Le Filande a Catania, Messina e Villa S. Giovanni
1 – I Filatoi a Catania ; Maestri tessitori della Colonia Reale di San Leucio (Caserta)
2 - Alcuni Borghi della Seta
3 - I Fratelli Eaton di Fiskerton a Messina
4 – Le Filande a Villa San Giovanni; Una Filanda diventò successivamente una famosa
fabbrica di pipe
.........................................
1. I Filatoi
a Catania
Il principe aveva la “Signoria dell’Ufficio di Maestro Notaro della Curia Capitaniale di Catania”.
(Il titolo di Principi di Manganelli era stato ottenuto da un ramo della famiglia Paternò grazie alla ricchezza economica ottenuta da Alvaro Paternò che possedeva una florida attività nel settore della filatura della seta. Il “manganello” era infatti uno strumento utilizzato per filare la seta. Dopo aver immesso i bozzoli in acqua calda per uccidere la crisalide, si passava alla fase successiva che consisteva nel battere i bozzoli con un bastone, il “manganello”, per allargare il filo ed acconciarlo in matasse oppure dall’uso del grande “mangano” che serviva ad estrarre e lavorare la seta). L’utilizzo del mangano da parte della famiglia Paternò fu gratificato da re Filippo IV che assegnò loro il predicato nobiliare “di Principi dei li Manganelli” che col tempo divenne “Principi di Manganelli”. A quanto sembra i Paternò avevano una lunga tradizione serica nel casale di Monasterium Album, distrutto dalla lava del 1669. e successivamente ricostruito. In molte case all’interno del tessuto urbano, vi era la presenza di alberi di gelso e di botteghe per la lavorazione della seta. Botteghe che si trovavano in una determinate zona del paese che diede origine al quartiere detto “de’ Manganeddi” per la presenza dei “mangani”).
Il suo discorso introduttivo …..
Io quindi chiamato dal posto che occupo ad apprestarvi gli elementi, e le conoscenze, su cui debbono poggiare i vostri importanti lavori, vi darò conto dell’amministrazione del Valle, vi presenterò un abbozzo del suo stato attuale, secondo le osservazioni che ho fatte nel brevissimo tempo,……..”
I manufatturieri sono pochi in proporzione delle domande, e mancano piuttosto le braccia, che il consumo. Ma ciò che veramente presenta un lieto spettacolo, si è il vedere quasi un quinto della nostra popolazione occupata nelle manifatture di cotone. Quattro mila telaj all’incirca sono oggi in attività presso noi. Qual fonte inesausta non son essi di comune prosperità, ed opulenza ! Ma il cotone, ch’è ormai divenuto una nostra indigena derrata, che l’estero strappa a vil prezzo delle mani del nostro agricoltore, passato poi per le filande ci vien da lui restituito a prezzi immoderati.
Per lo che le nostre manifatture soffrono il valore della materia grezza, più il profitto della filanda, ed i guadagni dell’estero trafficante, più le spese di trasporti, e di dogane, più le altre per portarle a compimento.
Diversi progetti si sono fatti per metterci in proprietà di una macchina filatrice. Con essa noi non pagheremo più all’estere nazioni un tributo, e le nostre manifatture di cotone sarebbero più estese, più perfezionate, e più capaci di andare in concorrenza con le straniere. Io spero di venire a capo di questo proponimento colla sollecitudine che potrò maggiore. Né ometter deggio le altre manifatture rilevanti, che fioriscono in Aci Reale, quali sono appunto quelle delle tele damascate, de’ lavori di piombo, di majolica grossolana, di cordame, e simili.
Svincolato dai ceppi de’ privilegi esclusivi, delle privative comunali, e dalle dogane interne, esso ha ripreso una novella vigoria. Agevolato inoltre dalle strade rotabili, che sonosi già costruite, ha acquistato un rapido movimento per la circolazione dei generi. Come progressivamente si perfezioneranno le sorgenti della pubblica sicurezza, così esso qcuisterà senza alcun dubbio un incremento maggiore”.
Dell’antica e prestigiosa attività sericola Siciliana, rimane ben poco. Qualche fabbricato e nessun macchinario a testimoniare l’antica produzione, fiore all’occhiello dell’economia siciliana di un tempo.
A Catania verso il 1810 vennero impianti, su iniziativa di imprenditori privati, due grandi filatoi alla piemontese che erano provvisti di torcitoio e di incannatoio meccanico.
Dopo la torsione le matasse di filo di seta vengono collocate in sacchetti e bollite in acqua saponata per eliminare la gomma naturale che poteva ostacolare la tintura; per essere poi sciacquate in acqua pura e poste ad asciugare. Quelle di colore perlaceo vengono successivamente sbiancate con vapori di zolfo: così il filo bianco è pronto per la tessitura e la tintura.
Torcitoio alla bolognese a movimento idraulico/manuale
Grande modello funzionante, di metri 3,40 di altezza e 2,30 di diametro.
Introdotto a Bologna tra i secoli XVI e XVII
Museo del Patrimonio Industriale - Bologna
Il modello venne sostituito successivamente dal Torcitoio alla Piemontese
Incannatoio manuale
Incannare
significa avvolgere il filato su bobine adatte all’orditura.
Veniva usato alla
fine del 1700 per il trasporto del filo dalla matassa al rocchetto.
L’Incannatoio
meccanico non compie particolari operazioni, ma si
limita ad
automatizzare e ad eseguire su più matasse un processo che prima
si doveva compiere
a mano, con notevole risparmio di tempo.
Trasferimento in
rocchetti del filo di seta tratto dalle matasse,
Non aveva bisogno
di operai fissi per controllarne il funzionamento, a
parte la
sostituzione dei rocchetti e delle matasse esaurire.
Il primo filatoio era situato all’interno del grande opificio della Mecca, di proprietà di Paolo Geraci. Dava lavoro a circa 350 operaie addette alla trattura ed alla tessitura, bambini e uomini per lavori pesanti. Per il funzionamento del setificio era necessario un capitale di 24.000 onze e venivano utilizzate maestranze di San Leucio (Caserta), giunte in Sicilia durante al seguito del re borbonico Ferdinando IV di Borbone (sovrano delle Due Sicilie). Il secondo filatoio fu installato nella seteria della “Casa della bassa gente”, diretto da un certo Sig. Ronsisvalle ed occupava “duecento donzelle” ed “infiniti artisti”. La “Casa della bassa gente” sarebbe l’ex Collegio dei Gesuiti.
