PALERMO - LA CHIESA DI SAN GIOVANNI DEI LEBBROSI (SAN GIOVANNI BATTISTA)
La
Magione non fu il solo complesso che fu consegnato ai Teutonici nella città di
Palermo. All’Ordine Teutonico fu infatti concessa la preesistente chiesa
dedicata a San Giovanni Battista detta successivamente “dei Lebbrosi” e posta
nell’attuale Via Cappello, nella zona ovest della città.
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Indice
1.
La Storia della Chiesa di San
Giovanni Battista (Dei Lebbrosi) – Il Ponte dell’Ammiraglio;
2.
La Costruzione della Chiesa da parte
di Roberto il Guiscardo e di Ruggero I d’Altavilla;
3.
La Costruzione del Lebbrosario da
parte di Ruggero II d’Altavilla – Le Donazioni
4.
Federico II di Svevia concede il
Lebbrosario e la Chiesa alla Magione (Basilica della SS Trinità del
Cancelliere) dei Cavalieri Teutonici;
5.
Abbandono del Lebbrosario e della
Chiesa da parte dell’Ordino Teutonico – Dipendenza dall’Ospedale Nuovo;
6.
La visita al Lebbrosario della regina
Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando I di Borbone (Delle Due Sicilie)
– Le condizioni dei malati in una relazione di Pietro Pisani – Il Trasferimento
dei malati nel Convento (Noviziato dei Teresiani Scalzi) – Relazione di Pietro
Pisani – Il Nuovo Ospedale “Reale Casa dei Matti” grazie alla donazioni di
Ferdiando I e Francesco I di Borbone – Il direttore Pietro Pisani e la sua
grande Umanità – Una struttura modello descritta da Willis nel Metropolitan
Magazin – Edgar Allan Poe riportò l’esperienza del barone Pietro Pisani nel suo
famoso romanzo “ The Sistem of Dr. Taer and professor Fether” – La trama del
racconto (8)
7.
L’Archiettura della Chiesa –
L’intervento dell’Architetto Francesco Valenti
8.
Il Racconto di Edgar Allan Poe “ The
Sistem of Dr. Taer and professor Fether”
Altre Commende dell’Ordine Teutonico
Palermo – La Magione
- Basilica della SS. Trnità del Cancelliere
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/05/palermo-la-magione-e-i-cavalieri.html
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Prizzi (Palermo) - Il Castello della Margana
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/05/prizzi-palermo-il-castello-della.html
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1.
La storia della
Chiesa di San Giovanni “dei Lebbrosi”
L’origine
della chiesa è molto controversa. Secondo Tommaso Fazello (studioso, storico e
frate domenicano vissuto dal 1498 al 1570) ed altri storici, anche di epoca
recente, la chiesa fu costruita nel 1071 durante l’assedio della città di
Palermo, in mano agli Arabi, da parte
dell’esercito normanno guidato dai due fratelli
Roberto il Guiscardo e Ruggero d’Altavilla.
Si
parla di un assedio lungo circa cinque mesi in cui gli Arabi opposero una forte
resistenza. Qui sorgevano i resti, forse i ruderi, di un castello saraceno
chiamato “Yahya” (“Giovanni”) sui
quali fu costruita la chiesa dedicata a San Giovanni Battista.
Costruzione
che sorse a poca distanza dal fiume Oreto, in una località che in epoca araba
era coperta da un rigoglioso dattereto. Alcuni decenni dopo Giorgio d’Antiochia,
ammiraglio bizantino al servizio di Ruggero II, edificò il Ponte dell’Ammiraglio che serviva a
scavalcare il corso d’acqua e permettere l’accesso e il transito delle merci.
Ponte
dell’Ammiraglio che si trova a circa 500 m dalla chiesa di S. Giovanni dei
Lebbrosi.
Ponte dell'Ammiraglio
Il ponte fu
costruito verso il 1132 e rappresenta un importante testimonianza
d’ingegneria medievale normanna. Realizzato in pietra da
taglio, conci regolari
di calcarenite, è
notevole sia per le dimensioni sia la realizzazione nell’epoca.
