I lUOGHI DI GOETHE: La locanda "Fondaco Cuba" di Centuripe (Enna) e l'albergo "Leon D'Oro" di Catania - Il diario di Goethe sulla visita di Catania - La principessa Anna Maria Morso Bonanno.

 





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La locanda di Goethe, detta anche “Fondaco Cuba”, si trova a poca distanza da Catenanuova.
Un antico edificio, purtroppo abbandonato, che nel 1985 fu dichiarato di notevole interesse storico da parte della Soprintendenza Regionale ai Beni Architettonici ed Ambientali di Enna (nel 1985).
In questo casolare di campagna, oltre due secoli fa, il 30 aprile 1787, vi pernottò il poeta tedesco Johann Wolfgang Von Goethe proveniente da Enna. Goethe lasciò la testimonianza, del suo pernottamento nella locanda, nel suo libro “Viaggio in Italia”.
Di grande importanza era la  sua posizione perché si trovava lungo il percorso della “Regia Trazzera” che metteva in comunicazione i paesi dell’entroterra (tra cui Enna) con i centri orientali dell’isola  e in particolare con Catania importante anche per il suo porto.
La locanda era sulla regia strada che da Palermo conduceva ad Enna e a Catania.
Una “statio”, secondo la terminologia romana, dove la diligenza cambiava i cavalli ed effettuava una sosta (o pernotto) per i viaggiatori.


Johann Wolfgang Goethe partì con la diligenza da Castrogiovanni (Enna)  il 30 aprile 1787.
Attraversò il torrente Crisa (detto anche “San Paolo?) (Dittaino) e con la sua comitiva giunse alla locanda dove pernottò nella notte dell’ 1 maggio 1787…
“comodamente con soddisfazione”.
Nel suo libro “Viaggio in Italia” raccontò anche il suo viaggio in Sicilia.

Johann Wolfgang Von Goethe
(Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832)
Scrittore, poeta, drammaturgo, saggista, pittore, teologo, filosofo, umanista,
scienziato, critico d’arte e critico musicale).

Johann Wolfgang von Goethe, ritratto di J.K. Stieler nel 1828.
Goethe tiene in mano un foglietto in cui si legge la frase "Mehr Licht" ("Più luce").
Questa frase fu interpretata come una sua richiesta di più luce per studiare meglio,
ma fu soprattutto un riferimento alla sua opera "Teoria dei Colori",
che egli considerò la sua più grande opera scientifica.
L’edificio, a prima vista, sembra un semplice casolare di campagna ma in realtà risale al periodo bizantino (700) – arabo e normanno. L’edificio, detto anche “Fondaco Cuba” dalla presenza del vicino torrente Cuba, nacque come stazione di sosta, di cambio dei cavalli, per la sosta dei viaggiatori e forse anche come magazzino per i mercanti stranieri che vi depositavano le merci e vi sostavano. L’edificio è antecedente alla fondazione di Catenanuova avvenuta nel 1730.
L'etimologia di "fondaco" deriva dal greco pandokos ("osteria", "albergo"), passando attraverso l'arabo funduq (albergo) e poi allo spagnolo e al catalano, per indicare un edificio medievale che fungeva sia da magazzino per le merci sia da alloggio per i mercanti. 
Lu Funnacu Cuba per la sua ubicazione e per il suo uso/servizio, sarebbe testimone di un tratto di storia isolana abbastanza ampio. Non solo semplici mercanti viaggiatori pernottarono ed usufruirono del ristoro ma anche personaggi di rilievo come regnanti, alti prelati, poeti ed artisti di fama.
Ancora prima di Goethe, nella locanda soggiornarono nel 1713 il re di Sicilia Vittorio Amedeo II di Savoia (re di Sicilia da 1713 al 1720) assieme alla regina Anna Maria d’Orleans e la sua corte.  

Ritratto di Vittorio Amedeo II di Savoia e di Anna Maria d’Orleans.
Artista: Clementi Maria Giovanna Battista della “La Clementina”.
Datazione: 1723-1728 – Tecnica: Tela/pittura a olio.
Misure: altezza, 0,78 m – larghezza, 1,07 m. – Museo: Castello di Racconigi (Cuneo)..
Doppio ritratto maschile e femminile, a 1/2 figura. Il personaggio maschile porta una parrucca chiara e il costume dell'Ordine supremo della SS. Annunziata, di cui indossa anche il collare. Tiene lo scettro nella mano destra e appoggia la sinistra sulla corona portata sopra un cuscino da un paggio, a sua volta ritratto in livrea nell'angolo a destra. il personaggio femminile indossa un abito guarnito di pelliccia e alcuni preziosi. Porta la mano sinistra al petto. Cornice di legno dorato e intagliato con motivi a foglie di alloro sul profilo interno.

Nel suo diario Goethe riportò il percorso per raggiungere la locanda Cuba e l’ospitalità ricevuta.
Castrogiovanni, domenica 29 aprile 1787.
…. vedemmo comparire il monte isolato, in cima al quale sorge Castrogiovanni, e che dà a tutta la contrada un carattere severo e strano. Nel salire la lunga strada, la quale si svolge attorno al monte, potemmo osservare essere formato questo di rocce calcari, a grossi strati, in parte calcinate. Non si scorge Castrogiovanni se non quando si è pervenuti in cima al monte, imperocchè l’abitato si trova addossato alla pendice la quale guarda verso settentrione. L’aspetto di questa piccola città, della sua torre, è serio, ed a poca distanza a sinistra si vede sorgere il villaggio di Caltascibetta di aspetto parimenti cupo e malinconico. Nella pianura si scorgevano i campi delle fave in piena fioritura, ma chi mai avrebbe potuto godere quello spettacolo! Le strade erano pessime, e tanto più disastrose, in quantochè una volta erano state selciate, e continuava a piovere a dirotto. L’antica Enna ci fece triste accoglienza, la nostra stanza non aveva pavimento; mancavano le impannate alle finestre, cosicchè ci era forza o vivere nelle tenebre, ovvero rimanere esposti agli spruzzi della pioggia. Consumammo quel poco che ci rimaneva delle nostre provviste, e passammo una cattiva notte davvero, facendo sacramento di non prendere più mai, a meta del nostro viaggio, un nome mitologico.
Lunedì, 30 aprile 1787.
La strada che scende da Castrogiovanni è rapida, disastrosa, ci fu d’uopo portare per quella i nostri cavalli a mano. Il cielo era coperto di nubi, e potemmo osservare un curioso fenomeno in cima alle maggiori alture, dove il cielo listato di bianco, e di grigio, aveva aspetto quasi di materia solida, se non chè, come mai si potrebbe applicare quest’appellativo al cielo? La nostra guida ci disse che in quella direzione sorgeva l’Etna, la quale diventava visibile quando si squarciavano alcun poco le nubi, e che le strisce bianche e nere che vedevamo erano formate dalle nevi e dalle pendici del monte, di cui non si scorgeva però la maggior vetta.
Lasciammo a tergo in cima al suo monte isolato l’antica Enna, avviandoci per una valle lunga, lunga, solitaria, incolta, disabitata, abbandonata al pascolo di armenti, i quali cominciavano ad essere neri di pelo, di bassa statura, con corna piccoline, di forme snelle poi, e di aspetto vivace, quasi altrettante capre. Quelle buone bestie trovavano erba bastante a pascolare, se non che era loro contrastata questa in molti punti dalla presenza dei cardi selvatici. Queste piante hanno quivi tutta la facilità ad estendersi, a moltiplicarsi, ed occupano spazi, i quali basterebbero a formare le praterie di cospicui latifondi; sarebbe però facile il farle scomparire, estirpandole quali si trovano al presente, prima del loro fiorire. Però mentre stavamo meditando questa guerra a morte ai cardi selvatici, dovetti osservare con nostra sorpresa, che questi non sono poi totalmente inutili.
L'arrivo alla Cuba (la locanda)
Trovammo in una bettola solitaria, dove ci fermammo per dar rinfresco alle nostre cavalcature, due gentiluomini siciliani i quali attraversavano in diagonale dessi pure l’isola, portandosi a Palermo per una lite. Provammo stupore nello scorgere quei signori intenti a cavare fuori, colla punta di piccoli coltelli da tasca, la polpa dell’estremità superiore delle piante di un gruppo di quei cardi selvatici, e portasela fra le dita, mangiarla con vero gusto. E la durarono buona pezza, mentre ci riconfortammo con ottimo pane, e con vino, il quale questa volta non era mescolato. Il nostro vetturino ci preparò di quelle punte di cardi, e volle che le assaggiassimo, assicurandoci essere cibo saporito, rinfrescante, ma per dir vero non ci andarono guari più a genio, delle rape crude di Segesta.
Nel suo diario inserì una lettera diretta alla sua amica Carlotta Von Sten in cui commentò la su esperienza vissuta nel “Fondaco Cuba” e in contrasto con quella ricevuta al momento del suo arrivo…

Charlotte von Stein
(Charlotte Albertine Ermestine Amalia von Schardt)
(Eisenach, 25 dicembre 1742 – Weimar, 6 gennaio 1827).
Scrittrice tedesca.
Dama alla corte di Weimar, fi amica di Johann Wolfgang von Goethe e di
Friedrich Schiller e influenzò le espressioni dei due scrittori.
Con Goethe ebbe una profonda amicizia che durò 12 anni.
La loro profonda amicizia s’interruppe nel 1786 quando Goethe partì per l’Itlia
Si rividero solo a partire dal 1800


Nel nostro fondaco ci siamo trovati molto male. Il vino che ci poté apparecchiare il mulattiere non è stato certo ottimo. Con tutto questo, una gallina bollita nel riso non sarebbe stata disprezzabile, se il troppo zafferano non l'avesse ridotta, oltre che gialla, immangiabile. Per poco non abbiamo dovuto rimetter fuori il nostro sacco di campagna, causa i pessimi letti; sicché al mattino ne abbiamo parlato al nostro bravo locandiere. Questi si mostro spiacente di non poterci servire meglio, e ci additò, dicendo che vi era un albergo, una grande casa all'angolo della via....

