L'Abbazia Reale Cistercense di Santa Maria di Roccadia (Carlentini - Sr) e la Basilica del Murgo mai ultimata (Agnone Bagni - Sr)
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Indice
1
– L’Abbazia Reale Cistercense di Santa Maria di Roccadia o Rocca Dei
La Fondazione nel 1176 Cistercense – Gli Abati – I Problemi
Economici – Il Prestito richiesto
all’abate dell’Abbazia di Roccamadore
(Tremestieri – Messina) – La Dipendenza
di S. Maria delle Scale (Ragusa) – Gli Abati;
2
– Il nuovo Convento di S, Maria di Roccadia a Carlentini dopo il terremoto del 1693
Il convento fu acquistato dal barone
Giovanni Riso, rimase solo la piccola Chiesa –
L’Icona della Madonna.
3
– Topografia ed Architettura dell’antica Abbazia Reale di Roccadia – Le citazioni
e
Testimonianze – Il Fonte Battesimale, un
capolavoro artistico - Della vecchia
Struttura rimase ben poco.
4
– Gli abusi del governatore Cardenas sull’Abbazia Reale di Roccadia durante la
Reggenza della regina Isabella di
Castiglia (1474 – 1505) –
L’Abbazia faceva parte della Camera
Reginale – L’Abbazia fu concessa al Vescovo
della Diocesi di Visarcio.
5
– Le rendite dell’Abbazia Reale di Santa Maria di Roccadia;
6
– La Basilica del Murgo (Agnone Bagni – Siracusa)
Federico II di Svevia iniziò la
costruzione nel 1220/1224 della Basilica per
trasferirvi i monaci Cistercensi di S.
Maria di Roccadia – La Basilica non fu
completata – I resti della Basilica - Proprietà Privata – La basilica al centro di
un
procedimento giudiziario (smaltimento rifiuti)…” Tra i tesori
sequestrati ai fratelli Leonardi
anche la basilica Sveva di Agnone Bagni……” (file e video)
anche la basilica Sveva di Agnone Bagni……” (file e video)
La Storia del Feudo Murgo appartenuto
alle famiglie : Fimetta – Di Malta –
Moncada – Scammacca
Registro Protonotaro della Camera Reginale
– Processi d’Investitura
Collegamento:
L’Ordine Cistercense in Sicilia.
Collegamento:
L’Ordine Cistercense in Sicilia.
Tra i
pochi resti non rispettati…una pagina di Storia scritta anche dai Templari…
Dimenticata..
Abbazia
di Vallebona - Badiavecchia – Novara di
Sicilia
Abbazia di Santa Maria di Spanò
del 04/05/2020
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1.
L’Abbazia Reale di Santa Maria di Roccadia
La
datazione dell’Abbazia detta anche “Rocca Dei” è incerta. È probabile che sia
stata fondata da Ruggero I d’Altavilla dopo la conquista dell’isola in potere dei Musulmani ed affidata a dei
monaci Benedettini di cui il primo abate potrebbe essere stato Giovanni da
Lentini. Non esistono in merito documenti in grado di confermare l’ipotesi.
È
invece certa la fondazione o affidamento dell’abbazia ai Cistercensi nel
1176 che provenivano dall’Abbazia di Santa Maria di Sambucina, (Luzzi – Cosenza).
Una
tradizione cita il beato Luca Campano come fondatore dell’Abbazia. Il beato Luca
fondò molte abbazie, (Acquaformosa, Sagittario), fu a capo dell’abazia di
Casamari e successivamente anche dell’arcivescovato di Cosenza.
La
sua presenza in Sicilia è attestata per la predicazione e promozione della
crociata del 1199 mentre l’Abbazia fu fondata (o diventò dell’Ordine
Cistercense) nel 1176 e lo stesso beato Luca solo nel 1183 ricevette i voti
monastici.
La
data del 1183 è riportata nelle “Memorie” del beato Luca in merito all’incontro,
avvenuto nell’Abbazia di Casamari, con il frate Gioacchino da Fiore.
Da
escludere anche la tesi della fondazione dell’Abbazia attributi all’Imperatore
Federico II di Svevia, nata da un errata interpretazione di un privilegio del 1224 con il quale lo stesso Imperatore citava le concessioni al monastero.
Altra
tesi riporta la fondazione del monastero risalente al 1070 per opera del Gran
Conte Ruggero il Normanno. Lo stesso Ruggero avrebbe poi nominato come abate Giovanni da
Lentini che gli era stato d’aiuto durante le aspre lotte contro i musulmani.
(Questa
era la tesi dello storico Mugnos che si basava su due diplomi di Ruggero II che
furono giudicati falsi).
Lo
storico Angelo Manriquezz ( 1577 – 1648, monaco di Huerta) nella sua opera dedicata all’Ordine
Cistercense, riportò nel libro V, la fondazione dell’Abbazia di Roccadia all’anno
1176 come filiazione di Sambucina e non fece alcun riferimento al beato
Luca Campano.
Luca Campano
(1140 circa – Cosenza,
1227)
Abate e
arcivescovo cattolico
(originario della
Campagna e Marittima, divisione amministrativa
dello Stato
Pontificio, viene spesso citato per la costruzione sia del Duomo
di Cosenza
che dell’Abbazia di Fiore.
Si formò nell’Abbazia
di Casamari e successivamente fu
nominato abate dell’Abbazia di Sambucina il 22 novembre del 1194 mantenendo la
carica per sette anni.
A Sambucina
incontrò Gioacchino da Fiore, un famoso predicatore, di cui rimase colpito. Lo
stesso Gioacchino utilizzò Luca Campano per riportare o annotare
i suoi scritti. L’abate
Luca diede un porto impulso all’Abbazia di Sambucina
grazie alle
amicizie con i papi (Celestino III ed Innocenzo III” e con gli
imperatori Federico
II ed Enrico IV che fecero molti donazioni al monastero.
Studiò l’architettura
e dando prova delle sue acquisizioni
tecniche nella
costruzione del Duomo di Cosenza e dell’Abbazia Fiorense.
Un’altro
storico che riportò la fondazione dell’Abbazia nel 1176 fu Leopold Janauscheck
(13 ottobre 1827-23 luglio
1898) era uno storico Cistercense austriaco
In
ogni caso la fondazione sarebbe avvenuta grazie all’arrivo di confratelli del
beato Luca.
L’importante
anno 1176, come riportato anche negli annali
cistercensi, indicherebbe il momento in cui l’Abbazia entrò a fare parte dell’ordine
Cistercense come “monasterium lineae Clarae vallensis, et filia Sambuccinae
in Calabria”.
Quindi
consacrata cistercense nel 1176 ma sulla base di una struttura monastica
precedente, risalente all’XI secolo, e occupata dall’ordine Benedettino.
Nel
XII secolo l’ordine cistercense era in piena espansione nell’isola e molte
strutture benedettine furono assegnate ai monaci cistercensi.
Un
espansione che fu incoraggiata dal re Ruggero II per il processo di latinizzazione dell’isola,
già iniziata dal padre Ruggero I, e per
ragioni di natura politica. L’apporto dei monaci cistercensi nell’economia dell’isola,
famosi per la loro laboriosità agricola,
e nella politica europea grazie ai rapporti, anche se spesso
contrastanti, con Bernardo di Chiaravalle, erano tutti aspetti importanti nella
conquista dell’opinione pubblica europea e quindi anche nella legittimazione
della corona.
La
mancanza di ricerche archeologiche non permette di definire con certezza l’eventuale
presenza di un preesistente monastero benedettino. Resta il rammarico di aver
perduto la memoria storica e visiva di quella che era considerata un’Abbazia
Reale ed una delle più importanti della Sicilia come dimostreranno gli
avvenimenti storici.
La
lista degli abati dovrebbe quindi iniziare con il citato Giovanni da Lentini,
di cui però non si hanno notizie certe. Il secondo abate fu “Nivaldus
Sclafano”.
Federico
II donò al monastero beni mobili ed immobili come risulta da un documento
databile al 1220 circa. Nel documento sono infatti citati i possedimenti
dell’abbazia nell’isola.
“ [..] ipsi abbati
et conventui predicta monasterii Sancte Maria de Roccadia
ac successoribus eorum perpetua confirmamus ut
absque ulla molestia
que continentur in ipsis possideant, concedentes, donantes et confirmantes
eidem monasterio
in perpetuum possessiones et omnia bona que in
presenti tenet et
possidet et in antea poterir justo
adipisci…”
In
un altro documento redatto a Viterbo il 17 marzo da papa Onorio III, secondo il volere di Federico II di Svevia, i monaci
dell’abbazia Reale di Roccadia o Rocca Dei si sarebbero dovuti trasferire in
Contrada Murgo di Agnone Bagni presso la nuova Basilica del Murgo. Basilica i
cui lavori non furono mai ultimati e che ancora oggi sono visibili a poche
decine di metri dall’arenile. (Rimangono il perimetro murario e la parete sud,
alta circa tre metri, e ben visibile inoltre la parte bassa del portale).
Nell’atto è citato anche il nome dell’abate..”Antonius”.
L’abbazia
di Roccadia venne in parte distrutta durante la lotta tra Federico II e il
Papato e restaurata nel 1263.
Nel
1262, durante la reggenza di Manfredi, un atto della Cancelleria cita la necessità di riparare l’abbazia in
rovina.
Re
Manfredi ordinò a Umfredo Alemanno (?)
“Justitiario
Vallisneti de nostro Regno Sicilia ultra Farum” nonché “Castellani Castri
veteris nostra fidelis Civitatis Syracusarum, statim capta de eo possessione…”
di “…tradere debes dictum Castrum, cum juritus et pertinentiis suis omnibus in
manibus Joannis de Pedelepore…”.
(
Umfredo aveva avuto la carica di
Governatore Imperiale con Federico II nella edificazione della città di
Augusta… e il suo nome non era Umfredo Alemanno, ma Umfredo Fardella Alemanno. Quest’ultimo termine aggiunto
perché di origini tedesche. La lettera del Re Manfredi, che nominò l’Umfredo
Giustiziere della Val di Noto, recita:
“Manfridus Dei gratia
Rex utriusque Sicilie,
e Nobili Umfrido
de Fardellis Alemanno olim de Quernfort
nostro Iustiziario
Vallis Neti de nostro Regno Sicilie ultra Farum,
quod utique ad
mortem Gerardi de Amfuso olim nostri
Camerari,
Castellani Castri Veteris nostra fidelis Civitatis Siracusarù,
statim capta de
copossessione tradere debes dictum Castrum con iuribus,
e pertinentijs
fuis omnibus in manibus Iannis de Pedelepore familiaris,
fidelis nostri de eadem Civitate,
dando prius solito
iuramento de fidelitate, cuius introitua,
e arredementa
debita per dictum de Pedelepore infra annum
convertere debes
pro redificatione Venerabilis Monasterij
Sancta Marie de
Roccadia de ordine Cisterciensium,
e sic exequeris,
non obstante quoius alio ordine;
que expensio
sit notanda in libro nostra Curie
(13 agosto 1263)
Si
tratta quindi di una transizione di beni da cui l’abbazia di Roccadia ebbe dei
vantaggi
“…cuius introitus
et arredamenta debita per dictum de Pedelepore infra annum convertere debes pro
readificatione venerabilis Monasterii S. Maria de Roccadia de Ordine
Cisterciensium…”.
perchè
con la manovra finanziaria, operata da Manfredi, si doveva riedificare il
monastero facendo in modo che le necessarie spese non gravassero sulle casse
regie impegnate nel lungo conflitto contro gli Angioini di Carlo D’Angiò.
Non
si conoscono le cause della rovina del monastero, probabilmente legate a
calamità naturali.
Nobile famiglia
siracusana
Durante la dominazione angioina non si hanno
documenti o riferimenti.
Nel
periodo aragonese i documenti citano come nel 1284 Pietro d’Aragona elargì
molte donazioni ed immunità e nel 1287, in una lettera a papa Onorio IV
comunicava di aver nominato come abate Aloisio..” al fine di dirimere una
contesa territoriale tra il monastero di S. Maria la Scala e S. Maria in Valle
di Giosafat presso Paternò “.
Nel
XIV secolo l’abbazia cistercense, così come altri monasteri ed istituti sacri,
erano travagliati da problemi economici.
Nel
1376 l’abate Pietro chiese un prestito all’abate di Roccamadore (Messina)
Nicola di Perretta.
Abbazia Cistercense
di Roccamadore (Tremestieri – Messina)
Il Monastero di
“Rocca Amatoris” (Santa Maria di Roccamadore) fu fondato dal
Conte di Paternò,
Bartolomeo di Lucy, nel 1193 nella località Tremestieri,
vicino a Messina.
Il conte dedicò il
complesso a Santa Maria di Roccamadore
prendendo spunto
dalla chiesa
francese di Roc-Amadour en Quercy che allora era una
importante metà di
pellegrinaggi. Fu affidata ai monaci Cistercensi di Novara di Sicilia
(è quindi una
filiazione di Novara di Sicilia – Linea di Clairvaux –
Numero di
fondazione: 506)
Roc-Amadour en
Quercy
Fu fondata nel
1193 e il 9 settembre 1193 fu affidata
ai monaci Cistercensi di
Novara di Sicilia
assumendo ben presto una grande importanza.