L’ex Collegio dei
Gesuiti su Via Crociferi
Il
palazzo sorge su un insediamento greco- romano e prende il nome dall’importante
famiglia Auteri che fu proprietaria di una delle più importanti e famose
seterie d’Italia.Il
palazzo fu ristrutturato tra il 1851 ed il 1865 dall’architetto Carmelo Sciuto
Patti.La
seteria fu in seguito ereditata dal figlio Giuseppe Auteri Fragalà per poi
diventare, nel 1841, di proprietà dei fratelli Benedetto, Francesco, Vincenzo e
Salvatore, figli di Giuseppe.Nella
seconda metà del XIX secolo, l’architetto Carmelo Sciuto Patti, sposato con
Maddalena Auteri Berretta di Paola, ricevette l’incarico da Salvatore Auteri,
nonno di Maddalena, l’incarico della ristrutturazione del palazzo.Con i lavori fu ricostruito il portale
d’ingresso, opera del maestro scalpellino di Acireale, Brusà.Nel
cortile interno fu ricavata una feritoia nel muro che serviva a controllare le scale e a sparare ad eventuali
nemici. Dietro la feritoia c’era una stanza segreta che collegava
l’appartamento del barone con l’appartamento del piano inferiore.S’apriva
un armadio, si sollevava una botola che fungeva da finto pavimento, giungendo
alla stanza segreta del piano sottostante. In questa stanza venivano nascoste
persone e preziosi, specialmente nel periodo dello sbarco dei Mille al comando
di Garibaldo nel 1860.Durante
la seconda guerra mondiale il palazzo rimase vuoto. L’unica persona che vi
abitava era la cameriera, Agata Torrisi, che fu inserita nello stato di
famiglia della stessa famiglia Auteri. Si aveva paura che il palazzo, essendo
vicino al porto, potesse essere bombardato dagli alleati come avvenne per molti
palazzi dell’epoca. C’era anche un pozzo dal quale si prelevava l’acqua
dal fiume Amenano ed utile per la seteria. Le scale interne erano di granito e
al terzo piano c’era un cancello terminante con delle punte a protezione delle
famiglie che vi abitavano. Le famiglie Perrotta ed Auteri, sia per motivi di sicurezza
che per evitare le forti esalazioni provenienti dalla seteria del piano
terreno, non abitavano il secondo piano, generalmente definito il “piano
nobile”. La scala degli Auteri venne costruita in un secondo momento, insieme
all’ammezzato del quarto piano.Gli
Auteri producevano tessuti, ben confezionati e impreziositi con fili d’oro e
d’argento, che erano molto richiesti. Il governo, visto lo sviluppo e
l’occupazione che gli opifici avevano creato nella città di Catania, appoggiavano
e proteggevano l’attività. Come abbiamo visto anche a Catania fu istituito il
Consolato della Seta anche se nel 1727. I produttori di Messina, Palermo e Napoli,
cercarono di boicottare le rinomate seterie Auteri. L’11 dicembre 1753 il
Consolato della Seta decretò cheI drappi catanesi
superavano di gran lunga quelli degli altri paesiin esattezza di
lavoro. Grazie a questi riconoscimenti gli opifici di Catania avevano diritto a tutte le
franchigie.Il
25 febbraio 1826 fu emesso un decreto dal Regno delle Due SiciliePerché la bollazione
delle manifatture di seta della fabbrica diMichele Auteri in
Catania sia eseguita con bollo di piombo attaccatocon fili di seta,
nella di cui parte convessa saravvil’emblema della
Trinacria; e
nella parte concava, nel primo giro la leggenda,Regia Dogana di
Catania; nel secondo giro,Fabbrica di
seterie; ed
in mezzo, di Michele Auteri.Nel
XIX secolo, malgrado la crisi, insieme alla Cina e al Giappone, l’Italia,
grazie alle seterie Auteri, era ai vertici della produzione mondiale di seta
greggia.
Particolare del
Salone delle Feste del Palazzo Paternò del Toscano di Catania
Una bellissima
sala adorna di affreschi, specchiere e di magnifiche tele.
Si tratta di tele
di seta dipinte a mano con motivi floreali.
Probabilmente si
tratta di una seta prodotta dalle seterie di Catania attive
nell’Ottocento
(Seteria Auteri e Mangannelli)
Ben
presto accanto a queste filande si affiancarono nuove strutture, provviste di
“macchina che dipanasse e torcesse la seta all’uso piemontese”.
Verso
il 1850 a Catania “otto se ne contano che perennemente torcono libbre
ventimila di seta organzina”.
Numerose
fabbriche di drappi trasformavano poi la seta ritorta in tessuti “che
facilmente si scambiano con quei di Francia”.
L’elemento
che univa queste attività fu l’origine artigiana degli imprenditori per lo più
ex filatori, tessitori o tintori.
(Molti
dei negozianti e imprenditori del settore serico erano iscritti alla fine del
1700 all’albo del Consolato della Seta. Il sig. Geraci era un aiutante filatoraio
e tessitore; i fratelli Auteri,
possessori nell’Ottocento di una delle più grosse “fabbriche” di seta, presso
cui lavorava uno stampatore francese, veniva da una famiglia di filatori e
tintori).
I
produttori avevano anche dei negozi dove vendevano accanto alle sete ed ai
tessuti stranieri anche le manifatture prodotte nei loro opifici o date a
tessere a domicilio. Avevano
committenze con l’estero grazie a commissari stabilmente residenti a Palermo, Malta
e Napoli. Attorno a queste fabbriche un ricco tessuto urbano costituito da
artigiani tessitori, di incannatrici e di piccole tintorie.
(Una
Relazione del Costanzo, risalente al 1834, calcola “tutti gli operai
impiegati in Catania ne’ lavori di seta e di cotone…. da circa 20.000, e tutti
i telai al numero di 5.000 tra i quali, senza tema di fallo, se ne possono
contare 200 di quelli con la macchina a jacquars”. Il Maurolico, nell’ottobre 1834, “conta
15.000 operai che lavorano attualmente in Catania ai drappi di seta, su una
popolazione complessiva di 55.000 abitanti”. Francesco Paternò Castello
duca di Carcaci, nel 1841, “i drappi
che si smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per
ognuna, i telai che li lavorano 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la
seta che vi si impiega a libbre 112.840”).