Goethe e il suo amico Cristoph Heinrich Kniep si fecero trasportare in fretta i bagagli sulla diligenza e partirono per Catania.
Goethe vide nelle pareti di una stanza della locanda un messaggio … un avvertimento…
Viaggiatori, quali che siete, guardatevi, a Catania dall’albergo del Leone D’Oro.
Sarebbe meglio per voi trovarvi in potere dei Ciclopi, delle Sirene di Sicilia”.
A che cosa alludeva il messaggio.. per certi versi inquietante..?
Un messaggio per avvertire i viaggiatori che, una volta giunti a Catania, dovevano stare attenti a non soggiornare nel “Leon D’Oro” perché infestato da pulci e pidocchi (o altro) a causa di una cattiva pulizia.
Il Leon D’Oro verrà trattato alla fine della ricerca.
Le citazioni sul feudo Cuba, dove insiste l’edificio, risalirebbero al 1408 quando era di proprietà di Giovanni Esquifanio. I successivi proprietari:
- nel 1453, Novella Schifano;
- nel 1517, Francesco Paternò;
- dal 1633 al 1919, i principi di Biscari.
Nel 1693 l’edificio e il feudo circostante erano di proprietà di Ignazio Paternò, principe di Biscari (Acate) che, dopo il devastante terremoto del 1693, lo fece restaurare.
Il complesso nel 1935 diventò proprietà del centuripino don Prospero Mannamo, uno dei fondatori dell’Opera Pia di Centuripe. La datazione sarebbe legata all’anno in cui avvenne una drammatica alluvione il 13 agosto 1935.
Lo stesso don Mammano restaurò l’edificio e fu l’ultimo intervento sulla struttura

L'ingresso del fondaco Cuba è posizionato tra il corpo principale del complesso architettonico e la scaletta esterna. L'accesso è caratterizzato da un portale in pietra calcarea dura del Sei-Settecento che introduce nella piccola corte-ingresso e serve da disimpegno ai vani del piano terra.
L'edificio è composto da sei vani terreni e otto al primo piano con annesso cortile, cisterna, abbeveratoio e una grande stalla, lunga circa quaranta metri e larga dieci. Nella suddetta stalla venivano alloggiati i cavalli della "muta" o cambio" che trainavano la diligenza che trasportava i viaggiatori da Palermo a Catania e viceversa. Ma tale locanda-ristoro era soprattutto utile ai postini e ai corrieri dell'epoca, i "messaggeri".
Il messaggero partiva da Palermo al mattino di buon'ora su un veloce cavallo, e dopo cinque o sei fermate, sufficienti per l'intero viaggio, giungeva a Catania prima di sera. L'ultima breve sosta, prima di raggiungere Catania, veniva effettuata proprio presso il fondaco Cuba di Catenanuova, dove dopo un breve ristoro e il cambio del cavallo stanco con un altro fresco, il messaggero riprendeva veloce al galoppo il viaggio per Catania. Queste locande di campagna (fra cui il fondaco Cuba), dislocate e distribuite a giusta distanza lungo il tragitto che da Palermo portava a Catania, erano quindi delle necessarie "stazioni di servizio".

L’edificio si trova esattamente a metà strada tra Enna e Catania e dista circa 2 km da Catenanuova che allora si chiamava “Meliventre” e che Goethe chiamava “Molimenti”.
L’autostrada Catania Palermo subì una variante per salvaguardare l’edificio.
Goethe diede una perfetta descrizione dell’edificio..
La entrata è rivolta ad est; formata da una massa di conci calcarei con nel mezzo un gran portone ad arco cinquecentesco, formato anch'esso di massi calcarei squadrati con l'arco e i pilastri in leggera avanzata dal muro laterale. Si entra in un vestibolo. Tanto a destra che a sinistra si aprono gli accessi ad un ambiente: quello di destra ha una grande volta ovale, fatta con grossi mattoni, su quella volta si erge tutto il fabbricato del piano superiore. Nel muro interno del vestibolo si apre di fronte al portone d'ingresso del fondaco un altro portone ad arco, per il quale si entra nel cuore del fondaco che si allunga per ben quaranta metri e si allarga per dieci metri, coperto da ampia ed alta tettoia sostenuta da pilastri eretti lungo il centro.
Il cav. Prospeto Mammano, negli ultimi restauri del 1935, fece collocare sulla parete sud dell’edificio, una lapide, non so che ancora oggi esistente. Nella targa marmorea erano scolpite delle date e  i ricordi che il Mammano ricevette dal defunto rag. Nicolò Bua che fu sindaco di Catenanuova nel 1956.
La lapide riportava:
il fondaco Cuba esisteva nell’epoca bizantino -araba-normanna.
Nel 1693 apparteneva a Ignazio Paternò, principe di Biscari, che dopo il terremoto di quell’anno lo fece restaurare.
Nell’ottobre del 1713 vi pernottò il re di Sicilia – Vittorio Amedeo II di savoia con la regina – Anna Maria e la sua corte – la notte del 1 maggio 1787 vi dormì – Giovanni Wolfgang Goethe, scrittore tedesco – e autore del viaggio in Italia…
Nel 1935 subentrando nella proprietà il comm. Mammano Prospero, uno dei fondatori della Pia Opera di Centuripe – trovatolo cadente, per vetustà, lo restaurò.
Questa epigrafe a ricordo perenne e per desiderio, del compianto rag. Bua Nicolò”.

L’Opera Pia Mammano  di Centuripe dovrebbe essere, ancora oggi, proprietaria dell'immobile.
L’1 maggio 1787 Wolfgang Von Goethe e il suo amico Christoph Heinrich Kniep partirono dal “Fondaco Cuba”.
"E quando il mulattiere ci domandò dove volevamo scendere a Catania, rispondemmo: dappertutto fuorchè al Leon d'Oro!".


Sulla locanda non poteva mancare la leggenda.
Nell'ottobre del 1713 il re Vittorio Amedeo II di Savoia e la consorte Anna d’Orléans, per fare ritorno in Piemonte dopo la loro visita in Sicilia, si trovarono a percorrere l'antica via che univa Palermo a Messina. Il cavaliere Ansaldi da Centuripe, proprietario della masseria Fondaco Cuba, desideroso di conoscere i reali e di offrire loro ospitalità, pensò a un modo molto originale per attirarli dalle sue parti. Chiamò i suoi dipendenti e ordinò loro di versare nel torrente che scorreva lì vicino tutto il latte munto durante la giornata. La leggenda vuole che ne versarono talmente tanto che il fiume diventò bianco.
Intanto le guardie del re giunsero nei pressi del torrente che, inaspettatamente, trovarono di colore biancastro. Stupiti dell'accaduto, riferirono subito al sovrano il fatto. Questi volle verificare di persona e, incredulo, assaggiò lo strano corso d'acqua e con meraviglia scoprì che si trattava di un “fiume di latte”! Si avvicinò a quel punto il cavaliere Ansaldi da Centuripe, che svelò lo stratagemma architettato e i motivi che lo spinsero ad attuarlo. Fatta ormai sera, il cavaliere offrì così ospitalità al re Vittorio Amedeo II di Savoia, alla regina Anna d’Orléans e a chi era al loro seguito. Fu così che i reali soggiornarono in questo posto immerso nella natura, lontano dagli agi lussuosi ma unico per l'ospitalità offerta. Il re volle ringraziare l'ingegnoso padrone di casa nominandolo cavaliere Ansaldi Capitano onorario delle Guardie reali.
Nella realtà fu probabilmente il principe di Biscari, proprietario della locanda, ad invitare i reali.

Come arrivare al “Fondaco Cuba”?
Autostrada Catania – Palermo (A19) – Uscita: Catenanuova.
All’incrocio svoltare a sinistra per immettersi nella SS192.
Percorrere la SS192 per circa  2,3 km, troverete il “Fondaco Cuba” sulla destra del senso di marcia come si evince dalla cartina allegata.



