e la stessa bocca fu ottenuta con un breve colpo di punta. La chioma è trattata
con un raschiatoio, con una lunga falda occipitale tutta ripresa a fitti e minuti tratti di
bulino.  Il torace piatto e trapezio, con capezzoli e l’ombelico punzonati ed è cinto da una
stretta fascia, appena avvertibile nella pessima fusione, e certo corrispondente
al cinturone, molto nitido invece nella figurina del Mendolito.
Nel dorso il solco spinale e la divisione dei glutei, come i particolari dei gomiti e
delle ginocchia sono indicati a punta. Il gesto delle mani è identico a quello del Mendolito.
Entrambe le statuine sono espressione di arte indigena e probabilmente raffigurano un
Indigeno, un Siculo, m in quello di Monte Scurzi è presenta una  chioma greca.

Il bronzo di Monte Scurzi


Bronzo del Mendolito

Secondo i dati degli archeologi, dall’insediamento di Monte Scurzi sarebbero
derivati molti altri insediamenti. Il sito avrebbe avuto una continuità
di vita dalla fine dell’età del Bronzo, inizi età del Ferro, fino al V secolo a.C.
Infatti secondo l’archeologo Bernabò Brea, in una relazione del 1955, scrisse che:
“dal materiale rinvenuto è facile dedurre che il villaggio sorto in età pregreca è
sopravvissuto anche per i primi secoli di colonizzazione. Oltre ai reperti dell’età
del Ferro, abbondanti furono i frammenti di ceramiche ioniche del VI secolo a.C.
e forse anche dei principi del V secolo a.C.. Ma nulla attesta la continuazione dell’abitato
in età posteriore

8. La Pietra dell’Eremo di San Nicolò Politi

Era l’anno 1135, al Calanna  fra rupi, sterpi ed alberi selvatici, sopra la “pietra dell’Eremo”, il beato Nicolò Politi guardava, con occhio ricco di luce, la sua stessa ombra che si proiettava  fin in fondo l’antica valle del Ghida, oggi detto del Rosmarino.



Un anfiteatro ricco di fascino, circondato a Nord da altissimi monti rocciosi che fortificano, come una cintura naturale, il piccolo centro di Alcara Li Fusi mentre a Sud si inerpicava una fitta macchia boschiva che si prolungava fino al monte Soro (Sori).
 In questa suggestiva natura, ricca di acque e terre fertili, palpitava sotto lo sguardo dell’Eremita, la vita dell’antica e Normanna Alcara, che venne poi chiamata Turiano-Acharet, erede della mitica città di Demona.
Plinio e Dionigi di Alicarnasso  attestarono come l’eroe Patron Turio accompagnandosi ad Enea approdò sulla spieggia del Mar Tirreno in Sicilia, di fronte alle Isole Eolie, e sull’altura del monte abitò la città di Aòlunzio, e ai piedi ove si trova Alcara, costruì il castello che prese il nome del fondatore “Turiano”.
Il Beato guardava e pensava, nella solitudine delle pietre, degli alberi, del suono delle sorgine e del scorrere del fiume, nei lievi sibili delle aquile e dei grifoni, rifugiato in quel presagio che sapeva tanto di mistico. Il suo sguardo fissava quelle case quasi aggrappate alla rocca del castello Turiano.





Monte Soro

Nacque in lui un istintivo bisogno di comunicare e sulla “pietra dell’eremo” s’inginocchiò lasciandosi alla preghiera. Socchiuse gli occhi per il dolore in un momento di estrema debolezza.
“…Nicola guarda con occhi stanchi la luce che se ne va ed insieme tutti gli affetti e tutte
le gioie che si è lasciato definitivamente dietro…. guarda le due lampade, i genitori, che vanno
consumandosi e che forse guizzano per le ultime volte della nostalgia del figlio.
Due lacrime gli solcano timidamente le gote; il cuore è come attanagliato agghiacciato,
oppresso da una mano di ferro. Getta un profondo sospiro “
Nicolò si sentì perduto… in quale chiesa andare ? Alle porte di quale santo convento bussare ?
Doveva stare lontano dal centro abitato perchè la sua vita eremitica doveva essere estrema. al chiuso della sua grotta circondata da pietre perchè il mondo avrebbe potuto distorglierlo dalla preghiera.
Ancora una volta volse il suo tenero sguardo verso la valle sottostate e vide, con grande gioia,  nel verde intenso della boscaglia il “Rogato”. Sentì la campana del monastero basiliano e s’inginocchiò nuovamente per ringraziare Dio del suono di quelle campane.
Con lo sguardo pieno di luce cominciò con la fantasia ad incamminarsi tra i rovi, per costruirsi un piccolo sentiero, in modo da raggiungere in futuro il monastero per confessarsi.
Il suono della campana gli diventò familiare e si sentì rinascere. Volse ancora una volta il suo sguardo verso il piccolo centro di Alcara, che non era molto lontano dal Calanna, secondo le indiscrezioni dell’Angelo.
Nicolò pensò che quel paesotto era proprio “Alcara”..
Sempre sulla “pietra dell’Eremo” si rigirò più volte per ammirare il panorama studiandone il territorio che l’aveva accolto per grazia divina e che doveva ospitarlo fino alla sua morte.
Il suo sguardo si fermò sulla contrada Cammara. Una contrada piena di rovi, pietre ed alberi e a lui molto cara per il prodigio dell’Acqua che l’aveva colpito. Acqua che era scaturita con grande sorpresa da una pietra, come se fosse sgorgata dalla terra, che pulsando emanava acqua prodigiosamente limpida e fresca.

8.a L’Acqua  Santa


“L’Acqua Santa”










Il 15 giugno 2018 ci fu una forte ondata di maltempo con l’esondazione
di numerosi torrenti e smottamenti in vari punti del territorio.
Il maltempo isolò per due giorni il piccolo centro e distrusse un ponte ed
una edicola votiva rurale dedicata alla Madonna.
Fu allagata anche la grotta dell’Acqua Santa della prodigiosa fonte e la foto
ritraeva la statua del santo che galleggiava sull’acqua.
Va chiarito che l’immagine, pur mantenendo quel carico di indubbio pathos, di per se non è del tutto inconsueta per questo luogo, in quanto capita che nei periodi invernali le copiose precipitazioni penetrino nell’edificio dal cancelletto d’ingresso, oppure che l’abbondanza d’acqua proveniente dalla stessa fonte facciano allagare l’edificio fino al soglio di ingresso.
L’immagine comunque ha un fascino indiscutibile e se da una parte fa riflettere sugli effetti della già menzionata antropizzazione dei territori in relazione ai fenomeni atmosferici, dall’altra parte colpisce emotivamente l’idea che laddove in Alcara si ricordi il prodigio dell’Acqua Santa, soltanto l’immagine scultorea del Santo non sia stata completamente sommersa dalle acque limacciose penetrate all’interno dell’edificio, restando lì, ancora in quella posa, con quel libro in mano e la croce poggiata al petto, quasi a raccontare l’incrollabilità di quella fede, di quella perseveranza nella preghiera e quel desiderio di servire Dio che rivivono nel racconto della vita del Santo.
Sappiamo che si tratta di una statua ben solida in cemento e resina, realizzata qualche decade fa dal Prof. Nicolò Agliolo Gallitto, ma la suggestione che la foto lascia è notevole, come è pure ben chiaro che l’acqua l’abbia parzialmente sommersa fino a qualche ora prima che la foto venisse scattata.
Tuttavia il simulacro come il Santo ch’esso raffigura appare quasi nel “suo” elemento d’elezione distintivo: l’acqua. Acqua che nella storia, nella tradizione e nella leggenda di S. Nicolò Politi ricorre con indubbia frequenza: alla nascita, durante il suo cammino e nel giorno della “rogazione dei miracoli” che ne sublimò la santità a tal punto che da li a breve papa Giulio II ne autorizzò il culto.
Dalla pioggia alla santità, dalla tempesta alla speranza.
Lo sgorgare dell’acqua fu un vero prodigio. Sotto un macigno di pietra si trova una fonte di acqua salutare in un bacino concavo che ancora oggi, dopo secoli, gli abitanti di Alcara tramandano come espressione del miracolo di Nicolò Politi. Per questo motivo il luogo è chiamato “Acqua Santa”.
Rivolse lo sguardo verso la catena rocciosa, in cima al Monte Crasto e la falda calcarea del Calanna.
In questo punto notò una sagoma che volteggiava nell’aria, maestosa, spiegando le vigorose ali piumate. Si librava in volo come a giocare, compiaciuta di farsi vedere dagli occhi dell’Eremita che la seguiva in ogni suo leggiadro movimento fino al precipizio dove si trovava il suo maestoso nido.




Ancora una volta Nicolò si chiuse in un intensa preghiera fino a quando non fu distolto dal canto dell’aquila che attirò la sua attenzione.
Comprese che non era stato abbandonato da Dio perché quell’aquila era il sacro segno del “messo” di Dio che lo aveva seguito lungo tutto il suo viaggio.
Il Surdi scrisse nel 1709 che..
“mirarsi con grande stupore sino al suo tempo il nido dell’aquila,
formato da rudi e grossi ramoscelli, che con mirabile arteficio essendo
concavi ne formano il vasto letto, quindi il lungo corso di tanti secoli,
non era valso a spietarlo e le generazioni dell’aquila, viventi a quel
tempo, nidificavano in codesto medesimo sito “ (1994)
Nel 1994 una coppia di aquile continuava a nidificare nella rocca della Calanna. La loro presenza creò leggende nella fantasia popolare e numerosi poeti la cantarono. L’aquila, uccello messaggero sacro a Zeus, come portavoce di vittorie e presagio di trionfi. La stessa Alcara porta nel suo stemma un’aquila con le ali spiegate, con una Croce posta nel petto, con la corona in testa e negli artigli l’iscrizione:

S. P. Q. A.
(“Senatus Populus – Que Alcariensis”
“Senato e Popolo di Alcara”)

Dalla “pietra dell’Eremo” l’Eremita  memorizzava nella sua memoria visiva quattro luoghi:
Il paesaggio di Alcara 
Il Convento del Rogato
Il Luogo dell’Acqua Santa
Il Calanna dell’Aquila Reale


Era il territorio teatro delle sue preghiere e vi dedicò circa trent’anni della sua vita, vivendo nella grotta dell’Eremo con dure penitenze rispondendo al richiamo divino di proteggere la terra di Alcara e gli Alcaresi.

9. La Morte dell’Eremita Nicolò Politi

Un giorno d’agosto, in fondo alla grotta scese il silenzio. Davanti alla grotta una visione si mostrò agli occhi dell’Eremita. Cominciò a piangere e il suo singhiozzo feriva l’aria silenziosa e la natura sembrava commossa da quel pianto:
il caldo come il freddo trovava Nicola insensibile, assorto sempre in Dio,
concentrato esteriormente e interiormente, come il bruco che da divenire farfalla.
Subiva il corso della natura, come Dio lo disponeva, senza nessuno di quei ripari
e di quelle comodità di oggi e di ogni tempo, che ne attutiscono il peso”.(Santangelo, pag. 88)
Era il giorno di agosto  del 1167 e si  pose sulla “pietra dell’Eremo”.
Non vide l’aquila ma gli apparve un angelo che gli rivolse la parola  recandogli la frase che il suo cuore aspettava con grande desiderio
Il compimento dei tuoi ardenti sospiri è già vicino
Dio ti vuole in cielo due giorno dopo la festa dell’Assunzione di Maria.
(Monteleone. Biografia dell’Eremita San Nicolò Politi, anno 1902)
Il sabato successivo Nicolò decise di recarsi al convento del Rogato e capì come quell’incontro con i frati basiliani sarebbe stato l’ultimo della sua vita.
Durante il cammino, forse a causa dell’ansia, si sentì venire meno e per un attimo ebbe la paura di non poter raggiungere il convento.
Si fermò sedendosi su un masso sull’angusto sentiero e la sete lo assalì a tal punto da screpolare le sue labbra.
Passarono due donne contadine che portavano in testa due ceste colme di mele.
Videro l’Eremita… si fermarono… una  donna strinse la cesta al capo temendo l’Eremita fosse un ladro.. accellerò il passo con egoismo cercando una fuga e lasciando quindi la compagna indietro.
La compagna alla vista di Nicolò con il volto stanco ma sereno, capì nel suo animo come quella figura fosse un penitente di preghiera,,, si chinò .. pose la cesta colma di mele a terra e le offrì al pellegrino.
Un episodio che venne tramandato dalla memoria popolare e che venne considerato un miracolo. Si narra che i frutti posti nella cesta della contadina ingrata, quella che si era data con egoismo alla fuga, si trasformarono in serpenti mentre nella cesta della donna caritatevele, le mele si trasformarono in rose e meravigliosi fiori colorati. L’episodio venne ricordato con una piccola edicola che è posta sotto l’Eremo proprio nel luogo del supposto miracolo.
Nicolò riprese le sue forze e s’incamminò verso il Rogato.
Nel Convento padre Cusmano alla vista dell’Eremita capì subito come la sua vita non sarebbe stata lunga e ebbe la visione, la percezione di un uomo, figlio di Dio, smarrito sulla terra.
Lo confessò e gli chiese di accompagnarlo alla grotta ma Nicolò non acconsentì e ritornò alla sua povera dimora da solo.
I frati basiliani del Rogato nella festa dell’Assunzione, il quindici d’agosto, prima di celebrare la messa attesero invano la venuta di Nicolò.
Nicolò era morto nella sua grotta rendendo la sua anima a Dio in un luogo ricco di memorie e di ricordi.

“Nell’istante stesso in cui l’Anima di Nicola lasciava la spoglia mortale, le campane di
Alcara, mosse da una mano invisibile, suonarono a festa.
Al non mai provato spettacolo, gli alcaresi sono sicuri che qualche grandioso avvenimento
loro si annunziava e molti pensano essere morto in odore di santità qualche religioso
del vicino monastero del Rogato, alcuni dicono di essere morto il teologo
Padre Cusmano che da tutti veniva salutato per santo.
Avidi i molti di poter spiegare quel prodigio si portarono al Rogato ed ivi trovarono
P. Cusmano che loro dice:
“Riferite ai vostri concittadini che oggi è volato al cielo un vicino eremita:
Nicola Politi di Adrano”.
Ed ecco un uomo dal braccio assiderato, per nome Leone Racuglia, impone a tutti il
silenzio, egli recava una stupefacente notizia:
“Cittadini osservate il mio braccio, non è che da recente così divenuto;
di buon mattino cercavo alcuni miei buoi smarriti, rinvenuto a stento il primo
seguivo a cercare l’altro verso le contrade del Calanna: giunto ad una grotta
trovo segni di tracce umane, osservo là dentro e vedo la figura di un uomo
genoflesso, appoggiato ad una Croce, teneva un libro fra le mani…..”

“S’importa di subito una solenne processione: tutto quel popolo con a capo il Clero e
 quelli del Rogato, commossi e stupefatti, seguirono il Racuglia, passando lo
asciutto torrente e il fiume  Ghida e si avviano alla grotta del Santo eremita.
Giunti dinanzi alla grotta Leone Racuglia grida:
Miracolo !  Miracolo !
Il suo braccio era guarito; alcuni del Clero entrarono nella grotta e con somma
delicatezza e venerazione mettono fuori il Santo Corpo e tutto quel popolo.
fremente di di gioia santa, ripetutamente grida in un palpito solo:
Evviva il nostro Santo Protettore !” (Monteleone).

Padre Cusmano salì sulla “pietra dell’Eremo”, una “pietra” che era vissuta con il povero Eremita, e narrò la vita, le glorie e i prodigi di Nicolò Politi.
Poi volse lo sguardo verso Cammara e commosso affermò:
Quella contrada per Nicola fu Santa / sotto una pietra vi è l’Acqua Santa”.


Il momento in cui Leone Racuglia (Raccuglia) trovò il corpo del Santo Eremita
nell’Eremo della Val Calanna
(Disegno conservato nelle carpette della studioso Branchina nell’Archivio Parrocchiale di Adrano).

Il  Santuario dell’Eremo alle falde del Calanna dove San Nicolò visse per 33 anni

Dopo il ritrovamento del suo corpo, per sua antica volontà, fu portato nel convento del Rogato.
Qui venne posto dietro l’altare maggiore e le sue spoglie restarono quindi, poste in una cassetta di cipresso, per circa 336 anni. (Carrera, Suardi, Petronio Russo).
Nel 1490 un terribile terremoto distrusse il convento del Rogato restando per molti anni abbandonato.
I miracoli di Nicolò si ripetevano e le bibliografie riportavano con cura questi prodigi nati per intercessione del Santo.
Ma il miracolo che fece una grande scalpore fu quello dell’Acqua Santa.
Nell’anno 1503, la terra che i contadini avevano seminato con gran fatica, era arida e spaccata dal solo, data la mancanza di piogge da diversi mesi.
La terra non dava né erbe per i pascoli e nemmeno frutta. Gli alcaresi erano naturalmente disperati per la stagione agraria che andava in rovina.
Gli Alcaresi, molto devoti al santo Patrono Nicolò Politi, il 10 maggio di quell’anno, organizzarono un pellegrinaggio verso il Rogato dove fecero esporre le spoglie del Santo nel piano antistante lo stesso monastero.  Un pellegrinaggio che vide la partecipazione di una gran multitudine di gente.
Dopo la santa Messa i fedeli implorarono l’intercessione del Santo. I fedeli, il clero, i magistrati, pregarono con grande sentimento e le ossa del Santo vennero baciate dai pellegrini.
Il cielo era sereno e il sole forte.. l’acqua presente al Rogato non era più sufficiente per dissetare i fedeli.
Ma accade qualcosa di prodigioso. Dal mare di Sant’Agata (di Militello)  cominciarono a levarsi delle nuvole che in pochi attimi ricoprirono il cielo e la pioggia prese a cadere, ininterrottamente, su
tutto il Rogato e nel territorio 
“fecondando l’arida terra degli  Alcaresi”.

Dopo attimi di sbigottimento, i fedeli presi dalla commozione, cominciarono anche a piangere perché quasi increduli del prodigioso avvenimento.
Si levò una voce unanine di ringraziamento
Chiamamulu di nome paisanu,
Viva Viva Diu e Santa Nicola,
E quanti è bedda sta Parola !

10. La Richiesta di Canonizzazione di Nicolò Politi

Da questo miracolo, avvenuto il 10 maggio 1503, cominciò il processo di canonizzazione del Santo.
Gli Alcaresi fecero una questua per raccogliere il denaro da inviare a Roma e necessario per erigere i documenti necessari per la Santificazione. Vennero incaricati due esperti cittadini alcaresi. Antonio Rundo e Giovanni Cattone, che si recarono a Roma per avviare la pratica di canonizzazione del Santo.
Furono necessari quattro anni affinchè il sac. Antonio Rundo ed il nobile Giovanni Cuttone, tornassero ad Alcara con il decreto pontificio.
Il 7 giugno 1507 l’atteso documento fu firmato a Roma da Papa Giulio II e nella stessa giornata la storia e la cronaca popolare degli alcaresi raccontarono, con grande stupore, un fatto  tramandato di generazione in generazione:
quella stessa sera ad Alcara si verificò un fatto straordinario,
una luce soave e lucidissima usciva dalla Chiesa di S. Pantaleone in cui stava
il  corpo del Santo, come fosse unascia verso lo stretto,
(“na luci che jeva a Roma”), la definì la gente, che rimase per tutta la
nottata finchè durò là questo segnale divino”
(Il Corpo del Santo si conservava nella Chiesa di San Pantaleone, perché la chiesa Madre era in corso di ristrutturazione. Il Corpo del Santo fu portato in grande festa nel 1508 mentre la cappella dove si trova la sua stata fu terminata verso il 1632).