Il
Paternò continuò nella sua descrizione…” La introduzione di quest’arte in
Europa si deve allo imperatore Giustiniano, ed in Sicilia a Ruggero re, che
tornando vittorioso dalla Siria, quivi condusse il più bel frutto di sue vittorie,
il prezioso insetto che produce la seta, il modo onde svolgerla dal bozzolo e
lavorarla. Una tal arte a Catania dovette stabilirsi molto di buon ora
conciossiache’ fin da tempo assai antico vi fu eretto un magistrato al semplice
scopo di vigilare alla qualità de’ tessuti e decidere la contestazioni che
avessero potuto insorgere fra artigiani e trafficanti. Il Governo, ne’ principi
del corrente secolo, cede l’eremo detto della Mecca al signor Geraci per
erigervi macchina che dipanasse e torcesse la seta all’uso piemontese, che in
fatti fu costruita per mezzo di artisti chiamati a bella posta dall’estero,
altro ne assegnò da lì presso al signor Ronsisvalle al medesimo soggetto,
e diversi particolari altre macchine sifatte alzarono ad imitazione
delle prime, in quisa che oggi otto se ne
contano che perennemente torciono libbre ventimila circa seta organzina.
Il resto della seta che s’impiega in drappo e in tutte le altre specie di
lavori si dipana e si torce con macchine impropriamente dette filatoi. Quasi
tutta Sicilia, Napoli, Malta si provvedono di drappi lavorati in Catania che
facilmente si scambiano con que’ di Francia. Le fabbriche più conosciute sono
quelle di Auteri, Geraci, Fragalà, Ronsisvalle; e per fazzoletti stampati ad
imitazione di que’ delle Indie, la nascente di Barbagallo. I drappi che si
smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per ognuna,
i telai che li lavorano a 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la seta che
vi si impiega a libbre 112.840. vi sono inoltre 2.050 telai per nastri che
impiegano libbre 9.000 seta e lavorano pezze 36.000 fettucce in un anno, ed
altra non poca quantità di seta si impiega in lavori a maglia, frange, galloni,
fiocchi, cucitura, ecc.”.
Joseph Marie
Jacquard
Lione, 7 luglio 1752
– Oullins, 7 agosto 1834
Inventore francese
Telaio Jacquard
Queste
fabbriche avevano un rapporto con il mondo rurale che si limitava all’acquisto
di materie prime come bozzoli, seta grezza e limoni per la tintoria, tutti beni
necessari alla produzione urbana.I
negozianti catanesi davano a tessere le loro sete nei telai di artigiani e di
maestre dei centri vicini che, come Acireale, godevano di antiche tradizioni
artigiane.Nella
provincia di Catania non sembra essere mai esistito un filatoio meccanico del
tipo di quelli esistenti in città. Lo
stesso discorso si potrebbe affermare per Messina dove il grande opificio
di Antonino Zinniti era provvisto di una
macchina per la torcitura diversa affatto e
più magnifica ed assai più perfetta di quelle che esistevanoche
dava lavoro a 28 operai, 80 donne e 30 ragazzi ma la cui forza motrice era
ancora rappresentata dell’uomo. Un opificio situato dentro la città.Nel
resto della provincia la presenza di piccole filande con i fornelli per la
trattura e non si conoscono esempi di torcitura meccanica e nemmeno di
incannatura diversa da quella manuale, da sempre esercitata dalle donne.Il
basso livello dei salari e delle retribuzioni degli artefici, che verso il 1840
era lo stesso di quello del 1770, non rendevano necessario il ricorso alle
maestranze e alle risorse offerte dalle campagne.Secondo
Cacioppo Vicenzo (Camera dei Deputati
nel XIX secolo) ..”i tessitori di seta nel 1853 guadagnavano tarì 3 e grana
12, e per le ottime stoffe anche
tarì4,10; le donne tarì 1,10; ed i ragazzi tarì 1,2”.I
salari registrati nei contratti delle maestranze catanesi dagli anni 1773 agli
anni 1809, erano gli stessi come
risultano dagli atti dei notai Salvatore Niciforo e Angelo Niciforo.Per
le incannatrici e i minori vigeva la formula del contratto detto della “locatio
personae”. Il padre, o nel caso di donne sposate, il marito “affittavano” il
congiunto per un anno o più, dietro un anticipo in denaro che l’incannatrice o
il giovane si impegnava a “schittare” col proprio lavoro. Spesso però gli anticipi
e i soccorsi alla famiglia da parte del mercante o del maestro facevano
crescere il debito e con esso la durata del rapporto di lavoro”. 2. Alcuni Borghi della Seta
A
Savoca (Messina), antico borgo, posto su un colle prospicente il mare
Jonio, l’allevamento del baco da seta risalirebbe al periodo arabo.
L’allevamento raggiunse il suo apice nel XVI secolo quando a Savoca erano
presenti, intorno al 1567, ben venti filande per la lavorazione della seta.
Vari problemi, come il terremoto del 1908, cancellarono quest’antica arte.
La
dott.ssa Maria Teresa Rizzo ha ridato vita a quest’antica tradizione sericola
del borgo e ha ripreso ad allevare bachi da seta con l’obiettivo di raccontare
la storia del piccolo centro attraverso la bachicoltura.
Particolare del
Salone delle Feste del Palazzo Paternò del Toscano di Catania
Una bellissima
sala adorna di affreschi, specchiere e di magnifiche tele.
Si tratta di tele
di seta dipinte a mano con motivi floreali.
Probabilmente si
tratta di una seta prodotta dalle seterie di Catania attive
nell’Ottocento
(Seteria Auteri e Mangannelli)
Ben
presto accanto a queste filande si affiancarono nuove strutture, provviste di
“macchina che dipanasse e torcesse la seta all’uso piemontese”.
Verso
il 1850 a Catania “otto se ne contano che perennemente torcono libbre
ventimila di seta organzina”.
Numerose
fabbriche di drappi trasformavano poi la seta ritorta in tessuti “che
facilmente si scambiano con quei di Francia”.
L’elemento
che univa queste attività fu l’origine artigiana degli imprenditori per lo più
ex filatori, tessitori o tintori.
(Molti
dei negozianti e imprenditori del settore serico erano iscritti alla fine del
1700 all’albo del Consolato della Seta. Il sig. Geraci era un aiutante filatoraio
e tessitore; i fratelli Auteri,
possessori nell’Ottocento di una delle più grosse “fabbriche” di seta, presso
cui lavorava uno stampatore francese, veniva da una famiglia di filatori e
tintori).
