Dal Castello della Baronessa di Poira ai Ponti Romani sul Simeto














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Indice:

1.      Ubicazione; Contrada “Poira”;
2.      Storia – I Feudatari : Platamone, Ciancio; Spitaleri
3.      Il Barone Felice Spitaleri famoso viticoltore ed enologo. Il Feudo della Solicchiata;
4.      La Causa tra il Comune di Paternò ed il Barone Antonino Ciancio, 10 gennaio 1843, per gli Usi Civici nel feudo di Poira.
5.      La Banda Maurina sequestrò il Barone Spitaleri, con la sua famiglia, nel castello di Poira;
6.      Le Ricerche Archeologiche. Alcuni reperti tra cui una oinochoe con un iscrizione;
7.      Il fabbricato;
8.      I Calanchi di contrada Cannizzola;
9.      Il sito di Poira nella Viabilità Antica;
10.  I due Ponti romani;
a.       Il Ponte Romano di Pietralunga (Paternò) (ruderi); L'ex Allevamento di cavalli  della "Real Razza Persano";
b.      Il Ponte romano di Contrada Papartello (Centuripe) (ruderi);
11.   I “traghetti sul Simeto: Le Giarrette. Il fiume Simeto era chiamato anche “Fiume della Giarretta”. I punti per traghettare. Il documento del 1843 in merito al servizio e proprietà delle Giarrette  e per la pesca nel Simeto (ed i suoi affluenti). I pesci presenti nel Simeto nel 1845.

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1. Ubicazione




Le rovine del Castello della Baronessa di Poira si trovano tra Paternò, di cui fa parte, e Centuripe.
I riferimenti sul castello non sono molti.
La contrada prende il nome dal suo paesaggio collinare perché il termine “Poira”, in lingua siciliana, significa “poggi”.




Da Poggio Còcola ( 382 m s.l.m.), posto di fronte al castello ad Est, si ammira un ampio panorama sulla vasta Valle del Simeto.











2.     Storia
Il castello fu edificato probabilmente in età medievale sui resti di un antico centro abitato dai Siculi e in età moderna fu la residenza dei Baroni Spitaleri di Adernò (Adrano – Catania)  proprietari dell’immenso feudo.





I primi feudatari della Baronia di Poira furono la famiglia Platamone.

Dal “Nobiliario Di Sicilia”
Del Dott. Antonino Mango, Marchese di Casalgerardo
(Palermo, 26 gennaio 1876; Milano, 30 gennaio 1948)
Si vuole che abbia avuto a capostipite, in Sicilia, un Battista, presidente
del Regno nel 1436. A noi però risulta che nel 1366 un Francesco Platamone
era notaro in Sicilia e nel 1409 un Paolo  acatapano nobile di Catania.
(Durante la dominazione normanna e quella aragonese per “acatapano” s’intendeva un
funzionario amministrativo e giudiziario locale che era addetto alla sorveglianza
dei commerci e dei mercati.
Dal latino medievale “catapanus, catepanus, cioè “soprintendente”).
Godette nobiltà in Palermo, Catania, Siracusa, Messina; possedette i principati di Cutò, Larderia, Rosolini; la ducea di Belmurgo; il marchesato di Mezzoiuso; la contea di Sant’Antonio; le baronie di Boscaglia, di Cattasi, Cefali, Churca, Cipolla, Imposa, Longarini, Mazzarone, Melia, Morbano, Nadore, Passaneto, Pojura, Priolo, Recattivo, Riddidini e Almidara, Risichilla, Roccapalumba, Rosabia e Raffo, Salto dei molini di Piazza, San Marco, Sannini e Cugno di Combaudo, Scirinda, Solarino, Terrati e Cavaleri, i Mezzigrani sulle tonnare di Arenella, San Giorgio, San Nicola e Solanto l’ufficio di detentore dei libri della deputazione del Regno di Sicilia, ecc. ecc.
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La famiglia, forse di origine greca, era nel Quattrocento una delle più
importanti di Catania. La sua attività principale legata ai commerci
fu affiancata dalla gestione di numerose cariche pubbliche.
Uno dei personaggi di maggiore rilevo fu Giovanni Battista Platamone,
laureato in legge all’Università di Padova  che dal 1420 ricoprì
numerose cariche di natura fiscale ed amministrativa tra cui quella di
vicerè e ambasciatore presso Alfonso d’Aragona e papa Eugenio IV.
Raggiunse una grande solidità economica a tal punto di essere in
grado di prestare denaro alla Corona (Ferdinando Il Cattolico)
Giovanni Battista Platamone, Adamo Asmundo e il re Alfonso il Magnanimo
furono legati alla nascita della prima Università Siciliana
avvenuta nel 1434, quella di Catania.

«Molte cose operarono questi due viceré durante la loro amministrazione, e varî dispacci loro, ora sottoscritti da ambedue, ora da uno di essi, si promulgarono nel regno. Fra questi è degno di ogni considerazione quello dato in Polizzi a' 18 di luglio dell'anno 1437, e sottoscritto da Battista Platamone, uno de' due mentovati viceré. Per intendere quanto sia interessante questo monumento, bisogna avvertire che nel concilio di Basilea, che convocato sin dall'anno 1431 andò poi a terminare nel 1443, fra le molte sante disposizioni che furono date da que' vescovi che lo componevano, una delle principali fu quella di abolirsi in avvenire tutte le riserve de' vescovadi, e degli altri benefìcî, che i papi costumavano di fare. Perciò nella ventesimaterza sessione, che fu tenuta in dì di sabato a' 25 di marzo 1436, fu promulgata una costituzione sinodale, per cui i padri annullavano tutte le riserve fatte dal papa nello stato romano, e in tutti gli altri luoghi del cristianesimo, e vietavano che se ne potessero mai più fare in avvenire. Questo era un secondo colpo dato alla corte di Roma dietro al primo, che avea ricevuto nella ventesima prima sessione tenuta a' 9 di giugno 1435, per cui malgrado gli sforzi de' legati di Eugenio IV erano abolite le annate.»  ( Giovanni E. Di Blasi – Storia dei Vicerè)

«...costando dagli archivii di questa famiglia che ei fu cavaliere catanese, e nacque in detta città da Bernardo Platamone; ed ebbe inoltre due fratelli: Pietro, che fu cavaliere dell'ordine di S. Giovanni Gerosolimitano, e Antonio, che fu vescovo di Malta fin dall'anno 1412, ed era monaco benedettino. Battista da ragazzo cadde in mare, e corse risico di sommergersi. Fu di poi mandato dal padre a Bologna ad oggetto di apprendervi la giurisprudenza, dove ricevé la laurea dottorale nell'una, e nell'altra legge. Ritornato in Sicilia ricco di legali cognizioni esercitò con molta riputazione il mestiere di avvocato; in guisa che arrivate al re Alfonso le notizie della di lui dottrina in giure, lo promosse l'anno 1420 al rispettabile grado di avvocato fiscale della gran corte, che esercitò per sei anni fino all'anno 1426, in cui rinunciò questa carica per volere del medesimo re, che lo chiamò presso di sé, come consigliere intimo, e segretario. L'elogio che ne fa questo principe, è il più certo argomento del conto in cui lo avea, imperciocché vien da lui detto consiliarius, et secretarius noster, et nostri cordis interiora sciendo, et conservando. Non fa perciò meraviglia che sia stato da questo sovrano adoprato nelle più scabrose commissioni. Noi sappiamo che fu mandato ambasciadore a varî pontefici, alla regina Giovanna di Napoli, e ad altri principi dell'Europa, e che sempre ottenne quanto il suo re bramava. Questi servigi resi alla corona gli fecero meritare, che fosse fatto giudice perpetuo della gran corte: cosa che finora è stata senza esempio, e inoltre la carica di presidente del regno, e poi quella di viceré proprietario, come in appresso diremo. Rammentasi con lode di questo cavaliere, che ritrovandosi il re Alfonso esausto in denari per le spese esorbitanti che gli conveniva di fare a cagione della guerra nel regno di Napoli, egli generosamente vendé il castello e il territorio di Aci suoi proprî per la somma di once novemila, che corrispondono a ventiduemila e cinquecento scudi, e soccorse così il suo sovrano. Fissano gli scrittori catanesi la morte di questo cavaliere intorno all'anno 1448”.

Catania – Palazzo Platamone


La famiglia Platamone ottenne il Feudo di “Pojara” forse nei primi anni del XV secolo e mantenne la proprietà fino al 1665 (XVII secolo) quando fu venduto alla famiglia Ciancio.


Antica famiglia di Adernò, che possedette le baronie di Martina e Poira.
Un Martino fu giudice pretoriano di Palermo 1771-72, del tribunale del Concistoro 1783-4-5, della Gran Corte Civile 1790. Un Emanuele sposò Caterina Galluppi ed, in occasione di tal matrimonio, ottenne dal padre donazione del feudo di Martina, del quale ottenne investitura a 30 gennaio 1778, fu proconservatore di Adernò nel 1779, 1786, 1789, 1793-97, nella quale carica vediamo dal 1799 al 1804 un Giuseppe Ciancio e Pisano, che morì nel 1804. Dal matrimonio di Emanuele con Caterina Galluppi, ne vennero tra gli altri: Antonino, che, come figlio primogenito, a 7 agosto 1797 fu investito di Poira con titolo di barone; Francesco, dottore in leggi, che fu proconservatore di Adernò dal 27 gennaio 1804 a 23 settembre 1812, succedendogli in detta carica il fratello Lorenzo, dapprima come interino, poscia, per la sua rinunzia, come proprietario a 6 aprile 1813.


Nel 1666 la “Baronia della Poira” apparteneva ad Antonio Ciancio (Adrano- Catania, 1620 ?; Adrano. 26 aprile 1687)  (figlio di Scipione Ciancio, 1620 ? - ?, e di  ?).
Sposò ad Adrano il 24 luglio 1660 Carmina Spitaleri (figlia di Vincenzo Spitaleri e di Rosaria Bartolo).
Dal matrimonio:
-          Giuseppe Ciancio (1640; 1740);
-          Scipione Ciancio (1670 – 1747);
-          Angela Maria Filippa Felice Sebastiano Pietra Ciancio (1670; ?)
-          Vincenzo Girolamo Ciancio (1671, ?)

Antonio Ciancio, Barone di Megli e Signore di Martina
(Il feudo Martina faceva parte della Contea di Adernò. Il 21 aprile 1673 , Ferdinando Aragona Montalto, principe di Paternò, ne aveva ricevuto l’investitura, come figlio primogenito ed erede universale, per la morte del padre , principe Aloisio. R.C. XI Indiz., f. 99). Antonio Ciancio acquistò da Ferdinando Aragona Montalto il feudo di Martina e ne ricevette l’investitura il 12 luglio 1680. Protonotaro del Regno, Processi Investitura, n. 6060)
Antonio Ciancio di Adernò prese l’investitura del Feudo di Poira, il 23 febbraio 1666 per averlo acquistato da Desiderio Platamone, agli atti di Notaio Francesco Zaccaria di Adernò il 5 luglio 1665.  S’investì in pari tempo per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (R.C., IV Indiz., f. 77) (Protonotaro del Regno, Processo Investiture n. 6390).  Il testamento di Antonio Ciancio fu redatto presso il Notaio Giuseppe Anastasio il 16 agosto 1686)
(Desiderio era figlio di Diego, Barone di Poira, e di Palagia De Jacio, fu Giacinto e di Domitilla San Filippo. Con la morte del padre Diego, Desiderio fu suo erede particolare per testamento in Notaio Giuseppe Spampinato di Catania il 6 agosto 1646. Sia Diego che Desiderio non s’investirono, ma il loro possesso è comprovato dall’atto seguente).
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Giuseppe Ciancio (Adrano,  ?; Adrano, 7 settembre 1740)
Si sposò due volte;
1.      Con Barbara Faraci, da cui i figli/e:
-          Agata Anna Maria Ciancio (1658, ?)
-          Anna Angela Maria Gaetana Ciancio (1660,..?)
-          Rosaria Ciancio (1670, 1694)
-          Antonino Ciancio (1700, 1760)

2.      Con Isabella Cucuzza, da cui i figli/e:
-          Antonino Nicolò Domenico Ciancio (1691, ?)
-          Pietro Paolo Antonino Gaetano Domenico Ciancio (1692, ?)
-          Carmela Ciancio (1700, ?)
-          Antonia Ciancio (1700, ?)

Barone della Poira con investitura del 12 luglio 1687 per la morte di Antonino, suo padre (R.C. X Indiz., f. 70 e Protonotaro, foglio 231). Morì ad Adernò, il 7 Settembre 1740, come risulta da fede della Collegiata Chiesa di Santa Maria Vergine dell'Assunzione.

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Antonino Ciancio ( Adrano, 1700 ?; Adrano, 24 giugno 1760), sposò il 23 settembre 1722, in Adrano, la cugina Carmela Rosso (figlia di Ignazio Rosso Albani e Celestri – Barone delle Settefarine -  e di Angela Maria Filippa Felice Sebastiana Pietra Ciancio).
Dal Matrimonio i figli/e:
-          Gaetano Biagio Ciancio (1720, 1793) ?
-          Isabella Dorotea Angelica Concetta Ciancio (1725,..)?
-          Rosaria Ciancio (1730, ..) ?
-          Rosa Anna Antonia Vincenza Diega Ciancio (1733, …)?
-          Domenico Roberto Michele Angelo Ciancio ( 1734, ..)?
-          Vincenzo Nicolò Giuseppe Ciancio (1739, …) ?
-          Teresa Ciancio (1740, …)?
-          Giuseppa Petronilla Raffaela Ciancio (1740, …) ?

Barone di Megli e Signore di Martina
Antonino Ciancio s’investì, a 5 dicembre 1748, per la morte senza figli di Scipione suddetto, suo zio Paterno; era nato da Giuseppe Ciancio, B.ne di Poira, fratello del suddetto Scipione; successe, pare come chiamato e sostituito dal suddetto Antonino Seniore, ai termini del testamento di luì, agli atti di Not. Giuseppe Anastasio, il 16 agosto. 1686 (Conserv., Vol. 1167, Invest., f. 110); morì ad Adernò, a 24 giugno 1760 (fede della Cattedrale).

Barone della Poira
Antonino Ciancio s’investì, a 7 Dicembre 1740, per la morte di Giuseppe suddetto , suo padre e come suo primogenito ed erede universale, in base al testamento pubblicato da Not. Ferdinando Fiorello di Adernò il 13 Settembre 1740 (Conserv, di Registro Inv.re, Vol. 1165, f. 160).

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Gaetano Biagio Ciancio ( Adrano, 1720 ?; Adrano, 5 maggio 1793) si sposò due volte.
1.      Il 26 settembre 1749, in Caltagirone, con Concetta Papotto  (Bronte, 1734 ? – Adrano, 30 ottobre 1754), da cui i figli/e:
-          Emanuele Ciancio (1750 – 1797);
-          Filadelfo Ciancio (1750 ?, 1834)
-          Diego Scipione Francesco Ignazio Ferdinando Ciancio ( 1754,…)?
-          Angela Ciancio (1760, …)?
2.      Il 9 aprile 1757, in Adrano, con Vincenza Rametta (Adrano, 1729 ?; Adrano, 10 settembre 1799) (figlia di Francesco Rametta -  Signore di 1/8 di Pietrabianca e Signore di Solicchiara -  e di Antonia Ciancio (1700,…)?
Dal matrimonio i figli/e:
-          Rosaria Concetta Emanuela Anna Ciancio ( 1758- 1793) ?
-          Carmela Anna Margherita Concetta Ciancio (1760,..)?
-          Antonino Francesco Calcedonio Ciancio (1762,…)?
-          Maria Giovanna Antonia Giuseppa Calcedonia Ciancio ( 1764,…)?
-          Angela Vincenza Agata Crocifissa Raffaela Maddalena Ciancio (1766,..)?
-          Concetta Margherita Serafina Pulcheria Ciancio ( 1768,…)?
-          Giuseppe Ciancio (1739,…)?

Barone Megli – Signore di Martina
Biagio Gaetano Ciancio successe ad Antonio, juniore, suddetto, suo padre, come erede universale di lui, per testamento fatto agli atti di Notar Ferdinando Fiorella di Adernò, il 22 giugno 1760 (Conserv., Vol. 1170, f. 21 retro). Sposò D.na Concetta Papotto da Bronte (Dotali in Notar Francesco Raimondo di quella Città , il 26 Febbraio 1749).

