L'Abbazia Reale Cistercense di Santa Maria di Roccadia (Carlentini - Sr) e la Basilica del Murgo mai ultimata (Agnone Bagni - Sr)







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Indice
1 – L’Abbazia Reale Cistercense di Santa Maria di Roccadia o Rocca Dei
      La Fondazione nel 1176 Cistercense  – Gli Abati – I Problemi Economici – Il Prestito richiesto
       all’abate dell’Abbazia di Roccamadore (Tremestieri – Messina) –  La Dipendenza
       di S. Maria delle Scale (Ragusa) – Gli Abati;
2 – Il nuovo Convento di S, Maria di Roccadia a Carlentini  dopo il terremoto del 1693
       Il convento fu acquistato dal barone Giovanni Riso, rimase solo la piccola Chiesa –
        L’Icona della Madonna.
3 – Topografia ed Architettura dell’antica Abbazia Reale di Roccadia – Le citazioni e
       Testimonianze – Il Fonte Battesimale, un capolavoro artistico -  Della vecchia
     Struttura rimase ben poco.
4 – Gli abusi del governatore Cardenas sull’Abbazia Reale di Roccadia  durante la
       Reggenza della regina Isabella di Castiglia (1474 – 1505) –
       L’Abbazia faceva parte della Camera Reginale – L’Abbazia fu concessa al Vescovo
       della Diocesi di Visarcio.
5 – Le rendite dell’Abbazia Reale di Santa Maria di Roccadia;
6 – La Basilica del Murgo (Agnone Bagni – Siracusa)
      Federico II di Svevia iniziò la costruzione nel 1220/1224 della Basilica per
      trasferirvi i monaci Cistercensi di S. Maria di Roccadia – La Basilica non fu
      completata – I resti della Basilica -  Proprietà Privata – La basilica al centro di un
       procedimento giudiziario (smaltimento rifiuti)…” Tra i tesori sequestrati ai fratelli Leonardi 
       anche la basilica Sveva di Agnone Bagni……”  (file e video)
       La Storia del Feudo Murgo appartenuto alle famiglie : Fimetta – Di Malta –
       Moncada – Scammacca
        Registro Protonotaro della Camera Reginale – Processi d’Investitura

       Collegamento: 
                                                     L’Ordine Cistercense in Sicilia.
Tra i pochi resti non rispettati…una pagina di Storia scritta anche dai Templari…
Dimenticata..
Abbazia di Vallebona -  Badiavecchia – Novara di Sicilia
Abbazia  di Santa Maria di Spanò
del 04/05/2020
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1.      L’Abbazia Reale di Santa Maria di Roccadia











La datazione dell’Abbazia detta anche “Rocca Dei” è incerta. È probabile che sia stata fondata da Ruggero I d’Altavilla dopo la conquista dell’isola  in potere dei Musulmani ed affidata a dei monaci Benedettini di cui il primo abate potrebbe essere stato Giovanni da Lentini. Non esistono in merito documenti in grado di confermare l’ipotesi.
È invece certa la fondazione o affidamento dell’abbazia ai Cistercensi nel 1176 che provenivano dall’Abbazia di Santa Maria di Sambucina, (Luzzi – Cosenza).





Una tradizione cita il beato Luca Campano come fondatore dell’Abbazia. Il beato Luca fondò molte abbazie, (Acquaformosa, Sagittario), fu a capo dell’abazia di Casamari e successivamente anche dell’arcivescovato di Cosenza.
La sua presenza in Sicilia è attestata per la predicazione e promozione della crociata del 1199 mentre l’Abbazia fu fondata (o diventò dell’Ordine Cistercense) nel 1176 e lo stesso beato Luca solo nel 1183 ricevette i voti monastici.
La data del 1183 è riportata nelle “Memorie” del beato Luca in merito all’incontro, avvenuto nell’Abbazia di Casamari, con il frate Gioacchino da Fiore.
Da escludere anche la tesi della fondazione dell’Abbazia attributi all’Imperatore Federico II di Svevia, nata da un errata interpretazione di un  privilegio del 1224 con il quale lo stesso Imperatore  citava le concessioni al monastero.
Altra tesi riporta la fondazione del monastero risalente al 1070 per opera del Gran Conte Ruggero il Normanno. Lo stesso Ruggero  avrebbe poi nominato come abate Giovanni da Lentini che gli era stato d’aiuto durante le aspre lotte contro i musulmani.
(Questa era la tesi dello storico Mugnos che si basava su due diplomi di Ruggero II che furono giudicati falsi).
Lo storico Angelo Manriquezz ( 1577 – 1648, monaco di Huerta)  nella sua opera dedicata all’Ordine Cistercense, riportò nel libro V, la fondazione dell’Abbazia di Roccadia all’anno 1176 come filiazione di Sambucina e non fece alcun riferimento al beato Luca  Campano.


Luca Campano
(1140 circa – Cosenza, 1227)
Abate e arcivescovo cattolico
(originario della Campagna e Marittima, divisione amministrativa
dello Stato Pontificio, viene spesso citato per la costruzione sia del Duomo
di Cosenza che  dell’Abbazia di Fiore.
Si formò nell’Abbazia di Casamari e successivamente  fu nominato abate dell’Abbazia di Sambucina il 22 novembre del 1194 mantenendo la carica per sette anni.
A Sambucina incontrò Gioacchino da Fiore, un famoso predicatore, di cui rimase colpito. Lo stesso Gioacchino utilizzò Luca Campano per riportare o annotare
i suoi scritti. L’abate Luca diede un porto impulso all’Abbazia di Sambucina
grazie alle amicizie con i papi (Celestino III ed Innocenzo III” e con gli
imperatori Federico II ed Enrico IV che fecero molti donazioni al monastero.
Studiò l’architettura e  dando prova delle sue acquisizioni tecniche nella
costruzione  del Duomo di Cosenza e dell’Abbazia Fiorense.


Un’altro storico che riportò la fondazione dell’Abbazia nel 1176 fu Leopold Janauscheck

(13 ottobre 1827-23 luglio 1898) era uno storico Cistercense austriaco

In ogni caso la fondazione sarebbe avvenuta grazie all’arrivo di confratelli del beato Luca.
L’importante anno  1176, come riportato anche negli annali cistercensi, indicherebbe il momento in cui l’Abbazia entrò a fare parte dell’ordine Cistercense come “monasterium lineae Clarae vallensis, et filia Sambuccinae in Calabria”.
Quindi consacrata cistercense nel 1176 ma sulla base di una struttura monastica precedente, risalente all’XI secolo, e occupata dall’ordine Benedettino.
Nel XII secolo l’ordine cistercense era in piena espansione nell’isola e molte strutture benedettine furono assegnate ai monaci cistercensi.
Un espansione che fu incoraggiata dal re Ruggero II  per il processo di latinizzazione dell’isola, già iniziata dal padre Ruggero I,  e per ragioni di natura politica. L’apporto dei monaci cistercensi nell’economia dell’isola, famosi per la loro laboriosità agricola,  e nella politica europea grazie ai rapporti, anche se spesso contrastanti, con Bernardo di Chiaravalle, erano tutti aspetti importanti nella conquista dell’opinione pubblica europea e quindi anche nella legittimazione della corona.
La mancanza di ricerche archeologiche non permette di definire con certezza l’eventuale presenza di un preesistente monastero benedettino. Resta il rammarico di aver perduto la memoria storica e visiva di quella che era considerata un’Abbazia Reale ed una delle più importanti della Sicilia come dimostreranno gli avvenimenti storici.



La lista degli abati dovrebbe quindi iniziare con il citato Giovanni da Lentini, di cui però non si hanno notizie certe. Il secondo abate fu “Nivaldus Sclafano”.
Federico II donò al monastero beni mobili ed immobili come risulta da un documento databile al 1220 circa. Nel documento sono infatti citati i possedimenti dell’abbazia nell’isola.
“ [..] ipsi abbati et conventui predicta monasterii Sancte Maria de Roccadia
ac  successoribus eorum perpetua confirmamus ut absque ulla molestia
que continentur in ipsis possideant, concedentes, donantes et confirmantes
eidem monasterio in perpetuum possessiones et omnia bona que in
presenti tenet et possidet et in antea  poterir justo adipisci…”



In un altro documento redatto a Viterbo il 17 marzo da papa Onorio III, secondo il volere di Federico II di Svevia, i monaci dell’abbazia Reale di Roccadia o Rocca Dei si sarebbero dovuti trasferire in Contrada Murgo di Agnone Bagni presso la nuova Basilica del Murgo. Basilica i cui lavori non furono mai ultimati e che ancora oggi sono visibili a poche decine di metri dall’arenile. (Rimangono il perimetro murario e la parete sud, alta circa tre metri, e ben visibile inoltre la parte bassa del portale). Nell’atto è citato anche il nome dell’abate..”Antonius”.


L’abbazia di Roccadia venne in parte distrutta durante la lotta tra Federico II e il Papato e restaurata nel 1263.

Nel 1262, durante la reggenza di Manfredi, un atto della Cancelleria  cita la necessità di riparare l’abbazia in rovina.
Re Manfredi ordinò a Umfredo Alemanno (?)

“Justitiario Vallisneti de nostro Regno Sicilia ultra Farum” nonché “Castellani Castri veteris nostra fidelis Civitatis Syracusarum, statim capta de eo possessione…” di “…tradere debes dictum Castrum, cum juritus et pertinentiis suis omnibus in manibus Joannis de Pedelepore…”.

(  Umfredo aveva avuto la carica di Governatore Imperiale con Federico II nella edificazione della città di Augusta… e il suo nome non era Umfredo Alemanno, ma Umfredo Fardella  Alemanno. Quest’ultimo termine aggiunto perché di origini tedesche. La lettera del Re Manfredi, che nominò l’Umfredo Giustiziere della Val di Noto, recita:
“Manfridus Dei gratia Rex utriusque Sicilie,
e Nobili Umfrido de Fardellis Alemanno olim de Quernfort
nostro Iustiziario Vallis Neti de nostro Regno Sicilie ultra Farum,
quod utique ad mortem Gerardi de Amfuso olim nostri
Camerari, Castellani Castri Veteris nostra fidelis Civitatis  Siracusarù,
statim capta de copossessione tradere debes dictum Castrum con iuribus,
e pertinentijs fuis omnibus in manibus Iannis de Pedelepore familiaris,
fidelis  nostri de eadem Civitate,
dando prius solito iuramento de fidelitate, cuius introitua,
e arredementa debita per dictum de Pedelepore infra annum
convertere debes pro redificatione Venerabilis Monasterij
Sancta Marie de Roccadia de ordine Cisterciensium,
e sic exequeris, non obstante quoius alio ordine;
que expensio sit  notanda in libro nostra Curie
(13 agosto 1263)


Si tratta quindi di una transizione di beni da cui l’abbazia di Roccadia ebbe dei vantaggi

“…cuius introitus et arredamenta debita per dictum de Pedelepore infra annum convertere debes pro readificatione venerabilis Monasterii S. Maria de Roccadia de Ordine Cisterciensium…”.
perchè con la manovra finanziaria, operata da Manfredi, si doveva riedificare il monastero facendo in modo che le necessarie spese non gravassero sulle casse regie impegnate nel lungo conflitto contro gli Angioini di Carlo D’Angiò.
Non si conoscono le cause della rovina del monastero, probabilmente legate a calamità naturali.

Nobile famiglia siracusana

 Durante la dominazione angioina non si hanno documenti o riferimenti.
Nel periodo aragonese i documenti citano come nel 1284 Pietro d’Aragona elargì molte donazioni ed immunità e nel 1287, in una lettera a papa Onorio IV comunicava di aver nominato come abate Aloisio..” al fine di dirimere una contesa territoriale tra il monastero di S. Maria la Scala e S. Maria in Valle di Giosafat presso Paternò “.
Nel XIV secolo l’abbazia cistercense, così come altri monasteri ed istituti sacri, erano travagliati da problemi economici.
Nel 1376 l’abate Pietro chiese un prestito all’abate di Roccamadore (Messina) Nicola di Perretta.