I
produttori avevano anche dei negozi dove vendevano accanto alle sete ed ai
tessuti stranieri anche le manifatture prodotte nei loro opifici o date a
tessere a domicilio. Avevano
committenze con l’estero grazie a commissari stabilmente residenti a Palermo, Malta
e Napoli. Attorno a queste fabbriche un ricco tessuto urbano costituito da
artigiani tessitori, di incannatrici e di piccole tintorie.
(Una
Relazione del Costanzo, risalente al 1834, calcola “tutti gli operai
impiegati in Catania ne’ lavori di seta e di cotone…. da circa 20.000, e tutti
i telai al numero di 5.000 tra i quali, senza tema di fallo, se ne possono
contare 200 di quelli con la macchina a jacquars”. Il Maurolico, nell’ottobre 1834, “conta
15.000 operai che lavorano attualmente in Catania ai drappi di seta, su una
popolazione complessiva di 55.000 abitanti”. Francesco Paternò Castello
duca di Carcaci, nel 1841, “i drappi
che si smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per
ognuna, i telai che li lavorano 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la
seta che vi si impiega a libbre 112.840”).
Il
Paternò continuò nella sua descrizione…” La introduzione di quest’arte in
Europa si deve allo imperatore Giustiniano, ed in Sicilia a Ruggero re, che
tornando vittorioso dalla Siria, quivi condusse il più bel frutto di sue vittorie,
il prezioso insetto che produce la seta, il modo onde svolgerla dal bozzolo e
lavorarla. Una tal arte a Catania dovette stabilirsi molto di buon ora
conciossiache’ fin da tempo assai antico vi fu eretto un magistrato al semplice
scopo di vigilare alla qualità de’ tessuti e decidere la contestazioni che
avessero potuto insorgere fra artigiani e trafficanti. Il Governo, ne’ principi
del corrente secolo, cede l’eremo detto della Mecca al signor Geraci per
erigervi macchina che dipanasse e torcesse la seta all’uso piemontese, che in
fatti fu costruita per mezzo di artisti chiamati a bella posta dall’estero,
altro ne assegnò da lì presso al signor Ronsisvalle al medesimo soggetto,
e diversi particolari altre macchine sifatte alzarono ad imitazione
delle prime, in quisa che oggi otto se ne
contano che perennemente torciono libbre ventimila circa seta organzina.
Il resto della seta che s’impiega in drappo e in tutte le altre specie di
lavori si dipana e si torce con macchine impropriamente dette filatoi. Quasi
tutta Sicilia, Napoli, Malta si provvedono di drappi lavorati in Catania che
facilmente si scambiano con que’ di Francia. Le fabbriche più conosciute sono
quelle di Auteri, Geraci, Fragalà, Ronsisvalle; e per fazzoletti stampati ad
imitazione di que’ delle Indie, la nascente di Barbagallo. I drappi che si
smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per ognuna,
i telai che li lavorano a 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la seta che
vi si impiega a libbre 112.840. vi sono inoltre 2.050 telai per nastri che
impiegano libbre 9.000 seta e lavorano pezze 36.000 fettucce in un anno, ed
altra non poca quantità di seta si impiega in lavori a maglia, frange, galloni,
fiocchi, cucitura, ecc.”.
Joseph Marie
Jacquard
Lione, 7 luglio 1752
– Oullins, 7 agosto 1834
Inventore francese
Telaio Jacquard
2. Alcuni Borghi della Seta
La dott.ssa Maria Teresa Rizzo ha ridato vita a quest’antica tradizione sericola del borgo e ha ripreso ad allevare bachi da seta con l’obiettivo di raccontare la storia del piccolo centro attraverso la bachicoltura.
Nel “Bar Vitelli” di Savoca furono girate nel 1971 alcune scene del film
“Il Padrino” di Francis Ford Coppola con Al Pacino
nel personaggio di Michael Corleone.
Altro
piccolo Borgo della Seta è Sicaminò, sempre in provincia di Messina, conosciuto
come l’antico borgo dei bachi da seta..È
una piccola frazione appartenente al vicino comune di Gualtieri Sicaminò ed
emblema dell’abbandono di un patrimonio culturale di valore inestimabile.Il
nome di Sicaminò deriva infatti dal greco “Sicaminos”, pianta di gelso,
un tempo numerosi nel territorio e che garantivano la produzione del tessuto
tipico della zona.Il
termine Gualtieri deriva invece dal nome del feudatario del luogo, Gualtiero
Gavaretta.
l'ex filanda prima dei restauri
Si
tratta dell’ex filanda Papandrea i cui restauri da parte del Comune si sono conclusi
nel febbraio 2010.Una
struttura che sarà destinata a museo.Fu
costruita da Giuseppe Papandrea nei primi anni del secolo e rimase attiva fino
al 1945/46. La struttura a pianta rettangolare era costituita da due piani ed i
prospetti erano caratterizzati da ampie finestre ad arco che si aprivano su un
piccolo ballatoio in ferro che correva lungo tutta la costruzione.Nella
parte retrostante si eleva una ciminiera in mattoni a faccia vista. L’edificio
fu demolito durante la guerra per non diventare facile bersaglio dei
bombardamenti nemici. La filanda fu comunque ricostruita subito dopo.All’epoca
a Roccalumera si trovavano due filande a vapore. La Papandrea era a 32 bacinelle
e vi si svolgevano le fasi della macerazione ( i bozzoli venivano immersi in
bacinelle contenenti acqua saponata alla temperatura costante di 60 gradi); la
scopinatura (con una spazzola morbida si battevano i bozzoli per estrarne i capifili);
la trattura ( operazione con la quale si riunivano insieme e si saldavano un
certo numero diBave
o fili); la binatura e torcitura (lavorazione al filatoio) alle quali seguivano
la sbiancatura e la tintura della seta.Il
piano terra era adibito a magazzino mentre al piano soprastante, di circa 400
mq, veniva trattata la seta. Quando il Comune entrò in possesso dell’edificio
vi furono trovati delle importanti testimonianze documentali. Documenti
costituiti da opuscoli scientifici, materiale cartaceo vario ed anche degli
interessanti libri mastri. Libri mastri dove venivano registrati i movimenti
“in entrata” dei bozzoli, provenienti dalle zone agricole dov’era sviluppato
l’allevamento del baco da seta, e “in uscita” della seta grezza che era destinata
ai mercati stranieri per essere lavorata e tessuta.In
una sezione del locale erano ancora visibili le impalcature in legno a torretta
dette “pannalore” che sostenevano gli incannicciati ove veniva posto il
bozzolo.Purtroppo
nessun macchinario o parte di esso fu trovato per testimoniare e rendere vivo
il processo della lavorazione del filo sericeo.Al
momento dell’acquisizione del Comune, l’edificio presentava delle lesioni in
più punti, nelle sue strutture portanti, a causa di una frana. Bisogna dare un
plauso al Comune per aver salvato quest’antica testimonianza di “archeologia
industriale” che sarà destinata a sala congressi e Museo della Seta.