Per la tecnica
costruttiva e la morfologia richiama una tipologia diffusa nell’area
maghrebina. Il nome è legato al suo fondatore, l’Ammiraglio Giorgio di
Antiochia,
che era al servizio
del Re Ruggero II dal 1125 e
fondatore anche della
chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio.
Il ponte, posto
nell’odierno Corso dei Mille, fu costruito fuori le mura della città normanna,
vicino alla porta Termini e in origine attraversava il fiume Oreto.
Serviva a
collegare la città ai giardini posti al di là del fiume Oreto.
Riguardo
all’ingegneria è opportuno sottolineare alcuni aspetti:
-
La
caratteristica configurazione a “schiena d’asino”, con due rampe simmetriche
rette da ben sette campate ad arco ogivale e ghiere a rincasso.
-
Le
arcate sono scandite da sei massicci piloni dotati a loro volta di aperture a
sesto acuto in modo da ridurre la spinta del fiume in piena;
-
l’uso
degli archi molto acuti che permetteva al ponte di sopportare dei carichi elevatissimi;
-
L’apertura
degli archi minori, posti tra le spalle degli archi grandi, serviva ad
alleggerire la struttura e la pressione del fiume sottostante.
Un fiume che
diventava spesso pericoloso con le sue piene.
Il ponte riuscì a
superare anche l’alluvione di Palermo del febbraio 1931.
La spedizione dei
Mille, il 27 maggio 1860, si scontrò su questo ponte con
l’esercito
borbonico che era schierato. Il ponte costituiva l’ingresso della
città per chi
giungeva da mezzogiorno e Garibaldi giungeva da Gibilrossa.
Lo scontro
determinò l’insurrezione popolare.
Nel 1938, a causa
dei continui straripamenti, il fiume Oreto fu deviato e
questo consentì
l’allargamento del Corso dei Mille.
Dal 3 luglio 2015
il ponte fa parte del Patrimonio dell’Umanità (Unesco) nell’ambito
dell’Itinerario
Palermo Arabo-Normanna” e le Cattedrali di Cefalù e Monreale.
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2. La Costruzione della Chiesa
La
chiesa sorge su un’antica pianura alluvionale sul quale si trovava un
rigoglioso dattereto. Su questa pianura le truppe normanne posero il loro
accampamento prima di sferrare l’attacco.
Un
attacco mirato ai due quartieri importanti dal punta di vista strategico e
posti a settentrione del fiume: La Kalsa e il fortificato Cassero. Il primo
quartiere era la dimora dell’Emiro e centro amministrativo mentre il secondo era il polo commerciale e
il fulcro religioso della città.
Nei
mesi dell’assedio accanto al vecchio castello, denominato San Giovanni
Battista, fu quindi edificato il nuovo tempio dove fu celebrata la prima
vittoria con la consacrazione e dedicazione al Precursore ( San Giovanni
Battista), area prossima al castello di Maredolce nel Parco della Favara.
I
lavori forse iniziarono nel 1071 ma furono completati anni dopo. Sembra che
l’edificio sia stato ultimato alla morte di Roberto il Guiscardo avvenuta nel
1085.
La
chiesa si può considerare come la prima costruzione normanna nella città di
Palermo.
L’edificio
si trova nel quartiere o rione “Settecannoli”, in Via Salvatore Cappello, nella
parte meridionale della città non lontano dal Ponte dell’Ammiraglio sul fiume
Oreto.
Dell’antico
castello arabo rimasero dei resti visibili nel giardino retrostante la chiesa e
che consistono in tratti di muro e frammenti di pavimentazione.
3. La Costruzione del Lebbrosario da parte di Ruggero II
d’Altavilla
Il
lebbrosario, invece, sarebbe stato costruito da Ruggero II (1130 – 1154) alla
prima metà del XII secolo vicino alla Chiesa costruita dal padre.
Una
tradizione, che non presenta precisi riscontri storici, vorrebbe il lebbrosario
costruito sempre da Ruggero II ma in memoria del fratello Goffredo, figlio di
Ruggero I e di Giuditta d’Evreux, malato
di “morbus elephantinus” e che morì, secondo il cronista normanno
Goffredo Malaterra, di lebbra.