Chiesa di San Pantaleone

Il Rundo ed il Cuttone arrivarono ad Alcara verso il 20 luglio dell’anno 1507. Tutta Alcara attendeva il loro ritorno con grande esultanza.
La Bolla di Canonizzazione per il Santo protettore  fu consegnata ai due concittadini alcaresi:


JIULIUS  PAPA  II
*****
Diletti figli, salute e apostolica benedizione
 
Ci avete esposto che un tale già defunto, Nicolò Politi detto popolarmente
il Beato Nicolò, visse una vita santa in una grotta vicino alla vostra città,
e voi, o meglio i Vostri maggiori, ebbero una grande venerazione per lui.
Ricevettero il corpo per collocarlo nella chiesa maggiore ma per una ragione più importante
fu collocato nella chiesa di Santa Maria del Rogato, la quale è oggi inabitata e per
timore  che non si tenti di rubarlo, desiderate trasportarlo in città con intenzione di
celebrarne la festa anniversaria della sua beata morte il 17 ed il 18 di Agosto,
e ciò tanto in città come anche nella chiesa presso la grotta  detta di
San Nicolò lo Zito, dove rese l’anima a Dio.
Ci avete pregato che questo vostro desiderio venga appagato dalla nostra
benignità apostolica. Non ben volentieri abbiamo accolto i vostri voti e vi permettiamo che
possiate trasportare il Corpo del Beato Politi dalla chiesa del Rogato alla chiesa della
vostra città; e vi concediamo la facoltà di poterne celebrare la festa del suo anniversario
il 17 ed il 18 di Agosto, tanto in città come in quella presso il luogo dove visse e rese
l’anima Beata a Dio, a vostro piacimento. Senza alcun pregiudizio dell’autorità
apostolica. Anzi con speciale grazia vi favoriamo ancora e in virtù di Santa
obbedienza decretiamo che nessuno degli ordinari cui spetta, abbia a impedirv di
celebrare la festa, sia direttamente che indirettamente, per mezzo di altri,
molestandovi, in qualsiasi maniera, tanto meno trasportarvi la festa collocandola in
altro tempo, nonostante disposizioni in contrario.
Dato in Roma presso S. Pietro sotto l’anello pescatorio
il 7 di giugno 1507, anno 4 (IV) del nostro Pontificato
                     Filippo De  Senis
Ai diletti figli della Città e terra di Alcara, Diocesi di Messina
(Traduzione dell’originale eseguita da Padre    Giudo Passalacqua) 

Lo storico Montelone ricordò nelle sue ricerche come il numero 7 nelle scritture e pratiche ebraiche fosse un numero santo: San Nicolò Politi:
-           Nacque nel 1117;  
-          Fuggì dal mondo a soli 17 anni d’età;
-          Nel 1137 si trova nella grotta dell’Etna
-          Ogni 7 giorni della settimana andava a confessarsi nel Convento del Rogato;
-          Morì il 17 agosto del 1167;
-          Venne canonizzato il 17 giugno del 1507;
   
Dopo la consacrazione del Beato nel 1507, cominciò ad essere celebrata la ricorrenza del Santo permessa dalla Santa Sede.
La prima statua fu ultimata verso il 1518 ma il popolo non aveva ancora una “vara” per portare in processione il Santo Protettore.
Il Morelli riportò come
“ per la vara portantina vi provvide  il Comune inviando a Catania alcuni incaricati
che acquistarono una bellissima “Vara” di S. Agata in legno pregiato con quattro colonne,
con moderna tutta decorata, che ai catanesi non serviva più in quanto per la loro
Patrona ne avevano fatta costruire una da un certo mastro Vincenzo Archifel
Un’altra tutta in argento inaugurata per la festa di S. Agata il 4 febbraio 1519.
La “Vara” acquistata dagli Alcaresi si conserva tutt’ora e viene adoperata per la processione del Santo 
il 3 maggio. 





(Catania era la provincia in cui era nato Nicolò Politi che era di Adrano. C’era presente nell’avvenimento un sicuro richiamo alla sua terra d’origine ? Il Santo fu infatti collocato sulla vara di Sant’Agata patrona dei catanesi. C’è da dire che la stessa città di Catania invocò il Santo Eremita per liberarla dal mortale contagio dell’epidemia della peste e la speranza, la preghiera, non furono vane. L’intercessione del Santo la rese incolume  e per ringraziarlo, per la concessione della grazia, inviarono ad Alcara una “Vara” di nobile lavoro e fregiata d’oro finissimo .
(Petronio Russo, La liberazione della peste, pag. 38, cap. VIIII).
(La notizia fu riportata anche dal Morelli nella sua “Vita di San Nicolò Politi” ed inserita  nella Cronaca Siciliana del XVI secolo del Notaro Merlino che si conserva manoscritta nella Biblioteca Comunale Ursino Recupero di Catania. La Cronaca riportava che:
il 4 febbraio 1519 la gluriusa Agatha si tornaio sopra la vara di lignami e la
moderna tucta decorata la quale tune pemporis fu venduta a la Universitati di LARCARA
per conduchiri lu corpu di Sancto Nicola Larcaro noviter retrovato in
una spelonca fora di la terra miraculusa canupniesato”.
Il testo fu anche riportato in un articolo di Guglielmo Policastro nell’Osservatorio Romano dell’11-12 dicembre 1944, n. 290).
La solenne celebrazione del Santo si festeggia  il 16 – 17 – 18 agosto. La statua viene riposta sulla Vara e portata anche all’Eremo a spalla dei devoti, con la scenografia  dei “Lazzuna”  ovvero delle corde colorate di seta intrecciate  che rappresentano i voti dei cittadini.


Le corde intrecciate rappresentano i voti dei cittadini nei
confrinti del Santo 

L’ambiente in cui visse l’Eremita pulsa ancora di vita, ha qualcosa di mistico che non è facile descrivere ma che si percepisce soprattutto se si è dotati di una grande sensibilità.
Nel 1993, erano passati ben 826 dal momento in cui fu rinvenuto il corpo del Beato e la grotta, in cui visse, grazie alle offerte degli Alcaresi  era stata modificata con la costruzione di un tempio. Fu eretto un altare, l’altare del Calanna che per tre secoli fu meta di pellegrinaggi per ottenere grazie.
 

11. L’Antica Alcara  e altre notizie sull’Acqua santa e sul Monastero di San Barbaro di

       Demenna

Ancora oggi dalla “pietra dell’Eremo” si vede l’antico paese di Alcara Li Fusi, con le case che sembrano aggrappate al rudere del castello Turiano. È la moderna Alcara con la sua vita che palpita.
(Dall’epoca di Nicolò Politi la vita di Alcara è decisamente cambiata. Il paese è naturalmente molto più grande e l’unico aspetto sociale che non è cambiato, nello scorrere inesorabile del tempo, è la fede e l’amore verso Nicolò Politi.
L’antica Turiano fu anche sede vescovile e può essere fiera di aver ospitato nel suo territorio un santo come si legge negli Atti del Concilio Niceno II, celebrato durante il pontificato di Adriano nel 787:
Theodorus SS. Episcopus “Taurianus” Insulae Siciliae acceptam in manibus
editam  defensionem leggi”
Il pontefice Leone II, che fu assunto alla sede apostolica nel 683, sembra che abbia avuto per patria il castello Turiano in Alcara).
Dalla “pietra dell’Eremo” si vedeva l’antichissima  chiesa di S. Nicolò vescovo, detta anche di “S. Nicola di Bari” e posta nel quartiere del Calvario. Secondo le fonti  storiche riferite dal Morelli, l’antica chiesa fu costruita dai profughi di Castro e di Demenna quando si trasferirono nella vecchia “Turiano” nell’855 d.C.
Chiesa  che nel 1994 era ridotta a un rudere.




La chiesa è posta nel quartiere “Calvario, volgarmente detto “a Rocca”  ed è,
secondo le fonti, l’edificio di culto più antico.
Secondo le ricerche di Mons. Gaetano De Maria, da un atto del Vescovo Guglielmo
di Messina, datato 1125, s’apprende come la Chiesa fu edificata
“a spese e con le oblazioni degli abitanti di Alcara”.
Nel 1131 il Vescovo Ugo la sottomise all’Archiimandrato di Messina,  perché di rito
Greco. Nel 1144 era ancora alle dipendenze dell’Archimandrato, anno della
revisione dei privilegi ordinata da re Ruggero II.  La struttura odierna è frutto di vari
interventi che si sono susseguiti nel tempo soprattutto tra il XIV e gli inizi del XV secolo.


Una chiesa esistente nel medioevo ed alla quale è legata una leggenda popolare.
Si narra come i genitori di San Nicolò Politi, prima della sua nascita,
si siano recati nella chiesa in pellegrinaggio.  Giunsero da Adrano per chiedere
a San Nicola di Mira, allora molto venerato, la grazia di un figlio.
Di gran valore artistico il portale ad arco ogivale mentre l’interno,
ad unica navata, è completamente spoglio d’opere d’arte.

Si vedeva anche la Chiesa Madre, dove oggi si trova la cappella di San Nicolò Politi in cui sono conservate le spoglie,. Reliquie che sono contenute nella bellissima urna d’argento costruita da Paolo Guarna nel 1581 a Catania.

(La Chiesa Madre è posta nella Piazza Politi e risalirebbe all’epoca bizantina. Dopo il terremoto del 1490 fu ricostruita nel 1508. La grande campana, posta nel campanile, secondo la tradizione sarebbe stata donata da Re Ruggero, secondo la citazione del Bontempo -  Ricordi e Visioni del mio paese, pag. 42)


La chiesa sarebbe quindi di origine bizantina on absidi e campanile del XVI secolo.
E’ dedicata a Santa Maria Assunta e custodisce al suo interno numerose opere d’arte.

Nella cappella del 1630, decorata con opere di Guasto di Regalbuto e  di
Pietro D’Asero, si trovano la statua e le reliquie di San Nicolò Politi.



La reliquie sono poste in un urna argentea del 1581.
Una delle più pregevole opere d’arte dell’oreficeria siciliana opera di Paolo Guarna.
Nel Duomo si conserva un organo del XVII secolo e numerosi dipinti tra cui una pala
settecentesca di Filippo Tancredi che raffigura il “Ritrovamento del corpo di S. Nicolò”;
un Crocifisso ligneo; un antico pulpito in legno; e l’imponente altare centrale.


una pregevole opera di Filippo Tancredi ( Messina, 6 novembre 1655; Palermo, 13 ottobre 1722)
si trova nella Cappella del Santo Eremita e raffigura l’episodio del ritrovamento del corpo del Santo,
da parte del bovaro Leone Rancuglia, il 26 agosto 1167 nella grotta del Calanna.
L’episodio è raffigurato secondo una tradizione che si tramanda da secoli.
L’eremita è raffigurato genuflesso con un libro di preghiera aperto tra le mani e una
Croce appoggiata sul petto. Di fronte al Santo ci sono dei flagelli e una pergamena
con raffigurate le cinque piaghe di Cristo. Sullo sfondo è raffigurata una piccola
chiesa (la Chiesa del Rogato) la cui campana suona grazie all’intervento di un Angelo.
Nell’opera l’artista volle evidenziare due diversi ed opposti stati d’animo:
da un lato le passioni umane  caratterizzate dalla figura del bovaro (paura,
incredulità, ecc) rappresentato da una robustezza tipica dei contadini e con il
volto bruciato dal sole e contornato da una folta barba incolta e fitta; dall’altro lato la
bellezza  dell’Angelo che con i suoi lineamenti delicati e con un gesto molto
naturale, incorona con una ghirlanda di fiori il Santo Eremita.
Nella parte alta del dipinto l’artista riuscì a creare, in una stretta superficie
uno spazio illimitato, dove si notano le figure del Cristo e della Madonna,
accompagnati da Angeli, che accolgono l’anima bambina del Grande Santo Eremita


La piccola Alcara fu teatro di numerosi miracoli operati dal Santo e che segnarono per secoli la vita della stessa cittadina dei Nebrodi.
Verso la valle, solcata dal Fiumetto, si nota il monastero del Rogato dove ogni anno il 15 agosto, si compie un pellegrinaggio culminate con la celebrazione della santa messa.
Un luogo sacro dove per  secoli  si verificarono miracoli e che per 320 anni conservò, in un urna di cipresso, posta dietro l’altare e sotto il quadro dell’Assunzione, le spoglie del Santo.
Il Rogato è una terra impregnata di fede e di disciplina basiliana che fu rigorosamente seguita dagli antichi monaci.
Un luogo che era in abbandono e negli anni ’90 gli alcaresi chiesero il restauro del monastero per lasciare alle future generazioni una grande testimonianza storica e religiosa del Santo Nicolò Politi.
Sempre nel 1994, volgendo lo sguardo verso Calanna, il monte tanto sacro al Santo, si notava il volo dell’aquila reale, un uccello leggendario che fece da guida per lo stesso Santo.
Il suo canto, quasi eterno, non è naturalmente cambiato nel tempo. Quest’aquila è entrata nella leggenda popolare ed i poeti l’hanno cantata per rappresentare un importante momento di storia e di religione.
Sempre dalla “pietra dell’Eremo” si vede la contrada Cammara, tanto sacra al Politi. Qui per la stanchezza fece nascere, grazie all’intervento divino, l’acqua dalla pietra. Un’acqua limpida e fresca che gli Alcaresi chiamarono “L’Acqua di Santa Nicola”.
Questo luogo nel 1994 era in completo abbandono, diroccato, e l’antica cupola, che fu descritta dal Petronio Russo, era crollata.
Ma i devoti non l’hanno mai dimenticata perché gli alcaresi ogni anno vi si recano con  un sentito pellegrinaggio.
Molti studiosi si occuparono delle “Acque salutari” della Sicilia Antica e quindi anche di Alcara Li Fusi dove ancora oggi è presente il luogo sacro detto dell’”Acqua Santa” scaturita da un miracolo di Nicolò Politi  durante il suo cammino verso la grotta del Calanna dove trascorse i 33 anni della sua vita.
(San Nicolò Politi era nato nella città di “Adernò” (Adrano), in provincia di Catania, da una nobile famiglia.
I suoi genitori, Almidoro ed Alpina, appartenevano al famoso casato dei Politi e secondo il Surdi, per la sua nascita…” correvano gli anni in cui regnava in Sicilia “Re Ruggero II”.
In merito alla “Calanna”, si tratta di un luogo impervio, molto roccioso, in cui era ed è presente una folta macchia mediterranea. Qui San Nicolò passò i 33 anni della sua vita eremitica quando il 17 agosto 1167 morì. Oggi in questo luogo sacro si trova l’Eremo di San Nicolò).
Il primo riferimento sull’Acqua Santa fu per merito di Padre Cusmano, confessore di San Nicolò, che fu chiamato il “Teologo” e sopravvisse allo stesso Nicolò scrivendone la vita ed un importante inno in lingua greca.
(Padre Cusmano era nativo di Alcara, verso il 1100, e visse nel Monastero del Rogato. Come abbiamo visto era il confessore del Santo Politi e quindi profondo conoscitore della sua vita. Infatti dopo la morte del santo scrisse la sua vita in lingua greca. Padre Ottavio Gaetani venne in possesso di queste importanti memorie, trascritte in un frammentario manoscritto, che gli fu portato dagli abitanti di Alcara. La vita del santo fu pubblicata nella sua opera “Vitae Sanctorum Siculorum”.
 

(De Blasi; “Storia di Sicilia”, vol. XIV, cap. XV.
Mongitore: Bibb. Sic. T.T. Art. “Cosmani Siculus”, pag. 157. Edt Panormi 1708.. che indicò il “Basiliano Cosmano” ed il benedettino Maurizio, cittadino e Vascovo di Catania
Divi notat Scetoe, Cosmanus in hymno Gesta,
pie Surdi sapphica metra canunt
Padre Cusmano scrisse la vita dell’Eremita nel Monastero del Rogato e firmò il manoscritto con l’appellativo di “Monacus Sincronus”  cioè “Monaco Contemporaneo”.
(il termine “Rogato” deriva dal latino “rogare – pregare”. Quindi Maria del Rogato significherebbe: “o Maria che ha pregato il divin suo Figlio, o Maria della preghiera”.
L’Abbazia era posta nella “terra” di Alcara e distava dal piccolo centro circa un miglio. Posta sotto la regola di San Basilio è ancora oggi in discreto stato con la chiesa e l’antico monastero.
Nel tempo di vita di San Nicolò Politi esistevano nel territorio di Alcara due Monastero Basiliani:

Santa Maria del Rogato;
San Barbaro di Dèmena  o Demenna, posto nel feudo di San Giorgio, in contrada
“Pascì” o “Paxì”.

Il Monastero di San Barbaro di Demenna sorgeva proprio nel territorio di Turiano
(oggi Alcara Li Fusi) nel Feudo San Giorgio contrada Pasci.
Demenna era l’antica città posta sulle Rocche del Castro ? Non si hanno riferimenti
sicuri sull’anno di fondazione del monastero, probabilmente fu costruito vero la fine
dell’VIII secolo inizi del IX secolo dato che, dai pochi documenti, risulterebbe
preesistente alla dominazione araba. Durante la dominazione araba il cenobio,
la cui vita culturale e religiosa era molto fiorente, subì un drastico
declino. Il monastero era abitato da pochi monaci che conducevano una vita
contraddistinta da stenti e difficoltà. I monaci riuscirono a superare le difficoltà e
con l’occupazione Normanna il monastero era in condizioni pietose
il Conte Ruggero nel 1097 pose il convento sotto le dipendenze dell’Abbazia di
San Filippo di Fragalà e il suo abate Gregorio intraprese le opere di recupero
del monastero . nel giro di pochi anni il Monastero di San Barbaro ritornò al suo antico
splendore. Nel 1323 il monastero venne ceduto ad un nobile e potente feudatario, Giovanni di Forlì.
In cambio di due salme di frumento (circa cinque quintali e mezzo) all’anno.
Fu per il monastero un colpo mortale perché dopo cinque secoli di gloriosa vita, cessò di
esistere. Demenna sarebbe l’antica città fondata dai Bizantini e il cui termine deriverebbe dal greco “Lacedemonio (abitanti di Sparta) che dovettero abbandonare il Peloponneso nel VII secolo. Fu conquistata dagli Arabi nell’885 perdendo la sua grande importanza.  Nel 920 era ridotta a un nucleo di poche case abitate e in quell’anno vi nacque San Luca di Demenna. Durante la dominazione normanna cessò di esistere come borgo autonomo. I pochi abitanti superstiti andarono a vivere a Turiano (Alcara Li Fusi) e a Longi. Alcuni studiosi affermarono l’esistenza di Demenna a circa tre chilometri a Nord-Est di Alcara Li Fusi, in una contrada che è detta “Dèmina “ o “ Lemina”, ricadente nella parte
settentrionale dell’ex Feudo San Giorgio.
Le rare campagne archeologiche dimostrano come la città si trovasse sulle Rocche del castro o comunque le stesse Rocche fossero  il “kastron” principale della città di Demenna.
Non lontano da Demenna sorgeva il Monastero Basiliano di San Barbaro di Demenna.
La Val Demone era una delle valli in cui fu divisa la Sicilia  durante la dominazione musulmana.
Non si hanno riferimenti certi circa l’etimologia del termine “Demona”.
Il termine apparve per la prima volta “Dimnsac”, nel 902, in occasione della caduta di un villaggio espugnato dagli arabi  insieme a Taormina ed altre città.
La denominazione “Valle Deminae” apparve per la prima volta alla fine dell’ XI secolo, in periodo Normanno.
Secondo lo studioso Michele Amari il termine era d’origine greca ed indicava il nome degli abitanti del villaggio durante la conquista araba. Il termine sarebbe “perduranti” o “permanenti” (forse nella fede religiosa o nell’Impero) perché era legato al participio presente del verbo διαμένω (permanere, perdurare) del greco bizantino “tondemenon”.
“Tondemenon” era quindi il termine, per lo storico, del complesso fortilizio
divenuto in seguito città di Demona o Demenna.
Altra ipotesi potrebbe essere legata alla boscosità dei Nebrodi per cui il territorio sarebbe stato chiamato “Vallis Nemorum”, (Terra dei boschi).
Altra ipotesi potrebbe essere legata all’Etna ed in particolare ad una leggenda che vedeva il vulcano abitato da demoni e quindi luogo d’ingresso per il mondo degli inferi. Il  territorio sarebbe quindi stato chiamato con il termine “Vallis Daemnorum” ed altri storici dal rinvenimento archeologico i alcuni reperti Lacedemoni, cioè degli abitanti di Sparta.