Abbazia Cistercense di Roccamadore  (Tremestieri – Messina)


Il Monastero di “Rocca Amatoris” (Santa Maria di Roccamadore) fu fondato dal
Conte di Paternò, Bartolomeo di Lucy, nel 1193 nella località Tremestieri,
vicino a Messina.
Il conte dedicò il complesso a Santa Maria di Roccamadore  prendendo spunto
dalla chiesa francese di Roc-Amadour en Quercy che allora era una
importante metà di pellegrinaggi. Fu affidata ai monaci Cistercensi di Novara di Sicilia
(è quindi una filiazione di Novara di Sicilia – Linea di Clairvaux –
Numero di fondazione: 506)


Roc-Amadour en Quercy

Fu fondata nel 1193 e il 9 settembre 1193 fu  affidata ai monaci Cistercensi di
Novara di Sicilia assumendo ben presto una grande importanza.
Attorno all’abbazia nacque il paese e Roccamadore fu l’unica comunità Cistercense
a non essere interessata dalle soppressioni napoleoniche.
Entrò nella Congregazione di San Bernardo  e nel 1861 non potè evitare il
decreto di soppressione degli Ordini Religiosi che fu emanato a Firenze.
Con il decreto la comunità si disperse e l’abbazia probabilmente era già
abbandonata quando la città di Messina fu distrutta dal terremoto del 1908.
Purtroppo oggi restano solo pochi ruderi. Quello che era rimasto fu distrutto dal vandalismo e dalla cementificazione incontrollata. Resti che forse non sono stati
mai oggetto di studi sistematici….
















Abbazia di Roccamadore (Tremestieri - Messina)

Nel 1390 l’abate Antonio fu colpito da scomunica a causa delle inadempienze fiscali per non aver pagato la tassa dovuta alla Camera apostolica.
 Il debito nel 1397, nei confronti dell’abbazia di Roccamadore, non era ancora estinto e Nicola di Perretta, per rientrare in possesso della somma concessa, una cifra rilevante per i tempi di ben undici onze d’oro, fu costretto ad interpellare re Martino Il Giovane che, contrariamente alle aspettative, rinviò l’esecuzione del debito.
L’abate Antonio partecipò attivamente a fianco di Raimondo Moncada alla ribellione contro Martino il Giovane (tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo) causando gravi conseguenze, dal punto di vista economico, per la vita dell’abbazia.
Infatti Martino per ritorsione tolse all’abate Antonio le rendite della grangia o dipendenza di S. Maria de Catarractis, presso Ragusa e l’assegnò nel maggio del 1398 ad un prete di Lentini.
La dipendenza di Ragusa sarebbe l’odierna Chiesa di Santa Maria delle Scale.

Ragusa - Santa Maria delle Scale



Ragusa - Santa Maria delle Scale
Secondo una tradizione locale la Chiesa di Santa Maria delle Scale, di Ragusa,
sarebbe stata edificata dai monaci Cistercensi di Santa Maria di Roccadia di
Lentini verso la prima metà del XIII secolo.
 Una tradizione che non è legata a precise fonti storiche.
La chiesa è un gioiello d’arte. Dopo il terremoto del 1693 fu in gran
parte ricostruita in stile barocco modificando anche il suo orientamento
che fu ruotato di 90° in senso antiorario. Le primitive absidi furono trasformati
negli attuali portali della navata desta e relativi ambienti. Ha una scenografia eccezionale dato che si erge al termine di ben 340 gradini che separano Ragusa
da Ragusa Ibla.
Al suo interno tante opere d’arte tra cui una “Dormitio Virginis” (un bellissimo altorilievo in terracotta policroma del 1538 di autore ignoto) e un fonte
Battesimale, risalente al 1552, scolpito in un blocco di pietra pece.



Lentini era stata colpita e conquistata dai rivoltosi del Moncada.
Martino riuscì a riconquistarla e successivamente decise di restituire la grangia e gli altri beni all’abbazia di Roccadia.


Nel 1407 abate del complesso era “Joannese de Tharest” e secondo il Pirri l’abbazia era in condizioni disastrose..
“…Roccadiae fabricis auxit, ac vetustate collapsum restituit…”

 Le fabbriche erano probabilmente quelle risalenti al 1262/63 e  non avevano ricevuto le necessarie manutenzioni.
Nel 1408 ci fu un nuovo restauro a causa di un crollo di una parte non ben precisata.

Nel 1437 l’abbazia era in condizioni di estrema povertà tanto da non poter soddisfare le normali esigenze dei monaci e addirittura di non poter svolgere le funzioni religiose.
Oltre al dissesto finanziario, già radicato da tempo, si era aggiunta la cattiva gestione dell’abate “Nicolò della Solfa” che venne accusato di alienazione e dissipazione dei beni del monastero.
L’abate venne deposto e sottoposto ad un lungo processo dal quale ne uscì con un vitalizio di 5 onze annuali che erano pagate dal nuovo abate di Roccadia, frate Guglielmo de Sgarbo.
Il frate chiese più volte l’annullamento dell’obbligo in considerazione della situazione finanziaria dell’abbazia al collasso.
Fra gli ultimi abati del XV secolo  è presente un “Joannes de Girifalco” (Girifalco è un comune calabrese della provincia di Catanzaro) del quale non si conosce la data di elezione. Lo storico e presbitero Antonio Mongitore citò l’abate per la sua nobile famiglia e per le sue forti amicizie a corte. Lo stesso storico mise anche in evidenza la presenza  all’interno del monastero di Roccadia della sepoltura di un fratello di Joannes, Tommaso de Girifalco, come riportava l’iscrizione della lapide allora visibile.
L’abbazia, come gran parte delle abbazie presenti in Sicilia fu data in commenda e l’ultimo abate a reggere il complesso religioso fu Romano Testa.
Il Romano fu eletto abate per volere regio nel 1451. Una nomina che venne subito contestata dal pontefice Niccolò V che in violazione alla “legatia apostolica” nominò Giovanni Aurispa.
Ci fu una subito un contenzioso e il re Alfonso I il Magnanimo chiamò gli abati di S. Nicola l’Arena e di S. Maria di Nuovaluce per la risoluzione della controversia.
L’intervento del re dimostra la sempre presente volontà regia di mantenere un forte controllo sul potere religioso della chiesa nell’isola ed anche i giochi di potere tra i vari monasteri, anche lontani e di ordine religioso diverso.
Il contenzioso si risolse con una completa riabilitazione dell’abate Romano Testa, dopo circa 6 anni di contenziosi, nel 1457. L’abate Romano Testa morì nel 1461.


2.  Il Nuovo Convento di S. Maria di Roccadia a Carlentini


A causa del terremoto del 1693 il convento di Roccadia venne completamente distrutto. I   monaci non lo riedificarono e si trasferirono a Carlentini dove comprarono i ruderi del Monastero della Concezione e vi fabbricarono il nuovo convento.
La comunità monastica cistercense continuò ad esistere per altri 85 anni. Poi nel 1778 la soppressione.
Successivamente l’edificio ed il vasto feudo furono acquistati dal barone Giovanni Riso di Palermo che ne fece una residenza nobiliare. Oggi del sontuoso palazzo e dell’annessa villa Maria Luisa rimane ben poco se non lo scorcio della piccola chiesa di Roccadia.




Dopo i restauri, resi necessari dal terremoto del 1990, la piccola chiesa è stata riaperta al culto.
L’edificio di Santa Maria di Roccadia a Carlentini è ad una unica navata e con una copertura  con volta a botte. È l’unica parte rimasta dell’antico convento.  A destra della navata si notano ancora gli stipiti e l’architrave della porta che permetteva il collegamento della chiesa con l’annesso convento.
Nei due altari laterali sono presenti due tele del ‘700: San Filippo Neri a destra e la Sacra Famiglia con Sant’Anna, San Giacchino e San Bernardo a sinistra.
Pregevole l’organo a canne del ‘700 di autore ignoto.
Sull’altare l’icona che raffigura la Madonna che con la mano destra tiene un melograno mentre con la sinistra sorregge Gesù Bambino.
Un’icona che secondo una tradizione popolare fu donata da Ruggero all’antica abbazia di Roccadia.


L’Icona di Santa Maria di Roccadia

Maschera funeraria di San Filippo Neri

L’artistico presepe



L’ICONA


Fazello nel De Rebus Siculis, riferì che i monaci veneravano un’antica “tabula” ritenuta dono del re Ruggero.
Sebastiano Pisano Baudo, nel libro “La Città Carleontina” scrive:
La fondazione del convento si fa risalire al Conte Ruggero; il Mugnos anzi ne precisa l’anno 1070, ed afferma senza l’appoggio di alcun documento esserne stato primo abate Giovanni da Leontino, uno degli antenati del Conte Alaimo…..
«i monaci vi veneravano con precipuo culto un antico quadro della Vergine Santissima come dono del re Ruggero»
Sia Mugnos che Pisano Baudo commettono però un errore. Come abbazia cistercense, Roccadia non poteva essere stata fondata nel 1070 poiché l’Ordine nacque in Borgogna, in Francia, nel 1098. L’ipotesi, dunque, è che all’abbazia cistercense preesistesse una fondazione benedettina.
Sulla tavola raffigurante la Madonna del Melograno la leggenda narra che fu un dono di re Ruggero.  Ruggero I morì a Mileto nel 1101 e quindi non si tratterebbe di  un dono ai cistercensi che giunsero in Sicilia tra il 1157 ed il 1161. Probabilmente fu un dono di Ruggero II re di Sicilia dal 1130 al 1154 e quindi collocabile verso la metà del XII secolo. L’abbazia cistercense fu fondata nel 1176 e in quella data Ruggero II era già deceduto da tempo. È probabile che l’icona sia stata donata ai monaci benedetttini che occupano l’abbazia perima dell’arrivo dei cistercensi.
Don Alfio Gibilisco  affermò sul suo studio dei cistercensi in Sicilia che «l’icona di Roccadia si colloca perfettamente nella grande produzione pittorica italiana del XIV secolo» e individua una forte somiglianza con la Madonna col Bambino che il Beato Angelico dipinse in affresco per il convento di San Domenico di Fiesole nel 1435
Verso quella “tabula” della Madonna del Melograno, di cui si attende adesso il ritorno in chiesa a restauro ultimato, i carlentinesi hanno sempre continuato a nutrire particolare venerazione. Singolare l’episodio del 1741. Preoccupato per il lunghissimo periodo di siccità, il popolo in penitenza portò il simulacro della patrona Santa Lucia al cospetto del quadro e cominciò a piovere. Il 17 gennaio 1741, in segno di ringraziamento, la Madonna di Roccadia fu proclamata «Patrona minus principale».



3. Topografia e architettura dell’Antica Abbazia Reale di Roccadia


Un magazzino per  la conservazione di cereali ed una struttura agropastorale, anche se probabilmente in parte ricostruita dopo il terremoto del 1693, sono gli unici resti di quella che era l’Abbazia Reale di Santa Maria di Roccadia o “Rocca Dei” posta a  Sud- Est di Carlentini.
Dopo il terremoto del 1990 la Soprintendenza sembra che abbia eseguito delle ricerche, anche se non sistematici, che avrebbero permesso di ricostruire quella che doveva essere l’aspetto originario dell’Abbazia Cistercense.
I due edifici, ancora oggi presenti, sembrano configurare i due lati contigui di un rettangolo che darebbero origine ad un possibile chiostro.
Nel sito furono rinvenuti alcuni conci  del portale posti , dopo il terremoto del 1693, nei muri a crudo degli ovili.





La storia del monastero di Roccadia, così com’ è possibile ricostruirla attraverso le fonti documentarie giunte fino ai giorni nostri, è, in sostanza uno spaccato della storia ecclesiastica siciliana, coinvolgente non solo l’ambito territoriale lentinese ma anche quello catanese e messinese.

Un abbazia sconosciuta ma ricca di avvenimenti storici. Purtroppo delle antiche fabbriche rimane ben poco a causa di una calamità naturale, ben registrata dalle cronache del tempo: il terremoto del 1693.
Mongitore recitò quasi un epitaffio sulla scomparsa del monastero:
“… ex Terraemotu Coenobum solo aequatum; quare in Oppido Carleontinensi Monachi novum magnificis fabricis sunt moliti ad plagam septemtrionalem, intra ipsius Oppidi moenia…”.

L’intero complesso venne, dunque trasferito all’interno dell’abitato di Carlentini,
essendo impossibile ripristinare le antiche fabbriche. 
Sul luogo di fondazione dell’antico complesso si hanno alcune notizie  dal Pirri,
“… situm olim id Monasterium sub S. Mariae de Roccadia titulo in Emporio Leontinensi, ejusque territorio ad tria milia pass ab Oppido…” .

Inoltre V. Amico riportò una breve descrizione dei luoghi su cui insisteva il monastero, ricordando, tra l’altro, la presenza di vistosi ruderi, fra cui un’ampia sala circolare coperta da volta costolonata sorretta da pilastro centrale.

“Monastero nel territorio di Lentini, un tempo a tre miglia dalla città,
sotto il nome di S. Maria e l’ordine cisterciense, detto altrove d’incerta
fondazione nelle monastiche  notizie della Sicilia, ma or conoscesi da
antiche carte da poco rinvenute dovere attribuirsene l’origine ai
principi normanni. Gli antichi edifizi del cenobio giacciono abbandonati,
e tra essi rammentasi un triclinio, di cui sosteneva la volta di un
tronco di palma elegantemente lavorato in pietra, ornando anche
dei rami con vario artificio l’aspetto interiore della volta….”