Un’altra
tradizione lega la fondazione del lebbrosario, sempre da parte di Ruggero II,
all’insalubrità del luogo colpito dai miasmi del fiume Oreto.
Ciottolato forse
di pertinenza del vecchio castello arabo
Ruggero
II dotò quindi la chiesa originaria di un ospedale ed elargì alla struttura
tutta una serie di casali, beni e privilegi che furono confermati dal figlio
Guglielmo I (Il Malo).
Guglielmo
I vi fece trasferire i lebbrosi che erano ospitati presso le strutture della
Chiesa di San Leonardo. Una chiesa che era posta nell’attuale area del Convento
dei Frati Minori Cappuccini
Il
re Guglielmo I (Il Malo) nel maggio 1155,
con un diploma scritto in arabo, proveniente dal tabulario della Commenda della
Magione, donava all’Ospedale di San Giovanni dei Lebbrosi di Palermo il casale di Margana (Prizzi) con “31
villani e le terre connesse”.
La
pergamena citò l’istituzione e l’edificazione dell’ospedale da parte del padre
Ruggero II ma senza indicare l’anno di costruzione.
4. Federico II di Svevia concede il Lebbrosario e la
Chiesa di San Giovanni alla Magione
(Basilica della SS Trinità del Cancellierie) in possesso dei Cavalieri
Teutonici
Nel
febbraio 1219 l’Imperatore Federico
II di Svevia, rendendosi conto dello stato di decadenza dell’ospedale, pose
l’amministrazione e la gestione dello stesso ospedale all’attenzione del
precettore della Magione in possesso dei Cavalieri Teutonici
Una
concessione legata alla politica di Federico II mirata alla salvaguardia del
suo regno e al mantenimento di un certo benessere sociale ai sudditi ed anche
al recupero
dell’ospedale
che a quanto sembra era in mano agli Arabi.
Il possesso dell’ospedale da parte dei
teutonici scatenò un aspro conflitto con
i fratelli di San Lazzaro, che fu risolta a favore dei cavalieri tedeschi.
Con
il privilegio del 1219 la provincia teutonica di Sicilia acquistava inoltre
circa 5000 ettari di terra.. ”ovvero la metà di quello che possedeva
all’epoca della sua massima espansione nel XV secolo”.
Nel
1221 unì “in perpetuo” l’Ospedale dei
Lebbrosi di Palermo, con tutti i suoi possedimenti o pertinenze, all’Abbazia
dei Cavalieri Teutonici della Magione.
Infatti
nel 1324 l’ospedale fu appellato con il termine “de infectis”, cioè struttura
destinata alla cura e al trattamento delle malattie infettive. Risalgono proprio
a questo periodo gli affreschi documentati nel cortile, in particolare con una
scena raffigurante la Madonna Annunziata ritratta con un cavaliere Teutonico
“genuflesso e orante”.
5. Abbandono del Lebbrosario e della Chiesa da parte
dell’Ordine Teutonico – Dipendenza dell’Ospedale Nuovo -
In
una lettera datata 23 novembre 1434,
il re Alfonso V d’Aragona citò la chiesa con annesso ospedale adibito a
lebbrosario “chiesa di San Giovanni de’ Lebbrosi” decretando l’esenzione di
tasse e gabelle. Rivolse inoltre ai Cavalieri Teutonici l’invito ad
abbandonarne la gestione pur consentendo
tuttavia alla chiesa di restare canonicamente unita alla Chiesa della SS
Trinità del Cancelliere (la Magione).
Nel
1442 il lebbrosario con l’Ospedale
di San Bartolomeo l’Incurabili, figura
come gancia o dipendenza dell’Ospedale Grande e Nuovo, fondato dal frate Benedettino
Giuliano Majali ed ubicato all’interno del Palazzo Sclafani.
Palazzo Sclafani
In
quel periodo l’Ospedale dei Lebbrosi di San Giovanni comprendeva anche malati
tisici e di mente.