Attorno all’abbazia
nacque il paese e Roccamadore fu l’unica comunità Cistercense
a non essere
interessata dalle soppressioni napoleoniche.
Entrò nella Congregazione
di San Bernardo e nel 1861 non potè
evitare il
decreto di
soppressione degli Ordini Religiosi che fu emanato a Firenze.
Con il decreto la
comunità si disperse e l’abbazia probabilmente era già
abbandonata quando
la città di Messina fu distrutta dal terremoto del 1908.
Purtroppo oggi
restano solo pochi ruderi. Quello che era rimasto fu distrutto dal vandalismo e
dalla cementificazione incontrollata. Resti che forse non sono stati
mai oggetto di studi
sistematici….
Abbazia di Roccamadore (Tremestieri - Messina)
Nel
1390 l’abate Antonio fu colpito da scomunica a causa delle inadempienze fiscali
per non aver pagato la tassa dovuta alla Camera apostolica.
Il
debito nel 1397, nei confronti dell’abbazia di Roccamadore, non era ancora
estinto e Nicola di Perretta, per rientrare in possesso della somma concessa,
una cifra rilevante per i tempi di ben undici onze d’oro, fu costretto ad
interpellare re Martino Il Giovane che, contrariamente alle aspettative, rinviò
l’esecuzione del debito.
L’abate
Antonio partecipò attivamente a fianco di Raimondo Moncada alla ribellione
contro Martino il Giovane (tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo)
causando gravi conseguenze, dal punto di vista economico, per la vita
dell’abbazia.
Infatti
Martino per ritorsione tolse all’abate Antonio le rendite della grangia o
dipendenza di S. Maria de Catarractis, presso Ragusa e l’assegnò nel maggio del
1398 ad un prete di Lentini.
La
dipendenza di Ragusa sarebbe l’odierna Chiesa di Santa Maria delle Scale.
Ragusa - Santa Maria delle Scale
Ragusa - Santa Maria delle Scale
Secondo una
tradizione locale la Chiesa di Santa Maria delle Scale, di Ragusa,
sarebbe stata
edificata dai monaci Cistercensi di Santa Maria di Roccadia di
Lentini verso la
prima metà del XIII secolo.
Una tradizione che non è legata a precise
fonti storiche.
La chiesa è un
gioiello d’arte. Dopo il terremoto del 1693 fu in gran
parte ricostruita
in stile barocco modificando anche il suo orientamento
che fu ruotato di
90° in senso antiorario. Le primitive absidi furono trasformati
negli attuali
portali della navata desta e relativi ambienti. Ha una scenografia eccezionale
dato che si erge al termine di ben 340 gradini che separano Ragusa
da Ragusa Ibla.
Al suo interno
tante opere d’arte tra cui una “Dormitio Virginis” (un bellissimo altorilievo
in terracotta policroma del 1538 di autore ignoto) e un fonte
Battesimale,
risalente al 1552, scolpito in un blocco di pietra pece.
Lentini
era stata colpita e conquistata dai rivoltosi del Moncada.
Martino
riuscì a riconquistarla e successivamente decise di restituire la grangia e gli
altri beni all’abbazia di Roccadia.
Nel
1407 abate del complesso era “Joannese de Tharest” e secondo il Pirri
l’abbazia era in condizioni disastrose..
“…Roccadiae fabricis
auxit, ac vetustate collapsum restituit…”
Nel
1408 ci fu un nuovo restauro a causa di un crollo di una parte non ben
precisata.
Nel
1437 l’abbazia era in condizioni di estrema povertà tanto da non poter
soddisfare le normali esigenze dei monaci e addirittura di non poter svolgere
le funzioni religiose.
Oltre
al dissesto finanziario, già radicato da tempo, si era aggiunta la cattiva
gestione dell’abate “Nicolò della Solfa” che venne accusato di
alienazione e dissipazione dei beni del monastero.
L’abate
venne deposto e sottoposto ad un lungo processo dal quale ne uscì con un
vitalizio di 5 onze annuali che erano pagate dal nuovo abate di Roccadia, frate
Guglielmo de Sgarbo.
Il
frate chiese più volte l’annullamento dell’obbligo in considerazione della
situazione finanziaria dell’abbazia al collasso.
Fra
gli ultimi abati del XV secolo è
presente un “Joannes de Girifalco” (Girifalco è un comune calabrese
della provincia di Catanzaro) del quale non si conosce la data di elezione. Lo
storico e presbitero Antonio Mongitore citò l’abate per la sua nobile famiglia
e per le sue forti amicizie a corte. Lo stesso storico mise anche in evidenza
la presenza all’interno del monastero di
Roccadia della sepoltura di un fratello di Joannes, Tommaso de Girifalco, come
riportava l’iscrizione della lapide allora visibile.
L’abbazia,
come gran parte delle abbazie presenti in Sicilia fu data in commenda e
l’ultimo abate a reggere il complesso religioso fu Romano Testa.
Il
Romano fu eletto abate per volere regio nel 1451. Una nomina che venne subito
contestata dal pontefice Niccolò V che in violazione alla “legatia apostolica”
nominò Giovanni Aurispa.
Ci
fu una subito un contenzioso e il re Alfonso I il Magnanimo chiamò gli abati di
S. Nicola l’Arena e di S. Maria di Nuovaluce per la risoluzione della
controversia.
L’intervento
del re dimostra la sempre presente volontà regia di mantenere un forte
controllo sul potere religioso della chiesa nell’isola ed anche i giochi di
potere tra i vari monasteri, anche lontani e di ordine religioso diverso.
Il
contenzioso si risolse con una completa riabilitazione dell’abate Romano Testa,
dopo circa 6 anni di contenziosi, nel 1457. L’abate Romano Testa morì nel 1461.
2. Il Nuovo Convento di S. Maria di Roccadia a
Carlentini
A
causa del terremoto del 1693 il convento di Roccadia venne completamente
distrutto. I monaci non lo
riedificarono e si trasferirono a Carlentini dove comprarono i ruderi del
Monastero della Concezione e vi fabbricarono il nuovo convento.
La comunità monastica
cistercense continuò ad esistere per altri 85 anni. Poi nel 1778 la
soppressione.
Successivamente
l’edificio ed il vasto feudo furono acquistati dal barone Giovanni Riso di
Palermo che ne fece una residenza nobiliare. Oggi del sontuoso palazzo e
dell’annessa villa Maria Luisa rimane ben poco se non lo scorcio della piccola
chiesa di Roccadia.
Dopo
i restauri, resi necessari dal terremoto del 1990, la piccola chiesa è stata
riaperta al culto.
L’edificio
di Santa Maria di Roccadia a Carlentini è ad una unica navata e con una
copertura con volta a botte. È l’unica
parte rimasta dell’antico convento. A destra
della navata si notano ancora gli stipiti e l’architrave della porta che
permetteva il collegamento della chiesa con l’annesso convento.
Nei
due altari laterali sono presenti due tele del ‘700: San Filippo Neri a destra
e la Sacra Famiglia con Sant’Anna, San Giacchino e San Bernardo a sinistra.
Pregevole
l’organo a canne del ‘700 di autore ignoto.
Sull’altare
l’icona che raffigura la Madonna che con la mano destra tiene un melograno
mentre con la sinistra sorregge Gesù Bambino.
Un’icona
che secondo una tradizione popolare fu donata da Ruggero all’antica abbazia di
Roccadia.
L’Icona di Santa
Maria di Roccadia
Maschera funeraria
di San Filippo Neri
L’artistico presepe
L’ICONA
Fazello
nel De Rebus Siculis, riferì che i monaci veneravano un’antica “tabula”
ritenuta dono del re Ruggero.
Sebastiano
Pisano Baudo, nel libro “La Città Carleontina” scrive:
La
fondazione del convento si fa risalire al Conte Ruggero; il Mugnos anzi ne
precisa l’anno 1070, ed afferma senza l’appoggio di alcun documento esserne
stato primo abate Giovanni da Leontino, uno degli antenati del Conte Alaimo…..
«i monaci vi veneravano con precipuo culto un
antico quadro della Vergine Santissima come dono del re Ruggero»
Sia Mugnos che Pisano Baudo commettono però un
errore. Come abbazia cistercense, Roccadia non poteva essere stata fondata nel
1070 poiché l’Ordine nacque in Borgogna, in Francia, nel 1098. L’ipotesi, dunque,
è che all’abbazia cistercense preesistesse una fondazione benedettina.
Sulla tavola
raffigurante la Madonna del Melograno la leggenda narra che fu un dono di re
Ruggero. Ruggero I morì a Mileto nel
1101 e quindi non si tratterebbe di un
dono ai cistercensi che giunsero in Sicilia tra il 1157 ed il 1161.
Probabilmente fu un dono di Ruggero II re di Sicilia dal 1130 al 1154 e quindi
collocabile verso la metà del XII secolo. L’abbazia cistercense fu fondata nel
1176 e in quella data Ruggero II era già deceduto da tempo. È probabile che
l’icona sia stata donata ai monaci benedetttini che occupano l’abbazia perima
dell’arrivo dei cistercensi.
Don Alfio Gibilisco affermò sul suo studio dei cistercensi in
Sicilia che «l’icona
di Roccadia si colloca perfettamente nella grande produzione pittorica italiana
del XIV secolo» e individua una forte somiglianza con la Madonna col Bambino
che il Beato Angelico dipinse in affresco per il convento di San Domenico di
Fiesole nel 1435
Verso
quella “tabula” della Madonna del Melograno, di cui si attende adesso il
ritorno in chiesa a restauro ultimato, i carlentinesi hanno sempre continuato a
nutrire particolare venerazione. Singolare l’episodio del 1741. Preoccupato per
il lunghissimo periodo di siccità, il popolo in penitenza portò il simulacro
della patrona Santa Lucia al cospetto del quadro e cominciò a piovere. Il 17
gennaio 1741, in segno di ringraziamento, la Madonna di Roccadia fu proclamata
«Patrona minus principale».
Un
magazzino per la conservazione di
cereali ed una struttura agropastorale, anche se probabilmente in parte
ricostruita dopo il terremoto del 1693, sono gli unici resti di quella che era
l’Abbazia Reale di Santa Maria di Roccadia o “Rocca Dei” posta a Sud- Est di Carlentini.
Dopo
il terremoto del 1990 la Soprintendenza sembra che abbia eseguito delle
ricerche, anche se non sistematici, che avrebbero permesso di ricostruire
quella che doveva essere l’aspetto originario dell’Abbazia Cistercense.
I
due edifici, ancora oggi presenti, sembrano configurare i due lati contigui di
un rettangolo che darebbero origine ad un possibile chiostro.
Nel sito furono
rinvenuti alcuni conci del portale posti
, dopo il terremoto del 1693, nei muri a crudo degli ovili.
La
storia del monastero di Roccadia, così com’ è possibile ricostruirla attraverso
le fonti documentarie giunte fino ai giorni nostri, è, in sostanza uno spaccato
della storia ecclesiastica siciliana, coinvolgente non solo l’ambito
territoriale lentinese ma anche quello catanese e messinese.
Un
abbazia sconosciuta ma ricca di avvenimenti storici. Purtroppo delle antiche
fabbriche rimane ben poco a causa di una calamità naturale, ben registrata
dalle cronache del tempo: il terremoto del 1693.
Mongitore
recitò quasi un epitaffio sulla scomparsa del monastero:
“… ex Terraemotu
Coenobum solo aequatum; quare in Oppido Carleontinensi Monachi novum magnificis
fabricis sunt moliti ad plagam septemtrionalem, intra ipsius Oppidi moenia…”.
L’intero
complesso venne, dunque trasferito all’interno dell’abitato di Carlentini,
essendo
impossibile ripristinare le antiche fabbriche.
Sul
luogo di fondazione dell’antico complesso si hanno alcune notizie dal Pirri,
“… situm olim id
Monasterium sub S. Mariae de Roccadia titulo in Emporio Leontinensi, ejusque
territorio ad tria milia pass ab Oppido…” .
Inoltre
V. Amico riportò una breve descrizione dei luoghi su cui insisteva il
monastero, ricordando, tra l’altro, la presenza di vistosi ruderi, fra cui un’ampia
sala circolare coperta da volta costolonata sorretta da pilastro centrale.
“Monastero nel
territorio di Lentini, un tempo a tre miglia dalla città,
sotto il nome di
S. Maria e l’ordine cisterciense, detto altrove d’incerta
fondazione nelle
monastiche notizie della Sicilia, ma or
conoscesi da
antiche carte da
poco rinvenute dovere attribuirsene l’origine ai
principi normanni.
Gli antichi edifizi del cenobio giacciono abbandonati,
e tra essi
rammentasi un triclinio, di cui sosteneva la volta di un
tronco di palma
elegantemente lavorato in pietra, ornando anche
dei rami con vario
artificio l’aspetto interiore della volta….”
