Enciclopedia delle Donne – Capitolo XIX - Maria José del Belgio e Giuliana Benzoni si adoperarono per le trattative di pace e per un colpo di Stato.

 


Sull’Armistizio di Cassibile (detto anche “Armistizio corto” del 3 settembre 1943, divenne pubblico l’8 settembre 1943)) una coltre di inganni, di atteggiamenti discutibili ma una figura femminile, in buona fede, si preoccupò di dare alla trattiva di pace un aspetto morale e sociale. Una figura dimenticata dalla storia e che non svelò mai, nemmeno in punto di morte, il suo impegno per la Patria. Eppure si dovette difendere dai numerosi attacchi che le furono inferti nel corso della sua vita di Principessa Ereditaria e successivamente di Regina sia in pace che in guerra. Proprio nel 1943 si impegnò con forza per sottrarre l’Italia al conflitto attraverso contatti con la Santa Sede e con il presidente del Portogallo.
Contatti che la portarono a trattare con gli Americani nonostante i boicottaggi.
L’8 settembre del 1943, nel giorno della pubblicazione dell’armistizio, mentre era sola con i suoi figli a Sant’Anna di Valdieri vicino Cuneo, dopo essere stata costretta a lasciare Roma, con il suo grande coraggio, che caratterizzò sempre la sua vita, e con l’aiuto del colonnello Arena riuscì a raggiungere la Svizzera.

Questa breve narrazione delinea la comprensione di questa bellissima figura che con pieno merito entra nell’Enciclopedia delle Donne.
E’ Maria Josè del Belgio moglie di Umberto II di Savoia figlio del re d’Italia Vittorio Emanuele III che il 12 aprile 1944 fu delegato come Erede al Trono. 
Cappella Paolina del Quirinale… l’8 gennaio 1930 si svolsero le nozze tra
Umberto di Savoia, erede al trono d’Italia e Maria Josè del Belgio.
Un evento clamoroso e da ricordare. Si disse come Vittorio Emanuele III,
un sovrano contraddistinto da una forte avaria, abbia speso per l’evento una cifra
notevole per quei tempi: cinque milioni di lire.
Il principe di Piemonte indossava la sua divisa da ufficiale dei granatieri mentre la sposa
indossava un abito nuziale che le fu disegnato dallo stesso Umberto.



Con la conseguente liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, il Principe Ereditario Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, assunse l'incarico di Luogotenente Generale del Regno. Maria Josè raggiunse il marito insieme ai principi per essere incoronata Regina d'Italia il 9 maggio del 1946, in seguito all'abdicazione di Vittorio Emanuele III.
In pochi mesi riuscì a ristabilire il rapporto con gli italiani, messo in crisi dai duri anni di guerra e ancor più dalla forzata impossibilità di dialogo con il popolo a cui era stata costretta dalla Famiglia Reale.
Il 6 Giugno 1946, successivamente al Referendum istituzionale, partì in esilio con i figli da
Napoli alla volta del Portogallo. Si trasferì successivamente in Svizzera per motivi di salute, accompagnata dal figlio Vittorio Emanuele Principe Ereditario.

Vittorio Emanuele col padre Umberto II il 5 ottobre 1949
https://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Emanuele_di_Savoia_%281937%29



La firma dell’accordo di Cassibile fu il risultato di lunghe e contorte trattative con gli alleati, intessute a più riprese e da più personaggi, tra cui la principessa Maria José ed anche alcuni esponenti di primo piano del Gran Consiglio del Fascismo.

Maria José del Belgio
Marie-José Charlotte Sophie Amélie Henriette Gabrielle
(Ostenda, 4 agosto 1906 – Thònex, 27 gennaio 2001)
Figlia di Alberto I di Sassonia- Coburgo-Gotha, re del Belgio dal 1909, e
di Elisabetta Gabriella, nata duchessa in Baviera
Ultima regine consorte d’Italia nel 1946, come moglie di Umberto II di Savoia,
prima della proclamazione delle Repubblica

Importante nella maturazione politica di Maria Josè, con un atteggiamento di opposizione al regime fascista, fu il suo rapporto amichevole, instaurato nel novembre 1934, con la marchesa Giuliana Benzoni di salde convinzioni antifasciste e repubblicane. 

Giuliana Benzoni
Padova, 19 giugno 1885 – Roma, 8 agosto 1981
Figlia di Marchese Gaetano Benzoni e di Teresa (detta Titina) Martini
Fratelli: Giorgio e Ferdinando
La sua infanzia fu caratterizzata da un rapporto speciale con il padre e soprattutto con la nonna materna (Giacinta Maescotti). Il nonno materno Ferdinando Martini ricopriva la carica di governatore in Eritrea, carica che mantenne fino al 1907.
La loro casa romana (Atina- Frosinone, Palazzo Marini?)  era luogo d’incontro di importanti figure della politica e della cultura del tempo così come la villa di Monsummano.

Villa Renatico Martini
Monsummano Terme (Provincia di Pistoia)







Giuliana bambina
Prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, studiò a Firenze, città da sempre al centro di un vivace dibattito culturale. Qui entrò in contatto con Eva Oscarovna Kuhn  moglie di Giovanni Amendola (politico, giornalista, docente di filosofia).

Eva Oscarovna Kuhn  

Eva Kühn con il marito Giovanni Amendola e i figli Giorgio e Ada a Roma, nel 1915
Eva Oscarovna Kühn, nota anche con lo pseudonimo di Magamal
( Vinius, Lituania, 21 gennaio 1880 – Roma, 28 novembre 1951)
Scrittrice, saggista e traduttrice russa
Giovanni Amendola morirà nel 1926 in seguito a un'aggressione squadristica fascista.
La Kuhn insegnò alla Benzoni la grafologia.
La grafologia diventò un’arte molto cara alla Benzoni ed ebbe modo di sperimentarla a Praga, quando fu ospite del presidente della Repubblica cecoslovacca Tom Masarik, suo intimo e paterno amico.
A Firenze entrò nelle crocerossine, un impegno sociale che caratterizzerà la sua vita. Poi si trasferì per studi in Inghilterra per poi tornare in Italia, prima a Firenze e poi a Roma dai nonni materni, dopo l’attentato di Sarajevo.
(L`attentato di Sarajevo, del mattino del 28 giugno 1914, in cui lo studente serbo Gavrilo Princìp scaricò la sua pistola contro l'erede al trono d'Austria-Ungheria, l'arciduca Francesco Ferdinando, che morì poche ore dopo).


A Roma la Benzoni fu un importante fonte di collegamento, durante la seconda guerra mondiale, tra le ambasciate inglese e francese per lo scambio di notizie riservate per poi entrare in un rapporto attivo con gli interventisti democratici (Salvemini, Amendola, ecc.).
Nel 1916 la vita (la Benzoni aveva 21 anni), in un modo romantico, gli permetterà d’incontrare il suo grande amore.
A causa di un forte temporale si riparò nel palazzo Primoli suoi conoscenti.


Roma – Palazzo Primoli – Via Zanardelli,1

Il palazzo era del conte Giuseppe Napoleone Primoli
(Roma, 2 maggio 1851 – Roma, 13 giugno 1927)
Collezionista d’arte, bibliofilo e pioniere della fotografia
(Nella foto il Conte Primoli con Eleonora Duse)
Giuseppe Primoli era figlio di Charlotte (Honorine Joséphine Pauline) Bonaparte,
discendente della famiglia Bonaparte. Charlotte era infatti figlia di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, e di Zénalde Bonaparte. Erano cugini in quanto figli di due dei fratelli di Napoleone B., rispettivamente  di Luciano Bonaparte e Giuseppe Bonaparte.
Charlotte Bonaparte sposò Giuseppe Primoli, conte di Foggia, nel 1848.
Nella sua casa una vasta collezione di oggetti napoleonici ed oggi Museo
Napoleonico di Roma. Nel 1927, con una donazione testamentaria, il palazzo e
le collezioni (anche di fotografia) passarono al Comune di Roma.


Incontrò il colonello slovacco  (allora trentaseienne) Milan Rastislav Štefánik che lottava per  l’indipendenza del suo Paese dall’impero Austro-Ungarico, allora solo un miraggio o un lontano sogno.
Nato nei pressi di Bratislava nel 1880, era  affascinante per i suoi splendidi occhi chiari e per la sua cultura, scienziato, astronomo e in servizio nell’esercito francese.
Milan Rastislav Štefánik  fu quindi una delle più grandi figure della Slovacchia, riconosciuto sia dai nazionalisti che dai liberali come uno dei tre fondatori della prima Repubblica Cecoslovacca, con Tomàs G. Masaryk ed Edwad Benes.
Si sa molto poco della sua vita privata anche se le fonti parlarono sempre di lui come di un grande conquistatore di cuori.
Eppure in Italia incontrò il suo grande amore della vita che il tragico destino non gli permise di vivere  nel tempo. La sua amata non lo dimenticò mai.
Si trovava a Roma per delle missioni diplomatiche e per incontri con vari ministri, ambasciatori ed anche con la regina madre Margherita (madre di Vittorio Emanuele III).
Fu un primo breve incontro casuale che però lasciò un segno nei loro cuori.
"Presumibilmente in quel momento pioveva, si nascose in una specie di casa dove si riuniva una compagnia, si sedette accanto al caminetto, era buio, la fiamma illuminava i volti dei presenti e notò che qualcuno la stava ancora guardando . E questa persona sconosciuta all'improvviso le si è avvicinata e ha cominciato a parlarle. Naturalmente era Štefánik,"
I due fissarono subito un incontro e il giorno dopo s’incontrarono a Palazzo Colonna.  Giuliana vi si recò accompagnata da una dama di guardia, com’era consuetudine all'epoca




Palazzo colonna, giardino verso Santi Apostoli

Palazzo Colonna (Roma); Facciata verso il cortile
La Benzoni raccontò i momenti di quell’incontro nella sua autobiografia
La vita ribelle.
Memorie di un’aristocratica italiana tra Belle Epoque e Repubblica
Štefánik rimase incantato ed anche la marchesa provò dei fremiti al cuore alla sua vista…
«Attraversammo il vasto cortile illuminato dal sole. All’improvviso, come per magia, ebbi nelle mani un piccolo astuccio.»
L’astuccio conteneva una bellissima perla di Tahit e un anello…

Milan dopo aver consegnato l’astuccio a Giuliana, rimasta senza parole,  aggiunse…con un italiano non perfetto…..
«L’ho sempre portata con me per la donna che sarebbe stata la mia compagna.»


E così Štefánik e Giuliana si fidanzarono il giorno successivo al loro incontro, nacque un grande amore 
e i due diventarono inseparabili. L’ufficiale fu introdotto negli ambienti culturali e politici che Giuliana frequentava.
Nel frattempo molti reparti slovacchi disertarono e nell’estate del 1918 la Cecoslovacchia fu riconosciuta come stato sovrano e belligerante.
Si erano conosciuti nel 1916, fidanzati appena un giorno dopo il loro primo incontro ed avevano stabilito il loro matrimonio per il 1919.
Il 4 maggio 1919 fu richiamato in patria con urgenza.. ma il destino crudele lo aspettava inesorabilmente…
Il bombardiere italiano, sul quale era salito, precipitò. Morì assieme ai tre membri dell’equipaggio.
Milan aveva con sé una lettera per Giuliana in cui le chiedeva di rimanere sempre fedele a sé stessa.
Il giorno prima le aveva inviato un’altra lettera che sembrava un triste presagio…
Più volte la saluta con
Adieu (addio)
E la chiama
Ma femme unique et adorée
La mia unica e amata moglie

La lettera di Milan
Giuliana, in preda ad un incolmabile dolore, si ritirò nella villa di Sorrento a Marina Grande (“La Rufola”), dove si trovava l’anziana madre Teresa Ruffino Martini (“donna Titina),  che era un ritrovo di politica, letteratura e mondanità. 
Sorrento - Villa Rufola (?)