Da  “Fondaco Cuba” guardando Verso Nord (l’Etna) vedrete i monti e le colline di Centuripe. Importanti zone archeologiche per la presenza umana nel periodo Neolitico ed Eneolitico. Sulla sinistra l’antica Masseria “Villa Cuba” dove furono rinvenuti importanti testimonianze archeologiche risalenti, sempre al periodo su menzionato. Nelle montagne di Centuripe era prevista la creazione di una discarica da parte di una società (del Nord?) che aveva un capitale sociale di appena pochi euro. Tutto fu bloccato. Una zona dalla grande importanza non solo archeologica ma anche geologica e naturalistica.


Sempre da “Fondaco Cuba” , guardando dalla parte opposta, noterete un caratteristico monte “a punta”. E’ Monte Scalpello, anche questo un sito archeologico di grande importanza.


Sul Monte un antico Eremo anche questo di grande importanza dal punto di vista storico e religioso.
Non so se ancora oggi, purtroppo una legge assurda m’impedisce di guidare malgrado la mia patente tedesca scada nel 2028, fedeli e turisti si recano sul monte a venerare i “Corpora Sancta”, cioè i resti di tre fratelli eremiti, morti   circa 400 anni fa in odore di santità.
I nomi dei tre fratelli?  Filippo, Matteo e Mariano che vissero in completa solitudine.
Infatti due volte l’anno, nella prima domenica di maggio e di ottobre, si celebrava una festa religiosa che era considerata una delle più antiche della Sicilia.
Dal punto di vista archeologico sulla cima esisteva un’antica città Sicana, quindi ancora prima dell’arrivo dei Siculi, da identificare probabilmente con Himacara.

Monte Scalpello - Eremo


Da “Fondaco Cuba” si può  proseguire per il Parco Prospero che si raggiunge, in circa 10 minuti, seguendo due strade come indicato nella mappa.


Catenanuova - Parco Prospero.

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L’Albergo il “Leon D’Oro” di Catania
Il “Leon D’Oro” era uno dei più importanti alberghi della Catania del Settecento.
L’albergo si trovava in via San Martino n. 10, la strada adiacente alla Chiesa di San Martino ai Bianchi e che congiunge via Vittorio Emanuele con via Garibaldi. Un tempo era nominata via dei Coppolari per la presenza di artigiani esperti nella creazione di coppole cioè i caratteristici  copricapi dei siciliani, simboli anche di ricchezza, d’importanza e risalenti al XIX secolo.


Il palazzo del Leon D’Oro, sulla sinistra, con la lapide che ricorda la sosta di Goethe.


Una lapide marmorea ricorda la sosta di Wolfgang Goethe nell’albergo “Leon Doro”,  malgrado il messaggio letto nel “Fondaco Cuba”, dal 2 al 6 maggio 1787. Una lapide che in alto raffigura il noto scrittore tedesco.



La lapide, posta sulla facciata dell’ex “Fondaco Leon D’oro”, fu dettata da Mario Rapisardi e scolpita dallo scultore Salvo Giordano mentre il medaglione, raffigurante Goethe, fu donato dallo scultore comasco Pietro Clerici, per l’interessamento dell’ex presidente della “Famiglia Artistica di Milano”, Carlo E. Accetti.
La Lapide recita…
CATANIA
Qui
dov’era l’Albergo del Leon d’oro alloggiò dal 2 al 5 maggio del 1787
VOLFANGO GOETHE che, nella contemplazione beata
dell’Etna e del mare
popolati di tanta gloria di miti,
ritemprava l’olimpico ingegno
allo splendore della greca giovinezza immortale.
 I due viaggiatori pernottarono quindi al “Leon D’Oro” e a Catania si fermarono 5 giorni e malgrado la scritta negativa presente  sul muro del “Fondaco Cuba”,  si trovarono bene.
In quei giorni fecero diverse escursioni che furono puntualmente annotate e commentate nel diario di viaggio di Goethe..
“Ritornati nelle fauci del Leon d’oro, ritrovammo il cameriere, che a gran fatica avevamo potuto distogliere dall’accompagnarci. Ha approvato la nostra risoluzione di non spingerci fin sulla vetta, ma ci ha proposto con molta insistenza, per domani, un’escursione a mare fino agli scogli di Jaci: la più bella gita di piacere, che si possa fare a Catania: si porta con sè da mangiare e da bere, e qualche masserizia per fare un po’ di cucina; tutte cose, che sua moglie avrebbe assunto sopra di sè. Egli non poteva dimenticare infine l’allegria di certi inglesi, che s’eran fatti accompagnare con musica in una barchetta, un divertimento da non potersi immaginare.”
La scoperta dell’esatta ubicazione del “Leon D’Oro” fu merito dello studioso Vincenzo Casagrandi che trovò dei riferimenti nell’archivio della Confraternita dei Bianchi. Nel libro dei conti della Confraternita, nel periodo compreso tra il 1762 e il 1819, era registrato il quarto cosiddetto nobile del barricato dipendente dalla chiesa, appartenente alla Confraternita e adibito ad albergo gestito da Giuseppe Abate. Lo stesso Abate, il 14 agosto 1785, cioè  due anni prima della venuta di Goethe, aveva rilasciato al Senato Catanese una ricevuta per il prezzo dell’alloggio, dato nel suo “Leon D’Oro”, a due ufficiali inglesi e al loro seguito.
Il fabbricato fu progettato dall’architetto Stefano Ittar, autore anche della vicina chiesa di San Martino dei Bianchi, la chiesa della Collegiata e  dell’Arco di Trionfo ferdinandeo, oggi purtroppo “Porta Garibaldi”.
Stefano Ittar
(Owrucz, Polonia – oggi Ucraina, 15 marzo 1724 – La Valletta, malta, 18 gennaio 1790).

Catania - Chiesa di San Martino dei Bianchi.
Catania in via V. Emanuele 189, ingresso da via S. Martino 24.

La precedente chiesa fu distrutta dal terremoto del 1693 e ricostruita nel
XVIII secolo su progetto dell’architetto Stefano Ittar su commissione
dell’Arciconfraternita dei Bianchi. Una confraternita che dava conforto e
assistenza alla sepoltura dei condannati a morte.
Tipiche espressioni artistiche dell’architetto Ittar sarebbero i cornicioni, in pietra calcarea di Siracusa, che contornano i balconi del piano nobile e delle finestre dell’ultimo piano ed anche i battenti degli usci delle botteghe. Usci che si aprono verso l’esterno per dare la possibilità agli abitanti, in caso di terremoto, di una veloce fuga all’aperto.
Perché si chiamava “Leon D’oro”?
Nel Seicento esisteva un “Fondaco del Leone” con ingresso nel Foro Lunare. Il Foro Lunare era una piazza che occupava: una parte della chiesa della Collegiata,  l’area del palazzo La Piana ed una parte di Piazza Università. Il mercato si teneva ogni lunedì e probabilmente, per questo motivo, Foro Lunaris.  Una tradizione che è rimasta viva nella cultura catanese. Infatti giornalmente, tranne la domenica, in Piazza Carlo Alberto, si svolge la fiera chiamata “Fera ‘o Luni”. Un’altra spiegazione sul termine “ Foro Lunaris” potrebbe essere legata all’esistenza di un antico tempio romano dedicato alla dea Luna.

Con il cerchio rosso  l’area che occupava, in modo approssimativo, il Foro Lunaris.

In merito al termine “Leon D’oro” probabilmente sarebbe legato alla leggenda che vide coinvolti:
- Eliodoro, un nobile catanese che non riuscì a diventar vescovo e, caduto in disgrazia, scolpì l’elefante e altri idoli;
- Leone II il Taumaturgo che avrebbe condannato al rogo Eliodoro;
- La statue dell’elefante che fu portato fuori dalla città ma che fu ugualmente venerato dai cittadini.
Dopo il terremoto del 1693, il “Leone D’Oro” si trovava in via San Martino, dove lo trovò Goethe.

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Sulla proprietà privata della storica locanda, il discorso non sarebbe semplice.
La locanda è posta vicino al comune di Catenanuova ma ricade nel territorio di Centuripe e si trovava in un vasto feudo che era dedito alla cerealicoltura. Un feudo  chiamato” Maliverni”  e di proprietà dei principi Riggio – Saladino – Statella – Paternò.
Principi che possedevano estesi feudi, in gran parte nella parte nord-orientale della Sicilia, e castelli come quello di Aci Catena dove risiedevano.
Nel tempo la famiglia Riggio-Saladino si estinse e si perse anche il titolo nobiliare a seguito della legge del 1948.
Una famiglia importante sin dalla fine del 1300 e interprete di memorabili imprese contro i pirati Turchi e Mori. Numerose le testimonianze legate a chiese ed edifici espressioni della loro grande nobiltà.
Fondarono anche dei comuni come Novae Catenae – Catenanuova che fu fondata dal Principe di Acicatena, Andrea Giuseppe Riggio Statella intorno al 1731, su licenza del viceré il Conte di Palma.
Fu il principe Andrea in persona, assecondando con grazia le ultime volontà espresse dalla madre poco prima di morire trentenne, già mecenate ed amatissima Signora del Feudo di Maliverni, a creare le condizioni perché genti residenti in Centuripe, si trasferissero nella nuova città da lui fondata.
Fi infatti per volontà della baronessa del feudo
“Mellijs in ventre” Anna Maria Statella che fu fondata Catenanuova.