Nel
1495 il lebbrosario fu amministrato dal Senato Palermitano e in seguito
trasformato in lazzaretto per le varie epidemie di peste che colpirono Palermo
dal giugno 1575. Un epidemia provocata
dagli intensi traffici marittimi e dagli attacchi dei corsari lungo le coste.
Il
Collegio di Notari che si costituì per la gestione della Chiesa e del Convento
di San Nicolò da Tolentino trasferì nel 1596 parte degli eremiti di
Sant’Agostino, che si erano insediati da poco tempo, e i vecchi membri
dell’ordine preesistente, ancora presenti nella struttura, nel Convento di
Santa Maria la Sanità che era aggregato alla Chiesa di San Giovanni dei
Lebbrosi.
Le strutture della Chiesa di San Giovanni dei
Lebbrosi con i nuovi insediamenti subì delle modiche architettoniche nel XVII
secolo. Gli interni del tempio furono stravolti con l’inserimento di volte in
muratura e con il rivestimento a decori in stucco che occultarono
addirittura anche le finestre delle navate laterali.
6. La visita al Lebbrosario
della regina Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando I di Borbone (Delle
Due Sicilie)
La
regina Maria Carolina d’Austria in una visita risalente al 1802, si rese conto
della precarietà dei locali e delle condizione pietose in cui vivevano i
ricoverati. Fece quindi trasferire i degenti e l’istituzione presso le
strutture dell’Ospedale dei pazzi o tisici che era ubicato nell’ex noviziato
dei Padri Teresiani Scalzi.
Le condizioni in cui si trova l’Ospedale dei Lebbrosi
(e non solo) emerge da una relazione del 1827…
“….
Questo spedale per la sua istrettezza, e per l’aria insalubre, che vi si
respirava, era più spesso di morte cagione, che di sanità agli ammalati. I
pazzi poi oltre di parteciparsi della comune sventura degli altri infermi, eran
di più barbaramente trattati.
L’infelice
condizione di questi esseri miserabili mosse a pietà la defunta nostra Sovrana
Maria Carolina D’Austria; e l’eccelsa donna concepì il sua mente il pio
disegno, di far erigere per costoro un nuovo spedale più spazioso, ed in
miglior maniera costrutto. E cercando un
luogo del primo più ameno, e la dove si potesse aria più sana respirare,
giudicò al suo scopo opportuno il Conventino una volta Noviziato dei Teresiani
scalzi.
Fece
con effetto in questo sito passare i pazzi e gli ammalati tutti, che dimoravano
nel vieto spedale di San Giovanni dei lebbrosi; ed ordinò nello stesso tempo,
che tutto quanto correva, si fosse prontamente eseguito, onde trasformare il
piccolo edificio in uno spedale, da potervi con decenza e comodamente allogare
gl’infermi”.
“Ma
le circostanze dei tempi non secondarono le caritatevoli intenzioni della
pietosa regina, l’opera restò imperfetta, e quelli infelici ricaddero
nuovamente nell’Ospizio di Santa Teresa in quelle stesse angustie, ed in quelle
stesse miserie dalle quali si credevan liberati”.
Maria Carolina d'Austria
Palermo - La Real Casa dei
Matti
“
Lo abbandono, nel quale trovai per verità questo luogo, se dai miei occhi non
fosse stato veduto, da chiunque udito lo avessi, io non lo avrei giammai
creduto. Esso la sembianza di un serraglio di fiere presentava piuttosto, che
di abitazione di umane creature.
In
volgere lo sguardo nell’interno dell’angusto edificio, poche cellette
scorgevansi oscure sordide malsane; parte ai matti destinate, e parte alle
matte.
Colà
stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati i maniaci e dementi i
furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i
più sulla nuda terra. Molti eran del tutto
ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tutti a
modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e
freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano.
Estenuati
gl’infelici, e quasi distrutti gl’occhi tenean fissi in ogni uomo, che
improvviso compariva loro innanzi; e compresi di spavento per sospetto di nuovi
affanni, in impeti subitamente rompeano di rabbia e di furore.