Un grande stimolo di vita l’aiutò a placare il suo dolore.
Rivolse il proprio impegno al Meridione e utilizzò per le sue iniziative una istituzione presente nel territorio ma inattiva da molto tempo:
l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno.
Rivolgendo il suo sguardo al Meridione vide una realtà disastrosa
 un’umanità povera, disperata, ma semplice e dignitosa
Prese delle iniziative per combattere 
l’analfabetismo e le disastrose condizioni sanitarie, ricostruendo scuole abbandonate, organizzando corsi per adulti, lottando contro pregiudizi e privilegi,
collaborando con associazioni come
l’Unione per l’assistenza dei malarici in Sardegna.
Quando s’affermò il fascismo, Giuliana partì da Roma assieme al fratello Giorgio, diplomatico. Viaggiarono per l’Europa e si fermarono anche a Praga.
Praga le ricordava il suo grande Amore che la vita gli aveva strappato con grande crudeltà.
Ma Praga venne occupata dai nazisti e Giuliana affermò che
“Non capirono, soprattutto i politici inglesi, fautori dell’appeasement a tutti i costi,
che Monaco e la fine della Cecoslovacchia erano la fine dell’Europa”
Ritornò nella villa a Sorrento che diventò un rifugio per gli esponenti dell’antifascismo italiano ed europeo (Gaetano Salvemini, Giorgio Amendola, Maxim Gorki, Benedetto Croce).
Nel novembre 1943 conobbe la principessa Maria José di Savoia, da sempre antifascista e attiva nel campo sociale.
Tra le due donne s’instaurò una grande amicizia che sfociò nella condivisione di frequenze importanti con il Vaticano e con politici molto influenti.
La Benzoni commentò quel primo incontro con la Principessa di Piemonte
era deliziosa, colorata e dolce come una gelatina di frutta",
ma era soprattutto impaziente di
"liberarsi dai lacci della modesta regalità dei Savoia"
per dedicarsi a "qualcosa di più nobile, di più alto".
Tra  le due donne una grande amicizia e una grande affinità ideologica; la politica e in particolare la lotta al fascismo. Maria José già da tempo lottava segretamente contro il fascismo e cercava di usare la monarchia per  affrettare il tramonto fascista.
Grazie alla Benzoni  la Principessa ampliò le sue conoscenze con esponenti politici di primo piano (Bonomi, Rioni, ecc), con esponenti del mondo economico (Raffaele Mattioli, Adriano Olivetti) e anche con intellettuali.
Entrambe condividevano lo stesso obiettivo finale:
convincere il re Vittorio Emanuele III dell’impossibile ritorno della democrazia
e fino alla fine combatterono con grande vigore.
La Benzoni definiva l’amica  come
Sua eminenza grigia in gonnella
(Il Re venne descritto dalla Benzoni come
“accigliato e a suo modo dominatore” non ascoltò i suggerimenti e decise d’intraprendere
una sua strada e subirà in modo drammatico gli eventi.
Nel libro di Giuliana Benzoni “La vita ribelle”, il capitolo dedicato alla principessa Maria José ne rilevò gli aspetti bizzarri legati all’innocenza dei suoi intenti.
Nei primi anni Quaranta Maria Josè era circondata da intellettuali che si erano appena staccati dall’ideologia fascista.  Non ne conosceva le abitudini che considerava piccolo – borghesi  e quasi contadine.
Li invitava a fare “spuntini con salame e vino rosso” o partite di briscola e questo gli procurò all’inizio molti insuccessi.
Con il romanziere Massimo Bontempelli fu quasi umiliata..
Signora … io ho l’abitudine di prendere il tè alle cinque e poi,
semmai di fare un bridge.
Una dichiarazione da parte di un Bontempelli imbarazzato ma molto preciso  tralasciando anche l’educazione.
Era la stessa donna che, nell' imminenza del referendum passò varie ore, di notte, con un gruppo di tranvieri socialisti a bere vino in un' osteria del Gianicolo, dopo averli aiutati ad attaccare manifesti inneggianti alla Repubblica. Sprezzo aristocratico delle convenzioni? Capricci da "Giuseppina Egalitè"? Non è escluso, almeno in parte.
Anche la Benzoni ebbe lo stesso stile di vita anticonformista, ribelle.
Aristocratica di nascita, milanese romanizzata con molti legami in Toscana per essere nipote, da parte materna, del letterato e ministro Ferdinando Martini. Quasi napoletana d' elezione per passione meridionalistica e per via di una splendida villa di famiglia a Sorrento, Giuliana Benzoni dovette anche a questi aspetti la frequentazione dei maggiori astri politici e culturali della belle époque.
Frequentazioni  che avevano  non solo un obiettivo politico contro il fascismo ma anche quello di allontanare il re (Vittorio Emanuele III) dall’ingerenza del Duce. Giuliana prese dei contatti anche con Badoglio ma la situazione precipitò quando la famiglia reale si rifugiò a Brindisi.
La donna capì che la clandestinità era l’unica via di salvezza e la scelse assieme alla  Resistenza con Giorgio Amendola, Sandro Pertini e altri amici.
 I suoi interventi permisero a molto gente di sfuggire al rastrellamento del ghetto come successe a due ragazzi il 16 ottobre 1943.
Operò attivamente per portare cibo, fornire mezzi e denaro, diffondere informazioni, dare nuove identità ai militari in fuga e facilitare i rapporti fra la popolazione e gli Alleati, grazie anche al suo bilinguismo e alle sue conoscenze aristocratiche.
Per l’ “elevato spirito di patriottismo” dimostrato “di fronte ai gravi rischi” e alle “pericolose missioni” ricevette dal Fronte della Resistenza-Comando civile e militare della città di Roma la Croce di guerra al valor militare “sul campo” (5 giugno 1944).

La croce di guerra a Giuliana Benzoni

Alla fine del conflitto rivolse il suo sguardo al Meridione.
Un Meridione che viveva in condizioni drammatiche, devastato dalla guerra e dalla povertà.
Fondò una colonia per orfani in Abruzzo ed affrontò la drammatica situazione dei reduci.
Il referendum e la nascita della Repubblica videro Giuliana e Maria Josè ancora unite.
Giuliana  riprese con energia le sue iniziative  legate alla lotta contro l’alfabetismo e si adoperò per la ricostruzione del Meridione mentre  Maria José ruppe un matrimonio, già precario da tempo, e si avviò con grande dignità all’esilio.
Giuliana continuò il suo impegno attraverso la “Svimez” (Associazione per lo sviluppo dell’industria del  Mezzogiorno), collaborando con varie associazioni internazionali (come il Centre for Human  Rights and Responsabilities di Londra).
Negli anni Cinquanta ospitò a villa “La Rufola” Gaetano Salvemini e gli diede assistenza amorevolmente fino alla morte (1957).
Pur risiedendo a Roma frequentava, con il fratello Giovanni e la cognata, la Toscana, Monsummano, le Terme Giusti, il podere di Peppignolo e ricordava con molto spirito le avventure giovanili con Maria José, quando portava messaggi segreti persino nelle scarpe!
Giuliana Benzoni morì a Roma l’8 agosto 1981 e fu sepolta a Monsummano Terme.
Una bellissima figura femminile anche lei dimenticata dalla storia….

Giuliana apparteneva ad una nobile famiglia ma si distaccava da quegli aspetti  sociali tipici delle famiglie aristocratiche. La sua vita aveva una forte base di solidarietà arricchita da sani principi etico-sociali.
Suo padre era dedito “alle donne ed ai cavalli” e amava i “privilegi”, tra l’altro era  molto vicino al  re Umberto I.  Sua nonna materna, Giacinta Martini Mariscotti, era famosa a Roma per il suo  salotto frequentato da personaggi mondani come Gegé Primoli ed anche da politici affermati come Sidney  Sonnino ed anche  promesse del giornalismo e del Parlamento come Giovanni Amendola.
Tutti personaggi che nel salotto s’incontravano con famosi letterati del tempo, eravamo agli albori del Novecento, come D’Annunzio, la Serao, Paul Cladel, con l’intellettuale Giuseppe Prezzolini e lo scrittore Giovanni Papini.
Questi contatti permisero alla Benzoni di ampliare e confrontare i suoi ideali  e soprattutto di partecipare attivamente alla realtà sociale del tempo.
Tanti i commenti sul suo coraggio e sulla grande umanità che l’accompagnarono per tutta la vita…
Ha sfiorato la storia con dolce distrazione,
Il fascino di Giuliana stava in questa mirabile sproporzione tra la grandezza dell’immagine
che offriva, e il modo esile e casuale di donarla, come se tutto facesse parte di una cerimonia,
ma soprattutto di un gioco. (Giorgio Manganelli).
 
Era ora vivandiera dei partigiani e falsificatrice di carte annonarie, ora esperta
 in radio rice-trasmittenti e “crocerossina dell’informazione”, ora addetta
a nascondere prigionieri, ebrei, militari sbandati. 
Articolo di Laura Candiani
La vita della Benzoni fu quindi caratterizzata da tanti impegni tutti svolti con fermezza:
-         collaborazione con Ferdinando Martini nella sua attività politica per portare l’Italia con la Francia e la Gran Bretagna nella guerra con gli Imperi centrali;
-         Vicina alla tragedie e alle speranze della Cecoslovacchia fra Serajevo e Monaco (quando fu occupata dalla Germania nazista). Il suo grande amore era Milan Stefnik, prima patriota cospiratore, poi ministro della guerra del governo di Praga. Morì tragicamente lasciando Giuliana Benzoni nel dolore incolmabile;
-        Si occupò del Meridione verso il quale provò sempre un grande amore che riuscì a rendere vivo con grandi aiuti nel campo sociale;
-         Partecipò alla Resistenza  e non come figura marginale. Mostrò il suo impegno politico e sociale  muovendosi tra Badoglio, Bonomi, Croce, Sforza, De Nicola, Togliatti, Nenni, De Gasperi, Gonella, Saragat, La Malfa, Giorgio Amendola, generali ed eminenze vaticane, "gappisti" ed emissari alleati. Riforniva di cibo i partigiani, falsificava le carte annonarie, era esperta nelle radio ricetrasmittenti, informatrice e ancora  nascondeva i prigionieri, ebrei, militari sbandati  e disertori.
La sua figura fu esaltata da storici come Croce e Sforza.
Nel suo libro anche un fatto inedito in cui fu coinvolta e che coinvolgeva un personaggio che diventerà famoso e ricco di avvenire. Questo “personaggio” fu incontrato per caso nella segreteria-anticamera dell’Ufficio di De Gasperi di cui era il più fido collaboratore.
Il racconto  della Benzoni nel suo libro….
"Giovanissimo, dall' aspetto adolescenziale, magro, vestito coi pantaloni alla zuava".
Erano i giorni della liberazione di Roma, giugno 1944. Si tenevano in quelle stanze riunioni febbrili. Il giovanotto
"origliava alla porta, interessato, incollando alternativamente l' occhio e l' orecchio".
A un certo punto
"non volle essere l' unico a godere dei segreti e intese farmi compartecipe e mi disse bisbigliando: "Venga, venga a sentire"
Ottenne da parte mia un violento, perbenistico rifiuto.
Giuliana Benzoni non rivelò il nome del giovane democristiano di quarant' anni fa.  (Era forse Giulio Andreotti….?)
Giuliana Benzoni

……………………….

La sera del 2 giugno 1946, alle ore 20,30  Maria Josè si  presentò al seggio elettorale (per il referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica) di Roma presso la scuola elementare di Largo Brazzà. Una bella donna, alta ed elegante che si mise rispettosamente in fila con gli altri votanti per attendere il proprio turno.
I presenti si resero conto come quella donna bella ed elegante era la regina Maria Josè, moglie del re Umberto II di Savoia. Subito le fecero largo in segno di rispetto perché passasse avanti.
La Regina rispose educatamente di voler rispettare la fila e quindi il suo turno.
I presenti continuarono con insistenza nel loro gesto cordiale e solo allora la Regina accettò e fu salutata con un caloroso applauso.
Entrò nell’aula e la Regina si rese conto, con grande imbarazzo, di non avere con sé i documenti di riconoscimento.
Rivolgendosi alla commissione disse
In ossequio alla legge vado a prendere i documenti per poi tornare per votare.
Gli scrutatori e il presidente di seggio (una donna) si rivolsero alla Regina e affermarono come
Fosse stata riconosciuta da tutti
fu quindi ammessa al voto malgrado le sue resistenze.
Maria José  rifiutò , per correttezza , la scheda del Referendum ritenendosi direttamente interessata e votò solo per la Costituente.
L’8 giugno 1946 la Benzoni scisse a Maria José
“Auguro ogni bene all’ Italia nel sole dell’Avvenire”.
Una frase contenuta in una lettera scritta sei giorni dopo il referendum che segnò la fine della monarchia.
Maria José fu regina d’Italia per un mese e quindi faceva parte dei “vinti” anche se era sempre stata un anticonformista e non amava la vita di corte.
Il 2 giugno Maria José si era recata nella sezione di Largo Brazzà per votare. Era accompagnata dal giornalista e politico ( liberale di parte monarchica) Manlio Lupinacci.
In un’intervista, rilasciata alla figlia Maria Gabriella (?), dichiarò di aver votato scheda bianca al referendum Monarchia – Repubblica perché
Non mi sembrava elegante votare per mio marito e per me stessa
mentre per la Costituente votò
per il socialista Giuseppe Saragat
Quando l’8 giugno ricevette la lettera dell’amica Benzoni, lo stato d’animo della regina Maria José era afflitto, triste perché amava l’Italia e gli Italiani.
Il 5 giugno il marito Umberto II la informò che l’Italia era una Repubblica e le comunicò che  sarebbe partita la sera stessa per Napoli e il giorno seguente per il Portogallo.
Pregò il marito di lasciarle un giorno in più perché voleva salutare la città di Napoli.
Umberto non lo permise perché l’aveva promesso ad Alcide De Gasperi.
Nella mente sconvolta da tanti tristi pensieri, Maria José ridiede voce ad un antico presagio.
Mentre soggiornava in Italia, durante la prima guerra mondiale, Maria José visitò con la madre, Elisabetta di Wittelsbachuna, una sua pro-zia allora ultra ottantenne, Maria Sofia di Baviera.
Maria Sofia, ex regina del Regno delle due Sicilie e vedova dell’ultimo re Francesco II di Borbone, venne a conoscenza come la giovane e bella pronipote avrebbe sposato un esponente di casa Savoia e affermò ..
“Sappiate che io disapprovo fortemente.
Non posso tollerare che una mia pronipote vada in sposa a un discendente
dell’usurpatore [Vittorio Emanuele II].
Sappi che se lo farai te ne pentirai amaramente e non conoscerai la felicità.
Maria José rimase molto turbata da quel colloquio e quelle forti  parole l’accompagnarono per tutta la vita.
Maria José partì quindi per il Portogallo e dopo una settimana fu raggiunta dal marito a Cascais ma i due si separano subito.
Il matrimonio tra i due era in crisi da tanto tempo. Con la scusa di dover subire un’operazione agli occhi, Maria José si trasferì in Svizzera a Merlinge con il piccolo Vittorio Emanuele.
(Le tre figlie (Maria Pia, Maria Gabriella, Maria Beatrice) rimasero con il padre Umberto in Portogallo e raggiunsero la madre solo dopo diversi anni. Una delle poche volte in cui la coppia fu vista insieme  fu in occasione della nozze di Juan Carlos I di Spagna con Sofia di Grecia, ad Atene il 14 maggio 1962).
Roma - Largo Brazzà