Qualora
il complesso fosse giunto intatto ai giorni nostri, pur con i diversi
rifacimenti avvenuti nell’arco dei lunghi secoli di vita, sarebbe stato
certamente un interessante esempio di architettura normanno/sveva. Bisogna
comunque sottolineare l’assoluta assenza di ricerche in campo archeologico, che
ovviamente avrebbero potuto, se non restituire una completa visione d’insieme
delle antiche strutture, almeno definire meglio l’estensione del complesso.
Le
indagini avrebbero permesso lo studio delle diverse fasi edilizie ed evidenziare
il rapporto che il monastero intratteneva con il territorio circostante.
Il
monastero di Carlentini fu soppresso dal Governo borbonico e i suoi beni furono
venduti tra cui anche il feudo di Roccadia acquistato dal barone Giovanni Riso.
Fonte Battesimale con ciclo dei
mesi.
Datata : XIII
secolo. h: 30 cm; d: 44 cm.
Chiesa di Santa
Maria della Fontana. Lentini.
Commissionato per
l'abbazia di Santa Maria di Roccadia
Alcuni ritengono
che il fonte sia un ex capitello di un antico tempio cittadino.
recuperato dalle
rovine del terremoto, fu scavato al suo interno per farne un fonte.
Ma è solo
un’ipotesi.
La decorazione
propone il ciclo dei mesi ed è costituita da otto figure
superiormente
inquadrate da timpani, costituenti una cornice continua, e alternati
a protomi leonini.
I mesi vanno da
maggio a dicembre, così come riporta l’iscrizione nel cartiglio
di ogni figura:
“MADIVS, IVNIVS, IVLIVS, AGVSTVS,
SEPTEMJBER, OTVBER, NOVEBER, DECEBER”
Una scultura di
altissimo pregio in cui l’iconografia di ogni mese ha un
suo attributo.
Maggio, un canestro di fiori; giugno, un canestro di frutta;
luglio, la falce e
un cappello di paglia; agosto, un paniere con frutta e mazzi
di frutta e di
fiori in capo; settembre, un recipiente pieno d’uva che
il personaggio è
intento a pigiare appoggiandosi ad un bastone;
ottobre, un vaso;
dicembre, un suino. Di difficile interpretazione è il
mese di dicembre.
Lo
storico Antonio Randazzo ha collegato il fonte di Lentini al ciclo decorativo
del
portale
centrale della Cattedrale di Sessa Aurunca (Caserta).
Le
analogie iconografiche sarebbero tra la
settima e l’ottava figura, a destra, di Sessa Aurunca e le figure di Agosto e
di Settembre del fonte di Lentini.
Cattedrale di Sessa
Aurunca
Comuni sono anche
alcuni aspetti classici legati alle vesti con un fitto sistema di pieghe
ed altri elementi
come il copricapo, gli oggetti.
Sempre secondo il
prof. Randazzo altre analogie stilistiche si ritrovano
in alcuni capitelli del
chiostro di Monreale e in quelli della Cappella di
Santa Restituita a Napoli con le storie di Sansone, S. Giuseppe e S. Gennaro
Storie di S.
Giuseppe, S. Gennaro e Sansone….
Anonimo campano –
XIII secolo
Il fonte di
Lentini ripropone un collegamento culturale Sicilia – Campania, grazie
anche ai monaci
Cistercensi, con una circolazione delle maestranze.
Lo scultore appare
ancorato agli schemi d’arte normanna, come la squadratura
delle figure, e
riesce a creare un opera pregevole databile al primo
ventennio del XIII
secolo. Gli elementi classicheggianti documentano il
momento artistico
costituito da una fase di transizione che innesta elementi
federiciani su una
base artistica tardo -normanna.
Il fonte ha subito
delle vicende piuttosto travagliate.
Fu trafugato dalla
Chiesa della Fontana da parte di piccoli mafiosi.
Fu recuperato in
maniera rocambolesca dal Nucleo Carabinieri Tutela
Patrimonio
Artistico, rintracciato nel mercato clandestino dei reperti.
Dopo il recupero
il reperto fu esposto a Palermo e successivamente
restaurato dalla
Sovrintendenza di Siracusa per essere poi riconsegnato
alla cittadinanza
di Lentini. È esposto nella chiesa di Sant’Alfio
vicino alla tomba
dei Martiri.
Nella cappella
dell’antica Abbazia era presente
l’icona della
“Madonna del melograno” poi trasferita
nella nuova chiesa
di Carlentini dopo il terremoto del 1693.
4. Gli Abusi del Governatore Cardenas
sull’Abbazia di Roccadia
La regina Isabella di Castiglia, detta “La Cattolica”, moglie del
re Ferdinando II d’Aragona, ( regina consorte di Sicilia dal 1474 al 1504) fu
investita del possesso delle Terre di Lentini, Francavilla, Vizzini, San
Filippo e della città di Siracusa, compresi i porti di Brucoli e tutti i
territori, diritti reali e gli uomini ad esse pertinenti, con la facoltà di
poter estendere la concessione a tutta la durata della sua vita, qualora fosse
sopravvissuta al marito” come stabilito dal privilegio regio emesso da re
Giovanni l’8 maggio 1470.
La regina Isabella
di Castiglia
Isabella di
Castiglia e Ferdinando II d’Aragona
Ottenne
anche il privilegio di emanare leggi, a prescindere dalle precedenti consuetudini
e norme locali, una donazione di 120.000 fiorini, di cui 80.000 come dote
effettiva e i restanti 40.000 di aumento.
Il
15 dicembre 1469 il sovrano aragonese inviò al vicerè di Sicilia Urrea (Lope
III Ximènez de Urrea y de Bardaixi, visconte di Rueda e signore di Mislata) un
mandato,
per
consegnare “personalmente” ad Isabella o al suo procuratore Juan
Càrdenas il possesso effettivo della Camera Reginale ed un altro documento alla
stessa regina, in cui si confermavano tutti i privilegi, le franchigie, le
prerogative e le esenzioni di cui godevano le terre a lei appartenute e di cui
in passato Giovanna Henriquez aveva usufruito.
Il
ruolo di Càrdenas era ufficialmente quello di procuratore dato che la regina
Isabella era impossibilitata a raggiungere la Sicilia per l’investitura delle
“Terre”.
In
realtà il Càrdenas , con il consenso di Isabella, affrontò il viaggio con un animo ambizioso per prendere il possesso
delle terre in qualità di governatore della Camera.
Stemma dei
Cardenas
In
precedenza questa carica, tra la morte della precedente sovrana e la nuova, era
stata di Juan Cabastida, e a nulla valsero le precauzioni e gli accorgimenti di
re Giovanni II d’Aragona “Il Grande” (
Giovanni Fernández, o Giovanni di Trastámara) per evitare che il
suo uomo fosse messo da parte.
Il
re non credeva alle rassicurazioni di Càrdenas che nel frattempo aveva
raggiunto la Sicilia con una nomina a governatore che aveva tenuta nascosta.
Infatti nessuno ne era a conoscenza e il
re Giovanni dispose che il procuratore fosse accompagnato direttamente dal
vicerè. Una mossa che avrebbe dovuto in qualche modo controllare le reali
intenzioni del nuovo arrivato.
La
volontà della regina fu più forte e riuscì ad imporsi su quella del suocero,
facendo leva su uno degli appoggi considerevoli, come quello dell’Universitas
di Siracusa, a cui confermò i suoi privilegi.
La
regina di Castiglia sapeva che di fronte ad un accordo tra lei e i sudditi, Giovanni
II non avrebbe potuto più opporsi né giustificare le sue pressioni col
malcontento locale.
L’energia
con cui Isabella mantenne la propria posizione ed impose i suoi diritti (fece
rimuovere gli ufficiali che erano presenti prima del suo insediamento), oltre a
confermare la risolutezza particolare di questa sovrana nell’esercizio delle
proprie prerogative, inaugurò una nuova fase della camera reginale dimostrando
anche la fiducia che ella riponeva nel suo incaricato.
Giovanni
dovette desistere dai propri intenti ed
emise un mandato per rendere esecutoria la nomina del Càrdenas sebbene i siciliani sembrassero non gradire
la sua presenza .
Poco
dopo la diffidenza dei siciliani sembrò ben motivata a causa della lista di
accuse che cominciarono ad essere mosse contro il Càrdenas
Pratica
ricorrente era quella di abusare della posizione sociale e politica ottenuta
per inserire i propri familiares ed altri uomini di fiducia negli uffici
reginali e cittadini senza la dovuta approvazione della sovrana o
dell’Universitas. Nella maggior parte dei casi sembra che non abbia mostrato
alcun rimorso nella revoca indebita delle nomine sovrane (la sostituzione di Pietro
Coruna nell’incarico di mediatore della gabella del biscotto), risultando
persino coinvolto in diversi casi giudiziari controversi nel tentativo di
lucrare nei sequestri e sulle confische.
Nel
1492 la sua situazione sembrava ormai compromessa come risulta dai documenti.
Specialmente nelle nomine per uffici reginali e civici senza autorizzazione
sovrana e in particolare, come di può desumere da un mandato reginale, la disposizione
di Isabella in merito alle nomine e alle concessioni illegalmente autorizzate
dal governatore è inequivocabile e si legge:
penitus
revocato quovis alio dicti officii per dictum nostrum
gubernatorem
detentore et possessore quem revocamus et
pro
revocato per presentes haberi volumus
La
regina a queste difficili situazioni reagì con l’istruzione di un processo
attraverso l’azione congiunta dei due
giudici della Magna Curia e si avvalse anche dell’azione diretta del Vicerè del
Regno di Sicilia proprio come nel caso di Roccadia.
Chiaramente
essendo al di fuori della propria giurisdizione, l’ufficiale non possedeva
alcuna competenza giuridica nel territorio, cosa che determinò di fatto la
necessità per regina di rendere esplicito l’ordine e di emanare provvedimenti
speciali per richiederne l’appoggio.
I fatti
sono gli aspetti di una parabola discendente che si verficherà dal 1493
in poi.
Càrdenas
fu accusato di minacce e aggressioni nei confronti di alcuni cittadini.
Aggressioni avvenute alla presenza di ufficiali di grande importanza come il
baiulo di Siracusa, i quali erano influenzati e manipolati dal governatore. (Il
Siracusano Michele Zapata, accusò il governatore di aver contribuito
direttamente alla fuga di un sospettato di omicidio e di aver ostacolato le
indagini ed il regolare corso della giustizia).
Era
straordinaria anche l’influenza che questo ufficiale esercitava sugli organismi
giuridici, fatto che costrinse la regina ad avvalersi dell’ausilio di tecnici
esterni, come il vicerè e o i legum doctores appena menzionati.
Càrdenas
sarebbe stato imputato e processato per due volte, nel 1493 e nel 1495, per un
elenco di accuse estremamente lungo, tra cui l’estorsione ai danni delle città
e delle comunità ebraiche, introduzione illecita di merci nei territori della
Camera e irregolarità nell’assegnazione delle gabelle.
Nessuno
di questi dibattimenti portò infine alla destituzione del governatore che
sembra abbia ricoperto la carica fino alla sua morte avvenuta nel 1497.
Ambiguità corruzione e prepotenze circondarono la sua figura sebbene manchino
condanne effettive.
In
questo contesto s’inserisce la vicenda dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia.
Il
31 gennaio 1491 un mandato di Isabella, diretto ai vescovi di Badajoz e
Astorga, ci informa di un abuso che coinvolse il succitato convento. Il papa lo
aveva concesso infatti in beneficio al vescovo di Visarco, Galcerando Delicata,
ma un contenzioso era stato mosso da Antoni Bret di Barcellona, impedendogli di
entrarne in possesso.
(La
Diocesi di Visarco si dovrebbe indentificare con la Diocesi di Bisarcio che fu
unita a quella di Alghero nel 1503. La diocesi di Bisarcio era molto importante
e ricca di monumenti di grande interesse architettonico e storico come la
basilica di Sant’Antioco di Bisarcio).
Basilica di
Sant’Antioco di Bisarcio (Visarcio)
Basilica di
Sant’Antioco di Bisarcio (Visarcio)
Dato
che
“el
dicho obipso, como sabèys, ha seydo canònicamente proveydo de la dicha
abbadia”,
come recita il documento in appendice, e visto che l’abbazia faceva parte del
patronato reale della Camera reginale di Sicilia, la sovrana dispose il
rispetto delle decisioni papali in merito.
Nel
dettaglio, i due vescovi destinatari del mandato, in qualità di procuratori di
Isabella nella curia romana e nel suo consiglio, avevano il compito di arbitrare
la contesa nel modo più pacifico, convincendo Bret a lasciare che il legittimo
beneficiario dell’abbazia ne prendesse possesso effettivo. La posta in gioco
per la regina non era soltanto
l’abbazia, ma il difficile equilibrio tra corona e papato. Suo interesse era
risolvere la questione in fretta per evitare ulteriori problemi con Roma.
Il
pontefice di fatto si era già occupato di Roccadia per questioni simili, dato
che nella prima metà del ‘400 fu messa in atto una vera e propria controversia
per la carica di abate, tanto da rendere necessario l’invio del cardinale
Bessarione per arbitrare la disputa.