Mappa Borbonica con il Feudo San Giorgio, dov’era presente il Monastero di San Barbaro di Demenna, evidenziato in rosso

12. Nei Luoghi di san Nicolò Politi era nato un altro Eremita: San Luca di Demenna – Il Mercurion tra  Lucania e Calabria

A Demenna era nato un altro eremita, poi santificato, San Luca (detto  “di Demenna). Alcuni storici, tra cui il Santoro E, indicarono il luogo natale in  Tauriana, piccolo centro in  Calabria, figlio i Giovanni e di  Tedibia e fratello di S. Fantino (uno dei maestri di San Nilo a  Mercurion). In realtà Luca era nato a Demenna e fu avviato alla regola basiliana nel Monastero di San Filippo d’Agira dove si formarono molti monaci greci del X secolo. Fuggì da Demenna quando il  centro fu occupato dai saraceni (si narra per sfuggire alle loro vessazioni) per recarsi a Reggio sotto la disciplina  di S. Elia Speleota di Reggio.  Profetizzando un invasione saracena si sposto verso Nord, nell’eparchia di Mercurion, al confine tra la Lucania e la Calabria, a Nola (l’odierna Noepoli) dove restaurò un’antica chiesa dedicata a San Pietro. Qui si stabilì con i suoi seguaci.





(L’area del Mercurio sarà oggetto di una mia prossima ricerca)

Dopo permanenza di sette anni a Noa, si spostò lungo il corso del fiume Agri. Restaurò il monastero di
San Giuliano che, negli anni successivi, ebbe un forte sviluppo culturale ed economico.
Questo sviluppo attirò le attenzioni di un “signorotto” locale, un certo Landolfo (erroneamente
identificato con Landolfo di Capua) che tento, con mille azoni di mandarlo in rovina.
Quando Ottone I attaccò la regione, Luca e i suoi discepoli si trasferirono ad Armento, dove fondarono
un monastero fortificato.  Fortificò il castello e la Chiesa Madre di Dio, lasciandone la custodia ai propri discepoli. Durante una nuova invasione saracena, guidata dall’emiro Abu – I Qasim Ali, quando il nemico giunse alla porte del monastero, Luca con gli altri monaci a cavallo andarono incontro al nemico affrontandolo con una vera e propria battaglia.
Ci fu un terribile spargimento di sangue da ambo le parti.
Fondò intorno al 971 il celebre monastero dei  SS. Elia ed Anastasio del Carbone, che divenne il quartiere generale di s. Luca sia come baluardo fortificato contro le incursioni dei Saraceni, sia come luogo dei molti miracoli, che egli vi operò.
In seguito venne raggiunto da sua sorella Caterina, rimasta vedova, e dai suoi due figli, i quali presero tutti i voti; Luca fece stabilire sua sorella e altre monache in un convento dedicato alla Madonna, che era stato saccheggiato dai saraceni nell'ultima invasione. Vene afflitto per tre anni da una malattia che lo faceva zoppicare, quindi gli venne annunciata la morte imminente da un angelo e si spense nel monastero di Armento nel 984, assistito e poi sepolto da San Saba di Collesano
Nel XIX sec. il paese di Armento fu saccheggiato dai francesi che distrussero il monastero dei Santi Elia e Anastasio e nel 1857 fu sconvolto da un terribile terremoto.

San Luca di Demenna in una edicola votiva di Alcara Li Fusi



13. I Riferimenti Storici su San Nicolò Politi

Come già citato, San Nicolò Politi scelse il Monastero del Rogato seguendo le indicazioni di padre Lorenzo di Frazzanò forse perché il Monastero di Demenna era in decadenza anche per l’abbandono degli abitanti di Demenna. Il monastero del Rogato era invece in piena attività spirituale e culturale grazie anche alla presenza di padre Cusmano profondo conoscitore delle lingue e conosciuto per la sua santa vita).
(  Attento narratore della vita del Santo Nicolò Politi fu il Padre Ottavio Gaetani o Gaetano da Siracusa che nella sua opera “Vitae Sanctorum Siculorum” del 1657, rilevò preziosi particolari e momenti di vita del Santo. Egli conservò anche i frammenti dell’inno scritto dal teologo Padre Cusmano e riuscì a fare luce sulla biografia dell’anonimo “Monaco Sincrono” traducendo in latino quanto era esposto nell’officio greco dello stesso Santo.
(Il prezioso manoscritto in lingua greca di Padre Cusmano andò smarrito. Un prezioso documento, una vera reliquia culturale per la storia e del Santo Nicolò).
Nel novembre del 1873, il Petronio Russo, spinto dal desiderio di ritrovare l’antico manoscritto  sulla vita del Santo, si recò a Palermo per cercarlo nella casa del Padre Gaetani
…facendone ricerca, fummo lieti rinvenire gli scritti di costui nella libreria del
Collegio Massino dei Gesuiti, oggi Collegio Nazionale, e riposti nell’armadio A n. 12”
 Il Gaetani citò nel suo racconto anche l’”Acqua Santa”
Avendo proseguito, allora, lungo il cammino intrapreso, giunse presso una
contrada che oggi viene chiamata dell’Acqua Santa. Là, sfinito per il
viaggio e afflitto dalla consuete pene che infliggeva al suo corpo, cominciò
a soffrire per la sete per la qual cosa, prostratosi a terra ed elevati
gli occhi al cielo implorò Dio con questa preghiera:
“Oh Signore che,  un tempo, hai fatto sgorgare dalla roccia copiosissime
sorgenti, concedimi, di grazia, di poter rinvenire in questo sito
dell’acqua con la quale possa ristorare le mie membra”.
Dopo aver detto questa preghiera, sentì una voce dal cielo:
Alzati, Nicola e percuoti col tuo bastone il sasso che vedi,
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo;
Dio ti concederà ciò che chiedi”.
Fece così, come aveva udito , e subito l’acqua zampillò dalla roccia.
Da allora, quanti vessati da malattie ed infermità hanno
bevuto di quest’acqua, sono guariti…..” (traduzione di Nino Faraci)


Un altro Gesuita, il Padre Francesco Carrera, autore del “Pantheon Siculum” del 1629,  citò il Santo Eremita facendo riferimento alle fonti dell’anonimo Monaco contemporaneo del Politi.
Nel 1679 riportò che:
“… ad aridas profectus cautes, quibus Aquae sanctae nomen veteres  posuere,
siti evectus fontem poscit, monitusque baculo ferire silicem, e saxo
rivum, morbis etiam salutarem. Elicuit”
“… giunto nell’arida contrada rocciosa, cui gli antichi diedero il nome di
Acqua santa, tormentato dalla sete desiderava una fonte, e avvertito di
percuotere col bastone una pietra, fece sgorgare dal sasso una sorgente
capace di guarire le malattie”.

Riportò alcuni elementi importanti sulla vita del Santo..

Ringraziato l’Altissimo per la poderosa grazia, Nicola, alquanto rinfrancato,
riprende il cammino affrettando il passo per poter compiere prima
dell’imbrunire  l’ultimo tratto del suo viaggio e avanza fra sassi aguzzi
e rovi pungenti spesso costretto ad arrampicarsi su balze scoscese, ansante
per la stanchezza e con i piedi dolenti”.
Lo storico non riportò invece l’arrivo del Politi al Calanna cioè al monte.
La storia dell’Acqua Santa cominciò quindi con l’inizio del suo sgorgare prodigioso
… l’acqua, in cui veniva lavato quel corpicino, gettata per terra ne faceva
una sorgente di acqua tiepida che tuttora si ammira nella Chiesa dedicata
al Santo, sorta nel luogo preciso dove nacque il prodigioso bambino;
e l’acqua si usa anche oggi, con grande fiducia in tutti i malori…”
(la fonte storica è di Monteleone S. Giovanni, nella sua Biografia di san Nicolò Politi
ed anche il Petronio Russo riportò come
“Poiché l’Acqua ove il tenero corpicciuolo del santo Neonato,
appena sortito dal seno materno, si lava, gettata al suolo della sala
del suo nascimento si perpetua a sorgere inesausta; e nel
santuario che i nostri antenati innalzarono, tuttora il fedele a rimedio
perenne  dei mali che affliggono l’inferma umanità, va ad attingersi
la salutare e benedetta acqua.
Nel detto popolare in Adrano dicono:
“gustatemi e vedete / io sono l’opera d’un Santo !”.
Sono notizie che furono riportate  dal Montelone e dimostrarono come il Politi, già al momento della sua nascita, diede importanti segnali di santità.
Antonino Surdi di Alcara, riportò il miracolo dell’Acqua Santa nella sua prosa barocca
“… mira e rimira l’asprezza del luogo, ed osserva con diligenza in quell’arido
contorno, se potesse scoprire qualche segno d’onda corrente, o pur se nella
concavità di qualche sasso alcuna reliquia di pioggia trovar potesse stagnata;
e parendogli non esservi, né campo né luogo di potervi sgorgare in quelle
asprezze alcun rivolo, né in quei duri e grossi macigni rinvenire vestigio
 di fonte veruno. Sentitosi consumare dall’urgente calor della sete, senza
speranza di poter quella discacciar dalle sue aride labbra, vedendosi abbandonato
da ogni mondano aggiuto, si volta all’immensa Provvidenza del suo
Signore e confidando fermamente in quella così tra sé ragiona:
Intanto una voce si udì dal cielo, che all’assetato Romito così disse:
Alzati mio caro: sorgi Nicolò, e col tuo bastone, in cui figurato porto quel segno,
nel quale si compì la redenzione del mondo; onde più che la verga di Mosè
prodigioso si sperimenta; batti quel sasso in nome dello Spirito Santo,
chè vedrai sgorgarne un’acqua meravigliosa, quale non solo servirà
per smorzar di presente, come anche per alleviar la tua sete, ma pure
avrà virtù per discacciar dà corpi di chi
devotamente l’assaggerà, ogni malore, ogni sorte di infermità.
Con grandissimo stupore. E non minor gioia inteso ciò dallo orante
Anacoreta, subito prese in mano il suo miracolo bastone, ed alzatolo verso
quel duro macigno, sì disse:
Nel Nome del gran Padre Iddio Creatore dell’universo, dalla cui
Onnipotenza con un solo fiato, sorse creato il tutto….”
Percuotendo con il suo bastone quel duro sasso, non come Mosè con due
colpi, ma con una sola percossa vide con ammirevole portento, e
grandissima consolazione del suo spirito sgorgare dal quel ruvido macigno
onde chiare, fresche e salutari.
O meraviglia della Divina Provvidenza!
Mira l’acqua Nicolò, e sorpreso da grandissima confusione, riconoscendo
con tutta proprietà in fonte i benigni soccorsi della provvidenza Divina sparge
dagli occhi suoi per tenerezza di quella sorgente, vivi tormenti di
devotissime lacrime….
Nicola s’inchina, ed assaggiando di quell’acqua miracolosa, la sua cocente sete
smorza e ristora.

NOTIZIE SULL’ACQUA SANTA MIRACOLOSA

Dopo il  Surdi di Alcara anche lo storico Antonino Mongitore nel 1743, circa 36 anni dopo, citò la fonte sui fenomeni più memorabili della Sicilia che pubblicò nella sua opera “Sicilia Ricercata”.
L’Acqua Santa di Alcara, grazie ai suoi numerosi prodigi, destò scalpore in tutta la Sicilia e lo stesso Mongitore affermò che…
….(ALCARA) S. Nicolò Eremita, che fiorì intorno all’anno 1167
mentre camminava verso la Terra d’Alcara, arrivato al luogo oggi chiamato
Acqua Santa, riarso da ardentissima sete, invocato il divino soccorso,
batte col bastone un gran sasso, da cui sgorgò una fonte perenne d’acqua,
salutevole a molte infermità e tuttavia ritiene il nome d’Acqua Santa….”

La Sicilia in una cartina, che evidenzia il sistema idrografico, del 1762

Anche il Tommaso Fazello, verso la metà del cinquecento, anche se sommariamente, ne diede notizia  citando le acque di Sicilia.
Uno studio più approfondito fu eseguito dal Ryolo nel 1794 quando citò l’aspetto” istorico – analitico delle acque minerali e termali di Sicilia (fonte dello storico Salvo Di Matteo nel suo “Historiae Siciliniae).
“…Acque “miracolose”, giovevoli alla santità dei corpi erano segnalate
un po’ in tutti i luoghi della Sicilia, e sempre le loro virtù
“terapeutiche” erano riferite all’intervento della Madonna o di qualche Santo…
Da queste trattazioni si ricava la nozione di una regione copiosa  di acque,
in molti casi dispensatrici di salute e spesso elevate da virtù
soprannaturali e gravide di meraviglia….”
Lo studio più approfondito sul Culto e sulla vita dell’Eremita Politi si deve all’illustre Sacerdote Salvatore Petronio Russo di Adrano che scrisse ben tre volumi sulla vita del Santo in cui riportò anche i  suoi numerosi miracoli.
Narrò di una testimonianza diretta quando il 18 agosto 1868, trovandosi in pellegrinaggio sull’Eremo di San Nicola sulle falde del Calanna, volle andare a visitare il luogo santo 
Perché in Sicilia troppo se ne era parlato
“….Noi che abbiamo l’onore di scrivere queste pagine, visitammo
questa sorgente il 18 agosto 1868 con 15 nostri compatrioti adornesi.
Si denomina “Acqua Santa” perché oltre che per il suo nascimento fu
per preghiera del Santo, numerosissime grazie di guarigione si narrano
di fedeli i quali con devozione di essa hanno fatto uso:
quam (aquam) variis escinde vessati morbis,
aut doloriubus apotantes, sani effecti”.
Stampa eseguita dal Dottore che parlò di San Nicolò Politi nel 1717
(settima pubblicata in Palermo).
Tutto il gran masso, da cui scaturisce l’acqua, sin dal secolo scorso fu coperto, per somma riverenza degli alcaresi, da una rozza “cupola” che oggi (nel 1994 circa) è ricoperta da una fitta capelvenere.
Un acqua attinta da secoli che non ha mai mostrato momenti di scarsa portata.
Una testimonianza del 1700 dello scrittore alcarese Nicola Dottore e riportata dallo studioso Architetto Attilio Conte, nella sua opera “Alcara Sacra” (Volume I – pag.53) ricordò come Don Vito Nicola Dottore  compose una “Settima” in onore di S. Nicolò:
“…. San Nicolò Eremita, siccome vi partiste da Mongibello/
colla guida di un’aquila per venire ad Alcara eligendovi/
per Divina disposizione un luogo più sicuro di penitenza /
il Monte Calanna e vinceste Satana, per la strada che d’ingannarvi tentava /
Quindi afflitto dalla sete battendo per divin comando col vostro  bastone una pietra /
che tanto tosto scaturì per “Voi” e per i vostri devoti /
acqua salutare che ne riporta sino ad oggi il nome di Acqua santa /
Imperatrice del Signore un luogo più sicuro per servirlo, per il trionfo del
comune nemico e per l’abbondanza della divina grazia…”.
(Don Nicola Dottore, nacque il 16 novembre 1692 ad Alcara, da Benedetto e Paola Dottore.
Fu ordinato sacerdote e nominato cappellano della Matrice il 18 marzo 1717 e nel 1750 compose la “settima” in onore del santo Eremita.
Sulla fonte ci furono altre testimonianze anche recenti come quella di Don Gaetano Oriti nel 1924
( Vita, Culto e Miracolo di S. Nicolò Politi, Riposto 1914), del dott. Gaetano Morelli  (Alcara Li Fusi, 1967) nel 1967 e di Don Gaetano Franchina nel 1989 (Religiosità e feste ad Alcara Li Fusi, cenni storici e orientamenti pastorali).

All’interno di questa struttura rurale si trovava  il masso da cui sgorgava
l’Acqua Santa per intercessione del Santo Patrono di Alcara Li Fusi, San Nicolò Politi.
La testimonianza più antica riguarderebbe la copertura, la cupola e l’edicola votiva sormontata dalla Croce e che erano visibili nel 1994 e posta accanto alla rupe in cui si trova la miracolosa sorgiva.
Testimonianza che ci fu tramandata dal poeta di Alcara Giacomo Nonnato che nel 1725 curò la ristampa del poemetto “ Lu Niculao Eremita” di Placido Merlino, edito per la prima volta a Messina nel 1652 presso la tipografia Giacomo Di Matteo.
Il Nonnato aggiunse agli otto canti del poemetto, un nono canto composto da 122 strofe in ottava rima.
Il poeta alcarese accennò ai numerosi miracoli avvenuti presso l’Acqua Santa e descrisse, con toni miracolistici, i  momenti dell’edificazione dell’altarino votivo. Questa descrizione fornì un preciso riferimento cronologico sulle costruzioni all’Acqua Santa e cioè tra il 1652, data di pubblicazione dell’opera del Merlino, e il 1725, data di pubblicazione del canti aggiunti e cioè della ristampa operata dal Nonnato.
(il nome completo del Nonnato era Pier Giacomino Nonnato, nato ad Alcara verso il 1680. Un pastore in possesso di una certa cultura. La ristampa dell’operette del Merlino, con l’aggiunta dei versi del Nonnato, fu effettuata pressso la stamperia  Chiaremonte di Messina).
 Nel 1709 il Surdi nel suo “Le Vittorie della Penitenza” non fece alcun cenno alla cappelletta dell’Acqua Santa e nemmeno dell’altarino votivo. Il periodo in cui furono costruiti queste strutture era quindi da collocare verso il secondo decennio del Settecento.
Fa quindi riferimento l’accurata descrizione del Petronio Russo quando affermò che nella sua visita al sito, avvenuta il 18 agosto 1869,
tutto il gran masso, sin dal secolo scorso (cioè dal’ 700 in poi),
per devota riverenza dei pii alcaresi sta coperto da rozza
cupola, oggi vestitatesi da capelvenere”
Fece quindi un preciso riferimento alla cupola che copriva la sorgente.
La copertura della sorgiva a cupola (oggi mutata in tetto a capanna nella parte superiore) e la cappelletta votiva furono quindi realizzate quando si verificarono i miracoli citati dal Nonnato.
Miracoli che videro coinvolti l’alcarese Antonio Marino e l’arciprete di Militello Rosmarino.
L’arciprete di Militello, celebre oratore, da sette mesi veniva oppresso da
febbre quaranta doppia, ogni rimedio d’arte era stato insufficiente.
Dalla città di Galati è invitato a predicarvi la Quaresima, vi si rifiuta
stante il male che lo travaglia. Le preghiere dei galatesi continuano;
ed è tanto il desiderio di ascoltare la parola divina dal suo labbro, che si
contentano vi predicasse anche due od una volta per settimana, quando li
consentiranno le forze. Vinto dalle calde istanze parte dalla patria e
pernotta In Alcara. L’indomani va a celebrare la messa del sacro
speco  del Santo Eremita, divorato da ardentissima sete si porta
all’acqua santa e con viva fede in essa ha speranza trovare un
farmaco della sua lunga malattia. L’effetto corrispose al pio desiderio:
risanò del tutto e predicò la Quaresima in Galati”.
Un documento  importante sarebbe la lapide marmorea che reca il nome di Agatino Manuele, il “murifabbro” che compì il lavoro e custode dell’Eremo, come riportò il Nonnato.
Il Petronio Russo, sempre attingendo dal Nonnato, parlò della miracolosa costruzione dell’altarino che chiamò “cappelletta”.
“L’Acqua scaturiva in un luogo pieno di anfratti, di dirupi e di siepi; difficile a rinvenirsi da chi non era pratico del sito. Un devoto si esibisce far erigere una cappelletta con sopra una croce per segnale di facile rinvenimento ai fedeli, che vanno ad attingere l’acqua salutare”.
“ Il murifabbro Agatino Manuele, genitore dell’eremita custode del sacro speco, mette mano all’opera, dopo pochi dì va a terminare la calce preparata, ma non è per finirsi il lavoro: pur tuttavia osservando che restava poco impasto da poter lavorare poche ore, si è risoluto consumarsi per il giorno seguente, e poi proseguir la fabbrica quando dal devoto
si poteva acquistare altra calce.
L’indomani si va al luogo del lavoro e si trova un mucchio di nuova calce, il murifabbro sospetta di essere stata una sorpresa preparatagli dal figlio eremita, i manovali son dello stesso parere, sopraggiunge più tardi costui e con giuramento afferma di non sapere nulla della nuova calce.
Si fa diligenza per le contrade e pei paesi d’intorno, si certificano che nessuno apprestarla potea in quel tempo. Però a maggior sego del vero miracolo  non solo la calce bastò a compiere la cappelletta, ma ne è rimasta altre cinque salme che si donò a restauri
all’Eremo alquanto discosto dalla grotta del Santo”.
“Questo prodigio intanto era stato propagato per tutta Alcara: una donna travagliata da più mesi da febbre quaranta, riconoscendo nella calce un elemento miracoloso,
 animata da fede la gusta e risana”.
Lo stesso Petronio Russo, dopo aver citato i miracoli, descrisse la fonte..
Volemmo con particolare attenzione osservare la provenienza o il corso
dell’onda purissima e fresca: provvisti di recipienti attingemmo più volte
quell’acqua  e al togliere gli empiti vasi invece di trovarla decrescente o
in parte esaurita, con sorpresa comune la fonte si rinveniva ripiena non
altrimenti che pria. Invano cerchi la vena da cui esce o dove va a perdersi; tutto
è simile alla miracolosa fonte di San Pietro che osservai nelle Carceri
Mamertine di Roma”.
(dove fu rinchiuso San Pietro nell’età di Nerone, prima di essere crocifisso e per questa sorgente una pia tradizione attesta l’intervento miracoloso di Dio).
Malgrado le alterazioni idreogeologiche del sito nel corso dei secoli,  la sorgente continua a vivere.
Ci furono tante spiegazioni scientifiche sul fenomeno ma un dato sembra certo per i fedeli… la sorgente è una manifestazione della grandezza di Dio che si manifesta attraverso l’opera dei suoi santi.