Nella foto la principessa Maria Josè nel 1924 all’uscita dalla Cattedrale di Ravello.
Sulle scale, poco più avanti, il principe Umberto.
https://www.ilvescovado.it/it/storia-e-storie-19/referendum-2-giugno-1946-quando-la-regina-maria-j-79361/article
Giuliana Benzoni era quindi la preziosa consigliera di Maria José  la “principessa ribelle”.
Le due donne condivisero il pericoloso tentativo (colpo di Stato), purtroppo fallito,  d’impedire che il regime di Mussolini proseguisse nel suo nefasto cammino.
La Benzoni, una grande donna caratterizzata da una grande eleganza e classe, s’impegnò nel piano dalla metà del 1942 fino al 25 luglio 1943.
Fu vicina alle incertezze di Maria José, anche se rare, e insieme cercarono le figure giuste a cui affidare la propria fiducia e il coraggioso progetto rivoluzionario.
La Benzoni presentò all’amica quelle figure che potevano essere utili nel piano e tra questi, Pintor, Bonomi, Antoni, Gonella.
Tutti personaggi dall’alto livello politico e culturale e soprattutto disponibili per dare il loro contributo all’impresa.
Le due amiche avevano contatti saltuari e una fitta corrispondenza.
Il percorso che stavano avviando le due amiche era pericoloso ma in quei mesi il Quirinale era la sede abituale di salotti in cui prendeva forma la stesura del complotto. Era un percorso anti-mussoliniano che vedeva all’opera politici, antifascisti, fascisti non convinti delle proprie idee. militari, civili.
La Benzoni ebbe l’idea geniale di introdurre nel piano non solo l’idea base dell’antifascismo ma anche quella di un’azione contro la monarchia.
Quest’ultimo aspetto forse non condiviso dall’amica Maria Josè, che pur non accettando la monarchia, nel piano aveva proposto la nomina a re del figlio Vittorio Emanuele (almeno salvare la traballante e compromessa monarchia dopo aver cacciato il dittatore).
Maria José con i quattro figli.
Fototeca Storica Nazionale / Getty Immages
Un punto era condiviso da entrambe: occorreva l’unione delle forze antifasciste.
Forse non tutti condividevano l’idea della Benzoni perché alcuni politici erano convinti che solo attraverso l’aiuto monarchico si sarebbe potuto eseguire il piano.
Comunque la Benzoni tesse la sua tela di collaboratori pronti a dare il loro aiuto: De Gasperi, la Banca Commerciale con il suo esponente di primo piano Raffaele Mattioli, i socialisti romani, i letterati ed anche prelati della Santa Sede come il cardinale Montini futuro Paolo VI.
Rispetto all’amica Maria José godeva di una maggiore libertà dato che la principessa era mal vista a Corte (il suocero per anni non gli rivolse la parola ed era anche controllata dalla polizia fascista dato che non godeva della fiducia di Mussolini).
Maria Josè era, secondo l’opinione di Mussolini…..
L’unico uomo di casa Savoia
e il suocero Vittorio Emanuele III più volte la rimproverò per i suoi contatti e le sue azioni a favore degli antifascisti.
La Benzoni nel suo libro rilevò come il programma prevedeva di convincere il re Vittorio Emanuele III a separarsi dal fascismo grazie all’aiuto delle figure coinvolte nel piano eversivo e sotto la parola d’ordine della Benzoni e di Maria Josè
Ingabbiarlo..
Anche se testone, musone e legalitario.
Maria José fu “indottrinata” dal filosofo Carlo Antoni sugli aspetti “legali” dell’operazione.
Non riuscì mai ad incontrare il Re, malgrado i suoi tentativi.
La donna viveva nell’isolamento voluto dalla corte e cercò inutilmente di avere un incontro con il sovrano rivolgendosi anche al Ministro della Real Casa Acquarone.
La principessa incontrò il cardinale Montini mentre a Milano ebbe dei contatti con lo scrittore comunista Elio Vittorini e con il critico Francesco Flora. La Benzoni l’aiutò ad incontrare anche Giaime Pintor che cadde successivamente da eroe tra le linee nemiche.
Fu la stessa Benzoni a consigliare a Maria Josè il generale come capo politico.
Agli inizi del 1943 la Benzoni consigliò nuovamente alla Principessa di accelerare i tempi presentando il piano antifascista al Re.
Si fecero altri nomi come Ivanoe Bonomi, ci fu l’appoggio di Antonio Giolitti, del filosofo marxista Ludovico Geymonat, del rettore di Padova Concetto Marchesi (Comunista).
Ma l’operazione, come abbiamo visto, era pronta nel concretizzarsi ma l’invasione della Cecoslovacchia fermò tutto.
D’altra parte il re voleva decidere sempre in solitudine, come aveva sempre fatto nella scena politica, puntando su un governo di tecnici militari con a capo Badoglio e preferendo coprire la defenestrazione di Mussolini con altri fascisti.
Maria Josè che aveva tessuto la tela magistralmente venne in qualche modo messa  agli arresti domiciliari e mandata a Sant’Anna di Valdieri in Piemonte.
Un luogo completamente isolato eppure, malgrado l’isolamento dopo il 3 settembre non mancarono i suoi forti e prolifici contatti con la Resistenza.
La Benzoni provò una grande delusione nel fallimento del piano ma non mollò perché ricoprì un ruolo importante nella Resistenza romana come clandestina.
Svolse quindi un ruolo non secondario nella caduta del fascismo.

Maria José e il progettato Colpo di Stato del 1938
I tentativi per la Pace del 1942
Durante la guerra all’Etiopia, il 14 marzo 1936 Maria José partì per l’Africa orientale come infermiera della Croce Rossa a bordo della nave ospedale «Cesarea» e rientrò a Napoli l’11 maggio. 
Scorcio della nave-ospedale Cesarea ormeggiata al Molo Angioino
data: 26.03.1936
luogo della ripresa: Napoli
https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL3000018427/12/scorcio-della-nave-ospedale-cesarea-ormeggiata-al-molo-angioino.html

La principessa Maria Josè

La principessa Maria José, in abiti da crocerossina, consegna un documento a una giovane infermiera della Croce Rossa
https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL0010026202/12/la-principessa-maria-jose-abiti-crocerossina-consegna-documento-giovane-infermiera-della-croce-rossa.html
Nel 1936 l’Italia firmò il trattato di amicizia con la Germania chiamato “Asse  Roma – Berlino”.
Nel 1937 si recò insieme con il principe Umberto in visita ufficiale in Libia e negli anni successivi tornò altre volte da sola, ospite del governatore Italo Balbo con il quale si trovò a condividere critiche severe alla politica filotedesca di Mussolini.
Nel 1938 ci fu la promulgazione delle leggi razziali e, nello steso anno, ci fu la visita di Hitler a Roma dove fu ospitato al Quirinale. Maria José provava dei sentimenti di ostilità nei confronti dell’operato di Mussolini che condivideva con il marito Umberto II di Savoia, anche lui non d’accordo con il regime.
Nel 1938, secondo alcune fonti diplomatiche inglesi, Maria José si sarebbe accordata con Rodolfo Graziani e con il capo della polizia Arturo Bocchini, per tentare un colpo di Stato grazie all’opera di alcuni reparti delle forze armate con Pietro Badoglio come comandante in capo, L’azione si sarebbe conclusa con la destituzione di Mussolini con un
Avvocato milanese antifascista. (Carlo Aphel).
Un importante documento fu trovato dalla professoressa Donatella Bolech Cecchi (dell’Università di Pavia) negli archivi del Foreign Office (documento «riservatissimo» conservato presso il Public Record Office di Londra). 
 Il documento era costituito da una lettera (relazione, dai toni “most secret”), datata 29 settembre 1939 e fatta pervenire al Foreign Office, nella quale l’ambasciatore inglese al Cairo, Miles Lampson, parlava di un complotto per fare cadere Mussolini, impedire la guerra e instaurare un regime meno autoritario, più democratico e finalmente separato dal nazismo.
Lo stesso ambasciatore scrisse nella lettera di aver avuto queste notizie da un colloquio avuto con il fratello di un avvocato milanese che era a capo di un movimento antifascista.

Lampson with his second wife Jacqueline in the gardens of the Cairo embassy
Lampson con la seconda moglie Jacqueline nei giardini dell'ambasciata del Cairo

Captain Oliver Lyttelton (right), the Minister of State resident in the Middle East from June 1941 to February 1942, at the British Embassy in Cairo with Sir Miles Lampson, British Ambassador to Egypt.
Il capitano Oliver Lyttelton (a destra), ministro di Stato residente in Medio Oriente dal giugno 1941 al febbraio 1942, all'ambasciata britannica al Cairo con Sir Miles Lampson, ambasciatore britannico in Egitto.

Il documento sarebbe collegato a delle testimonianze tra cui quella della figlia di Carlo Aphel, un avvocato milanese nella cui abitazione si svolsero, a partire dal 1938, diversi incontri a cui presero parte anche il maresciallo Pietro Badoglio, la principessa Maria José di Savoia, moglie dell’erede al trono Umberto II di Savoia ed anche Rodolfo Graziani.
Sembra che ad alcune riunioni, a Racconigi e a Milano, abbia partecipato anche il genero del Duce,
Gian Galeazzo Ciano mentre una partecipazione più attiva ebbe Edgardo Sogno.
Il piano coinvolgeva anche il capo della Polizia, Arturo Bocchini e prevedeva:
l’arresto del Duce;
l’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore di Umberto II;
Umberto II, d’accordo con la moglie Maria Josè, avrebbe abdicato
subito in favore del piccolo Vittorio Emanuele;
Maria José sarebbe stata nominata reggente del Regno in deroga
allo Statuto Albertino, fino al compimento del 21 anni del
giovanissimo sovrano.

Al trono sarebbe salito il piccolo Vittorio Emanuele, figlio del principe ereditario e di Maria José che sarebbe diventata regina reggente.
Badoglio e Aphel avrebbero ricoperto ruoli di primo piano nel dopo fascismo.
Il
24 settembre 1938, sei giorni prima dell’accordo di Monaco, il governo di Praga cedette alla Germania la zona dei Sudeti.
Ma Hitler non si fermerà occupando l’intera Cecoslovacchia e poi la Polonia. Da qui lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Maria José  avvisò l’avvocato milanese per un colloquio, dai toni urgenti e segretissimi, con il maresciallo Pietro Badoglio nel castello di Racconigi.