A
Caprileone (Messina) l’ex filanda Mellinghoff,
oggi albergo.
A
Messina, Viale della Boccetta Alto, si trova l’ex filanda Barbera –
Mellinghoff di fine ottocento, che fu la sede storica del Museo Regionale di
Messina all’indomani del catastrofico terremoto del 1908.Dopo
il sisma fu recuperato tra le macerie del centro urbano il materiale storico artistico
e il patrimonio dell’ottocentesco Museo Civico Peloritano che dal 1890 era
collocato nell’ex monastero di San Gregorio. Il tutto fu trasferito nella
spianata del San Salvatore, vicino al torrente Annunziata, dove si trovavano i
resti del cinquecentesco monastero basiliano che da 1860 era adibito a caserma
militare.Il
materiale recuperato era vastissimo e fu collocato nelle aree esterne, le
famose cataste, in alcuni capannoni o tettoie, che furono realizzate durante i
recuperi. Nel 1911 l’edificio della
filanda Mellinghoff, rimasto miracolosamente in piedi, fu preso in locazione
dalla Soprintendenza ai monumenti e fu qui collocato il materiale recuperato
grazie al regio ispettore Pasquale Mallandrino, al soprintendente
Antonio Salinas, Ettore Mirgalia e Gaetano Columba. La sistemazione dei reperti
nell’ex filanda si deve ad Enrico
Mauceri che nel 1922, allapresenza del principe Umberto, inaugurò il Museo
Nazionale di Messina “subordinato allo stato provvisorio dei locali con le loro
tirannie di spazio e di luce”. Nel
1954 grazie alla direttrice Maria Accascina, affiancata dall’arch. Nicola
Tricomi, si ebbe il restauro in economia
dell’ex filanda nell’attesa dell’auspicata soluzione definitiva per il Nuovo
Museo. Solo all’inizio del 2000 cominciarono i trasferimenti dei reperti nel
Nuovo Museo.
...........................
3. I Fratelli
Eaton di Fiskerton a Messina e Villa San Giovanni
Differenziarono i loro investimenti e scelsero per la Sicilia Orientale la produzione degli agrumi e delle olive mentre per Messina e Villa San Giovanni la produzione della seta.
Gli Eaton avevano acquistato una notevole esperienza nel settore serico, allorchè da Fiskerton si erano trasferiti a Tiverton, sede della “Heathcoat & Co” (fabbricante di trine (merletti) ed esercente il commercio delle seterie) ed erano venuti a Messina agendo per conto della ditta.
John Heathcoat
All’inizio
erano indicati come “negozianti di prodotti” poiché gestivano per conto
della “Heathcoat” la filanda ubicata nel villaggio Gazzi e sempre per conto
della stessa ditta avrebbero intrapresero la stessa attività anche a Villa San
Giovanni.
Filanda di Gazzi (?)
Gli impianti di Messina, come risulta da un atto del notaio Pietro Aversa (numero repertorio 4483 del 22 giugno 1912) erano ubicati nella zona di Porto Salvo.
Lo Eaton affiancò la sua attività a quella per conto della “Heathcoat”.
A queste attività Edward James aggiunse la gestione, con i soci Geroge Oates e Carlo Sarauw, a Villa San Giovanni di un pastificio ancora attivo nel 1908 e la proprietà di un immobile affittato, ad uso di uffici dello Stato, per un canone annuo di 650 lire.
(L’immobile era in affitto all’Ufficio del Genio Militare, Sezione Artiglieria (notaio Pietro Aversa, n. repert. 414, atto del 18 giugno 1897).
Gli Eaton avevano una diversificazione dei loro investimenti e dimostrarono di essere degli imprenditori intraprendenti, moderni e anche accorti nei loro investimenti.
Non sono noti i rapporti economici che gli Eaton avevano con la ditta inglese di Tiverton cioè se fossero degli intermediari della “Heathcoat & Co.” o dei soci.
Come già detto è anche vero che gli Eaton avevano operato a Tiverton, prima di giungere a Messina, e alcuni membri della seconda generazione degli Eaton risiedevano nella contea di Devon come il figlio di John Thomas Eaton, John Edward Caldwell.
Gli Eaton giunsero quindi a Messina per conto della ditta inglese per attivare una filanda che doveva produrre la seta, materia prima, per lo stabilimento inglese. La filanda di Gazzi s’inseriva in questo progetto.
L’intraprendenza degli Eaton e la forte disponibilità di capitali, portò Edward James Eaton ad avviare la stessa attività in proprio acquistando nella zona a sud di Messina, a Porto Salvo, una filanda che sarà ereditata nel 1902 dall’unica figlia Elsie Marie e dal marito Giovanni Cassis.
A Messina ed a Villa San Giovanni Edward Eaton non si limitò solo al commercio della seta e nella cittadina calabrese aveva anche un deposito di grani insieme ai soci Carlo Sarauw e Michele Santacatterina.
Tuttavia l’attività principale fu quella della filanda di seta di Gazzi, nella zona sud di Messina, dove una lunga tradizione culturale aveva fatto nascere durante il primo Ottocento, prima della diffusione della coltivazione degli agrumi, numerose filande lungo la strada del Dromo (da “dromos” veloce, una strada che collegava Messina a Catania) .
Nel 1831 vi era ubicata la filanda Guerrera con “ ben 146 bacinelle” e nel 1846 s’era insediata, sempre nella stessa zona, quella dell’inglese Thomas Hallam. Gli Eaton avevano iniziato l’attività in un momento in cui la crisi del comparto sericolo nazionale determinava una forte spinta verso un necessario rinnovamento tecnologico e conseguente fu la scomparsa delle piccole filande che operò una vera e propria selezione nel settore.