È
facile il motivo per cui la Cattolica delegò la questione ai due vescovi, in
quanto, essendo suoi procuratori presso la curia pontificia, rappresentavano probabilmente
il giusto compromesso, per indagare ed intervenire nel modo più imparziale e
per rassicurare allo stesso tempo anche il papa, senza quindi lasciare che
fosse quest’ultimo ad occuparsene indipendentemente dalla regina.
La
regina dimostrava un comportamento bivalente nei rapporti con il papato, che si
manifestava come garante degli interessi pontifici, in cambio però di autonomia
più forte nei territori di sua pertinenza.
La
situazione non fu risolta e il 18 agosto 1491 la regina impartì nuovi ordini direttamente
al governatore Càrdenas.
Per
la prima volta si fa menzione al suo diretto coinvolgimento negli avvenimenti con
accuse ben più gravi. Il Cardenas non solo si rea reso responsabile di non
avere favorito la restituzione legittima a Delicata dei frutti e delle rendite
pertinenti all’abbazia, ma lo stesso governatore o le persone al suo servizio
si sarebbero indebitamente appropriate di oggetti sacri appartenenti al
monastero.
Nel documento:
Tomastes o distes lugar que
personas vuestras tomassen del
dicho monesterio cálices y otras
cosas pertenecientes al culto
divino, de que somos
maravillada”.
Con
questo ulteriore documento la scelta d’incaricare i due procuratori assume un
valore ancora più determinante.
Il 31 ottobre 1492 il contenzioso era ancora
aperto ed Isabella si rivolse nuovamente ai suoi procuratori designati per
rinnovare i propri ordini in merito.
Antoni
Bret non aveva mai cessato di ostacolare il vescovo di Visarco osando perfino
di citarlo in giudizio, Bret utilizzò
un canale ufficiale per continuare le proprie vessazioni probabilmente proprio
perché appoggiato dallo stesso governatore.
La
regina era preoccupata per le
conseguenze che un simile procedimento avrebbe provocato in merito ai rapporti
con il papa.
Per
questo Isabella volle assicurarsi che
“no daria lugar a que el dicho mi
patronadgo fuese
Prejudicado, ni es razón que su
Santitat lo consienta y si
necesario fuere assì gelo
suplicarèys de mi parte
allo
stesso tempo aggiungeva che Delicata era legittimato al possesso dell’abbazia e
dei suoi proventi.
Isabella
aveva degli obiettivi in ambito religioso molto chiari ed intendeva riconoscere
gli aspetti civili del peccato, porre fine al concubinato ecclesiastico e
laico, indurre i chierici a vivere nella dignità adatta alla loro posizione ed
ottenere l’unità di fede. Era quindi molto interessata alla corretta gestione
delle istituzioni ecclesiastiche locali, all’uso debito delle elemosine e alla
giusta amministrazione dei sacramenti.
Da
un mandato del 31 ottobre 1492 risulta che Càrdenas e suo figlio si
appropriarono delle rendite di Roccadia, approfittando della mancanza della
carica di abate.
Le situazione nell’abbazia doveva essere
difficile per avere la possibilità di appropriarsi indebitamente di quei
proventi.
Il
governatore aveva orchestrato tutta la faccenda dietro le quinte, spingendo un
suo uomo ad ostacolare Delicata per via giudiziaria, per lasciare così il campo
libero al figlio o a chi per lui, affinchè il monastero fosse saccheggiato
degli oggetti sacri e delle rendite ad esso pertinenti. Le carte non parlano di
ciò ma è certo il suo coinvolgimento più o meno diretto nei molteplici abusi su
Roccadia.
Il
giorno decisivo giunse quando Isabella decise di richiedere l’intervento del
vicerè del Regno di Sicilia, Ferdinando Dacuna, ( Fernando
de Acuña y de Herrera, conte di Buendía) autorizzato ad istruire un processo contro
Cardenas, nel caso in cui avesse procrastinato ulteriormente il risarcimento e
la parte di lesa di conseguenza lo avesse citato in giudizio. Delicata assunse
il ruolo di abate di Roccadia, senza riuscire però, nonostante i continui
solleciti, a rientrare in possesso di
quelle rendite di cui si erano appropriati il governatore e suo figlio. Per
questi motivi fu necessario ricorrere nuovamente alle vie legali.
Il
vicerè ebbe bisogno di un esplicito mandato per occuparsi della giurisdizione
nei territori della Camera, che godevano
di ampia autonomia. La decisione di Isabella di affidargli tale incarico fu
motivata dal fatto che il vicerè era l’unico ufficiale in Sicilia di rango
superiore al governatore e in grado di
risolvere la questione.
Quei
giorni erano stati inviati oltre ai due documenti appena menzionati, altri due
mandati che ribadivano la posizione di Isabella riguardo alla questione.
In
uno ella ordinava al governatore di impedire le continue molestie di Bret
all’abate di Roccadia, dato che non possedeva nessun diritto legittimo sul
convento, affermando che:
yo vos ruego mando que no
permitàs que el dicho
obispo y abbat sea vexado en su possessiòn
ni la sea fecha
novidat alguna en aquella, sin
conoscimento del derecho y sin
exequtorias
mias.
Il
barcellonese era pertanto ancora coinvolto nella questione e Cardenas ne
favoriva le pretese. Identico contenuto si riscontra nel documento mandato a
Dacuna.
Questi
ultimi due documenti appaiono come l’estremo tentativo da parte della sovrana
di chiudere la situazione in modo pacifico e sono distinte chiaramente dalle
accuse rivolte a Cardenas per la mancata restituzione dei proventi
dell’abbazia.
Isabella
non menziona il coinvolgimento del
governatore nelle vessazioni di Bret, anche se a noi sembrano alquanto
sospette. Un comportamento simile risponde alla volontà da parte della sovrana
di preservare la certezza del diritto nei suoi domini.
Il
processo alla fine fu istruito
Il
governatore fu poi scagionato e reintegrato nuovamente al suo incarico. Riprese
ad esercitare le proprie funzioni di governatore già nel dicembre 1492.
Come
si risolse la questione non si sa.
Tuttavia nella nomina di un nuovo abate
si fa menzione della lunga
controversia in un documento del 21 febbraio 1595. Egli aveva di fatti ricevuto
il beneficio con un privilegio papale, che doveva essere confermato dalla
sovrana per mezzo di un ‘esecutoria.
Quest’ultima
era una tipologia documentale issata in periodo viceregio in Sicilia, in quanto
necessaria o per confermare o rendere esecutorie nel regno le disposizioni del
re quando non si trovava fisicamente nell’isola.
Stesso
sistema era applicato per le bolle papali e le lettere apostoliche e serviva ad
evitare che le disposizioni “centrali” non fossero conformi alle norme e alle
consuetudini del Regno di Sicilia.
Nel
documento si legge:
pro
parte dilecti nostri Ioannis Isgalambri, clerici istius
Syracusane
diocesis, fuit maiestati nostre humiliter supplicatum
quod
cum is ius habere pretendat in monasterio Beate Marie de
Roccadia
ordini cistercensis dicte diocesis sive allius abbatiatu
super
quo ut asseritur litteras apostolicas consequutus est
dignaremur
ei nostras executoriales litteras concederé quibus
mediantibus
posset dieti monasterii possessionem adispisci
seu
alias iusticiam ministrari mandaremus.
Giovanni
Esgalambro era un clerico già appartenente alla diocesi siracusana, fatto che
dimostra un inversione di tendenza rispetto alle precedenti decisioni probabilmente
perché sarebbe stato più semplice per un autoctno ben radicato nel territorio
esercitare la carica senza altri intoppi.
Per
assicurarsi che non si ripetessero i fatti precedenti “menores superioribus
annis” ordinò ai giudici di Magna Curia di verificare se altre persone
rivendicassero il possesso dell’abbazia
e delle rendite ad essa connesse.
Procedendo
in eisdem breviter, simpliciter, sumarie et de
plano,
sine strepitu forma et figuras iudicii sola facti veritate
attenta,
maliciis et diffugiis omnius reiectis.
dopo
aver debitamente convocato le parti eventualmente in causa e aver verificato i
documenti in loro possesso.
È
abbastanza chiaro che i problemi che si erano prospettati o presentati pochi
anni prima e che avevano coinvolto personaggi illustri, come il vescovo di
Visarco, il governatore della camera reginale, il vicerè Dacuna, il vescovi di
Badajoz e Astorga e indirettamente anche il pontefice, avevano segnato un
limite che la regina voleva impedire a tutti i costi che venisse nuovamente
oltrepassato. Questo è la prova del fatto che Isabella fosse intenzionata a
intraprendere misure preventive per la risoluzione definitiva delle nomine
degli abati .
Giovanni
Luca Barberi nel suo “Capibrevi” riguardante Roccadia e la successione degli
abati dimostra di conoscere i termini della contesa e dei problemi riscontrati
da Delicata per esercitare la carica di cui era stato beneficiato. Cita infatti
la nomina di papa Alessandro VI, datata 28 novembre 1490 e quindi “l’excutoria”
corrispondente della regina.
Lo
stesso scrittore era anche a conoscenza della risposta di Isabella alle
angherie del Bret e della sua volontà di estrometterlo dalla tenuta, anche se non si fa menzione esplicita
al Cardenars né al figlio, nè ad abusi da parte del governatore.
A
Viterbo nel 1494 papa Alessandro pare che abbia emanato un breve apostolico, a
cui sarebbe corrisposta l’executoria reginale, dove si affermava che:
dictam
abbatiam de regii iure patronatus extare, prelibatam
reginalem
collationem confirmavit per haec verba loquendo,
scilicet:
cum carissima in Christo filia nostra Elisabeth
Hyspane
regina illustris cui ius patronatus dicti monasterii
Roccadie
competere dignoscatur etc…
Il
Barberi riferì che l’ultimo possessore da lui conosciuto, dopo il breve periodo
del vescovo di Visarco, fu Giovanni Monteleone, che in seguito rinunciò ad
essa.
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Siviglia,
31 gennaio 1491
La
Regina Isabella ordina ai vescovi di Badajoz e Astorga, suoi procuratori nel
consiglio reginale e suoi rappresentanti nella Curia romana, di far desistere
Antoni Bret dalla richiesta di possesso dell’abbazia di Santa Maria di
Roccadia, pertinente alla diocesi siracusana, in quanto il vescovo di Visarco
Galcerando Delicata ha ricevuto la medesima concessione dal papa.
Granada,
18 agosto 1491
La
regina Isabella ordina al governatore della Camera reginale di lasciare il
pieno possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia al vescovo di Visarco,
con le relative rendite e pertinenze, come era stato già disposto
precedentemente, e di restituire tutti i beni e gli oggeti sacri di cui il
governatore o persone al suo servizio si erano indebitamente appropriate”.
Barcellona,
31 ottobre 1492
La
regina Isabella ordina ai vescovi di Badajoz e Astorga, suoi procuratori nel
consiglio reginale e nella curia romana, di far desistere Antoni Bret dalle
vessazioni contro il vescovo di Visarco per il possesso dell’abbazia di Santa
Maria di Roccadia, essendo state ignorate le precedenti richieste della corte
in merito”.
Barcellona,
31 ottobre 1492
La
regina Isabella ordina al governatore Juan Càrdenas di resituire al vescovo di
Visarco, in quanto abbate di Santa Maria di Roccadia, i proventi dell’abbazia
ricevuti dal figlio dello stesso governatore nel periodo di vacanza della
carica”.
Barcellona,
31 ottobre 1492
La
regina Isabella ordina al vicerè di Sicilia Ferdinando Dacuna di utilizzare
tutti i rimedi opportuni di giustizia per costringere il governatore della
Camera Juan Càrdenas a restituire i proventi dell’abbazia di Santa Maria di
Roccadia al vescovo di Visarco, nel caso in cui continui a procrastinare il
pagamento e per questo la parte lesa si rivolga al suo giudizio”.
Barcellona,
31 ottobre 1492
La
regina Isabella ordina al governatore Juan Càrdenas di impedire le continue
vessazioni di Antoni Bret nei confronti del vescovo di Visarco e di mantenere e
fare rispettare le disposizioni reali e pontificie relative al possesso
dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia, senza avanzare alcuna iniziative
personale non autorizzata dalle sue executoriae”.
Barcellona,
31 ottobre 1492
La
regina Isabella ordina al governatore vicerè Fernando Dacuna di impedire le
continue vessazioni di Antoni Bret nei confronti del vescovo di Visarco e di
mantenere e fare rispettare le disposizioni reali e pontificie relative al
possesso dell’abbazia di Santa Maria di Roccadia, senza avanzare alcuna
iniziative personale non autorizzata dalle sue executoriae”.
Madrid,
21 febbraio 1495
La
regina Isabella ordina ai giudici della Magna Curia di verificare se ci siano
altre persone che rivendicano il possesso del monastero di Santa Maria di
Roccadia, verificandone i documenti in possesso, visto che Giovanni Esgalambro
ne ha fatto richiesta sulla base di una lettera apostolica”.