Castello di Racconigi  (Cuneo)





Il giorno dopo, 25 settembre (domenica), l’avvocato incontrò Maria José e il Badoglio. Il principe Umberto non era presente all’incontro, forse per non compromettersi in una questione troppo delicata (non potrebbe fare altrimenti, il suo ruolo impedisce la sua presenza nella sala, quindi tutto fu delegato,  alla giovane Principessa, e continuò a giocare con i figli Maria Pia ed il piccolo Vittorio Emanuele). Una cosa fu certa: c’era un’unità di pensiero tra Umberto di Savoia e la moglie Maria Josè.
Tutti condivisero il pensiero che
in caso di attacco della Germania alla Cecoslovacchia, Mussolini correrà a fianco di Hitler, era il momento di fermare la storia, di riprendersi quel futuro che stava scappando via agli italiani ed al mondo intero.
Il colloquio durò oltre 90 minuti e Maria José sottolineò la grave situazione internazionale e portò avanti l’idea che era necessario fare qualcosa per impedire all’Italia di entrare in guerra a fianco della Germania. Era inutile nascondere la realtà dei fatti..
La guerra era vicina
I riferimenti erano chiari e ben evidenti..era in atto la crisi cecoslovacca. Il movimento nazista aveva votato a Norimberga l’annessione dei Sudeti e la diplomazia internazionale era coinvolta in disperate trattative per evitare un conflitto.
A testimoniare la gravità del momento, Galeazzo Ciano riportò in data 26 settembre nel suo diario un appunto..
È la guerra. Dio protegga l’Italia e il Duce
Maria Josè finì il suo discorso e prese la parola il maresciallo Pietro Badoglio.
Disse di parlare a nome del generale Rodolfo Graziani e invitò l’avvocato milanese a dare il comando per un insurrezione armata.
La risposta dell’avvocato milanese …
Io e i miei compagni, per quanto avessimo lavorato giorno e notte
per quattro anni a questo fine, non siamo in grado di passare alla fase
operativa per mancanza di armi…
sono convinto che sia stato raggiunto un punto in cui lo spirito del
popolo è maturo…….
si può prevedere, in caso di mobilitazione generale in Italia,
una capillare azione di sabotaggio di tutti i pubblici esercizi per
disorganizzare la nazione e procurarsi quei trecentomila fucili con
adeguato munizionamento che sono indispensabili per un progetto insurrezionale.
Il maresciallo Badoglio rispose…
«Voi potrete certo fare meglio di adesso perché, come voi ci portate il popolo italiano,
noi vi portiamo l’aiuto della Corona e l’appoggio dell’esercito».
Si passò alla fase operativa del piano, discutendone i dettagli, che prevedevano questi fasi…
- Abdicazione del Re (Vittorio Emanuele III);
- Rinuncia del principe ereditario Umberto II di Savoia ai propri diritti sul trono;
- proclamazione di Vittorio Emanuele (che all’epoca aveva due anni) a Re d’Italia e della principessa a reggente durante la minorità del figlio;
- concessione di pieni poteri temporanei a Badoglio, che avrebbe imposto la legge marziale per mantenere l’ordine;
- costituzione di un governo presieduto dall’avvocato antifascista milanese

Il rapporto mise in evidenza anche il programma di costituzione del governo che prevedeva:
- lo scioglimento del partito nazionale fascista e della Camera dei Fasci;
- l’arresto e il processo di Mussolini;
- l’amnistia per i fascisti che avessero sospeso ogni attività politica;
- nessuna vendetta, ma un perdono per coloro i quali avrebbero preso le distanze dal Regime;
- lo scioglimento della Milizia;
- il ripristino dello Statuto Albertino in vigore dal 1848;
- il ritiro delle truppe dalla Spagna;
- la stipula di un’alleanza la Jugoslavia e la Francia nel caso di aggressione della Germania alla Cecoslovacchia;
- la riduzione delle tasse;
- un piano di riforme economiche, morali e sociali.
Il piano non si fermò alla fase progettuale perché il 26 settembre Umberto II firmò un atto di rinuncia al trono.
Il giorno successivo in alcune città (Roma, Torino, Milano, Verona, Venezia e altre località) furono prese delle iniziative per l’attuazione del piano che doveva concretizzarsi alle ore tre del 28 settembre. Il Re (Vittorio Emanuele III) doveva trovarsi di fronte al fatto compiuto e quindi costretto a firmare l’abdicazione.
Ma il giorno 27 giunsero al castello di Racconigi delle informazioni che sconvolsero i piani demoralizzando i cospiratori.
Neville Chamberlain (Primo Ministro del Regno Unito dal 28 maggio 1937 al 10 maggio 1940) aveva chiesto, attraverso Gian Galeazzo Ciano, un intervento mediatore di Mussolini che si sarebbe risolto nell’incontro di Monaco.
Infatti nella notte tra il 28 ed il 29 settembre 1938 a Monaco i capi di Stato di Francia, Regno Unito, Italia e Germania firmarono un documento con il quale veniva concesso alla Germania di annettersi gran parte della Cecoslovacchia.
In realtà la questione Cecoslovacchia era presenta nello scenario geopolitico europeo già ai primi di settembre del 1938. (Nota – La Conferenza di Monaco)
Gli avvenimenti intralciarono i progetti dei cospiratori di Racconigi. Si resero conto che non sarebbe stato così semplice imporre al Re l’abdicazione e spiegare un simile avvenimento alla popolazione.
Maria José, un grande carattere quello della principessa, e l’avvocato milanese rimasero sempre fedeli all’attuazione del piano ma Badoglio  fece valere la tesi del rinvio dell’operazione rinviandola al 29 settembre.
Il diplomatico inglese scrisse come il generale Badoglio
Fu afflitto (dal rinvio) che per diversi minuti sembrò perdere la ragione
al punto da spingere la principessa e l’avvocato a ripetergli che egli
non aveva alcuna responsabilità in quanto stava accadendo.
Maria Josè si sarebbe  impuntata nel confermare la data prestabilita (28 settembre) per l’attuazione del colpo di Stato, sorretta da altri personaggi, senza spostare di una virgola le fasi del complotto precedentemente studiato con attenzione.
La principessa invitò più volte il generale Badoglio ad andare avanti nel piano. I toni si alzarono, diventarono anche aspri. La tensione era altissima ed ancora oggi, conoscendo i fatti che seguirono alcuni anni dopo, si può solo apprezzare il tentativo della bella Principessa belga, intelligente, educata a Firenze, figlia di un Re che non si piegò mai a quella stessa Germania nel 1915 e ne uscì vincitore. Era proprio vero, una principessa donna ma anche un leone come quello che campeggia nello stemma belga.
Ma Badoglio fu irremovibile rinviando di un giorno l’operazione non ascoltando i consigli dei presenti.
Questo giorno fu sufficiente per fare saltare l’operazione del colpo di Stato.
Il 28 settembre Chamberlain riunì a Monaco i rappresentanti di Francia, Germania ed Italia, quest’ultima rappresentata, come voluto dal primo ministro inglese, da Mussolini. Non ci sarà la guerra, ma quel giorno sdoganerà le velleità di Hitler sul mondo intero, accompagnando nel disastro finale il Duce e l’Italia.
La notizia dell’accordo giunse a Racconigi ma forse i congiurati già sapevano che con la partenza di Mussolini per Monaco, la guerra, per il momento, sarebbe stata rimandata.
Vennero quindi bruciati i documenti tra cui anche l’abdicazione firmata da Umberto e quella da sottoporre al Re Vittorio Emanuele III che era all’oscuro di tutto ciò che si stava tramando. Furono brucati anche il testo della reggenza, gli atti istitutivi dello stato d’assedio e della legge marziale.
Non si doveva lasciare alcuna traccia del complotto. Il Duce sarebbe tornato dalla Germania ancora più forte di prima, con un’aureola di mediatore politico che la propaganda fascista enfatizzerà a beneficio della figura di statista del dittatore italiano.
Non si sapranno mai i nomi di tutti coloro che parteciparono alle riunioni  nel castello di Racconigi. Molti documenti furono ritrovati all’estero ma tutto ciò fu provato… fu certezza … solo che con il passare e, con una storia mai obiettiva, gli avvenimenti si persero nella nebbia dei ricordi che devono essere cancellati per ragioni politiche….
La congiura  fu oggetto di un documentario televisivo del ciclo “Il Tempo e la Storia” di “Rai Storia” dedicata proprio all’attività antifascista di Maria José dimenticata dalla storia.
L’aspetto forse più importante fu quello che Maria Josè non citò mai questo avvenimento nelle sue interviste successive.
Le notizie sulla congiura furono dettagliatamente descritte dal diplomatico inglese.
Un diplomatico di elevato rango che venne a conoscenza di quelle importanti notizie sulla congiura che lo spinsero a scrivere un dettagliato rapporto “molto secreto”.
Non erano quindi voci generiche…
Il nome dell’avvocato milanese, e importante esponente antifascista, rimase sconosciuto.
Era infatti nella prassi delle informative "segrete", soprattutto in casi così delicati, assumere precauzioni per non compromettere le fonti di informazione (nel caso in questione, poi, oltre che di una "fonte" si sarebbe trattato di un vero e proprio movimento da tenere presente per il futuro) e lasciare a successivi contatti personali il completamento del quadro e delle notizie.
 
Il rapporto avrebbe una sua importanza storica perché dimostrerebbe come negli anni Trenta, cioè nel periodo di maggiore ascesa del fascismo, erano presenti in Italia, da almeno quattro anni, dei movimenti antifascisti.
Il rapporto sarebbe un ulteriore prova dei sentimenti antifascisti di Maria José   e dei suoi contatti con intellettuali e politici antifascisti come Benedetto Croce, Elio Vittorini, Guido Gonella e  con il Vaticano  grazie ai contatti con Mons. Montini. Contatti che furono confermati sia dalla storiografia che dalla stessa Maria José.
(Francesco Perfetti)
 
Fa riflettere che figure importanti come Galeazzo Ciano, e altri gerarchi come Italo Balbo, Emilio De Bono, Dino Grandi, Amedeo d’Aosta e probabilmente anche Edgardo Sogno abbiano partecipato  allo studio del colpo di Stato. Tentarono fino all’ultimo di evitare la terribile guerra partecipando alla fase progettuale della cospirazione.
Ciano non riuscì ad accettare e fare anche suo quel progetto  per le incertezze e per il terrore che aveva del forte suocero. Ma alla fine, con coraggio, partecipò al tentativo di colpo di Stato del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 che lo portò alla completa rovina con la sua fucilazione avvenuta l’11 gennaio 1944 a Verona.
Dalla interessante inchiesta della studiosa emerse un ambiente politico consapevole delle azioni da intraprendere ma impotente a cambiare un’inerzia  inevitabile.
Tutti erano consapevoli dei rischi che la società e il mondo stava correndo ma forse   gli ideatori della cospirazione non ebbero il coraggio di mettersi in gioco o ancora furono sottomessi nella decisione finale dal generale Badoglio, un personaggio ambiguo  e criticato anche dagli Alleati.
Forse l’unica figura coraggiosa fu proprio la principessa Maria José che all’epoca aveva da poco compiuto 32 anni, essendo nata ad Ostenda nel 1906.
Nel 1939 Maria José partecipò da sola a Lucerna al concerto di Arturo Toscanini. Era l’ultimo concerto che il maestro tenne in Europa.
Questa sua partecipazione al concerto gli procurò insulti da entrambe le parti:
dal duce che era molto adirato dalla sua  
“alzata d’ingegno”;
dall’inviperito maestro Toscanini, poco rispettoso, superficiale e maleducato, che le rifiutò l’autografo…
”Alla larga da quella baldracca”.
 
Ebbe dei contatti con grandi scrittori del tempo come Thomas Mann, Giuseppe Antonio Borgese, tutti esponenti della cultura che erano considerati “fuorilegge” dal regime.  Eppure con questi esponenti della cultura ebbe dei duraturi rapporti d’amicizia.
Mussolini trattò sempre con una certa freddezza Maria José e desiderava essere informato di ogni suo movimento tanto da affidare la sorveglianza della Principessa al capo della Polizia Arturo Bocchini fino al 1938 cioè fino a quando ritenne di aver sottomesso i Savoia con lo stravolgimento della Statuto Albertino e con l’intervento del Gran Consiglio nella successione al trono.
Inoltre proibì espressamente ai mezzi d’informazione di nominare Umberto e Maria José come Principi Ereditari e li obbligò a chiamarli semplicemente
“Principi di Piemonte”.
La Famiglia reale non ebbe mai molta simpatia per il fascismo e per il Duce, tanto che Vittorio Emanuele III si oppose fermamente all’invito di Mussolini di porre sul vessillo tricolore i fasci littori. 
Il Principe ereditario Umberto, in tutte le manifestazioni ufficiali, vestì sempre la divisa del Regio Esercito, per salutare con il classico gesto militare evitando quindi  di fare il saluto fascista e mai indossò la camicia nera, contrariamente ai suoi cugini Aosta. 
Quando poi Mussolini prese a sostenere Hitler, Vittorio Emanuele III iniziò a ricordarsi di come era considerato in passato dall’Imperatore Guglielmo II ed iniziò quindi a rimembrare l’arrogante supponenza di una casta militare che avrebbe portato la Germania alla disfatta nella prima Guerra Mondiale: anche lui sapeva che era ormai questione di tempo.
Ancora nell’aprile 1940 Maria Josè convocò riservatamente a Roma Italo Balbo e Amedeo d’Aosta, sollecitandoli a intervenire presso Mussolini al fine di evitare l’entrata in guerra dell’Italia.
Maria José nutriva una profonda avversione nei confronti di A. Hitler, che aveva conosciuto nel corso della visita ufficiale da questo compiuta a Roma nel maggio 1938 e dal quale si recò per un colloquio privato a Berchtesgaden in Baviera il 10 ottobre 1940.
Il Belgio era stato invaso dai Tedeschi e il re Leopoldo, fratello di Maria José, aveva preferito arrendersi ottenendo per sé e la sua famiglia una sorta di libertà vigilata nel castello di Laeken. La visita di Maria José. aveva appunto lo scopo di perorare la causa del fratello, degli altri famigliari e dei circa 140.000 soldati belgi prigionieri di guerra e di richiedere l’autorizzazione per l’invio di aiuti della Croce Rossa alla popolazione belga duramente provata.
Maria José era altrettanto preoccupata delle drammatiche condizioni dell’Italia in guerra, occultate dalla propaganda di regime ed ebbe modo di rendersene conto di persona, nel corso delle visite agli ospedali, compiute come ispettrice generale della Croce Rossa. Aveva intanto preso a frequentare esponenti dell’antifascismo come il filosofo Carlo Antoni e il cattolico Guido Gonella.
Il Gonella era redattore capo di politica estera de “L’Osservatore romano” ed era in stretti rapporti con la segreteria di Stato del Vaticano e con il corpo diplomatico accreditato presso la S. Sede.
Il disastroso andamento della guerra e le sollecitazioni degli antifascisti indussero Maria José ad assumere qualche iniziativa per provocare la caduta di Mussolini e uscire dal conflitto.
Ampliò la sua rete di contatti e intensificò i suoi incontri con generali e uomini politici.
Nell’agosto 1942, a Cogne, incontrò il maresciallo Pietro Badoglio, messo in disparte per l’esito della guerra di Grecia, sollecitandolo ad agire. Il coinvolgimento di Badoglio era ritenuto indispensabile per ottenere l’adesione delle forze armate e di tale parere si mostrò anche l’ex presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, nel corso dell’incontro che ebbe con Maria Josè nell’ottobre dello stesso anno.
Il 3 ottobre 1942 la principessa ricevette un’informazione secondo la quale gli Alleati avrebbero trattato con benevolenza l’Italia nel caso di una sua dissociazione dall’Asse cioè dall’Alleanza con la Germania nazista.
Qualche giorno dopo la principessa incontrò, in casa della baronessa Giovannella Caetani Grenier, monsignor Giovanni Battista Montini, sostituto segretario di Stato della S. Sede, e informò quindi il ministro della Real Casa, Pietro Acquarone, della possibilità di stabilire contatti con gli Anglo-americani utilizzando il canale del Vaticano. 
Monsignor Giovanni Battista Montini