I Poeti dell’Acqua Santa

Moltissimi furono i poeti che si occuparono dell’Acqua Santa anche se non tutti riportarono i prodigi che si verificarono nel sito.
Lo storico Gaetano Morelli nel suo “ Florilegio Poetico” riportò che
In Alcara c’è sempre stata una rigogliosa fioritura di poeti,
specialmente popolari che hanno composto versi più o meno belli sul Santo,
ma questi versi sono tutti destinati a cadere nell’oblio o perché
pubblicati in pochi esemplari che in breve tempo si sono esauriti ed
ora sono introvabili
Placido Merlino, nato ad Alcara intorno al 1620. Nel 1662 pubblicò un volume “Poeta Siciliano, hc e portava il titolo di “Lu Nuculau Eremita” in ottava rima e composto da otto canti. Volume che fu stampato a Messina nella Tipografia di Giacomo Di Matteo.
Questo volume venne ristampato nel 1725 con l’aggiunta del nono canto che fu composto da un altro illustre poeta alcarese, Giacomo Nonnato, e stampato presso la Tipografia Chiaramante di Palermo.
Lo storico Surdi nel suo libro sulla vita del Santo Eremita citò un Merlino Pastore che nel testo venne poi indicato come
Frà Placido Merlino, alcarese, che in ottava rima cantò la vita di questo gran Santo….”
In merito all’Acqua santa il Merlino scrisse:
(strofa 94)
E pri li tanti so maltrattamenti
pri tanti chianti profundi suspiri
ha li corpu siccatu, e si risenti,
di la gran siti chiù lu fa muriri
cussi pri lu disertu a passi lenti,
s’avvia cun spiranza di putiri
truvari l’acqua, ma lu locu è riccu
di sciari e di acqua si resta siccu.
 
(strofa 95)
Mapoi li pedi scausi, lu caminu pitrusu e rozzu di duna tormenti
a un puntu certu da un nunziu Divinu
Nicolau ad un trattu chiamari si senti:
Nicolau batti ssa petra e surgenti vidrai l’acqua e la tò arsura
smurzerai cum stupuri di natura
 
(strofa 96)
Di l’avvisu cilesti ni fui certu
lu sassu batti e nisciu l’unna viva cun cui si abbunna ed argenta un diseru:
poi rendi grazia e iddu sinni priva, e dici:
O Diu e ‘hai suffertu pri lu me amuri la siti cuncessiva
la siti dicu in Cruci allura quannu siziu,
siziu dicisti spirannu
 
(strofa 97)
Ed in cangiu di l’acqua di Giudia li genti,  feli ed acitu ti dunaru,
comu ora possu sfortuna mia gustari l’acqua e tu lo tossicu amuru ?
E si iddi l’acqua non derisu a tia,
t’affrisciu lu miu chianti Diu miu Caru,
poi chi beni sacciu chi la to gran siti era di aviri lacrimi cuntriti.
 
(strofa 98)
E cu tali astinenza e santu affettu, lu beautu Eremita tuttu focu,
si ferma e all’arsu corpu poi pirmetti di gustari l’acqua qualchi pocu;
cussi rinfriscu a la gran siti detti e torna versu lu sulitariu locu,
locu di tanta rara pinitenza ddà unni s’iquistau la so astinenza.
 
(strofa 318)
Ora pigghiu licenza di tutti
Voi, nobili Signuri e bona genti,
Pirchi mi sentu li sensi distrutti e travagghiata lòa mia scura menti.
Si gusta ‘un hanni avuta li me frutti,
Vi dumannu pirdunu umilmenti, chi Tassu non sò né lu Marinu,
ma la pasturi Placidu Merlinu.
 
GIACOMO NONNATO
Nato ad Alcara verso il 1680, pastore di armenti secondo la cronaca letteraria. Un uomo dotato di una certa cultura e capace di esprimere in versi gli avvenimenti storici (miracoli) nel sito dell’Acqua Santa.
Antonino Marino  Miracolato
“Ntoninu Marinu cu na frevi ardenti
Bruciannu scungiurau tutti i Santi, era ‘nta un purgatoriu di turmenti
Cuntannu la so vita a istanti a istanti,
Riciviu li divini sacramenti e quasi quasi pari agunizzanti;
Di poi fa vutu a lu Santu Eremita
E di la morti già ritorna in vita.
 
Convalescenti vosi sodisfari
La sua prumisa a lu Servu Divinu;
Di la mugghieri si fa apparicchiari
Lu cibu e poi si mittinu ‘n camminu;
Versu l’Erumu spera disinari
O all’Acqua santa chi sta ddà vicinu;
Ma a menza strata iddi s’addunaru
Chi lu pani a la casa si scurdaru.
 
Ti mennu camminari ad autra banna
L’unu  amminazza e l’autra si cunfida
A Lu gran santu a cui si raccumanna,
Chi all’Eremu o qualcunu pi la via
Ci ‘mpristassi lu pani chi vulia
 
Cu nissunu pi strata s’incuntraru,
Ma li spiranzi d’idda non spireru
Poiché a la grutta sudati arrivaru,
Grazii infiniti a lu Santu rinderu,
E la figura vicina a l’altaru
Baciaru cu l’affettu chiò sinceru;
Poi spiaru a li monici pi pani,
Ma li spiranzi rinisceru vani.
 
Di la fami vidènnisi già avvinti,
Di ddà parteru e lu convalascentui
Accumpagnava la mugghieri a spinti
Versu di l’Acqua santa impazienti,
Ma la donna cu lacrimi non finti
Faca a lu Santu prijeri firventi.
S’accorgi intantu di supra na rama
Canta n’aceddu chi quasi la chiama.
 
La musica vulanti a’avvcina
A la donna, poi tostu s’alluntana;
Varia a la pinnatura palummina
E lu so cantu li malati sana;
La donna appressu appressu ci cammina
Parènnici ‘na cosa supra umana,
E lu maritu di còllira oppressu
Camina già scurdatu si sé stessu.
 
Tenta di rama in rama d’affirrari
L’aceddu chi davanti si prisenta;
Nesci di strada e trasi ‘nta li sciari
E d’avirilu in manu spissu tenta;
Di lu cantu si senti ‘ nnamurari
E vada avanti, non posa né abenta;
Ma quannu di pigghiarulu si cridi,
L’aceddu fuj e d’idda si ni ridi.
 
Senza aceddu ristannu e senza cantu,
Vidènnulo spariri all’impruvisu,
La sua alligrizza si mutau in chiantu,
Ma lu chiantu si cangia prestu in risu;
Pirchì ristannu immobili ad un cantu
Un pani vidi di lu paradisu;
£Nterra si cala, lu pigghia currennu
Torna a truvari lu spusu chiancennu.
 
Maritu, dissi, guardati favuri,
Chi n’ha fattu lu Santu stu matinu;
Stu pani biancu di duci sapuri
Mi fa truvari fora li caminu.
Cu un’aquila celesti di tutt’uri
Ebbi da Diu lu cibu di cuntinu;
Annui un aceddu ni mannò pi grazia
Chi cu stu pani n’abunda e ni sazia.

14. Alcara Li Fusi - L’Eremo di San Nicolò Politi

Adrano era la città dove il Santo Politi era nato ed Alcara il piccolo centro dove visse  e morì.
Una devozione molto forte nei due centri.
A diciassette anni lasciò la madre ad Adrano. Una donna in preda alla disperazione perché dal cielo veniva chiamato il figlio e destinato ad un altro paese.
Alcara lo accolse con amore e ci troviamo quindi di fronte a due città che di Nicola Politi fecero
la bandiera della fede e della religione.
Un amore verso il Santo ricco anche di libri, ricerche, leggende, preghiere. Tra i due centri lotte accanite per le reliquie del Santo, per le pergamene, espressione irrazionale del grande amore verso l’Eremita.
Nel luogo in cui visse San Nicolò Politi era presente un piccolo cenobio basiliano detto successivamente  di San Nicolò” ?
Dal V secolo d.C. la storia di Sicilia s’arricchì di un importante influsso culturale legato allo sviluppo e alla penetrazione del monachesimo orientale e dell’eremitismo.
Proprio in questo periodo si diffusero le prime tracce di eremiti che abitarono i posti più scoscesi della nostra isola, fondando dei cenobi che svolsero in seguito una importante funzione religiosa e culturale.
Le fonti citarono un  monastero di S. Nicolò de Paleocastro che fu ricordato in alcuni documenti del periodo normanno come grangia dipendente dal monastero basiliano di S. Filippo di Fragalà.
Questa dipendenza chiamata anche "S. Nicolò de Petra", "de Rocca" e "de Scalis" venne concessa al monastero di Fragalà dal Conte Ruggero nel lontano 1094.
Nel 1125 ai monaci, che abitavano l’antico monastero ed avevano subito delle usurpazioni, fu da parte di Ruggero rinnovato il privilegio.
In questo documento sembrò chiaro che la grangia di S. Nicolò sia stata costruita con le oblazioni degli abitanti di Alcara Li Fusi.
Altri studiosi sono però convinti che la dipendenza di San Nicolò, menzionata nel testamento dell'egumeno Gregorio del 1105, sia da identificare con il luogo in cui, poco più tardi, visse da eremita, S. Nicolò Politi, cioè proprio presso Alcara.
Del santuario di S. Nicolò rimasero poche vecchie tracce di costruzioni basiliane a differenza del piccolo monastero, sempre basiliano, di S. Maria del Rogato.
S. Nicolò, come abbiamo visto, non era comunque nativo di Alcara, ma di Adrano.
Egli fuggì dalla sua città natale in età giovanissima in seguito ad una grande vocazione religiosa.
Tra l'altro il giovane era stato costretto dai genitori a sposarsi a soli 17 anni.
Viste le vane proteste, il giovane finse di accettare il matrimonio stabilito, per poi fuggire da casa di notte prima delle nozze.
Si rifugiò in zone che ancora oggi sono difficili da raggiungere per l’asperità dei luoghi.
In un eremo presso Alcara, dopo molto peregrinare, in luoghi d'alta montagna e impervi, abitati da grandi uccelli (i grifoni e da aquile) S. Nicolò si ritirò negli ultimi anni della sua vita.
Ma la sua presenza fu presto notata, la grotta fu infatti scoperta da un pastore e dal popolo di Alcara.  Narra un poeta dialettale del paese (Nicolò Santoro) come il Politi sia stato  trasportato in processione fino alle prime case del villaggio.
Se ne ritornò subito al suo eremo, fra i grifoni, le aquile e le pietre, confuso da tanta dimostrazione di affetto e di devozione.
Solo raramente, S. Nicolò lasciò la sua grotta per recarsi in visita e per confessarsi nel vicino monastero di S. Maria del Rogato.
Quando Nicolò Politi morì gli alcaresi eressero un santuario intorno alla grotta che aveva abitato per anni.


Campanile dell’Eremo di San Nicolò Politi
Nella campana è incisa l’immagine del Santo Eremita e la seguente scritta.
NONIS  AUGUSTIN 1753 AB  LL. MO ET  REMO  DNO D.  ALFONSO
NASELLI  CIPISCOPO NOMEMIESI  BENEDICTA + M.  ONUFRIUS
DI  MARCO  FECIT  PANORMI C  PRIMO AGOSTO”

Non si può comunque affermare con sicurezza che il Santuario di San Nicolò fosse quella dipendenza denominata nei documenti con il nome di "S. Nicolò de Paleocastro".
Alcune date non corrispondono e non sono rimaste tracce di antiche costruzioni basiliane.
Comunque per alcuni punti si potrebbe affermare che quella dipendenza del monastero di S. Filippo di Fragalà fosse lo stesso luogo in cui oggi sorge il santuario e questo in seguito al fatto che S. Nicolò visse alla metà del secolo XII e che invece la dipendenza di S. Filippo denominata "S. Nicolò" fu citata in documenti antecedenti.
La grangia esisteva prima che l'eremita vi andasse ad abitare?
S. Nicolò non era basiliano, ma un seguace della regola di S. Basilio e probabilmente non conobbe mai il greco, ma nelle sue peregrinazioni alla ricerca d'un eremo inespugnabile capitò nello stesso luogo dove altri monaci, prima di lui, avevano servito una dipendenza di S. Filippo di  Fragala'.
Probabilmente la trovò vuota e decaduta, disabitata, e posta in un luogo inaccessibile e S. Nicolo' l'abitò (probabilmente  la sola grotta).
Anche se i fedeli della vicina Alcara lo stimassero egli continuò a vivere nel suo eremo abbandonato e a mantenere contatti con il monastero di S. Maria del Rogato, anche in punto di morte.
Un legame religioso tra l'eremita e il monastero basiliano  di cui Nicolo' diventava, per sorta di tacita investitura, rappresentante in quel luogo sacro ch'era un tempo stato "S. Nicolò" "de Paleocastro"?

15. Le Reliquie del Santo – Il suo libro di preghiere – i Furti

Le sue ossa sono prive del cranio che fu strappato nel 1926, al culto degli alcaresi, con una vera e propria azione di guerra, che vide la partecipazione di carabinieri e di squadre fasciste adraniti che rivendicavano tutte le reliquie del Santo.
Comunque le sue reliquie sono conservate nella chiesa di S. Nicolò (Santa Maria Assunta), situata nel paese, e non nel santuario dove sarebbero non ben custodite.
 Una tradizione secolare, orale, iconografica e scritta, riportava come il corpo di San Nicolò venne trovato nella grotta dell’Eremita in atteggiamento di preghiera..
.. scoprii un uomo in ginocchio, con una Croce in braccio e nelle mani un
libro aperto, che se ne sta contemplativo con gli occhi elevati al cielo”.
Furo queste le parole che si Surdi raccolse dalle rivelazioni di Leone Rancuglia, il pastore che trovò la grotta in modo fortuito mentre era alla ricerca di alcuni suoi buoi smarriti.
Il “libro aperto” che l’Eremita aveva in mano, aveva un frontespizio sul quale si trova l’immagine del Crocifisso.
I documenti iconografici ed anche alcune fonti antiche, attestarono le piena veridicità di questa tradizione.
Il primo documento storico su San Nicolò fu rappresentato da un inno in sua lode scritto dal padre spirituale, il monaco basiliano Cusmano di S. Maria del Rogato. Un inno che fu consegnato al Gaetani dagli stessi Alcaresi in traduzione italiana, dopo averlo recuperato, come lo stesso storico affermò, da un frammentario codice greco del monastero di Santa Maria del Rogato.
In quest’inno non c’era alcun cenno sul libro di preghiere dell’Eremita. Perché il “teologo” Cusmano non citò il libro ? Forse perché era una tradizione consolidata, conosciuta da tutti.
Nel suo inno riportò una formula di preghiera che l’Eremita era solito ripetere. Un invocazione che conteneva delle precise indicazioni come l’invocazione alla Trinità che era molto presente negli schemi di preghiera contenuti nel manoscritto e l’affidamento da parte dello stesso Nicolò della sua anima a Dio. Una preghiera d’affidamento in cui erano riposte tutte le speranze di Nicolò che si trovava in estrema solitudine. Una solitudine che sintetizzava un forte richiamo a Dio che il salmista espresse nel salmo 38 e contenuto nella pergamena indicata dal Matranga con la lettera greca “ ” segnata in rosso.
La prima immagine dell’Eremita si deve all’artista messinese Giuffrè nel 1518. La statua, in tela – colla, presenta un impalcatura interna in legno ed in sughero ed è quella che, ancora oggi, viene portata in processione per la festività del Santo. Il Santo è rappresentato nella posa descritta dal Surdi e porta un libro aperto nelle mani.
Tutte le rappresentazioni successive del Santo rispettarono questa primitiva immagine come la grande tela dell’altare centrale della Chiesa di S. Elia, annessa al Convento dei Cappuccini, risalente al 1656, raffigurante la morte del Santo e la tela dell’altare della Cappella del Santo, all’interno della Chiesa Madre e risalente al 1710.



Una notizia ben precisa sul libro di preghiere che San Nicolò Politi teneva in mano, risalirebbe al 1709 in un atto notarile registrato e conservato nella Curia Vescovile di Catania.
Si tratta di una testimonianza ufficiale prestata da alcuni giurati al fine di autenticare le pergamene, che attraverso vie traverse e difficili, nel 1674, il barone D. Giuseppe Spitaleri, adranita, insieme ai due concittadini Antonino Morabito e il sac. Don Mario Scalisi, erano riusciti a portare ad Adrano, prelevandole da Alcara.
I tre si erano recati da Adrano ad Alcara con la speranza di avere  qualche reliquia del Santo. Gli Alcaresi si rifiutarono di consegnare una (o più) reliquia del loro Santo Patrono. Gli adraniti, perduta ogni speranza, stavano per ritornare ad Adrano quando il padre guardiano del Convento dei Cappuccini, Padre Antonio da Alì, forse per rincuorare i tre ospiti del suo convento, li portò in chiesa davanti all’altare del Crocifisso. Da un reliquiario, contenete un gran numero di reliquie di diversi Santi, prelevò il libro di orazioni di San Nicolò Politi e lo mostrò agli ospiti che rimasero increduli.