Stemma della famiglia Statella.
Nel 1733 l'insediamento di Novae Catenae contava 500 abitanti, trascorsi 283 anni ad oggi, ne conta circa 5000.

La locanda - Fohdaco Cuba è ancora oggi in completo abbandono e in pericolo di crollo.


Il sito fa parte dei luoghi delle personalità della cultura (Wolfgang Goethe) inseriti nella
“Carta regionale dei Luoghi dell’Identità e della Memoria”
(LIM) istituita dalla Regione Sicilia con il D.A n. 8410 del 03/12/2009
Un restauro in bio-edilizia potrebbe riportare il fabbricato allo splendore ed alla vita di tempi passati restituendo alla locanda l’antico aspetto.
Quali obiettivi per l’uso della locanda?
Le proposte sarebbero tante:
- Maneggio;
- Coltivazione di erbe spontanee e tipiche del territorio siciliano. In questo caso sarebbe un’offerta eno-gastronomica con l’offerta di prodotti tipici del comprensorio circostante Goethe rimase affascinato nel vedere dei palermitani, ospiti nella locanda, mangiare dei cardi selvatici;
- Centro sperimentale per la cerealicoltura;
- Centro-office turistico per offrire le offerte turistiche, nei vari aspetti, del vasto comprensorio circostante.
I comuni di Catenanuova e Centuripe si dovrebbero unire e in sinergia programmare una rivalutazione del “Fondaco Cuba” tralasciando i confini territoriali. Lo sviluppo del turismo non dovrebbe sottostare a dei vincoli legati a freddi confini ma avere come principio attivo lo sviluppo, la protezione e il presidio del territorio.

Vicesegreteria generale Area Istituzionale
Servizio Lavori d'Aula
 
SVOLGIMENTO DI INTERROGAZIONI E DI
INTERPELLANZE DELLA RUBRICA
"Beni culturali e identità siciliana"
 
- Con nota prot. n. 41089 del 30 ottobre 2323, il Presidente della Regione ha delegato l'Assessore per i beni culturali e l'identità siciliana.
(N.C.E.D. 3378)
XVIII Legislatura ARS
INTERPELLANZA
N. 59 - Intenzioni del Governo in merito alla tutela e alla valorizzazione del cosiddetto 'Fondao Cuba' sito nel territorio al confine tra Centuripe (E) e Catenanuova (EN).
Al Presidente della Regione e all'Assessore per i beni culturali e l'identità siciliana, premesso
che:
il 'Fondaco Cuba' è un edificio risalente agli inizi Settecento e costruito su di una preesistenza arabo-normanna o, addirittura, di epoca bizantina; si trova a metà strada tra Catania ed Enna (visibile anche sull'autostrada A19 in direzione Palermo), sull'antica regia trazzera che collega i centri dell'entroterra con quelli della parte orientale della Sicilia; l'edificio ricadeva nel Feudo di Cuba, le cui prime tracce risalgono al 1408, feudo di proprietà di Giovanni Esguifanio; nel 1453 del feudo era proprietaria Novella Schifano, poi nel 1517 Francesco Paternò, dal 1633 al 1919 i Principi di Biascari (nobile famiglia catanese) che dopo il terremoto del 1693 lo fecero restaurare;    l'antico fondaco è costituito da un insieme di corpi di fabbrica disposti lungo un asse longitudinale; la costruzione centrale, a due elevazioni, era destinata a locanda vera e propria; essa rappresenta il prospetto principale e costituisce il nucleo più antico del complesso; gli altri corpi sono destinati a servizi vari e sono il risultato di modifiche che nel tempo hanno determinato una trasformazione non solo formale, ma anche funzionale per cui l'edificio da fondaco nel tempo si è trasformato in una tipica masseria siciliana;
il complesso monumentale, che oggi ricade nel territorio di Centuripe, dista un chilometro da
Catenanuova e si trova in contrada Cuba;
esso aveva la funzione di dare riparo ai cavalli utilizzati per il cambio, che trainavano la diligenza dei viaggiatori da Palermo a Catania e viceversa;
era in altri termini soprattutto una 'statio ' come tante ce n'erano lungo tale strada nell'età romana,
cioè una costruzione che serviva da alloggio ai viandanti del tempo; il fondaco è storicamente importante anche per aver ospitato nell'ottobre del 1713 il re di Sicilia Vittorio Amedeo Il di Savoia con la regina Anna Maria d'Orlenad e la sua corte e la notte del 30 aprile 1787 il grande poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe, che narra l'episodio nel suo
libro 'Viaggio in Italia';
considerato che:
il 'Fondaco Cuba' per il suo valore storico e monumentale nel 1985 è stato dichiarato dalla
Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Enna edificio di interesse culturale;
attualmente il manufatto versa in uno stato di completo abbandono e lo scorso anno è stato colpito
da un incendio che ha provocato danni alle strutture murarie e ha determinato il crollo di parte della scuderia;
il degrado interessa ogni parte dell'edificio, le strutture murarie, diversi solai e alcune volte presentano un allarmante stato di dissesto;
a causa del progressivo deterioramento delle strutture e senza un intervento urgente di messa in
sicurezza e restauro vi è il concreto rischio che il bene possa essere irrimediabilmente perduto;
diviene improrogabile un immediato intervento di salvaguardia e restituzione dell'importante bene
che, peraltro, rimane uno dei pochi esempi superstiti di fondaco siciliano e mantiene, come sopra evidenziato, il resto della ben più antica costruzione medievale al suo interno;
per conoscere se non ritengano opportuno attivarsi con urgenza per fermare il progressivo
deterioramento delle strutture del 'Fondaco Cuba' e per recuperare il complesso monumentale ai fine
conservarlo, valorizzarlo e restituirlo alla fruizione pubblica, prima che il bene possa essere irrimediabilmente perduto.
(4 settembre 2023)
VENEZIA - CRACOLICI - BURTONE - DIPASQUALE - CATANZARO - SAFINA - SPADA -
CHINNICI - GIAMBONA - LEANZA – SAVERINO
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Alcune immagini  del Fondaco Cuba








Non so.. forse la lapide posta sulla facciata della locanda è
stata rimossa o trafugata e sostituita da una iscrizione su foglio plastificato?



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Dal Diario di viaggio di Goethe.
Pagina scritta l’1 maggio 1787
[In cammino da Castrogiovanni (oggi Enna),] 

Christoph Heinrich Kniep, Entre Enna y Catania, 1787.
Lápiz, 19,8 x 33,4 cm. Klassik Stiftung Weimar-Museo Nazionale Goethe, Weimar

[...]
   Il bardonaro, tanto per rabbonire il nostro malumore, aveva promessa di farci trovare per la sera un buon albergo; e in verità ci condusse in una locanda costruita da pochi anni, che, situata alla giusta distanza da Catania, dovrebbe essere salutata con piacere da ogni viaggiatore. 


Date le condizioni sopportabili di detta locanda, dopo dodici giorni ce la siamo cavata alla men peggio. Ma qual non fu la nostra meraviglia, al vedere sulla facciata un'iscrizione, tracciata col lapis a bei caratteri inglesi, che diceva: «O passeggero, chiunque tu sia, guardati a Catania dall'albergo al Leon d'oro; peggio che cadere in una volta sola nelle grinfe dei ciclopi, delle sirene e di Scilla». Pur sospettando che il dabbene ammonire avesse esagerato un po' il pericolo per amor della mitologia, risolvemmo tuttavia di evitare questo Leon d'oro, dipinto come un così terribile mostro. Avendoci quindi domandato il mulattiere dove volessimo alloggiare a Catania: «Da per tutto», rispondemmo, «tranne che all'albergo del Leone»; per cui ci propose di prendere stanza nello stesso fondaco, dove egli avrebbe governato i suoi muli; soltanto, avremmo dovuto provvedere per nostro conto al vitto, come del resto avevamo fatto fino allora. Contenti tutti, e per tutto: unico nostro desiderio era di sfuggire alle fauci del Leone.
[...]

Albergo “Leon D’Oro”.
Catania, mercoledì 2 maggio 1787.