Pietro d'Acquarone
Attraverso l’Acquarone il re (Vittorio Emanuele III) fece conoscere alla nuora la propria netta contrarietà a percorrere quella strada.
«Fu allora che la principessa di Piemonte, visto respinto il suo primo tentativo di fungere da semplice tramite per una qualche ulteriore azione che avrebbe poi potuto essere condotta direttamente od indirettamente dal sovrano, pensò ad una iniziativa
diversa di ordine personale ed autonomo»
Su suggerimento di Gonella, Maria José cercò di contattare gli Alleati attraverso l’intermediazione del portoghese Antonio de Oliveira Salazar, capo di un governo neutrale e buon amico degli Inglesi. 

Antonio de Oliveira Salazar
La principessa ebbe ripetuti incontri con l’ambasciatore del Portogallo presso la S. Sede, A. Pacheco, e, ottenuta la risposta positiva di Salazar, il 17 luglio 1943 ricevette al Quirinale il conte Alvise Emo Capodilista, al quale espose i contenuti della missione che doveva compiere presso gli Angloamericani.

Il conte Alvise Emo Capodilista con la moglie (?)

I punti da negoziare riguardavano:
la cessazione delle ostilità da ambo le parti e dei bombardamenti,
l’assistenza alleata alle forze armate italiane che avrebbero dovuto fronteggiare la prevedibile reazione tedesca,
la disponibilità della Marina ad agire sotto il comando alleato,
il mantenimento della monarchia.
Salazar trasmise le richieste italiane agli Inglesi, ma il 3 agosto 1943 comunicò a Capodilista che esse erano state respinte in quanto
gli Alleati ponevano come presupposto della trattativa l’accettazione pura e
semplice della resa incondizionata.
Il 6 agosto Maria José informò dell’esito negativo della missione il duca Acquarone e il capo di stato maggiore, generale Vittorio Ambrosio e, più tardi, incontrò il re a villa Savoia. Questi, che non aveva mai gradito l’attivismo della nuora, la invitò, anche per ragioni di sicurezza, a partire insieme con i suoi figli per Sant’Anna di Valdieri, nel Cuneese.
Le frequentazioni, i comportamenti, le simpatie della Principessa infastidirono il regime. 
Maria José assieme al marito fino al 1943 si diede da fare per aiutare a nascondersi o a espatriare al sicuro quanti più ebrei italiani e belgi fosse possibile».
Luciano Regolo nel suo poderoso ritratto di Maria José , uscito per Edizioni Ares, riportò una biografia che dimostrò tutta la sua grande ammirazione per la principessa che lui conobbe personalmente.
Il 25 luglio la notizia della caduta di Mussolini, raggiunse Berlino e Hitler ne fu colpito.
Eberhard von Mackensen ( generale tedesco e giudicato successivamente come responsabile di crimini di guerra) fece un’attenta lettura del dispaccio proveniente da Roma..
Il Re aveva dato l’incarico a Badoglio di formare il nuovo governo avendo il
Duce “abbandonato” il suo incarico.
Hitler guardò frastornato il generale, fece un sospiro e disse
Cosa significa “abbandonato”?
Sono convinto che quello straccione di Re lo ha ingannato.
A questo punto, mando Rommel, la divisione paracadutisti di Student e do ordine di
occupare Roma e di arrestare tutta la baracca… il Re, il governo e tutto quel marciume….
E prima di tutto il principino ereditario…. Voglio il bambino…
Sì il bambino prima di tutti…
Wilhelm Bodewin Johann Gustav Keitel (generale e criminale di guerra) ….
Sì …. Il bambino è più importante del vecchio.
Hitler desiderava questa mossa più di ogni altra… gridava come un ossesso
Voglio il bambino !!!!
La prima cosa da fare, sì catturare il bambino il piccolo Vittorio Emanuele!!!
Mettete subito le mani sul bambino !!!!
Hitler temeva che il Re potesse abdicare a favore del bambino con sua madre Maria José reggente.
Gli italiani si sarebbero stretti attorno al bambino ed alla madre di grande bellezza, intelligenza ed acume politico come pochi dentro casa Savoia. Gli Italiani fascisti ed antifascisti avrebbero ricompattato l’esercito e ricreata l’unità nazionale.
Il tedesco conosceva bene Maria Josè e la sua ideologia politica (antitedesca, neanche monarchica ma repubblicana, di grande intelligenza e formazione, democratica di fatto).
Gli Italiani non si sarebbero arresi tanti facilmente, ma non tanto per la regina che era pur sempre una Savoia (nel maggio del 1945 fu colpita anche dalle ingiurie destinate a lei e al marito Umberto, senza alcun riguardo per la sua condizione femminile) ma per quella donna dalla faccia pulita, non compromessa né con Musolini e nemmeno con Hitler e neanche con i Savoia di cui non aveva nessun timore reverenziale. Elio Vittorini scrisse che era lei “l’uomo in famiglia”.
Era una democratica non solo di formazione ma lo era di natura. La giustizia, la democrazia, l’uguaglianza, la spontanea solidarietà gli erano innati.
Come abbiamo visto aiutava perfino la resistenza (comunisti, repubblicani, socialisti, liberali) esponendosi di persona, portando agli antifascisti (vestendosi da contadina, viaggiando sui treni tra Chiasso e Milano) perfino armi e soldi.  Un forte attivismo che portarono i partigiani, di ogni formazione ideologica, a chiederle di entrare nelle loro fila a combattere.
Cosa sarebbe successo in Italia se il re avesse abdicato a favore del piccolo Vittorio Emanuele con reggente Maria José?
Hitler non esagerava quando la definì come
La ideale reggente.
Nelle riviste e nei giornali dell’epoca non apparve mai nelle feste mondane ma nei salotti letterali, artistici, di geologia, archeologia, paleontologia.
In queste manifestazioni culturali non apparve mai come esperta ma nella sua semplicità come studiosa.
Nei salotti musicali, a 14 anni diede il suo primo concerto di violino e con il pianoforte, accompagnava il provetto violinista Alber Enstein. Per la sua grazia, l’eleganza raffinata e l’incantevole bellezza era da molte donne descritta come un fata.
Una fata che non faceva incantesimi ma che, con la sua grande umanità, si intratteneva con le persone semplici. A Torino la gente diceva che
A memoria d’uomo nessun reale si era mai rivolto a parlare con un popolano,
lo facevano solo quando andavano negli ospedali a visitare i feriti.
Maria Josè girava a Torino come una donna qualsiasi ma, nella realtà non era una donna qualsiasi, era una donna unica.
La popolazione amava Maria Josè:
- negli ambienti culturali perché aveva mille interessi;
- negli ambienti sportivi perché praticava molti sport con grande naturalezza;
- negli ambienti politici perché riusciva a fronteggiare il suocero, Mussolini e tante figure precarie (come oggi) della politica ed anche esponenti della cultura favorevoli al regime,
Amata dalla gente comune per la sua spontaneità che evidenziava nel lasciare i salotti dei nobili o le sale di concerto per guidare l’auto e raggiungere l’ambiente contadino o quello operaio per essere vicino alle problematiche sociale delle varie classi. Dava opere di beneficenza nel distribuire doni e mostrava una grande gentilezza. Fece scalpore a corte quando si trasferì a Roma e iscrisse la sua primogenita Maria Pia alla scuola pubblica più vicina al Quirinale e questo per avere la figlia più vicina e per continuare ad avere con lei un rapporto vivo, a tempo pieno, come tante altre madri consapevoli.
Un atteggiamento tipico della sua famiglia reale d’origine dove l’anticonformismo e la democraticità era delle costanti di reggenza. La madre, durante la guerra creò degli ospedali requisendo i grandi alberghi così come il padre Alberto che fu considerato come il primo e vero “monarca repubblicano” d’Europa.
A distruggere la monarchia sabauda non furono gli Italiani ma lo stesso sabaudo, con nessuna considerazione per il figlio Umberto e nemmeno per la nuora e il nipotino.

La reggenza data a Maria Josè non avrebbe avuto paragoni a confronto con la luogotenenza data all’impacciato Umerto che in un’intervista a Cascais, riportata da “Storia Illustrata” n. 308 del luglio 1983 raccontò che…
In quel luglio 25 luglio, io non sapevo nulla di quanto stava per accadere.
Non fui informato da nessuno.
Non dovevo essere assolutamente immischiato, o quanto mai immischiarmi, in questioni politiche.
Ebbi conoscenza dell’accaduto il giorno successivo. Me ne parlò brevemente, dapprima Acquarone, mell’anticamera di mio padre. Fu la prima ed unica volta che entrai
nello sudio di mio padre, il re, senza chiedere l’autorizzazione né attendere di essere chiamato.
Lui sedeva alla scrivania, e prima che io potessi aprir bocca, mi disse:
“Mussolini non c’è più, però le cose sono complicate.
Fatti spiegare tutto da Acquerone” e mi congedò.
Non riuscivo mai a parlare con mio padre, come volevo io.
Credo che si sarebbe dovuto ascoltare con maggiore attenzione il conte Grandi.
Io avrei voluto conoscerlo, ascoltarlo. Mi fu negato.
Mio padre affidò il governo a Badoglio. Ionon fui consultato né avvertito.
Badoglio venne fuori con quella infausta comunicazione
“La guerra continua”. Un annuncio, sottolineò il conte Grandi parlando con Acquarone che rendeva diffidenti gli “alleati” tratti a ritenere che non era il “fascismo” a volere la
guerra bensì l’intero popolo italiano. Inoltre, insospettiva i comandi tedeschi, i quali
non avrebbero data soverchia credibilità alla “volontà” italiana di seguitare la guerra, e
avrebbero senz’altro preparato le rappresaglie. Dome difatti avvenne.
Ci voleva poco a capire che si era sul punto di gettare il Paese in un mare di scaigure.
Non ho mai potuto stabilire perché si agì in quel modo, confuso e precipitoso.
Se Vittorio Emanuele III avesse concesso la reggenza fin dal 1943, probablmente l’Italia avrebbe voltato pagina e le famose “badogliate” non sarebbero accadute. Il sovrano avvrebbe dovuto buttare a mare il Badoglio, a Brindisi lo stesso sovrano rimase sconcertato dalle parole del Badoglio che voleva prendere il suo posto come reggente, e lo stesso sovrano avrebbe forse salvato la dinastia.
Casa Savoia e lo stesso Badoglio, nella loro scellerata politica, non pensarono alle reazioni di Hitler e non si preoccuparono nemmeno dei loro familiari.
Dal 25 luglio e fino all’8 settembre nessuno in casa Savoia, né tanto meno Badoglio e “combriccola”  pensarono a Maria Josè e ai suoi figli.
Nel momento in cui venne trasmesso il messaggio della “resa incondizionata” (Armistizio di Cassibile), che provocò un forte dramma in tutto il Paese, il Re  e soprattutto suo marito Umberto,  padre dei suoi figli, si stavano preparando nella notte nella fuga verso Brindisi. Dimenticarono come Maria Josè e i suoi quattro bambini (quindi anche l’erede al trono, il piccolo Vittorio Emanuele) si trovavano in quel momento, dall’estate, in Val d’Aosta nel castello “de La Sarre”.