Quindi
assicurati dagli atti compassionevoli di chi pietosamente li guardava, dolenti
oltre modo pietà chiedevano, le margini dei ferri mostrando, e le lividezze
delle percosse, di che tutto il corpo avean pieno.
Quai
martiri, oh Dio, e quanti !
Eppure
altre angosce incredibili e vere quei meschini sopportavano. Oltre degli accennati
mali, varie infermità pestifere
vedevansi alle loro membra appiccate: poiché si facean con essi insieme
convivere gli etici, i lebbrosi, e tutti coloro, che da sozzi morbi cutanei erano
viziati.
Colpito
da sì atroce spettacolo, e stimolati da intensa brama, di soccorrere quelle
vittime, colli ad esse accostarmi: ma ne fui con veemenza respinto dallo
insoffribile puzzo, che forte spirava da quelle carceri di lordume
incrosticate.
E
quali maggiori crudeltati, tra me dicea, usar si potrebbero in traditori, ed in
pubblici
Stimolato,
come dissi, dal vivo desiderio, di trarre d’affanno quei miseri, a niuna altra
cosa badando, mi rivolsi a far subito svellere, e gettar fuori dallo spedale quelle
odiose catene, ond’essi erano empiamente avvinti; e contro delle quali si erano
innalzate invano le grida della umanità. Con parole consolanti, ed ancor più
con fatti mi diedi poscia a ristorare quei disgraziati, soavi liquori facendo
loro apprestare e cibi ricreativi.
Eglino,
che sino allora durissima vita avean menato, vedendosi ad un tratto sgravati
dallo enorme peso delle catene, con affabili maniere trattati, e con sani
alimenti rinvigoriti, lietissimi levaronsi in piedi, con le scarne braccia il
collo strettamente stringendo di coloro, dai quali avevan sì gran bene
ricevuto….
“Terminato
questo, non indugiai a disporre, che sì i matti come le matte fossero
immantinente provveduti di tutto quel, che alla comoda esistenza di uomini
ammalati era comportevole; e di fatti in pochi dì furono essi di camicie, di
vestimenti, di scarpe, di lenzuola, di coltri, e di letti forniti, facendo
nelle fiamme buttare, chè ad altro mai servir non poteano, quei fetidi cenci,
che le membra di pochi di loro avean per lo innanzi vergognosamente coperto.Non
lasciai in fine di severamente proibire, non che l’uso infame delle bastonate,
ma di tutte quelle parole ancora, che dispregio ed avvilimento esprimessero…”
(Relazione del barone Pietro Pisani)
Il
Governo dopo pochi giorni trasferì gli ammalati in un altro Ospedale e lascio “per
i soli matti l’Ospizio di Santa Teresa”.
Grazie
agli aiuti economici dei sovrani, prima con “il beneficentissimo Ferdinando
primo, se non utti i mezzi, buona parte almeno per la redificazione …” e
successivamente con “il Piissimo Francesco primo, felicemente regnante, non
solo volle con paterno cuore altri sovvenimenti aggiungere a quelli dell’ottimo
suo genitore, onde si fosse intieramente compita un’opera di sì immensa carità,
appena cominciata, ma si degnò ancora di onorarla con lo splendido titolo di
Real Casa Dei Matti…”.
L’impianto
ospedaliero cambiò decisamente e vi furono accolti solo pazienti con turbe
psichiche. Fu quindi proibito l’uso di vocaboli come “folle, pazzo, ecc.” e
s’impose che i malati fossero chiamati con i loro nomi; furono abolite le punizioni
coercitive e l’uso della camicia di forza oltre all’isolamento in camera che fu
adoperato solo in casi estremi.
Con
queste innovazioni la “Real Casa dei Matti” di Palermo diventò l’esempio per
analoghe strutture europee e fu tanto innovativo ed ammirato che Nathaniel Parrker Willis nella sua opera “The
madhouse to Palermo”, pubblicato sul The Metropolitan Magazine, lo indicò come
esempio per le strutture ospedaliere in costruzione negli Stati Uniti.