   Nel nostro fondaco ci siam trovati realmente molto male. Il vitto che poi ci potè apparecchiare il mulattiere non è stato certo ottimo. Con tutto questo, una gallina bollita nel riso non sarebbe stata disprezzabile, se il troppo zafferano non l'avesse ridotta, oltre che gialla, immangiabile. Per poco non abbiam dovuto rimetter fuori il sacco dello Hackbert, causa i pessimi letti, sicchè, al mattino abbiam parlato al nostro bravo locandiere. Questi si mostrò spiacente di non poterci servire meglio: «Ma lì dirimpetto», disse «c'è un albergo, dove i forestieri sono ben trattati e hanno motivo di trovarsi bene». E ci additò una grande casa all'angolo della via, il cui lato, rivolto verso di noi, sembrava molto incoraggiante. Ci siamo andati di corsa e vi abbiamo trovato un individuo tutto affaccendato e premuroso, che si fece conoscere per cameriere, e che, in assenza dell'albergatore, ci assegnò una bella stanza accanto a un salotto, assicurandoci nel tempo stesso che saremmo stati serviti a prezzi modicissimi. Domandammo senz'altro, secondo la nostra abitudine, quanto sarebbe costato l'alloggio, il vitto, il vino, la colezione [sic] ed altri particolari. Tutto era conveniente, sicchè facemmo trasportare in fretta e furia il nostro modesto bagaglio, per allogarlo in quegli ampi armadi dorati. Il Kniep trovò per la prima volta l'occasione di metter fuori e riordinare i suoi cartoni, mentre io riordinavo le mie osservazioni. Poco dopo, tutti soddisfatti del nostro bell'alloggio, ci affacciammo al balcone del salotto per godervi la vista. E dopo d'averla ammirata e lodata per un bel poco, stavamo per ritornare alle nostre faccende, quand'ecco... un grande leone d'oro in atto di minaccia, sopra le nostre teste! Ci scambiammo un'occhiata eloquente, sorridemmo, ridemmo... Ma da quel mometo in poi ci mettemmo in guardia, per paura ce non facesse la sua comparsa qualcuno di quei mostri omerici, di cui sopra.
   Non c'era da veder nulla di simile; al contrario, scorgemmo nel salotto una giovine donna, bellina, che andava su e giù con un bimbo di circa due anni, ma che fu subito vivacemente richiamata da quel pseudo albergatore che aveva l'argento vivo addosso. «Fammi il piacere di andartene!» le comandò: «che cosa hai da fare qui?» -- «La è dura» rispose quella, «che tu mi debba mandar via; non si può fare star zitto il piccolino se non ci sei tu; e questi signori mi permetteranno certamente di abbonirlo in tua presenza». Ma il marito non volle saperne, anzi fece per metterla alla porta. Strilli del bimbo sulla soglia, da far pietà. In conclusione dovemmo insistere perchè la graziosa donnina restasse con noi.
   Messi sull'attenti dal nostro inglese, non ci volle molto per subodorare la commedia. Noi due abbiam rappresentata la parte dei novellini, degli ingenui; quanto al cameriere, questi rappresentava alla perfezione la parte del padre nobile e affettuoso. Il bimbo era veramente tutto carezze per lui; probabilmente, dietro la porta, la supposta madre gli aveva dato qualche pizzicotto.
   Così ella rimase nella nostra sala con l'aria più innocente del mondo, quando il marito uscì per consegnare all'abate di casa Biscari una lettera di raccomandazione. Ella non ismise di cicalare, finchè quello non fu ritornato ad avvertire che l'abate sarebbe venuto di persona a darci più minute informazioni.

Ma chi era questo misterioso abate?
Era l’abate Francesco Ferrara (?).

Francesco Ferrara
(Trecastagni, Catania, 2 aprile 1767 – Catania, 12 febbraio 1850)
Presbitero e scienziato
Ritratto dal libro 
Guida dei viaggiatori agli oggetti più interessanti a vedersi in Sicilia
del professore Abate Francesco Ferrara,
 Palermo, Tipografia di Francesco Abbate qm. Dom.co, 1822.
Figlio di Filadelfo e Genoveffa Motta, una famiglia molto umile.
Studiò al Seminario di Catania e nel 17876 ottenne le laurea in filosofia e medicina,
all’Università di Catania. Continuò gli studi delle scienze matematiche,
dell’architettura, della botanica, la lingua e la letteratura greca e la chimica sotto la
sotto la guida di illustri maestri di cui fece ampia menzione nella sua Storia di Catania.
Fu ordinato sacerdote nel 1792 e 4 novembre 1801, assieme ad altri prelati, fu presente
al battesimo di Vincenzo Bellini nella chiesa di San Francesco Borgia di Catania.
Ebbe la cattedra di Fisia all’Università di Catania e nel 1819 quella di storia naturale e
Palermo. Nel 1840 la cattedra di Lingua Greca ed Archeologia nell’Università di Catania.
Nel 1814 fu nominato Regio Custode e nel 1824 fu socio onorario
dell'Accademia Gioenia di Catania.
In riconoscimento dei servizi resi alla scienza fu insignito del Reale Ordine 
da Francesco I e del titolo di Regio Storiografo della Sicilia. Fu membro
di varie Accademie di Europa e d'America e Regio intendente delle antichità di Sicilia.

La statua a Trecastagni (città di morte) con la chiesa sullo sfondo.
Fu chiamato « il Plinio siciliano ».

Albergo “Leon D’Oro”
Catania, giovedì 3 maggio 1787.
   L'abate, che era venuto a salutarci ier sera, si è presentato stamane per tempo e ci ha condotti a palazzo Biscari, edificio ad un sol piano sopra un basamento elevato; e qui abbiam visitato il museo, che raccoglie statue di marmo e di bronzo, vasi e simili antichità d'ogni specie.
Abbiam così avuto un'altra occasione di allargare le nostre cognizioni; quel che in modo particolare ci sedusse, fu un torso di Giove, a me già noto per una copia esistente nello studio del Tischbein, e che aduna in sè troppi pregi, perchè osi esprimere un giudizio. Un familiare ci ha fornito le informazioni storiche più necessarie e quindi siamo passati in un alto e spazioso salone. Le molte sedie disposte accanto alle pareti indicavano che lì si raccoglie di tratto in tratto qualche circolo numeroso. Prendemmo posto nell'attesa di un'amabile accoglienza. Ed ecco farsi avanti due signore, che si misero a passeggiare per tutta la lunghezza del salone, scambiandosi all'occasione qualche parola. Come si avvidero di noi, l'abate si alzò, io feci lo stesso e tutti e due facemmo un inchino. Domandai chi fossero e seppi che la più giovine era la principessa, la più attempata una gentildonna catanese. Messici a sedere, le due gentildonne continuarono a passeggiare su e giù, nè più nè meno come si farebbe in una piazza.
   Fummo introdotti dal principe, il quale, come mi avevan fatto osservare, ci fece vedere la sua collezione di monete per un atto di deferenza speciale; infatti, in occasione di simili visite, tanto al suo compianto padre quanto a lui stesso più d'un oggetto era andato perduto, ragion per cui la sua consueta liberalità s'era intiepidita un poco. Questa volta ho potuto sfoggiare qualche cognizione di più, avendo già tratto ammaestramento dalla mia visita alla raccolta del principe de Torremuzza. Ho imparato qualche cosa di più, facendomi guidare con qualche frutto da quel solito filo del Winckelmann, che ci accompagna attraverso le differenti epoche dell'arte. Il principe, perfettamente edotto di tutto questo, vedendo che aveva da fare non con conoscitori ma con dilettanti e osservatori, ha acconsentito di erudirci in tutti i particolari di cui abbiam chiesto spiegazione.
   Dopo d'aver dedicato a quest'esame un certo tempo, sempre troppo poco tuttavia, stavamo per congedarci, quando egli volle presentarci alla madre, nel cui appartamento erano esposti altri oggetti d'arte di più piccola dimensione.
   Ci trovammo innanzi a una gentildonna dall'aspetto distinto ma disinvolto, che ci ricevette dicendo: «Guardino pure, signori, come vogliono, in casa mia; vi troveranno tutto così come il mio povero marito ha raccolto e messo in ordine. E devo tutto alla pietà del mio figliuolo, che ha voluto non solo farmi alloggiare nelle sue stanze migliori, ma non ha lasciato portar nè toccare il più piccolo degli oggetti raccolti e riordinati dal suo povero padre. Così ho il doppio vantaggio, di vivere come sono abituata ormai da tanti anni, e insieme di incontrarmi e di far conoscenza, come una volta, con tanti illustri forestieri, che vengono da paesi così lontani a vedere le nostre rarità».
   Quindi ci aprì ella stessa la vettrina, in cui erano custoditi gli oggetti d'ambra lavorata. L'ambra di Sicilia ha questo di diverso dalla nostra che, dal colore di cera e di miele, trasparente ed opaco, passa attraverso tutte le sfumature di un giallo carico fino al più bel rosso giacinto. Ne avevano intagliato urne, coppe ed altri oggetti, tanto da far supporre dei pezzi di grandezza meravigliosa. Questi oggetti, come pure le conchiglie incise, che vengono lavorate a Trapani e in fine alcuni squisiti lavori in avorio formavano la compiacenza particolare della gentil donna, che trovava modo di raccontare in proposito più d'una piacevole storiella. Il principe dal canto suo ci intrattenne intorno a cose più serie e così trascorsero alcune ore dilettevoli ed istruttive.
   Nel frattempo, la principessa aveva appreso che eravamo tedeschi, per cui ci domandò notizie dei signori von Riedesel, Bartels, Münter, tutti da lei conosciuti, e dei quali aveva anche saputo discernere ed apprezzare egregiamente il carattere e il costume. Ci siam congedati a malincuore da lei, ed ella stessa parve ci lasciasse andar via di malincuore. La vita di questi isolani ha sempre qualche cosa di solitario e non si ridesta e non si sostiene che in forza di qualche interesse passeggero.
   Dopo questa visita, l'abate ci condusse al Convento dei Benedettini, nella cella d'un monaco, la cui fisionomia, triste per l'età non avanzata e tutta chiusa in sè, non prometteva troppo gioconda conversazione. Ebbene, era costui l'uomo di multiforme ingegno, l'unico che sapesse domare l'organo immenso di quel duomo. Come ebbe indovinato, più che inteso, il nostro desiderio, lo volle soddisfare, in silenzio: ci siamo recati nella chiesa, che, pur essendo molto vasta, egli, trattando il mirabile strumento, seppe riempir tutta quanta fino agli angoli più remoti, facendovi ora spirare i singhiozzi più lievi, ora echeggiare i tuoni più possenti.
   Chi non avesse già visto prima quell'ometto, avrebbe dovuto credere che solo un gigante fosse capace di tanto impeto; ma noi che già lo conoscevamo di persona, non potemmo meravigliare che d'una cosa: che non abbia dovuto soccombere già da tempo, in una simile lotta.