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5.
Le Rendite dell’Abbazia di Roccadia
Il
governatore, probabilmente per fini
economici, riuscì ad intromettersi negli
uffici cittadini, reginali ed anche ecclesiastici. In questi uffici fu protagonista di veri e
propri abusi d’ufficio.
Riuscì
ad intromettersi, grazie alla sua carica giudiziaria, nell’amministrazione e
controllo dell’abbazia di Roccadia. Per
quale motivo esercitò questo controllo in un’abbazia che era in condizioni di
povertà dal Trecento ?
Abbiamo
anche visto come l’abate di Roccadia chiese un prestito all’abate di
Roccamadore Nicola Porretta. Un prestito
che non fu mai restituito tanto che l’abate Porretta fu costretto a chiedere
l’intervento di re Martino . Somma che non gli era stata restituita anche per
l’avvenuta morte prematura dell’abate di Roccadia.
Re
Martino ordinò di restituire il denaro al Perrotta ma anche di soddisfare tutte
le richieste degli altri creditori.
Ci
fu poi il coinvolgimento dell’abbazia
nella rivolta orchestrata da Raimondo Moncada.
Come
mai tanto interesse per un abbazia in disastrose condizioni economiche ?
Probabilmente
la situazione economica di Roccadia era leggermente migliorata considerando che
nessuno avrebbe avuto interesse ad amministrare un bene o a prenderne la
direzione in un mare di debiti.
In
merito alle rendite dell’abbazia si ha qualche informazione in base al
privilegio emanato da Federico II di Svevia il 4 agosto 1224 a Siracusa:
La
località Santa Maria di Roccadia con vigneti, giardini, oliveti, le terre
intorno, pascoli e diritti ad essa pertinenti;
La
grangia di S. Maria di Catarractis, con vigneti girdini, oliveti, le terre
intorno foreste mulini, pascoli e diritti ad essa pertinenti;
La
grangia di Santa Maria di Catarro, con vigneti, giardini, oliveti, le terre
intorno, pascoli e diritti ad essa
pertinenti;
La
grangia di San Pietro, con vigneti, giardini, le terre intorno, pascoli e
diritti ad essa pertinenti;
Il
mulino di San Cosma con i diritti acquiferi a esso pertinenti, a cui nessun
altro avrebbe potuto accedere fino a quando l’abate ed i monaci avessero
detenuto questa licenza;
La
grangia Sandacina, con vigneti, foreste, le terre intorno, pascoli e diritti a
essa pertinenti;
I
tenimenti di terre del monte Fiascone, con foreste, le terre intorno, pascoli e
diritti ad essa pertinenti.
Federico
non solo restituì all’abbazia le terre di cui era stata privata in precedenza
ma la dotò persino di nuovi benefici. L’abbondanza delle concessioni a
Roccadia è il motivo per cui
l’imperatore è considerato, in modo errato, il fondatore.
Il
possesso da parte delle abbazie
cistercensi di terre, come fonti di sostentamento ricavate dal loro
sfruttamento, sembra essere estremamente diffuso nel Regno di Sicilia.
Lo
statuto dell’ordine imponeva ai monaci una
vita basata sul frutto del proprio lavoro agricolo e sui prodotti pastorali.
In
seguito alle lotte con il papato il convento fu saccheggiato ma fu riedificato
da Manfredi nel 1263.
Le
rendite dell’abbazia e la sua reale ricchezza fu studiata da Marcello Moscone
sul registro 1195.3 C dell’Archivio di Stato di Roma.
Si
tratta del rendiconto della Collettoria di Sicilia per gli anni 1456 – 1459, in
cui l’incaricato, l’abate Miquel Isalaguer (collettorio apostolico al tempo di
papa Callisto III), fornì degli strumenti estremamente importanti per la
conoscenza dei beni posseduti dalle diocesi siciliane nel periodo in cui furono
esatte le decime.
Una
parte del manoscritto riferisce le cosiddette “Manifestationes”, le quali non
sono altro che le dichiarazioni di ogni istituto ecclesiastico dell’isola, e
un’altra si occupava della registrazione
delle decime corrisposte.
Sono
inoltre presenti nel testo anche i dati relativi alle somme in sospeso e non
ancora corrisposte e ai benefici concessi grazie alle cifre esatte dal
collettore.
Attraverso l’analisi delle notizie riferite è
possibile determinare la quantità di denaro che l’abbazia di Santa Maria di
Roccadia era tenuta a pagare negli anni 1456 e 1457 e a compararla con il resto
delle diocesi di Siracusa e della Sicilia orientale.
La
rendita dichiarata dall’abbazia oggetto di studio negli anni precedentemente
menzionati è di 48 onze 77, su un valore totale di 1676 onze, 19 tarì e 10
grani per l’intera diocesi di Siracusa (la decima totale che quindi era stata
corrisposta era di 167 onze, 19 tarì e 19 grani) che contava 364
manifestationes, cifra notevolmente alta se comparata agli altri censimenti
dell’isola.
Roccadia
è menzionata con le altre istituzioni ecclesiastica dell’area di Lentini, di
cui risulta essere la più ricca. Seconda per rendita era l’Abbafissa Sancte Clare, che contava solo 16
onze 79, mentre nell’intera diocesi siracusana l’unica abbazia che si
avvicinava a tale somma era l’Abbas Sancte Marie de Arco di Noto ( si contava
una rendita di 60 onze).
Data
la vicinanza delle notizie dal punto di vista cronologico e la comparazione con
altri conventi coevi della medesima diocesi,
sarebbe confermata l’importanza che l’abbazia rivestiva nella Sicilia
orientale e le risorse economiche che possedeva.
Gli
abati della diocesi siracusana erano regolarmente inviati ai sinodi da parte
del vescovo e tra questi figurava quello di Santa Maria di Roccadia, insieme a
quelli di Santa Maria de Arco, Santa Maria di Sambuca e Santa Maria di Terrana,
sebbene spesso risultassero contumaci.
Poche
notizie si hanno in merito alle visite ecclesiastiche che seguirono ai decreti
tridentini.
L’archivio
storico diocesano di Siracusa conserva due documenti che si occupano di Roccadia,
uno risalente al 1565 e l’altro all’anno immediatamente successivo.
Nel
primo il delegato apostolico dopo aver specificato il motivo della visita e
quindi il suo ruolo nei confronti del concilio, ne descrisse l’altare maggiore,
a suo parere adeguatamente ornato e custodito.
Successivamente
apprezzò la qualità del lavoro di edificazione della sagrestia e soprattutto
l’attività svolta dal procuratore dell’abate Ugo Moncada, che si era occupato
della stesura di un accurato inventario dei beni posseduti dal monastero, al
fine di migliorarne la gestione ed il servizio nei confronti di Lentini.
Infine
riferì il nome dei cappellani, dei servientes e del sagrestano e la presenza
dei vari oggetti sacri, edifici chiostri adeguatamente gestiti, senza però
entrare eccessivamente nel merito.
Il
secondo documento è collocabile nel febbraio 1566 e si tratta dell’inventario
di cui il delegato aveva fatto menzione nel resoconto dell’anno precedente.
In
esso sono rintracciabili tutti gli oggetti sacri, le suppellettili, le stoffe
preziose ed altri beni, come campanelle, calici d’argento e purificatori, il
tutto minuziosamente elencato in maniera schematica.
Dall’esame
delle visite regie pare pertanto che l’abbazia di Santa Maria di Roccadia abbia
goduto di una situazione economica abbastanza agiata e che non versasse in una
condizione di disagio e povertà.
Importanti
sono le informazioni relativi al secolo XVI
e XVII.
Alla
fine del seicento Roccadia aveva una rendita corrispondente a circa 804 scudi solo grazie alla grangia di
S. Maria di Catarractis. In particolare il computo, senza considerare le
numerose reliquie sacre significativamente preziose, risulterebbe da una cifra
in attivo di 1779, a cui però bisognava sottrarre un’altra di 966 di oneri ( di
cui 400 erano destinati al mantenimento dei monaci e del culto, alla fabbrica
150 e 416 per le spese restanti).
Altri
dati emergono dalla ricognizione del De Ciocchis nel 1743, che riporta
chiaramente i beni mobili ed immobili posseduti dall’abate, all’epoca Andrea
Filangeri di Palermo, e dai monaci di
Roccadia. In questo censimento sono confermati quei beni di cui l’abbazia era
dotata già nel XIII secolo, ossia la chiesa di S. Maria de Catarractis (oggi
delle Scale) presso Ragusa e di S. Maria
e S. Pietro di Catarro presso Lentini. Queste strutture in realtà non
erano state menzionate chiaramente dal privilegio, ma dai nomi e dalle
ubicazioni appare evidente che si tratta di edificazioni posteriori, avvenute
nei possedimenti di cui avevano beneficiato.
Nel testo sono riportate le reliquie da loro conservate, così come gli
ostensori, gli altari, i confessionali e tutti gli altri ornamenti preziosi e
suppellettili dell’abbazia. I feudi di cui risultava allora in possesso erano
quello di Bisicane, della Piana delli Monaci e della Celsa, rendendo
rispettivamente 264, 232 (più 27 tarì e 10 grani), 130 e 62 onze, per un totale
di 688 onze 27 tarì e 10 grani.
Elenco
più corposo è quello dei tenimenti di terre, tra cui:
tenimentum
terrarum nuncupatum della Mendola in territorio Civitatis Augustae[…]
tenimentum
terrarum dictum la Sgarlata in territorio Leontinorum
tenimentum
terrarum nuncupatum la Sgarlatella in eodem territorio
tenimentum
dictum del Portiero in territorio terrae Belpassi
tenimentum
nuncupatum del Poggio di S. Pietro in territorio civitatis Leontinorum
tenimentum
nuncupatum di Bondifè in territorio Melilli in feudo di Bondifè
tenimentum
dictum la Pancala et
tenimentum
le Chiusicellein in territorio Leontinorum
tenimentum
terrarum nuncupatum di Maglitto in feudo Sancti Michaelis
tenimentum
terrarum nuncupatum della Celsa in territorio Leontinorum
i
quali, sommati, fruttavano di reddito circa 129 onze e 5 tarì.
In
suo possesso risultavano anche vigneti, sei dei quali nel territorio di Lentini
(vigne dell’Abbate, del Fondaco, della Zena, una in contrada dell’Alaimo e due
piccole in contrada Poggio di S. Pietro), il cui reddito totale ammontava a 16
onze e 27 tarì.
Anche
i censi sono stati all’epoca conteggiati durante la ricognizione ed essi
riguardavano soprattutto vigneti, oliveti e chiuse, per una somma di 24 onze e
13 tarì e 16 grani.
Gli
oneri da sottrarre al reddito lordo erano i seguenti.
I
donativi ordinari ammontavano a 100 onze 27 tarì e 19 grani, quelli straordinari
a 44 onze 22 tarì e 10 grani.
Erano
inoltre stanziate per il vitto e i vestiti dei monaci 119 onze, per la fabbrica
20 onze, per l’elemosina ai poveri 8 onze: la cera, l’olio e gli oggetti di
culto costavano circa 15 onze e il mantenimento di torri e ponti 44 onze, 22
tarì e 10 grani.
In
conclusione, a un reddito lordo totale di 853 onze 23 tarì e 23 grani bisognava
sottrarre 310 onze 23 tarì e 19 grani di oneri, per un reddito netto totale di
539 onze 29 grani e 33 tarì, che a metà del settecento rappresentava una somma
ragguardevole per un’abbazia.
Informazione
simile attesta anche Emanuele e Gaetani di Villabianca poco dopo,
nel
dettaglio il testo dice:
L’Abbate
di S. Maria di Roccadia, l’istesso Emanuele Filangeri
e
Gottone, eletto nel 1752. La chiesa di questa badia è nella campagna
del
territorio di Lentini a tre miglia lontana dalla detta Città, ed il suo
Monastero,
che
fu dell’Ordine Cistercense, si crede istituito dall’Abbate
Luca
di Sambucina, che fiorì nei tempi di Re Federigo I, e secondo
Imperadore.
Passò in Commenda nel 1461, e la sua rendita ascende a
2097
scudi tt.II.12 che di netto resta scudi 1356 tt.%.1
Che
ci informa di un onere corrispondente
pari a 741 scudi.
Quindi
nel corso del Seicento e del secolo successivo il convento era in condizioni
economica piuttosto floride. Mentre per i secoli precedenti, al periodo
indagato, la situazione economica non era così fiorente.
6. La Basilica del Murgo (Agnone Bagni –
Siracusa)
In
località Agnone Bagni, non lontano dalla
costa lentinese, sono presenti i resti di un complesso sacro che gli storici,
come il Manriquez, hanno attribuito alla volontà edificatrice di Federico II di
Svevia.
L’imperatore
decise di costruire questo complesso per trasferirvi i monaci Cistercensi da
Roccadia.
L’esistenza del documento di Viterbo, emanato
nel 1220 sembrerebbe confermare la volta dell’Imperatore nel trasferimento
della comunità monastica.