Nella
sua sosta in Sicilia lo scrittore Willis
riportò in una lettera scritta al New York Mirror, apparsa sul quotidiano il 28
giugno 1833, il suo incontro col il barone Pisani parlando della Real Casa dei
Matti.
Il
Willis scisse…”Questa è gestita da un estroso barone siciliano, che vi ha
dedicato il suo tempo e la sua fortuna. Questo ospedale si trova in un arioso
spazio situato in un bel quartiere di Palermo. All’ingresso siamo stati
ricevuti da un rispettabile portiere in livrea, che ci ha subito accompagnati
dal vecchio barone, un uomo avanti con gli anni e dalle maniere particolarmente
signorili, che venendoci incontro e protendendo subito le braccia verso di noi,
ci ha detto. “Je suis le fou premier”, incitandoci così ad entrare”.
Ritornato
in America lo scrittore riportò le sue note siciliane col il titolo “The Madhouse to Palermo”
pubblicate come già detto nel 1834 sulla rivista “The Metropolitan Magazine”.
Ne
venne fuori un attenta descrizione della struttura con i suoi ambienti, con un
articolata descrizione delle stanze per le donne, degli ambienti per gli
uomini, del numero dei pazienti e soprattutto si metteva in risalto l’ambiente
sereno in cui vivevano gli infermi. Infermi che sorridevano, per niente
malinconici, di alcuni di loro che erano dediti alla lettura… leggevano Ariosto…
dipingevano, conversavano; tutti assistiti e curati non con il ricorso alla
forza e alla costrizione ma con la benevolenza, con l’occupazione costruttiva
del tempo, con la gentilezza che sono in grado di alleviare le sofferenze
mentali.
Nelle
pagine di Willis si snodano le storie dei pazienti della Casa affetti da una
demenza affrontata senza accanimento e senza crudeltà, con il rispetto
dell’identità personale e della libertà del soggetto. Proprio per fare
conoscere questi metodi del tutto innovativi raccontò l’impresa del singolare barone
Pisani. Due anni dopo, nel 1836, lo stesso Willis, incluse il suo reportage
siciliano in una raccolta di scritti “Inglinks of Adventure”.
Edgar
Allan Poe lesse, da quest’ultimo volume, il racconto palermitano di Willis, del
quale era amico, e lo citò in un suo articolo sul “Southern Literary
Messenger”. Nell’articolo si parlava delle case di cura per malati di mente che
stavano nascendo in quel periodo in America. Ma la ricostruzione di Willis
appassionò a tal punto Edgar Poe da spingerlo, anni dopo, a trasformarla in una
personale e fantastica storia narrativa. Nasceva così uno dei capolavori
letterari di Edgar Allan Poe, del 1845, “The sistem of Dr. Tarr and Professor
Fether”.
L’artefice
della costruzione della “Real Casa dei Matti” ma soprattutto della visione
di un'assistenza umana ai poveri infermi
fu un barone siciliano, forse dimenticato malgrado la presenza nel tessuto
ospedaliere di un ospedale a lui dedicato ma
letto probabilmente con distacco,, perchè lontano dai nostri tempi….
Pietro Pisani
(Palermo, 1761; Palermo, 6 luglio 1837)
Archeologo, ed
interessi anche nella musica e nella pittura.
Fondò il 19 agosto
1824 la Real Casa dei Matti di Palermo, luogo di cura
delle malattie
psichiatriche. Morì a causa del colera.
La condizione
umana…
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7. L’Architettura della Chiesa
Il
lebbrosario, abbandonato ed in disuso, fu trasformato in stabilimento per la
concia della pelle, nei primi anni dell’ottocento.
Del
vecchio ospedale è rimasto qualche muro mentre la chiesa sembra un monumento
dimenticato….
L’attuale
aspetto della chiesa è dovuto all’intervento di restauro che fu eseguito nei
primi anni del XX secolo dall’architetto Francesco Valenti (nato a Palermo nel
1868). Il Valenti era sovrintendente ai monumenti della città nell’epoca,
importante studioso di storia normanna, e decise con un saggio intervento di
eliminare tutte quelle sovrapposizioni architettoniche che si erano realizzate
nei secoli.