Qualora il complesso fosse giunto intatto ai giorni nostri, pur con i diversi rifacimenti avvenuti nell’arco dei lunghi secoli di vita, sarebbe stato certamente un interessante esempio di architettura normanno/sveva. Bisogna comunque sottolineare l’assoluta assenza di ricerche in campo archeologico, che ovviamente avrebbero potuto, se non restituire una completa visione d’insieme delle antiche strutture, almeno definire meglio l’estensione del complesso.
Le indagini avrebbero permesso lo studio delle diverse fasi edilizie ed evidenziare il rapporto che il monastero intratteneva con il territorio circostante. 
Il monastero di Carlentini fu soppresso dal Governo borbonico e i suoi beni furono venduti tra cui anche il feudo di Roccadia  acquistato dal barone Giovanni Riso.

















Fonte Battesimale con ciclo dei mesi.
Datata : XIII secolo. h: 30 cm; d: 44 cm.
Chiesa di Santa Maria della Fontana. Lentini.
Commissionato per l'abbazia di Santa Maria di Roccadia
Alcuni ritengono che il fonte sia un ex capitello di un antico tempio cittadino.
recuperato dalle rovine del terremoto, fu scavato al suo interno per farne un fonte.
Ma è solo un’ipotesi.
La decorazione propone il ciclo dei mesi ed è costituita da otto figure
superiormente inquadrate da timpani, costituenti una cornice continua, e alternati
a protomi leonini.
I mesi vanno da maggio a dicembre, così come riporta l’iscrizione nel cartiglio
di ogni figura:
“MADIVS, IVNIVS, IVLIVS, AGVSTVS, SEPTEMJBER, OTVBER, NOVEBER, DECEBER”


Una scultura di altissimo pregio in cui l’iconografia di ogni mese ha un
suo attributo. Maggio, un canestro di fiori; giugno, un canestro di frutta;
luglio, la falce e un cappello di paglia; agosto, un paniere con frutta e mazzi
di frutta e di fiori in capo; settembre, un recipiente pieno d’uva che
il personaggio è intento a pigiare appoggiandosi ad un bastone;
ottobre, un vaso; dicembre, un suino. Di difficile interpretazione è il
mese di dicembre.
Lo storico Antonio Randazzo ha collegato il fonte di Lentini al ciclo decorativo del
portale centrale della Cattedrale di Sessa Aurunca (Caserta).
Le analogie iconografiche sarebbero  tra la settima e l’ottava figura, a destra, di Sessa Aurunca e le figure di Agosto e di Settembre del fonte di Lentini.
Cattedrale di Sessa Aurunca

Comuni sono anche alcuni aspetti classici legati alle vesti con un fitto sistema di pieghe
ed altri elementi come il copricapo, gli oggetti.
Sempre secondo il prof. Randazzo altre analogie stilistiche si ritrovano

in alcuni capitelli del chiostro di Monreale e in quelli della Cappella di 
Santa Restituita a Napoli con le storie di Sansone, S. Giuseppe e S. Gennaro

Storie di S. Giuseppe, S. Gennaro e Sansone….
Anonimo campano – XIII secolo

Il fonte di Lentini ripropone un collegamento culturale Sicilia – Campania,  grazie
anche ai monaci Cistercensi, con una circolazione delle maestranze.
Lo scultore appare ancorato agli schemi d’arte normanna, come la squadratura
delle figure, e riesce a creare un opera pregevole databile al primo
ventennio del XIII secolo. Gli elementi classicheggianti documentano il
momento artistico costituito da una fase di transizione che innesta elementi
federiciani su una base artistica tardo -normanna.

Il fonte ha subito delle vicende piuttosto travagliate.
Fu trafugato dalla Chiesa della Fontana da parte di piccoli mafiosi.
Fu recuperato in maniera rocambolesca dal Nucleo Carabinieri Tutela
Patrimonio Artistico, rintracciato nel mercato clandestino dei reperti.
Dopo il recupero il reperto fu esposto a Palermo e successivamente
restaurato dalla Sovrintendenza di Siracusa per essere poi riconsegnato
alla cittadinanza di Lentini. È esposto nella chiesa di Sant’Alfio
vicino alla tomba dei Martiri.

Nella cappella dell’antica Abbazia era presente
l’icona della “Madonna del melograno” poi trasferita
nella nuova chiesa di Carlentini dopo il terremoto del 1693.



4. Gli Abusi del Governatore Cardenas sull’Abbazia di Roccadia

La  regina Isabella di  Castiglia, detta “La Cattolica”, moglie del re Ferdinando II d’Aragona, ( regina consorte di Sicilia dal 1474 al 1504) fu investita del possesso delle Terre di Lentini, Francavilla, Vizzini, San Filippo e della città di Siracusa, compresi i porti di Brucoli e tutti i territori, diritti reali e gli uomini ad esse pertinenti, con la facoltà di poter estendere la concessione a tutta la durata della sua vita, qualora fosse sopravvissuta al marito” come stabilito dal privilegio regio emesso da re Giovanni l’8 maggio 1470.

La regina Isabella di Castiglia

Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona


Ottenne anche il privilegio di emanare leggi, a prescindere dalle precedenti consuetudini e norme locali, una donazione di 120.000 fiorini, di cui 80.000 come dote effettiva e i restanti 40.000 di aumento.
Il 15 dicembre 1469 il sovrano aragonese inviò al vicerè di Sicilia Urrea (Lope III Ximènez de Urrea y de Bardaixi, visconte di Rueda e signore di Mislata) un mandato,
per consegnare “personalmente” ad Isabella o al suo procuratore Juan Càrdenas il possesso effettivo della Camera Reginale ed un altro documento alla stessa regina, in cui si confermavano tutti i privilegi, le franchigie, le prerogative e le esenzioni di cui godevano le terre a lei appartenute e di cui in passato Giovanna Henriquez aveva usufruito.
Il ruolo di Càrdenas era ufficialmente quello di procuratore dato che la regina Isabella era impossibilitata a raggiungere la Sicilia per l’investitura delle “Terre”.
In realtà il Càrdenas , con il consenso di Isabella, affrontò il viaggio con  un animo ambizioso per prendere il possesso delle terre in qualità di governatore della Camera.


Stemma dei Cardenas

In precedenza questa carica, tra la morte della precedente sovrana e la nuova, era stata di Juan Cabastida, e a nulla valsero le precauzioni e gli accorgimenti di re Giovanni II d’Aragona “Il Grande” (  Giovanni Fernández, o Giovanni di Trastámara) per evitare che il suo uomo fosse messo da parte.
Il re non credeva alle rassicurazioni di Càrdenas che nel frattempo aveva raggiunto la Sicilia con una nomina a governatore che aveva tenuta nascosta. Infatti  nessuno ne era a conoscenza e il re Giovanni dispose che il procuratore fosse accompagnato direttamente dal vicerè. Una mossa che avrebbe dovuto in qualche modo controllare le reali intenzioni del nuovo arrivato.
La volontà della regina fu più forte e riuscì ad imporsi su quella del suocero, facendo leva su uno degli appoggi considerevoli, come quello dell’Universitas di Siracusa, a cui confermò i suoi privilegi.
La regina di Castiglia sapeva che di fronte ad un accordo tra lei e i sudditi, Giovanni II non avrebbe potuto più opporsi né giustificare le sue pressioni col malcontento locale.
L’energia con cui Isabella mantenne la propria posizione ed impose i suoi diritti (fece rimuovere gli ufficiali che erano presenti prima del suo insediamento), oltre a confermare la risolutezza particolare di questa sovrana nell’esercizio delle proprie prerogative, inaugurò una nuova fase della camera reginale dimostrando anche la fiducia che ella riponeva nel suo incaricato.
Giovanni dovette desistere dai  propri intenti ed emise un mandato per rendere esecutoria la nomina del Càrdenas  sebbene i siciliani sembrassero non gradire la sua presenza .
Poco dopo la diffidenza dei siciliani sembrò ben motivata a causa della lista di accuse che cominciarono ad essere mosse contro il Càrdenas
Pratica ricorrente era quella di abusare della posizione sociale e politica ottenuta per inserire i propri familiares ed altri uomini di fiducia negli uffici reginali e cittadini senza la dovuta approvazione della sovrana o dell’Universitas. Nella maggior parte dei casi sembra che non abbia mostrato alcun rimorso nella revoca indebita delle nomine sovrane (la sostituzione di Pietro Coruna nell’incarico di mediatore della gabella del biscotto), risultando persino coinvolto in diversi casi giudiziari controversi nel tentativo di lucrare nei sequestri e sulle confische.
Nel 1492 la sua situazione sembrava ormai compromessa come risulta dai documenti. Specialmente nelle nomine per uffici reginali e civici senza autorizzazione sovrana e in particolare, come di può desumere da un mandato reginale, la disposizione di Isabella in merito alle nomine e alle concessioni illegalmente autorizzate dal governatore è inequivocabile e si legge:
penitus revocato quovis alio dicti officii per dictum nostrum
gubernatorem detentore et possessore quem revocamus et
pro revocato per presentes haberi volumus
  
La regina a queste difficili situazioni reagì con l’istruzione di un processo attraverso l’azione congiunta  dei due giudici della Magna Curia e si avvalse anche dell’azione diretta del Vicerè del Regno di Sicilia proprio come nel caso di Roccadia.
Chiaramente essendo al di fuori della propria giurisdizione, l’ufficiale non possedeva alcuna competenza giuridica nel territorio, cosa che determinò di fatto la necessità per regina di rendere esplicito l’ordine e di emanare provvedimenti speciali per richiederne l’appoggio.
I  fatti  sono gli aspetti di una parabola discendente che si verficherà dal 1493 in poi.
Càrdenas fu accusato di minacce e aggressioni nei confronti di alcuni cittadini. Aggressioni avvenute alla presenza di ufficiali di grande importanza come il baiulo di Siracusa, i quali erano influenzati e manipolati dal governatore. (Il Siracusano Michele Zapata, accusò il governatore di aver contribuito direttamente alla fuga di un sospettato di omicidio e di aver ostacolato le indagini ed il regolare corso della giustizia).
Era straordinaria anche l’influenza che questo ufficiale esercitava sugli organismi giuridici, fatto che costrinse la regina ad avvalersi dell’ausilio di tecnici esterni, come il vicerè e o i legum doctores appena menzionati.
Càrdenas sarebbe stato imputato e processato per due volte, nel 1493 e nel 1495, per un elenco di accuse estremamente lungo, tra cui l’estorsione ai danni delle città e delle comunità ebraiche, introduzione illecita di merci nei territori della Camera e irregolarità nell’assegnazione delle gabelle.
Nessuno di questi dibattimenti portò infine alla destituzione del governatore che sembra abbia ricoperto la carica fino alla sua morte avvenuta nel 1497. Ambiguità corruzione e prepotenze circondarono la sua figura sebbene manchino condanne effettive.
In questo contesto s’inserisce la vicenda dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia.
Il 31 gennaio 1491 un mandato di Isabella, diretto ai vescovi di Badajoz e Astorga, ci informa di un abuso che coinvolse il succitato convento. Il papa lo aveva concesso infatti in beneficio al vescovo di Visarco, Galcerando Delicata, ma un contenzioso era stato mosso da Antoni Bret di Barcellona, impedendogli di entrarne in possesso.
(La Diocesi di Visarco si dovrebbe indentificare con la Diocesi di Bisarcio che fu unita a quella di Alghero nel 1503. La diocesi di Bisarcio era molto importante e ricca di monumenti di grande interesse architettonico e storico come la basilica di Sant’Antioco di Bisarcio).

