Le Filande a Catania, Messina e Villa S. Giovanni



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Indice
1 – I Filatoi a Catania ; Maestri tessitori della Colonia Reale di San Leucio (Caserta)


2 -   Alcuni Borghi della Seta
3 -  I Fratelli Eaton di Fiskerton a Messina
4 – Le Filande a Villa San Giovanni; Una Filanda diventò successivamente una famosa
       fabbrica di pipe

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1.   I Filatoi  a  Catania

Nel 1829 l’Intendente di Catania  Antonio Alvaro Paternò, Principe di Sperlinga Manganelli (Catania, 3 agosto 1763; Catania, 7 agosto 1831), fece un  discorso in merito alle “Arti e Manifatture” di Catania…
Il principe aveva la “Signoria dell’Ufficio di Maestro Notaro della Curia Capitaniale di Catania”.

(Il titolo di Principi di Manganelli era stato ottenuto da un ramo della famiglia Paternò grazie alla ricchezza economica ottenuta da Alvaro Paternò che possedeva una florida attività nel settore della filatura della seta.  Il “manganello” era infatti uno strumento utilizzato per filare la seta. Dopo aver immesso i bozzoli in acqua calda per uccidere la crisalide, si passava alla fase successiva che consisteva nel battere i bozzoli con un bastone, il “manganello”, per allargare il filo ed acconciarlo in matasse oppure dall’uso del grande “mangano” che serviva ad estrarre e lavorare la seta). L’utilizzo del mangano da parte della famiglia Paternò fu gratificato da re Filippo IV che assegnò loro il predicato nobiliare “di Principi dei li Manganelli” che col tempo divenne “Principi di Manganelli”. A quanto sembra i  Paternò avevano una lunga tradizione serica nel casale di Monasterium Album, distrutto dalla lava del 1669. e successivamente ricostruito. In molte case all’interno del tessuto urbano, vi era la presenza di alberi di gelso e di botteghe per la lavorazione della seta. Botteghe che si trovavano in una determinate zona del paese che diede origine al quartiere detto “de’ Manganeddi” per la presenza dei “mangani”). 

Il suo discorso introduttivo …..

Intanto il personaggio insigne, l’Eccellentissimo Signore Pietro Ugo, Marchese delle Favare, Consigliere di Stato Ministro Segretario di Stato, Luogotenente Generale di S.M. in Sicilia, che reggendo il governo di quest’Isola è il vivo ritratto della pietà e beneficenza sovrana, l’uomo singolare scelto dalla sapienza del Re come un organo delle sue incessanti grazie, il protettore di questi popoli, e più ancora di questo Valle, v’incoraggia, dandovi a sperare che le vostre suppliche, le quali mireranno sempre in modo regolare ad utilissimi fini, saran da lui ravvalorate in portarle appiè del Real Trono, in quisachè siano degne della considerazione suprema.
Io quindi chiamato dal posto che occupo ad apprestarvi gli elementi, e le conoscenze, su cui debbono poggiare i vostri importanti lavori, vi darò conto dell’amministrazione del Valle, vi presenterò un abbozzo del suo stato attuale, secondo le osservazioni che ho fatte nel brevissimo tempo,……..”
 “Catania dà in questo articolo, come sempre da dato, un esempio luminoso della sua industria produttiva. Qui l’arte serica è in emulazione colle nazioni, che ne han posseduto la primazìa. Le nostre stoffe sono perfette, ed ovunque ricercate.
I manufatturieri sono pochi in proporzione delle domande, e mancano piuttosto le braccia, che il consumo. Ma ciò che veramente presenta un lieto spettacolo, si è il vedere quasi un quinto della nostra popolazione occupata nelle manifatture di cotone. Quattro mila telaj all’incirca sono oggi in attività presso noi. Qual fonte inesausta non son essi di comune prosperità, ed opulenza ! Ma il cotone, ch’è ormai divenuto una nostra indigena derrata, che l’estero strappa a vil prezzo delle mani del nostro agricoltore, passato poi per le filande ci vien da lui restituito a prezzi immoderati.
Per lo che le nostre manifatture soffrono il valore della materia grezza, più il profitto della filanda, ed i guadagni dell’estero trafficante, più le spese di trasporti, e di dogane, più le altre per portarle a compimento.
Diversi progetti si sono fatti per metterci in proprietà di una macchina filatrice. Con essa noi non pagheremo più all’estere nazioni un tributo, e le nostre manifatture di cotone sarebbero più estese, più perfezionate, e più capaci di andare in concorrenza con le straniere. Io spero di venire a capo di questo proponimento colla sollecitudine che potrò maggiore. Né ometter deggio le altre manifatture rilevanti, che fioriscono in Aci Reale, quali sono appunto quelle delle tele damascate,  de’ lavori di piombo, di majolica grossolana, di cordame, e simili.
Svincolato dai ceppi de’ privilegi esclusivi, delle privative comunali, e dalle dogane interne,  esso ha ripreso una novella vigoria. Agevolato inoltre dalle strade rotabili,  che sonosi già costruite, ha acquistato un rapido movimento per la circolazione dei generi. Come progressivamente si perfezioneranno le sorgenti della pubblica sicurezza, così esso qcuisterà senza alcun dubbio un incremento maggiore”.