L’intervento
del Valenti fu eccezionale perché
riuscì, anche dove mancavano indizi storici e schematici, a dare all’edificio
uno stile simile a quello normanno-arabo. Una costruzione normanno – araba perché gli architetti normanni erano spesso
affiancanti da colleghi arabi.
Fu
abbattuta la pesante volta portante a botte, con teste di padiglione della
navata centrale e demolite le volte a crociera delle navate laterali. Furono scrostati
gli intonaci e gli stucchi che appesantivano l’edificio.
Fu
ricostruito l’altare marmoreo della tribuna prendendo come riferimento l’altare
esistente nella chiesa di San Cataldo; fu abbassato il pavimento ripristinando
quello originario al tempo dei Normanni.
Interventi
anche sulla facciata della chiesa collocando delle scale che permettono
l’accesso al portico del campanile e che apre l’ingresso alla chiesa. Un
intervento legato allo stile Normanno.
Gli
smussi degli angoli dei pilastri portanti, le archeggiature, mostrano ancora
oggi le tracce degli interventi.
I
lavori di restauro iniziarono nel 1920 e furono ultimati nel 1934.
La
chiesa ha un orientamento sud-ovest ed è costruita in muratura con conci di
calcarenite (tufo calcare, conchigliare, arenario) che sono disposti in filari
regolari. Ha un impianto basilicale a croce latina con tre navate che sono
divise da tre coppie di robusti pilastri a pianta rettangolare dove si
collocano quattro arcate a sesto acuto. Le navate sono coperte da tetti lignei
ben visibili.
Per
l’intervento sul pavimento, l’area del presbiterio (l’altare) è sopraelevata ed
un breve spazio rettangolare precede l’abside dell’altare centrale. La
copertura del presbiterio è eccezionale. È costituita ai lati con volte a crociera
e in alto la tipica cupola è ricoperta
di colore rosso impermeabilizzato. Cupola che poggia su un tamburo quadrato
all’esterno mentre all’interno si trovano otto archi ribassati. Gli imbocchi
absidali sono agli angoli di colonnine incassate, alcune sono originali mentre
altre sono imitazioni di gesso.
Il
capitello della colonna angolare destra dell’abside destro, sull’echino porta
un’iscrizione araba a carattere cufici che sono purtroppo illeggibili per il
cattivo stato di conservazione. Iscrizioni in caratteri cufici di tipo
omayyade-andaluso
La
navata centrale è preceduta dal portichetto in cui si apre l’ingresso
principale. Nell’angolo si sinistra si trova una rientranza in cui è stato
ricavato un ambiente e nel quale è stata collocata la scala d’accesso al
piccolo campanile.
Oltre
all’ingresso principale è presente un altro ingresso, che potremo definire
secondario, che permette l’accesso alla navata sud e un altro ingresso di
servizio che permette l’acceso al presbiterio dal lato nord.
Le
finestre presentano la strombatura verso il suo interno, mentre all’esterno
sono racchiusi con archi ribassati. In origine erano forniti di transenne a
traforo, poiché furono trovati dei frammenti nelle murature.
Sopra
l’altare della navata centrale è posto un Crocifisso ligneo del quattrocento di
raro pregio in decorazione pittorica. Non ha notizia sul nome dell’artista ma è
probabile che sia stato eseguito da uno dei monaci del tempo.
Uno
dei prelati del tempio fu Don Domenico Tinaglia (Vicari (Pa), 21 febbraio 1938;
Palermo,7 giugno 2014). Ordinato presbitero il 10 giugno 1968, fu parroco della
chiesa dall’8 settembre 1970 fino alla sua morte
Una
vita dal grande fervore pastorale ma anche una forte dedizione alla cura e
salvaguardia del grande patrimonio culturale che gli era stato affidato.
Si
adoperò con grande dedizione affinchè l’edificio fosse curato con grande
attenzione e questo compito gli permise di mantenere in buono stato questo
gioiello dell’arte lasciandolo in condizioni migliori di come l’aveva ricevuto.