Basilica di Sant’Antioco di Bisarcio (Visarcio)



Basilica di Sant’Antioco di Bisarcio (Visarcio)

Dato che
“el dicho obipso, como sabèys, ha seydo canònicamente proveydo de la dicha abbadia”, 
come recita il documento in appendice, e visto che l’abbazia faceva parte del patronato reale della Camera reginale di Sicilia, la sovrana dispose il rispetto delle decisioni papali in merito.
Nel dettaglio, i due vescovi destinatari del mandato, in qualità di procuratori di Isabella nella curia romana e nel suo consiglio, avevano il compito di arbitrare la contesa nel modo più pacifico, convincendo Bret a lasciare che il legittimo beneficiario dell’abbazia ne prendesse possesso effettivo. La posta in gioco per la regina  non era soltanto l’abbazia, ma il difficile equilibrio tra corona e papato. Suo interesse era risolvere la questione in fretta per evitare ulteriori problemi con Roma.
Il pontefice di fatto si era già occupato di Roccadia per questioni simili, dato che nella prima metà del ‘400 fu messa in atto una vera e propria controversia per la carica di abate, tanto da rendere necessario l’invio del cardinale Bessarione per arbitrare la disputa.
È facile il motivo per cui la Cattolica delegò la questione ai due vescovi, in quanto, essendo suoi procuratori presso la curia pontificia, rappresentavano probabilmente il giusto compromesso, per indagare ed intervenire nel modo più imparziale e per rassicurare allo stesso tempo anche il papa, senza quindi lasciare che fosse quest’ultimo ad occuparsene indipendentemente dalla regina.
La regina dimostrava un comportamento bivalente nei rapporti con il papato, che si manifestava come garante degli interessi pontifici, in cambio però di autonomia più forte nei territori di sua pertinenza.
La situazione non fu risolta e il 18 agosto 1491 la regina impartì nuovi ordini direttamente al governatore Càrdenas.
Per la prima volta si fa menzione al suo diretto coinvolgimento negli avvenimenti con accuse ben più gravi. Il Cardenas non solo si rea reso responsabile di non avere favorito la restituzione legittima a Delicata dei frutti e delle rendite pertinenti all’abbazia, ma lo stesso governatore o le persone al suo servizio si sarebbero indebitamente appropriate di oggetti sacri appartenenti al monastero.
Nel documento:
Tomastes o distes lugar que personas vuestras tomassen del
dicho monesterio cálices y otras cosas pertenecientes al culto
divino, de que somos maravillada”.

Con questo ulteriore documento la scelta d’incaricare i due procuratori assume un valore ancora più determinante.
Il  31 ottobre 1492 il contenzioso era ancora aperto ed Isabella si rivolse nuovamente ai suoi procuratori designati per rinnovare i propri ordini in merito.
Antoni Bret non aveva mai cessato di ostacolare il vescovo di Visarco osando perfino di citarlo in giudizio,   Bret utilizzò un canale ufficiale per continuare le proprie vessazioni probabilmente proprio perché appoggiato dallo stesso governatore.
La regina  era preoccupata per le conseguenze che un simile procedimento avrebbe provocato in merito ai rapporti con il papa.
Per questo Isabella volle assicurarsi che
“no daria lugar a que el dicho mi patronadgo fuese
Prejudicado, ni es razón que su Santitat lo consienta y si
necesario fuere assì gelo suplicarèys de mi parte

allo stesso tempo aggiungeva che Delicata era legittimato al possesso dell’abbazia e dei suoi proventi.
Isabella aveva degli obiettivi in ambito religioso molto chiari ed intendeva riconoscere gli aspetti civili del peccato, porre fine al concubinato ecclesiastico e laico, indurre i chierici a vivere nella dignità adatta alla loro posizione ed ottenere l’unità di fede. Era quindi molto interessata alla corretta gestione delle istituzioni ecclesiastiche locali, all’uso debito delle elemosine e alla giusta amministrazione dei sacramenti.
Da un mandato del 31 ottobre 1492 risulta che Càrdenas e suo figlio si appropriarono delle rendite di Roccadia, approfittando della mancanza della carica di abate.
 Le situazione nell’abbazia doveva essere difficile per avere la possibilità di appropriarsi indebitamente di quei proventi.
Il governatore aveva orchestrato tutta la faccenda dietro le quinte, spingendo un suo uomo ad ostacolare Delicata per via giudiziaria, per lasciare così il campo libero al figlio o a chi per lui, affinchè il monastero fosse saccheggiato degli oggetti sacri e delle rendite ad esso pertinenti. Le carte non parlano di ciò ma è certo il suo coinvolgimento più o meno diretto nei molteplici abusi su Roccadia.
Il giorno decisivo giunse quando Isabella decise di richiedere l’intervento del vicerè del Regno di Sicilia, Ferdinando Dacuna, ( Fernando de Acuña y de Herrera, conte di Buendía)  autorizzato ad istruire un processo contro Cardenas, nel caso in cui avesse procrastinato ulteriormente il risarcimento e la parte di lesa di conseguenza lo avesse citato in giudizio. Delicata assunse il ruolo di abate di Roccadia, senza riuscire però, nonostante i continui solleciti, a  rientrare in possesso di quelle rendite di cui si erano appropriati il governatore e suo figlio. Per questi motivi fu necessario ricorrere nuovamente alle vie legali.
Il vicerè ebbe bisogno di un esplicito mandato per occuparsi della giurisdizione nei territori della Camera, che  godevano di ampia autonomia. La decisione di Isabella di affidargli tale incarico fu motivata dal fatto che il vicerè era l’unico ufficiale in Sicilia di rango superiore  al governatore e in grado di risolvere la questione.
Quei giorni erano stati inviati oltre ai due documenti appena menzionati, altri due mandati che ribadivano la posizione di Isabella riguardo alla questione.
In uno ella ordinava al governatore di impedire le continue molestie di Bret all’abate di Roccadia, dato che non possedeva nessun diritto legittimo sul convento, affermando che:
yo vos ruego mando que no permitàs que el dicho
obispo y abbat sea vexado en su possessiòn ni la sea fecha
novidat alguna en aquella, sin conoscimento del derecho y sin
exequtorias mias.
Il barcellonese era pertanto ancora coinvolto nella questione e Cardenas ne favoriva le pretese. Identico contenuto si riscontra nel documento mandato a Dacuna.
Questi ultimi due documenti appaiono come l’estremo tentativo da parte della sovrana di chiudere la situazione in modo pacifico e sono distinte chiaramente dalle accuse rivolte a Cardenas per la mancata restituzione dei proventi dell’abbazia.
Isabella non menziona il coinvolgimento del  governatore nelle vessazioni di Bret, anche se a noi sembrano alquanto sospette. Un comportamento simile risponde alla volontà da parte della sovrana di preservare la certezza del diritto nei suoi domini.
Il processo alla fine fu istruito
Il governatore fu poi scagionato e reintegrato nuovamente al suo incarico. Riprese ad esercitare le proprie funzioni di governatore già nel dicembre 1492.
Come si risolse la questione non si sa.  Tuttavia nella nomina di un nuovo abate  si fa menzione  della lunga controversia in un documento del 21 febbraio 1595. Egli aveva di fatti ricevuto il beneficio con un privilegio papale, che doveva essere confermato dalla sovrana per mezzo di un ‘esecutoria.
Quest’ultima era una tipologia documentale issata in periodo viceregio in Sicilia, in quanto necessaria o per confermare o rendere esecutorie nel regno le disposizioni del re quando non si trovava fisicamente nell’isola.
Stesso sistema era applicato per le bolle papali e le lettere apostoliche e serviva ad evitare che le disposizioni “centrali” non fossero conformi alle norme e alle consuetudini del Regno di Sicilia.
Nel documento si legge:
pro parte dilecti nostri Ioannis Isgalambri, clerici istius
Syracusane diocesis, fuit maiestati nostre humiliter supplicatum
quod cum is ius habere pretendat in monasterio Beate Marie de
Roccadia ordini cistercensis dicte diocesis sive allius abbatiatu
super quo ut asseritur litteras apostolicas consequutus est
dignaremur ei nostras executoriales litteras concederé quibus
mediantibus posset dieti monasterii possessionem adispisci
seu alias iusticiam ministrari mandaremus.
Giovanni Esgalambro era un clerico già appartenente alla diocesi siracusana, fatto che dimostra un inversione di tendenza rispetto alle precedenti decisioni probabilmente perché sarebbe stato più semplice per un autoctno ben radicato nel territorio esercitare la carica senza altri intoppi.
Per assicurarsi che non si ripetessero i fatti precedenti “menores superioribus annis” ordinò ai giudici di Magna Curia di verificare se altre persone rivendicassero il possesso dell’abbazia  e delle rendite ad essa connesse.
Procedendo in eisdem breviter, simpliciter, sumarie et de
plano, sine strepitu forma et figuras iudicii sola facti veritate
attenta, maliciis et diffugiis omnius reiectis.

dopo aver debitamente convocato le parti eventualmente in causa e aver verificato i documenti in loro possesso.
È abbastanza chiaro che i problemi che si erano prospettati o presentati pochi anni prima e che avevano coinvolto personaggi illustri, come il vescovo di Visarco, il governatore della camera reginale, il vicerè Dacuna, il vescovi di Badajoz e Astorga e indirettamente anche il pontefice, avevano segnato un limite che la regina voleva impedire a tutti i costi che venisse nuovamente oltrepassato. Questo è la prova del fatto che Isabella fosse intenzionata a intraprendere misure preventive per la risoluzione definitiva delle nomine degli abati .

Giovanni Luca  Barberi nel suo “Capibrevi”  riguardante Roccadia e la successione degli abati dimostra di conoscere i termini della contesa e dei problemi riscontrati da Delicata per esercitare la carica di cui era stato beneficiato. Cita infatti la nomina di papa Alessandro VI, datata 28 novembre 1490 e quindi “l’excutoria” corrispondente della regina.
Lo stesso scrittore era anche a conoscenza della risposta di Isabella alle angherie del Bret e della sua volontà di estrometterlo dalla  tenuta, anche se non si fa menzione esplicita al Cardenars né al figlio, nè ad abusi da parte del governatore.
A Viterbo nel 1494 papa Alessandro pare che abbia emanato un breve apostolico, a cui sarebbe corrisposta l’executoria reginale, dove si affermava che:
dictam abbatiam de regii iure patronatus extare, prelibatam
reginalem collationem confirmavit per haec verba loquendo,
scilicet: cum carissima in Christo filia nostra Elisabeth
Hyspane regina illustris cui ius patronatus dicti monasterii
Roccadie competere dignoscatur etc…

Il Barberi riferì che l’ultimo possessore da lui conosciuto, dopo il breve periodo del vescovo di Visarco, fu Giovanni Monteleone, che in seguito rinunciò ad essa.

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Siviglia, 31 gennaio 1491
La Regina Isabella ordina ai vescovi di Badajoz e Astorga, suoi procuratori nel consiglio reginale e suoi rappresentanti nella Curia romana, di far desistere Antoni Bret dalla richiesta di possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia, pertinente alla diocesi siracusana, in quanto il vescovo di Visarco Galcerando Delicata ha ricevuto la medesima concessione dal papa.


Granada, 18 agosto 1491
La regina Isabella ordina al governatore della Camera reginale di lasciare il pieno possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia al vescovo di Visarco, con le relative rendite e pertinenze, come era stato già disposto precedentemente, e di restituire tutti i beni e gli oggeti sacri di cui il governatore o persone al suo servizio si erano indebitamente appropriate”.

Barcellona, 31 ottobre 1492
La regina Isabella ordina ai vescovi di Badajoz e Astorga, suoi procuratori nel consiglio reginale e nella curia romana, di far desistere Antoni Bret dalle vessazioni contro il vescovo di Visarco per il possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia, essendo state ignorate le precedenti richieste della corte in merito”.

Barcellona, 31 ottobre 1492
La regina Isabella ordina al governatore Juan Càrdenas di resituire al vescovo di Visarco, in quanto abbate di Santa Maria di Roccadia, i proventi dell’abbazia ricevuti dal figlio dello stesso governatore nel periodo di vacanza della carica”.

Barcellona, 31 ottobre 1492
La regina Isabella ordina al vicerè di Sicilia Ferdinando Dacuna di utilizzare tutti i rimedi opportuni di giustizia per costringere il governatore della Camera Juan Càrdenas a restituire i proventi dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia al vescovo di Visarco, nel caso in cui continui a procrastinare il pagamento e per questo la parte lesa si rivolga al suo giudizio”.

Barcellona, 31 ottobre 1492
La regina Isabella ordina al governatore Juan Càrdenas di impedire le continue vessazioni di Antoni Bret nei confronti del vescovo di Visarco e di mantenere e fare rispettare le disposizioni reali e pontificie relative al possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia, senza avanzare alcuna iniziative personale non autorizzata dalle sue executoriae”.

Barcellona, 31 ottobre 1492
La regina Isabella ordina al governatore vicerè Fernando Dacuna di impedire le continue vessazioni di Antoni Bret nei confronti del vescovo di Visarco e di mantenere e fare rispettare le disposizioni reali e pontificie relative al possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia, senza avanzare alcuna iniziative personale non autorizzata dalle sue executoriae”.