Goethe, con l’amico di viaggio Kneip, e con l’abate Ferrara(?) si recarono  nel  Palazzo Bicari.
Che strada fecero?  Gli itinerari erano due: da Piazza Duomo lungo la via
Vittorio Emanuele (circa 450 m) oppure, passata Porta Uzeda, lungo la Marina (430 m circa).
Dato la grande passione per il mare penso che Goethe abbia scelto l’ultimo percorso.

Catania – Palazzo Biscari (in primo piano).

Catania – Palazzo Biscari.


Museo del Castello Ursino a Catania.
Tre busti romani di epoca imperiale, provenienti dalla Collezione Bìscari.
Il principe di Biscari e il suo Museo furono commentati dai viaggiatori stranieri con grande entusiasmo. Di grande importanza furono i commenti de Goethe, del l Riedesel, dello Houel, del Münter, del Borch e dello Stolberg.
Il Museo fu ampiamente descritto dall’abate Domenico Sestini che ne fu direttore e ordinatore:
Descrizione del Museo d'Antiquariato e del Gabinetto di Storia Naturale di S. E. il principe di Biscari ecc. ecc., Firenze 1776» riedita con aggiunte nel 1787.
L’abate che accompagnò il Goethe nella visita del Museo Biscari non poteva essere l’abate Sestini perché in quel periodo aveva lasciato già lascato la Sicilia da tempo, per non tornarvi più.
In merito al Principe che il Goethe  incontrò nel palazzo Biscari, assieme alle due principesse i riferimenti sono molto chiari.
Il principe Ignazio Paternò Castello, V principe di Biscari e fondatore del Museo, era morto da qualche mese e il Goethe conobbe  il figlio Vincenzo Paternò Castello.

Emblema dei Paternò Castello
Vincenzo Paternò  continuò ad accrescere e a curare le raccolte del Museo.
Il Goethe incontrò anche:
Anna Maria Bonanno,
vedova del principe Ignazio Paternò Castello e madre del principe Vincenzo.
Una bella figura femminile che fu esaltata dal Goethe per la sua gentilezza. Il contatto fra la principessa e il Goethe fu breve,  legata alla visita del Museo, ma probabilmente il poeta non era a conoscenza delle grandi virtù della donna.
Anna Maria Morso Bonanno era nata l’8 dicembre 1725 e morì il 4 gennaio 1792.
Una figura di grande rilievo  ella nobiltà siciliana del XVIII secolo e trascurata dalla storia.
Era figlia di Giovanni Francesco Morso, principe di Poggioreale, e di Teresa Bonanno, principessa di Roccafiorita. Sposò il V principe di Biscari, Ignazio Paternò Castello, rafforzando il potere politico e sociale della famiglia  Biscari. Di lei non si sa molto se non attraverso le lettere che le furono inviate da Michele Maria Paternò di Raddusa, eletto Gran Priore di Messina nel 1713.
priore di Messina.
Stemma della famiglia Bonanno
I documenti storici sarebbero costituiti da 28 lettere in cui traspare il ruolo della donna nella
gestione politica e amministrativa della famiglia, andando oltre il tradizionale ruolo di "moglie" relegato alla sfera domestica. Sebbene il marito Ignazio fosse noto per i suoi interessi culturali e archeologici, le lettere evidenziarono come  molte delle responsabilità politiche e amministrative ricadevano su Anna Maria. Michele Maria Paternò, legato alla famiglia Biscari sin dalla nascita, confidava nella principessa per questioni sia pratiche sia spirituali. Le lettere mostrano una donna abile nel tessere relazioni politiche e nel mantenere il controllo sui territori familiari. Anna Maria era un punto di riferimento nella rete di potere che legava la famiglia Biscari alla Chiesa e all'aristocrazia siciliana, in particolare attraverso il suo legame con il Priorato di Messina, una delle istituzioni ecclesiastiche più influenti dell'isola. Le lettere del priore non solo illustrano il rispetto che egli nutriva per la principessa, ma forniscono anche dettagli sulla sua gestione delle crisi politiche, economiche e sanitarie che affliggevano la Sicilia del tempo. La sua capacità di mantenere relazioni politiche con figure di potere a Napoli e a Palermo, così come il suo coinvolgimento nella gestione delle terre familiari, sottolinearono il suo ruolo di amministratrice competente e strategica. Anna Maria, inoltre, dimostrava una forte sensibilità spirituale, rivolta spesso a Michele per ottenere conforto e consigli su questioni personali e religiose. Nonostante l'assenza di lettere scritte da Anna, la sua figura appare come una donna di grande influenza, capace di navigare le complesse dinamiche del potere feudale siciliano, mantenendo al contempo saldi i legami familiari e amministrativi in un periodo di grande instabilità politica.
Era un periodo difficile legato anche alle conseguenze del devastante terremoto della Val di Noto del 1693 e alla fase di ricostruzione delle zone distrutte.
Era anche un periodo in cui le famiglie nobili esercitavano un potere sulle terre attraverso, spesso complesse, alleanze matrimoniali. I Paternò Castello di Biscari avevano un forte potere politico attraverso legami con la monarchia spagnola, successivamente con quella austriaca e con legami con altre famiglie della nobiltà siciliana.
Il matrimonio nelle dinamiche dinastiche della nobiltà, era un aspetto importante per il controllo del territorio e per una certa supremazia politica. Il ruolo della donna viene sempre considerato  secondario nelle narrazioni storiche mentre in realtà assume l’aspetto di figura chiave nella gestione della famiglia e delle reti di potere.
Questo è un aspetto della storia che non è mai obiettiva dove la politica di genere dovrebbe riaprire certi aspetti storici nel ruolo delle donne e in particolare sul
Ruolo delle donne nella gestione del potere.
Le lettere indirizzate ad Anna Maria, pur non contenendo delle risposte, rilevano la figura attiva di una donna che si trovava a gestire la famiglia in assenza del marito impegnato in attività politiche e spesso militari e  nel controllare le risorse finanziarie.
Il priore Paternò  forniva dettagli sull'amministrazione delle terre, sulla gestione delle crisi politiche e sanitarie dell'isola e sulle relazioni con la corte di Napoli. Dalle lettere emergeva la figura di un Gran Priore priore importante non solo per la gestione delle proprietà della famiglia, ma anche per il suo ruolo di intermediario politico e informatore sugli eventi di Napoli e Sicilia.
Le lettere rivelavano una Sicilia che, nonostante la sua posizione strategica nel Mediterraneo, era tormentata da crisi economiche e politiche, nonché da disastri naturali come il terremoto del 1693, le cui conseguenze continuarono a farsi sentire per tutto il secolo successivo. Le lettere di Paternò descrivevano un'isola afflitta da epidemie, da cordoni sanitari che ostacolavano i commerci e da un'amministrazione in continua lotta per mantenere il controllo sulle risorse locali. Uno degli episodi descritti nella corrispondenza riguardava una nave carica di cotone e cera proveniente da Smirne, un luogo contaminato, che fece naufragio sulle coste calabresi. Il priore Michele, preoccupato per il rischio di epidemie, richiese immediati interventi per sanificare l'area e prevenire la diffusione della malattia. Questi eventi evidenziano il costante timore di crisi sanitarie e le difficoltà nell'amministrare un territorio già fragile.
Il XVIII secolo fu  anche un periodo di grandi riforme che ebbero un forte impatto sul ruolo diretto della Chiesa nella società siciliana.
Le lettere di Michele Paternò evidenziarono gli sforzi del Papa Pio VI per contrastare le riforme dell'imperatore Giuseppe II d’Asburgo – Lorena che miravano a limitare il potere della Chiesa e a chiudere numerosi conventi.  L'opposizione della Chiesa a queste riforme era forte, e il papa stesso decise di recarsi a Vienna per negoziare con l'imperatore, anche se con scarso successo. In Sicilia, la Chiesa continuava a giocare un ruolo centrale nella vita politica e sociale. Il Gran Priore Michele, con la sua influenza e le sue capacità amministrative, era una figura chiave nella gestione dei beni e delle proprietà dell'Ordine dei Cavalieri di Malta, che avevano un'enorme ricchezza e potere nell'isola.
Le lettere rilevarono anche il complesso intreccio di relazioni familiari e politiche che legavano Anna Maria a varie figure di potere in Sicilia e nel Regno di Napoli. Michele Paternò scrisse alla principessa non solo per questioni amministrative, ma anche per cercare conforto spirituale e per confidarle i suoi problemi personali e familiari. Una serie di lettere riportò i conflitti tra Michele e suo nipote Vincenzo Paternò Lombardo, barone di Raddusa, riguardanti la gestione delle proprietà familiari e le dispute interne all'Ordine.
La corrispondenza mostrò come la principessa Anna Maria fosse una figura rispettata, in grado di mediare tra le varie fazioni della nobiltà siciliana e di fornire supporto in momenti di crisi. La sua influenza non si limitava alla sfera familiare, ma si estendeva anche alla gestione delle relazioni politiche con la corte di Napoli e con le altre famiglie aristocratiche dell'isola.
Parte di una lettera inviata dal Gran Priore Michele alla principessa Anna Maria Morso Bonanno..
In Palermo vi sono lagnanze universali; per avere il Sovrano
abbassato le Soggiogazioni dal cinque al 4 p. 100, e l’un p. 100 depositarsi in Tavola per
conto del Regio Erario; che S.E. avendo avanzati 22 progetti per mutare la forma del Governo
della Sicilia, la M.S. abbia rimesso lo esame di questi alla Giunta delle Finanze, dove assiste
con impegno il consultore Simonetti ivi destinato dal Vicere. Fra questi si vuole l’abolizione
del Parlame.to, e della Deputazione del Regno, tolto il Mero misto a’ baroni, ed il luogo del
Vicere, tre Presidi indipendenti l’uno dall’altro i q.li amministrino giustizia colla loro piccola
corte; e che il passaggio delle cause feudali seguisse in Napoli; abolito il Trib.le del Concistoro,
e soppressi tutti i Senati da sostituirsi in loro vece l’Eletto del Popolo, e finalmente che sopra
ogni Salma di terreno si pagassero tari nuovi, progetti son questi ed altri co’ q.ti ha fatto
presente alla corte il S. Vicere il vantaggio di piu milioni che ne va a ritraere il Regio Erario.