Castello “de La Sarre” - Aosta


Il castello si trovava in una zona sicura?
No, perché il territorio era d’influenza tedesca e, subito dopo la proclamazione dell’Armistizio, la presenza tedesca aumentò.
Anche la residenza di S. Anna Valdieri (Torino), altra residenza estiva dei reali di casa Savoia, si trovava in un territorio controllato dai tedeschi.
Maria Josè venne a conoscenza, nella notte dell’8 settembre, assieme al colonnello Arena sua guardia del corpo, della firma dell’Armistizio di Cassibile.
L’Arena aveva una confidenza naturale che la principessa, dagli ideali democratici, gli aveva concesso e alla notizia dell’’armistizio espresse un giudizio poco lusinghiero nei confronti dei parenti di Maria Josè..
Quelli o si sono arresi o hanno tagliato la corda e ci hanno mollato qui.
Il colonnello aveva ragione, ma non si perse di coraggio. Prese il telefono e cercò per tutta la notte di chiamare Roma. Ma proprio in quel momento a Roma si stavano preparando le auto per la fuga verso Chieti.
L’Arena fece appena in tempo a parlare con il ministro della Real Casa Acquarone e l’unica cosa che lo stesso Aquarone gli referì…
Scappate anche voi, raggiungete in qualche modo la Svizzera.
Non si sa come avvenne questa fuga ma fu sicuramente molto drammatica dato che i valichi erano tutti controllati da tedeschi.

La stessa cosa accadde alla figlia Mafalda, secondogenita del Re Vittorio Emanuele III.
Mafalda di Savoia
(Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana)
Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944)
Figlia secondogenita di Vittorio Emanuele III e di Elena di Montenegro
Marito: Filippo d’Assia – Kassel
Figli/e: Maurizio, Enrico, Ottone, Elisabetta


I sovrani lasciarono partire la figlia (allora quarantunenne) da Roma il 28 agosto per recarsi ad onorare il cognato Boris di Bulgaria. (Boris III di Bulgaria, zar di Bulgaria, aveva sposato Giovanna di Savoia. Si dice che sia stato fatto uccidere da Hitler per non essersi schierato a fianco della Germania).

Il matrimonio tra Boris III di Bulgaria e Giovanna di Savoia ad Assisi
Il 7 settembre 1943 Mafalda ripartì da Sofia per rientrare in Italia.
Si sentiva tranquilla come figlia del Re d’Italia e soprattutto cittadina tedesca, principessa tedesca, moglie di un ufficiale delle SS e governatore tedesco. Era quindi sicura che i tedeschi l’avrebbero rispettata. L’8 settembre si fermò presso l’ambasciata italiana a Budapest.

Budapest – Ambasciata Italiana

Dall’Italia nessuno si preoccupò di avvisarla sulla firma dell’Armistizio. Il 9 settembre qualcuno la informò come i sovrani fossero a Chieti.
L’11 settembre prese un aereo di fortuna, fornito dai diplomatici italiani, con destinazione Bari.  L’aereo si fermò a Pescara, una città in mano ai tedeschi. La principessa raggiunse quindi Chieti ma non trovò nessuno dei suoi familiari. Per otto giorni si fermò a Chieti soggiornando in un palazzo vicino alla Prefettura. I tedeschi di Kesselring erano impegnati nella liberazione di Mussolini.
L’univa via di salvezza sarebbe stata la fuga ma Mafalda aveva a Roma i figli.

Mafalda, La Principessa Coraggiosa, con i figli.
Mafalda sposò Filippo d’Assia.
Dal matrimonio nacquero 4 figli/e:
Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta

Mafalda di Savoia con i figli Maurizio ed Enrico negli anni '30

Con grande coraggio partì per Roma che era in mano ai tedeschi.
Per fare duecento chilometri impiegò dieci giorni, giungendo a Roma, con mezzi di fortuna, solo il 22 settembre 1943. Fece appena in tempo a rivedere i figli, custoditi in Vaticano dal cardinale Montini (futuro papa Paolo VI). Non vide il figlio maggiore, Maurizio, che era in Germania con il padre.
La mattina del 23 settembre fu chiamata, con urgenza, al comando tedesco per l’arrivo di una chiamata del marito da Kassel in Germania. Era in realtà un tragico inganno creato dall’ufficiale tedesco Herbert Kappler, comandante del Servizio Segreto delle SS e della Gestapo a Roma.
Il marito si trova nel campo di concentramento di Flossenburg.
Fu arrestato dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, perché ritenuto da Hitler colpevole di aver preso parte, insieme al suocero Vittorio Emanuele III, alla congiura che aveva portato alla destituzione di Mussolini.
Fu arrestata, messa in un aereo con destinazione Monaco di Baviera. Fu quindi trasferita a Berlino ed infine deportata nel Lager di Buchenwald.
Venne rinchiusa nella baracca n. 15 sotto il falso nome di von Weber, venendole fatto divieto di rivelare la propria vera identità. Per scherno, i nazisti la chiamavano
“Frau Abeba” (Signora Fiore).
Il campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio 1937, fu uno fra i più grandi campi della Germania nazista. Si trovava a circa 8 km da Weimar.
«Prima della presa di potere dei nazisti, Weimar era meglio conosciuta come la casa di Johann Wolfgang von Goethe, che ha incarnato l'illuminismo tedesco del XVIII secolo, e come il luogo di nascita della democrazia costituzionale tedesca nel 1919, la Repubblica di Weimar. Durante il regime nazista, il termine "Weimar" fu associato al campo di concentramento di Buchenwald.»
Nel campo di concentramento le fu riconosciuto un particolare riguardo:
- occupava una baracca ai margini del campo insieme ad un ex ministro socialdemocratico Rudolf Breitscheid e sua moglie;
- aveva lo stesso vitto degli ufficiali delle SS, molto più abbondante e di migliore qualità rispetto agli altri internati.
Le venne assegnata come compagna di camera Maria Ruhnau, testimone di Geova, deportata per motivi religiosi. La Ruhnau fu una figura molto importante per la principessa, la quale in punto di morte chiese che il suo orologio le fosse regalato come segno di riconoscenza.
"Mettendola accanto a Mafalda, le SS erano sicure che, interrogandola, avrebbe riferito tutto quanto la principessa le avesse confidato".
Il trattamento, pur privilegiato rispetto a quello di altri prigionieri, fu comunque duro. La vita del campo e il freddo invernale intenso la resero debole. Malgrado il tentativo di segretezza attuato dai nazisti, la notizia che la figlia del re d'Italia si trovasse a Buchenwald si diffuse. Le testimonianze riportarono come i prigionieri italiani avevano sentito dire di una principessa italiana reclusa e che un medico italiano lì rinchiuso le aveva prestato soccorso. Si sa anche che mangiava pochissimo e che quando poteva faceva in modo che quel poco che le arrivava in più fosse distribuito a chi aveva più bisogno di lei.
Nell'agosto del 1944 le truppe alleate bombardarono il lager; la baracca in cui era prigioniera la principessa fu distrutta e Mafalda riportò gravi ustioni e contusioni varie su tutto il corpo. Fu diseppellita dai deportati Bruno Praticello e Giovanni Marcato e ricoverata nell'infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del lager. Non fu sottoposta a delle terapie e le sue condizioni peggiorarono. Dopo quattro giorni di tormenti, a causa delle piaghe insorse la gangrena ed in una lunga operazione le fu amputato un braccio. Ancora addormentata, Mafalda venne abbandonata in una stanza del postribolo, privata di ulteriori cure e lasciata a se stessa. Morì dissanguata, senza aver ripreso conoscenza, nella notte del 28 agosto 1944.  Sembra che, poco prima di morire, abbia detto ai deportati che la salvarono:
Sento che per me sarà difficile guarire, voi siete giovani, potete farcela… Se mai la fortuna vi aiuterà a tornare fatemi un bel regalo… salutatemi i miei figli Maurizio, Enrico, Ottone e Elisabetta. Salutatemi tutta l’Italia dalle Alpi alla Sicilia.
Secondo altre testimonianze, quando fu diseppellita Mafalda
venne stesa su una scala a pioli per essere trasportata nella casupola che era stata adibita a infermeria. Nel tragitto notò due italiani dalla "I" che avevano cucita sulla giubba. Fece segno di avvicinarsi col braccio non ferito e disse loro:
«Italiani, io muoio, ricordatevi di me non come di una principessa,
ma come di una vostra sorella italiana»
(Deposizione giurata dei fratelli Vittorio e Rino Rizzo, depositata nel 1945 presso il notaio Conti di Udine).
L'opinione del dottor Fausto Pecorari, 
Dott. Fausto Pecorari
radiologo internato a Buchenwald, fu che
Mafalda sia stata intenzionalmente operata in ritardo,
seppur con procedura in sé impeccabile, per provocarne la morte.
Il metodo delle operazioni esageratamente lunghe o ritardate era già stato applicato
a Buchenwald ed eseguito sempre dalle SS su alte personalità di cui si desiderava sbarazzarsi.
Grazie all'intervento del prete boemo del campo, padre Joseph Tyll, il corpo della principessa non venne cremato, ma messo in una bara di legno e seppellito in una fossa comune. Come identificativo, venne apposto soltanto un numero e una dicitura:
«262 eine unbekannte Frau» ("una donna sconosciuta").

Trascorsi alcuni mesi, sette italiani, Corrado Magnani, Antonio Mitrano, Erasmo Pasciuto, Antonio Ruggiero, Apostolo Fusco, Giovanni Colaruotolo e Giosuè Avallone, già appartenenti alla regia marina e tutti originari di Gaeta, catturati al deposito militare di Pola dopo l'8 settembre 1943, furono deportati a Weimar, dove rimasero fino al luglio 1945, quando furono liberati dagli americani.
Nelle vicinanze del loro campo c'era il lager di Buchenwald, dove avevano saputo era prigioniera la principessa Mafalda di Savoia, insieme a ebrei e politici. Appena dopo la liberazione, i marinai decisero di recarsi al vicino campo di concentramento per mettersi alla ricerca della principessa e seppero trovare fra tante la sua tomba anonima e si tassarono per apporvi una lapide identificativa.

“Il campo dove era sepolta Mafalda era un riquadro di terra spoglia, a zolle, con paletti numerati e senza quasi alcun segno di attenzione umana. Dal custode avevamo saputo che la tomba era contraddistinta con il numero 262. Per essere sicuri estraemmo il paletto e verificammo che recava scalfito un nome: Mafalda. Per noi, quello fu un momento di intensa commozione. Mafalda non era più una principessa: era una come noi, una donna sfortunata, una deportata che non ce l’aveva fatta. Decidemmo di adornare come meglio possibile quella tomba. Barattando con pane, farina ed alcuni marchi, ci procurammo una croce, delle catenelle ed una lapide che collocammo sulla tomba di Mafalda”. La Repubblica Italiana, nel 1995, ha dedicato un francobollo a Mafalda di Savoia e alla sua triste vicenda tragicamente terminata in un campo di sterminio nazista.
La salma della principessa fu traslata nel 1951 nel piccolo cimitero di famiglia a Kronberg. Quella croce ancora oggi è collocata sulla tomba di Mafalda. Sotto la croce c’è sempre la lapide con la dedica “A Mafalda di Savoia, i marinai della città di Gaeta“.
– Sottocapo segnalatore MAGNANI Corrado;
– Cannoniere MITRANO Antonio;
– Marò RUGGIERI Antonio;
– Fuochista COLARUOTOLO Giovanni;
– Cannoniere PASCIUTO Erasmo;
– Marò AVALLONE Giosuè;
– Nocchiere FUSCO Apostolo.
Il dottor Fausto Pecorari, subito dopo essere rientrato a Trieste, si recò personalmente a Roma dal regio luogotenente principe Umberto per comunicargli la triste notizia del decesso per assassinio della principessa Mafalda. La principessa Mafalda riposa oggi nel piccolo cimitero degli Assia, nell'antica Burg di Kronberg in Taunus, vicino a Francoforte sul Meno.

Nozze di Filippo D’Assia e Mafalda di Savoia – 23 settembre 1925


Per andare al comando tedesco si vestì, pensando che si trattasse di un impegno  di pochi muniti, con un modesto vestito nero.
Con quel vestito fu quindi arrestata, con quello partirà e per ben undici mesi avrà sempre quel vestito addosso e, sempre con quel vestito, morirà.
La Chiesa dedicò una preghiera a Mafalda di Savoia con approvazione ecclesiastica del Vescovo Giuseppe Gagnor, Napoli, 18 novembre 1945

Pietosissimo Iddio, che nei Tuoi imperscrutabili disegni, permettesti che la Tua serva Mafalda, nata e vissuta nella regalità della corte, si dipartisse da questa terra in seguito alle sofferenze ed all'abbandono vissuto negli ultimi mesi della sua esistenza terrena, lontano dalle cure e dall'affetto dei suoi, umiliata e vilipesa in suolo nemico, accetta il suo sacrificio!
Fà che ella, spiritualmente ricollegata alle grandi donne della sua casa che la precedettero, in una dinastia di Santi e di Eroi, ascenda presto alla Beatitudine del Regno dei Cieli, onde intercedere presso di Te per la grandezza del Regno d'Italia.
Così sia.
…………………………….