La
critica storica è comunque ancora incerta
su questo trasferimento dalle colline lentinesi alla costa jonica
Le
fabbriche volute dall’imperatore rimasero incomplete , ancora oggi sono
visibili, e sono costituite da un alzato di circa tre metri. I lavori furono
sospesi e abbandonati.
Sarebbe
interessante scoprire le motivazioni che spinsero l’imperatore a sospendere i
lavori di costruzione.
Le
risposte potrebbero essere tante e tutte valide:
-
Un
ostilità crescente nei confronti del papato anche se l’imperatore aveva una sua
influenza sulle strutture ecclesiastiche nell’isola che spesso era indipendente e sovrana sul papato;
-
impegni
politici e militari del sovrano sia in Italia che nelle sue spedizioni verso la
Terrasanta;
-
il
trasferimento delle maestranze impiegate nella costruzione dell’edificio a
Catania e a Siracusa per la costruzione dei castelli che sembrano contemporanei
alla basilica del Murgio in costruzione;
-
probabile
insalubrità del sito a causa della presenza di pantani,
Per
quale motivo Federico II decise di costruire la basilica per trasferirvi i
monaci cistercensi di Santa Maria di Roccadia ?
Federico
II di Svevia voleva creare un presidio per controllare i traffici del commercio
del grano che avevano come approdo Agnone (allora chiamato “Lagnone”) e nello
stesso tempo una residenza in prossimità dei Monti Iblei, territorio ideale per
la caccia, grande passione dell’Imperatore.
In
un documento, riportato da Pisano Baudo nel suo “La città Carleontina” (del
1914), ci cita:
“ si rivela da un documento notato negli annali cistercensi
che il giovane Federico II nel tempo della sua dimora in Catania, nel 1209
venendo sovente ai Pantani (Il Biviere) e nelle vicine boscaglie de Murgo, per
diletto di caccia e passando giorni divertiti nell’emporio di Agnone, intorno a
cui erano molti fabbricati poco distanti dalla spiaggia dal mare, diede proprio in quel luogo alla costruzione
d’un tempio con l’interesse di fondarvi un vasto convento, e trasferirvi i
monaci di Santa Maria di Roccadia. Allontanatosi dalla Sicilia, le incominciate
fabbriche della chiesa furono lasciate incomplete, ed il proponimento della
fondazione del monastero in quel luogo per i monaci di Roccadia non ebbe
attuazione”.
Quello
che rimane della struttura è l’impianto di una grande basilica a tre navate,
con tre absidi quadrate e orientata ad Est-Ovest.
Una
costruzione con una tecnica edilizia molto raffinata con la ricerca della
perfezione che potrebbe essere collegata al Castello di Maniace o al Castello
Ursino di Catania.
I resti sono costituiti da un alzato che sul fianco settentrionale raggiunge
l’altezza di circa 3 metri. La muratura ha uno spessore di circa 2,60 metri ed
è costituita da un nucleo centrale di pezzame e malta con i due paramenti,
esterno ed interno, costituiti da doppia
fila di conci ben squadrati e stilati a chiodo.
I
resti della basilica si possono riassumere in:
-
gli
inizi delle mura spesse circa 2 m ed alte dai 2,5 – 3 metri;
-
le
basi del portine principale;
-
la
decorazione degli absidi quadrati (sull’abside centrale fu costruita una
cappella nel 1707);
-
qualche
capitello;
-
semicolonne
dei costoloni delle crociere delle navate laterali (la basilica era impostata a
tre navate);
-
la
porta ogivale del transetto.
Una
basilica lunga circa 90 metri e larga 22 metri, con tre navate, a croce latina,
la copertura era prevista con volte costolonate.
“
Quel che rimane del prospetto principale è appena sufficiente per dare una
semplice visione d’insieme dell’imponenza dell’impianto: esso si conserva per
l’altezza di nove assise di conci alti in media cm. 35 e larghi sino a m. 1,50.
I filari posseggono un andamento ordinato, sebbene esso risulti ovviamente
interrotto in corrispondenza dell’innesto con quel che rimane del portale,
costituito da conci più alti, nei quali risultano intagliate le decorazioni.
Questo ingresso ha una larghezza di oltre cinque metri e presenta un profilo a
“greca” che ha indotto alcuni studiosi a paragonarlo al portale principale di
Castel Maniace. In realtà pare che le analogie permangano solo per l’ampiezza e
la forma delle basette di colonna. Ultimamente si ritiene che maggiori
corrispondenze si possano, invece, trovare con il portale della basilica
di Maniace, presso Bronte, almeno relativamente alle colonne maggiormente
aggettanti sul filo del muro rispetto a quelle presenti presso il castello
Maniace di Siracusa.
Le
tre navate della chiesa sono suddivise da dodici pilastri centrali e tredici
semi colonne addossate alle pareti interne e realizzate da pile di conci di
altezza compresa tra i 25 e i 40 cm., la cui disposizione e il cui taglio
sembrerebbe ricordare più da vicino la fabbrica del Castello Ursino.
L’area
presbiterale si compone di un transetto rettangolare, sporgente sulle navi per
una misura pari alla profondità delle navate laterali, largo tanto quanto la
navata centrale e profondo in misura simile alla larghezza. Inoltre il muro
nord del transetto presenta un’apertura archiacuta, ancora oggi ben visibile.
Riguardo alle absidi, invece, è possibile osservare un ampio rimaneggiamento
dovuto all’impianto di fabbriche moderne che hanno trasformato soprattutto
l’abside centrale in cappella padronale. A causa di queste radicali
trasformazioni purtroppo rimangono solo pochi metri di alzato relativi
all’ampio arco di trionfo composto da pilastri rientranti ed angoli a quarti di
colonna. La muratura delle tre absidi è formata, all’esterno, da conci regolari
di grandezza inferiore rispetto a quelli osservati nel resto dell’edificio e
solo i cantonali si mostrano rinforzati da conci di grandezza pari a quella
precedentemente analizzata, ad esempio, nel prospetto. Inoltre l’attacco a
terra si offre mediato da uno zoccolo unito alla parete per mezzo di un’unica
cornice composta da una scozia profonda compresa da due tori.
I
recenti studi hanno analizzato con maggiore dovizia i moduli costruttivi
utilizzati per erigere la basilica del Murgo. L’unità di base utilizzata è,
pare, la misura di cm. 32.54, in sostanza il piede delle misure arabe
canoniche. La profondità complessiva dell’impianto è pari a 254 moduli più uno
legato alla base esterna della colonna del portale principale, per un
complessivo totale di 255 moduli. I rilievi in pianta hanno inoltre evidenziato
che il transetto è la metà esatta della lunghezza totale dell’edificio, tolto
lo spessore murario delle absidi. La nave, inoltre, possiede un’ampiezza pari
ad n terzo della lunghezza totale, similmente al lato breve de transetto. Le
due navate laterali contano 17 moduli, quella centrale 35.
Da
una simile analisi, secondo alcuni studiosi è possibile evincere una
metodologia costruttiva che non preveda prima il completamento delle absidi e
del transetto, ma, la realizzazione del corpo di fabbrica sembrerebbe procedere
dall’esterno verso l’interno, cioè attraverso l’edificazione prima delle navate
laterali e delle absidi, successivamente della navata centrale e del transetto.
Tecnica simile sembra osservarsi pure nell’edificazione di Castel Maniace a
Siracusa e Castello Ursino a Catania, con il quale sembrerebbero risaltare
alcune similitudini relativamente alla tessitura muraria dell’interno e, come
precedentemente accennato, alla modalità di realizzazione delle semi colonne.
Forse sulla base di queste semplici osservazioni si potrebbe dire che la
basilica incompiuta di Agnone Bagni sia da porre in un arco cronologico
compreso tra i due citati castelli, forse in un periodo più vicino alla
realizzazione del castello catanese”. (Prof. Antonio Randazzo)
Per
certi versi la basilica del Murgo rimane un “unicum” edilizio che per alcuni
versi unisce la Sicilia alle tecniche edilizie continentali. L’utilizzo di
absidi quadrate, ad esempio, per quanto non sia del tutto avulso dalla cultura
isolana, certamente non è diffusissimo fra le superstiti chiese
cronologicamente più o meno coeve. Anche le altre caratteristiche edilizie
osservate spingono a immaginare l’immissione in suolo siciliano di maestranze
provenienti dal continente e opportunamente inserite nel tessuto sociale e
artistico dell’isola per volontà di Federico II. Che queste maestranze, almeno
quelle adibite alla direzione dell’opera, fossero di origine cistercense rimane
l’ipotesi più credibile, sebbene probabilmente l’apporto di manodopera locale
fosse quantitativamente non indifferente, vista anche l’ampiezza progettuale
rimasta purtroppo solo nella mente dei realizzatori.
Una
costruzione in forma gotica che doveva essere analoga a quelle che gli stessi monaci
cistercensi avevano elevato nel XII secolo in Borgogna, loro terra d’origine, e
nell’Italia Meridionale dove alcuni monaci si erano trasferiti (o furono
trasferiti) agli inizi del 1200.
In
occasione dell’ottavo centenario della nascita di Federico II di Svevia, si
tenne a Siracusa un convegno e il Soprintendente ai monumenti di Siracusa, il
prof. Giuseppe Voza dichiarò:
"... La Basilica del Murgo è un punto
di riferimento eccezionale del quale non si può' non tener conto. Purtroppo è
sconosciuta a tutti e devo dire in parte anche a noi, che cogliendo l'occasione
del convegno su Federico II abbiamo potuto fare il punto della situazione.
C'è innanzitutto l'esigenza di superare un ostacolo: la
basilica è sottoposta a vincolo, ma è in mano a privati... Dopo
l'espropriazione abbiamo intenzione di procedere, continua Voza, alle
esplorazioni per capire intorno a quale polo costruttivo si aggrega la
basilica. Certamente non era un fatto isolato, anzi doveva rappresentare un
punto di riferimento sostanziale nella strategia di Federico II. Vogliamo farci
arrivare la gente e per questa ragione il sito non verrà abbandonato... ".
Il giornalista Silvio Breci nel “Cammino” del 5
novembre 1994 scriveva:
"...
a poche decine di metri dall'arenile di Agnone vi sono quelle che furono le
fondamenta della Basilica del Murgo. Una basilica che, se fosse stata
realizzata per intero, sarebbe apparsa tanto possente, quanto era la figura
caratteriale di Federico II figlio di Enrico VI e di Costanza di Altavilla, re
di Sicilia...".
Oggi quelli che sono solamente dei poveri ruderi di quella costruzione
religiosa che agli occhi del re doveva apparire grandiosa dovrebbero
rappresentare il centro di forti interessi storici e culturali, al fine di
inserire Agnone Bagni negli itinerari turistici.
Il
prof. Guido Di Stefano, nel libro “Architettura Siciliana nel secolo XIII” in
merito della Basilica del Murgo,
affermò:
"... chiesa con pianta tipicamente
cistercense, e ciòè basilicale con transetto e con absidi rettilinee; questo
rarissimo esempio di un interessamento dell'imperatore per una costruzione
religiosa, costituisce un vero caposaldo per la storia dell'arte sveva..".
Presente
anche la voce del Comune di Lentini che nella deliberazione della giunta
municipale n. 3 del 17 gennaio 1990 si riferiva che:
"... nell'anno 1224 Federico II
ordina di edificare a Lentini, nei pressi di Agnone, la Basilica dei Murgo. .
La grande basilica del Murgo non venne mai portata a compimento, ma fu l'unico
esempio in Sicilia di architettura sacra sveva...". Ma chi conosce la
Basilica del Murgo? E pensare che si trova due-trecento metri dietro la pizzeria
del Triangolo!”
Dopo il
convegno su Federico II il giornalista Massimo Ciccarello nel giornale
“Prospettive – Siracusa 1994”, scrisse in merito alla Basilica del Murgio:.
"... inglobato fra le mura di una
masseria, ad Agnone Bagni si trova uno dei più importanti beni culturali del
territorio augustano.
Si
tratta di quello che gli studiosi ritengono concordemente l'unica chiesa
fondata dall'imperatore svevo. Eppure su questo manufatto, unico nel suo
genere, fino a pochi mesi fa non esisteva alcun vincolo, o meglio, il
provvedimento della Soprintendenza non era mai stato riportato sui registri
immobiliari. L'obbligo di tutela dell'antica abbazia risaliva agli anni
quaranta ma la sua efficacia giuridica è rimasta praticamente nulla per difetto
di trascrizione. Solo quando sono iniziati gli studi sull'antico monastero,
finanziati dalla regione siciliana... la "svista" è saltata fuori.
Alla
sovrintendenza sono corsi immediatamente ai ripari.... il vincolo monumentale è
stato rinotificato ai nuovi proprietari della fattoria, e trascritto
regolarmente sui registri immobiliari. Fortunatamente, secondo ì rilievi dei
ricercatori, nel corso di questi ultimi decenni nessun intervento distruttivo
ha toccato le mura della basilica.