Malgrado la crisi Edward James Eaton si apprestò con coraggio a rinnovare il contratto di locazione della filanda con gli eredi Guerrera.
Nell’affitto erano compresi anche “ … legname e tutti gli altri materiali bisognevoli per l’uso della filanda”; alcuni locali posti “ dalla parte di settentrione, ponente e mezzogiorno della filanda” dove erano tenuti i bozzoli e la seta per il lavoro giornaliero e quei locali destinati alla conservazione dei restanti bossoli che “forma l’oggetto principale dell’industria”.
I Guerrera s’obbligavano a mettere a disposizione dell’Eaton i magazzini necessari a riporre “ cofani, canestri ed altri recipienti ed oggetti nei quali si contengono e conservano i bozzoli, dovendo tale magazzino essere indipendente dalla filanda ed in un sito da non apportare alla filanda della seta il minimo ostacolo, ed alle operazioni tutte che per questa si debbono praticare”.
In quell’area si trovava anche una fabbrica di agrocotto che era esclusa dalla locazione e che non rientrava quindi nelle attività produttive dell’Eaton che erano circoscritte solo al settore serico. (Notaio Pace Orioles, atto del 10 agosto 1899).
(agrocotto: succo concentrato derivato dagli agrumi. Attraverso un processo di cottura e purificazione, era destinato alla produzione di acido citrico, probabilmente la “Sanderson” ).
Nella filanda “Eaton” importante fu il ruolo svolto da Thomas Skinner che ne fu il direttore per molto tempo. Faceva parte di quei tecnici giunti dall’Inghilterra su incarico della “Heathcoat & Co.” e la sua collaborazione nella filanda “Eaton di Gazzi”, come tecnico e direttore, fu importante a tal punto che la filanda era conosciuta come filanda “Skinner”.
Alla morte di Edward James fu lui a gestirla per conto della ditta inglese e, successivamente, dopo la sua morte, il posto fu preso dal figlio William Beek Skinner.
Qualche anno più tardi venne chiarita la posizione del defunto Edward James Eaton nei confronti della filanda Gazzi ed i suoi rapporti con la “Hearthcoat & Co.”.
Davanti al notaio Pietro Aversa si presentarono tutti i componenti della famiglia Guerrera, George Edward Oates (cognato del defunto Edward Eaton e procuratore della “Heathcoat & C.”) e Antonio Cappuccio Gangemi in qualità di procuratore dei coniugi Eaton-Cassis (Elsie Mary Eaton e il marito senatore Giovanni Cassis).
Nell’atto si specificava che nel precedente contratto di locazione della filanda di seta, Edward James Eaton era intervenuto “non nel nome ed interesse suo proprio ma quale incaricato grazioso e per fare piacere alla ditta John Heathcoat & C., quindi la locazione deve intendersi fatta e stipulata con la ditta medesima ed a questa vi competono tutti i diritti e le obbligazioni del contratto di locazione”.
Da questo momento non ci sarà più alcun rapporto commerciale tra gli eredi Eaton e la ditta Inglese mentre restava confermato il contratto d’affitto firmato da Edward James.
A Villa San Giovanni e nel comprensorio reggino il numero delle filande era drasticamente diminuito, prima del terremoto del 1908 erano 18 rispetto alle 30 degli anni precedenti), a causa non solo della crisi ma anche delle trasformazioni industriali di cui Edward James si era reso protagonista.
Tra la fine del XVIII e la prima età del XX secolo Villa San Giovanni era particolarmente famosa per l’allevamento del baco da seta e per le sue filande. Si parla di ben 56 filande che costituivano una grande fonte di lavoro e di sostegno economico della zona e di cui rimangono dei ruderi.
L’attività sembra che sia iniziata verso il 1785 grazie all’opera di Rocco Antonio Caracciolo che nel 1792 rese operativa a Villa una filanda ed un filatoio. La prima era situata fra il palazzo del Caracciolo e l’attuale Fontana Vecchia, la seconda presso la strada Micene, oggi Via Micene, vicino all’attuale Asilo salesiano.
«Nel
V anno di regno di Francesco I delle Due Sicilie
Bonaventura Palamolla Prefetto della Calabria Prima Ulteriore
Raffaele Greco, Filippo Corigliano e Santo Coppola
triumviri incaricati della costruzione
S. C. (per Senatoconsulto)»
«O Villa, che ti specchi nel Peloro
Trinacrio,
che la ninfa ti somministra le gelide acque presso questa fonte
lo devi a Palamolla: egli ordinò che, io
nata dal Cenide, scorressi per questi umidi antri.»
La prima fontana
fu eretta nel 1972 per ordine del Re, per il
benessere
della popolazione
e l’utilizzo della dello Stabilimento della seta della
famiglia
Caracciolo che era adiacente alla stessa fontana.
La fontana su
costruita a spese dell’Università di Fiumara di Muro
(Vllla San
Giovanni) per il costo di ducati 1580, grane 73 e colli 8, e dei
Fratelli
Caracciolo per il costo di Ducati 626,grane 91 e colli 4.
A beneficio del
Comune di Villa San Giovanni sarebbe rimasto il diritto di
attingere acqua
per bere, per cucinare e per abbeverare gli animali.
Lo scolo di detta
fontana sarebbe rimasto a beneficio della famiglia
Caracciolo con il
diritto di attingere acqua dalla medesima fontana mediante
una “margherita”
posta dietro per uso loro privato.
Il 18 gennaio 1827
si otteneva una netta distinzione tra acqua pubblica
del Comune di
Villa San Giovanni e quella per uso privato della famiglia
Caracciolo. Il
Consiglio d’Intendenza (Prefettura della Calabria) stabilì che
le acque dovevano
essere divise per 4/5 (3/4) di proprietà del Comune di
Villa San Giovanni
e 1/5 (1/4) di proprietà della famiglia Caracciolo.
Venne anche
stabilito che le 4/5 parti d’acqua rimanessero in perpetua
proprietà del
Comune e si facessero scorrere ad un Fonte con canale
aperto, in modo
che gli abitanti potessero usufruirne in qualsiasi momento e
che l’intero scolo
(acqua in eccesso) dei suddetti 4/5 parti d’acqua,
insieme alla
quinta parte delle acque di detta Fontana, rimanessero di proprietà
dei Fratelli
Caracciolo per l’uso della loro filanda. Per eseguire la
suddivisione
suddetta il Comune di Villa San Giovanni fece realizzare
un nuovo bottesco,
ed una seconda fontana allo stesso livello e contigua
alla Fonte che
allora esisteva sulla proprietà Caracciolo, dando
incarico per la
progettazione all’ing. Stefano Calabrò (di Reggio Calabria) nel 1829.