Il Convento dei Cappuccini fu fondato nel 1574 come dimostrerebbe l’atto d’acquisto
del terreno redatto dal Notaio Antonio Montone, redatto l’8ottobre proprio del 1574.
Il convento fu costruito in Contrada “Parattica” un luogo sacro dove sorgeva un tempio
greco dedicato ad una divinità femminile.
Con la costruzione su resti pagani si edificò il Convento cancellando ogni traccia
di paganesimo e la scultura della dea che chiamavano “Fortuna”
Si realizzò il desiderio degli Alcaresi che da tempo, circa otto anni, avevano avanzato la
richiesta di avere nel loro territorio i frati Cappuccini.
Nel 1568, per superare le difficoltà opposte dai Superiori, per i problemi della questua, la comunità
offrì la somma di 18 onze e, su richiesta, il frumento secondo le necessità.
Furono restaurati la preesistente chiesetta e i locai adiacenti e si  creò un
“bel giardino deliziosa selva rigabile”.
I frati si stabilirono nel luogo nel 1574. La Chiesa ed il convento furono successivamente
ampliati negli anni 1624 (la Chiesa), 1656 (il Convento), 1673 (la Sacrestia),
1676 (la cornice dell’Altare Maggiore eseguita da Fr. Antonino da Troina).
I Frati si dedicarono ad un fervido apostolato anche nei paesi vicini e soprattutto nelle
campagne. Il convento era dotato di una ricchissima biblioteca come risulta da un
catalogo redatto nel 1844 e conservato presso l’Archivio di Stato di Messina.
La biblioteca rimase successivamente nel convento disabitato ed esposto ai continui
saccheggi. Nel 1866 ci fu infatti la soppressione civile dell’ordine.
Dopo la soppressione del 1866, nel 1892 l’orto fu venduto a privati mentre il Convento fu
affidato in uso al Comune che lo adibì in parte ad alloggio per i poveri, parte a stalle
 e fienili. Nel 1940 (?) la biblioteca fu in parte recuperata e trasferiti nella Parrocchia di
San Pantaleone  e nel Museo di Arte Sacra. Il Convento fu invece distrutto da un
incendio nel 1956 e il sito trasformato in Villa Comunale.

Chiesa di Sant’Elia

L’Altare Maggiore, adorno di un bellissimo tabernacolo in legno artisticamente intagliato ed intarsiato,
con numerose statuette (che sono state rubate), paziente lavoro dei frati del XVII

Il Barone Spitalieri con insistenza, chiese quel libro, e alla fine il padre guardiano staccò 18 fogli in pergamena dal libro insieme ad una parte di copertina costituita da una tavoletta ricoperta all’interno da una pergamena e li consegnò agli adraniti. Ottenuti i preziosi documenti, gli Adraniti immediatamente si diedero alla fuga precipitosa portando il tutto  nella loro città. Le pergamene furono esposte ad Adrano nella chiesa intitolata a San Nicola e che era stata eretta dallo stesso barone Spitaleri a proprie spese.

Il 15 aprile 1709, il nipote del barone Spitaleri, il barone Don Vincenzo, approfittando della visita ad Adrano  del Vescovo di Catania Mons. Andrea Riggio, fece prestare in presenza del presule, la testimonianza (del possesso delle pergamene) giurata al Morabito e al sac. Scalisi, e facendo convalidare il tutto dalle conferme di Padre Innocenzo di Alcara, cappuccino e professore di teologia che prestava il suo ministero nel convento di Adrano e che nel novembre del 1674 si trovava anch’egli nel convento dei Cappuccini di Alcara.
Padre Innocenzo era quindi al corrente di quel gesto incauto che Padre Antonio da Alì aveva nascosto agli Alcaresi, disponendo la restante parte del libro nella custodia in maniera tale che nessuno si potesse accorgere dei fogli mancanti.
Il padre Innocenzo riconobbe come originali le pergamene conservate e attestò che le studiava tutti i giorni “nel detto Convento di Alcara”..
La dichiarazione di padre Innocenzo era quindi una prova chiara sull’autenticità delle pergamene e l’unico aspetto, per certi versi strano, era determinato dal luogo in cui erano custodite le pergamene dato che le reliquie del Santo si trovano in un urna della Chiesa Madre di Alcara.
Lo stesso padre affermò di aver assistito alla consegna del libro sacro ai padri Cappuccini, molti anni prima, da parte dei giurato e dei custodi delle reliquie del santo. Una consegna che fu motivata dalla grandissima stima che gli alcaresi nutrivano verso l’ordine dei Cappuccini, ogni anno durante le festività del patrono, l’urna delle reliquie veniva lasciata nel convento dell’ordine. Ancora oggi il 17 ed il 18 agosto quando la vara contenente la statua e il reliquario di San Nicolò, sosta nella chiesa di Sant’Elia che è attigua all’antico convento, ormai distrutto dei Cappuccini. La stessa grande tela che sovrasta l’altare della Chiesa di Sant’Elia potrebbe essere una conferma dell’antico legame tra i Padri Cappuccini ed il culto di San Nicolò.


Non si sa quando gli alcaresi vennero a conoscenza della sottrazione delle pergamene. Quando  la verità venne scoperta, il sacro libro venne riposto nell’urna del Santo.
Dalle fonti storiche sembra che le pergamene di Adrano non siano state custodite in modo accurato.
Il sacerdote Petronio Russo nel 1871 criticò la trascuratezza con cui venivano conservate le preziose pergamene e denunciò la scomparsa di nove fogli e mezzo delle diciotto pergamene che erano finite nelle mani del barone Spitaleri.
Una conferma sulla mancanza  di rispetto storico fu legata agli studi del Matranga che nel 1874-75 visionò solo sette pergamene,
Nel 1994 le pergamene adranite erano nuovamente diciotto e custodite in un reliquario argenteo.
Una sorte peggiore colpì invece le pergamene che erano custodite in Alcara.
Secondo la numerazione dello studioso Luca Matranga dovevano essere diciotto…..
Furono infatti trafugate nell’agosto del 1978 insieme all’oro degli ex voto che erano cusstoditi nella cappella del Santo, nella Chiesa Madre di Alcara… reperti che non furono mai ritrovati.

16. L’Esame delle Pergamene (in parte trafugate)

Il libro delle preghiere di San Nicolò forse era più voluminoso. Le 18 pergamene adranite e le 15, che fino ad anni fa erano custodite ad Alcara, probabilmente non costituivano l’intero sacro ufficio con cui il Politi dichiarava la sua preghiera giornaliera.
I frammenti superstiti e quelli che furono studiati dal Matranga farebbero parte di tre / cinque libri diversi secondo l’Ufficiatura greca utilizzata dal monaci basiliani.
San Nicolò era un basiliano “dal piccolo abito” e come tale seguiva gli schemi di preghiera dei basiliani con cui era ogni settimana in contatto grazie alla vicinanza del monastero basiliano di Santa Maria del Rogato.
Il Matranga, sacerdote di rito greco, nelle sue relazioni ricordò che per recitare l’Ufficio giornaliero occorrevano numerosi testi che variavano anche a secondo dei diversi periodi liturgici dell’anno.
Le pergamene adranite vennero studiate per la prima volta nel 1870 da padre Antonino Rocchi, basiliano del Monastero di Gottaferrata  che le collocò tra l’XI – XII secolo cioè nel periodo in cui visse Nicolò Politi. Le classificò come parti di libri corali dell’Ufficiatura Greca, di cui l’Eremita si serviva. San Basilio aveva permesso a chi volesse condurre una vita ascetica in  solitudine, di legarsi alla sua regola come un monaco anomalo, che non faceva vita comunitaria e che, per la forma tozza della sua tunica, veniva chiamato “del piccolo abito” (microu’ schematos”).
Padre Rocchi  ed il Matranga giunsero a precise conclusioni.
Quest’ultimo le classificò apponendovi in modo progressivo delle lettere dell’alfabeto greco ed, in particolare, le maiuscole
α βγδεζηθικλμνξο per i quindici frammenti alcaresi e le maiuscole
per le sette pergamene adranite che potè visionare.
Le pergamene
A e α farebbero parte di un unico libro e per il Matranga risalirebbero al IX secolo o alla prima metà del X. Sono frammenti di alcuni Esapostilari, delle orazioni che servivano di solito per chiudere il Mattutino cioè le preghiere che precedevano le Lodi della mattina.
La pergamena A contiene un frammento dell’Esapostilario di San Giovanni Battista per la Festa della sua Concezione, del 23 settembre; due di Santa Tecla Protomartire (24 settembre);
quello di San Giovanni Evangelista (26 settembre).
La seconda parte della stessa pergamena, comincia con la chiusa dell’Esapostilario di S. Ilarione Anacoreta (21 ottobre), continua con l’invocazione a S. Alberchio Vescovo (23 ottobre) e termina con il titolo dell’Esapostilario di San Giacolo Apostolo il minore (23 ottobre).
La  pergamena α si riferisce a diversi mesi:
-          Febbraio con le orazioni di San Teodoro (giorno 7); San  Policaropo e Filadelfo (giorno 23);
-          Aprile  con  l’Esapostilario di San Marco Evangelista (giorno 25);
-          Maggio con l’invocazione a San Atanasio (giorno 2) e di san Giovanni Apostolo ed Evangelista nel giorno 8.
 
La pergamena contrassegnata da β, posta tra la seconda metà del X  e la prima metà dell’XI secolo, contiene gli Esapostilari:
-          Dei Santi Martiri e Confessori Guria, Simone e Abibo (15 novembre);
-          Di San Matteo Apostolo ed Evangelista (16 novembre);
-          Di San Gregorio Taumaturgo (17 novembre);
-          Di San Platone (18 novembre);
-          Della Theotòcos, cioè della Santa Madre di Dio (21 novembre) ed è l’invocazione più lunga;
-          Di San Gregorio (22 novembre).
Queste due raccolte costituiscono la prima parte dei testi di preghiera usati da San Nicolò Politi mentre la seconda parte è costituita da un Florilegio di inni di lode rivolti alla Madonna che è invocata, quasi sempre, con il titolo di Santa Madre di Dio.
Si tratta di odi che appartengono all’Officiatura greca e si distinguono in tropari ed hirmi cioè unità ritmiche proprie dell’innografia bizantina.
A questa seconda parte appartengono ben 15 pergamene



che contengono 28 odi complete e numerose altre frammentarie.
Sei pergamene di questo gruppo sono inedite dato che non sono state ritrovate in nessuna collezione antica di inni liturgici bizantini.
Delle altre invece alcune sono in parte edite ed in parte inedite mentre le rimanenti sono per lo più tratte dai Canoni (insieme di nove odi) delle  Paracletica. Si tratta di un libro corale dell’Ufficiatura Greca che fu composto da San Giovanni Damascemo e dedicato alle lodi della Madonna.
Gli inni mariani sono intervallati da alcuni orazioni indirizzate a San Nicolò di Mira ed all’Arcangelo S. Michele.
Le pergamene M ed λ, per il numero di righe che contengono e per i loro caratteri differenti, sarebbero da ascrivere ad un libro che, per certe espressioni tipiche, lo storico Matranga attribuì all’autore di melòdi San Cosma Gerosolomitano Aghiopolita.
Anche la frammentaria pergamena Z dovrebbe fare parte di una riccolta differente.
Queste pergamene furono classificate dal colto paleografo siciliano, secondol’ordine musicale progressivo degli otto toni propri del canto corale greco-bizantino.
La terza ed ultima parte del libro di orazioni di San Nicolò consta delle restanti quattro pergamene.
Le prime due, la ν e la ε, contengono rispettivamente i Vv. 7 – 17 del Salmo 37, la prima, ed i Vv. 7 – 17 del Salmo 41, la seconda.
Anche per queste due pergamene il Matranga avanzò l’ipotesi che appartenessero a due salteri diversi e questo per la diversità dei numero delle righe e dei caratteri. (Per avere una maggiore semplificazione lo stesso storico li ridusse ad un unico testo).
Qui s’inseriscono due pergamene che il Matranga definì le più interessanti e preziose perché erano le pergamene greco – bizantine più antiche custodite in Sicilia.
Si tratta del frammento alcarese classificato con la lettera o, e quello adranita, ancora conservato, segnato con l’H.
Il frammento alcarese fu consegnato allo storico  incollato sulla tavoletta che fungeva da copertina ai testi esaminati ed anche quello adranita, per i buchi dei chiodi di rame e per le tracce di collante, presentava le medesime caratteristiche.
Le due pergamene furono impiegate come foglio rilegatorio cioè per la copertina.
Un particolare di grande importanza perché testimonia una anteriorità temporale di queste pergamene rispetto alle altre. Dovevano fare parte di qualche codice logoro che non poteva essere usato altrimenti.
L’esperienza del Matranga gli suggerì un ipotesi sul motivo perché un testo così prezioso fece questa fine. Occorrevano  tre/quattro secoli e se si considera che San Nicolò Politi visse nel XII
secolo, queste due pergamene furono forse utilizzate da qualche scrivano di Santa Maria del Rogato che mise insieme le preghiere del Santo erremita. Pergamene che risalirebbero quanto meno al IX secolo.
Una conferma dell’ipotesi deriverebbe dai caratteri più belli delle due pergamene che constano, in tutto, di ben 90 righe, con 30 righe per facciata rispetto alle 17/18 delle altre.
Esse contengono due Menologi. Due Ufficiature di Santi catagolate secondo i  vari mesi.
Le due composizioni appartengono entrambi al Menologio di Ottobre, e recano l’invocazione a  San Giacomo d’Alico, il 9 ottobre, nella pergamena alcarese H, e l’inno in onore dei Santi Eulampio ed Eulampia, il 10 ottobre (sempre nella pergamena alcarese). Santi che furono martirizzati nel 296, sotto l’imperatore Massimiano.
Dei due menologi sono noti anche gli autori che, confermerebbero l’autenticità delle due pergamene: Giuseppe Studita, autore dell’inno per i due martiri, visse nell’VIII secolo, mentre Teofane il Grapto, autore dell’invocazione a San Giacomo visse nella prima metà del IX secolo.
Tutto coinciderebbe con la tesi dell’autorevole storico Matranga.
San Nicolò Politi lasciò un tesoro dal valòore culturale immenso che purtroppo è andato in parte perduto.
 Tra le sue preghiere una rivolta alla Madonna che invocava con gli appellativi più vari: “Madre di Dio”, “Vergine purissima”, “Gloria degli Angeli”; “Mediatrice degli uomini presso Dio”; “Immacolata”.
Alcune lodi contenute in una pergamena alcarese, ι (la iota), interamente edita e  propria dell’Ufficio della Vergine nel Mattutino Domenicale.
Una preghiera ricca di altissimi contenuti teologici che riguardano la Madonna proclamata “Vergine Immacolata “. Una definizione che la Chiesa cattolica affermò solo nel 1851 con Pio IX durante il Concilio Vaticano I, sia il Cristo richiamato nel mistero dell’Incarnazione.
San Nicolo aveva arricchito il suo spirito con la conoscenza della teologia e, nella quotidiana preghiera, meditava nei profondi misteri del Creatore e sul suo disegno di salvezza.
Alla  Madre di Dio  nel Mattutino Domenicale
 
ODE I
“ I popoli tremarono,  le nazioni rimasero attonite, i possenti regni si prostarono, o tutta paura,
piegati dal timore del tuo Figlio;
venne infatti, il mio Re, depose il tiranno e liberò il mondo dai lacci della Corruzione;
il Cristo che abita i cieli, disceso tra gliuomini, santificò il tuo seno e lo rivelò intatto;
Tu sola, infatti, dopo il parto, generando il Creatore, sei rimasta gloria della verginità.
 
ODE  III
Tu, o Cristo, che ti ergi al di sopra di ogni potenza,
dall’alto sei disceso sulla terra, spontaneamente, ed hai risollevato la natura dell’uomo
dall’abissale profondità della dannazione;
lontano da te, il santo non sussiste, o amante degli uomini.
O purissima Vergine, la natura umana accostandosi per te all’irrestibile fiamma
dell’amore di Dio, come un pane che cuoce sotto la cenere, si purifica,
come pure in Te infiammata da Colui che ti rese Immacolata.
Chi è mai costei che davvero è così vicina a Dio da travalixare tutte le schiere degli Angeli ?
È lei, la sola che risplende nel fulgore della Verginità. Come Madre dell’Onnipotente.
 
ODE  IV
Colui che è assiso nella gloria si è chinato incontro agliuomini;
resosi visibile, ma restando invisibile nella natura della sua imperscrutabile divinità,
rivestito da te, o Vergine, nella sua umana natura, salva quanti ri risconono Vergine Madre di Dio.
Vergine, accolse nella sua carne chi carne non era, rendendo parte della propria natura il Figlio
da Lei generato, per cui uno ci appare, in due nature; Dio,  rivestito di umanità, ed Uomo.
Impossibile da definire con la limitatezza della nostra mente.

Nell’Inno del Cusmano fu riportata la formula di preghiera che fu trascritta dal Gaetani in un paragrafo della sua opera “Viae Sanctorum Siculorum” (Palermo,1657)

Quando pregava Dio, questa era la sua preghiera:
O Padre, o Figlio, O Spirito Santo
ascolta la mia preghiera
or che mi trovo in questa solitudine,
finchè io tengo in Te riposte le mie speranze:
quando lascerò la vita, ti prego, accogli la mia anima

Importante Testimonianza sulle Pergamene di Alcara
In occasione dei festeggiamenti di S. Nicolò Politi nel maggio del 1974, si svolsero due incontri culturali dedicati al patrimonio storico e artistico-religioso di Alcara Li Fusi.
Il primo tema fu trattato dalla prof.ssa Enza Ricciardi mente il secondo dall’autrice di un libro dedicato a San Nicolò Politi..
Si studiarono le architetture, le pitture e le sculture esistenti ad Alcara per inquadrarli nel loro periodo storico cercando di evidenziare quegli aspetti importanti per attribuire la corrente culturale di appartenenza, la scuola e il nome dell’autore.
Importanti furono le tele di Giuseppe Tomasi, Pietro Castelnuovo, Gaetano Concina e Damiano De Basileo, tutti pittori operanti nei secoli XVI – XVII – XVIII e una scultura in marmo, di scuola gaginiana, raffigurante la Madonna della Catena, posta nella Chiesa del Rosario.