Barone della Poira
Biagio Gaetano Ciancio sposò Concetta Papotto da Bronte, come risulta dai dotali firmati da essi e depositati in Not. Francesco Raimondo da Bronte il 20 Febbraio 1749. In tale occasione Antonino Ciancio, padre di Biagio Gaetano, nell’istesso atto matrimoniale donò la Baronia del feudo Poira ; il matrimonio fu celebrato nella Cattedrale di Bronte a 15 Novembre 1749. Come risulta da fede rilasciata da quell’Arciprete. In base a ciò il Biagio Gaetano s’investì a 6 Novembre 1750 (Conserv., Vol. 1168, f. 46). Morì a Paternò il 5 Maggio 1793, come risulta da fede rilasciata da quella Parrocchia.
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Emanuele Ciancio (Adrano, 1750 ?; Messina, 1 maggio 1797).
Sposò il 12 settembre 1776, in Santa Lucia del Mela (Messina), Caterina Galluppi (1750,…)?
Dal matrimonio i figli/e:
-          Francesco Ciancio, (1777,…)?
-          Giuseppa Maria Concetta Arcangela Diega Olivia Ciancio (1780,…) ?
-          Antonino Saturnino Giuseppe Pietro Ciancio (1785; 1843)?
-          Lorenzo Ciancio (1790,…)?
-          Giuseppa Maria Filadelfa Ciancio (1791,…)?

Barone Megli – Signore di Martina
Emanuele Ciancio successe, tanto come figlio del Barone Biagio Gaetano, quanto per la donazione già fattagli dal padre, Quanto esso Emanuele sposò Caterina Galluppi. L’atto in parola fu redatto da Not. Fortunato Puglisi di Santa Lucia del Mela, il 12 dicembre 1776, e depositato in Notar Domenico Florene di Adernò, il 22 dicembre 1777. In base a ciò egli prese investitura il 30 Gennaio 1778 (Conserv., Vol. 1174, Invest., f. 95 retro); è l’ultimo investito del feudo; non ci sono ulteriori riconoscimenti; morì a Messina, il 1 maggio 1797, come risulta da fede di quella Parrocchia di San Giacomo. Fu esso Emanuele Proconservatore di Adernò, negli anni 1779, 1789, 1793, 1797. Da questo matrimonio nacque, primogenito, Antonino, che come erede particolare del padre, s’investì, a 7 agosto 1797, del feudo di Poira con il titolo di B.ne, in forza del testamento Paternò depositato in Not. Giuseppe Raganati di Adernò, il 24 aprile 1797.

Barone della Poira
Emanuele Ciancio s’investì, a 26 Novembre 1792, come primogenito ed erede di Biagio Gaetano suddetto, per testamento pubblicato da Pietro Sidoti di Adernò il 8 Maggio 1792 (Conserv., Vol. 1180, f. 47). Sposò Caterina Galluppi (Dotali in Not. Fortunato Puglisi di Santa Lucia del Mela 12 Dicembre 1776, depositati in Adernò presso Noi. Domenico Floreno, il 22 Dicembre 1777). Emanuele morì a Messina, il 1 Maggio 1797, come risulta da fede di quella Parrocchia di San Giacomo.

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Antonino Saturnino Giuseppe Pietro Ciancio (Adrano, 11 gennaio 1785; Adrano, 24 gennaio 1843).
Sposò il 21 settembre 1833, in Adrano, Francesca Romeo (1810, ..)? (figlia di Consalvo Romeo – Barone del Cugno – e di Giuseppa Maria Concetta Arcangela Diega Olivia Ciancio (1780,…)?.
Dal matrimonio non nacquero figli/e.

Barone della Poira
Antonino Ciancio Galluppi s’investì del feudo di Poira, a 7 Agosto 1797, come primogenito, erede particolare di Emanuele suddetto, come risulta dal testamento di lui, depositato in Not. Giuseppe Raganati di Adernò il 24 Aprile 1797 (Conserv., Volume 1181, f. 103). E l’ultimo investito; non ci sono ulteriori riconoscimenti.

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Una zia di Antonino Saturnino Giuseppe Pietro Ciancio,  Carmela Anna Margherita Concetta Ciancio (Adrano, 16 aprile 1760, ?), sorella del padre Emanuele Ciancio, sposò il 9 giugno 1882, in Adrano, Felice Spitaleri ( 1750,..)?, (figlio di Rosario Spitaleri e di Dorotea Rametta, sorella di Vincenza Rametta, moglie di Gaetano Biagio Ciancio).
Dal matrimonio i figli/e:
-          Dorotea Spitaleri ( 1789,..)?
-          Antonino Spitaleri (1805,…)?


Pare che sia originaria d’Adernò. Un Giovan Vincenzo acquistò nella prima metà del secolo XVII il feudo Muglia; un Giuseppe e un Vincenzo, nella seconda metà dello stesso secolo, acquistarono i feudi Inturella e Dagala; un Antonio fu proconservatore in Adernò nel 1696 e tale carica tenne nel 1734 un Diego; un Felice Spitaleri e Rametta, a 2 aprile 1766, ottenne investitura del titolo di barone di Muglia e, a 22 marzo 1800, ottenne investitura dei feudi di Solicchiara e Pietrabianca. Con decreto ministeriale del 10 febbraio 1899 il signor Antonino Spitaleri (di Felice, di Antonio), ottenne riconoscimento dei titoli di barone di Muglia, signore di Solicchiara, signore di Pietrabianca.

Secondo altri storici la famiglia Spitaleri prenderebbe il nome nel 1102
dall’Ordine degli Ospitalieri.

Felice Spitaleri era:
Signore di 1/8 di Pietrabianca
Felice Spitaleri e Rametta, Signore di Salicchiara, s’investì di 1/8 del feudo di Pietrabianca, membro della Contea di Adernò, a 22 Marzo 1800; successe per la morte senza figli di suo zio materno Vittorio Rametta e come figlio primogenito di Dorotea Spitaleri e Rametta. Sorella del detto Vittorio; comprovò il suo dritto a succedere a mezzo di testimoni ricevuti nell’ ufficio di Protonotaro del Regno a 17 Febbraio 1800. Non ci sono altre investiture.

Signore di Solicchiara
A 22 Marzo 1800, s’investì del feudo di Silicchiara; successe per la morte senza figli di suo zio Vittorio Rametta, come primogenito di Dorotea Rametta, sorella di detto Vittorio (Conserv., Reg. Inv.re, Vol. I 162, foglio 109). La continuazione storica di questo quadro trovasi in quello segnato col n. 645 intestato: Barone di Muglia, giacché questo è ad un tempo Signore di Solicchiara.


Barone di Muglia
S’investì, a 2 Aprile 1766, come primogenito, per la morte di Rosario suddetto, suo padre e suo erede per testamento aperto e pubblicato agli atti di Not. Pietro Lidoti di Adernò, il 25 Novembre 1765. S’investì ancora, fure proprio, come chiamato e sostituito dal fu Giovanni Vincenzo Spitaleri , 1’acquistatore, tanto nella donazione da lui fatta a suo figlio Dott. Giuseppe agli atti di Not. Giuseppe Lucca di Adernò, il 6 Dicembre 1657, insinuata in quella Curia a 7 successivo, quanto per il testamento del suddetto Giovanni Vincenzo, 1’acquistatore, del 1669 di cui sopra è parola (Conserv., Vol. 1171, f. 128 retro). È l’ultimo investito.
Dorotea Spitaleri  sposò  il 19 agosto 1821 a Nicosia, Giovanni Reinaldo Alessi (figlio di Giovanni Vincenzo Maria Raffaele Calcedonio Alessi e di Rosaria Concetta Emanuela Anna Ciancio (1758 – 1793). Dal matrimonio un unico figlio, Antonino Alessi (1829, ..)?.

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Antonino Spitaleri (Catania, 1805 circa,…)? Sposò Carmela Ardizzone (1807,…)?
Dal matrimonio i figli/e:
-          Felice Spitaleri (1828,…)?
-          Carmela Spitaleri (1830,…)?  Sposò Antonino Alessi  
-          Remigia Spitaleri (1831,…) ?
Amalia Spitaleri (1834, 1893 circa).
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Felice Spitaleri (Catania, 17 luglio 1828; ….)
Sposò il 21 marzo 1847 a Catania, Angela Grimaldi (Catania, 11 gennaio 1826,..) (figlia di Francesco Grimaldi, Barone di Serravalle,  e di Anna Francesca Margherita Paternò Castello).
Dal matrimonio i figli/e:
-          Carmela Spitaleri (1848,…) sposò il 3 febbraio 1870 a Catania, Enrico Giacomo Paternò Castello (1840, 1908)
-          Anna Spitaleri ( 1849,…) ---------
-          Antonino Spitaleri (1850, 1918);
-          Anna Spitaleri (Paternò Castello) (1852, 1944); sposò il 6 aprile 1874 a Catania, Mario Francesco Giuseppe Concetto Paternò Castello (1840, 1906)
-          Remigia Spitaleri (1859,…), sposò il 4 febbraio 1882 a Catania, Ettore Ponte
Angela Spitaleri (1860, 1943), sposò il 6 settembre 1890, a Catania, Nicolò Michele Giuseppe Anzalone  (1864, 1955).

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Antonino Spitaleri (Catania, 4 novembre 1850, Catania, 17 novembre 1918).
Sposò il 15 gennaio 1873, a Catania, Carmela Felice Alessi (1853, 1943).(Figlia di Antonino Alessi e di Carmela Spitaleri).
Dal matrimonio un unico figlio:
Felice Spitaleri (1873, 1951)

Barone di Muglia
Con Decreto Ministeriale del 10 febbraio 1899 il Sig. Antonino Spitaleri (di Felice, di Antonino) ottenne riconoscimento dei titoli di Barone di Muglia, Signore di Solicchiara, Signore di Pietrabianca.
“ E’ oriundo di Paternò e domiciliato a Catania. È padre di Felice”.

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Barone Felice Spitaleri ( Catania, 9 dicembre 1873; Catania, 8 ottobre 1951)
Sposò il 29 luglio 1900, a Catania, Agata Cantarella (1871, …)
Dal matrimonio i figli/e:
-          Carmela Maria Angiolina Spitaleri (1901, 1998), sposò il 12 settembre 1923, a Catania, il Duca Vespasiano Vincenzo Giovanni Salvatore Trigona (1898 – 1973);
-          Antonino Francesco Felice Maria Spitaleri (1902, 1979) -----
-          Francesco Spitaleri (1914, 2003), sposò Marise Carnovale (1914,..)

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3. Il Barone Felice Spitaleri famoso viticoltore ed enologo – Il feudo della Solicchiata.

La famiglia Spitaleri produceva vino nell’area etnea, alle pendici dell’Etna, sin dal XIV secolo.
Nel  1852 il Marchese Felice Spitaleri, (figlio di Antonino Spitaleri e di Donna Carmela Ardizzone), Marchese di Sant’Elia e Barone di Solicchiata, fece ritorno in Sicilia da un lungo viaggio europeo che gli permise di entrare in contatto con le produzioni vinicole soprattutto francesi.
Nei suoi terreni di Solicchiata fondò una casa vinicola che nel volgere degli anni mantenne intatto tutto il suo  arcaico fascino.
Sulla fertile colata lavica del 1607, don Felice creò un numero impressionante di terrazzamenti e strade. Fece erigere oltre 100 km di muri a secco e fabbricò un Chateau che era dedicato esclusivamente alla produzione del vino con vitigni francesi.




Nella sua azienda mise in pratica le tecniche vinicole apprese all’estero inserendole in un contesto ambientale difficile caratterizzato dalla presenza di terreno vulcanico e da un clima con estati molto calde e spesso siccitose.
Con una grande professionalità riuscì a creare il primo taglio bordolese d’Italia e nel 1890 diventò il primo fornitore ufficiale della Real Casa Savoia.
Nel 1907, il figlio barone Antonino, avuto dal matrimonio con la baronessa Angela Grimaldi, fermò la produzione del vino per mantenere soltanto alcune vigne per uso familiare.
Nel 1997 i discendenti Spitaleri iniziarono con impegno un lavoro per riportare i vigneti del vasto feudo agli antichi splendori.
Seguirono le tecniche vinicole del 1852 adoperando solo viti francesi ed oggi Cabernet Franc, Merlot e Cabernet Sauvignon sono le combinazioni ottimali legate al clima (800 m s.l.m.) e al terreno vulcanico.
La vigna del castello di Solicchiata ha una superficie di circa 80 ettari.
La famiglia Spitaleri ha un altro vasto vigneto, circa 35 ettari, nel feudo del Boschetto, dove il vitigno è invece il Pinot Nero che, per dare ottimi risultati nella vinificazione, ha bisogno di un clima più fresco (1000 – 1200 m s.l.m.) e di un terreno più sottile.



Barone Felice Spitaleri


Castello di Solicchiata

Prima bottiglia del Castello Solicchiata, annata 1868

Etichetta del vino “Boschetto Rosso” del 1890.

Il Castello Solicchiata ricevette il primo premio all’Esposizione di Londra nel 1888, il Grande Diploma d’Onore e Medaglia d’Oro a Palermo nel 1889, Vienna 1890, Berlino 1892, Bruxelles 1893, Milano 1894 e fu la prima fornitura ufficiale della Real Casa d’Italia. Il Barone Spitaleri ebbe il privilegio di potere innalzare lo stemma reale sul detto castello per il progresso enologico del Regno d’Italia.















"Il Castello di Solicchiata è da considerare, nella lunga storia del vino italiano, come il primo e unico Castello per il Vino ad uso stabilimento enologico costruito in Italia, oltre che l'unica cantina italiana a ricevere il privilegio di poter innalzare lo Stemma Reale sul detto stabilimento per il progresso enologico del Regno d'Italia e prima fornitura ufficiale della Real Casa d'Italia.
Al Castello Solicchiata rimane, ancora fino ad oggi, il primato di cantina italiana più premiata al mondo ai concorsi enologici italiani e internazionali e tra le prime in Europa con quindici Grandi Diplomi d'Onore con Medaglia d'Oro, Grande Diploma d'Onore di SM il re d'Italia, due Grandi Medaglie d'Oro dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, nove Primi Diplomi d'Onore, 35 Medaglie d'Oro e nove Coppe d'Argento".

Tratto dal testo: "Mille anni di storia dei migliori vini dell’Etna -  Castello Solicchiata come ha origine il vino di qualità per il nascente Regno d’Italia".


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4.  Causa tra il Comune di Paternò e il barone Don Antonino Ciancio in merito agli usi civici nel Feudo di Poira – La Sentenza del 10 Gennaio 1843.


10 Gennaio 1843
L’anno mille ottocentoquarantatre il giorno 10 gennaio
in Catania

L’Intendente della Provincia di Catania Cav. D. Giuseppe Parisi incaricato per lo scioglimento delle promiscuità e divisione dei demani.
Nella causa tra la COMUNE DI PATERNO’ e il BARONE D. ANTONINO CIANCIO, avvisati con atto ec.
Inteso il rapporto del Funzionario aggiunto, Giudice della Gran Corte Civile,
Dottor D. Salvatore Murena.
Visti gli atti.
Intesi di Difensori delle Parti all’udienza del 3 corrente.
Uniformemente al progetto del sullodato Funzionario aggiunto.
Preso l’uniforme avviso del Consiglio d’’Intendenza sull’anzidetto progetto.
Si sono levate le seguenti
Q U I S T I O N I

1°. Evvi prova sufficiente, e per quali degli usi pretesi dal Comune di Paternò, in sullo ex-feudo POIRA ?
2°. Quando una popolazione surse pria del feudo, gli usi che ella esercita in sul proprio territorio, debbono presumersi o pur no come un avanzo dell’originario dominio che sul medesimo si ebbe ?
3°. L’art. 25 delle Istruzioni Sovrane ritiene come feudi separati dal proprio tenimento quelli che non sono posseduti come territori distinti ?

Considerando
Quanto  alla  Prima


Che non vi ha pruova, nella specie, la quale faccia abbastanza aperto spettarsi ai cittadini di Paternò l’uso di fare calce e gesso nel Feudo Poira:
Che però è dimostrato assai luminosamente che quei cittadini sono nel possesso di raccorre  erbe spontanee da camangiare e frasca per fuoco in sul Feudo medesimo, facendo di quei prodotti bruti della terra un mercimonio, il quale dà mezzo di sussistenza alla infelice classe de’ Popolani.