La tipologia architettonica
e gli elementi architettonici della fontana
sarebbero
riconducibili al tempietto greco. Il frontone con il timpano in cui
è collocata
l’iscrizione lapidea, l’arco e i piedritti, la semicupola e l’esedra o incavo
in cui è collocata
la vasca con il nasone,, sul quale sono state rinvenute le
fattezze del volto
e dei capelli di una figura femminile, il basamento e i gradini
d’accesso alla
fontana.
Il 23 maggio 1862
il Consiglio Comunale a maggioranza dei voti deliberava che,
per le necessità della popolazione, il comune
acquistasse dai fratelli
Signori Francesco
a Michelangelo Caracciolo la quarta parte dell’unica e
pubblica fontana,
mediante corrispondente indennità a favore dei
Signori Caracciolo
e stabiliva per loro esclusivo uso soltanto
L’intero scolo
dell’acqua (acqua un eccesso) della fontana medesima.
Una deliberazione
che venne approvata dal Prefetto della Calabria
Palamolla il 26
Maggio 1862.
Filanda Cogliandro
– Villa San Giovanni
Oggi, con le nuove costruzioni realizzate dopo il terremoto del 1908,
l’area supera i 4500 mq.”
I ruderi della filanda “Erba” si trovano lungo la
Marina.
Fa parte del gruppo “L’Avanguardia” ed assieme a 14 compagni
firma ed invia da Massa Marittima (Grosseto) al giornale “L’Agitazione”, in
data 8 luglio 1900, una dichiarazione di solidarietà ad alcuni compagni
processati per associazione a delinquere.Il 12 aprile 1904 alcuni carabinieri di Follonica
(Grosseto) sequestrarono un pacco che conteneva cinquanta copie del giornale
sovversivo “Il Seme” di Livorno. Copie che erano dirette ad Egidio Dei. Dopo
qualche mese anche a Messina le
autorità sequestrarono ben seicento copie del primo numero del giornale anarchico
“La Rivolta” che erano diretta al Dei.Malgrado la stretta
sorveglianza della polizia, il Dei continuò a partecipare a riunioni anarchiche
e a propagandare le idee di libertà in particolare tra gli operai. Nel giugno del
1907 partecipò al congresso anarchico che si svolse a Roma dove insieme a Luigi
Fabbri ed Enrico Marcucci, appoggiò l’ordine del giorno, presentato da Ignazio
Scaturro, circa la necessità di “combattere le religioni non meno delle
altre autorità del sistema capitalistioco”.
Il 4 ottobre
1907 venne arrestato e processato dal tribunale di Grosseto. La relativa
condanna fu di due mesi di reclusione per oltraggio alla forza pubblica nel
corso di una manifestazione contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari.
Alla manifestazione aveva partecipato insieme ai compagni Nicomede Bertini,
Natale Boschi, Giuseppe Gasperi e
Ivemero Giani. Fu nominato ispettore della ditta “Wassas Freres”,
produttrice di pipe, e per questo motivo i suoi spostamenti in Calabria erano
frequenti. Dal 1910 al 1925 abbandonò la scena politica e cambiò spesso la sua residenza.Nel 1925 si stabilì a Villa San Giovanni dove
manifestò nuovamente le sue idee anarchiche.Nel 1926 risultava abbonato al periodico anarchico
“Pensiero e Volontà”
Alla sua morte, avvenuta nel 1929, non si conoscono le
data e le cause, la polizia sequestrò nella sua abitazione di Villa alcune
copie del giornale e delle carte appartenute a Errico Malatesta.All’inizio
Egidio Dei amministrava per conto della “Wassas(Vassas) Freres”, d’origine francese, ben 36 segherie che erano dislocate nel salernitano, in Calabria, in
Sicilia e anche in Sardegna. Nella fabbrica di Villa San Giovanni rilevata successivamente dallo stesso Dei,
riuscì a dare lavoro a cento famiglie. Compresi gli scavatori o “cioccaioli”, i
boscaioli, camionisti aveva alle sue dipendenze ben mille operai.
Lo
stesso Dei lasciò un memoriale dove tra l’altro scrisse di aver ricevuto dal
1885 al 1890“una paga tra le 180 e 220 lire mensili…. Che gareggiava con lo
stipendio dei professori d’università”.Scrisse
di aver fatto il “tagliatore” in una segheria di Serrazzano (Pisa) di proprietà
francese e sempre, in una segheria francese, alla Roche di Massa Marittima,
aveva cominciato a lavorare all’età di
15 anni.Lavorò
in Calabria, Sicilia, Campania e visitò i boschi in Albania, Turchia e in
Romania. Fu in Grecia per insegnare come si estraeva e si puliva il ciocco.“A quell’epoca
quasi tutte le segherie erano azionate a forza idrica, ad eccezione di poche
impiantate vicino alla ferrovia che si servivano di piccole locomobili
alimentate con segatura e ritagli di legno da pipe. C’erano difficoltà e liti
con gli agricoltori per l’utilizzo dell’acqua. Il turno di passaggio delle
acque nelle due segherie era di notte. Lavorare dieci ore alla luce di
affumicati lumi a petrolio ed in ambiente talmente umido che l’acqua trasudava
dai muri, era un vero martirio”. Una
fabbrica di pipe molto specializzata, quella di Villa San Giovanni, che era un
indice di prestigio nell’economia calabrese.Il
legno per la creazione delle pipe arrivava soprattutto dall’Aspromonte ma anche
dalla Sicilia, dalla Sardegna ed anche dalla Grecia. La fabbrica fu attiva sino
ai primi anni ’80, quando fu costretta a chiudere a causa della diminuzione
della richiesta. Nello stesso periodo fu attiva a Villa San Giovanni un’altra
fabbrica di pipe, la “Tripepi”, che si trovava nei pressi della Fontana Vecchia. La fabbrica sparì agli inizi degli anni ’80. La
pipa è fatta di radica, un legno speciale e un po' misterioso. Il legno è fornito dal ciocco… una specie di “palla” o “grossa patata” che si
sviluppa sotto terra.Svelando
il mistero,. Si tratta di un ingrossamento o di un escrescenza che si forma
nell’apparato radicale di un arbusto, molto presente in Calabria, l’Erica Arborea.