Madrid, 21 febbraio 1495
La regina Isabella ordina ai giudici della Magna Curia di verificare se ci siano altre persone che rivendicano il possesso del monastero di Santa Maria di Roccadia, verificandone i documenti in possesso, visto che Giovanni Esgalambro ne ha fatto richiesta sulla base di una lettera apostolica”.
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5. Le  Rendite dell’Abbazia di  Roccadia

Il governatore, probabilmente  per fini economici, riuscì ad  intromettersi negli uffici cittadini, reginali ed anche ecclesiastici.  In questi uffici fu protagonista di veri e propri abusi d’ufficio.
Riuscì ad intromettersi, grazie alla sua carica giudiziaria, nell’amministrazione e controllo dell’abbazia di Roccadia.  Per quale motivo esercitò questo controllo in un’abbazia che era in condizioni di povertà dal Trecento ?
Abbiamo anche visto come l’abate di Roccadia chiese un prestito all’abate di Roccamadore Nicola Porretta. Un  prestito che non fu mai restituito tanto che l’abate Porretta fu costretto a chiedere l’intervento di re Martino . Somma che non gli era stata restituita anche per l’avvenuta morte prematura dell’abate di Roccadia.
Re Martino ordinò di restituire il denaro al Perrotta ma anche di soddisfare tutte le richieste degli altri creditori.
Ci fu poi il coinvolgimento  dell’abbazia nella rivolta orchestrata da Raimondo Moncada.
Come mai tanto interesse per un abbazia in disastrose condizioni economiche ?
Probabilmente la situazione economica di Roccadia era leggermente migliorata considerando che nessuno avrebbe avuto interesse ad amministrare un bene o a prenderne la direzione in un mare di debiti.
In merito alle rendite dell’abbazia si ha qualche informazione in base al privilegio emanato da Federico II di Svevia il 4 agosto 1224 a Siracusa:
La località Santa Maria di Roccadia con vigneti, giardini, oliveti, le terre intorno, pascoli e diritti ad essa pertinenti;
La grangia di S. Maria di Catarractis, con vigneti girdini, oliveti, le terre intorno foreste mulini, pascoli e diritti ad essa pertinenti;
La grangia di Santa Maria di Catarro, con vigneti, giardini, oliveti, le terre intorno, pascoli  e diritti ad essa pertinenti;
La grangia di San Pietro, con vigneti, giardini, le terre intorno, pascoli e diritti ad essa pertinenti;
Il mulino di San Cosma con i diritti acquiferi a esso pertinenti, a cui nessun altro avrebbe potuto accedere fino a quando l’abate ed i monaci avessero detenuto questa licenza;
La grangia Sandacina, con vigneti, foreste, le terre intorno, pascoli e diritti a essa pertinenti;
I tenimenti di terre del monte Fiascone, con foreste, le terre intorno, pascoli e diritti ad essa pertinenti.
Federico non solo restituì all’abbazia le terre di cui era stata privata in precedenza ma la dotò persino di nuovi benefici. L’abbondanza delle concessioni a Roccadia  è il motivo per cui l’imperatore è considerato, in modo errato, il fondatore.
Il possesso da parte delle abbazie  cistercensi di terre, come fonti di sostentamento ricavate dal loro sfruttamento, sembra essere estremamente diffuso nel Regno di Sicilia.
Lo statuto dell’ordine imponeva ai  monaci una vita basata sul frutto del proprio lavoro agricolo e sui prodotti pastorali.
In seguito alle lotte con il papato il convento fu saccheggiato ma fu riedificato da Manfredi nel 1263.
Le rendite dell’abbazia e la sua reale ricchezza fu studiata da Marcello Moscone sul registro 1195.3 C dell’Archivio di Stato di Roma.
Si tratta del rendiconto della Collettoria di Sicilia per gli anni 1456 – 1459, in cui l’incaricato, l’abate Miquel Isalaguer (collettorio apostolico al tempo di papa Callisto III), fornì degli strumenti estremamente importanti per la conoscenza dei beni posseduti dalle diocesi siciliane nel periodo in cui furono esatte le decime.
Una parte del manoscritto riferisce le cosiddette “Manifestationes”, le quali non sono altro che le dichiarazioni di ogni istituto ecclesiastico dell’isola, e un’altra si  occupava della registrazione delle decime corrisposte.
Sono inoltre presenti nel testo anche i dati relativi alle somme in sospeso e non ancora corrisposte e ai benefici concessi grazie alle cifre esatte dal collettore.
 Attraverso l’analisi delle notizie riferite è possibile determinare la quantità di denaro che l’abbazia di Santa Maria di Roccadia era tenuta a pagare negli anni 1456 e 1457 e a compararla con il resto delle diocesi di Siracusa e della Sicilia orientale.
La rendita dichiarata dall’abbazia oggetto di studio negli anni precedentemente menzionati è di 48 onze 77, su un valore totale di 1676 onze, 19 tarì e 10 grani per l’intera diocesi di Siracusa (la decima totale che quindi era stata corrisposta era di 167 onze, 19 tarì e 19 grani) che contava 364 manifestationes, cifra notevolmente alta se comparata agli altri censimenti dell’isola.
Roccadia è menzionata con le altre istituzioni ecclesiastica dell’area di Lentini, di cui risulta essere la più ricca. Seconda per rendita era  l’Abbafissa Sancte Clare, che contava solo 16 onze 79, mentre nell’intera diocesi siracusana l’unica abbazia che si avvicinava a tale somma era l’Abbas Sancte Marie de Arco di Noto ( si contava una rendita di 60 onze).
Data la vicinanza delle notizie dal punto di vista cronologico e la comparazione con altri conventi coevi della medesima diocesi,  sarebbe confermata l’importanza che l’abbazia rivestiva nella Sicilia orientale e le risorse economiche che possedeva.
Gli abati della diocesi siracusana erano regolarmente inviati ai sinodi da parte del vescovo e tra questi figurava quello di Santa Maria di Roccadia, insieme a quelli di Santa Maria de Arco, Santa Maria di Sambuca e Santa Maria di Terrana, sebbene spesso risultassero contumaci.
Poche notizie si hanno in merito alle visite ecclesiastiche che seguirono ai decreti tridentini.
L’archivio storico diocesano di Siracusa conserva due documenti che si occupano di Roccadia, uno risalente al 1565 e l’altro all’anno immediatamente successivo.
Nel primo il delegato apostolico dopo aver specificato il motivo della visita e quindi il suo ruolo nei confronti del concilio, ne descrisse l’altare maggiore, a suo parere adeguatamente ornato e custodito.
Successivamente apprezzò la qualità del lavoro di edificazione della sagrestia e soprattutto l’attività svolta dal procuratore dell’abate Ugo Moncada, che si era occupato della stesura di un accurato inventario dei beni posseduti dal monastero, al fine di migliorarne la gestione ed il servizio nei confronti di Lentini.
Infine riferì il nome dei cappellani, dei servientes e del sagrestano e la presenza dei vari oggetti sacri, edifici chiostri adeguatamente gestiti, senza però entrare eccessivamente nel merito.
Il secondo documento è collocabile nel febbraio 1566 e si tratta dell’inventario di cui il delegato aveva fatto menzione nel resoconto dell’anno precedente.
In esso sono rintracciabili tutti gli oggetti sacri, le suppellettili, le stoffe preziose ed altri beni, come campanelle, calici d’argento e purificatori, il tutto minuziosamente elencato in maniera schematica.
Dall’esame delle visite regie pare pertanto che l’abbazia di Santa Maria di Roccadia abbia goduto di una situazione economica abbastanza agiata e che non versasse in una condizione di disagio e povertà.
Importanti sono le informazioni relativi al secolo XVI  e XVII.
Alla fine del seicento Roccadia aveva una rendita corrispondente  a circa 804 scudi solo grazie alla grangia di S. Maria di Catarractis. In particolare il computo, senza considerare le numerose reliquie sacre significativamente preziose, risulterebbe da una cifra in attivo di 1779, a cui però bisognava sottrarre un’altra di 966 di oneri ( di cui 400 erano destinati al mantenimento dei monaci e del culto, alla fabbrica 150 e 416 per le spese restanti).
Altri dati emergono dalla ricognizione del De Ciocchis nel 1743, che riporta chiaramente i beni mobili ed immobili posseduti dall’abate, all’epoca Andrea Filangeri di Palermo,  e dai monaci di Roccadia. In questo censimento sono confermati quei beni di cui l’abbazia era dotata già nel XIII secolo, ossia la chiesa di S. Maria de Catarractis (oggi delle Scale) presso Ragusa e di S. Maria  e S. Pietro di Catarro presso Lentini. Queste strutture in realtà non erano state menzionate chiaramente dal privilegio, ma dai nomi e dalle ubicazioni appare evidente che si tratta di edificazioni posteriori, avvenute nei possedimenti di cui avevano beneficiato.  Nel testo sono riportate le reliquie da loro conservate, così come gli ostensori, gli altari, i confessionali e tutti gli altri ornamenti preziosi e suppellettili dell’abbazia. I feudi di cui risultava allora in possesso erano quello di Bisicane, della Piana delli Monaci e della Celsa, rendendo rispettivamente 264, 232 (più 27 tarì e 10 grani), 130 e 62 onze, per un totale di 688 onze 27 tarì e 10 grani.
Elenco più corposo è quello dei tenimenti di terre, tra cui:

tenimentum terrarum nuncupatum della Mendola in territorio Civitatis Augustae[…]
tenimentum terrarum dictum la Sgarlata in territorio Leontinorum
tenimentum terrarum nuncupatum la Sgarlatella in eodem territorio
tenimentum dictum del Portiero in territorio terrae Belpassi
tenimentum nuncupatum del Poggio di S. Pietro in territorio civitatis Leontinorum
tenimentum nuncupatum di Bondifè in territorio Melilli in feudo di Bondifè
tenimentum dictum la Pancala et
tenimentum le Chiusicellein in territorio Leontinorum
tenimentum terrarum nuncupatum di Maglitto in feudo Sancti Michaelis
tenimentum terrarum nuncupatum della Celsa in territorio Leontinorum

i quali, sommati, fruttavano di reddito circa 129 onze e 5 tarì.
In suo possesso risultavano anche vigneti, sei dei quali nel territorio di Lentini (vigne dell’Abbate, del Fondaco, della Zena, una in contrada dell’Alaimo e due piccole in contrada Poggio di S. Pietro), il cui reddito totale ammontava a 16 onze e 27 tarì.
Anche i censi sono stati all’epoca conteggiati durante la ricognizione ed essi riguardavano soprattutto vigneti, oliveti e chiuse, per una somma di 24 onze e 13 tarì e 16 grani.
Gli oneri da sottrarre al reddito lordo erano i seguenti.
I donativi ordinari ammontavano a 100 onze 27 tarì e 19 grani, quelli straordinari a 44 onze 22 tarì e 10 grani.
Erano inoltre stanziate per il vitto e i vestiti dei monaci 119 onze, per la fabbrica 20 onze, per l’elemosina ai poveri 8 onze: la cera, l’olio e gli oggetti di culto costavano circa 15 onze e il mantenimento di torri e ponti 44 onze, 22 tarì e 10 grani.
In conclusione, a un reddito lordo totale di 853 onze 23 tarì e 23 grani bisognava sottrarre 310 onze 23 tarì e 19 grani di oneri, per un reddito netto totale di 539 onze 29 grani e 33 tarì, che a metà del settecento rappresentava una somma ragguardevole per un’abbazia.
Informazione simile attesta anche Emanuele e Gaetani di Villabianca poco dopo,
nel dettaglio il testo dice:
L’Abbate di S. Maria di Roccadia, l’istesso Emanuele Filangeri
e Gottone, eletto nel 1752. La chiesa di questa badia è nella campagna
del territorio di Lentini a tre miglia lontana dalla detta Città, ed il suo Monastero,
che fu dell’Ordine Cistercense, si crede istituito dall’Abbate
Luca di Sambucina, che fiorì nei tempi di Re Federigo I, e secondo
Imperadore. Passò in Commenda nel 1461, e la sua rendita ascende a
2097 scudi tt.II.12 che di netto resta scudi 1356 tt.%.1
Che ci informa di un onere  corrispondente pari a 741 scudi.
Quindi nel corso del Seicento e del secolo successivo il convento era in condizioni economica piuttosto floride. Mentre per i secoli precedenti, al periodo indagato, la situazione economica non era così fiorente.