Quanto alla  Seconda

Che il fenomeno degli usi civili di una popolazione sulle terre feudali del proprio territorio doppia spiegazione può avere, secondochè la comunanza civile surse dopo ovvero pria del feudo;
Che nella prima ipotesi, gli usi non hanno potuto derivare che da una servitù concessa dal Feudatario, o acquistata col volger del tempo dalla popolazione surta nel feudo, e forse quivi chiamata a coltivar le abbandonate masse di terreni; nella seconda ipotesi, l’uso non può rappresentare che un avanzo più o meno separato dell’originario dominio delle popolazioni:
Che quest’ultimo concetto si fa evidente tanto sol che s’interroghi la storia delle proprietà agrarie. Egli è irrecusabile verità che la prima occupazione de’ campi fu l’occupazione  per universitatem,  la divisione cioè de’ territori tra le Popolazioni come tra altrettante famiglie, e la descrizion delle proprietà per fundos surse dalle preoccupazioni che gl’individui faceano dappoi di una parte del territorio della Università, fertilizzandoli co’ propri sudori, e dandovi un valor di creazione.
Di questo fenomeno ne abbiamo svariati monumenti. Quante Università di quest’Isola
possedeansi vastissime Terre in sulle quali i Singoli avean solo il jus arandi et serendi, ovvero vi esercitavano l’occupazione a vicenda, secondo quello dicea degli Sciti il Lirico, nec cultura placet longior annua, defunctusque laboribus aequali recreat sorte vicarius; ed intanto l’Universale del Comune in su quelle Terre medesime, come a rappresentanza del suo primitivo dominio, raccoglieva i prodotti bruti e spontanei della natura ? E da questa condizione territoriale, pressochè generale della Sicilia nel medio Evo, derivò che fino a’ nostri giorni le proprietà agrarie riconoscono qui svariati compartecipanti e simultanei padroni, cui si dà opera per isceverarli:
Che a ciò arrogi le infeudazioni cadute sui campi pubblici della Popolazioni, ne’ quali i Feudatari non consentivano a’ Popolani che magri usi civici, i più indispensabili al sostentamento della vita, e meno dannevoli e mano attenuanti delle rendite; usi i quali, da un lato addinotavano la prepotenza feudale, e dall’altro eran testimoni irrecusabili del dominio primitivo delle Università in su quelle Terre:
Che perciò l’uso di raccorre erbe da camangiare e frasche in POIRA, feudo della cui legittimità indarno chiedi,  ma che est situm et positum in territorio Paternionis,  addita nei cittadini di quel Comune, meglio che un atto di familiarità o di condiscendenza di quel Barone, un ultimo avanzo il più indispensabile alla vita dell’originario dominio sull’università del territorio.

Quanto alla Terza

Che per cangiarsi in estimazione la scala del compensi conviene che gli usi siensi esercitati dalle Popolazioni sopra feudi separati dal proprio tenimento; e di ciò men pago il Legislatore aggiungeva, che feudi separati s’intendono quelli  che sono stati posseduti come territori distinti.
Che alla difformità delle norme di compenso de’ feudi separati dal territorio, presiede il motivo che là dove in sul proprio territorio ciascuna Popolazione rappresentar puote, o un orignario domino od una riserva o veramente una concessione del proprio Signore; non così nel territorio di altra civil Comunanza, perocchè ivi i Popolani non possono vantarvi altro che una servitù quaesita in re aliena. Quindi è che nel proprio territorio gli usi van compensati con una quota del Demanio, nel territorio alieno; all’opposto la legge tiene stretto al valor intrinseco del conquisto fatto sull’altrui proprietà.
Fosse qualunque il valsente degli usi, là si considerano i Popolani quai condomini de’ Demani, e lor se ne attribuisce una stregua; qui non si consente loro oltre di quello si è per essi ottenuto in sui campi altrui:
Che a viemeglio raggiungere la mente della Legge, ci fa d’uopo ricordare la distinzione de’ feudi in curte et extra curtem; che i primi eran quelli messi nel territorio, erant de manso; ed ei vuol rammentarsi come mansus si dicesse in feudalità ciò che nel dritto Comune appellavasi territorium, poiché contenea la universabilità delle terre colte, le incolte, gli edifici, i diritti di pescaggione, di caccia, le acque, ecc; la seconda maniera di feudi quelli cioè extra curtem non si potrebbe meglio definire che col Geobal rea a domino extra territorium vassallo sub lege fidelitatis et aliquando etiam praestandorum servitiorum concessa. Ed a questa seconda specie di feudi va applicato l’articolo  25 delle Sovrane Istruzioni.
Né poi la storia feudale è povera di esempli di feudi in alieno territorio; e può, trasandando gli altri, recarsi in mezzo a testimonio un Enrico Gibner: Dari feuda in alieno territorio dominia directa sine superioritate territoriali Vassallos, qui ejusdem praedii causa duobus dominis dispari vinculo fidelitatis uni alteri subiectionis subsint ipse rerum usus satis docet:
Che perciò il feudo POIRA mezzo in mezzo al territorio di Paternò, come lo attesta Luca Barbieri, situm et positum in territorio Paternionis, non è che un feudo de Manso o veramente in curte, e però non è al medesimo applicabile il compenso per estimazione ma per scalo.

D I C H I A R A
1°. L’ex Feudo POIRA faciente parte della Comune di Paternà, e quiindi non costituisce feudo separato ai termini dell’art. 25 delle Sovrane Istruzioni degli II Dicembre 1841;
2° Rigetta la dimanda del Comune in ordine all’uso di cacceggiare, far calce e gesso, e collocare alveari in detto feudo POIRA;
3° In conseguenza scioglie gli usi di raccogliere erbe da camangiare, frutta selvagge e frasca in detto ex- feudo; ed accorda al Comune in compenso di cotali usi il quinto del valore delle terre suscettive degli usi anzidetti nella somma di ducati milleduecento.
Nomina per l’esecuzione del precedente articolo il Perito Architetto D. Giovanni Bonanno il quale eseguirà il distacco dello equivalente valore di sopra stabilito, e nella parte del detto ex-feudo più prossima all’abitato del Comune.
La relazione del detto distacco sarà presentata infra il termine di giorni venti, dal dì della prestazione del giuramento del sudetto Perito.
4° Le spese ripartite come per legge.
                                                                                     L’Intendente
                                                                                Giuseppe  Parisi
          Il Segretario de
del Consiglio d’Intendenza
      Carlo  Carbonaro
                                                                                                        

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5. La Banda Maurina sequestrò il Barone Spitaleri nel Castello di Poira
Alla fine dell’Ottocento nel castello di Poira si verificò il sequestro Spitaleri eseguito dalla Banda Maurina. Un gruppo di banditi che era attivo nelle campagne del Catanese e del Messinese.
I membri della banda assaltarono il castello del barone Spitaleri per la cui incolumità chiesero ed ottennero allora la somma di 50.000 lire.
I briganti dopo aver fatto irruzione nel castello lo depredarono per poi fuggire.

Lo studioso Giuseppe Pelleriti fece sulla vicenda uno studio molto attento riuscendo a ricostruire le fasi dell’azione criminale.
 Ad inizio estate del 1892, con l'avvicinarsi della calura, tempo di mietitura e di intenso lavoro nei campi, il barone don Antonino Spitaleri di Muglia, con la consorte baronessa  Carmela Felice Alessi, il figlio Felice( nato nel 1873 ?) e tutto il seguito della servitù, si trasferì nella sua tenuta di Poira che apparteneva al Feudo di Pietralunga.
Il “castello di Poira", che si trova al confine tra Centuripe e Paternò, è oggi una vecchia e cadente costruzione, presumibilmente eretta agli inizi del '700, su fondamenta romane.
Un pomeriggio, quasi al crepuscolo, il barone rientrava alla masseria insieme al suo campiere e al figlio di questi (entrambi di Adrano), dopo avere fatto un sopralluogo nel territorio al fine di collocare una condotta d’acqua per irrigare le terre.
In prossimità della masseria i tre vennero circondati da un gruppo di briganti che minacciarono il barone di sequestrarlo e di fare violenza alla sua famiglia se non avesse consegnato subito la somma di 50.000 lire.
Il barone rispose di non avere tutto quel denaro con sé e che, quindi, avrebbe avuto bisogno di parecchio tempo per recuperarli.
Ma i briganti non erano degli sprovveduti. Se non fossero stati sicuri del bottino, non avrebbero di certo cavalcato per più di cento chilometri, attraverso boschi e remoti sentieri, sui loro focosi destrieri.
Si chiamavano Botindari, Leonarda, Candino, Cavoli, Mazzotta, Giaconia e Ortolano tutti appartenenti alla "Banda Maurina", così chiamati perché tutti provenienti da San Mauro Castelverde, un paesino in provincia di Palermo, appollaiato su un cocuzzolo che guarda verso il Mar Tirreno.
I briganti erano organizzati al punto che, durante il viaggio, avevano cambiato i cavalli che trasportavano viveri e vettovaglie varie. Se non avessero ritenuto la soffiata credibile, non avrebbero messo in piedi una spedizione così studiata nei minimi dettagli.
Ma il barone insisteva. Lui quei denari in casa non li aveva.
La resistenza di don Antonino stava complicando le cose e i banditi, diventati nervosi, lo costrinsero ad accompagnarli alla masseria.
Il figlio di don Antonino, il “baronello” Felice attendeva il ritorno del padre affacciato alla finestra, preoccupato per quello strano ritardo.
Quelli, non erano bei tempi per il baronello, in quanto, in quel periodo aveva perso parecchi denari in investimenti fatti a Catania insieme al marchese di Casalotto, la cui banca era prossima alla bancarotta.
Appena il baronello scorse il padre e i due aiutanti circondati dai malviventi che li tenevano in ostaggio, reagì d'istinto e sparò un colpo di fucile che però andò a vuoto. Quelli, pur essendo ottimi tiratori, risposero al fuoco ferendolo di striscio.






Il barone chiese clemenza per quel gesto così imprudente del figlio e fu costretto a farli entrare in casa.
Vista la continua resistenza di don Antonino, il capo banda, ordinò ai suoi di saccheggiare la masseria.
Con il figlio ferito, la moglie legata a testa in giù e la casa a soqquadro, il barone fu costretto a cedere e a consegnare ai malviventi la somma richiesta.
Ma, a quel punto, i briganti vollero completare il saccheggio e, alla fine, tra soldi, contanti e  preziosi trovati in casa, si portarono dietro un bottino di circa 300.000 lire.
I briganti, soddisfatti della refurtiva, presero i cavalli e si avviarono sulla strada del ritorno.
Il barone, ancora scosso per l’accaduto, si accorse che, però, uno dei banditi stava tornando indietro. Temette che l'incubo non fosse ancora finito e invece, il capo della Banda Maurina, Melchiorre Candino, restituì l’orologio d’oro del “baronello” Felice dicendo: “Non prendiamo bigiotteria, è troppo compromettente”.
Detto ciò raggiunse gli altri compari e insieme sparirono.

Ma la storia ebbe uno strano epilogo.
Qualche settimana dopo il sequestro del barone Spitaleri, la "Banda Maurina" cadde in una trappola mortale.
Si salvò solo Melchiorre Candino, uno dei capi, in quanto quel giorno non era presente.
Le versioni dei fatti, raccontati qualche settimana dopo dai protagonisti rimasti in vita, furono due, completamente divergenti.
La prima sostenne che la banda fu annientata, per un regolamento di conti, in un duello tipo Western, sei contro sei.
Sei banditi maurini contro  sei esponenti della banda della famiglia di Francesco Leanza, detto "spiritu scorpu", famoso a quel tempo perché andava sempre in giro armato di un revolver, infilato nella cintura, sempre in vista, ad intimidire l’avversario.
Lo scontro sarebbe avvenuto in una radura spoglia, all’interno di un fitto bosco. I sei maurini, sorpresi allo scoperto, caddero uno per uno sotto il piombo degli avversari, che avevano una posizione migliore, in quanto protetti da una folta vegetazione.
Ma, a seguito di una mia indagine attraverso libri e interviste a studiosi di storia locale a Cesarò, i fatti, molto probabilmente, si svolsero così:
Il barone Spitaleri, che era stato Capitano di Giustizia e quindi uomo potente in questa zona di Sicilia, chiese aiuto alle autorità per sterminare quei malviventi spietati, che avevano osato violare a quel modo la sua casa.
Nessuno sarebbe stato più al sicuro con quei criminali in giro.
Della faccenda fu investito il Prefetto il quale propose a Francesco Leanza, allora amministratore del duca di Cesarò Giuseppe Colonna, un patto segreto.
L'accordo prevedeva uno scambio: la sua banda avrebbe sterminato i "maurini" in cambio di un salvacondotto per i loro reati.
Leanza accettò e il patto fu sancito.
I “maurini” furono invitati dai Leanza ad una “mangiata” tra uomini d’onore nel feudo di Sollazza. I Leanza aspettarono fino a quando non furono certi che gli ospiti avessero bevuto abbastanza vino, (al quale era stato aggiunto oppio), per dare inizio alla "mattanza".
Appena Francesco Leanza gridò la parola d’ordine “S. Antonio” si scatenò l’inferno: i sei briganti maurini presenti, furono tutti sterminati.
Dopo la strage, i Leanza caricarono i corpi senza vita dei "maurini" e andarono a scaricarli in un bosco, per sviare le indagini.
In quella vicenda, tuttavia, alcuni fatti rimasero misteriosi:
Melchiorre Candino, capo della banda Maurina, come mai non partecipò alla “mangiata”? Fu coinvolto anche lui nel patto e le accuse lanciatesi nei giorni successivi con Francesco Leanza furono solo teatro?
Dalle indagini svolte nei giorni a seguire emerse che la "soffiata" alla banda "maurina" fu fatta dal campiere del barone.
Le indagini dimostrarono che il sequestro fu organizzato dal  campiere  del barone, un certo Imbarrato e da suo figlio.
Come faceva il campiere a sapere che in quel momento nella masseria il barone possedeva quella enorme somma in contanti?
(Tanto per fare una stima approssimativa, 50.000 lire di quel tempo corrispondono alle attuali €. 500.000 di oggi!).
Fu una vicenda molto intrigata che coinvolse anche il famoso New York Times che dedicò vari articoli alla banda maurina, tra cui uno, in particolare, intitolato "The Brigands of Sicily", pubblicato nel 1894”.



Il Bandito Rinaldi, uno dei fondatori della Banda Maurina



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6. Ricerche Archeologiche
Nel 1995 la Soprintendenza ai Beni Culturali di Catania fece degli scavi sulla Collina di Poira riportando alla luce un importante necropoli ellenistica con tombe del VI e V secolo a.C.
Al loro interno furono trovate delle ceramiche di vario stile.
Poco lontana si trova la Grotta degli Schiavi, forse un “Ergastulum” romano dove, al termine del lavoro, venivano posti gli schiavi e incatenato “il ribelle”. Non si ha notizia di rinvenimento simili nella storia archeologica della Sicilia.













Il Poggio Còcola o Poira è un complesso di colli posti a Sud del Simeto. Su uno dei poggi, come abbiamo visto, fu costruito il castello di Poira probabilmente su costruzioni di epoca romana.
Il poggio costituisce l’estremità occidentale del massiccio calcareo di Pietralunga e raggiunge i 385 metri costituendo il punto più alto.





Gli archeologi effettuarono nel 1995 delle campagne di scavo non sistematiche e dal materiale rinvenuto si è potuta ricostruire una continuità di vita molto importante.
Una presenza umana che va dal Bronzo Antico,  circa 4000 anni fa, fino all’Età del Ferro che si data tra il 1200 a.C. ed il 1000 a.C. (oltre 3000 anni fa).
Fu scoperta una necropoli ellenistica con tombe contenenti all’interno vasellame di vario tipo con molta ceramica a vernice nera databile tra il VI ed il V secolo a.C.
Fu riportato alla luce un edificio, risalente sempre al VI – V secolo a.C., comprendente tre ambienti, allineati in senso est-ovest, dei quali si conserva in condizioni migliori la parte centrale, con un ingresso sul lato sud.
Degli ambienti contigui si conservano pochi tratti di mura perimetrali.
Il prof. Giovanni Rizza negli anni ’60 individuò questo sito e lo identifico come sede della città di Inessa. Una città menzionata da diversi storici tra cui Diodoro Siculo nel I secolo a.C.
Le motivazioni storiche erano legate al tiranno Ierone di Siracusa.
Nel 476 a.C. dopo la sua morte, i seguaci del tiranno, che si erano stabiliti a Catania,  si trasferirono nella città di Inessa e la chiamarono Aetna.
È ancora aperto il dibattito storico sulla identificazione del sito con Inessa/Aetna perché ancora non è stata confermata dagli scavi. Non sono stati trovati edifici citati dalle fonti antiche come il tempio di Ercole e la famosa piazza.



L’identificazione con Inessa è collegata con le citazioni di Tucidide secondo il quale la città doveva trovarsi tra Centuripe e Catania. “In questa città (di Inessa) si rifugiarono gli abitanti di Catania nel 476 dopo la morte del tiranno Ierone che li aveva lì insediati”.
Attorno al colle si trovano alcune tombe a grotticella artificiale che furono esplorate negli anni Sessanta del Novecento ma non in modo scientifico.
I materiali rinvenuti sono conservati presso il Museo Regionale di Adrano.



Nell’estate del1995, dopo circa trent0anni dai primi scavi,  furono realizzati 12 saggi di scavo nella zona sotto la direzione scientifica del professore Brian E. Mc. Connel. 
In alcuni di questi scavi, posti ad una certa distanza tra loro, furono scoperti  dei muri che presentavano  lo stesso orientamento. Questi rinvenimenti  fecero avanzare l’ipotesi sull’esistenza di una cinta muraria pertinente ad una città databile tra la fine del VI secolo e il V secolo a.C.
Il muro era stato identificato dall’archeologo Dinu Adamesteanu, uno dei  tanti archeologici famosi, morto nel 2004, che solcarono i sentieri di Sicilia alla ricerca della verità storica dell’isola. Pioniere e promotore delle tecniche di aerofotografia e prospezione area nella ricerca e ricognizione archeologica, identificò grazie alle fotografie  aree il muro senza esprimere  una datazione in mancanza di dati tecnici.