Mentre
tutt'intorno è cresciuta in maniera selvaggia una giungla di costruzioni..., il
rigoglioso aranceto che circonda il Romitorio ha "protetto" la
chiesa. Solo negli anni Sessanta una nuova costruzione è andata in parte ad
"appoggiarsi" sull'antica struttura muraria. Ma non ha intaccato seriamente
quanto resta di ciò che gli architetti normanni avevano edificato.
Tuttavia,
l'impressione di degrado è pesante. Sparita già da secoli quella di destra, la
cappella che chiude a sinistra il transetto è ora trasformata in deposito di
fieno. Sull'abside centrale, nel 1707 venne costruita una chiesetta (vedi
particolare). Il tempio, che conserva intatte le eleganti colonnine della
costruzione originaria, attualmente viene usato come deposito di attrezzi
agricoli.
Avviandosi
a conclusione i rilievi degli architetti incaricati dalla Soprintendenza, si apre
il problema del recupero e della valorizzazione del monumento. Che si tratti di
un'opera eccezionale, da inserire a pieno titolo nell'elenco dei percorsi
turistici come "da visitare", è fuori dubbio. Lo testimonia il fatto
che il convegno internazionale di studi federiciani ha fatto tappa al Murgo.
"Per
intervenire sulla basilica - ha spiegato il sovrintendente ai beni culturali di
Síracusa, Giuseppe Voza, nel corso di una conferenza stampa, occorre prima
acquisire l'intera area. Non si tratta solo di espropriare il perimetro della
chiesa, ma di includere nei beni demaniali tutto il giardino. La zona. però,
nel piano regolatore dì Augusta è classificata come "urbana". Questo
significa che l'esproprio può avvenire solo grazie a finanziamenti cospicui.
Difficilmente, quindi per la Chiesa del Murgo si potrà parlare di restauro in
tempi brevi... Fra l'altro, essendo una proprietà privata, la chiesa è
interdetta alle visite. Eppure è un monumento di profonda suggestione e
importanza storica...".
Per
molti che leggeranno sarà una grande scoperta, che sa quasi di miracolo, sapere
che Agnone è sede di una delle più importanti opere dell'architettura sveva,
rimasta per anni sconosciuta ai più, compresi gli studiosi...Reclamiamo anche
qui e con più forza, la restituzione alla cultura nazionale e internazionale di
tale monumento e la possibilità, quindi, per gli "agnonesi" di
riappropriarsi della loro (questa si!) storia”.
Facendo delle ricerche su Internet…”per copiare come dice uno
storico mafioso” .. ho trovato una pagina, “La Civetta di Minerva” (Premio
Nazionale di Giornalismo Mario Francese 2012), del 21 luglio 2020, che
riportava il seguente titolo:
Tra i tesori sequestrati ai
fratelli Leonardi (Sicula Trasporti) anche la sveva Basilica del Murgo (Agnone
Bagni): sconosciuta ai più, ignorata da chi dovrebbe tutelarla e valorizzarla
L’Articolo…
è sorprendente..
Tra
i tesori sequestrati ai primi di giugno ai fratelli Nino e Salvatore Leonardi, ras dei
rifiuti, non ci sono solo bidoni, nascosti sottoterra, pieni di contanti (un
milione di euro in mazzette).
Tra i beni immobili per un valore di circa centodieci milioni di euro, ce n’è
uno che preoccupa particolarmente i cultori delle nostre bellezze
storiche: la Basilica del Murgo, ad
Agnone Bagni, a pochi metri dal mare, sconosciuta ai più,
ignorata da chi dovrebbe tutelarla e valorizzarla.
È
uno dei monumenti federiciani che raccontano la nostra storia del XIII secolo,
un “unicum” sia per alcuni aspetti della tecnica edilizia sia perché è il solo
esempio di architettura sacra voluta dall’imperatore Federico II che pare
avesse chiamato per la sua realizzazione maestranze cistercensi del continente.
La pianta della basilica, “un vero caposaldo per la storia
dell’arte sveva” ha scritto Guido Di Stefano in L’Architettura
religiosa in Sicilia nel sec. XIII, come nelle abbazie dei monaci di Cîteaux in
Borgogna, presenta un transetto rettangolare – e arco a sesto acuto a nord
(ancora oggi ben visibile) – e absidi rettilinee.
Quel
che rimane del prospetto principale, con il portale in stile romanico, largo
oltre cinque metri e costituito da conci più alti rispetto alle colonne, nei
quali risultano intagliate le decorazioni, simile a quello di altre costruzioni
del periodo, dà un’idea di quanto sarebbe stata imponente la costruzione se
fosse stata terminata. Ignoto il motivo dell’abbandono: forse dovuto
all’ostilità del papato verso l’ “anticristo” Federico, o alla partenza
dell’imperatore per la Terrasanta, o ancora per esigenze militari che
richiedevano operai da assegnare alla costruzione del Castello Maniace.
La
basilica – a tre navate, suddivise da dodici pilastri centrali e tredici semi
colonne a fusto liscio addossate alle pareti interne – già nel 700 sarebbe
stata inglobata in una masseria feudale.
“Fortunatamente,
secondo i rilievi dei ricercatori – leggiamo in un articolo di Massimo Ciccarello su Prospettive SR, riportato in
quello scrigno di preziose informazioni che è il sito di Antonio Randazzo, da cui abbiamo tratto
anche alcune foto, e che quindi ringraziamo – nel corso di questi ultimi
decenni nessun intervento distruttivo ha toccato le mura della basilica. Mentre
tutt’intorno è cresciuta in maniera selvaggia una giungla di costruzioni…, il
rigoglioso aranceto che circonda il Romitorio ha “protetto” la chiesa. Solo
negli anni Sessanta una nuova costruzione è andata in parte ad “appoggiarsi”
sull’antica struttura muraria. Ma non ha intaccato seriamente quanto resta di
ciò che gli architetti normanni (svevi, ndr) avevano edificato. Tuttavia,
l’impressione di degrado è pesante. Sparita già da secoli quella di destra, la
cappella che chiude a sinistra il transetto è ora trasformata in deposito di
fieno. Sull’abside centrale nel 1707 venne costruita una chiesetta. Il tempio,
che conserva intatte le eleganti colonnine della costruzione originaria,
attualmente viene usato come deposito di attrezzi agricoli”.
“Prima
della mostra su Federico II che
abbiamo voluto organizzare come Soprintendenza nel 1994,
in occasione dell’ottavo centenario della nascita dell’imperatore – ricorda l’architetto Francesco Santalucia – pochissimi
avevano visitato la Basilica, tra questi lo storico dell’arte Cesare Brandi
accompagnato dal professore Vladimir Zoric. Io stesso, in preparazione della
visita nell’ambito del convegno itinerante su Federico II, ottenni un colloquio
con il proprietario che era già Leonardi: la basilica venne messa a
disposizione; il terreno all’interno del perimetro murario perfettamente
pulito; preparato un rinfresco che fu assai gradito dai circa 60 storici che
mai avevano visto la fabbrica e non sapevano nemmeno dove fosse e se esistesse
ancora.
Leonardi affermò di avere acquistato la fabbrica con la Casena annessa e alcuni
ettari di agrumeto dalla famiglia dei proprietari della vini Murgo dell’Etna.
Gli si fece notare che la amministrazione statale avrebbe dovuto essere
informata della transazione per esercitare il diritto di prelazione essendo la
fabbrica e tutto il complesso edilizio sottoposto a vincolo come monumento
nazionale. Leonardi in tutta risposta offrì di rivendere il tutto alla Regione
per quattro miliardi, comprendendo Casena e aranceto.
Il cambio del direttore generale al dipartimento portò all’oblio la cosa.
Ovviamente se reato vi fosse stato, era già ampiamente estinto ma la Regione
avrebbe potuto ugualmente esercitare la prelazione al prezzo della vendita. Ma,
come è comprensibile, nonostante le nostre insistenze, la questione non fu più
affrontata. Leonardi si dimostrò un “perfetto gentiluomo d’altri tempi” … Ma la
casa in cui abitava, in una traversa poco dopo quella che porta alla spiaggia
di Agnone, passando sul fianco destro del canale di scolo, era dotata di mura
in cemento armato e cancelli in ferro… Il luogo era visibilissimo dalla SS 114
ma nessuno lo aveva individuato e io lo trovai grazie a Zoric. Il prospetto
rivolto ad ovest è visibile. L’interno della fabbrica interrotta penso sia
recintato”.
E
sempre nel 1994, nel corso di una conferenza stampa, l’allora
sovrintendente Giuseppe Voza affermò:
“La Basilica del Murgo è un punto di riferimento eccezionale del quale non si
può non tener conto. Purtroppo è sconosciuta a tutti e devo dire in parte anche
a noi, che cogliendo l’occasione del convegno su Federico II abbiamo potuto
fare il punto della situazione. C’è innanzitutto l’esigenza di superare un
ostacolo: la basilica è sottoposta a vincolo, ma è in mano a privati e per
intervenire su di essa occorrerebbe prima acquisire l’intera area. Non si
tratta solo di espropriare il perimetro della chiesa, ma di includere nei beni
demaniali tutto il giardino. La zona, però, nel piano regolatore dì Augusta, è
classificata come “urbana”. Questo significa che l’esproprio può avvenire solo
grazie a finanziamenti cospicui. Difficilmente, quindi per la Chiesa del Murgo
si potrà parlare di restauro in tempi brevi. Fra l’altro, essendo una proprietà
privata, la chiesa è interdetta alle visite. Eppure è un monumento di profonda suggestione e importanza storica.
Dopo l’espropriazione l’intenzione sarebbe di procedere alle esplorazioni per
capire intorno a quale polo costruttivo si aggrega la basilica. Certamente non
era un fatto isolato, anzi doveva rappresentare un punto di riferimento
sostanziale nella strategia di Federico II. Vogliamo farci arrivare la gente e
per questa ragione il sito non verrà abbandonato…” concludeva Voza con una
promessa poi non mantenuta.
In
realtà sulla sussistenza del vincolo
regna ancora non poca confusione.
Secondo Massimo Ciccarello, sebbene l’obbligo di tutela dell’antica abbazia
risalisse agli anni quaranta, il provvedimento della Soprintendenza non era
stato riportato sui registri immobiliari e quindi la sua efficacia giuridica
era rimasta praticamente nulla per difetto di trascrizione. Solo a seguito
degli studi finanziati dalla regione siciliana si era scoperto l’errore e si
sarebbe corso ai ripari: “il vincolo monumentale è stato rinotificato ai nuovi
proprietari della fattoria e trascritto regolarmente sui registri immobiliari”
scrive.
Ma
è davvero così? La nostra richiesta alla Sovrintendenza in
merito, e anche per sapere quali siano le intenzioni dell’Ente di tutela ora
che la Basilica, che dovrebbe essere tra i beni sequestrati, rischia di essere
lasciata ad ulteriore degrado, non ha avuto alcun riscontro forse proprio per
la difficoltà di reperire tutte le informazioni necessarie o chissà per
cos’altro.
Eppure
è assolutamente necessario tornare a indagare sulle attuali condizioni della
proprietà nonché interrogarsi subito su quali possano essere le conseguenze del
sequestro sul bene senza le opportune garanzie di tutela, vigilanza e
manutenzione.
Le conseguenze potrebbero essere disastrose ma
per una volta la responsabilità certa.
Il
quotidiano “La Repubblica” del 4 giugno 2020 riportava la clamorosa notizie per
la verità non sorprendente perché era evidente agli occhi di tutti la
situazione…
Travolta la Sicula
Trasporti a Lentini, colosso dei rifiuti. In carcere il patron Antonello
"Nino" Leonardi e ai domiciliari il fratello Salvatore. La famiglia è
anche proprietaria di una squadra di calcio. Pressioni del clan Nardo per
ottenere la gestione di un chiosco
di NATALE BRUNO
04
giugno 2020
Temevano
la concorrenza e per evitare di perdere i ‘clienti’, gli oltre 200 comuni della
Sicilia, ‘abbancavano’ rifiuti nella discarica di contrada San Giorgio e nelle
vasche di accumulo a Lentini, senza differenziare alcunché, mescolando con
conseguente inquinamento ambientale, rifiuti solidi urbani con pezzi
ingombranti, frigoriferi, materassi, pneumatici, e persino con l’umido che
creava percolato e nubi tossiche. Un anno e passa di indagini della Guardia di
finanza sono bastate per capire la gestione insana della discarica della
famiglia Leonardi tramite la società Sicula Trasporti, considerato un colosso
nella gestione dei rifiuti: novanta milioni di fatturato l’anno, 120
dipendenti, e un impero accumulato di oltre 110 milioni finiti sotto sequestro.
Scoperto anche un milione in contante sotterrato in dei fusti di plastica a due
passi dall’ingresso degli uffici della discarica.