6. La Basilica del Murgo (Agnone Bagni – Siracusa)




In località Agnone Bagni, non  lontano dalla costa lentinese, sono presenti i resti di un complesso sacro che gli storici, come il Manriquez, hanno attribuito alla volontà edificatrice di Federico II di Svevia.
L’imperatore decise di costruire questo complesso per trasferirvi i monaci Cistercensi da Roccadia.
 L’esistenza del documento di Viterbo, emanato nel 1220 sembrerebbe confermare la volta dell’Imperatore nel trasferimento della comunità monastica.
La critica storica è comunque ancora incerta  su questo trasferimento dalle colline lentinesi alla costa jonica
Le fabbriche volute dall’imperatore rimasero incomplete , ancora oggi sono visibili, e sono costituite da un alzato di circa tre metri. I lavori furono sospesi e abbandonati.
Sarebbe interessante scoprire le motivazioni che spinsero l’imperatore a sospendere i lavori di costruzione.
Le risposte potrebbero essere tante e tutte valide:
-          Un ostilità crescente nei confronti del papato anche se l’imperatore aveva una sua influenza sulle strutture ecclesiastiche nell’isola  che spesso era  indipendente e sovrana sul papato;  
-          impegni politici e militari del sovrano sia in Italia che nelle sue spedizioni verso la Terrasanta;
-          il trasferimento delle maestranze impiegate nella costruzione dell’edificio a Catania e a Siracusa per la costruzione dei castelli che sembrano contemporanei alla basilica del Murgio in costruzione;
-          probabile insalubrità del sito a causa della presenza di pantani,

Per quale motivo Federico II decise di costruire la basilica per trasferirvi i monaci cistercensi di Santa Maria di Roccadia ?
Federico II di Svevia voleva creare un presidio per controllare i traffici del commercio del grano che avevano come approdo Agnone (allora chiamato “Lagnone”) e nello stesso tempo una residenza in prossimità dei Monti Iblei, territorio ideale per la caccia, grande passione dell’Imperatore.
In un documento, riportato da Pisano Baudo nel suo “La città Carleontina” (del 1914), ci cita:
 “ si rivela da un documento notato negli annali cistercensi che il giovane Federico II nel tempo della sua dimora in Catania, nel 1209 venendo sovente ai Pantani (Il Biviere) e nelle vicine boscaglie de Murgo, per diletto di caccia e passando giorni divertiti nell’emporio di Agnone, intorno a cui erano molti fabbricati poco distanti dalla spiaggia dal mare,  diede proprio in quel luogo alla costruzione d’un tempio con l’interesse di fondarvi un vasto convento, e trasferirvi i monaci di Santa Maria di Roccadia. Allontanatosi dalla Sicilia, le incominciate fabbriche della chiesa furono lasciate incomplete, ed il proponimento della fondazione del monastero in quel luogo per i monaci di Roccadia non ebbe attuazione”.

Quello che rimane della struttura è l’impianto di una grande basilica a tre navate, con tre absidi quadrate e orientata ad Est-Ovest.
Una costruzione con una tecnica edilizia molto raffinata con la ricerca della perfezione che potrebbe essere collegata al Castello di Maniace o al Castello Ursino di Catania.
  I resti sono costituiti da un alzato che sul fianco settentrionale raggiunge l’altezza di circa 3 metri. La muratura ha uno spessore di circa 2,60 metri ed è costituita da un nucleo centrale di pezzame e malta con i due paramenti, esterno ed interno, costituiti  da doppia fila di conci ben squadrati e stilati a chiodo.

I resti della basilica si possono riassumere in:
-          gli inizi delle mura spesse circa 2 m ed alte dai 2,5 – 3 metri;
-          le basi del portine principale;
-          la decorazione degli absidi quadrati (sull’abside centrale fu costruita una cappella nel 1707);
-          qualche capitello;
-          semicolonne dei costoloni delle crociere delle navate laterali (la basilica era impostata a tre navate); 
-          la porta ogivale del transetto.
Una basilica lunga circa 90 metri e larga 22 metri, con tre navate, a croce latina, la copertura era prevista con volte costolonate.


Quel che rimane del prospetto principale è appena sufficiente per dare una semplice visione d’insieme dell’imponenza dell’impianto: esso si conserva per l’altezza di nove assise di conci alti in media cm. 35 e larghi sino a m. 1,50. I filari posseggono un andamento ordinato, sebbene esso risulti ovviamente interrotto in corrispondenza dell’innesto con quel che rimane del portale, costituito da conci più alti, nei quali risultano intagliate le decorazioni. Questo ingresso ha una larghezza di oltre cinque metri e presenta un profilo a “greca” che ha indotto alcuni studiosi a paragonarlo al portale principale di Castel Maniace. In realtà pare che le analogie permangano solo per l’ampiezza e la forma delle basette di colonna. Ultimamente si ritiene che maggiori corrispondenze si possano, invece, trovare con il portale  della basilica di Maniace, presso Bronte, almeno relativamente alle colonne maggiormente aggettanti sul filo del muro rispetto a quelle presenti presso il castello Maniace di Siracusa.

Le tre navate della chiesa sono suddivise da dodici pilastri centrali e tredici semi colonne addossate alle pareti interne e realizzate da pile di conci di altezza compresa tra i 25 e i 40 cm., la cui disposizione e il cui taglio sembrerebbe ricordare più da vicino la fabbrica del Castello Ursino.

L’area presbiterale si compone di un transetto rettangolare, sporgente sulle navi per una misura pari alla profondità delle navate laterali, largo tanto quanto la navata centrale e profondo in misura simile alla larghezza. Inoltre il muro nord del transetto presenta un’apertura archiacuta, ancora oggi ben visibile. Riguardo alle absidi, invece, è possibile osservare un ampio rimaneggiamento dovuto all’impianto di fabbriche moderne che hanno trasformato soprattutto l’abside centrale in cappella padronale. A causa di queste radicali trasformazioni purtroppo rimangono solo pochi metri di alzato relativi all’ampio arco di trionfo composto da pilastri rientranti ed angoli a quarti di colonna. La muratura delle tre absidi è formata, all’esterno, da conci regolari di grandezza inferiore rispetto a quelli osservati nel resto dell’edificio e solo i cantonali si mostrano rinforzati da conci di grandezza pari a quella precedentemente analizzata, ad esempio, nel prospetto. Inoltre l’attacco a terra si offre mediato da uno zoccolo unito alla parete per mezzo di un’unica cornice composta da una scozia profonda compresa da due tori.    

I recenti studi hanno analizzato con maggiore dovizia i moduli costruttivi utilizzati per erigere la basilica del Murgo. L’unità di base utilizzata è, pare, la misura di cm. 32.54, in sostanza il piede delle misure arabe canoniche. La profondità complessiva dell’impianto è pari a 254 moduli più uno legato alla base esterna della colonna del portale principale, per un complessivo totale di 255 moduli. I rilievi in pianta hanno inoltre evidenziato che il transetto è la metà esatta della lunghezza totale dell’edificio, tolto lo spessore murario delle absidi. La nave, inoltre, possiede un’ampiezza pari ad n terzo della lunghezza totale, similmente al lato breve de transetto. Le due navate laterali contano 17 moduli, quella centrale 35.

Da una simile analisi, secondo alcuni studiosi è possibile evincere una metodologia costruttiva che non preveda prima il completamento delle absidi e del transetto, ma, la realizzazione del corpo di fabbrica sembrerebbe procedere dall’esterno verso l’interno, cioè attraverso l’edificazione prima delle navate laterali e delle absidi, successivamente della navata centrale e del transetto. Tecnica simile sembra osservarsi pure nell’edificazione di Castel Maniace a Siracusa e Castello Ursino a Catania, con il quale sembrerebbero risaltare alcune similitudini relativamente alla tessitura muraria dell’interno e, come precedentemente accennato, alla modalità di realizzazione delle semi colonne. Forse sulla base di queste semplici osservazioni si potrebbe dire che la basilica incompiuta di Agnone Bagni sia da porre in un arco cronologico compreso tra i due citati castelli, forse in un periodo più vicino alla realizzazione del castello catanese”. (Prof. Antonio Randazzo)

Per certi versi la basilica del Murgo rimane un “unicum” edilizio che per alcuni versi unisce la Sicilia alle tecniche edilizie continentali. L’utilizzo di absidi quadrate, ad esempio, per quanto non sia del tutto avulso dalla cultura isolana, certamente non è diffusissimo fra le superstiti chiese cronologicamente più o meno coeve. Anche le altre caratteristiche edilizie osservate spingono a immaginare l’immissione in suolo siciliano di maestranze provenienti dal continente e opportunamente inserite nel tessuto sociale e artistico dell’isola per volontà di Federico II. Che queste maestranze, almeno quelle adibite alla direzione dell’opera, fossero di origine cistercense rimane l’ipotesi più credibile, sebbene probabilmente l’apporto di manodopera locale fosse quantitativamente non indifferente, vista anche l’ampiezza progettuale rimasta purtroppo solo nella mente dei realizzatori.
Una costruzione in forma gotica che doveva essere analoga a quelle che gli stessi monaci cistercensi avevano elevato nel XII secolo in Borgogna, loro terra d’origine, e nell’Italia Meridionale dove alcuni monaci si erano trasferiti (o furono trasferiti) agli inizi del 1200.









In occasione dell’ottavo centenario della nascita di Federico II di Svevia, si tenne a Siracusa un convegno e il Soprintendente ai monumenti di Siracusa, il prof. Giuseppe Voza dichiarò:
"... La Basilica del Murgo è un punto di riferimento eccezionale del quale non si può' non tener conto. Purtroppo è sconosciuta a tutti e devo dire in parte anche a noi, che cogliendo l'occasione del convegno su Federico II abbiamo potuto fare il punto della situazione.

C'è innanzitutto l'esigenza di superare un ostacolo: la basilica è sottoposta a vincolo, ma è in mano a privati... Dopo l'espropriazione abbiamo intenzione di procedere, continua Voza, alle esplorazioni per capire intorno a quale polo costruttivo si aggrega la basilica. Certamente non era un fatto isolato, anzi doveva rappresentare un punto di riferimento sostanziale nella strategia di Federico II. Vogliamo farci arrivare la gente e per questa ragione il sito non verrà abbandonato... ".


Il giornalista Silvio Breci nel “Cammino” del 5 novembre 1994 scriveva:
"... a poche decine di metri dall'arenile di Agnone vi sono quelle che furono le fondamenta della Basilica del Murgo. Una basilica che, se fosse stata realizzata per intero, sarebbe apparsa tanto possente, quanto era la figura caratteriale di Federico II figlio di Enrico VI e di Costanza di Altavilla, re di Sicilia...".

Oggi quelli che sono solamente dei poveri ruderi di quella costruzione religiosa che agli occhi del re doveva apparire grandiosa dovrebbero rappresentare il centro di forti interessi storici e culturali, al fine di inserire Agnone Bagni negli itinerari turistici.


Il prof. Guido Di Stefano, nel libro “Architettura Siciliana nel secolo XIII” in merito della Basilica del Murgo,  affermò:
"... chiesa con pianta tipicamente cistercense, e ciòè basilicale con transetto e con absidi rettilinee; questo rarissimo esempio di un interessamento dell'imperatore per una costruzione religiosa, costituisce un vero caposaldo per la storia dell'arte sveva..".

Presente anche la voce del Comune di Lentini che nella deliberazione della giunta municipale n. 3 del 17 gennaio 1990 si riferiva che:
"... nell'anno 1224 Federico II ordina di edificare a Lentini, nei pressi di Agnone, la Basilica dei Murgo. . La grande basilica del Murgo non venne mai portata a compimento, ma fu l'unico esempio in Sicilia di architettura sacra sveva...". Ma chi conosce la Basilica del Murgo? E pensare che si trova due-trecento metri dietro la pizzeria del Triangolo!



Dopo il convegno su Federico II il giornalista Massimo Ciccarello nel giornale “Prospettive – Siracusa 1994”, scrisse in merito alla Basilica del Murgio:.