Dinu Adamesteanu,  un pioniere dell’archeologica siciliana
(Toporu – Romania, 25 marzo 1913; Policoro-Matera, 21 gennaio 2004)

Il prof. Salvatore Borzì, nel suo libro “Sicilia Schiava”  collegò il muro all’esistenza di una masseria tardo antica che indicò con il nome di “Nenciana”  facendo riferimento ai cippi recanti l’iscrizione “SN” e presenti lungo il corso del muro.

Lo stesso professore Mc Connel spiegò anche il rapporto fra questi muri e i cippi confinari,  presenti nel confine meridionale e con l’iscrizione “S.N.”, che delimitavano la zona di Poggio Cocola ed anche di Pietralunga.
Grazie alle ricerche, che il professore effettuò presso il Fondo Benedettino - Archivio di Stato di Catania,  stabilì che esisteva un preciso collegamento tra il territorio, delimitato dai ceppi confinari, ed i possedimenti dei Benedettini. Possedimenti che furono confiscati con l’Unità d’Italia, dopo il 1861.
La sigla “S.N.” indicava il nome di “San Nicolò” perché si trattava di possedimenti appartenenti al Monastero dei Benedettini di San Nicolò L’Arena di Catania.
In un documento del 1645 è inserita una planimetria della “tenuta Pietra Longa” e della “tenuta Vaccharello” che si trova tra il fiume Simeto e Monte Castellaccio.
Una tela del 1800, orientata nel senso opposto, indicava con il colore verde scuro le tenute di “Pietra Longa Sourana” e “Pietra Longa Sottana” nello stesso terreno. I entrambi i casi il confine meridionale delle tenute era  riferibile al tratto del muro con i cippi iscritti “S.N.”. Un confronto che permise di stabilire quindi come quella sigla stava ad indicare “San Nicolò”.







Durante  gli scavi del 1995 venne trovata, sempre nella contrada Poira, una Lama di Mazza che si trova esposta nel Museo di Adrano.

Sezione piano convessa;  lati distale e prossimale spessi e convessi
con martellatura. Scanalatura al centro. Levigatura quasi totale, perché
risparmia la superficie ventrale che risulta grezza o rotta
durante l’utilizzo. Basalto nero.
Lunghezza 73 cm; Larghezza 4,3 cm; Spessore 4,3 cm;
Integro

Negli anni ’60 la Soprintendenza di Siracusa effettuò degli scavi, purtroppo limitati, che portarono alla luce importanti reperti d’importazione e d’imitazione coloniale che si ritrovano nei corredi funerari.
Proprio in una tomba fu trovata una oinochoe a bocca trilobata che, mella sua parte basale, presentava una iscrizione graffita dopo la cottura.
Gli archeologici, come negli scavi successivi del 1995,  misero in risalto l’importanza della contrada Poira che dal Fiume dei Margi si espande verso la Valle del Simeto.
I resti della città furono  identificati, non senza problemi ancora oggi irrisolti, con la famosa “Inessa”  (Ίνησσα).
L’iscrizione sull’oinochoe era:
hιμιι


Secondo gli studiosi l’iscrizione si dovrebbe collocare negli ultimi decenni del VI secolo a.C.
L’importanza del graffito di Poira  aveva una duplice importanza : storica e linguistica.
Questo tipo di graffito aveva l’obiettivo di esprimere l’appartenenza dell’oggetto, sul quale si trova l’iscrizione, ad un certo personaggio. Gli oggetti di proprietà contengono generalmente  nomi di persona  o di divinità (nomi al nominativo, o flessi, cioè declinati, al genitivo o al dativo).
Si tratta quindi di un preciso contesto funerario e non votivo dato che il graffito indicava il nome di una persona (“Himi” ?), del defunto o di un poco probabile donatore dell’oggetto.
Secondo il prof. Cultraro si trattava di un nome al genitivo e quindi indicava il nome del possessore dell’oinochoe. Si trattava quindi del nome di un personaggio marcato con la “i” finale come in latino.
Giustamente furono sollevate delle perplessità.
La prima perplessità era legata alla considerazione che le iscrizioni presenti nell’area dei Siculi rimandavano ai caratteri che erano tipici delle lingue italiche ma era convinzione che il termine con la “i” al genitivo era solo un espressione latina e solo del latino.
Quando fu rinvenuto il reperto non c’erano nell’area presenti iscrizioni simili, un’area sicula e riferibile ad un periodo anellenico, che usassero il genitivo in “i”.
Le ricerche archeologiche sono importanti perchè riescono a svelare aspetti misteriosi della storia ed anche in questo caso i rinvenimenti, anche in zone geograficamente lontane da Poira, permisero di fare luce anche su quelle perplessità legate alla decifrazione dell’iscrizione dell’oinochoe.
Il centro indigeno di Morgantina restituì una serie relativamente cospicua d’iscrizioni graffite d’età arcaica.
In un caso, nel graffito di una coppa, (“pibe”, cioè “bevi”), in lingua locale, imita le esortazioni a bere delle future iscrizioni greche legate agli aspetti simposiaci.
La lingua locale di Poira si dovrebbe quindi riconoscere anche nelle iscrizioni arcaiche di Morgantina che non si presentano come greche.
Vi sono almeno tre iscrizioni a Morgantina che sono simili al graffito di Poira dato che presentano un nome proprio di persona  con uscita in “i”.
Un genitivo in “i” di tipo latino che  aprì una ricerca, ancora non ben definita, sul tema della “conciliazione con il carattere italico “antilatino” delle iscrizioni locali, a cominciare da quelle importantissime del sito di Mendolito.

Rimane certa, anche in base alle ricerche di Mc Connell, l’esistenza di un insediamento
Indigeno che fu ellenizzato nell’area di Poggio Cocola. La fioritura di questo insediamento dovrebbe essere messa in rapporto con gli insediamenti di Monte Castelluccio, sito sempre nel Comune di Paternò, ad est di Poggio Cocola e prospiciente il Fiume Simeto.




Ricapitolando le ricerche archeologiche rilevarono:
-          Masseria Poira  (Paternò)
ID (Numero Identificativo): R119
Necropoli: Area di Frammenti
Quota: 316 m s.l.m.
Area di ricerca: ( 5 x 5 )m
IGM: 269 I SO
Fase: Bronzo Antico
“La ricognizione, condotta in occasione dell’aratura, ha identificato a Sud della masseria un’area che comprendeva frammenti e nuclei di selce, due macine discoidali piano-convesse di basalto probabilmente databili all’età dell’Antico bronzo, così come si può ipotizzare alla luce delle analisi delle caratteristiche tipologiche. A Est della masseria, una tomba isolata a grotticelle artificiale scavata su un costone roccioso: la struttura della tomba è stata modificata per rendere l’ambiente utile come riparo per il bestiame. La tomba presenta una pianta circolare e una sezione a profilo curvo con un’altezza massima di m 1,90”.

-          Poggio Cocola (Paternò)
ID: R 120
Unità Topografica : Area di Frammenti
Quota: 360 n s.l.m.
Area: (200 x 200) m
IGM: 269 I SO
Fase: Età Arcaica
“Poggio Cocola, in località Poira, è situato a Sud del corso del fiume Simeto, all’estremità occidentale del massiccio calcareo di Pietralunga: sulla collina sono i resti di un insediamento sviluppatosi in età arcaica indagato negli anni Cinquanta da G. Rizza e più recentemente dalla Soprintendenza di Catania.
La ricognizione è stata condotta a Nord-Ovest del poggio, in un’ampia area coltivata ad uliveto (2 ettari): è stata rinvenuta un’abbondante quantità di ceramica distribuita sulla superficie in maniera omogenea. I reperti sono in gran parte riconducibili a ceramica di produzione indigena a decorazione dipinta della “facies” di Licodia Eubea. Numerosi sono anche i frammenti di coppe di tipo ionico le cui produzione termina alla metà del VI secolo a.C.
Ai margini dell’uliveto sono stati rinvenuti un frammento di macina di basalto e un grosso frammento di “pithos””.

-          Casa Irmana (Paternò)
ID: R123
Area di Frammenti
Quota: 139 m s.l.m.
Area: (40 x 160) m
IGM: 269 I SO
Fase: Età Arcaica; Età Classica; Età Ellenistica
“L’area di frammenti fittili si estende su un’ampia zona pianeggiante situata immediatamente a Sud della strada sterrata che conduce verso contrada Poira, nota come Casa Irmana. La ricognizione dell’area, coltivata estensivamente a frumento, è stata condotta durante il periodo dell’aratura. L’area di frammenti fittili si estende a cavallo tra i due casolari; la distribuzione dei reperti non si presentava omogenea, ma la densità sembra essere maggiore a ridosso delle due strutture. omogenea era la distribuzione dei frammenti di ceramica indigena (“facies” di Licodia Eubea) frammisti ad altri di ceramica greca d’importazione (ceramica ionica , ceramica attica). Nel settore orientale dell’area, si è raccolta una percentuale maggiore di frammenti di anfore da trasporto e di ceramica comune. I materiali rinvenuti consentono di ipotizzare che l’area sia stata occupata  dal VII al III secolo a.C., con uno iato databile tra gli inizi e la fine del IV secolo a.C. anni per i quali non ci sono attestazioni”.
















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7. Il  Fabbricato



Diverse facciate sono squarciate e si osservano le stanze con le cucine (poste al piano terra), le vasche, gli abbeveratoi. Nei muri sono presenti delle artistiche colombaie e vicino quelle che dovevano essere le stalle almeno per una parte degli animali. Ai piani superiori erano le stanze destinate ad abitazioni dei baroni. Una  scala in muratura permetteva di raggiungere il piano superiore. Il piano superiore doveva avere tutte le caratteristiche di una residenza nobiliare con alcune stanze destinate alla servitù della baronessa e del barone. Doveva esserci lo studio/ufficio amministrativo del feudo dato che il barone risiedeva spesso con la sua famiglia nel castello/fattoria.
A piano terra c’erano le stanze destinate ai campieri (uno o due) e ad un possibile soprastante. I campieri generalmente risiedevano nella masseria ma senza la famiglia.
La zona è stata anche stravolta da scavi clandestini dato che ci troviamo in un territorio  tra Centuripe, Paternò,  Adrano da sempre oggetto di “studio” da parte di gente senza scrupoli alla ricerca di antichi reperti.
Le foto sano emblematiche dell’azione vandalica da parte di questi “amanti della cultura”.
Hanno trafugato anche i conci degli archi scolpiti in pietra… eppure davanti a tanta devastazione la zona ha un suo fascino e le sue pietre sembrano voler testimoniare o raccontare la loro storia ricca di avvenimenti anche drammatici.
Da una delle finestre come dice il racconto, il giovane barone Spitaleri sparò alla banda maurina.. E’ facile immaginare, nel silenzio della contrada interrotto da qualche alito di vento che fa cigolare ancora qualche piccola finestra, quei momenti. Il panorama dal poggio è veramente incantevole e ancora di più lo sono i tramonti. Piccoli aspetti che amano tanto i turisti desiderosi di scoprire i veri colori della natura, dei suoi prati, dei suoi scenari senza fine…..lontani dalla vita dell’uomo e soprattutto dalle miserie umane.




















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8. I  Calanchi di  Contrada  Cipollazzo - Cannizzola









Comune di Centuripe (Enna)
Calanchi Cannizzola  - Contrada Poggio Cipollazzo
Quota: (283 / 174  ) m  s.l.m.


I calanchi sono delle formazioni geologiche e morfologiche molto complesse  legate in particolare a fenomeni di erosione del terreno. Fenomeni d’erosione che si creano sotto l’azione di dilavamento delle acque su rocce argillose degradate, con scarsa copertura vegetale e quindi adatte al ruscellamento.
 I solchi che si formano sul terreno, sotto l’azione dell’acqua di ruscellamento si accentuano, si allargano e,  procedendo a ritroso, si moltiplicano e si ramificano.
Un fenomeno che ricopre tutti i versanti che sono suddivisi da numerose piccole valli separate a loro volta  da strette creste con micro versanti nudi in rapida evoluzione.
Le cause d’origine sono molteplici e spesso convergenti o collegati:
-          Substrato argilloso con scarsa componente sabbiosa in grado di assorbire o fare filtrare acqua;
-          Un regime climatico caratterizzato da lunghe estati calde e da piogge molto intense che sono concentrate in determinati periodi dell’anno;
-          Esposizione meridionale dei versanti cioè il terreno deve essere esposto al sole subendo una forte e continua insolazione;
-          Durante la stagione fredda si devono verificare dei fenomeni di gelificazione;
-          Una pendenza del declivio compresa tra i 40/50 gradi che tende a favorire il rapido deflusso dell’acqua;
-          L’esistenza di un livello duro e meno erodibile alla sommità del versante.
Si sarebbero formati durante l’Olocene, quando con il disboscamento di querce sempreverdi delle foreste, da parte dell’uomo, i terreni argillosi, altamente erodibili, sarebbero stati esposti ai rigori del clima,
A questo fenomeno si sarebbero sommati i fenomeni di dissesto idrogeologico, come il dilavamento e il ruscellamento delle acque meteoriche che insieme a frane e crep, diventarono i fenomeni determinanti del modellamento del terreno, la cui  risultante finale fu la genesi dei calanchi (Phillips, 1998).

(Il crep é un movimento del suolo molto lento che può andare avanti per anni o centinaia di anni. Infatti ogni particella può muoversi solo di un millimetro, o pochi centimetri alla volta).

I calanchi del Cannizzola, torrente affluente destro del fiume Simeto, costituiscono un geosito dei monti Erei nella valle del Simeto, in territorio di Centuripe e Paternò, comuni italiani delle province di Enna e di Catania in Sicilia. Il bacino idrografico del torrente Cannizzola è caratterizzato dalla presenza di terreni argillosi e depositi alluvionali. Da un punto di vista geomorfologico, l'area presenta numerosi calanchi dovuti a fenomeni di erosione accelerata. La loro forma è generalmente concava, segnata da rivoli convergenti a ventaglio verso l'impluvio.

 I Calanchi rappresentano una forma di dissesto idrogeologico più diffusa nei terreni argillosi dell’Italia peninsulare e della Sicilia i quali compongono il 20% del territorio nazionale.
Il calanco sarebbe un minuscolo bacino imbrifero (10 – 15 ettari) estremamente ramificato che occupa certi pendii argillosi soggetto all’azione erosiva delle acque piovane.
Le vallecole dei calanchi presentano spesso un profilo non uguale ma dissimmetrico in conseguenza della disposizione isoclinale degli strati argillosi.
Il versante meno inclinato in tal caso è per solito quello corrispondente alle superfici degli strati  a franapoggio, il versante più erto è quello con gli strati a reggipoggio.




L’argilla viene disintegrata dall’acqua che, scorrendo sul suolo in forma di rivoli, crea i primi solchi, i quali si vanno sempre più approfondendo ed ampliando, mentre sulle creste che li separano si sviluppa un secondo ordine di solchi e sulle nuove creste divisorie un terzo ordine e poi un quarto e così via. In tal modo, poco per volta il pendio viene frazionato in sistemi innumerevoli di vallecole nelle quali, attraverso canali di ordine sempre maggiore, raggiungono i collettori. Questo processo erosivo tende ad espandersi invadendo i territori collaterali per arretramento progressivo delle testate dei solchi più alti mentre le creste divisorie, dapprima si assottigliano a  specie di lame, poi si deprimono e si appiattiscono trasformandosi alla fine in dorsali ondulate. L’argilla convogliata dall’acqua si raccoglie al piede dei pendii solcati dai calanchi, ove si distende a forma di conoidi, o dà origine a lente colate fangose. Così il territorio, con i pendii spogliati dalla vegetazione e cesellati dai calanchi, assume un aspetto desolato, paragonabile a quelle delle regioni desertiche ( Badlans del South Dakota – USA).
Nelle aree argillose plioceniche dell’Appennino, i calanchi hanno di preferenza un’orientazione verso Sud o Sud-Ovest. Una particolarità che viene attribuita in genere al rapido disseccamento delle argille sui versanti  esposti ad una maggiore insolazione, con la conseguente screpolatura e la penetrazione delle acque piovane che favoriscono la distruzione del versante (sfacelo).
Secondo la professoressa Benedetta Castiglioni, il processo si svolgerebbe sui soli versanti che hanno una stratificazione a reggipoggio i quali, in conseguenza dell’inclinazione prevalente verso Nord-Est degli strati d’argilla pliocenica, nelle vallecole appenniniche, sarebbero appunto quelli rivolti a Sud e Sud-Ovest.
Lo studioso Passerini Giovanni, dopo una serie d’indagini sperimentali di laboratorio e di ricerche sul terreno, propose la tesi che l’orientazione dei pendii calanchivi era indipendente  da tale condizione geologica e che era invece in relazione con le diverse condizioni fisico-metereologiche in cui si trovavano i versanti esposti a sud rispetto a quelli esposti a nord. I primi subiscono infatti un’azione termica molto più vivace con una conseguente più intensa fessurazione; un’azione erosiva più efficace da parte delle acque meteoriche opponendosi alla direzione prevalente dei venti di pioggia.
Inoltre detti versanti presentano delle condizioni di vita molto più sfavorevoli allo sviluppo della vegetazione di quelli opposti per cui viene a mancare ad essi tale
manto protettivo.