Hitler credeva che il figlio di Maria Jose, il principe ereditario, si trovasse a Roma mentre in realtà si trovava in Piemonte.
Ma i reggenti, compreso Badoglio e C., stavano veramente scappando verso Sud?
Chieti e Pescara erano in mano ai tedeschi e più volte furono bombardate in modo selvaggio dagli anglo-americani, non solo prima ma anche dopo l’8 settembre.
Il Re Vittorio Emanuele III aveva pensato solo ad una cosa e cioè di mandare con un treno tedesco, in Svizzera, ben 41 vagoni ferroviari pieni di tesori, opere d’arte, documenti e suppellettili. Treno con destinazione Ginevra. Un Tesoro che non arrivò mai a destinazione.
I Savoia con quel comportamento stavano mettendo a rischio la loro dinastia. Un comportamento irrazionale e disonorevole mentre  Hitler  mostrava una sua feroce lucidità e puntava sul principino per un motivo molto semplice…
conosceva gli italiani meglio dei Savoia.
Lo stesso Hitler non si fidava di Vittorio Emanuele III
Non aveva mai creduto che Vittorio Emanuele III lo avrebbe onorato.
In questo momento di grande confusione era opinione diffusa, anche da parte del Badoglio, di fare abdicare il re, far rinunciare al figlio Umberto il trono e mettere il bambino Vittorio Emanuele sul trono con un reggente.
A Brindisi il Badoglio si rivolse al re, in data 24 ottobre, con una lettera con la quale invitava il Re alla necessità di abdicare, e chiaramente, tra le righe della lettera, si proponeva lui come reggente del bambino (affermando che era il CNL – Comitato di Liberazione Nazionale – a chiederlo).

 LETTERA DI BADOGLIO AL RE
Brindisi 24 ottobre 1943
BADOGLIO INVITA IL RE E SUO FIGLIO AD ABDICARE E MIRA
ALLA REGGENZA DEL PICCOLO VITTORIO EMANUELE
 
Maestà,
nell'ultimo colloquio che ho avuto con Vostra Maestà, ho brevemente accennato alle idee ed ai propositi manifestati dagli elementi più rappresentativi dei gruppi politici che si sono costituiti da tempo in Italia.
Ora ho avuto altre notizie più precise da un funzionario degli Esteri, giunto dalla capitale, e posso quindi svolgere più ampiamente questa per me veramente angosciosa questione.
I gruppi politici sono il Liberale, il Cristiano Sociale, il Partito d'Azione, il Partito Socialista, il Comunista. Questi gruppi si sono riuniti in un fronte unico che ha distaccamenti in tutte le principali città.
Loro intendimento preciso è il seguente:
1) Assumere essi il governo designando, essi stessi, i singoli ministri.
2) Abdicazione di V.M. e rinuncia di S.A.R. il Principe di Piemonte di salire al trono.
3) Elevazione a Re del figlio di S.A.R. il Principe di Piemonte con un reggente.
Circa il modo di raggiungere questi risultati, mi consta che essi, per ora, hanno manifestato l'intenzione di creare senz'altro un Governo ed una Costituente non appena liberata Roma dai tedeschi e prima che Vostra Maestà, col Governo regolare, possa giungervi.
Soggiungo ancora, per non tacere nulla a Vostra Maestà, che è loro intenzione, e me lo ha confermato il conte Sforza, che sia io ad assumere la carica di Reggente. (!!!!! Ndr.)
La questione così formulata è, secondo il mio avviso, di una gravità veramente eccezionale. Il sorgere di questo nuovo Governo verrebbe a gettare lo scompiglio in tutte le forze che si sono schierate contro i tedeschi, dando -per contro - vigore e motivo per un'attiva campagna propagandistica al pseudo governo fascista repubblicano.
Come contenersi se questa circostanza si avvera?
Non mi sembra ammissibile di ricorrere agli anglo - americani, dato poi che essi aderiscano, perché allora Vostra Maestà ed il Suo Governo avrebbero ricorso alle armi straniere per restare al potere. Né ritengo prudente far sincero affidamento sulle nostre forze, dato che troppi fermenti esistono in esse, sì che la loro compagine è quanto mai precaria.
Confesso, Maestà, che, per quanto io mi affatichi per trovare una via di uscita, non mi è ancor dato di averla trovata.
Rimanderò quel funzionario a Roma con questa missione:
1) Convincere i dirigenti dei partiti a non far nulla sino a che
il Governo di Vostra Maestà non sia a Roma.
2) Non appena a Roma, io, in esecuzione della dichiarazione fatta
nel proclama di guerra alla Germania, li avrei chiamati per sentire
precisamente le loro idee circa la formazione del governo.
3) Che qualora essi fossero decisi a non collaborare con me come
Capo del Governo, io avrei presentato le dimissioni a Vostra Maestà.
4) Che Vostra Maestà, dopo, avrebbe preso quelle decisioni che reputava migliori.
Se si riuscisse ad ottenere ciò si eviterebbero scosse violente e, ad ogni modo, si avrebbe una maggiore parvenza di legalità.
Ma questa non é che una mia proposta, che non so quale seguito possa avere. Ad ogni modo in settimana vedrò ancora il conte Sforza ed insisterò presso di lui perché induca i capi partito ad attenersi a quanto proposto.
Vostra Maestà, nella Sua alta saggezza, prenderà le Sue decisioni, e mi darà, per conseguenza, le Sue direttive.
lo, che come Vostra Maestà ben sa e da molto tempo, sono devotamente affezionato sia a Vostra Maestà sia all'Istituto Monarchico, ho solo il preciso obbligo morale d'informarLa che il conte Sforza, che pur ritiene necessaria l'esistenza della Monarchia per l'unità della Patria, mi ha recisamente dichiarato che il rifiuto di Vostra Maestà potrebbe portare, di conseguenza, la caduta della Monarchia.
lo non ho ancora toccato con il generale Eisenhower questi argomenti. So però, perché me ne ha francamente parlato, che il colonnello Rosbery, capo dell'Intelligence Service Politico ne é perfettamente al corrente.
Ed io attendo gli ordini di Vostra Maestà per sapere se debbo o meno intervenire presso il generale Eisenhower ed in quali termini.
Quanto sopra io ho scritto con un dolore gravissimo,
ma convinto di compiere interamente il mio dovere.
Di Vostra Maestà devotissimo PIETRO BADOGLIO

La  presenza della lettera si diffuse e a Brindisi si parlò subito di tradimento e si accusò il Badoglio di voler boicottare il Sovrano per salvare se stesso.
Vittorio Emanuele non ebbe una buona impressione del suo “fidato” Badoglio.
Erano chiare le mire del Badoglio alla reggenza e il sovrano lo avvertì che
Secondo lo Statuto, ciò era impossibile, dovendo essere il reggente un principe della Casa Reale.
Per molto tempo i due non si parlarono e il Sovrano fece sua l’idea, scoprendo in ritardo
Chi era veramente il Badoglio e che il 25 luglio (caduta del fascismo) si era fatto “giocare”.
Come poté  la principessa Maria Josè fidarsi di due personaggi come Badoglio  e Rodolfo Graziani nel progettato colpo di Stato del 1938?
Gli altri esponenti del complotto, molti dei quali rimasero sconosciuti, non percepirono le ambiguità caratteriali dei due generali? Eppure le loro azioni criminali, gli eccidi e l'uso di armi chimiche,  erano conosciute così come le loro ideologie politiche e sociali certamente non improntate al rispetto dei principi etico-sociali in un Paese devastato dal fascismo …
La principessa Maria Josè visse quegli aspetti drammatici del colonialismo perché era una Crocerossina e fu anche in Etiopia.
Il 4 aprile 1941, il giornale “Corriere della Sera” riportò un articolo
Continuando le sue visite alle cliniche e agli ospedali milanesi che ospitano feriti di guerra, la Principessa di Piemonte è stata ieri mattina
all’Istituto Neurologico Pro Feriti Cerebrali Vittorio Emanuele III.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale la Principessa era una figura molto presente nelle nelle corsie degli ospedali italiani che accoglievano quotidianamente i soldati feriti giunti dai campi di battaglia dell’Africa, della Francia, della Grecia e successivamente dell’Unione Sovietica
Tra il 1939 ed il 1946, come Ispettrice Nazione delle Infermiere Volontarie, fu molto attiva nel portare confronto alle vittime della guerra colpite nelle spirito e nel corpo.
“Maria di Piemonte si è subito recata nel reparto che ospita i feriti di guerra e ha sostato a lungo a ciascun capezzale, intrattenendosi con i degenti e rivolgendo loro espressioni di conforto”.

https://segretidellastoria.wordpress.com/wp-content/uploads/2020/11/maria-jose-visita-i-feriti.jpg
Tenendo fede alle parole d’ordine delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa (Ama, Conforta, Lavora, Salva), Maria José del Belgio, Principessa nonché sposa dell’erede al trono di Casa Savoia Umberto II
Nel 1936 da crocerossina si trovava ad operare con grande umanità e sacrificio in Etiopia, in piena guerra anche chimica.
Era partita a bordo della “Cesarea”, una delle tante navi bianche che diventeranno il simbolo delle Crocerossine.
Su una di queste, la Po, presterà servizio la stessa figlia di Benito Mussolini, Edda Ciano, salvandosi miracolosamente dall’affondamento avvenuto nella Baia di Valona nel marzo 1941.
Le sue visite negli ospedali, durante il conflitto, saranno numerosissime..
Maria di Piemonte si è recata poi al Padiglione dei Mutilati del viso, dove sono ricoverati feriti reduci dell’Africa Orientale, della Spagna e dell’attuale guerra.
 
Maria José non avrebbe fatto visita solamente a quanti rientravano dai fronti di battaglia. Un forte legame si sarebbe instaurato con tutti quei civili rimasti vittime dei bombardamenti, mutilati dalle esplosioni delle bombe sganciate sulle città italiane dai velivoli alleati e dagli attacchi costieri delle flotte nemiche: si mobilitò fin da subito, come accadde a Genova, quando si recò in visita alle vittime del bombardamento degli impianti industriali operato dalla flotta francese pochi giorni 
dopo l’inizio del conflitto.
 La sua opera non fu fermata neanche dal terribile conflitto sul suolo italiano e, rischiando in prima persona, si recò anche sulla linea del fronte.
Lei stessa affermò mentre si trova in esilio dopo il referendum tra Monarchia e Repubblica…
Non c’era tempo per le nostalgie. Mancavano le bende, i farmaci e gli stessi letti per i feriti. La mia presenza fra le corsie ridava morale alle famiglie e al personale medico che, in quella situazione, si sentiva abbandonato a se stesso. Ovviamente non c’erano grandi fondi da utilizzare, tuttavia con le altre Crocerossine riuscimmo a dar vita a una catena di solidarietà:
ognuno metteva a disposizione ciò che poteva.
La sua grande opera di umanità  fu interrotta il 6 giugno 1946 quando l’incrociatore Duca degli Abruzzi la condusse al suo esilio in Portogallo. Per ironia della sorte l’incrociatore salpò da Molo Beverello di Napoli.. Lo stesso molo l’aveva vista partire come Crocerossina nel 1936 alla volta dell’Etiopia.

Maria Josè (vestita da crocerossina) colta con una suora, una personalità (probabilmente del governo coloniale) e alcuni marinai nei pressi di un padiglione
Data: Aprile 1936
https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/imageViewPort/720?imageName=AO/AO144/AO00009721.JPG

Maria Josè in partenza da Mogadiscio

Che altro dire della principessa Maria Josè?
Aveva un’indole allegra e spensierata, cresciuta senza tante imposizioni  coltivando molti interessi: pianoforte e violino, praticando molti  sport e dimostrando un grande amore per la lettura. A sette anni si esibì interpretando Brahams al pianoforte. La corte del padre era una delle più libere dell'epoca, frequentata dai migliori cervelli: Einstein a volte vi suonava il violino accompagnato al pianoforte dalla regina Elisabetta.
Il primo incontro con Umberto di Savoia avvenne durante la  Grande Guerra, nel 1918. I reali del Belgio erano in visita al fronte italiano a Battaglia Terme, vicino Padova. Maria Josè aveva dodici anni e Umberto quattordici. Secondo cronisti se ne innamorò perdutamente e Maria José scrisse di essere stata allevata ed educata  nell'idea che un giorno avrebbe sposato Umberto.
Maria José  aveva capelli castani crespi e occhi chiarissimi.
Studiò in Inghilterra dal 1914 al 1917, quando il Belgio fu occupato la prima volta dai tedeschi, poi in Italia, nel Collegio dell'Annunziata di Poggio Imperiale, presso Firenze, con i figli della migliore nobiltà italiana ed europea. Dicono che sul suo comodino ci fosse  una fotografia di Umberto.


Il 7 settembre del 1929, il giovane principe, al quale si attribuirono innumerevoli storie e che sembra abbia tentato di rimandare più volte il matrimonio, su preciso ordine di Vittorio Emanuele III, chiese ufficialmente la mano della principessa belga.
Maria José disse ai genitori:
Et maintenant c'est faite (E ora è fatta!).
Il fidanzamento ufficiale con Umberto avvenne il 24 ottobre del 1929, durante una visita del principe sabaudo in Belgio. Lo stesso giorno Ferdinando De Rosa, un giovane anarchico italiano della Concentrazione antifascista attentò alla vita del principe senza riuscirvi. 