"... inglobato fra le mura di una masseria, ad Agnone Bagni si trova uno dei più importanti beni culturali del territorio augustano.
Si tratta di quello che gli studiosi ritengono concordemente l'unica chiesa fondata dall'imperatore svevo. Eppure su questo manufatto, unico nel suo genere, fino a pochi mesi fa non esisteva alcun vincolo, o meglio, il provvedimento della Soprintendenza non era mai stato riportato sui registri immobiliari. L'obbligo di tutela dell'antica abbazia risaliva agli anni quaranta ma la sua efficacia giuridica è rimasta praticamente nulla per difetto di trascrizione. Solo quando sono iniziati gli studi sull'antico monastero, finanziati dalla regione siciliana... la "svista" è saltata fuori.
Alla sovrintendenza sono corsi immediatamente ai ripari.... il vincolo monumentale è stato rinotificato ai nuovi proprietari della fattoria, e trascritto regolarmente sui registri immobiliari. Fortunatamente, secondo ì rilievi dei ricercatori, nel corso di questi ultimi decenni nessun intervento distruttivo ha toccato le mura della basilica.
Mentre tutt'intorno è cresciuta in maniera selvaggia una giungla di costruzioni..., il rigoglioso aranceto che circonda il Romitorio ha "protetto" la chiesa. Solo negli anni Sessanta una nuova costruzione è andata in parte ad "appoggiarsi" sull'antica struttura muraria. Ma non ha intaccato seriamente quanto resta di ciò che gli architetti normanni avevano edificato.
Tuttavia, l'impressione di degrado è pesante. Sparita già da secoli quella di destra, la cappella che chiude a sinistra il transetto è ora trasformata in deposito di fieno. Sull'abside centrale, nel 1707 venne costruita una chiesetta (vedi particolare). Il tempio, che conserva intatte le eleganti colonnine della costruzione originaria, attualmente viene usato come deposito di attrezzi agricoli.
Avviandosi a conclusione i rilievi degli architetti incaricati dalla Soprintendenza, si apre il problema del recupero e della valorizzazione del monumento. Che si tratti di un'opera eccezionale, da inserire a pieno titolo nell'elenco dei percorsi turistici come "da visitare", è fuori dubbio. Lo testimonia il fatto che il convegno internazionale di studi federiciani ha fatto tappa al Murgo.
"Per intervenire sulla basilica - ha spiegato il sovrintendente ai beni culturali di Síracusa, Giuseppe Voza, nel corso di una conferenza stampa, occorre prima acquisire l'intera area. Non si tratta solo di espropriare il perimetro della chiesa, ma di includere nei beni demaniali tutto il giardino. La zona. però, nel piano regolatore dì Augusta è classificata come "urbana". Questo significa che l'esproprio può avvenire solo grazie a finanziamenti cospicui. Difficilmente, quindi per la Chiesa del Murgo si potrà parlare di restauro in tempi brevi... Fra l'altro, essendo una proprietà privata, la chiesa è interdetta alle visite. Eppure è un monumento di profonda suggestione e importanza storica...".
Per molti che leggeranno sarà una grande scoperta, che sa quasi di miracolo, sapere che Agnone è sede di una delle più importanti opere dell'architettura sveva, rimasta per anni sconosciuta ai più, compresi gli studiosi...Reclamiamo anche qui e con più forza, la restituzione alla cultura nazionale e internazionale di tale monumento e la possibilità, quindi, per gli "agnonesi" di riappropriarsi della loro (questa si!) storia”.



Facendo delle ricerche su Internet…”per copiare come dice uno storico mafioso” .. ho trovato una pagina, “La Civetta di Minerva” (Premio Nazionale di Giornalismo Mario Francese 2012), del 21 luglio 2020, che riportava il seguente titolo:


Tra i tesori sequestrati ai fratelli Leonardi (Sicula Trasporti) anche la sveva Basilica del Murgo (Agnone Bagni): sconosciuta ai più, ignorata da chi dovrebbe tutelarla e valorizzarla

L’Articolo… è sorprendente..
Tra i tesori sequestrati ai primi di giugno ai fratelli Nino e Salvatore Leonardi, ras dei rifiuti, non ci sono solo bidoni, nascosti sottoterra, pieni di contanti (un milione di euro in mazzette).

Tra i beni immobili per un valore di circa centodieci milioni di euro, ce n’è uno che preoccupa particolarmente i cultori delle nostre bellezze storiche: la Basilica del Murgo, ad Agnone Bagni, a pochi metri dal mare, sconosciuta ai più, ignorata da chi dovrebbe tutelarla e valorizzarla.

È uno dei monumenti federiciani che raccontano la nostra storia del XIII secolo, un “unicum” sia per alcuni aspetti della tecnica edilizia sia perché è il solo esempio di architettura sacra voluta dall’imperatore Federico II che pare avesse chiamato per la sua realizzazione maestranze cistercensi del continente. La pianta della basilica, “un vero caposaldo per la storia dell’arte sveva” ha scritto Guido Di Stefano in L’Architettura religiosa in Sicilia nel sec. XIII, come nelle abbazie dei monaci di Cîteaux in Borgogna, presenta un transetto rettangolare – e arco a sesto acuto a nord (ancora oggi ben visibile) – e absidi rettilinee.
Quel che rimane del prospetto principale, con il portale in stile romanico, largo oltre cinque metri e costituito da conci più alti rispetto alle colonne, nei quali risultano intagliate le decorazioni, simile a quello di altre costruzioni del periodo, dà un’idea di quanto sarebbe stata imponente la costruzione se fosse stata terminata. Ignoto il motivo dell’abbandono: forse dovuto all’ostilità del papato verso l’ “anticristo” Federico, o alla partenza dell’imperatore per la Terrasanta, o ancora per esigenze militari che richiedevano operai da assegnare alla costruzione del Castello Maniace.
La basilica – a tre navate, suddivise da dodici pilastri centrali e tredici semi colonne a fusto liscio addossate alle pareti interne – già nel 700 sarebbe stata inglobata in una masseria feudale.
“Fortunatamente, secondo i rilievi dei ricercatori – leggiamo in un articolo di Massimo Ciccarello su Prospettive SR, riportato in quello scrigno di preziose informazioni che è il sito di Antonio Randazzo, da cui abbiamo tratto anche alcune foto, e che quindi ringraziamo – nel corso di questi ultimi decenni nessun intervento distruttivo ha toccato le mura della basilica. Mentre tutt’intorno è cresciuta in maniera selvaggia una giungla di costruzioni…, il rigoglioso aranceto che circonda il Romitorio ha “protetto” la chiesa. Solo negli anni Sessanta una nuova costruzione è andata in parte ad “appoggiarsi” sull’antica struttura muraria. Ma non ha intaccato seriamente quanto resta di ciò che gli architetti normanni (svevi, ndr) avevano edificato. Tuttavia, l’impressione di degrado è pesante. Sparita già da secoli quella di destra, la cappella che chiude a sinistra il transetto è ora trasformata in deposito di fieno. Sull’abside centrale nel 1707 venne costruita una chiesetta. Il tempio, che conserva intatte le eleganti colonnine della costruzione originaria, attualmente viene usato come deposito di attrezzi agricoli”.
“Prima della mostra su Federico II che abbiamo voluto organizzare come Soprintendenza nel 1994, in occasione dell’ottavo centenario della nascita dell’imperatore – ricorda l’architetto Francesco Santalucia – pochissimi avevano visitato la Basilica, tra questi lo storico dell’arte Cesare Brandi accompagnato dal professore Vladimir Zoric. Io stesso, in preparazione della visita nell’ambito del convegno itinerante su Federico II, ottenni un colloquio con il proprietario che era già Leonardi: la basilica venne messa a disposizione; il terreno all’interno del perimetro murario perfettamente pulito; preparato un rinfresco che fu assai gradito dai circa 60 storici che mai avevano visto la fabbrica e non sapevano nemmeno dove fosse e se esistesse ancora.

Leonardi affermò di avere acquistato la fabbrica con la Casena annessa e alcuni ettari di agrumeto dalla famiglia dei proprietari della vini Murgo dell’Etna. Gli si fece notare che la amministrazione statale avrebbe dovuto essere informata della transazione per esercitare il diritto di prelazione essendo la fabbrica e tutto il complesso edilizio sottoposto a vincolo come monumento nazionale. Leonardi in tutta risposta offrì di rivendere il tutto alla Regione per quattro miliardi, comprendendo Casena e aranceto.
Il cambio del direttore generale al dipartimento portò all’oblio la cosa.
Ovviamente se reato vi fosse stato, era già ampiamente estinto ma la Regione avrebbe potuto ugualmente esercitare la prelazione al prezzo della vendita. Ma, come è comprensibile, nonostante le nostre insistenze, la questione non fu più affrontata. Leonardi si dimostrò un “perfetto gentiluomo d’altri tempi” … Ma la casa in cui abitava, in una traversa poco dopo quella che porta alla spiaggia di Agnone, passando sul fianco destro del canale di scolo, era dotata di mura in cemento armato e cancelli in ferro… Il luogo era visibilissimo dalla SS 114 ma nessuno lo aveva individuato e io lo trovai grazie a Zoric. Il prospetto rivolto ad ovest è visibile. L’interno della fabbrica interrotta penso sia recintato”.

E sempre nel 1994, nel corso di una conferenza stampa, l’allora sovrintendente Giuseppe Voza affermò: “La Basilica del Murgo è un punto di riferimento eccezionale del quale non si può non tener conto. Purtroppo è sconosciuta a tutti e devo dire in parte anche a noi, che cogliendo l’occasione del convegno su Federico II abbiamo potuto fare il punto della situazione. C’è innanzitutto l’esigenza di superare un ostacolo: la basilica è sottoposta a vincolo, ma è in mano a privati e per intervenire su di essa occorrerebbe prima acquisire l’intera area. Non si tratta solo di espropriare il perimetro della chiesa, ma di includere nei beni demaniali tutto il giardino. La zona, però, nel piano regolatore dì Augusta, è classificata come “urbana”. Questo significa che l’esproprio può avvenire solo grazie a finanziamenti cospicui. Difficilmente, quindi per la Chiesa del Murgo si potrà parlare di restauro in tempi brevi. Fra l’altro, essendo una proprietà privata, la chiesa è interdetta alle visite. Eppure è un monumento di profonda suggestione e importanza storica. Dopo l’espropriazione l’intenzione sarebbe di procedere alle esplorazioni per capire intorno a quale polo costruttivo si aggrega la basilica. Certamente non era un fatto isolato, anzi doveva rappresentare un punto di riferimento sostanziale nella strategia di Federico II. Vogliamo farci arrivare la gente e per questa ragione il sito non verrà abbandonato…” concludeva Voza con una promessa poi non mantenuta.
In realtà sulla sussistenza del vincolo regna ancora non poca confusione.

Secondo Massimo Ciccarello, sebbene l’obbligo di tutela dell’antica abbazia risalisse agli anni quaranta, il provvedimento della Soprintendenza non era stato riportato sui registri immobiliari e quindi la sua efficacia giuridica era rimasta praticamente nulla per difetto di trascrizione. Solo a seguito degli studi finanziati dalla regione siciliana si era scoperto l’errore e si sarebbe corso ai ripari: “il vincolo monumentale è stato rinotificato ai nuovi proprietari della fattoria e trascritto regolarmente sui registri immobiliari” scrive.

Ma è davvero così? La nostra richiesta alla Sovrintendenza in merito, e anche per sapere quali siano le intenzioni dell’Ente di tutela ora che la Basilica, che dovrebbe essere tra i beni sequestrati, rischia di essere lasciata ad ulteriore degrado, non ha avuto alcun riscontro forse proprio per la difficoltà di reperire tutte le informazioni necessarie o chissà per cos’altro.
Eppure è assolutamente necessario tornare a indagare sulle attuali condizioni della proprietà nonché interrogarsi subito su quali possano essere le conseguenze del sequestro sul bene senza le opportune garanzie di tutela, vigilanza e manutenzione.

Le conseguenze potrebbero essere disastrose ma per una volta la responsabilità certa.



Il quotidiano “La Repubblica” del 4 giugno 2020 riportava la clamorosa notizie per la verità non sorprendente perché era evidente agli occhi di tutti la situazione…


Travolta la Sicula Trasporti a Lentini, colosso dei rifiuti. In carcere il patron Antonello "Nino" Leonardi e ai domiciliari il fratello Salvatore. La famiglia è anche proprietaria di una squadra di calcio. Pressioni del clan Nardo per ottenere la gestione di un chiosco
di NATALE BRUNO
04 giugno 2020
Temevano la concorrenza e per evitare di perdere i ‘clienti’, gli oltre 200 comuni della Sicilia, ‘abbancavano’ rifiuti nella discarica di contrada San Giorgio e nelle vasche di accumulo a Lentini, senza differenziare alcunché, mescolando con conseguente inquinamento ambientale, rifiuti solidi urbani con pezzi ingombranti, frigoriferi, materassi, pneumatici, e persino con l’umido che creava percolato e nubi tossiche. Un anno e passa di indagini della Guardia di finanza sono bastate per capire la gestione insana della discarica della famiglia Leonardi tramite la società Sicula Trasporti, considerato un colosso nella gestione dei rifiuti: novanta milioni di fatturato l’anno, 120 dipendenti, e un impero accumulato di oltre 110 milioni finiti sotto sequestro. Scoperto anche un milione in contante sotterrato in dei fusti di plastica a due passi dall’ingresso degli uffici della discarica.