Fessurazione delle argille plioceniche nella regione di S. Quirico d’Orcia.
Nel centro una moneta italiana di 100 lire come riferimento al diametro di 2,7 cm.

A parità quindi di composizione geologica, i versanti rivolti a Sud sono soggetti ad una più intensa demolizione idro-meteorica di quelli esposti a Nord, per cui è sui primi che la piaga dei calanchi trova terreno più adatto al suo sviluppo.

Nei territori argillosi poco protetti dalla vegetazione e poco inclinati, le acque di dilavamento, spesso in associazione con le acque incanalate, provocano lo sviluppo di particolari “cupole d’argilla” alte da qualche metro a qualche decina, dai fianchi più o meno inclinati e per lo più rigati da numerosi solchi d’erosione disposti a raggiera.
L’inizio del processo calanchivo può essere molto vario ed anche naturale in relazione con le condizioni d’insolazione più favorevoli alla disintegrazione delle argille e più sfavorevoli allo sviluppo della vegetazione. Talora invece, è un piccolo smottamento del suolo prodotto da una rottura naturale, o anche artificiale, del tappeto erboso, per cui viene messa allo scoperto la roccia argillosa.
Altre volte è la crepacciatura naturale che si manifesta nei terreni argillosi per effetto della contrazione dell’argilla, durante i periodi di siccità, a favorire la penetrazione della acqua di dilavamento nel suolo. Acque di dilavamento che s’insinuano, allora, fra la cotica erbosa e l’argilla in posto creando una superficie viscida e scivolosa sulla quale il tappeto vegetale impregnato d’acqua per il suo stesso peso scende, si raggrinza e mette allo scoperto, nella parte alta, un tratto più ampio di superficie argillosa. Altre zolle vengono isolate sulla fronte superiore di distacco dello smottamento e precipitano in basso. A poco a poco la ferita si allarga e la malattia del pendio si diffonde. Sulle superfici argillose messe a nudo ha inizio la formazione dei solchi, che poi verranno rapidamente approfonditi dalle acque e così la piaga si farà via via sempre più profonda, oltre che più estesa.
A questo punto, se l’uomo non interviene ad arrestare il processo di demolizione, zone sempre più estese verranno travolte.
Infatti vaste aree degli Appennini, specialmente quelle composte dalle argille plioceniche e mioceniche dell’Emilia, della Toscana, delle Marche, dell’Umbria, del Lazio, della Lucania  della Calabria e della Sicilia sono in preda a rapido denudamento per opera di questi processi erosivi ed alcuni regioni, come l’Imolese, sono ormai classiche per la frequenza dei calanchi.















Calanchi in Basilicata



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9. Il Sito di Poira nella Viabilità Antica

Le fonti antiche  permettono di ipotizzare l’esistenza di una rete di collegamenti interni di particolare importanza nella Sicilia orientale. Un  contributo notevole sulla conoscenza della rete viaria greca  è desumibile dagli scritti di Tucidide. I suoi libri VI e VII presentano notizie di grande interesse topografico e descrizioni geografiche molto esatte a tal punto che si potrebbe anche avanzare l’ipotesi che l’autore abbia soggiornato nell’isola.

Gli avvenimenti bellici descritti permettono di mettere in risalto l’esistenza di una rete viaria che permetteva agli eserciti dei “veloci” spostamenti in particolare tra Siracusa, Leontini, Catania e le città dell’entroterra.
(L’archeologo D. Adamesteanu ricostruì il percorso della strada che da Katane portava nell’entroterra della Sicilia attraverso le città di Ibla, Inessa e Centuripe) (1962)
Pindaro nel richiamare l’immagine della Sicilia in occasione delle vittorie siceliote ai giochi panellenici faceva riferimento all’immagine del “Sikelias òchema” ovvero del carretto siciliano  ricordato in un ode a Gerone, tiranno di Siracusa.
Allevamenti di cavalli e buoi dovevano fornire il bestiame adatto anche per i trasporti su pesanti carri a quattro ruote che vennero ricordati anche da Diodoro Siculo.
Di questi mezzi di trasporto, che caratterizzavano le strade di Sicilia, sono rimaste le tracce nelle carraie visibili nei tavolati calcarei come a Leontinoi, Siracusa, Eloro, Vendicari, Camerina,ecc.
Nella vasta Piana di Catania, una certa importanza avevano i corsi d’acqua sia per la circolazione che per i trasporti, dato che erano in parte navigabili anche se per brevi periodi l’anno.
Il basso corso del Fiume Simeto e dei suoi affluenti, il Dittaino e il Gornalunga, e il breve corso del “Terias – San Leonardo” costituivano le direttrici di penetrazione verso l’entroterra dell’isola. Erano le vie di penetrazione delle calcidesi Katane e Leontinoi e diventarono  parte integrante della viabilità della “chora” (regione).


L’archeologo D. Adamesteanu fu uno dei primi a capire l’importanza della via che risaliva il fiume Margi Caltagirone e che in senso Est-Ovest collegava i due versanti dell’isola. Rispetto alle valli del Dittaino e del Simeto è molto alta la presenza di insediamenti di età arcaica lungo la valle del Gornalunga – Fiume dei Margi.





In età greca il corso del Fiume Simeto dal litorale da Est verso Nord-Ovest diventò uno degli assi di maggiore importanza. Esso collegava Enna ad Assoro, Agyron, Ameselon, Centuripe, Aitna e Katane.
Il percorso da Catania a Centuripe fu citato da Tucidide quando riferì che “all’inizio del 414 a.C., dopo una breve incursione nel territorio dell’antica Megara, gli Ateniesi uscirono da Catania e marciarono con tutte le loro forze contro Centuripe, con cui strinsero un accordo. Tornando lungo lo stesso percorso a Catania…. razziarono il frumento di Inessa e Ibla”.

Di grande interesse fu il riferimento di Diodoro in merito “ai 1200 cavalieri campani che percorsero agevolmente la strada, facendo tappa ad Agyrion”.
Sempre in età greca, un’altra importante direttrice viaria faceva riferimento ad Aitna. Da Aitna una strada conduceva al famoso santuario siculo di Adrano, presso il quale Dionigi fondò nel 401 a.C. la città omonima
I Calcidesi nella Piana di Catania realizzarono un sistema viario attraverso il quale riuscirono, in tempi relativamente brevi, a prendere il controllo dell’entroterra.
Nei primi anni del V secolo a.C. il geloo Ippocrate fu in grado di muoversi con estrema rapidità nell’area calcidese grazie ad un sistema viario ben articolato.
I discendenti di Ippocrate, i Dinomenidi, che s’insediarono a Siracusa nel 485 a.C.,  mantennero il loro potere nella Sicilia orientale per circa un ventennio e   potenziarono il sistema viario soprattutto verso l’entroterra per permettere una migliore gestione del territorio della capitale.
Nell’età di Ierone II la Sicilia orientale faceva parte di un florido circuito economico dei regni ellenistici nel Mediterraneo. La base della ricca economia siracusana era proprio lo sfruttamento intensivo del fertile territorio dell’entroterra siciliano sia dal punto di vista fiscale che dal punto di vista logistico.
Erano necessari i collegamenti via terra ed acqua, per permettere ai prodotti agricoli di raggiungere gli empori più vicini, gli scali e i mercati minori, da dove la mercanzia veniva avviata verso Siracusa o altri grandi porti.
Nella Sicilia centro-orientale i romani non costruirono strade ex novo perché si limitarono a rivedere e restaurare i vecchi percorsi esistenti. Si preoccuparono di costruire ponti per favorire una migliore percorribilità delle strade in ogni stagione.
I romani si preoccuparono di mantenete in buono stato i collegamenti che permettevano il trasporto delle derrate alimentari dai luoghi di produzione agli empori più vicini e successivamente ai porti.
Il percorso  interno che attraversava la Piana di Catania, la via da Catania ad Enna, non fu modificato dai Romani ed i loro interventi sul territorio furono meno incisivi rispetto ad altre aree dell’isola.
Le strade romane della Sicilia risultarono quindi in gran parte condizionate dall’adattamento di antichi tracciati e non furono caratterizzate da quell’andamento rettilineo che era tipico dei percorsi romani  nelle grandi vie sorte in pianura.
Non sono molti i riferimenti sulla viabilità siciliana in merito ai primi secoli dell’impero. Ci furono forse degli interventi sotto l’imperatore Adriano e gli imperatori della dinastia Severiana, anche se gran parte delle strade dovettero rimanere quelle del periodo repubblicano.
È invece importante mettere in risalto come i Romani costruirono un gran numero di ponti espressioni dell’interesse nei confronti del sistema viario e in particolare del territorio siciliano.
La costruzione di un ponte era un onere molto gravoso che richiedeva ingenti spese e una costante manutenzione.
Secondo alcuni censimenti i ponti romani nell’isola sarebbero ben 28. Un aspetto quindi rilevante per poter affermare che l’interesse dei romani per l’isola non era solo legato  alle imprese militari di conquista dei vari centri ma anche allo sfruttamento del territorio con la creazione di importanti infrastrutture.
I percorsi principali erano verso i porti di Catania ed Agrigento e la rete viaria collegava gli scali marittimi con i grandi latifondi, che erano in stretta relazione  conle stationes e le mansiones.

Importante fu la strada  Catania – Termini, passante per Enna,  nel IV - V secolo d.C.
Il tratto della via che collegava la città Etnea con  Enna era quello risalente al periodo Greco, cioè: Catania con Aitna, Kentoripa, Agyroin e Assoros ad Henna.
L’itinerario era stato utilizzato nel 408 a.C. da carri che trasportavano i caduti siracusani da Himera a Siracusa.
L’esistenza di un importante percorso viario tra Aitna, Centuripe ed Agira è attestata per gli anni di Timoleonte da Diodoro; ancora agli inizi del II secolo a.C. la strada era percorsa dai theoroi  di Delfi tra Catania, Enna e Centuripe.
( I “Theoroi” erano degli ambasciatori sacri, messaggeri inviati dallo stato che stava per organizzare un gioco o altra manifestazione panellenica).
Durante l’epoca romana non si hanno molti citazioni sulla via interna “Catina Thermis” prima della compilazione dell’Itinerarium Antonini, quindi prima del III secolo d.C. unico documento insieme alla Tabula Peutingeriana che riporta in modo esplicito questo percorso.
 Il percorso partendo da Catania attraversava le stazioni di Aethna (Paternò), Centuripe, Agira ed Enna e giungeva a Thermis.
Nessuna “statio” (luogo di sosta, ecc) era segnalata tra Enna e Thermae nonostante i 52 miglia che separavano i due centri.. forse perché gli itinerari si limitavano all’indicazione delle tappe del corriere postale o anche perché lungo il percorso non c’erano centri importanti posteriori all’età classica. Centri che invece erano presenti nel tratto tra Catania ed Enna, il che porta ad ipotizzare che lungo la via Catania Termini venivano indicate solo le stationes che coincidevano con i centri urbani.





Nel tratto compreso tra Paternò e Centuripe, nell’antico percorso tra la Masseria Poira e Centuripe, si collocano le rovine di almeno due ponti di età romana:
-          Il Ponte di Pietralunga, in contrada Coscia del Ponte, appena sotto Paternò;

-          Il ponte di Contrada Paportello di Centuripe, poco più a monte del precedente.



In passato  c’è stata una certa confusione sull’identificazione dei due ponti. Si tratta di due manufatti completamente differenti tra di loro ; sia sul piano tecnico che quello strutturale, e posti a circa 4 km di distanza tra loro.

9a. Ponte Romano di Pietralunga (Paternò – Catania)







Percorso alternativo
Giunti sul ponte del Simeto, lungo la SP137, si prende sulla destra
un sentiero che permette di raggiungere la riva destra del Simeto

in corrispondenza del ponte romano dopo circa 400 metri.


Il Ponte di Pietralunga fu costruito in prevalenza in pietra lavica, ma utilizzando anche blocchetti di tufo calcareo (l’arco della finestra di deflusso), presenta una struttura in opus  caementicium con paramento esterno in opus quadratum realizzato con blocchi bugnati, di calcare biancastro della lunghezza di circa 50 cm, a superficie piana con spigolo smussati, secondo una tecnica costruttiva diffusa tra il I ed il II secolo d.C.
Nessuna traccia di mattoni nel paramento del nucleo. 




La sua costruzione risalirebbe al periodo compreso tra la dinastia Giulio-Claudia e quella degli Antonini e rientrerebbe all’interno del progetto di assestamento della viabilità pubblica della Sicilia come è riportata nell’Itinerarium Antonini.
Ebbe probabilmente una vita breve poiché fu distrutto dall’impetuosità del fiume Simeto. Il fiume, proprio nei pressi del ponte,  forma una profonda ansa che è causa di forti correnti e di violenti vortici. Soprattutto nei periodi di piena.



Un'antica foto del ponte

Rispetto al ponte romano di Centuripe è differente anche per il numero delle arcate e per  le dimensioni della careggiata.
Presentava una careggiata di 5,50 m, contro i 3- 3,50 m del ponte di Centuripe, e ai due lati presentava due speroni.
                                                               
Il principe di Biscari fece una descrizione del Ponte di Pietralunga nel 1781:
“ .. alle rive del fiume Simeto immediatamente sotto Paternò,
contrastano ancora colla violenza del fiume le rovine di un gran Ponte,
che fu formato da due grandi archi. Il piliere di mezzo, cedendo negli
antichi tempi alla forza del fiume, ne cagionò la rovina; e restano
ai nostri tempi le sole testate…”

Il Ponte  fu portato alla luce grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Catania tra il 1991 ed il 1994.
Si conservano tre elementi ai piedi del Monte Castelluccio :
-          Sul lato meridionale, lungo la riva destra del Simeto, la rampa d’accesso con parte della careggiata realizzata con piccole basole; una finestra di deflusso; l’appoggio e parte dell’arco di testata con sperone frangiflutti;
-          I resti di un pilone abbattuto e quasi interrato in mezzo all’originario letto del fiume;
-          Sul lato settentrionale, in contrada Coscia del Ponte, la porzione di un appoggio per l’arco di testata.

La storia del ponte di Pietralunga si lega alla conquista romana della Sicilia avvenuta con la prima guerra punica per strappare Messina ai Cartaginesi nel 264 a.C.
Conquistata l’isola i romani iniziarono la costruzione di una serie di opere pubbliche dove le strade , data la loro importanza militare ed economica, avevano la precedenza nell’esecuzione degli interventi.
I romani avevano la necessità di strade ampie e sicure per il trasporto dei prodotti agricoli dall’entroterra siciliano ai porti di Catania, Messina e Siracusa per il successivo smistamento verso Roma.
Un ponte importante che si trovava lungo la strada “Catania – Termini” passando per Paternò, Centuripe fino ad Enna e da Enna verso Termini.
Era stato menzionato nel 1782 dal già citato principe di Biscari, Ignazio Paternò Castello e nel 1905 anche dal reverendo Gaetano Savasta nel suo libro “Memorie storiche della città di Palermo”.
La sponda del ponte veniva chiamata “Coscia del Ponte” e naturalmente richiamava all’antico manufatto  che per secoli era rimasto seppellito dai detriti portati dal fiume Simeto in piena.
I resti del torrione di pietre e conci s’intravedevono dalla riva del Simeto quando non era in piena.
Un anno, durante una piena del fiume, era venuta alla luce sulla sponda destra e quasi attaccata all’attuale margine, un’antica strada che puntava verso Nord Ovest, cioè verso Centuripe.
All’inizio qualche ricercatore collegò questo tratto di strada alla via che portava all’insediamento greco-romano di Pietralunga sul Monte Castellaccio. Ma era un opera troppo impegnativa nella sua realizzazione per il relativamente piccolo insediamento delle colline.
Le basole di calcare presenti sulle sponde del fiume continuavano il loro percorso sulle arcate.
La Soprintendenza di Catania alla fine intervenne dando inizio ai lavori di scavo.
Il ponte giace su una forte massicciata che fa da base ai piloni e alle arcate, una finestra a botte serviva a far defluire eventuali piene e un pronunciato sperone avanzato serviva da frangiflutti.
I conci della volta interna poggiano a secco e sono disposti in strati mentre alcuni in alto presentano un incastro tipo a coda di rondine.
Una perfetta messa in opera dei blocchi faccia-vista con il riempimento a sacco dell’interno secondo una tecnica romana.
Un ponte non eccessivamente alto e probabilmente questo fu un errore nella costruzione a causa della presenza, soprattutto nei mesi invernali, di forti piene del fiume.
La struttura presenta una sua robustezza e sembra difficile accettare l’ipotesi accreditata che una delle tante piene del fiume siano state capaci di distruggere le salde arcate.
Una costruzione ardita che malgrado compromessa, data la sua importanza, probabilmente non sarebbe stata abbandonata ma riparata. Ma è solo un ipotesi.
Infatti alcuni storici sono propensi nel ritenere che la distruzione del ponte sia avvenuta in epoca medievale durante una delle tante invasioni nemiche e poi abbandonato.
L’altezza del manufatto non è elevata e la sua larghezza di 4,15 metri (14 piedi, un piede era lungo 29,64 cm) è la misura classica di una strada romana che permetteva il transito di due carri in direzione opposta e di permettere loro di rimanere in careggiata.
Da chi fu costruito ?
 Secondo gli storici il costruttore sarebbe stato il curatore delle cose pubbliche di Catina (Catania) Giulio Paterno intorno al 164 d.C.
Una costruzione dunque di epoca imperiale.
 Il curatore Giulio Paterno inviò una lettera a Lucio Vero e Marco Aurelio( coimperatori nel 161 – 180 d.C.) con la quale lamentava la necessità di finanziare alcune opere pubbliche catanesi.
Il nome Paterno sarebbe quindi alla base del nome della città Paternò (secondo lo storico Nino Tomasello). Infatti sino al XVI secolo d.C., il libro cassa delle suore Benedettine di Paternò nella datazione degli acquisti del Monastero riporta la dicitura Paterno e non Paternò.Il Procuratore Generale di Catania, “curatores rei pubblicae” Giulio Paterno diede il nome probabilmente alla strada, che partendo da Catania passava per Paterno per raggiungere Centuripe .

