In carcere sono finiti Nino Leonardi 57 anni, noto come “Antonello”,
amministratore di fatto della “Sicula Trasporti srl” e della “Gesac srl” nonché
amministratore di diritto della “Sicula Compost srl”. Domiciliari per suo
fratello Salvatore Leonardi di 47 anni. Sottoposti alle misure cumulative
cautelari dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e di dimora
Pietro Francesco Nicotra 36 anni, quale responsabile dell’impianto di
compostaggio di Grotte San Giorgio a Catania dal quale provenivano anche parte
dei rifiuti poi conferiti illecitamente in discarica e Francesco Zappalà 52
anni, responsabile dell’impianto di trattamento meccanico biologico. Obbligo di
presentazione alla polizia giudiziaria e di dimora per i fratelli Francesco 49
anni e Nicola Guercio 59 anni nella loro qualità di amministratori di diritto e
di fatto della “Edile Sud srl”. Tra i pubblici ufficiali appartenenti ad organi
amministrativi pubblici di controllo, agli arresti domiciliari, sono finiti:
Vincenzo Liuzzo 57 anni , pubblico ufficiale corrotto, quale dirigente di unità
operativa semplice dell’Arpa Sicilia (sede territoriale Siracusa), addetto ai
controlli e monitoraggi ambientali. Era in busta paga della Sicula Trasporti
che gli consegnava 5 mila euro ogni venti del mese. In cambio chiudeva tutti e
due gli occhi sulle irregolarità della discarica. E poi Salvatore Pecora 63
anni quale incaricato di pubblico servizio, istruttore tecnico impiegato presso
il Libero Consorzio Comunale di Siracusa addetto al controllo sulla gestione
dei rifiuti: informava i gestori della discarica dei controlli che sarebbero
stati effettuati . Custodia cautelare in carcere, invece, per Filadelfo
Amarindo, detto “Delfo”,68 anni, quale dipendente della “Sicula trasporti”,
punto di contatto con il clan Nardo: era lui che teneva buoni Angelo Randazzo e
Alfio Sanbasile con regalie varie a colpi di 5 mila euro. Il denaro era versato
per ripagare il clan dall’esclusione della gestione del chiosco nell’impianto
sportivo di Lentini sede della Sicula Leonzio.
Il
Procuratore. Durissimo con la classe politica siciliana è stato il procuratore
di Catania Carmelo Zuccaro: “L’indagine ha fatto emergere un fenomeno criminale
particolarmente complesso e grave. Che devo dire è quasi scolastico. Abbiamo
una politica regionale decennale che è sicuramente criminogena perché non
consentendo di ridurre la quantità di rifiuti che vengono conferiti in
discarica e consentendo ad imprenditori senza scrupoli di potere lucrare grosse
somme di denaro violando le norme che tutelano l’ambiente, ingenera quasi a
livello di selezione naturale una classe di imprenditori che si propone, per
svolgere questa attività di servizio, sapendo che se vengono violate
determinate regole possono ricavare quantità di denaro esorbitanti. Denaro che
poi servirà per corrompere pubblici funzionari che dovrebbero controllare la
regolarità del servizio di trattamento e smaltimento di rifiuti. E’ lo stesso
sistema politico che produce questo sistema di grave fenomeno
criminale...”. “Imprenditori senza scrupoli che inquinano le falde
acquifere, il sottosuolo, producono danni atmosferici perché sanno che da
questo possono ricavare grossi guadagni e il modo più plastico di considerare
quale è l’illiceità di questi profitti è data dal fatto che grosse somme di
denaro sono state trovare sottoterra. Questo ci dà l’idea di quanto fosse
corrotto questo sistema e come gli imprenditori fossero dei veri propri
sciacalli e fosse cher sulla salute delle persone, corrompendo i funzionari,
erano disposti a speculare”.
I sequestri. Le imprese sottoposte a sequestro sono:
la “Sicula Trasporti spa” con sede a Catania, (Contrada San
Giorgio), impianto di trattamento meccanico biologico (T.M.B.) e vasche di
abbancamento nel confinante comune di Lentini (Siracusa), 120 i dipendenti; la
“Sicula Compost srl (Contrada San Giorgio), che svolge attività di “produzione di compost” ovvero produzione di
fertilizzanti agricoli derivanti dall’utilizzazione e trasformazione di scarti
vegetali e agroalimentari (20 dipendenti) e fatturato di 3,6 milioni di euro;
“Gesac srl”, Contrada Coda Volpe, gestisce l’estrazione di pomice e di altri
minerali; la società, inserita nella filiera della lavorazione del R.S.U.,
forniva il materiale pietroso da cospargere (obbligatoriamente per legge) sulla
“parte secca” del rifiuto, abbancato nelle vasche della discarica, fatturato
annuo medio di circa 2 milioni di euro e ha oltre 20 dipendenti. Non
destinataria della misura del sequestro preventivo ma persona giuridica
indagata ai sensi del citato D.Lgs.n.231/2001 per la quale pende la richiesta
di nomina di un commissario giudiziale è la: “Edile sud srl”, con sede a a
Scordia. Ulteriori misure cautelari reali eseguite dai Finanzieri etnei sono il
sequestro preventivo di oltre 6 milioni di euro.
Lasciamo
da parte la cronaca giudiziaria che purtroppo evidenzia come l’ambiente sia
oggetto di illeciti che solo qualche magistrato o procura eccellente è in grado
di mascherare e riprendiamo la parte storica per capire quale sia stata la
storia del feudo Murgo sino ai nostri giorni. Una storia con un gran numero
d’investiture che testimonierebbero l’importanza del feudo
La
Storia del Feudo Murgo
La
prima famiglia ad avere il possesso del feudo fu la famiglia Fimetta di origine
normanne e residente a Lentini. Un Ruggero Fimetta era stata esiliato
dall’imperatore Federico II e ritornò in Sicilia il 21 agosto del 1255 quando
il papa Alessandro IV gli concesse di castelli di Modica, Palazzolo, Scicli e
Vizzini.. “castra che rendevano 200 onze l’anno ed erano appartenuti fino ad
allora a Matteo de Magistro”.
Fu
espulso dal regno di Manfredi nel 1258 e non tornò in Sicilia”.
Molto
legato al papa. Quindi di fede guelfa, risulta morto già nel 1270.
La
sorella di Ruggero Fimetta, Aloisia Fimetta, nel 1270 possedeva in feudo
i casali di Fiumefreddo, Militello, Scordia Soprana, Bulfida col “tenimentum ianuense” (che era stata
confiscata da Federico II), Murgo oltre
a beni allodiali”.
Aloisia
Fimetta fece poi testamento in favore del nipote Simone Fimetta di
Calatafimi.
Aloisia
nel testamento ricordò come i suoi beni venivano “ex antiquo patrimonio et
antiqua successione parentum et predecessorum suorum”.
Simone
Fimetta, conosciuto come Simone da Calatafimi, era figlio di Gerardo di
Calatafimi, fratello di Ruggero Fimetta, che aveva sposato la figlia del
castellano di Calatafimi, Roberto de Ariano e ne aveva ereditato la carica.
Il
5 gennaio 1281 Simone Fimetta, con testamento nominò come suoi eredi i
nipoti figli della sorella Aloisia e di Pierino di Malta::
-
Guglielmo
ricevette il feudo di Bulfida (riservando i diritti vita natural durante alla
zia Aloisia) e i casali di Militello e Fiumefreddo (di cui si trattenne
l’usufrutto) (Fiumefreddo dovrebbe essere una contrada posta alla periferia di
Scordia e se non ricordo male vicino alla Stazione di Ferroviaria di
Palagonia);
-
Lo
stesso Guglielmo e il fratello Ruggero (di Malta) ricevettero gli
altri feudi tra cui il “casale” di Murgio.
Il
26 gennaio 1283 Re Pietro dispose l’arresto di Simone Fimetta di Calatafimi che
era coinvolto nella cospirazione antiaragonese di Gualtiero di Caltagirone.
Successivamente il Fimetta fu perdonato dal sovrano ottenendo il reintegro dei
beni che gli erano stati confiscati nella Val di Noto. Alle fine fu decapitato
alla fine del 1284. La famiglia da sempre si era sempre mantenuta fedele al
papa dimostrando sempre la sua matrice guelfa.
Contrariamente
alle disposizione testamentarie di Simone Fimetta, i beni passarono a sua
sorella Aloisia che con testamento dell’11 settembre 1284 stabilì la seguente
assegnazione;
-
A
Guglielmo di Malta i casali di Bulfida e Murgio;
-
A
Roberto di Malta (fratello minore di Guglielmo), il casale di Scordia
Superiore;
-
A
Giovanni Fimetta, cugino di Aloisia, il casale di Militello..” dopo però che
per 5 anni i redditi fossero percepiti da Alaimo da Lentini”;
-
Allo
stesso Giovanni Fimetta e “al di lui fratello” Goffredo Fimetta il
casale di Fiumefreddo.
Tra
il 1300 ed il 1308 Lukina di Malta
(contessa di Malta, d’origini catalane e figlia di Guglielmo e di Chiara
da Rocka) sposò Guglielmo Raimondo I Moncada.
Portò
in dote le isole d Malta e Gozo; i casali di Bufida, Scordia Soprana, Gilerno (Galermo in territorio di Lentini) e Murgo.
Malta
e Gozo, su richiesta della corona (Federico III d’Aragona) furono rese alla
Curia in cambio della castellania della Terra di Augusta con i relativi
redditi, del castello e della terra di Altavilla, il casale di Melilli e il
reddito di 100 onze annue sui proventi dell’assisa della baiulazione di
Caltagirone.
Il
figlio Guglielmo Raimondo II Moncada sposò Margherita Sclafani da cui il figlio
primogenito Guglielmo Moncada che ricevette per donazione il feudo di Murgo il
4 febbraio 1344. Una donazione effettuata con il consenso dell’altro figlio
Matteo e con relativo usufrutto del feudo alla madre Margherita.
Guglielmo
Raimondo III Moncada ( figlio di Guglielmo Moncada e di Giovanna de Peralta) si
ribellò a re Martino I (Il Giovane) nel gennaio 1387. Il sovrano con decreti
del 16 novembre 1397 gli confiscò tutti i beni che furono concessi a diverse
persone.
Il
feudo “lu Murgo” fu concesso quindi a Giovanni di Partenione.
Il
feudo fu successivamente assegnato a Blasco Scammacca, “catanese, fu fisico di re Martino e
protomedico del Regno di Sicilia nell’anno 1403 e, per i servizi prestati a re Martino il giovine, alla regina
Maria e a re Martino il vecchio, ottenne con privilegio dato a 8 settembre 1409
la concessione del feudo Murgo….”.
“Nobile antica
famiglia alemanna, oriunda dell’Alsazia, ove possedeva
sotto Carlo Magno
molti castelli. Il Mugnos, appoggiato al Paradin, riporta
per primo ceppo un
Blascone Scanimac, valoroso cavaliere, che
che nella
spedizione contro i Mori di Spagna l'anno 755 ne uccise 200 di propria mano;
perlocchè quei barbari atterriti lo dissero scanimac, vale a dire terribile
uccisore.
Ebbe quindici
figli maschi, che si diffusero in varie contrade di Europa; un ramo rimase in
Aragona, da dove per un Blasco S. si trapiantò in Sicilia, propriamente in
Lentini fu fisico di re Martino e protomedico del Regno nel 1403 e per i
servizi prestati a re Martino il giovine, alla regina Maria e a re Martino il
vecchio, ottenne, con privilegio dell'8 settembre 1409, la concessione del
feudo Murgo e caricatore d'Agnone,
Nel
“Protonotaro della Camera Reginale” relativo agli anni 1452 – 1819
Nei Processi
d’Investitura
25)
Feudi di Murgo con il caricatore d’Agnone e Arbiato (Lentini) a Matteo Scammacca …. (anno) 1597/16;
39)
Feudi di Murgo, Arbiato e Caricatore di Agnone…. 1600/5
66)
Feudo di Murgo, Arbiato e Caricatore di
Agnone a Biagio Scammacca ..1602/25
273)
Baronia del Feudo di Murgo e Arbiato e caricatore di Agnone a Matteo
……Scammacca e Amezeva…1666/16
335)
Feudi di Murgo e Arbiato a Giuseppe Scammacca e Gravina …1680/40
416)
Feudo Arbiato e Murgo e caricatore dell’Agnone a Raffaela Buglio e Scammacca
…….1717/27
470)
Baronia e Feudi Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone e Mario Buglio e
Scammacca e Minafria …. 1739/10
479)
Feudi Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone a Emanuele Buglio e Platamone
1745/ 18
567)
Feudi e Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone a Francesco Ferdinando
Gravina 1775/18
655)
Feudi e Arbiato e Murgio con caricatore di Agnone a Salvatore Gravina e Cottone
1804/19
659)
Feudi Arbiato e Murgo col caricatore di Agnone a Francesco Paolo Ferdinando
Gravina e Gravina …. 1806/27
I
Leonardi, come abbiamo visto attuali proprietari del fondo dove si trova la
basilica sveva, acquistarono la proprietà dagli Scammacca del Murgo proprietari
della Tenuta San Michele dove vengono prodotti vini Doc dell’Etna.
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Collegamento:
L’Ordine Cistercense in Sicilia.
L’Ordine Cistercense in Sicilia.
Tra i pochi resti non rispettati…una pagina di Storia scritta anche dai Templari…
Dimenticata..
Abbazia di Vallebona - Badiavecchia – Novara di Sicilia
Abbazia di Santa Maria di Spanò
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