Si studiò anche l’arca di San Nicolò Politi (arca d’argento) decorata da un artista catanese, Paolo Guarna nel 1581, e contenete le reliquie del Santo.
Per visionare l’arca  la ricercatrice….. ottenne l’autorizzazione dall’arciprete don Francesco Pisciotta. Alla presenza dell’Ufficiale Sanitario di Alcara, dott. Salvatore De Maria, fu aperta l’arca.
 Tra gli oggetti di dubbia origine, c’erano due reperti preziosissimi:
-          Una piccola parte dei resti mortali di S. Nicolò;
-          Il libretto di preghiere.
Il libretto non era intero, c’erano circa 18 foglietti in pergamena.
Foglietti in grafia greca risalenti uno al IX , altri al X e XI secolo (come rilevò il Matranga).
Contenevano lodi e preghiere alla Vergine, alcuni frammenti di salmi davidici ed altri tratti dai Menològi greci. Libri che servivano per la recita dell’Ufficio Divino.
Probabilmente era stato un dono fatto dai monaci basiliani di Santa Maria del Rogato al Santo quando si recava nel convento per partecipare alla messa e per confessarsi.
Di questi fogli non furono fatte allora delle diapositive così come per il patrimonio artistico.
Il giorno 2 maggio 1974, nel pomeriggio, i fogli chiusi in una piccola urna di cristallo, furono portati dall’arciprete, con un corteo di fedeli, dalla Chiesa Madre nel salone della Società Agricola e deposti su un tavolo (erano presenti anche due componenti della Commissione dei festeggiamenti).
Il salone non riuscì a contenere la fola di fedeli e la partecipazione cittadina fu quindi molto forte e commovente.
Al termine della conferenza i fogli furono riportati nella Chiesa Madre e deposti nell’arca d’argento del Santo.
Anni dopo mani sacrileghe, dopo aver sfondato il cancello che chiudeva la cripta, profanarono il luogo e gli oggetti sacri, asportando anche il prezioso libretto di preghiere.
Alcara Li Fusi perse in questo modo non solo un prezioso oggetto di culto ma anche il più antico documento di paleografia conosciuto in Sicilia. (Augusta De Maria Potestà)
(Alcara Li Fusi, 9/8/1993)

17. I Documenti

Documento n. 1


Supplica degli Alcaresi al Papa
Archivio Vaticano – Reg. Suppl. 1250 – pag. 301 – fascicolo XV – Libro X – anno V
(foto che si trova nell’archivio della Chiesa  Madre di Adrano)
È la supplica degli Alcaresi al papa  per la sanatoria in merito
al trasporto del Corpo di San Nicolò Politi dalla Chiesa di 
santa Maria del Rogato alla Chiesa di San Pantaleone. La supplica
concerne  anche la richiesta di autorizzazione per poter celebrare la
solennità del santo il 17 ed il 18 Agosto di ogni anno.
Un decumento risalente al 1507. Del IV anno, di pontificato di Giulio II.
come si rileva dalla nota di catalogazione della copia
nell’Archivio Segreto del Vaticano.
 
Traduzione del documento
“ Beatissimo Padre, morto un certo Nicola de lo cito, in una
grotta vicini ad Alcara, diocesi di Messina, distante circa tre miglia,
le autorità ed il popolo di detta terra, per la grande devozione che
avevano verso questo Santo a causa della sua buona vita, presero il
suo corpo dalla grotta con l’intenzione di trasportarlo e collocarlo nella
chiesa maggiore di Alcara. Cambiata poi idea lo portaronop in una chiesa
detta S. M. del Rogato esistente in un bosco.
Volendo però allontanare tale corpo dalla detta chiesa disabitata,
in mezzo ad un bosco, dubitando che esso poteva essere facilmente rubato,
lo rimossero di là e lo trasportarono e collocarono nella chiesa maggiore
(San Pantaleone). Ciò fu fatto senza la licenza della S.V. e della
Sede Apostoloica, per la qualcosa presentano questa supplica umilmente
ai Vostri Piedi affinchè la S. Vostra santità favorendo la loro
lodevole decisione e aiutandoli con speciali favori e grazie
conceda e permetta che detti esponenti possano rimuovere il suddetto
corpo dalla chiesa di San Pantaleone e abbiano la facoltà di celebrare a
loro piacimento la solennitù della Messe la festa anniversaria ogni 17 Agosto,
sia nella chiesa Maggiore che nella chiesetta presso la quale morì. Sarà
opportuno comandare a tutti gli ordinari dei luoghi che non li molestino giacchè
gli alcaresi operano regolarmente. Si degni la Santità Vostra di concedere
per grazia speciale tutto ciò detto con un suo Breve. Nonostante
qualunque cosa ci possa essere in contrario.
Questo privilegio è stato concesso giusto la supplica presentata al Papa
ed è stato concesso senza alcun pregiudizio nella città di
Roma nel mese di giugno 1507.
Et per Breve ed sine preiudicio concessum S. Card. Sancti Petri ad Vincula.
 
………………………………………

DOCUMENTO  N. 2

Breve Pontificio del Giugno 1507, con cui Papa Giulio II concede il permesso di trasferire il Corpo del Santo dal Monastero del Rogato  in paese, e di celebrare la solennità di San Nicolò Politi il 17 ed il 18 agosto di ogni anno, come richiesto dalla precedente supplica degli alcaresi.
Il Papa intima anche agli Ordinari locali di non intervenire in merito alle celebrazioni suddette.


Julius Papa II
***
                                     Diletti figli, salute e apostolica benedizione
Ci avete esposto che un tale già defunto, Nicolò Politi detto
popolarmente il Beato Nicolò, visse una vita santa in una grotta vicino
alla vostra città, e voi, o meglio i nostri maggiori ebbero una grande
venerazione per lui. Ricevettero il corpo per collocarlo nella chiesa
maggiore ma per una ragione più importante fu collocato nella chiesa
di Santa Maria del Rogato, la quale è oggi inabitata e per timore  che
non si tenti a rubarlo, desiderate do trasportarlo in città con intenzione
di celebrarne la festa anniversaria della dua beata morte il 17 e il
18 di Agosto, e ciò tanto in città come anche nella chiesa presso la
Grotta detta di San Nicolò lo zito, dove rese l’anima a Dio.
Ci avete pregato che questo vostro desiderio venga appagato
dalla nostra benignità apostolica. Noi ben volentieri abbiamo
accolto i vostri voti e vi permettiamo che possiate trasportare
il corpo del Beato Politi dalla chiesa del Rogato alla chiesa
della  vostra città, e vi concediamo la facoltà di poterne celebrare
la festa del suo anniversario il 17 e il 18 Agosto, tanto in città
come in quella presso il luogo dove visse e rese l’anima Beata
a Dio, a vostro piacimento, senza alcun pregiudizio dell’autorità
apostolica. Anzi con speciale grazia di favoriamo ancora e in virtù
di Santa obbedienza decretiamo che nessuno degli ordinari cui
spetta  abbia a impedirvi di celebrare detta festa, sia direttamente
che indirettamente, per mezzo di altri, molestandovi, in qualsiasi maniera,
tanto meno trasportarvi la festa collocandola in altro tempo,
non ostante disposizioni in contrario.
Dato in Roma presso S. Pietro sotto l’anello pescatorio il
7 Giugno 1507, anno 4 del nostro Pontificio
         Filippo De Senis
Ai diletti figli della Città e terra di Alcara, Diocesi di Messina
(Traduzione dall’originale di Padre Guido Passalacqua).
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DOCUMENTO  N. 3
Inno del teologo Cusmano in onore di S. Nicolò, riportato dal Caetani nella sua opera “Vitae Sanctorum Siculorum”.
Al Caetano l’inno venne consegnato, in traduzione italiana, dagli Alcaresi che lo avevano preso da un codice ritrovato nel semidistrutto Monastero del Rogato.
L’inno è composto da 18 strofe che, in tono laudativo, ripercorrono quasi tutti gli avvenimenti più significativi della vita del Santo Politi.




INNO  IN  ONORE DI SAN NICOLO’ EREMITA  DEL  TEOLOGO  PADRE  COSMANO

-          Col bastone e la benedizione ha allontanato tutti i lupi dall’ovile; inoltre come padre e avvocato dei popoli, ha cura di quelli che piamente lo venerano: e ci libera da qualunque pericolo e malattia;
-          Da bambino fuggiva i peccati come serpenti e cacciava i demoni e li metteva in fuga come un forte lottattore. Era anche un muro validissimo contro i nemici. Intercedi per le anime nostre.
-          In paese passò una vita durissima,  preferì una spiccata umiltà e pietà d’animo; perciò noi abbiamo grande amore per Lui: egli infatti non abbandona i suoi devoti nelle loro necessità.
-          Fin dai teneri anni ha avuto di mira il comportamento degli uomini religiosi e ha corretto per  miglior frutto molti strappati alla rovina.
-          Quando pregava Dio, questa era la sua preghiera: O Padre, o Figlio, o Santo Spirito ascolta la mia preghiera, orche mi trovo in questa solitudine, finchè io tengo in te riposte le mie speranze;  quando lascerò la vita, ti prego accogli la mia anima.
-          Sei venuto da noi come il pastore e come il sole risplendente hai dato la luce ai ciechi e ci hai guidato al vero cammino.
-          Come visse con pietà ed umiltà, così affrontò la morte. Dalò buon uomo Leone fu trovato vestito con l’abito di eremita; come una luce apparve al mondo.
-          È nato uno splendore che mai tramonta per questo paese; tu sei intercessore presso Dio e propizio ai tuoi devoti in terra e mare;  per ciò tilodiamo e di rendiamo grazie.
-          Il beato Nicola, col segno della Croce ha sanato le pecore e ha cacciato i lupi: ha protetto i popoli vicini dalle malattie.
-          Io Cosmano teologo ho conosciuto il suo grande zelo di penitenza con cui finchè visse si è macerato. Per penitenza, a somiglianza di ardente lucerna, avanti a Dio, verso cui sei partito. Ora godi dello splendore della gloria.
-          Hai pregato con zelo Dio affinchè ci elargisse la sua grazia, con la peniotenza hai ottenuto la forza di restituire la luce ai ciechi e l’udito ai sordi e di provvedere a tutti i mali.
-          La grotta che hai abitato era piena di serpenti e di vipere che con la durezza della tua vita ad un tuo comando hai cacciato molto lontano.
-          All’invocazione del tuo nome hai sedato la tempesta del mare, hai datop alle navi una prospera rotta per un porto sicuro.
-          À stato ormai provato che fin dalla fanciullezza si consacrò a Dio, infatti proprio ancora in fasce si asteneva dal latte nei giorni di Mercoledì, Venerdì e Sabato, non senza grande ammirazione e stupore di tutti.
-          Le tue preghiere erano gradite a Dio, infatti uscivano da un cuore sincero.
-          O forte difensore presso Dio contro i demoni, o avvocatop dei Cristiani, liberaci da tutti i mali.
-          Come la sua lingua fu pronta a lodare Dio, così la sua mano fu munifica a dare le elemosine.
-          Siano benedette le mammelle che hai succhiato, sia benedetto il ventre che ti ha portato, infatti sei vergine di mente e di corpo.

COMMENTO  IN HYMNUM  SANCTI NICOLAI  EREMITAE

Ho ricevuto questo inno, o piuttosto un frammento dell’inno, degli appunti scritti in lingua italiana da alcuni alcaresi, ma in essi appunti era annotato che l’inno era stato tradotto  da un codice greco che era stato trovato nella chiesa di S. M. del Rogato, però non so in qual modo questo codice venisse messo alla luce.
Per cui io sospetto che Cosmano scrittore dell’inno fu uno dei monaci di quel monastero, si può
Pensare anche che costui fu colui che sopravvivendo all’eremita B. Nicola, come io sospetto, ne ricevette le confessioni infatti egli confessa di aver conosciuto la vita ascetica del Beato e anche molti miracoli che nessun altro racconta; è opinabile che Cosmano ricevesse queste confessioni dal medesimo santo asceta Nicola. Tuttavia mi è sembrato opportuno divulgare questo inno. Esso contiene grandi lodi del B. Nicola e ricorda molti miracoli da Lui fatti proprio come ci ricorda lo scrittore della vita. Per questo ho ritenuto degno di memoria quanto ho detto sopra e ho anche meglio compreso dopo aver letto l’inno.
                 (Traduzione  a cura di Simone Ronsisvalle).
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DOCUMENTO   N. 4

Vita di San Nicolò attribuita, nella sua stesura originale, dal Caetani ad un Anonimo Monaco contemporaneo del Santo, identificato da lui stesso, secondo la tradizione di cui fu messo al corrente dagli Alcaresi, con il padre Cusmano.
Il Caetani, attingendo a questa fonte di prima mano in quanto testimonianza diretta del confessore di san Nicolò, trasmise le notizie riguardanti la vita del santo arricchendole successivamente con i riferimenti  ai miracoli operati dall’Eremita post-mortem, e con gli accenni agli avvenimenti successivi riguardanti il culto.
Il Caetano raccolse queste informazioni, come rilevl egli stesso nel commento conclusivo, in parte dalle lezioni dell’antico Ufficio del Politi, in parte “da un’altra vita del medesimo Nicola, di autore incerto ma degno di fede”.






VITA  DI SAN NICOLA DA ADRANO EREMITA
Anonimo Monaco Contemporaneo
 
Nel tempo in cui regnava l’illustre Conte Ruggero, che con le armi aveva tolto al dominio dei saraceni la Sicilia, il Beato Nicola in Adernò nacque dalla famiglia dei Politi, genitori non infimi ma l’ebbe tra i primi del suo paese, ai quali non essendo a chi lasciare i beni e le fortune, Gesù Cristo e la sua Santissima Madre Maria, con molte preghiere, digiuni, elemosine, ebbero un unico figlio Nicola.
Il fanciullo progrediva con buon carattere e fu affidato ai maestri da cui fosse istruito nelle lettere.
Ma i genitori ormai temevano la fine della vita e pensavano che il figlio doveva sposarsi, volendo che Nicola fosse unito in matrimonio e quasi costringendolo, ma egli si rifiutava del tutto e non trovando altra via pèer sfuggire alla loro imposizione decise di prendere la fuga di nascosto a tutti, e infatti giorno e notte volgeva nella mente ciò che è scritto nel Vangelo: Se qualcuno vuole venire dentro di me e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i figli, le sorelle e i fratelli, non può essere mio discepolo.
Dunque nella notte che il volere di Dio l’aveva destinato, quando tutti erano andati a dormire e il sonno profondo li aveva afferrati, allora Nicola decise di lasciare la casa, la patria, i genitori e tutte le cose che sperava di avere, stimandoli in niente perl’amore di Dio.
Pensa alla fuga ed ecco che questa voce viene da lui dal cielo: Nicola alzati e seguimi.
Subito agli si alzò e seguì la voce che diceva: vieni con me e ti mostrerl un luogo di penitenza salvitica nel quale, se verrai, potrai salvare la tua anima.
Pertanto guidato verso una zona di media altitudine del monte Etna trovò una grotta coperta di rovi e si nascose in essa.
E quindi con digiuni, preghiere, e specialmente dandosi alla meditazione della Passione di Gesù Cristo, continuamente castigando il corpo con flagellazioni e altri tormenti, stette lì circa tre anni.
Ma poiché quel luogo gli sembrava pochissimo adatto ao suoi progressi ascetici, ed era vicino al paese natio, e i genitori cercavano il figlio, la Provvidenza Divina volendo allontanare di là Nicola, gli spedìun messaggero, con questi ordini:
Nicola non rimanere più qui infatti c’è chi ti cerca e se ti trovano
ti ricondurranno in patria e perderai ciò che hai cominciato.
Ma avviati verso il luogo che ti mostrerà, verso Alcara sotto il monte Calanna,
dove dimorerai finchè finirai la vita.
Apparda l’aurora Nicola, partito dall’etna inizia il suo viaggio verso il luogo che gli aveva rilevato l’angelo, ma quando giunse in mezzo alla selva il diavolo in veste di mercante gli va incontro e così gli parla:
dove ti dirigi o misero ?
E lui risponde:
verso il monte Calanna, verso Alcara dove sono stato mandato,
l’interrompe il nemico degli uomini:
vieni con me, infatti avrai migliore sorte, ti mostrerò le mie città e miei luoghi,
che ti darò se obbedirai alle mie parole: ivi vivrai fornito di migliori piaceri,
molto più lietamente che sul monte Calanna.
Udite queste  cose, il B. Nicola pensando tra sé diceva:
chi è costuti che cerca di allontanrmi dal mio viaggio e mi promette
le sue ricchezze, e il suo pane da mangiare, e le sue vesti e i suoi piaceri di cui
godere in questo secolo; quanta carità mostra verso di me ?
Tosto richiamando  nell’animo la Passione di Cristo e volgendo gli occhi al cielo disse:
Oh Signore Gesù Cristo, per le tue cinque piaghe e per la tua passione
concedi che sfugga ai lacci di questa tentazione;
 