Rocca Pietralunga




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L’Ex Allevamento dei Cavalli
Vicino al ponte romano, sempre nella tenta demaniale di Pietralonga si trovava un ex allevamento di cavalli che fu istituito dal ministero della guerra nel 1883.
Un fabbricato posto quindi sulla riva destra del fiume Simeto e costituito da stalle distinte per razza e tipologia di destinazione, infermerie, edifici amministrativi e residenziali.

 Funzionò per circa regolarmente per circa 10 anni, con notevoli vantaggi sull’economia locale. In seguito diventò sezione dell’allevamento di Persano e venne adibito esclusivamente  ad allevamento di puledri. Dopo l’abbandono definitivo venne in parte utilizzato come luogo di riunione degli agricoltori della zona e come sede di consorzio agrario.


Uno dei fabbricati di Contrada Pietralunga di Paternò

La Real Razza Persano è una razza equina che fu creata nelle scuderie reali del Regno di Napoli, site  a Persano vicino Serre, in provincia di Salerno.

Real Casina di caccia dei Borbone a Persano (Sezze – Salerno)


La razza fu voluta da Carlo Sebastiano di Borbone (Carlos Sebastiàn de Borbòn y Farnesio)  che ordinò nel 1741 di incrociare stalloni turchi con fattrici locali. Nel 1759, diventato re di Spagna con il nome di Carlo III, inviò nell’allevamento a Persano, tre stalloni spagnoli. In epoca più recente vennero impiegati su alcune linee di fattrici, anche dei stalloni purosangue inglesi. Per questo motivo alcuni cavalli  di Persano possono avere un aspetto che ricorda l’anglo-arabo e con delle caratteristiche morfologiche più complesse.
Nel 1787 Ferdinando IV di Borbone fece costruire il Real Sito di Carditello, in provincia di Caserta,  destinandola all’allevamento, alla selezione dei cavalli di razza Persano e alla produzione agricola e casearia.
Una vera e propria residenza reale con affreschi, dipinti e mobili anche se in parte, a quanto sembra, degradati.


La Reggia di Carditello


Nel 1874 le scuderie di Persano furono chiuse e la mandria fu dispersa o venduta all’asta pubblica.  Gli assassini Savoia ne ordinarono la soppressione nel tentativo di cancellare i segni lasciati dalla dinastia borbonica del Regno delle Due Sicilie.
Nel corso degli anni il cavallo Persano era diventato uno dei simboli del regno Borbonico ed ancora oggi ne resta traccia nello stemma della Provincia di Napoli dove è rappresentato in posizione rampante sovrastato da una corona.


Stemma Provincia di Napoli
Persano, malgrado le azioni di casa Savoia, continuò a mantenere quel profumo di storia che ha reso grande, florido ed unico il nostro meridione.
Negli anni la Casina di Persano aveva ospitato delle importanti personalità internazionali r non so onestamente come si siano ridotti i cicli pittorici che l’adornavano come l’opera “Il ciclo delle quattro stagioni” di Jacob Phillipp Hackert.
Ma torniamo all’opera ” culturale” intrapresa dai Savoia….
I savoia cancellarono quindi ogni testimonianza dei Borboni….. se la presero anche con i cavalli Persano …. cavalli che furono esiliati…..
Infatti nel 1860 circa  gli esemplari di cavalli Persano furono  rinchiusi in un deposito di Grosseto.
Nel 1874 molti degli esemplari della Real Razza di Persano furono venduti sulla piazza di Eboli con asta pubblica per decreto del Ministro…… un galantuomo….. Ricotti…..


Nel 1900 il governo decise di cambiare direzione e ricostruire la razza con il nome di “Razza Governativa di Persano”. Un azione intrapresa con l’uso di fattrici e stalloni dell’antica Real Razza che erano stati venduti ad allevatori privati e da un gruppo di soggetti che erano stati acquistati da re Vittorio Emanuele per la sua tenuta reale di San Rossore vicino Pisa.
La razza fu allevata per le esigenze della Cavalleria Militare. Infatti questi cavalli furono protagonisti della battaglia , la “carica di Izbusenskij”,  che si svolse nell’agosto del 1962 sul fronte del Don. Il reggimento Savoia  Cavalleria sconfisse una forza di circa 2000 fanti siberiani e l’impresa fu definita come “l’ultima carica di cavalleria classica nella storia”.
Il Persano vanta quindi essere uno dei cavalli militari per eccellenza essendo stato capace di operare anche in ambienti difficili  come le aspre steppe della Russia.
Dopo la seconda guerra mondiale le razza, contava circa 246 esemplari, venne trasferita al Deposito quadrupedi di Grosseto, una installazione dell’Esercito Italiano, mentre altri soggetti furono venduti ad allevatori privati…… carne da macello.
Dalle notizie in mio possesso sembra che ne siano rimasti poche decine di esemplari in possesso di allevatori privati tra cui il Principe Dott. Alduino di Ventimiglia di Monteforte Lascaris che da anni si batte, con ottimi risultati, per la salvaguardia della Razza Reale. Riuscì ad entrarne in possesso di circa 70 capi, esemplari in purezza, salvando la pregiata razza dall’estinzione.







Dal castello di Poira all’Ex Allevamento di Cavalli
(5,5 km ;  1 h 3 m)



Un sito protetto ? Ma… ho i miei dubbi in base all’analisi della cartina…..

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9b. Il Ponte Romano di Contrada “Paportello “(Centuripe – Enna)
         (foto tratte dallo studio del Sig. Enzo Castiglione, dipendente del Museo
Archeologico di Centuripe, uno dei Musei più importanti della Sicilia per la vastità e l’importanza dei reperti)



Nel territorio di Centuripe, in contrada  Paportello, si trovano i resti di un importante ponte romano posto a circa 300 m ad Ovest dell’attuale corso del Fiume Simeto e a circa 500 m dalla Strada provinciale (SP 44), Ponte Barca di Biancavilla.












Jean Pierre Louis Laurent Houel

(Rouen, 28 giugno 1735 – Parigi, 14 novembre 1813)
Incisore, pittore ed architetto francese
Fu uno dei più famosi viaggiatori del Grand Tour.
Il Grand Tour era una lunga missione culturale nell’Europa continentale intrapresa
dalla ricca aristocrazia europea a partire dal XVII secolo e destinato a perfezionare
il loro sapere con partenza ed arrivo in una medesima città.
Aveva un durata non definita e una delle mete più raggiunte era l’Italia.
Il termine “turismo”, il fenomeno dei viaggi turistici odierni come cultura
di massa, ebbe origine proprio dal Grand Tour.
Nel Vocabolario Treccani…”Turismo, (dal francese “tourisme”, che ricalca
l’inglese “tourism”, che a sua volta è dal francese “tour” (giro, viaggio).
L’insieme di attività e di servizi a carattere polivalente che si riferiscono
al trasferimento temporaneo di persone dalla località di abituale residenza
ad altra località per fini di svago, distrazione, cultura, cura, sport, ecc.”

Nel 1770 il pittore effettuò il suo primo viaggio in Sicilia e vi ritornò nel marzo del 1776 grazie a dei finanziamenti avuti dal governo francese. Durante il suo soggiorno in Sicilia visitò le città di Marsala, Segesta, Sciacca, Selinunte Palermo, Termini, Cefalù, Tindari, Vulcano, Lipari, Messina, Taormina, Catania, Aci Catrena, Belpasso Valcorrente, Agira, Adrano, Centuripe, Sperlinga, Palazzo Adriano, Enna, Siracusa, Palazzolo Acreide, Modica, Scicli, Ragusa, Camarina e Agrigento, itinerario che raccontò all'interno dei 4 volumi del Voyage.

Houel vide il ponte di contrada  Paportello di Centuripe e riportò sia la descrizione del ponte che la raffigurazione su due tavole. Un ponte che defini”

un des plus belles que les romains aient jamàis faites dans ce genre”.
"Uno dei più belli che i romani abbiano mai realizzato in questo genere".

Il viaggiatore francese fu fortunato perché i resti, interrati fino a mezzo secolo prima, era ritornati in vista grazie ai recenti straripamenti del fiume Simeto.







Dall’esame dei resti sembra che il ponte avesse almeno sette arcate. La struttura era realizzata in opera a sacco con un nucleo cementizio ed un paramento che nella parte visibile (parte superiore delle pile e delle arcate) è rivestito di mattoni (dei quali la maggior parte è stata asportata).
Nella parte bassa delle pile, non so se ancora interrate, era presente un rivestimento in blocchi ben squadrati di pietra lavica.
Era largo circa 4 metri e pavimentato con grandi lastroni litici “ad incertum” alcuni dei quali si trovano nelle vicinanze,

Houel,  che accompagnava le varie descrizioni dei manufatti con note anche di carattere tecnico, annotò che “l’estremità est del ponte (spalla) era ancora integra, era lunga circa dieci metri e doveva essere inclinata come si conviene abitualmente all’ingresso di un ponte”.
Il suo disegno da Sud fu realizzato per fare capire come il fiume Simeto si fosse nel tempo spostato notevolmente verso Est, preservando dalla completa distruzione i resti del ponte.




I resti attualmente occupano una lunghezza di circa 48 metri in un’area pianeggiante alluvionale. Sono visibili solo quattro spezzoni di cui tre inclinati dopo la rottura delle arcate e il cedimento delle pile di fondazione, ed uno nella sua probabile posizione d’origine, alto un paio di metri rispetto al piano di campagna.







L’archeologo e mecenate Ignazio Paternò Castello, V principe di Biscari,  riportò una descrizione del ponte verso la metà del XVIII secolo:
“   Scendendo dalla precipitosa Montagna di Centoripi drizzando il
cammino  verso Catania a sei miglia di distanza da quella incontrandosi il
Fiume Simeto si trovano le rovine di un bellissimo Ponte formato di sei
o sette Archi, i di cui pileri sono costrutti di grossissime pietre
riquadrate incatenate una all’altra con grappe di bronzo impiombate
restandone oggi le incavature, e sopra tali forti pilastri posavano
gli archi di robustissima fabbrica coperta di grossi, e grandi mattoni.
Più delle metà di queste Ponte giace sepolto dentro terra, comparendo
ancora tre pilastri con parte delli destrutti Archi, ed il restante
in più pezzi resta caduto nel fiume, ed in maniera che mostra ancora
l’antico selciato formato di pietre irregolari con grande artificio…
Un’opera di tanto comodo, e profitto giacendo priva di speranza di ristorazione,
ad altro non può servire, che dare uno indizio della strada, che
conduce a Centoripi, ed ad ispirar sentimenti di gloriosa emulazione ”.

Ignazio Paternò castello, V principe di Biscari
(Catania, 24 maggio 1719; Catania, 1 settembre 1786)
Incisione (1757 – 1831)

Il ponte romano di Centuripe si potrebbe confrontare con altri ponti romani collegabili all’età Traianea – Adrianea e dislocati lungo la Via Traiana,
Uno di questi ponti potrebbe essere quello di Chianche di Buonalbergo (Benevento) che presenta le medesime tecniche costruttive: rivestimento delle pile in pietra, le arcate e le sovrastrutture in laterizio e la pavimentazione con grandi lastroni litici che sono definiti appunto “chianche”.

Chianche di Buonalbergo (Benevento)

Chianche di Buonalbergo (Benevento)

 Ponte Romano di Centuripe







(foto tratte dalla ricerca dello studioso Enzo Castiglione)



La famiglia Centuripina dei Falcones, tra il II e il III secolo d.C.,  era proprietaria terriera in Sicilia, nel Lazio e in Nord Africa. Apparteneva alla famiglia anche Quintus Pompeius Falco, di rango senatorio e curator viae Traianae tra il 108 e il 112 d. C., figlio di Clodia Falconilla e Sextus Pompeius C., e padre di Q. Pompeius Sosius Priscus.
Q. Pompeius Falco era persona vicina all'imperatore Adriano e  forse fu proprio Falco il committente che fece progettare ed eseguire la costruzione di questo ponte, per celebrare i suoi possedimenti e la terra d’origine della sua famiglia.

Museo di Centuripe

Il 29 ottobre 2007, ai sensi del D.L. n. 42 del 22.1.2004, venne emanato dall’Assessorato Regionale ai Beni Culturali, il Decreto di Vincolo n. 7808, proposto dalla Soprintendenza ai BB. CC. AA. di Enna, che ha posto sotto tutela, con vincolo diretto, i resti del ponte e, con vincolo indiretto, l’area di rispetto circostante. Questo importante atto potrebbe costituire il primo passo verso la valorizzazione e lo studio approfondito dell’antica struttura.


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10. Zattere e “trahetti” sul Simeto: “Le Giarrette”

Durante la dominazione romana lungo il corso del Fiume Simeto, da Maniace a Catania, furono costruiti diversi ponti per unire le due sponde del fiume e consentire il passaggio dei soldati e delle carovane di animali da soma carichi di grano o di altri prodotti agricoli.
Nel corso delle dominazioni barbariche molti ponti andarono distrutti per mancanza di manutenzione. 
Nei periodi di magra era possibile trovare un guado per attraversare il fiume mentre  diventava impossibile  farlo nei periodi in cui era in piena.
In età araba, con lo sviluppo repentino dell’agricoltura e dei commerci, per attraversare il fiume si usavano della zattere o barche denominate “giarrette” che venivano poste agli sbocchi delle trazzere più importanti per traghettare persone, animali e cose.
Queste zattere venivano assicurate alle due sponde del fiume da grosse gomene dette “libani” che servivano da guida e di appiglio attraverso i vortici della corrente.

Sulla sponda orientale del fiume c’era lo scalo cioè un grande pagliaio dove stavano i barchieri e gli attrezzi: tronchi, tavole, corde e pece per le barche.
Questi beni erano di proprietà del sovrano o del nobile feudatario che l’aveva ricevute nell’assegnazione del feudo. Venivano  quindi gestiti in gabella per periodi che variavano dai 3 ai 6 anni.
Il gabelloto per l’assegnazione versava un canone annuo in denaro o in vettovaglie e a sua volta si rivaleva sui traghettanti, riscuotendo particolare “iura” o “diritti di passaggio da massari, pastori, ecc.”.

   
 Le Giarrette più note furono tre: quella di Adernò o di Mandarano , quella di Paternò o della Poira e quella di Catania non lontana dalla foce del Simeto.
Della Giarretta di Adernò si ha notizie da lettere del conte Francesco Moncada del 27-8-1564.
In tale contratto si afferma che, per disposizione del conte, i proventi della barca dovevano essere percepiti annualmente dai procuratori della Chiesa Matrice per spenderli nell'acquisto di cera, olio, ecc. Dal 1564 al 1636, la Matrice gabellò la barca percependone un canone annuo di 10 onze dai gabelloti che per le loro prestazioni esigevano i seguenti diritti: dai borghesi che facevano masserie, tumoli quattro di grano per giornata di aratro; dai pastori un cantaro di formaggio per iazzo oltre a capretti, ciavarelli e ricotte. (“iazzo” dovrebbe essere il recinto; “ciavarello” il formaggio )
Questo pesante onere gravò per tanti anni e spesso si sollevarono lamentele da parte di agricoltori e pastori che non intendevano pagare così forti diritti. A loro volta, i procuratori della Matrice si “lamentavano sulla magrezza dei frutti della barca che rendeva meno di quello che ci voleva per le riparazioni”.
I procuratori della Matrice  concessero, con atto del 27-5-1718,  al barone Antonio Spitaleri Iunior il diritto “di tenere per suo conto la barca nel fiume con le stesse modalità con cui l'aveva tenuta per alcuni secoli la Matrice e tutto per il canone annuo di 10 onze”.
I ripari e la ricostruzione della barca in caso di naufragio erano tutti a carico del concessionario.
(Il Barone Antonio Spitaleri era nato ad Adrano nel 1670 ed era figlio di Giovanni Vincenzo Spitaleri e di ?. Si sposò con Giuseppa Bertolo da cui i figli/e: Teresa, Agatino e Vincenzo.  Agatino Spitaleri, nato nel 1700 circa, sposò il 18 febbraio 1721 ad Adrano, Rosalia Costa, figlia di Domenico Costa e di Rosalia Ciancio, dai cui i figli/e:  Anna e Rosario).
Per  pagare il canone, il barone pose un'ipoteca su tutti i suoi beni.
Ma i pagamenti alla Chiesa non furono regolari e il 3-5-1759 il nipote di don Antonio, don Rosario Spitaleri, era debitore di 127 onze da pagare, in rate annuali, ai procuratori della Matrice.
 Nel dividere i beni di don Agatino, figlio di don Antonio Spitaleri, tra gli eredi si convenne che la barca rimaneva in comune e che il censo di 10 onze alla Matrice dovevano pagarlo nella misura di 5 onze donna Anna Spitaleri e Ciancio e di 5 onze don Felice (figlio di don Rosario) e donna Rosaria Spitaleri.
Nell'anno 1797, il principe di Paternò don Francesco Alvarez de Toledo mise in servizio un'altra barca distante da quella degli Spitaleri. Questi intentarono causa al principe al quale, con sentenza dell' 8-11-1799, fu intimato di situare la sua barca in un altro luogo molto distante, per non ledere il diritto di esclusiva preteso dagli Spitaleri che però non vollero più contendere contro un così potente antagonista e finirono per abbandonare il negozio della barca e non fecero più versamenti alla Matrice.