In carcere sono finiti Nino Leonardi 57 anni, noto come “Antonello”, amministratore di fatto della “Sicula Trasporti srl” e della “Gesac srl” nonché amministratore di diritto della “Sicula Compost srl”. Domiciliari per suo fratello Salvatore Leonardi di 47 anni. Sottoposti alle misure cumulative cautelari dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e di dimora Pietro Francesco Nicotra 36 anni, quale responsabile dell’impianto di compostaggio di Grotte San Giorgio a Catania dal quale provenivano anche parte dei rifiuti poi conferiti illecitamente in discarica e Francesco Zappalà 52 anni, responsabile dell’impianto di trattamento meccanico biologico. Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e di dimora per i fratelli Francesco 49 anni e Nicola Guercio 59 anni nella loro qualità di amministratori di diritto e di fatto della “Edile Sud srl”. Tra i pubblici ufficiali appartenenti ad organi amministrativi pubblici di controllo, agli arresti domiciliari, sono finiti: Vincenzo Liuzzo 57 anni , pubblico ufficiale corrotto, quale dirigente di unità operativa semplice dell’Arpa Sicilia (sede territoriale Siracusa), addetto ai controlli e monitoraggi ambientali. Era in busta paga della Sicula Trasporti che gli consegnava 5 mila euro ogni venti del mese. In cambio chiudeva tutti e due gli occhi sulle irregolarità della discarica. E poi Salvatore Pecora 63 anni quale incaricato di pubblico servizio, istruttore tecnico impiegato presso il Libero Consorzio Comunale di Siracusa addetto al controllo sulla gestione dei rifiuti: informava i gestori della discarica dei controlli che sarebbero stati effettuati . Custodia cautelare in carcere, invece, per Filadelfo Amarindo, detto “Delfo”,68 anni, quale dipendente della “Sicula trasporti”, punto di contatto con il clan Nardo: era lui che teneva buoni Angelo Randazzo e Alfio Sanbasile con regalie varie a colpi di 5 mila euro. Il denaro era versato per ripagare il clan dall’esclusione della gestione del chiosco nell’impianto sportivo di Lentini sede della Sicula Leonzio.

Il Procuratore. Durissimo con la classe politica siciliana è stato il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro: “L’indagine ha fatto emergere un fenomeno criminale particolarmente complesso e grave. Che devo dire è quasi scolastico. Abbiamo una politica regionale decennale che è sicuramente criminogena perché non consentendo di ridurre la quantità di rifiuti che vengono conferiti in discarica e consentendo ad imprenditori senza scrupoli di potere lucrare grosse somme di denaro violando le norme che tutelano l’ambiente, ingenera quasi a livello di selezione naturale una classe di imprenditori che si propone, per svolgere questa attività di servizio, sapendo che se vengono violate determinate regole possono ricavare quantità di denaro esorbitanti. Denaro che poi servirà per corrompere pubblici funzionari che dovrebbero controllare la regolarità del servizio di trattamento e smaltimento di rifiuti. E’ lo stesso sistema politico che produce questo sistema di grave fenomeno criminale...”. “Imprenditori senza scrupoli che inquinano le falde acquifere, il sottosuolo, producono danni atmosferici perché sanno che da questo possono ricavare grossi guadagni e il modo più plastico di considerare quale è l’illiceità di questi profitti è data dal fatto che grosse somme di denaro sono state trovare sottoterra. Questo ci dà l’idea di quanto fosse corrotto questo sistema e come gli imprenditori fossero dei veri propri sciacalli e fosse cher sulla salute delle persone, corrompendo i funzionari, erano disposti a speculare”.

I sequestri. Le imprese sottoposte a sequestro sono: la “Sicula Trasporti spa” con sede a Catania, (Contrada San Giorgio), impianto di trattamento meccanico biologico (T.M.B.) e vasche di abbancamento nel confinante comune di Lentini (Siracusa), 120 i dipendenti; la “Sicula Compost srl (Contrada San Giorgio), che svolge attività di “produzione di compost” ovvero produzione di fertilizzanti agricoli derivanti dall’utilizzazione e trasformazione di scarti vegetali e agroalimentari (20 dipendenti) e fatturato di 3,6 milioni di euro; “Gesac srl”, Contrada Coda Volpe, gestisce l’estrazione di pomice e di altri minerali; la società, inserita nella filiera della lavorazione del R.S.U., forniva il materiale pietroso da cospargere (obbligatoriamente per legge) sulla “parte secca” del rifiuto, abbancato nelle vasche della discarica, fatturato annuo medio di circa 2 milioni di euro e ha oltre 20 dipendenti. Non destinataria della misura del sequestro preventivo ma persona giuridica indagata ai sensi del citato D.Lgs.n.231/2001 per la quale pende la richiesta di nomina di un commissario giudiziale è la: “Edile sud srl”, con sede a a Scordia. Ulteriori misure cautelari reali eseguite dai Finanzieri etnei sono il sequestro preventivo di oltre 6 milioni di euro.








Lasciamo da parte la cronaca giudiziaria che purtroppo evidenzia come l’ambiente sia oggetto di illeciti che solo qualche magistrato o procura eccellente è in grado di mascherare e riprendiamo la parte storica per capire quale sia stata la storia del feudo Murgo sino ai nostri giorni. Una storia con un gran numero d’investiture che testimonierebbero l’importanza del feudo

La Storia del Feudo Murgo

La prima famiglia ad avere il possesso del feudo fu la famiglia Fimetta di origine normanne e residente a Lentini. Un Ruggero Fimetta era stata esiliato dall’imperatore Federico II e ritornò in Sicilia il 21 agosto del 1255 quando il papa Alessandro IV gli concesse di castelli di Modica, Palazzolo, Scicli e Vizzini.. “castra che rendevano 200 onze l’anno ed erano appartenuti fino ad allora a Matteo de Magistro”.
Fu espulso dal regno di Manfredi nel 1258 e non tornò in Sicilia”.
Molto legato al papa. Quindi di fede guelfa, risulta morto già nel 1270.
La sorella di Ruggero Fimetta, Aloisia Fimetta, nel 1270 possedeva in feudo i casali di Fiumefreddo, Militello, Scordia Soprana, Bulfida  col “tenimentum ianuense” (che era stata confiscata da Federico II), Murgo  oltre a beni allodiali”.


Aloisia Fimetta fece poi testamento in favore del nipote Simone Fimetta di Calatafimi.
Aloisia nel testamento ricordò come i suoi beni venivano “ex antiquo patrimonio et antiqua successione parentum et predecessorum suorum”.

Simone Fimetta, conosciuto come Simone da Calatafimi, era figlio di Gerardo di Calatafimi, fratello di Ruggero Fimetta, che aveva sposato la figlia del castellano di Calatafimi, Roberto de Ariano e ne aveva ereditato la carica.
Il 5 gennaio 1281 Simone Fimetta, con testamento nominò come suoi eredi i nipoti figli della sorella Aloisia e di Pierino di Malta::
-          Guglielmo ricevette il feudo di Bulfida (riservando i diritti vita natural durante alla zia Aloisia) e i casali di Militello e Fiumefreddo (di cui si trattenne l’usufrutto) (Fiumefreddo dovrebbe essere una contrada posta alla periferia di Scordia e se non ricordo male vicino alla Stazione di Ferroviaria di Palagonia);
-          Lo stesso Guglielmo e il fratello Ruggero (di Malta) ricevettero gli altri feudi tra cui il “casale” di Murgio.
Il 26 gennaio 1283 Re Pietro dispose l’arresto di Simone Fimetta di Calatafimi che era coinvolto nella cospirazione antiaragonese di Gualtiero di Caltagirone. Successivamente il Fimetta fu perdonato dal sovrano ottenendo il reintegro dei beni che gli erano stati confiscati nella Val di Noto. Alle fine fu decapitato alla fine del 1284. La famiglia da sempre si era sempre mantenuta fedele al papa dimostrando sempre la sua matrice guelfa.

Contrariamente alle disposizione testamentarie di Simone Fimetta, i beni passarono a sua sorella Aloisia che con testamento dell’11 settembre 1284 stabilì la seguente assegnazione;
-          A Guglielmo di Malta i casali di Bulfida e Murgio;
-          A Roberto di Malta (fratello minore di Guglielmo), il casale di Scordia Superiore;
-          A Giovanni Fimetta, cugino di Aloisia, il casale di Militello..” dopo però che per 5 anni i redditi fossero percepiti da Alaimo da Lentini”;
-          Allo stesso Giovanni Fimetta e “al di lui fratello” Goffredo Fimetta il casale di Fiumefreddo.
Tra il 1300 ed il 1308 Lukina di Malta  (contessa di Malta, d’origini catalane e figlia di Guglielmo e di Chiara da Rocka) sposò Guglielmo Raimondo I Moncada.
Portò in dote le isole d Malta e Gozo; i casali di Bufida, Scordia Soprana,  Gilerno (Galermo in territorio di Lentini) e Murgo.
Malta e Gozo, su richiesta della corona (Federico III d’Aragona) furono rese alla Curia in cambio della castellania della Terra di Augusta con i relativi redditi, del castello e della terra di Altavilla, il casale di Melilli e il reddito di 100 onze annue sui proventi dell’assisa della baiulazione di Caltagirone.

Il figlio Guglielmo Raimondo II Moncada sposò Margherita Sclafani da cui il figlio primogenito Guglielmo Moncada che ricevette per donazione il feudo di Murgo il 4 febbraio 1344. Una donazione effettuata con il consenso dell’altro figlio Matteo e con relativo usufrutto del feudo alla madre Margherita.
Guglielmo Raimondo III Moncada ( figlio di Guglielmo Moncada e di Giovanna de Peralta) si ribellò a re Martino I (Il Giovane) nel gennaio 1387. Il sovrano con decreti del 16 novembre 1397 gli confiscò tutti i beni che furono concessi a diverse persone.
Il feudo “lu Murgo” fu concesso quindi a Giovanni di Partenione.

Il feudo fu successivamente assegnato a Blasco Scammacca,  “catanese, fu fisico di re Martino e protomedico del Regno di Sicilia nell’anno 1403 e, per i servizi  prestati a re Martino il giovine, alla regina Maria e a re Martino il vecchio, ottenne con privilegio dato a 8 settembre 1409 la concessione del feudo Murgo….”.

“Nobile antica famiglia alemanna, oriunda dell’Alsazia, ove possedeva
sotto Carlo Magno molti castelli. Il Mugnos, appoggiato al Paradin, riporta
per primo ceppo un Blascone Scanimac, valoroso cavaliere, che
che nella spedizione contro i Mori di Spagna l'anno 755 ne uccise 200 di propria mano; perlocchè quei barbari atterriti lo dissero scanimac, vale a dire terribile uccisore.
Ebbe quindici figli maschi, che si diffusero in varie contrade di Europa; un ramo rimase in Aragona, da dove per un Blasco S. si trapiantò in Sicilia, propriamente in Lentini fu fisico di re Martino e protomedico del Regno nel 1403 e per i servizi prestati a re Martino il giovine, alla regina Maria e a re Martino il vecchio, ottenne, con privilegio dell'8 settembre 1409, la concessione del feudo Murgo e caricatore d'Agnone,

Nel “Protonotaro della Camera Reginale” relativo agli anni 1452 – 1819
                                   Nei Processi d’Investitura

25) Feudi di Murgo con il caricatore d’Agnone e Arbiato (Lentini)  a Matteo Scammacca …. (anno) 1597/16;
39) Feudi di Murgo, Arbiato e Caricatore di Agnone…. 1600/5
66) Feudo di Murgo,  Arbiato e Caricatore di Agnone a Biagio Scammacca ..1602/25
273) Baronia del Feudo di Murgo e Arbiato e caricatore di Agnone a Matteo ……Scammacca e Amezeva…1666/16

335) Feudi di Murgo e Arbiato a Giuseppe Scammacca e Gravina …1680/40
416) Feudo Arbiato e Murgo e caricatore dell’Agnone a Raffaela Buglio e Scammacca …….1717/27

470) Baronia e Feudi Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone e Mario Buglio e
        Scammacca e Minafria …. 1739/10
479) Feudi Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone a Emanuele Buglio e Platamone
        1745/ 18
567) Feudi e Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone a Francesco Ferdinando
        Gravina    1775/18
655) Feudi e Arbiato e Murgio con caricatore di Agnone a Salvatore Gravina e Cottone
        1804/19
659) Feudi Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone a Francesco Paolo Ferdinando
        Gravina e Gravina …. 1806/27

I Leonardi, come abbiamo visto attuali proprietari del fondo dove si trova la basilica sveva, acquistarono la proprietà dagli Scammacca del Murgo proprietari della Tenuta San Michele dove vengono prodotti vini Doc dell’Etna.

































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    Collegamento: 
                                                     L’Ordine Cistercense in Sicilia.
Tra i pochi resti non rispettati…una pagina di Storia scritta anche dai Templari…
Dimenticata..
Abbazia di Vallebona -  Badiavecchia – Novara di Sicilia
Abbazia  di Santa Maria di Spanò
del 04/05/2020


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