Il Goethe incontrò anche la moglie del principe Vincenzo, Francesca Paternò  Castello (figlia di Gioacchino Paternò Castello, barone della Sigona e di Bonincontro,  e di Girolama Arezzo, figlia di Corrado Maria Arezzo di Donnafugata, V barone di Donnafugata, e di Caterina Xifo Larocca,
(purtroppo il Museo Biscari andò in gran parte disperso dal principio del XIX in poi, sia per vendita degli eredi, che per saccheggi.
Già Johann Gottfried Seume (nel 1802) lo aveva trovato in disordine.
 Nel CONVENTO DEI BENEDETTINI, che possedeva, oltre una biblioteca, un Museo pregiato dai visitatori contemporanei, l'attenzione del G. sembra sia stata tutta per l'organo, che in fatti era ritenuto una meraviglia del secolo. Il Rezzonico fu colpito da un particolare che ricorda l'impressione del Goethe: «Sopra ogni altra imitazione del suono, mi allettò il digradare dell'eco moribonda, sperdentesi in aria come un sospiro...» Autore del meraviglioso organo fu Donato Del Piano, che vi lavorò dodici anni. Costò ai monaci oltre 500 mila lire. Aveva 72 registri e 2916 canne. (Carcaci, Guida citata) Oggi è deteriorato e quasi inservibile.
Catania - Convento dei Benedettini - San Nicolò l'Arena.



Albergo “Leon D’Oro”.
Catania, venerdì 4 maggio 1787.
   Poco dopo il nostro pranzo, è venuto a prenderci l'abate con una carrozza, per farci vedere il quartiere più eccentrico della città. Nel momento di salire in vettura, si è svoltata una curiosa disputa d'etichetta. Io ero salito per primo e stavo per prender posto a sinistra quando egli, salendo alla sua volta, volle espressamente che mi scomodassi e che lasciassi la sinistra a lui. Lo pregai di lasciar da parte queste ceremonie. Ma: «Scusate» mi disse: «facciamo così, perchè se io mi metto alla vostra destra, la gente crederà che io vado a spasso con voi; se invece mi metto alla sinistra, è convenuto che voi venite con me, e che io vi faccio veder la città in nome del principe». Non c'era da replicare e così fu.
   Così salimmo per certe vie, dove la lava, che nel 1669 distrusse gran parte della città, è ancora visibile ai giorni nostri. Il torrente igneo, irrigidito, è stato trattato come una roccia qualsiasi: vi hanno tracciato sopra la pianta delle vie, alcune in parte anche costruite. Ne ruppi un pezzo di indubbia fusione, ricordando che prima della mia partenza dalla Germania, la discussione circa la natura vulcanica del basalto s'era già accesa. E lo stesso feci in varii punti, per ottenere più d'una varietà.
   Ma se gli indigeni stessi non amassero il loro paese e non si fossero dati la pena di raccogliere, o per guadagno o per amor della scienza, quel che v'ha di notevole nella loro regione, il viaggiatore avrebbe un bel torturarsi il cervello. Già a Napoli, il mio negoziante di lava m'era stato di non poco aiuto; più ancora e in un senso più elevato, qui a Catania, il cavaliere Gioeni. Nella sua copiosa collezione, disposta con rara eleganza, ho visto le lave dell'Etna, i basalti che si trovano a pie' del vulcano e pietre di varia composizione più o meno facili ad essere identificate. Tutto mi è stato mostrato con la più grande amabilità. Quel che più destò la mia ammirazione furono certi zooliti provenienti dagli scogli dirupati che sorgono dal mare di Jaci.
   Domandammo al cav. Gioeni quale fosse il modo migliore per accingersi a un'ascensione sull'Etna; ma egli non volle sentir parlare nemmeno d'un tentativo per raggiungere la vetta, specie in questa stagione. «I forestieri in generale» così disse, non senza chiederci scusa, «prendono la cosa troppo alla leggera; quanto a noi, nati al piede della montagna, ne abbiamo abbastanza se, approfittando della migliore occasione, riusciamo a toccar la cima due o tre volte in tutta la vita. Il Brydone stesso, che con la sua descrizione ha acceso per primo il desiderio di contemplar da vicino il cono infuocato, non l'ha raggiunto affatto; il conte von Borch lascia in dubbio il lettore, ma anche lui non si è spinto che a una certa altezza; così potrei affermare di più d'uno. Per il momento, la neve è scesa troppo giù e presenta ostacoli insormontabili. Se volete seguire il mio consiglio, spingetevi domani di buon'ora, coi muli, fino alle falde dei Monti Rossi, e salitene poi la sommità; di lì godrete uno spettacolo superbo e osserverete nel tempo stesso la vecchia lava, che, scaturita in quel punto nel 1669, si è precipitata sciaguratamente sulla città. La veduta è magnifica e ben distinta. Quanto al resto, è meglio sentirlo raccontare».

 GIUSEPPE GIOENI. -- Il cavalier Giuseppe Gioeni, dei duchi d'Angiò, aveva fondato da poco il suo Museo di Storia Naturale, non ancor noto al tempo di Goethe (che è uno dei primi che ne parli) come quelli del Biscari e dei Benedettini. Lo stesso Spallanzani, che fu a Catania l'anno dopo (1788), scriveva: «Comincia a fiorire un terzo Museo, ancor poco conosciuto fuori, perchè recente». Numerosi sono gli scritti e gli elogi dedicati dai catanesi al Gioeni, il cui Museo è tuttora in parte conservato all'Università, dove ha sede anche l'«Accademia Gioenia», ecc.

Litografia raffigurante Giuseppe Gioeni, duca d’Angiò


Palazzo Gioeni Asmundo in piazza Università a Catania.