 Importante documento in merito è la mappa borbonica del Territorio di Catania.
È una delle mappe redatte da architetti e ingegneri, agrimensori, periti urbani e cartografi al servizio del Governo Borbonico tra il 1837 ed il 1853.  In questo periodo il governo del Regno delle Due Sicilie conferì al marchese Vincenzo Mortillaro di Villarena l’incarico di completare le operazioni catastali in Sicilia, con il relativo supporto cartografico.

Mappa Borbonica

Oltre ai nomi di antichi feudi  si nota subito come il fiume Simeto era anche chiamato “Giarretta”.
Altro aspetto importate il passaggio della strada “Catania – Noto” nei pressi della foce del “Fiume Simeto o Giarretta” nell’ex “Feudo Primo Sole”.
L’indicazione “Barca di 1° Sole” indicherebbe la presenza probabilmente di un antico servizio di barche per traghettare  che venivano chiamate “Giarrette”.

 “Appo i Sicilianiil vocabolo Giarretta significa quel barcone, col quale dall’una all’altra riva i passaggieri son trasportati; questa diede il nome al Simeto, detto anco il Fiume della Giarretta, e la Giarretta, ma in due luoghi,  se vogliamo intendere la propria significatione di esso Fiume; uno è nella Giarretta de’Monaci, che ancora la Giarretta di sù si noma, discosta dalla città di Catania quasi per diece miglia. 
L’altro nella Giarretta di S. Agatha, ovvero Giarretta di giù non molto distante dal mare, ma da essa Città poco meno di otto miglia.
Vi son pure due altre Giarrette, una presso Paternò, l’altra presso Aternò, da’ quali prendono il nome, e così ancora il Simeto con chiamarsi Fiume di Paternò, e di Adernò; però. Mentre semplicemente si dice il Fiume della Giarretta, non s’intende quello,  che corre presso Aternò, ò Paternò, benche sia il medesimo, ma sol quello della Giarretta di su, e della Giarretta di giù.
Nel tempo del Re Ruggiero il fiume Simeto pur’havea nome della Giarretta; ne fa ricordo sol una volta il Christiano Arabico nella descrition di Sicilia da noi già citata; hò così detto,, perché egli facendo spesso ricordo del Simeto con altro nome lo chiama.
Lo Scanello, e l’Alberti di sopra mentovati lo dicono il Fiume di Lazzaretto voce depravata in iscambio della Giarretta.
Che la Giarretta di giò sia dimandata altresì di S. Agatha, se ne dà ragione, percioche si contiene tra quei terreni che il Conte Ruggiero concesse in patrimonio alla Chiesa Cathedrale di S. Agatha, però piu che espressamente l’habbiamo per un privilegio del Re Tancredi dato all’anno 1191, con tale specification di parole. Et Iarrettà, quae transducit gentem, quae Iarretta est in flumine prope mare, ego donaui Sanctae Dei Ecclesiae.
Ottavio d’Archangelo vi attribuisce esser così nominata, perché anticamente fu patrimonio di essa Sant’Agata……
La Giarretta di su è detta col nome de’ Monaci, perché n’è padrone il Monastero di S. Niccolò dell’Arena de’ Padri di S. Benedetto”.



Ubicazione delle Giarrette

Nelle ricerche ho trovato pochi riferimenti sulla tipologia di queste imbarcazioni che erano chiamate “giarrette” (piccole giare o contenitori).
La barca aveva  una “forma piatta e rotonda” e veniva chiamata “giarretta” in riferimento alla parola araba “giarra” cioè vaso.

Faceva servizio tra le due sponde soltanto due volte al giorno, all’alba e al tramonto. Chi doveva  prendere la “giarretta” per vari motivi, doveva trovarsi al punto d’imbarco “allo spuntar del sole”, che in latino si diceva “primo sole”.
Da qui anche la denominazione nella carta borbonica del punto detto di “primo sole”.
Riporto delle foto di alcune imbarcazioni che solcavano i fiumi. Penso che il disegno di Caspar Sturm possa in qualche modo raffigurare la giarretta del Simeto.
Riporto anche alcuni dipinti che raffigurano delle imbarcazioni che nel XVIII secolo solcavano l’Arno.
 Le differenze erano legate sia al fatto che, come riportano le poche fonti, non avevano dei remi ed erano collegate a delle funi (detti “libani”)  fissate sulle sponde e alla diversa  forma  dell’imbarcazione, rotonda nelle giarrette ed ovale nelle barche dell’Arno.
Grazie a queste funi le giarrette venivano  guidate nell’attraversamento del fiume. Naturalmente il fiume non doveva essere in piena  e quindi l’uso delle giarrette era probabilmente collegato a certi periodi dell’anno.

Probabili giarrette
Illustrazione da un racconto contemporaneo di Caspar Sturm del 1523.


Giuseppe Zocchi
“L’Arno alla Golfolina”  (particolare) – acquaforte del 1744

Giuseppe Zocchi
“Firenze vista dall’Arno” – prima metà XVIII secolo (particolare)
(Coll. Ente Cassa di Risparmio di Firenze)

 Interessante è un documento del 1843 in merito al proprietà e al servizio delle Giarrette e all’uso delle acque del fiume Simeto ( e dei suoi affluenti) per il diritto della pesca (in particolare per le “Alose”).


17 luglio 1843

Sulle seguenti domande del cavaliere D. Domenico Tedeschi e Tedeschi, per compensamento, cioè:
Del diritto di pedaggio della barca di primo sole nel fiume Simeto:
Della privativa delle acque dei fiumi Simeto, Binanti, e Gurnalonga;
Dei diritti delle peschiere nei fiumi Gurnalonga, Dittaino, Binanti, Fiumazzo, e gorghi adiacenti;
Della privativa dei ponti di Binanti, e Gurnalonga,

Il Consigliere commissario ha fatto il seguente rapporto.
Una supplica complessiva le precedenti domande è stata a nome del cavaliere D. Domenico Tedeschi e Tedeschi presentata a firma del suo procuratore Dr. Don Pasquale Spagna, su la proprietà dei diritti della così detta giarretta sul fiume Simeto, e di tutti altri dipendenti da concessione fattane ai di lui autori dal vescovo di Catania nel 1547 (Nicola Maria  Caracciolo).
Espone in essa  preliminarmente, che gli enunciati diritti come derivanti da donazioni  fatte da Tancredi ad Augerio vescovo di Catania nel 1092 e 1102, e dalla concessione fattane dal vescovo Caracciolo ai autori del Tedeschi nel 1547, con tutte le formalità di diritto ecclesiastico e civile, canonizzati dal Pontefice Paolo III con apostoliche bolle esecutoriate in regno a 31 gennaio 1548,  e confermati con due sovrani dispacci dagli augusti Sovrani Carlo III e Ferdinando IV nel 1753 e 1796, lungi di essere colpiti dalle leggi abolitive senza compenso, perché non nascenti da forza baronale o da prerogative signorili, sono stati conservati dalla legge parlamentaria del 1813, al capitolo 2° S 9.
In conferma di tale assunto invoca il disposto degli articoli 153, 154, e 155 delle reali istruzioni per la rettifica del catasto fondiario di Sicilia del 17 dicembre 1838, pei quali, preveduto il caso di appartenere ai privati la manutenzione delle barche su i fiumi, non che l’uso delle pesche e delle acque nei fiumi medesimi, è prescritto di calcolarsene la imponibilità su le gabelle del decennio.
Quindi ha chiesto:
Che verificandosi la costruzione del ponte di fabbrica proposto dalla provincia di Catania sul fiume Simeto, e propriamente al punto ove naviga attualmente la giarretta di transito di proprietà del chiedente, siccome allora verrebbe a mancargli il diritto di pedaggio della medesima in once 500 annuali di lordo, debba accordarglisi il corrispondente compenso a peso della detta provincia, a di cui utile tornerebbe il pedaggio, e per di cui fatto verrebbe il Tedeschi ad esser privato di una proprietà da più secoli dovuta.
Che essendosi nel 1728 eretti dal vescovo di Catania (Raimondo Rubi dell’Ordine Certosino)  con  l’annuenza (consenso) di D. Vincenzo Tedeschi avo del richiedente i due ponti di legno nei siti di Binanti e Gurnalonga, pel più comodo transito degli inquilini della mensa, ed imposta a costoro dall’amministratore della medesima con due provisionali del di 8 giugno 1728 e 19 maggio 1729 una fida perpetua in frumento, secondo la estensione delle rispettive tenute in favore del Tedeschi, compensativa la diminuzione degli introiti del pedaggio che er tal causa veniva a soffrire; ritenuto che per la legge parlamentaria del 1813abolitiva la prerogativa, fu reso comune e generalmente libero da quei ponti il passaggio, che prima era limitato ai soli inquilini della mensa con la fida enunciata, che venne anche meno al ricorrente; è perciò che per la sensibile diminuzione degli introiti implora un compenso a carico della provincia, comecchè la abolizione  rifluisce a vantaggio di quei singoli.
In quanto al diritto di pesca, ed uso delle acque dei fiumi concedutigli dalla mensa, attesa la legittima derivazione di tali diritti per le donazioni di Tancredi alla Chiesa di Catania, per la concessione fattane indi dal vescovo con le solennità ed autorizzazioni enunciate, e pei titoli inconcussi di proprietà e possesso che ne ha goduto per secoli la famiglia Tedeschi, di che fa anche distinta menzione il regio visitatore generale monsignor de Chiocchis (lib. 3° S 8 de archiviis), non può in verun modo comprendersi nella classe dei diritti aboliti come abusivi, o imposti dall’arbitrio e potenza baronale. Nè vale a dire, che dichiarando la legge di pubblico uso i fiumi, è comune a tutti il diritto di pescare, imperocchè questa legge generale per tutto quello che è parte del pubblico demanio, non può estendersi a ciò che è divenuto di proprietà privativa, come nella specie mediante alienazione fattane dal principe, a cui il dominio eminente si appartiene, e come chiaro di scorge dalla donazione amplissima e perpetua usque ad consumationem seculi, fatta da Tancredi al vescovado di Catania di quel tratto di fiume che defluisce in quel territorio con l’uso delle peschiere.
Per l’esposte ragioni il richiedente sostiene di non poter soffrire menoma molestia nell’uso delle acque, e diritto della pesca, di cui han goduto da sempre i suoi autori, e gode attualmente egli stesso, sostenuto dalla enunciata legge parlamentaria, non vieto a limitato dalle leggi posteriori, confermato dalle istruzioni del 1838 pel catasto fondiario, né contraddetto in fatto da veruna autorità.
Argomenta da ciò, che molto meno l’uso di tali diritti possa riputarsi colpito dal Real Decreto degli 11 dicembre 1841.
Ove poi per lontana ipotesi la gran Corte opinasse applicabile alla specie il disposto di questo Real Decreto, subordinatamente ha chiesto, che piaccia alla medesima liquidarne il compenso; a quale oggetto, ad esuberanza di cautela, riunendo nell’attuale produzione i documenti già antecedentemente prodotti rispetto ai titoli di acquisto e possesso dei cespiti in discorso, e gli atti di affitto che ne giustifichino la percezione, ha presentato gli appresso documenti:
In quanto ai titoli:
Due donazioni fatte da Tancredi figlio del Conte Guglielmo (I) alla Chiesa di Catania, l’una nel 1092, e l’altra nel 1102, della scafa ossia giarretta nel Simeto con i fiumi defluenti, laghi, pantani, terre, ed altro;
Concessione della detta barca con i suoi diritti, membri, e pertinenze, fatta dal vescovo di Catania a Giacomo Celano il dì 15 novembre 1547 per canone di once 38, e di quintali due pesci alose;
privilegio ponteficio impartito alla detta concessione dal Pontefice Paolo III con apostoliche bolle esecutoriate in regno a 31 gennaio  1548;
Atto di accordo tra il vescovo di Catania e l’enfiteuta Celano del 4 gennaio 1557, con quale si convenne di ritornare alla mensa vescovile lo affidamento della nutrime, che si pesca nei fiumi di detta chiesa, mediante il di scalo di once 8 perpetuo sul canone di once 38 nella prima concessione fissato,
Atto provisionale fatto dal rettore della mensa il dì 8 giugno 1728, che accorda all’enfiteuta D. Vincenzo Tedeschi la erezione dei ponti nei fiumi Gurnalonga e Binanti
ai termini della concessione del 1547, pel comodo transito degli inquilini delle terre appartenenti alla mensa, con doversi pagare all’enfiteuta una prestazione annua in frumento, secondo la consistenza di ogni tenuta risultante, giusta il detto atto provisionale, nella quantità di salme 15 e tumoli 6;
Altro simile atto provisionale del 18 maggio 1729, col quale quel rettore faculta l’enfiteuta Tedeschi di levare il ponte di legno già costruito nel fiume Gornalunga, e collocarlo propriamente nel sito della Grotta per maggiore comodo degli inquilini;
Numero cinque bandi fatti pubblicare dal rettore della mensa a 18 e 23 novembre 1729, 2 novembre 1790, 10 ottobre 1806, e 26 settembre 1813, su la proibitiva di nessuno tener barche sul fiume Simeto, né fare ponti di sorta alcuna nei fiumi di detta chiesa ad esclusione dell’enfiteuta;
Atto recognitorio fatto a 7 luglio 1734 dal Dr. D. Vincenzo Maria Tedeschi qual’enfiteuta del tempo nella successione dei suoi autori, con l’approvazione ed intervento del regio visitatore generale reverendo D. Domenico Brancati abate cassinese, in favore della mensa vescovile, per la concessione della giarretta e sue pertinenze. Con questo atto stipulato dal notaro D. Giacomo Vincenzo Gulli di Catania, il Tedeschi avente diritto e causa da Giacomo Celano primo concessionario per atto del 15 novembre 1547, riconosce il dominio diretto nella persona del vescovo, e si obbliga di corrispondere alla mensa l’annuo canone perpetuo di once 43,10, cioè once 13,10 per causa dei quintali due di pesci alose dipendenti dalla concessione del 1547, ed once 30 in virtù della medesima concessione e dell’atto di accordo del 1557 di cui si è precedentemente parlato;
Numero cinque apoche dei 4 aprile e 1 settembre 1735, 19 giugno e 19 settembre 1770, e 12 settembre 1832, contestanti il pagamento del canone fatto alla mensa, cioè con le prime due dal Dr. D. Vincenzo Tedeschi per l’annata da settembre 1735 ad agosto 1736, con le altre due dalla signora Donna Lucrezia Tedeschi vedova del Dr. D. Vincenzo Tedeschi per l’annata da settembre 1778 ad agosto 1779, e con l’ultima dal cavaliere D. Domenico Tedeschi per l’annata da settembre 1830 ad agosto 1831, quale
erede questo ultimo del di lui genitore D. Francesco di Paola ai termini del testamento olografo del 9 settembre 1823, e come avente diritto e causa del di lui avo Dr. D. Vincenzo;
10° Dispacci reali dei 12 maggio 1753, e 3 settembre 1796,  col primo dei quali S.M.C. Carlo III impose il perpetuo silenzio alle concessioni fatte dai vescovi di Catania sino all’anno 1649 inclusive, e con l’altro S.M. Ferdinando IV, in vista della domanda del
Sindaco di quel comune, e di molti possessori di fondi di pertinenza di quella mensa, ordinò, che si sostenga la grazia accordata dall’Augusto suo genitore in pro dei medesimi;
11° Transazione tra l’università di Caltagirone e D. Vincenzo Maria Tedeschi del 12 ottobre 1760 in notar D. Giacomo Majorana del detto comune, con la quale si convenne, che le acque del fiume di Gornalunga defluenti nel territorio di Catania spettavano per una terza parte alla cita università, e per le altre due terze ai Tedeschi;
12° Certificato del ricevitore dei rami o diritti diversi, che attesta il pagamento del canone in once 43,10, fatto da D. Domenico Tedeschi alla mensa vescovile in sede vacante per l’annata da settembre 1838 ad agosto 1839;
In quanto alla fruttificazione:
13° Concessione enfiteutica fatta da D. Vincenzo Maria Tedeschi al principe di Paternò, delle alose che si pescavano nel Simeto pel canone di once 30 annuali, agli atti di notar D. Giuseppe Vollaro a 22 febbrajo 1734;
14° Atto di locazione della barca fatto da Donna Lucrezia Tedeschi vedova di D. Vincenzo a 28 settembre 1794 in notar D. Vincenzo Arcidiacono di Catania a favore di Michele Motta per anni tre da settembre 1795 ad agosto 1798, per l’annua gabella di netto di once 250, stante il gabelloto obbligavasi di andare a di lui rischio e pericolo la perdita della barca, e di fare durante lo affitto le spese occorrenti per la manutenzione della stessa. Processe di patto dover passare soltanto su i ponti di Binanti e Gurnalonga agli agricoltori delle terre della mensa, restando a di lui vantaggio la fida a seconda del provisionale del 1728, e di dar franco il passaggio alle persone di servizio del barone Villarmosa, da cui si riserbava la gabellante signora Tedeschi esigere i diritti del pedaggio. Patto ancora che il gabelloto Motta era in obbligo di consegnare alla gabellante dodici galline all’anno per carnaggi:
15°  Gabella fatta il 28 maggio 1797 in notar Arcidiacono di Catania da Donna Lucrezia vedova Tedeschi a Salvatore Sichili, della pesca nel Simeto, e nei fiumi Gurnalunga, Fiumazzo, e gorghi adiacenti, per anni tre da settembre 1798 ad agosto 1801, alla regione di once 26 all’anno, oltre i carnaggi che non s’indicano, e col patto di restare riservata alla famiglia Tedeschi la pesca delle alose dal 15 febbraio al 15 maggio di ogni anno;
16° Due apoche di once 30 per una, fatto a 18 settembre 1797, e 3 ottobre 1841 in favore del principe di Paternò, cioè la prima da Donna Lucrezia vedova di Tedeschi per canone maturato in agosto 1797, e l’altra da D. Domenico Tedeschi per quello di agosto 1839, a mente della concessione enfiteutica del 22 febbrajo 1734;
17° Numero quattro atti di gabella dei 12 marzo 1801k, 17 agosto 1815, 25 febbrajo 1820, e 9 marzo 1824, relativi alle acque del fiume Gurnalonga per la sola parte spettante alla famiglia Tedeschi, giusta la transazione tra D. Vincenzo Tedeschi e la università di Caltagirone del 12 ottobre 1760. Dal primo atto si ha la pigione di once 33,20 annuali per anni quattro da gennajo 1801 a dicembre 1804; dal secondo di once 50 annuali per anni quattro da ottobre 1815 ad ottobre 1819; dal terzo di once 40 annuali per lo periodo dal 25 febbrajo 1820 a tutto ottobre 1823; dal quarto di once 30 annuali per mesi dieci da marzo a dicembre 1824;
18° Gabella del salto delle anguille nel fiume Binanti fatta a 4 settembre 1802 da D. Francesco di Paola Tedeschi per anni due da settembre 1802 ad agosto 1804 alla ragione di once 4 all’anno, e col patto di potere il gabelloto usare a suo libero piacimento delle acque suddette per lo arbitrio del riso e del canape;
19° Società fatta da D. Francesco Tedeschi con D. Giuseppe Zappalà Gemelli e consorti a 16 maggio 1803, con alberano privato ridotto agli atti di notar Rosario Giuffrida di Catania a 7 marzo 1842, delle acque del Simeto per lo arbitrio del riso e del canape, per lo periodo di anni nove da gennaio 1803 a dicembre 1811, col patto di dovere la società pagare al signor Tedeschi l’uso dell’acqua per fare speculazioni in ragione di once 8 annuali per ogni salma di terre, che saranno seminate di riso o canape;
20° Apoca agli atti di notar D. Luigi Patti di Caltagirone del 21 gennaio 1804, con la quale l’università suddetta confessa ricevere da D. Francesco Lazzara di Catania once 18,20 per la terza parte di gabella delle acque di Gurnalonga del 1802 e 1803, stante le altre due terze parti in once 37,10 si appartengono a D. Francesco di Paola Tedeschi qualì’erede del di lui padre D. Vincenzo;
21° Numero dieci atti dei 19 agosto 1805, 17 settembre 1812, 25 agosto 1815, 17 maggio 1818, 20 gennaio 1822, 1 agosto 1825, 7 maggio 1831, 16 aprile 1833, 18 aprile 1835, 31 dicembre 1839, relativi tutti alla locazione come sotto della barca ossia giarretta, salvo al gabellante Tedeschi l’uso delle acque dei fiumi Simeto, e Binanti per lo arbitrio dei risi e del canape, e la prestazione annuale di sedici galline. Si ha dal primo atto la pigione di once 280 annuali per tre anni dal settembre 1805 al agosto 1808; dal secondo di once 320 annuali per anni tre da settembre 1813 ad agosto 1816; dal terzo di once 320 annuali per tre anni da settembre 1816 ad agosto 1819; dal quarto di once 350 annuali per anni tre da settembre 1819 ad agosto 1822; dal quinto di once 296 annuali per anni tre da settembre 1822 ad agosto 1825; dal sesto di once 300 annuali per tre anni da settembre 1825 ad agosto 1828; dal settimo di once 290 annuali per anni tre da settembre 1831 ad agosto 1834; dall’ottavo di once 283 annuali per anni tre da settembre 1834 ad agosto 1837; dal nono di once 290 annuali per tre anni da settembre 1837 ad agosto 1840; dal decimo finalmente di once 280 annuali per tre anni da settembre 1840 ad agosto 1843;
22° Tre atti dei dì 17 agosto 1815; 25 febbrajo 1820, 12 marzo 1824, relativi alla gabella come sotto delle acque del fiume Binanti, fuori l’uso della pesca. Dal primo atto si ha la pigione di once 15 annuali per lo periodo dal 1 maggio 1816 a 31 ottobre 1819; dal secondo la pigione stessa di once 15 annuali per lo periodo dal 25 febbrajo 1820 a tutto il mese di ottobre 1823; dal terzo la pigione di once 12 annuali per lo periodo dal 12 marzo 1824 al 30 novembre del detto anno;
23° Due atti datati a 7 gennaio 1819, e 3 settembre 1838, riguardanti lo affitto della pesca nei fiumi Simeto, Gurnalonga , Fiumazzo, e gorghi adiacenti, salva la pesca delle alose a favore del gabelloto Tedeschi dal 15 febbraio a 15 maggio di ogni anno. Contiensi nel primo atto la pigione di once 42 annuali per anni tre da settembre 1819 ad agosto 1822; nel secondo quella di once 52 annuali per anni due da settembre 1838 ad agosto 1840;
24° Gabella del dì 11 febbrajo 1838 della pesca delle alose nel fiume Dittaino dal 15 febbrajo a 15 maggio 1838, per oncia 1 annuale, oltre i carnaggi di rotoli quindici alose;
25° Dichiarazione in carta privata fatta da D. Domenico Tedeschi a 24 febbrajo 1838 registrata detto giorno in Catania, relativa alla gabella fatta verbalmente dal 15 febbrajo a 15 maggio 1838 della pesca delle alose nel fiume Gurnalunga per lo prezzo di once 2, oltre i carnaggi che non s’indicano, di pesci alose;
26° Gabella fatta il dì 11 agosto 1840 della pesca dei fiumi Simeto, Gurnalonga, Fiumazzo, e gorghi adiacenti, per la pigione di once 42 annuali per lo periodo di anni tre da settembre 1840 ad agosto 1843;
27° Numero due dichiarazioni che fanno Salvatore Pezzino e Pietro Bruno presso il notaro D. Agostino Puglizi a 17 aprile q832, e 27 marzo 1843 come gabelloti della barca ossia giarretta. Per la prima attesta il Pezzino, che il passaggio franco dato alle persone di servizio del barone Villarmosa importa once 6 annuali ; e per la seconda rileva il Bruno, che il fruttato del passaggio da lui percepito è risultato in once 500 annuali circa.