Finita questa preghiera fu liberato da quel tormento e il diavolo scomparve dai suoi occhi.
Dunque compiuto il viaggio iniziato, giunse al luogo che oggi si chiama Acqua Santa, ivi stanco del cammino, afflitto dai tormenti imposti al suo corpo cominciò ad avere sete per la qualcosa sdraiatosi a terra e levati gli occhi al cielo, pregò Dio con questa preghiera:
Signore che un giorno dalla pietra facesti sorgare ricchissime fonti, concedimi,
ti prego, che qui possa  trovare l’acqua con cui ristorare il mio corpo.
Detto ciò udì una voce dal cielo:
Alzato Nicola e il masso che vedi percuoti con il tuo bastone, nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed Egli ti darà quello che chiedi.
Come udì, così fece e subito l’acqua sgorgò dal sasso, dalla quale poi i tormentati da varie malattie e dolori, bevendo diventavano sani. Allorchè Nicola giunse al monte indicatogli passò la vita con grandissima astinenza di cibo, in continua preghiera a Dio, con abbondante versamento di lacrime.
Vi è sulla cima del monte un masso, all’ombra del quale recitava le sue preghiere a Dio. meditava sulle piaghe di Gesù Cristo, nel suo dolcissimo ricordo per lo più sette volte al giorno piangeva amaramente.
Gli davano cibo le radici delle erbe e talora il pane angelico. Fu solito mangiare una volta al giorno finchè visse. Rimase in quel posto per più di trenta giorni, ignoto a tutti tranne che a pochi uomini religiosi, avvicinandosi la fine della vita incontrò due donne cheportavano delle pere al mercato e in nome di Gesù Cristo chiese loro una piccola parte di quei frutti, una di loro si rifiutò, l’altra invece fu generosa.
Egli ringraziato Dio pregò per lei. Queste donne furono testimoni della morte e della vita del B. Nicola, infatti a quella che era stata generosa i frutti abbondarono per molti giorni, ma quelli della donna avara marcirono a tal punto di non essere più adatti all’uso.
Negli ultimi giorni del mese di Agosto un contadino di nome Leone, uomo di grande bontà, mentre si recava a cercare i buoi che pascolavano nella solitudine della selva, giune la dove il B. Nicola
aveva esalato l’anima e compiuto la sua vita, lo trovò con le ginocchia piegate e le mani appoggiate al bastone e con lo sgaurdo rivolto al cielo.
L’uomo a queste vista si spaventò e si mise a gridare:
ma chi sei ?
poiché nessuna risposta gli era data si accostò al cadavere e lo toccò con la destra e subito il braccio gli si seccò. Avvertito da questo prodigio, pensava tra sé che quello fosse certo un santo uomo. Dunque in fretta corse ad Alcara,narrò all’arciprete ed ai magistrati le cose vedute con stupore di tutti. Specialmente in quell’occasione le campane di bronzo delle chiese non spinte da alcuna forza umana avevano suonato.
Perciò il clero, i magistrati e il popolo guidati dal contadino a piedi nudi andarono in processione verso il posto dove si trovava Nicola e appena giunsero là, mentre Leone voleva mostrare il corpo estinto, distese il braccio rattrappito e lo sentì sano.
In primo tempo di pensò di onorare il B. Nicola col dedicare a suo nome una chiesa nel luogo dove era stato trovato il corpo. Mentre già si portava il corpo in Alcara, lungo il tragitto bisognava passare per la la chiesa di sant’Ippolito ma, mentre passavano oltre sentirono il corpo molto pesante da non potersi muovere più oltre, allora tennero tra il loro consiglio e decisero che il santo volesse al più presto essere condotto alla predetta chiesa di sant’Ippolito.
Avendo essi fatto chiamare molti dal paese e avendo tentato se per caso potessero avanzare verso di esso, fecero invano tale tentativo.
Lo stupore fra il popolo fu molto grande e ci fu gran disparità di pareri tra i capi; questa disparità di pareri fu risolta in modo grandioso da un fanciullo che era presente e stava tra le braccia della mamma. Egli si mise a gridare:
Portate il corpo alla chiesa di S. M. del Rogato,
dove spontaneamente Nicola si farà portare.
Presso questa chiesa vi era un monastero, tenuto dai seguaci della regola di S. Basilio, uomini molto religiosi e pii.
Uno di costoro, come c’è testimonianza, Nicola lo aveva scelto durante la sua vita come confessore: costui aveva annotato per iscritto alcune notizie della sua vita. A questo grido del fanciullino, preso come un miracolo, il corpo venne sollevato e subito senza impedimento si fece portare la, dove per 336 anni, del tutto privo di corruttela quasi vivente ed integro rimase, né fu oggetto di venerazione senza miracoli.
Ma poiché nell’anno della nostra salvezza 1503, il 10 maggio, tutto quel territorio vicino a S. M. del Rogato era travagliato da grandissima penuria di piogge, il popolo supplicando e invocando per nome i santi, si diresse con grande zelo verso quella chiesa. Subito, appena fu portato fuori il corpo del B. Nicola, come già da tempo con buoni risultati si usava fare, lo posero in cima all’altare, e scese giù una grande pioggia per mirabile beneficio di Dio e di S. Nicola.
Nel qual tempo, poiché moltissimi dopo pie preghiere con reverenza e selo si diedero a baciare le sacre reliquie, avvenne che una donna malfamata osò fare la stessa cosa; ma al suo accostarsi quel santo corpo si tirò indietro e non si lascil toccare, con grande stupore di tutti.
Fatto quindi il sacrificio della S. messa poiché riportavano girando le reliquie nella chiesa di S. M. del Rogato, sulla soglia della chiesa, poiché non c’è la facevano più a stare sotto quel corpo che
era divenuto di non normale pesantezza, i portatori furono costretti a fare una sosta e ad invocare la misericordia e la pietà da Dio immortale.
Essi ricevettero come lieto evento questo miracolo: in mezzo a quel popoloconfuso vi era un certo Giovanni Spitaleri che da gran tempo era tormentato dall’ernia tanto sporgente da non poter essere sostenuta dalla fascia, ad un tratto si sentì libero da quel male e quindi si mise a gridare “Misericordia” e a divulgare la sua guarigione tra il popolo accorso per vederlo. Frattanto un altro malato di ernia tra la folla era arrivato gridando”Sono guarito”. Ecco un terso che soffriva dello stesso male dice “Anch’io sono guarito”.
Perciò tra il grande stupore e commozione del popolo, parve molto a proposito a un frate dell’ordine di S. Francesco, uomo religioso e buono, fare una predica da un posto elevato.
Di tale predica la conseguenza fu che i cittadini di Alcara con fede solenne decisero di spendere tutto quanto si doveva, fino a che il Sommo Pontefice concedesse il permesso di venerare il Sant’Uomo. Scelti per lo scopo due uomini saggi il prete Antonio Rundo e un certo Giovanni Cuttone, costoro a spece pubbliche si recarono a Roma e cominciarono a trattare l’affare con richieste in forma di supplica, ma portata la cosa per le lunghe di giorno in giorno non arrivava il termine, consumarono il denaro, pensarono di ritornarsene, e si fermarono per caso alla locande e in quel luogo essendo tristi e pensierosi furono avvicinati da un povero con abito mal ridotto.
Egli cominciò ad interrogarli per sapere chi fossero e per qual fine fossero venuti a Roma, quale fosse il motivo di tanta tristezza.
Essi gli risposero benevolmente e lui li consolò dicendo:
non state tristi o fratelli, anzi andate sicuri: sulle rive del Tevere il vostro affare è
stato portato atermine e troverete il diploma di concessione presso il tale
di cui indicava il nome.
Dopo queste parole il povero uscì dalla locanda e non si vide più.
Quelli tornarono a Roma e trovarono vere quelle cose che il pellegrino aveva detto.
Infatti fu consegnato il Diploma Papale sulla facoltà di  venerare le Reliquie del B. Nicola il giorno 7 giugno 1507 dal parto della Vergine essendo Pontefice MX, Giulio II.
Frattanto la fama del B. Nicola, per il gran numero di miracoli, si diffondeva assai in quelle zone e Gemburdo, Iovanni Sciarrae, Florino moltissimi accorrevano a Lui per invocare aiuti dalla sua Santità.
Ne invocarono dopo essere guariti, sani tornavano alle loro case, avendo reso molte grazie al Santo. Questo fatto fece desiderare fortemente agli adornesi, concittadini del B. Nicola, di volere essi in casa propria e presso di sé tanto ricco tesoro piuttosto che l’avessero altri.
Ma spesso avendo cercato di portar via il feretro, li fece scoprire la campanella della chiesa di S. M. del Rogato che raddoppiava da sola il suo suono. Destati da tale segnale gli alcaresi in fitta schiera accorrevano per difendere quello che era il loro diritto. Poiché il posto che era lontano dal
Paese e fra le selve sembrava dare occasioni per quelle incursioni. Allora fu deliberato dagli alcaresi di  trasferire le reliquie del santo entro l’abitato e porle in luogo sicuro. Si diede tale incarico ad otto tra i principali cittadini del paese cioà:
il prete Pietro Rosato;
Giovanni Giamburdo;
Giovanni Sciarra
Marino Fiorito
Un altro Giovanni Sciarra
e tra altri di cui non si ricordano i nomi.
Costoro in una notte tempestata e buia presero con rispetto il corpo del B. Nicola, accompagnati da una luce divina, e lo deposro in paese nella chiesa di San pantaleone, senzacchè nessuno avesse sentore di ciò che avveniva.
Vi era un tale di Bronte che posseduto dal demonio da 14 anni e già da otto il suo corpo era quasi morto e privo di animo; costui riferiva che essendo stato portato presso il B. Nicola fu liberato dallo spirito cattivo e il demonio fu messo in fuga. Questi ed altri miracoli operò il B. Nicola e ancor oggi opera. Tutti sanno e tutti devono rendere grazie a Dio.  Tra l’altro non si deve passare sotto silenzio il seguente miracolo: una donna era andata con altre sue amiche in una sua villa di campagna ed aveva lasciato a riposare sul letto il piccolo figliodi nome Matteo; ma al ritorno lo aveva ritrovato morto, costernata dall’angoscia e dal lutto la povera madre implora l’aiuto del Beato Nicola: chiede al santo la vita del figlio già morto. Chiese ed ottenne infatti il figlio in seguito alla preghiera materna come se si svegliasse dal sonno cominciò a parlare e a rendere grazie a Dio e a Nicola fino alla tarda vecchiaia.
La Baronessa di Militello Valdemone, infiammata di zelo per questo Santo Uomo, in seguito alla fama di tanti miracoli si recò da Lui per venerarne le reliquie poiché ancora il suo corpo si conservava nel predetto monastero.
Lei con grande seguito, portando con se anche il figlio fanciullo, desiderava portare a casa una particella di tanto tesoro  e prese un pezzettino di osso dal braccio e se ne tornava a casa con cielo limpidissimo, ma ecco il tempo si oscurò e una fittissima pioggia di grandine cominciò a colpire tutti.
Il bambinetto venne accecato da un colpo di grandine allora quelli del seguito della baronessa pensarono di placare il santo con la restituzione del pezzetto di osso.
Lei accettò di restituire questa Reliquia del braccio e chiese in cambio il risanamento dell’occhio del bambino: l’esito fu felice e miracoloso. Oggi quel colle presso cui avvenne il predetto miracolo viene chiamato  “Orbetto” per la cecità del fanciullo.
Queste cose sono state scritte a gloria di Dio Onnipotente, della B. Vergine Maria e del B. Nicola.
(Traduzione a cura di Simone Ronsisvalle).

Commento “In Vitam Sancti Nicolai Eremitae”
In quel tempo scrisse la vita del B. Nicolò il monaco anonimo che era stato uno dei suoi confessori del monastero di S. M. del Rogato dell’Ordine di S. Basilio.
In seguito a quella vita si aggiunsero moltissimi miracoli che poi ci toccò usare quando compilammo questa storia dei fatti del B. Nicola, dalle lezioni che si solevano recitare nel suo antico ufficio.
Noi pensiamo che la vita fu scritta dal suo confessore e anche, inoltre, da un’altra vita del medesimo B. Nicola composta da autore incerto ma degno di fede, eppure quest’ultimo racconta che il B. Nicola nacque al tempo del Conte Ruggero, tuttavia non capisco bene se il Conte Ruggero  fratello di Roberto il Guiscardo, o meglio Ruggero figlio di lui che dopo l’anno 1130 fu fatto Re (Ruggero II).
Poiché infatti il conte Ruggero morì nell’anno 1101, il nostro Nicola doveva essere molto avanti nell’età nel 1167, non ci sembra che l’inizio della sua vita tochi il tempo del conte Ruggero, ma dell’altro Ruggero che fu conte finchè fu innalzato alla dignità di re.

Il B. Nicola in Adernò

È un paese sul monte Etna, il nome antico di questo paese fu Adrano secondo la testimonianza di Diodoro, di Plutarco, di Stefano. Non correttamente hanno scritto Hadranum Plinio e Silio a meno che non si tratti di un errore degli editori. Sulla fondazione di Adrano Diodoro dice queste cose:

Dionisio, sulle falde dell’Etna in Sicilia costruì un paese che si chiamò Adrano

da un tempio famoso.

 

Verso Alcara
Che secondo Fazello si chiama Arcara: Paese fondato da poco vicino la città di Calapta nel lato settentrionale della Sicilia.
 
Il Monte Calanna
Durante la vita del Santo si chiamava così ma nelle antiche lezioni dell’ufficio si chiamava  Calapnis come si vede anche in un suo inno
Apparve una nuova stella finchè quel santo pervenne al luogo,
come si dice, che si chiama Calapni”.
Ma in un’antifona greca di S. Nicola lo stesso luogo è detto Calania.
 
Dove è detto che per 336 anni il suo corpo durò incorrotto.
Questo numero risulta storpiato in un altro esemplare nel quale è stato scritto che il corpo di S. Nicola per 507 anni rimase nel monastero del Rogato (il che vuol dire secondo questo ultimo autore che i 507 anni si contano dal momento in cui il corpo fu depositato a S.M. del Rogato al momento in cui il corpo fu trasferito alla chiesa maggiore di Alcara), ma la mente di un altro scrittore addirittura fece uno strano volo infatti scrisse che l’anno in cui agli alcaresi fu concesso di venerare le reliquie di S. Nicola (è ancora un altro) pertanto se i 336 anni comincia a contarli dall’anno 1503 nel quale anno il corpo del B. Nicola fu esposto sull’altare per ottenere la pioggia, troverai che egli morì nell’anno 1167 sotto il regno di Guglielmo il Buono.
 
…………………….

DOCUMENTO  N. 5
Orazione in greco rivolta a San Nicolò, riportata nella parte finale del manoscritto consegnato dagli Alcaresi al Caetani.
Un documento importante, che sarebbe importante recuperare considerando che disponiamo, grazie alle ricerche del Sac.  Petronio Russo, delle indicazioni esatte sul luogo in cui presumibilmente trovarlo.
Il sacerdote adranita, nel 1873, cercando i documenti del Caetani in casa di questi, a Palermo, finì per trovarli nell’armadio A12 della Libreria del Collegio Massimo dei Gesuiti di Palermo, detto, ai suoi tempi, Collegio Nazionale.
All’inizio del manoscritto, Petronio Russo, riscontrò il seguente promemoria:
La vita del Beato Nicolò, mandata dalla terra di Alcara e da
restituire al padre Nicola Faranda.
Dopo una  lunga intestazione che contiene notizie indicazioni più dettagliate su san Nicolò e su Alcara, segue quella narrazione della vita che si è riscontrato nel Documento N. 4.
Vi è un periodo, nota il Petronio, che il Caetani trascurò di riportare, in cui si accenna come 
fonte per la vita del Santo Politi, ad una “cedola” in lingua graeca scripta quae iuxta  ipsius inventa 
( una nota scritta in lingua greca che fu ritrovata accanto al suo corpo”)
Essa è la seguente





Gesù Cristo vince
O Nicola, cittadino adranita, che in Catania fosti gradito a Dio,
e abitando al Calanna inuna plaga montuosa, mirabilmente,
compisti la tua vita ascetica, operando molti miracoli:
anche ora onorato nella città dei Politi;
nel Monastero della Santissima Madre di Dio, prega per le anime nostre.
 
Questa preghiera è importantissima perché potrebbe essere un frammento dell’antico ufficio greco di san Nicolò, che il caetani utilizzò per attingere delle notizie inerenti alla vita ed ai miracoli dei Politi.
Un ufficiatura, che ritrovata, sarebbe la fonte più autorevole sulla vita del Santo Eremita.  Sarebbe il documento più antico ed autorevole sulla vita di San Nicolò ed anche sul suo culto, visto che l’inno del Cusmano si possiede  in traduzione italiano – latino.
Sempre il Caetani, nelle “Animadversiones in Vitam Sancti Nicolai  Eremitae” (documento n. 4),  nel punto in cui descrisse la giusta accezzione della parola “Calanna”, nel ribadire di aver letto nell’Ufficiatura Greca del Santo, accenna ad un’antifona greca che potrebbe essere quella su affermata.
I documenti sul Santo sono numerosi ed antichi e dovrebbe essere  un motivo d’orgoglio siciliano cercare di recuperarli per arricchire la storia su un culto di un Santo Patrono Siculo.

18. la “Koimesis” nell’Arte

La parola “ koimesis” deriverebbe dal greco κοιμησις (koimèsis)….il giacere, sonno (Septuaginta, nel Nuovo Testamento) ma anche dormizione, trapasso, morte in molti autori ecclesiastici.
Molti artisti tra i secoli X – XV rappresentarono il trapasso della Madre di Dio che fu definito, 
nel mondo ortodosso, con il termine di  “Koimesis”.
Nel mondo occidentale venne invece definito con il termine “Dormitio”. In entrambi i casi si 
tratterebbe di una specie di sonno, uno stato di passaggio dalla vita terrena a quella soprannaturale.
Un racconto tanto radicato nella tradizione popolare che papa  Pio XII fu costretto a 
proclamare il dogma secondo cui la Vergine fu
Assunta nella gloria celeste in anima e corpo 
L’aspetto finale della vita delle Vergine non fu riportato nei testi ufficiali del Nuovo Testamento in cui dopo la “Pentecoste” sparisce dalla narrazione.
È possibile riscontrare il racconto della morte della Vergine nei testi apocrifi che furono scritti   in epoche successive ai fatti accaduti (nel V secolo circa).
La figura di Maria risalta in modo particolare nella forte credenza popolare visto che la maggior parte dei credenti vedevano e vedono nella Vergine una reale figura materna.
La sua assenza nei testi fu colmata dalla stesura del “Transitus Virginis” attribuito a Leucio un discepolo di San Giovanni.
In questo scritto si rilevarono gli ultimi attimi di vita della Madonna
Nostro Signore Gesù Cristo decise di avere per sempre accanto a sé sua madre 4
E la Vergine, pur felice di ricongiungersi con il figlio
espresse  il
“desiderio di rivedere gli apostoli”.
I quali, quasi volando  raggiunsero la Vergine e aspettarono con Lei
fino al momento in cui Dio la richiamò a sé con anima e corpo.
La riflessione teologica sulla morte della Vergine sarebbe da collocare tra il IV – V secolo e per avere una rappresentazione artistica dell’argomento si deve aspettare il X secolo soprattutto per la sfera culturale bizantina per poi diventare un importante soggetto di numerose e pregevoli rappresentazioni artistiche.
Un argomento iconografico che fu successivamente copiato e adattato dagli artisti del mondo occidentale.
L’interesse per l’arte bizantina del X secolo non fu solo una moda e numerose furono le opere che presentarono un equilibrio artistico tra lo stile bizantino – orientale e quello occidentale.
La “Koimesis”  fu fissata nella sua immobilità, grazie ad una composizione di figure e simboli che si affermarono nel corso dei secoli.  Un momento  divino ed umano interprete di numerose icone, tipiche raffigurazioni sacre utili  per trasportare la figura rappresentata nel disegno all’idea che essa  celava.
In tutte le raffigurazioni della Vergine la figura della Madonna è posta orizzontalmente nella seconda metà inferiore dell’icona in modo da evidenziare la sua componente umana e in collegamento con gli Apostoli, posti ai lati del letto in cui la Vergine è sdraiata.
La figura del Cristo è invece collocata al centro della composizione e rispetto alla figura materna crea una linea immaginaria verticale che collega l’umanità di Maria a quella divina nel Regno dei Cieli. Ci sono degli elementi che unirono le produzioni nonostante la naturale diversità stilistica degli artisti e del periodo in cui furono eseguite.
Maria è coricata su di un letto posto al centro della composizione. Ha gli occhi chiusi e il viso rilassato nel sonno di una morte che non potrà nulla sulle sue spoglie mortali. Il figlio Gesù Cristo è infatti accanto alla Madre e tiene in braccio un piccolo bambino/a stretto da fasce di tessuto bianco, rappresentazione simbolica dell’anima pura e senza peccato della stessa Vergine.
Gli Apostoli sono raccolti attorno a lei. Di particolare interesse sono due figure (probabilmente San Pietro e San Paolo) chinati sul letto della Madonna, in atto di cordoglio. Al di sopra della figura di Cristo vi sono degli Angeli che, oltre ad aver raccolto nel luogo del lutto i discepoli del Signore, porteranno poi anche l’anima e il corpo della Madre di Dio nell’alto dei Cieli.
Questa iconografia fu presa come modello, spesso riattata, a partire dai “lezionari bizantini del X secolo” e fu assunta nell’espressione artistica occidentale diventando il soggetto di 
numerosi mosaici e avori.
Di grande valore è una “Koemesis” incisa su tavola d’avorio risalente al tardo secolo X.

Icona del X secolo

La rappresentazione sarebbe forse la copertina di un libro sacro. Un ipotesi legata sia alla presenza 
di fori posti ai lati della raffigurazione, sia alla dimensione.
Le vesti ed i drappeggi del letto, nonostante la staticità dell’immagine, sono molto accurati. San Pietro si trova alle spalle della Madonna mentre San Paolo, posto ai piedi di Maria, è cristallizzato in una dimostrazione composta di dolore.
Gli altri discepoli sono posti ai lati del letto ed evidenziano il loro cordoglio. Le figure poste tra i discepoli, la prima in alto a destra e la seconda in alto a sinistra, si coprono il volto con una mano  per sottolineare l’imbarazzo della fragilità umana in contrasto con la serenità divina.
Cristo al centro della figura guarda la Madre mentre affida la piccola anima di Maria agli Angeli che fanno parte della veglia funebre.
Il tutto è inquadrato da una struttura elaborata  come a sottolineare la memoria dei fedeli.
La seconda immagine è anch’essa un opera in avorio e risalirebbe all’XI secolo.