Albergo “Leon D’Oro”
Catania, sabato 5 maggio 1787.
   Seguendo questo buon consiglio, la mattina per tempo ci siam messi in cammino e rivolgendoci sempre a guardare indietro, dall'alto dei nostri muli, abbiam raggiunto la zona delle lave non ancora domate dal tempo. Blocchi e lastre frastagliate ci presentavano le loro masse irrigidite, attraverso le quali le nostre cavalcature si aprivano a caso un sentiero. Giunti alla prima vetta d'una certa importanza, abbiamo fatto sosta. Il Kniep ha riprodotto con grande esattezza ciò che si presentava innanzi a noi dalla parte della montagna: le masse di lava in primo piano, le vette gemelle dei Monti Rossi a sinistra, e di rimpetto a noi la selva di Nicolosi, sopra la quale si ergeva il cono dell'Etna ricoperto di neve e leggermente fumante. Ci siamo accostati ancor più sotto i Monti Rossi ed io ne ho raggiunto una cima: è tutta un ammasso di rottami vulcanici di color rosso, di cenere e di lapilli. Avrei potuto girare senza difficoltà intorno al cratere, se un impetuoso vento di burrasca non avesse reso mal sicuro ogni passo innanzi; per procedere un poco, avrei dovuto togliermi il mantello; ma il cappello era sempre in pericolo di volare entro il cratere, ed io dietro a lui. Perciò mi posi a sedere, per riavermi un po' e per contemplare il paesaggio, ma anche questa posizione non giovò a nulla; la burrasca veniva proprio da oriente, coprendo la magnifica regione che si stendeva ai miei piedi in lungo e in largo fino al mare. Avevo sott'occhio tutta la distesa della spiaggia da Messina a Siracusa, con le sue insenature e i suoi golfi, ora completamente libera, ora un po' nascosta da qualche scoglio sulla riva. Come fui ridisceso, tutto stordito, trovai il Kniep, che sotto una tettoia aveva impiegato bene il suo tempo, fissando a rapide linee sulla carta quello che la furia dell'uragano, non che imprimermi nella mente, m'aveva a mala pena lasciato travedere.
   Ritornati nelle fauci del Leon d'oro, ritrovammo il cameriere, che a gran fatica avevamo potuto distogliere dall'accompagnarci. Ha approvato la nostra risoluzione di non spingerci fin sulla vetta, ma ci ha proposto con molta insistenza, per domani, un'escursione a mare fino agli scogli di Jaci: la più bella gita di piacere, che si possa fare a Catania: si porta con sè da mangiare e da bere, e qualche masserizia per fare un po' di cucina; tutte cose, che sua moglie avrebbe assunto sopra di sè. Egli non poteva dimenticare infine l'allegria di certi inglesi, che s'eran fatti accompagnare con musica in una barchetta, un divertimento da non potersi immaginare.
   Gli scogli di Jaci rappresentavano una grande attrattiva per me; avevo una gran voglia di far raccolta di quei bei zooliti, come ne avevo visto in casa Gioeni. Si poteva sbrigare la faccenda e rinunziare alla compagnia della donna; ma lo spirito ammonitore dell'inglese ebbe il sopravvento; abbiam rinunciato ai zooliti e ci siam chiamati non poco contenti di codesta rinunzia.

   La escursione del G. sull'Etna si limitò, come quella di parecchi altri viaggiatori, alla gita a Montirossi. Come il Gioeni, anche lo Spallanzani sorride degli stranieri, che novellarono dell'Etna, senza aver compiuta l'ascensione. -- Una guida dell'Etna spesso lodata dagli escursionisti del tempo, era Biagio Motta, ricordato anche nel Viaggio Payne-Knight-Hackert edito dal Nostro. Un ritratto del Motta trovasi nel Viaggio dello Houel.

La guida Biagio Motta detto il Ciclope.

Veduta Monti Rossi – 1776/79.
Opera di Jean-Pierre Houël
 Le belle «zeoliti» ammirate dal G. erano state osservate e studiate dal Dolomieu, poi dallo Spallanzani, che descrive la sua escursione, fatta per consiglio del Gioeni, nel primo vol. de' suoi Viaggi (Pavia, 1792).

Zeoliti 

Albergo “Leon D’Oro”
Catania, domenica 6 maggio 1787.
   Il nostro cicerone in sottana non s'è fatto aspettare. Ci ha condotti a vedere gli avanzi di monumenti antichi, per ammirare i quali, certo occorrerebbe da parte dell'osservatore un pronunciato talento di restaurazione. Ci ha poi fatto vedere i resti di certi bacini, d'una naumachia e simili rovine, tutto però talmente soffocato e sprofondato in seguito alle ripetute distruzioni della città per opera delle lave, dei terremoti e delle guerre, che solo a più esperto conoscitore d'architettura antica ne può venire istruzione e diletto.
   L'abate ci dispensò dal fare una nuova visita al principe e così ci siamo congedati con le espressioni più cordiali di gratitudine e di simpatia da ambo le parti.
IL VIVAIO - I serbatoi d'acqua cui si accenna, più volte descritti, eran detti nel loro complesso il Vivaio e si trovavano ad Acicastello, opera idraulica-agricola del principe Biscari, allora molto ammirata.

Veduta prospettica della Villa Scabrosa.
R. Bowyer,View at Villa Scabrosa, Londra 1809.

[... segue Taormina ...]

Prima di lasciare l’Isola e riprendere il viaggio in direzione di Napoli, Goethe dirà della Sicilia : L’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra. […] Chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita.

Catania era una città che i viaggiatori stranieri del XVIII secolo lodarono, sopra ogni altra città siciliana, per la sua cultura. Una cultura storica ed archeologica grazie al Principe di Biscari (Ignazio Paterno Castello) e storica naturalistica per merito del Duca Giuseppe Gioeni D’Angiò (esperto naturalista, mineralogista e vulcanologo).
I musei di Palazzo Biscari e Palazzo Gioeni iniziarono ad essere citati dalla prima guida di Catania (Descrizione di Catania, 1847) ad opera del marchese di Carcaci.
Queste raccolte museali erano però conosciute già al tempo di Goethe.
In merito all’ubicazione del famoso albergo “Leon D’Oro” ci sarebbe un’altra tesi 
che indicava l’Albero Leon Doro posto al piano terra del palazzo Sammartino del Pardo.. L’ubicazione dell’albego sarebbe vicina a quella di via San Martino dei Bianchi che  fu ritenuta la più valida e nella cui facciata fu posta una lapide a memoria del soggiorno del Goethe e del suo amico Kneip.

L’ubicazione del Palazzo Sammartino del Pardo.
Con il cerchio rosso, il sito dell’albergo “Leon D’Oro” in via San Martino dei Bianchi.

Catania - Palazzo Sammartino del Pardo

Il Palazzo Sammartino del Pardo è una bellissima espressione del tardo-barocco
risalente al XVI secolo. La dimora fu abitata per un lungo periodo dalla
nobile famiglia “Sammartino Pardo di Ramondetta”.
Una famiglia di probabile origine spagnola e giunti a Catania dalla Catalogna.

Secondo  un’altra ipotesi il Goethe trovò alloggio in un locale al piano terra del palazzo del Principe Pardo (Francesco San Martino Pardo) con ingresso sul Vicolo Pardo.
La maggior parte delle strutture ricettive, detti “fondaci” e dei primi alberghi di Catania si trovavano nei vicoli adiacenti al primo tratto della via che oggi è detta “Vittorio Emanuele”.
Non sono riuscito ad individuare  l’autore di queste fonti storiche.
Un’altra fonte citò il “Leon D’oro” non molto lontano da via Vittorio Emanuele e precisamente nella casa che era di proprietà dei baroni Anzalone e successivamente del barone Poliero, sempre sita in Via Vittorio Emanuele.
Il «Leon d'Oro» era poco lontano, e precisamente nella casa allora di proprietà dei baroni Anzalone, oggi del barone Poliero, in via Vittorio Emanuele.
Non ho trovato tracce sul barone Poliero  ma dei riferimenti sul Palazzo Polino Sant’Alfano che fu degli Anzalone e residenza del Principe Bonanno.
Palazzo che si trova in Via Anzalone n.7.

Con il cerchio rosso il palazzo  Anzalone Polino di Sant’Alfone (?).
Lo studioso riferì come la più antica famiglia di albergatori  a Catania sia stata quella degli Abbate (l’Abate della ricerca citato nelle gestione del Leon D’Oro di via San Martino dei Bianchi?).
Uno dei più antichi Abbate era soprannominato popolarmente «Cacasangue» e godeva fama di maligno ospite dei forestieri d'oltr'Alpe. Anche il noto poeta dialettale Dom. Tempio lo chiama «Ingannamercanti». Quest'ultimo, che teneva albergo precisamente in casa Poliero, oppure il suo successore può essere aver ospitato Goethe al «Leon d'Oro».
Carlo Grass, amico del Goethe., nel 1804 alloggiò a Catania presso un Lorenzo Abbate, forse nello stesso albergo. Il Seume (che del resto alloggiò qualche anno prima nel vicino «Elefante») nomina espressamente il «Leon d'Oro» come albergo di inglesi.



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