Un
ingrossamento che si forma molto lentamente. Per raggiungere la dimensione di
un pallone, la pianta impiega circa vent’anni.Dal
punto di vista botanico sono numerose le piante e gli arbusti che danno origine
al ciocco sotterraneo ma soltanto il “ciocco” dell’Erica Arborea fornisce la
materia prima per la fabbricazione delle pipe. Infatti ha delle caratteristiche
tecniche come compattezza, durezza, resistenza al calore, leggerezza, tutti
elementi necessari per la riuscita di una buona pipa. Altro elemento
caratteristico è la distinzione del ciocco tra “maschio” e “femmina”. Il fiore
maschile è bianco-rosato ma in assenza
di fioritura non è facile la distinzione. In Toscana i ciccaioli della provincia
di Siena e di Grosseto erano in grado di riconoscere il sesso del ciocco
guardando l’arbusto ed è quindi probabile che anche quelli i ciaccaioli di
Villa San Giovanni erano in grado di fare la distinzione. Un’arte che si è
perduta.L’arbusto
è anche chiamato “scopa” e raggiunge l’altezza di tre/quattro metri e secondo
l’antica descrizione dei ciccaioli toscani… fa uno sforzo,
il fusto è piccolo (puà averne anche più d’uno), le foglie sonopiù di aghi verdi.
Il meglio dell’arbusto è sottoterra.L’erica maschio è
più bella, più piumosa, la femmina è più magra, piùstecchita, tanto è
vero che l’adoprano per fare ramazze.Questa erica è un
arbusto tipico della macchia mediterranea Cresce
spontaneamente in zone costiere, arrivando fin quasi gli 800 metro di altitudine…..
ma deve continuare a sentore l’area marina.Si
trova in Italia, Francia (poca), in Algeria, Corsica, in Istria, in Grecia, in
Albania, in Turchia, in Spagna e qualcosa anche in Sud America ed in Eritrea.Quando
e perché si forma quell’escrescenza, ingrossamento, callosità, subito sotto il
colletto, “ciocco”, ci sarebbero delle ipotesi. Alcuni
botanici affermarono che sarebbero la “conseguenza di fattori patologici
determinati da traumi di origine diversa. Sarebbe come una malattia”.I
ciccaioli respinsero questa ipotesi e si portarono avanti la tesi legata alla
crescita dell’arbusto-L’arbusto
vive infatti in ambienti difficili, caratterizzati da molto vento e poca
pioggia. Queste condizioni ambientali
trovano la loro realizzazione in una crescita alquanto stentata dell’arbusto, con fogliame piccolo, rami stecchiti che tendono a stringersi al fusto,
queste spingerebbe la pianta a spingere
le sue energie sottoterra all’apparato radicale.
“in
effetti l’arbusto grosso, ben sviluppato, è più facile che abbia poca “palla”.
Insomma, le qualità del ciocco sarebbero un risultato indiretto dell’ambiente
ostile. Il ciocco di pianura, per esempio, dove la vita dell’arbusto è
indubbiamente più facile, presenta quasi sempre il tarlo ed è in generale meno
compatto, meno buono”.
“Poi
c’è il terreno, elemento importantissimo. In quello tufoso (in Maremma) ci
crescono i ciocchi migliori, forse perchè trovano minore resistenza”.
I
botanici aggiunsero che la frattarietà al fuoco del ciocco era dovuta anche ad un elevato tenore di anidride silicica, ceduta dal terreno. La relativa incombustibilità dipende
soprattutto dalle fibre, che sono legate fra loro per la particolare irregolare
conformazione della “palla”. Mentre il legno, quello dei fusti, ha fibre
disposte in modo lineare e questo determina minore compattezza e minore resistenza all’azione del fuoco. “Il
ciocco ha una crescita concentrica, sia pure irregolare, ma questo non avviene
per strati successivi che si depositano dall’esterno, bensì “dall’interno”. La
parte più vechia del ciocco è quella esterna, mentre “il cuore” è la zona in
formattazione, più giovane ed quindi con processi di consolidamento appena
avviati o ancora in atto”.
La
pianta, dalla caratteristica corteccia rossastra, presenta delle foglie
aghiformi e fiorisce tra marzo e maggio. Rientra tra le piante officinali per
le sue proprietà diuretiche,
disinfettanti ed antireumatiche. Anticamente si riteneva un ottimo antidoto ai
morsi della vipera. Molto pregiato è il miele di erica.
La
pianta veniva adoperata per la fabbricazione di scope, per la copertura delle
capanne, per creare un ottimo carbone ed anche nell’allevamento del baco da
seta. I rami dell’erica arborea venivano adoperati per la creazione del bosco
dove i bachi formavano i loro bozzoli.I ciocchi dopo la raccolta vengono sottoposti alla
bollitura, operazione che dura circa 15 ore per stabilizzare e depurare il
pezzo di radica, che poi viene fatto asciugare e stagionare da 2 a 5 anni, o volendo anche di più. Avviene poi lo sbozzamento, cioè la delicata lavorazione
del ciocco, in cui lo sbozzatore, seguendone ed esaltandone esattamente la
forma e le venature, crea la pipa nella sua singolare bellezza.E’ un’arte antica questa, strettamente legata al
territorio e probabilmente nata tra i pastori che nelle lunghe ore dei pascoli
si dedicavano all’intaglio.Già nel Seicento i raffinati artigiani calabresi, i
maestri segantini o ebanisti, diedero vita a laboratori che diventarono il
fiore all’occhiello dell’artigianato locale di alcune zone interne delle Serre
e della Sila. Pare che il primo a scoprirne le potenzialità fu un ufficiale
napoleonico al seguito di Murat che impiantò la prima vera fabbrica a Villa San
Giovanni ai primi dell’Ottocento.Gli abbozzi, cioè i ciocchi sbozzati, e le pipe
complete erano molto richieste all’estero, soprattutto in Inghilterra, paese
con il quale si intrecciarono fiorenti scambi commerciali. Al momento esistono in Calabria diverse piccole aziende artigianali, fabbriche che continuano a
produrre fornelli e pipe di altissima qualità e apprezzati in tutto il mondo.
Vorrei entrare in contatto con l'autore di questo articolo per chiedergli qualche delucidazione sulla parte che riguarda la Filanda Erba, Egidio Dei e la radica. La mia mail è enrico.castruccio@fastwebnet.it
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