Ferdinando De Rosa
(Milano, 7 ottobre 1908 – Guadarrama, Spegna, 16 settembre 1936)

Sarà condannato a soli cinque anni di carcere per intercessione dello stesso Umberto.
Il matrimonio era stato deciso da tempo  dalle due case regnanti per rinsaldare i rapporti tra il Belgio e l'Italia, ciononostante fu preceduto da un ''romantico fidanzamento”.
Malgrado le lettere di dissenso inviate dai suoi sudditi, che non vedono di buon occhio il matrimonio con il principe di una nazione fascista, l'8 gennaio del 1930 si celebrò il matrimonio. Tre giorni no-stop di feste costate cinque milioni di lire, ai tempi in cui si cantava "se potessi avere per mille lire al mese!".
La cerimonia si svolse nella cappella Paolina del Quirinale; Maria José indossava un abito disegnato da Umberto, con strascico di sette metri ornato d'ermellino, sul capo un pizzo di Bruges e un diadema dei Savoia che giudicò troppo sontuoso e pesante.
La mattina delle nozze un attimo di panico: le maniche erano troppo strette e le braccia della principessa non entravano. La principessa trovò la soluzione: braccia scoperte dalla spalla al gomito e guanti lunghi.
Pioveva: sposa bagnata, sposa fortunata. 
Allo scambio degli anelli un volo di centinaia di colombe bianche.
Poi gli sposi furono ricevuti dal papa. Ci furono tre giorni di grande festa e poi il viaggio di nozze.
San Rossore e poi Courmayeur, ospiti del Conte Eugenio Marone Cinzano e della moglie Noemí Rosa de Alcorta Mansilla

Noemí Rosa de Alcorta Mansilla
Deceduta il 9 novembre 1937 (martedì) - Paris, all'età di 30 anni

Nessuna intimità, la villa è piena di amici, Maria José comincia a temere per il suo matrimonio.
Dopo una breve residenza nel Palazzo Reale di Torino, il padre li trasferì a Napoli dove Umberto fu promosso generale. (forse anche perché circolavano chiacchiere sulle innumerevoli avventure di Umberto).
Gli sposi vissero gli anni seguenti tra il palazzo reale di Torino, il castello di Racconigi, Napoli e il castello di Sarre in Val d'Aosta. 
Nel 1934, i maligni del tempo dicono grazie all'inseminazione artificiale, nacque la prima figlia Maria Pia, poi arrivano nel 1937 Vittorio Emanuele, nel 1940 Maria Gabriella e nel 1943 Maria Beatrice.
Maria Pia assomiglia moltissimo al padre, Maria Gabriella e Vittorio Emanuele, invece potrebbero essere cloni della madre, e Maria Beatrice ha il volto della madre bambina.
Il suo rapporto con Umberto comunque ebbe molti problemi. I pettegolezzi sui tradimenti del principe non si contarono e non mancarono le insinuazioni anche su di lei (cj furono le parole volgari espressi dal Toscanini).
Era  considerata snob, sofisticata, la chiamavano la "belga", "negresse blonde" per quei suoi capelli impossibili. Volevano  italianizzare il suo nome in Maria Giuseppina ma si ribellò, e i giornali la chiamarono "Maria di Piemonte".
Durante la sua vita coniugale Maria José scalò il Cervino e il Rosa,  dichiarando che
se non fosse quello che è, sarebbe contro tutte le dinastie.
Il padre Alberto I fu un appassionato alpinista e Maria Josè fece sua anche la passione, l’amore per la montagna.
Amava la natura severa ed autentica delle montagne soprattutto per quelle valdostane.
D’altra parte la Val d’Aosta fu frequentata spesso da Maria Josè. In viaggio di nozze si recò con il marito Umberto a Courmayeur. Bellissima ed elegante, mostrando anche una grande raffinatezza e sobrietà anche sulle piste da sci.

La coppia reale sugli sci a Courmayeur per la luna di miele – 1930
(dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”, di M. Fresia Paparazzo)
Maria Josè amava rifugiarsi, con i fgli/e, tra la roccia ed i boschi e per questo motivo aveva come base il Castello Reale di Sarre.
Dal castello dava sfogo ad escursioni, campeggi come nell’alta Val d’Ayas.
Mostro le doti di grande alpinista riuscendo a salire in vetta al Monte Bianco e al Cervino.
La principessa, dagli stupendi occhi di ghiaccio, riuscì ad assicurarsi la grande stima delle guide alpine e soprattutto, un aspetto importante per la sua grande umanità e piacere di stare con la gente comune, anche l’amore della popolazione locale.
Imprese che furono riportate dalla cronaca del tempo.
Una sua eleganza misurata e per nulla vistosa…
Assolutamente alla moda nell’estate del 1937 quando si perde ad osservare
col cannocchiale il paesaggio delle Cime Bianche: una camicetta bianca ed
un paio di pantaloni molto ampi leggermente scampanati, parrebbe in “Principe di Galles”, tagliati sotto il polpaccio e trattenuti in vita da una fusciacca.

Maria Josè alle Cime Bianche
(dal libro “Umberto e Maria José di Savoia. Escursioni e soggiorni in Valle d’Aosta”,
di M. Fresia Paparazzo)

Maria José fu la prima ad utilizzare scarponi tecnici con suola in Vibram abbandonando quelli con suola chiodata!
Nel maggio del 1938 incontrò Hitler a Roma. A tavola era seduto accanto a lei,  compassato e glaciale, mangiò un pezzo di cioccolata con forchetta e coltello, e biscotti al posto del pane. Vittorio Emanuele III, non appena Hitler gli voltava le spalle, faceva smorfie di raccapriccio e lei e il marito temevano potessero esser viste dal seguito del dittatore. Anche Pio XI manifestò il suo dissenso per la visita del tedesco non ricevendolo. Si chiuse  a Castel Gandolfo, facendo chiudere i Musei Vaticani e spegnendo le luci delle chiese quando le città erano illuminate a giorno in suo onore.
Essendo cresciuta in un paese democratico, dove erano presenti gli ideali di giustizia, di libertà, uguaglianza e difesa dei più poveri, manifestò insofferenza nei confronti delle restrizioni imposte dal regime fascista.
In Libia la futura regina conobbe Italo Balbo governatore della colonia italiana, e gli confidò i suoi dubbi nei confronti del fascismo.
Nell'ottobre del1940, Maria José andò da Hitler per chiedergli, su richiesta del re del Belgio invaso dai nazisti, grano per la popolazione affamata e libertà per i prigionieri. Venne ricevuta dal dittatore, che la definì
"il perfetto modello di una principessa ariana" ma non le concesse nulla.
Nel 1943 per i suoi contatti con gli antifascisti fu reclusa, dal suocero Vittorio Emanuele III, a Sant’Anna di Valdieri.
Nel 1942 cercò di mediare per un trattato di pace con l’aiuto del presidente del Portogallo Salazar ma gli alleati rifiutarono ogni trattativa.
Quando fu annunciata la firma dell’armistizio di Cassibile, Maria Josè con i figli/e fuggi in Svizzera accompagna dal colonnello medico Francesco Arena (nella ricerca fu già citata questa fuga non priva di difficoltà e pericoli per la presenza dei tedeschi).
Raggiunsero Montreux (Svizzera) per posi spostarsi a Glion, frazione del comune di Montreux, nel Canton Vaud.
Uno spostamento necessario perché la polizia elvetica era venuta a conoscenza di un piano di Hitler per rapire il piccolo Vittorio Emanuele.



Da Glion si spostarono e si stabilirono a Oberhofen, sul lago di Thun.

A Oberhofen Maria José riprese i contatti con le persone con cui aveva collaborato precedentemente al colpo di Stato, in particolare con Luigi Einaudi, anch'egli riparato in Svizzera. Cercò di unirsi alla Resistenza, ma le autorità elvetiche la sorvegliavano strettamente. Riuscì comunque, in diverse occasioni, a trasportare armi per i partigiani.
Solo nel febbraio 1945 Maria Josè si decise di rientrare in Italia, proprio quando la Germania stava per cadere.
Un viaggio durissimo in pieno inverno e con gli sci ai piedi attraversò il confine sulle Alpi, scortata da due guide e dai pochi uomini che le erano rimasti vicino. Ad accoglierla in Italia c'erano i partigiani, che la scortarono fino a Racconigi. Qui attese fino al giugno seguente, quando fu mandato un aereo per portarla a Roma, dove ad aspettarla c'era Umberto. Non si vedevano da circa due anni. Ad agosto andarono a prendere i bambini e la famiglia fu di nuovo riunita.
Secondo un’altra versione rientro, sempre a piedi, nel castello si Sarre. Dal Castello gli alleati la scortarono al palazzo Reale di Torino, il 28 maggio 1945, che era la sede del comando inglese.
In quei giorni Maria José incontrò anche Palmiro Togliatti e successivamente dichiarerà di simpatizzare per Saragat e il socialismo.
Il 9 maggio del 1946, gli Alleati e De Gasperi capo del governo, convinsero il vecchio re a passare i poteri al  figlio. Un referendum avrebbe deciso il passaggio, o meno, dell'Italia alla forma repubblicana.
Umberto e Maria José si batterono abilmente per la causa monarchica ricorrendo perfino ad esperti di pubblicità americani. Il Quirinale si riaprì alle feste, ai ricevimenti, il nuovo re viaggiò in lungo e in largo per l'Italia in un'autentica campagna elettorale con conseguente grande ricupero di consensi, che, tuttavia non furono sufficienti.
Molti studiosi concordano che se Vittorio Emanuele avesse abdicato prima forse il referendum non avrebbe sancito la vittoria della Repubblica.
Il 13 giugno 1946, Umberto lasciò l'Italia a bordo di un Savoia Marchetti e volò verso il Portogallo. Maria José, invece, partì con i ragazzi il 6 giugno da Napoli, a bordo del Duca degli Abruzzi, destinazione Sintra passando per Lisbona.
Il loro regno durò ventisette giorni, resteranno nella storia come il "re e la regina di maggio".
Nel 1948 la XIII norma transitoria e finale della Costituzione italiana stabilì il divieto di ingresso e di soggiorno sul territorio nazionale per gli ex re d'Italia, le loro consorti ed i loro discendenti maschi.

La nuova situazione giuridica liberò Maria Josè ed Umberto dall'obbligo di fingere di essere una coppia unita.
Lui resterà a Cascais, a Villa Italia, per ripercorrere le orme di Carlo Alberto,  lei compera il castello di Merlinge, in Svizzera, e continueranno la loro vita separati, incontrandosi solo nelle occasioni ufficiali.

Villa Italia – Cascais (Portogallo)
(oggi Hotel)

Castello di Merlinge, in Svizzera
I figli crescendo daranno non poche preoccupazioni con le loro esuberanze, Maria José fu colpita da guai alla vista, ma questo non le impedì di vivere freneticamente. Una gran viaggiatrice e un'accanita fumatrice, una vita sportiva e continuò ad occuparsi di opere filantropiche ed umanitarie, coltivando la passione per la musica e la letteratura. Brava pianista, istituì vari premi musicali. Fu anche scrittrice pubblicando con la Mondadori uno studio su Amedeo VIII.
Rimase molto legata all'Italia e prima del sì al suo rientro in Italia disposto dal Consiglio dei ministri il 23 dicembre 1987, i giornali diedero più volte notizia delle sua presenza clandestina sul territorio nazionale.
La sua prima visita legale in Italia avviene nel 1 marzo 1988: un viaggio ad Aosta per assistere ad un convegno storico, dedicato alla figura di Sant'Anselmo. Nel luglio 1990 Maria Josè chiese allo Stato italiano la pensione come vedova di un ufficiale dell'esercito. Nel 1992 si trasferì in Messico, per poi ritornare nel 1996 presso la figlia Maria Gabriella a Ginevra.
La morte la colpì a Ginevra, il 27 gennaio del 2001. Per suo espresso volere venne sepolta nella storica abbazia di Altacomba, in Alta Savoia, dove dal marzo del 1983 riposa anche la salma del marito Umberto.

Abbazia di Altacomba
Saint-Pierre-de-Curtille, Francia
https://www.flickr.com/photos/marco_ottaviani/5489829204


Tomba di Maria Josè e di Umberto

Di lei Elio Vittorini disse:
"Era Maria Josè l'uomo di famiglia".

Alla sua morte tanti commenti positivi…
regina di maggio, l'ultima sovrana d'Italia, donna ardita, ribelle, intelligente, colta, antifascista, dedita alle buone azioni ed alla beneficenza, regina repubblicana, partigiana, picconatrice, capitata nella famiglia sbagliata.
Ma anche negativi e forse non obiettivi
non la si può considerare amante della libertà perché ha fatto visita al comunista Mao, che la beneficenza era l'attività che garantiva la fama delle precedenti regine, e, addirittura che un'educazione troppo liberale ne ha fatto una capricciosa irresponsabile ribelle...
Ogni lettore, in base al proprio essere ed alla propria cultura, sarà in grado di giudicare Maria Josè che considero una figura dimenticata dalla Storia che purtroppo non è mai obiettiva…….




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