Dormitio Virginis – XI secolo – Museo Hermitage

Questa raffigurazione, rispetto alla precedente, presenta una mancanza di prospettiva che rende le 
figure molto statiche. Lo sgabello a fianco del letto di Maria è rappresentato come se l’osservatore
 lo vedesse dall’alto. Gli abbigliamenti, i drappeggi e le ali degli Angeli non sono particolareggiati. L’intenzione dell’artista non era quello di ricercare una perfezione stilistica nella raffigurazione quanto piuttosto di mettere in risalto il significato molto profondo dell’immagine.
.La Vergine è assopita mentre l’apostolo Pietro è rappresentato vicino al volto di Maria come se stesse ascoltando le sue ultime e profonde parole. Gli altri discepoli sono invece ai lati della Madonna.
Un personaggio in primo piano a sinistra rispetto agli altri, scuote un turibolo mentre San Paolo è raffigurato nell’atto di abbracciare (o meglio di aggrapparsi ai piedi della Vergine) come a non volersi staccare da Lei. Un grande dolore per Paolo immerso nel piacevole ricordo della Madonna.
Anche in questo caso il Cristo è sempre al centro della scena ed anche in questa raffigurazione tiene in braccio l’anima della Madre.
A differenza dell’opera precedente anche l’Angelo posto a destra della raffigurazione tiene Maria tra le braccia mentre la porta in cielo.
Non si tratta di un errore stilistico ma la volontà dell’autore sconosciuto fu probabilmente quello di rappresentare due momenti successivi per suggerire all’osservatore quale sarebbe stato il destino di Maria. La terza raffigurazione, sempre in avorio, si trovava su un lato del cofanetto di Farfa.
In questo cofanetto fu rappresentata la “Koimesis”, espressione tecnica di una
“bottega… nella seconda metà dell’XI secolo”  

Cofanetto- Farfa;  Dormitio Virginis

 La storia del cofanetto è affascinante.
Fu commissionato da un ricco mercante di nome Mauro
Discendente della stirpe amalfitana del Contes  Maurones
La rappresentazione presenta numerosi contatti stilistici con le raffigurazioni Orientali e quindi con l’arte bizantina.
La composizione è più semplificata rispetto alle precedenti ma il suo importante significato non cambia. Le figure sono appena abbozzate nell’avorio come se fossero solo tracciate.
Gli Apostoli che circondano la Vergine sono rigidi nelle loro posizioni e il loro dolore sembra essere rinchiuso all’interno della pietra. La figura sulla sinistra, come nell’immagine precedente, ha un turibolo in mano, ma stilisticamente è molto diversa. Infatti, sebbene nell’opera già citata manchi una vera prospettiva, il modo in cui l’uomo viene rappresentato è molto fedele alla realtà, mentre quello che si può osservare sul cofanetto di Farfa trascende quasi la sfera fisica per assumere un significato maggiormente simbolico: è un uomo che piange al cospetto della morte contro cui nulla può.
Nello schema compositivo, la figura di Gesù Cristo ha subito una modifica nel modo con cui viene solitamente rappresentato. Egli, infatti, pur rimanendo in posizione centrale rispetto all’insieme di figure, è raffigurato mentre affida l’anima della Madre ad un Angelo.
Un’altra opera importante è il rilievo in stucco raffigurante la dormizione della Vergine presso la cripta della basilica di San Pietro al Monte, in provincia di Lecco.

Dormizione a Civate

L’opera, risalente probabilmente dell’ XI secolo circa, mostra due figure poste nella parte sinistra della composizione. Le due figure sono rovinate e questo rende molto difficile la loro identificazione.
La composizione, probabilmente a causa del poco spazio, appare molto condensata, creando quasi un collegamento continuo tra tutte le figure.
Evidente è la mancanza di profondità nella rappresentazione del letto della Vergine la quale, a differenza delle raffigurazioni precedenti, è avvolta in quello che pare essere un sudario. Cristo, diversamente dalle immagini finora analizzate, è raffigurato ai piedi del giaciglio della Madre mentre sorregge un testo sacro con il braccio sinistro e la benedice con la mano destra. Questo cambio di posizione suggerisce uno spostamento del punto focale dell’opera che cade, in questo caso, sul corpo di Maria e rende l’insieme degli altri personaggi una sorta di cornice.
Gli Apostoli che circondano la Madonna sono rigidi nella loro espressività, dando all’osservatore la sensazione di trovarsi davanti all’immobilità dello scorrere del tempo. Le vesti dei personaggi sono elaborate, ma al contempo non trasmettono un senso di movimento.
Interessante da notare è anche la città rappresentata in alto a sinistra, elemento che nelle altre rappresentazioni era assente. Secondo il racconto tramandato dai testi apocrifi, nelle icone della «Koimesis» apparivano due luoghi che videro la presenza della Vergine durante i suoi ultimi momenti di vita terrena. Uno è Sion, nome poetico che si riferisce alla città di Gerusalemme e l’altro è il Getsemani, un uliveto fuori dalla Città Santa. In questa rappresentazione è possibile identificare Sion per degli edifici che caratterizzavano la città.
Le opere che hanno come soggetto la morte della Vergine, però, non si sono limitate ad avori o bassorilievi, ma sono state ampiamente trattate anche in pittura e nei mosaici.

Un prezioso esempio per il primo aspetto artistico è sicuramente la «Dormitio Virginis» presente nel castello di Acaya, in provincia di Lecce.


Acaya (Lecce) - Dormitio Virginis Mariae - sec XII-XIII

L’affresco si trova in una piccola chiesa bizantina rinvenuta nel lato nord dell’antico maniero. Questa opera è forse la più antica rappresentazione della «Koimesis» che si può osservare ora in Italia ed è databile nella seconda metà del Trecento.
Da un punto di vista compositivo, è possibile dividere il dipinto in due parti: nella sezione inferiore Maria è posta al centro della scena, attorniata dagli Apostoli. La Vergine, al contrario delle opere precedentemente analizzate, non giace su di un letto bensì su una barella portata a spalla da due discepoli di Cristo, probabilmente San Pietro (a destra) e San Paolo (a sinistra). In questo affresco è difficile riconoscere le particolarità dei volti in quanto il tempo ha deteriorato il colore e i tratti. Nonostante questo, se si osserva attentamente la Vergine, è possibile notarne la calma e la compostezza dal modo con cui tiene piegate le braccia in tacita preghiera. Gli altri Apostoli sono disposti attorno alla processione funebre, ma i loro gesti sono rappresentati in maniera statica. Nell’affresco, infatti, vi è un’assenza di prospettiva tanto che Maria è posta sulla lettiga come se l’osservatore la stesse guardando dall’alto. Sotto di essa vi è un ulteriore quadro, come a voler fare coesistere insieme più momenti legati alla morte della Vergine. Nel testo apocrifo di Giovanni, è possibile trovare il racconto secondo cui, durante la sepoltura della Madonna, il sacerdote giudeo Iefonia cercò di profanare il feretro, facendolo cadere a terra, ma un Angelo (molto probabilmente Michele) con una spada di fuoco gli mozzò le mani.
Cristo, a differenza delle precedenti rappresentazioni, non è più accanto al letto della madre, ma è raffigurato dentro la mandorla («vescica piscis») tenuta sollevata da due Angeli, mentre sorregge tra le braccia l’anima di Maria, mostrandola agli osservatori come monito di fede e speranza.

La forma artistica più usata per rappresentare queste scene sacre è sicuramente il mosaico, genere artistico di «monopolio bizantino», tanto a livello di materiale quanto di specialisti.
Un esempio significativo a tal proposito è sicuramente la dormizione della Vergine raffigurata nella volta del braccio occidentale della croce greca della chiesa S. Maria dell’Ammiragliato – detta della Martorana - a Palermo
.

Mosaici bizantini con la rappresentazione della natività e la morte della Vergine.

Particolare della Koimesis – Chiesa della Martorana -Palermo

Nell’opera si nota innanzitutto lo sfondo oro. Tale espediente artistico è tipico delle rappresentazioni 
sacre di ambito bizantino e serviva a sottrarre la scena dal flusso del tempo per affidarla ad una dimensione eterna e atemporale. Inoltre questo colore è simbolo della divinità e per questo motivo non era presente nelle vesti degli Apostoli e delle donne in quanto «semplici» esseri umani.
Maria è distesa sul letto con le mani allacciate al petto e un’espressione serena, quasi sorridente. In questo mosaico si vede una costruzione della scena con particolari attenzioni rivolte ai tessuti delle vesti e del letto su cui giace la Madonna e si notano anche dettagli che nelle altre opere non si erano visti. Ad esempio, sulla veste di Maria ci sono le tre stelle che, oltre a testimoniare il dogma della verginità, sottolineano anche l’attenzione e la perizia con cui l’artista ha lavorato.
Attorno a lei sono rappresentati gli Apostoli. Come nelle opere precedenti, San Pietro è chinato sulla Vergine in attesa quasi di carpire le sue ultime volontà prima che lei salga nell’alto dei cieli, mentre San Paolo è raffigurato ai piedi della Madonna nell’atto ultimo di abbracciarle le gambe. E’ toccante osservare come l’artista sia riuscito a immortalare la tristezza dell’ultimo addio sul viso dell’Apostolo che, totalmente abbandonato in questa stretta, sembra essere un uomo qualunque schiacciato da un incolmabile dolore. In questo mosaico sono stati raffigurati anche altri personaggi quali i quattro vescovi ricordati nell’opera «De Divinis Nominibus» dello Pseudo Dionigi Areopagita e alcune donne che hanno vissuto con Maria gli ultimi tempi della sua vita.
Gesù Cristo, a differenza del rilievo in stucco presso la basilica di San Pietro al Monte, è rappresentato in posizione centrale, accanto alla madre. Egli le rivolge uno sguardo amorevole mentre porge l’anima all’Angelo Michele che la trasporterà in paradiso. La veste di Cristo è blu e oro, mentre di solito è blu e rossa. A livello simbolico, questi colori significano rispettivamente il passaggio della creatura verso il divino, scevra della sua carnalità (blu) e l’amore per il divino (rosso). Per l’assenza di prospettiva, gli edifici posti dietro Maria, Cristo e gli Apostoli si presentano quasi senza spessore e con una percezione di grandezza sfalsata. Le donne in alto a destra, infatti, appaiono grandi quasi quanto la torre presente sulla sinistra del mosaico.

19. Alcara Li Fusi  (Cenni di Storia)

Le origini di Alcara Li Fusi sono antichissime e come ogni centro, la sua storia è arricchita da 
leggende, miti che poggiano spesso le fondamenta su fati storici.
Nell’età del bronzo lungo a costa della Sicilia, secondo la tesi di alcuni storici fra cui Domenico Ryolo, erano presenti delle comunità di Sicani organizzate a piccoli gruppi capannicoli.
(Milazzo, Tindari San Biagio, Scodonì a Terranova, Monte Scurzi a Militello Rosmarino, San Teodoro ad Acquedolci e ai piedi del Monte della Madonna a Capo D’Orlando).
Tra il 1200 ed il 1000 a.C. (tra il finire dell’Età del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro) ci fu l’invasione della tradizione diodorea. Gli indigeni che abitavano quei luoghi non accettarono il regime di sottomissione nei confronti del popolo invasore e si ritirarono nell’entroterra nei siti ontani ove era più facile difendersi.
Un nuovo aspetto culturale arricchì l’esperienza di vita degli indigeni. Capirono che era fondamentale per difendersi, fare delle comunità estese e  nacquero i centri urbani costituiti da etnie e residenti.
È probabile che Alcara Li Fusi abbia avuto questa origine e legata, secondo il racconto mitologico, allo stesso fondatore della vicina città di San Marco D’Alunzio evocandone nella denominazione la patria.
Alcara Li Fusi e San Marco D’Alunzio sarebbero legate a quindi alla figura di “Patron”, nativo di “Thurios”, del quale si conoscono solo delle scarse notizie legate ai racconti di Dionigi d’Alicarnasso, e riprese da Virgilio nell’Eneide.
La flotta di Enea, fuggiasco dopo la distruzione di Troia, si trovava a navigare tra le isole di Eolo (Eolie) ed il sacro monte di ‘Aλοντιον”  sui Nebrodi.  Tra i compagni di viaggio di Enea c’era “Patron” che rimase affascinato dalla bellezza dei luoghi lussureggianti. Patron decise quindi di fermarsi nel sito insieme a qualche altro compagno di viaggio.
Questo sarebbe il racconto mitologico e nell’Eneide di Virgilio gli avvenimenti furono descritti nel seguente modo:
“ A Butroto, Enea si separò dal padre Anchise,
per avventurarsi all’interno del territorio sino a Dodòna, ve
si prometteva d’interrogare l’oracolo. Tornato indietro e riunitosi
con il padre, partì con una flotta alla volta d Onchesmo.
In questa località, i Troiani arruolarono il nocchiero-pilota Patron,
la cui perizia di navigatore consentì loro di attraversare indenni e celermente
il canale di Otranto.
(Butroto, sarebbe l’odierna Butrinto;
Dodòna è una città dell’Epiro famosa per l’oracolo di Giove che rispondeva
alle domande per mezzo delle vibrazioni delle foglie).
Virgilio, rispetto a Dionigi di Alicarnasso, aggiunse una notizia di grande importanza.
Patron era di nazionalità acarnana ( dell’Acarnania - ‘Akαρνανια – regione storica della Grecia che con l’Etolia costituiva un νομοs molto importante).  Questa notizia escluderebbe quindi Patron come compagno di viaggio di Enea scampato all’incendio e distruzione di Troia.
 
La tradizione ad Alcara cita la fondazione del entro da parte di Patron. In merito, grazie al supporto delle fonti letterarie, la prima denominazione del centro fu proprio di Castel Turiano. Un segnale che fa capire come la comunità alcarese abbia voluto dare omaggio al suo fondatore Patron. Nel centro sono presenti i ruderi, molto suggestivi, di cuna fortificazione che fu chiamata castello Turiano.
Il Surdi riferì di aver visto un’iscrizione in lingua greca, su un materiale lapideo scolpito secondo la foggia di una pergamena arrotolata, che riportava:
“ερνμα προ του ταυριαυου επειτα ακαρετ, νυν αλκαρια,
una volta Castel Turiano, poi Akaret, ora Alcara”.
 
La guerra tra Achei e Troiani fu collocata (con naturale approssimazione) intorno al 1250 a.C. o, secondo altre fonti, tra il 1194 -1184 a.C.
Con questi riferimenti cronologici si potrebbe quindi affermare che Enea, insieme al nocchiero ingaggiato  Patron, si trovasse a transitare con le sue navi nel tratto di mare antistante la catena montuosa dei Nebrodi e le isole Eolie (del mitico Eolo).
C’è da aggiungere che il nucleo antico di San Marco d’Alunzio (città fondata da Patron) risalirebbe ad un periodo compreso tra i secoli XII . XI a.C.
Il periodo di fondazione della stessa Alcara (come già citato, “Castel Turiano”) e di San Marco d’Alunzio quindi coinciderebbero.
Un ipotesi valida ?
Il toponimo di “Castel Turiano” fu mutato nell’anno 903, quando la nuova dominazione Araba, riuscì ad espugnar il luogo con l’occupazione delle città di Demenna (sulle Rocche del Castro dove era presente una fortificazione mentre la citta dove trovarsi poco a Nord dell’odierna Alcara ?) e di Turiano.
Il novo nome arabo dato al luogo fu quello di “Alcara” la cui semantica sembrerebbe fare riferimento e derivare sia dalla lingua greca che da quella araba.
In arabo sarebbe “al – Qarah” cioè “vicolo, quartiere fortificato”.
In greco sarebbe “αλκαρ” – “difesa, presidio, riparo”  o “αλκη‘ – “valore, forza difensiva”.
In entrambe le lingue sarebbe esaltata la presenza del castello e quindi la presenza di un insediamento fortificato.
Nel 1082 in epoca Normanna, il centro era chiamato “Alacres, Castellum Alcariae, Alkares”.
Nel 1812 “Alcara De Fusi” e successivamente “Delli Fusi” e infine “Li Fusi”.
I termine “Fusi” faceva riferimento alla fiorente attività artigianale legato all’uso del fuso, utensile conosciuto da tempi antichissimi in tutto il bacino del Mediterraneo, usato, in complementarità con la rocca,  per la filiatura della lana greggia, del cotone e della canapa.
Una fiorente attività artigianale che ancora oggi vede impegnata delle maestranze locali, soprattutto femminili, che danno origine a pregiati manufatti tessili ricercati in goni parte dell’isola ed anche all’estero.
Alcara Li Fusi è anche famosa per la “a festa du muzuni”,  di origine pagana, e che fu assorbita dal culto cristiano con una interpretazione originale ed al di fuori dagli schemi antichi del rito:
Omaggio alla Grande Madre nel Solstizio d’Estate
 
Alcara Li Fusi compare nella storia della Sicilia con questa identità rituale, che nasconde all’uomo parte della sua genesi e provenienza, essendosi formata in epoche remote, figlia di una civiltà protostorica che affonda le sue radici nella tradizione umana di questo lembo di terra. Quel che ci arriva oggi è l’immagine rituale di una gens agricola, cresciuta nell’alternarsi del ciclo delle stagioni e che da esse traeva quella religiosità che ritroviamo oggi, tale e quale, nell’essenza del rito del “muzzuni”. Percorso spirituale che si contamina nel corso dei secoli solo nell’aspetto esteriore della mutazione del simbolo, mantenendo celato nel profondo la maternità della generazione”.

20. La  Grotta  del  Lauro


La Grotta del Lauro si trova sul versante occidentale del grande massiccio rocciose delle Rocche del Castro, zona rientrante nel Parco die Nebrodi.
Un grotta ce presenta al suo interno innumerevole stalattiti, stalagmiti e colonne dalla forme più varie.
È anche presente una particolare tipo di concrezione mammellonare formata da più strati di calcite che è trasparente al suo interno.
La  grotta s sviluppa nella roccia delle Rocche del Castro per una profondità notevole.  L’impresso è molto ampio e a molti metri dal suolo. Si accede ad una prima caverna dalle dimensioni irregolari contraddistinta da una volta altissima ricca di stalattiti dalle strane forme. Da questa caverna si scende attraverso un percorso arricchito da stalattiti, stalagmiti , colonne e concrezioni di grande interesse geologico. Si giunge ad una seconda caverna, di notevoli dimensioni, anche ricca di suggestive formazioni colonnari stalagmtiche. Da questa seconda caverna iniziano una serie di cunicoli che procedendo a notevoli profondità, permettono di raggiungere altre caverne, alcune delle quali sono molto ampie.
Oltre che da un punto di vista geospeleologico la grotta del Lauro è interessante per la presenza in essa di due esemplari di “troglobie” di invertebrati miriapodi di alto interesse biologico che costituiscono un endemismo tipico ed unico della grotta: Entotalassinum Nebrodium e Beroniscus Marcelii.
Per visitare la grotta bisogna farne richiesta al Comune oppure all'Associazione Video Nature, in quanto l'accesso è sbarrato da un cancello che ne protegge le bellezze in essa contenute.

 

https://www.vivoinsicilia.it/grotta-del-lauo-il-viaggio-nelle-profondita-delle-rocce/

https://www.vivoinsicilia.it/grotta-del-lauro-il-viaggio-nelle-profondita-delle-rocce/

https://www.vivoinsicilia.it/grotta-del-lauro-il-viaggio-nelle-profondita-delle-rocce/










21. Borgo  Stella


Alle pendici delle Rocche del Crasto sorge il Borgo Stella (A Stidda), un antico villaggio pastorale che
 si rivela un importante sito etno-antropologico sia per il paese di Alcara Li Fusi, che per il Parco dei Nebrodi. L’arcaico agglomerato rurale è costituito da capanni in pietra a secco con coperture in tegole o frasche (pagghiara), affiancati da recinti per il ricovero del bestiame. Partendo dalla contrada Grazia e ripercorrendo la vecchia trazzera il visitatore si troverà immerso tra bellezze naturalistiche e paesaggi mozzafiato e potrà osservare numerose specie di volatili (tra i quali i magnifici e imponenti Grifoni) e una grandissima varietà della flora rupicola autoctona, molte piante mangerecce, aromatiche e medicinali. Tutto il percorso si sviluppa in un tratto dell’Appennino Siculo attraversata dal torrente carsico Stella, sul quale si potranno avvistare facilmente delle capre rinselvatichite sulle quali l’Aquila Reale spesso volteggia, speranzosa di fare buona caccia.
I “pagghiara” hanno una pianta circolare con un ingresso architravato e una copertura conica costituita da pali e rami di ginestra. Erano utilizzati come depositi di paglia e per il ricovero degli animali.
I casolari dei pastori hanno una pianta rettangolare e messi in opera con pietra squadrata. Generalmente costituiti da un unico ambiente e coperti da una travatura di pali e coppi siciliani. 





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22. Video

https://www.youtube.com/watch?v=c9k-_rC6i4U

https://www.youtube.com/watch?v=iLgptwP7Mho

https://www.youtube.com/watch?v=89x2vKWY3dY

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