Al
suo intervento si deve anche la creazione del campanile con la cupoletta rossa
analoga a quella della crociera.
Interno a
tre navate su pilastri ottagonali che sorreggono gli archi longitudinali
Le navate laterali sono molto più strette di quella
centrale.
Possenti pilastri composti sorreggono gli archi di accesso al
presbiterio.
l
presbiterio è sopraelevato rispetto alla navata ed è coperto da una cupola su
pennacchi gradonati
Le colonne rincassate ai lati dell'abside principale hanno dei bei capitelli di stile classico ma probabilmente opera di maestranze arabe.
Più movimentata è la parte
absidale. Il transetto non è eccedente in pianta ed è costituito da tre volumi
parallelepipedi di cui quello centrale a pianta quadrata sorregge la cupola in
stile moresco. I due laterali costituiscono i bracci ed hanno una pianta
rettangolare sviluppata in senso longitudinale.
È
uno degli edifici medievali in stile normanno più antichi della città e in
alcuni suoi aspetti si collega alla Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio,
detta la “Martorana” e alla Chiesa di San Giovanni degli Eremiti e a quella di
San Cataldo.
Un
monumento che spesso viene lasciato in disparte negli itinerari turistici della
città.
8 Il Racconto
di Edgar Allan Poe “ The Sistem of Dr. Taer and professor Fether”
Poe
racconta in prima persona la storia, ambientandola non in Sicilia ma nella
Francia meridionale.
Accompagnato da un amico- proprio come
era stato per Willis a Palermo - narra d' essere andato a visitare la curiosa
Maison de Santè di cui ha tanto sentito parlare, soprattutto per il metodo di
cura che si applica ai folli, quello della "dolcezza". Appena
arrivato, viene presentato a monsieur Maillard, il direttore della maison che
ha i tratti del barone Pisani: questi lo introduce amabilmente a visitare i
luoghi e gli ambienti ameni del palazzo. Poi, intrattenendosi ancora con lui, e
confessandogli che ha dovuto abbandonare il metodo della dolcezza verso i suoi
pazienti, sostituendolo con un trattamento più duro e restrittivo, lo invita a
cena. Nel frattempo fanno la loro apparizione strani personaggi: camerieri in
livrea dallo sguardo inquietante, giovani e misteriose donne. Poi è la cena,
durante la quale Maillard presenta al suo ospite, i suoi bizzarri
collaboratori: ed è una successione di personaggi oltremodo stravaganti e
stralunati. La conversazione a tavola diventa un costante racconto, da parte
dei sedicenti collaboratori del direttore, di aneddoti divertenti e
paradossali, in una successione di dialoghi e battute grottesche ed esilaranti,
che lasciano stupefatto e confuso l' ospite di Maillard. Ad un tratto però,
nella sala della cena, si avverte un rumore che diventa sempre più forte e che
sembra quello di gente che corre convulsamente e velocemente, finché irrompono
nella sala una decina di persone. Sono i veri collaboratori di Maillard,
costretti a stare rinchiusi in un piano sotterraneo da quando il direttore
della Maison, impazzito egli stesso, s' è messo in combutta con i
"pazzi" ribaltando così i ruoli: i "pazzi"" sono
diventati medici e infermieri, i medici e gli infermieri, come se fossero
pazzi, costretti alla cura con un trattamento singolare: incatramati e
impiumati giornalmente, come previsto dal sistema di due inesistenti scienziati,
il dottor Catrame e il professor Piuma. Nel suo racconto, Poe scrive: «A
Parigii provinciali del mezzogiorno erano tutti considerati un po' eccentrici»:
probabilmente, dopo aver letto dell' impresa del barone Pisani e della Real
Casa dei Matti - che gli sarà apparsa sin troppo avveniristica per poter
veramente essere efficace - ha pensato la stessa cosa dei siciliani e della
Sicilia. Dell' isola, peraltro, ricorrono spesso, nelle opere di Poe, dei
rimandi all' Etna mentre un verso di una sua poesia decanta romanticamente le
«lucciole delle notti siciliane».
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