L’Intendente di Catania interpellato dal Pubblico Ministero su le domande del cavaliere D. Domenico Tedeschi e Tedeschi, relative alla così detta giarretta e sue dipendenze, ha con suo foglio del 14 marzo 1843 acchiuso una decurionale del 20 gennajo detto anno, con la quale tenendo conto delle pretensioni di altri chiedenti un compenso delle rispettive proprietà già abolite, e trattando all’articolo 3° di quelle del Tedeschi, del diritto cioè di pedaggio della barca di primo sole, ossia giarretta del Simeto, dei diritti di privativa delle acque nei fiumi Simeto, Binanti e Gurnalonga, dei diritti su la pesca nei fiumi Gurnalonga, Dittaino, Binanti, Fiumazzo, e gorghi adiacenti, e della pigione ricavata dalla giarretta con la privativa su i ponti di Binanti e Gurnalonga nel feudo delle Grotte, si riferisce ad una precedente deliberazione, che ebbe luogo a 24 novembre 1841, nei seguenti sensi:
Che sia utile anzi necessario il costruirsi nei due siti del fiume Simeto di primo sole, e della giarretta i due ponti a spese delle due province di Catania e di Noto  da servire di comunicazione;
Che non può ammettersi la pretensione del cavaliere D. Domenico Tedeschi e Tedeschi, e del Monistero dei padri Cassinesi a stabilire quei ponti a loro spese proprie, perché non può aver luogo proprietà privata su i fiumi, che la legge dichiara pubblici.
Che nella intelligenza che il cavaliere Tedeschi non contrasse con il comune di Catania pel su divisato diritto di passaggio, spetta al Governo il provvedere il convenevole pel compenso cui ha diritto il medesimo, come colui che mercè validi e irrefragabili titoli ha posseduto sin’oggi la manutenzione delle barche di passaggio
Nel sito del primo sole del Simeto, ed in veduta della perdita che verrà a soffrire di una proprietà da tre secoli goduta.

LA  GRAN  CORTE  DEI  CONTI  DELEGATA
PEI  COMPENSAMENTI

Veduta la domanda del cavaliere D. Domenico Tedeschi e Tedeschi:
Vedute le due donazioni di Tancredi del 1092, e del 1102 a favore
del vescovado di Catania;
Veduto l’atto enfiteutico stabilito da quel vescovo nel 1547 a  nome
di Giacomo Celano rappresentato oggi dal ricorrente:
Astrazion fatta della legittimità ed efficacia delle ditate due donazioni,
così per la qualità del donante, che per le facoltà che in lui risiedevano
a donare:
Considerato che gli atti stessi di donazione non presentano esplicitamente
la concessione dei diritti reclamati, e molto meno l’uso che
esclusivamente se ne esercita;
Considerato, che quando anche ne fossero espliciti e la concessione e l’uso,
i diritti suddetti ricaderebbero sempre nella classe dei privativi aboliti dalla
legge parlamentaria del 1813 senza compenso, non ravvisandosi nelle
donazioni la causa eccezionale preveduta dalla stessa legge, quella
cioè di una ragion di prezzo;
Considerato che il ricorrente nella qualità di enfiteuta del
vescovado di Catania, in difetto del reclamato compenso, per cui
non ha titolo avverso l’erario, può in ogni evento nel suo interesse
essere al caso di agire per regolare le condizioni della
enfiteusi innanzi le comptenenti autorità giudiziarie;
Per siffatte considerazioni:
Inteso il rapporto del Consigliere sig. Pomàr:
Ascoltato il Pubblico Ministero;
Conformemente alle di lui orali conclusioni:

E’ di avviso
Non Esservi luogo ad attribuzione di compenso
Così deliberato dai sigg….
Approvato con Sovrano Rescritto del 21 agosto 1843


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Nei diritti di pesca si parla spesso di pesci “Alosa”.
Importante in merito è una relazione  del 1835 del grande professore Carlo Gemmellaro, negli Atti dell’Accademia Gioenia, sulla fauna ittica del fiume Simeto



Abbonda il Simeto di pescagione, di cui giova un poco intertenerci, come uno de’ vantaggi che i fiumi arrecano alle vicine popolazioni. Il muggine o cefalo (mugil caephalus) a sommo pregio nelle antiche tavole, e lodato da Archestrato nella stagione iemale  (invernale), avvegnachè da Xenocrate e da Aetio dispregiato, vi si pesca abbondante;ed il muggine del nostro Simeto fu a preferenza moltissimo commendato da Atheneo.
Le anguille (anguilla fluviatilis) vi sono pure delicatissime. Cibo lodato dai greci, i quali giunsero a celebrar l’anguilla come regina de’ banchetti e delle voluttà, l’Elena delle cene, e che fu poi tenuto in dispreggio da’ romani.
Pure, avvegnachè qualche volta poco salubre, è preferibile quella che si pesca nel nostro fiume mentre le acque sono limpide, o che dopo aver guizzato nell’acqua salsa del mare, risale nuovamente nel fiume.
Sebbene più piccola delle anguille lacustri, pure riesce più squisita al gusto e più amica allo stomaco.
Le tinche, (tinca) forse ignote agli antichi, e dispregiate da Ausonio come piacere di volgo,  non sono pure da dispregiarsi nel Simeto, giacchè riescono più delicate, e più leggere alla digestione, che quelle de’ nostri laghi. Che se vogliamo rapportarci all’autorità dell’Aldrovando, il quale loda a preferenza le tinche de’ fiumi d’Italia, potremmo noi forse ritrovar la ragione della bontà di quelle del Simeto.
La Laccia o Cheppia (Clupea Alosa) in molta abbondanza si pesca nel Simeto risalendo, essa dal mare sul cominciar di primavera, di squisito sapore, e di molto pregio delle tavole de’ nostri Apicii e dei nostri Luculli. Così pure altri pesci, che per amor di brevità io tralascio”.
(Marco Gavio Apicio costituì la principale fonte sulle usanze gastronomiche dell’antichità ed in particolare della cucina romana. Lucio Licinio Lucullo, tribuno militare nel 90-89 a.C., passò nella storia per la sua grande passione verso il cibo e l’arte del banchettare. Ad un pasto particolarmente ricco ed abbondante viene assegnata la definizione di pranzo “luculliano”).

In merito all’Alosa, citata più volte nel documento, si tratta di una specie ittica presente nel fiume e ritenuta di gran pregio tanto da entrare  nei diritti di pesca con particolari restrizioni.




Sempre nel documento sono indicati i fiumi che fanno parte delle concessioni e tra questi appare il “Fiumazzo” che attraversa l’omonimo feudo sito del territorio di Belpasso, Paternò (rendeva irrigabili circa 4 salme di terreno) e il feudo “Branco o Blanco” di Catania (rendeva irrigabili circa 132 salme di terreno) e il fiume “Minanti o Binanti”.
Quest’ultimo “un fiumicello che mette foce nello stesso golfo alla distanza di meno di un mezzo miglio al sud della foce simentina, formando così un’estesa palude che magna sovente la salute de’ vicini abitatori”.



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Due antiche immagini del Simeto risalenti al XVIII ed immortalate da due Viaggiatori del tempo:


Le cascate del Simeto in una stampa pubblicata nell’opera “Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile”, Parigi, 1781-86, di Jean Claude Richard De Saint Non, dal viaggio di D. Vivant Denon e dei suoi compagni..
 “Vue des cascades de Fiume Grande au milieu des laves de l’Etna prés d’Aderno”


Le cascate del Simeto nei Pressi di Santa Domenica in un dipinto del pittore paesaggista e scrittore Karl Gothard (o Gotthard?) Grass del 1808. La veduta è stata realizzata dalla sponda occidentale del fiume, durante una piena. Il dipinto originale è conservato presso il Latvian National Museum of Art (Riga, Lettonia)

Sulle sponde  gli agrumeti, simbolo di una Sicilia molto lontana... molti di questi agrumeti sono stati abbandonati e distrutti dagli incendi... simboli inerti di una politica sbagliata........


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Commenti

  1. Buongiorno sono una studentessa di architettura dell'Università degli studi di Catania. Mi servirebbe il contatto dell'autore dell'articolo sul Castello della Baronessa di Poira in merito ad una ricerca tesi. Grazie anticipatamente.

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    1. Gentile Sig.na D'Asero, mi scusi se sto rispodendo solo adesso alla sua lettera ma sono tornato in questigiorni dalla Spagna. Le ricerche che trova sul blog sono scritte dal sottoscritto Antonio Barrasso. Rimango a sua disposizione per qualsiasi informazione se posso esserle d'aiuto e sarà un onore. Scusandomi ancora una volta, Le invio i più cordiali saluti. Antonio Barrasso

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