 Dell’antica e prestigiosa attività sericola Siciliana, rimane ben poco. Qualche fabbricato e nessun macchinario a testimoniare l’antica produzione, fiore all’occhiello dell’economia siciliana di un tempo.

A Catania verso il 1810 vennero impianti, su iniziativa di imprenditori privati, due grandi filatoi alla piemontese che erano provvisti di torcitoio e di incannatoio meccanico. 

Il primo procedimento nella preparazione di un filo di seta era la trattura. I bozzoli venivano immersi in acqua bollente per rendere il materiale legante viscoso e venivano rimossi con bastoni, alle estremità dei quali aderivano i filamenti di seta. Questi filamenti erano avvolti su un aspo ed essendo i filamenti di seta troppo delicati per essere avvolti uno alla volta, se ne avvolgono insieme un certo numero, da tre ad otto. Dopo la trattura i fili di seta venivano ritorti per impedire che i singoli filamenti si separino.
Dopo la torsione le matasse di filo di seta vengono collocate in sacchetti e bollite in acqua saponata per eliminare la gomma naturale che poteva ostacolare la tintura; per essere poi sciacquate in acqua pura e poste ad asciugare. Quelle di colore perlaceo vengono successivamente sbiancate con vapori di zolfo: così il filo bianco è pronto per la tessitura e la tintura.

Torcitoio alla bolognese a movimento idraulico/manuale
Grande modello funzionante, di metri 3,40 di altezza e 2,30 di diametro.
Introdotto a Bologna tra i secoli XVI e XVII
Museo del Patrimonio Industriale  - Bologna

Si tratta di una macchina apparentemente molto complessa, ma che in realtà sembra tale perché densa e ripetitiva. Ha circa due metri di diametro ed è alta poco di più. I suoi elementi operativi sono ripetuti parecchie decine di volte, consentendo di torcere in modo regolare 80-150 fili contemporaneamente. Un uomo motore collocato all'interno, la muove mentre un operatore all'esterno provvede alle varie esigenze della torcitura. Si tratta di una delle macchine più interessanti del Medioevo, certamente la più produttiva. Un torcitoio da 100 fusi richiedeva infatti due operai contro i cento di prima, ed il tempo per torcere un rocchetto era cento volte minore di quello che si impiegherebbe a torcerlo a mano (a parità di torsione).  Complessivamente, quindi, l'invenzione accorcia di circa 10.000 volte il tempo di torcitura per una produzione medi artigianale.
Il modello venne sostituito successivamente dal Torcitoio alla Piemontese



Incannatoio manuale
Incannare significa avvolgere il filato su bobine adatte all’orditura.
Veniva usato alla fine del 1700 per il trasporto del filo dalla matassa al rocchetto.

L’Incannatoio meccanico non compie particolari operazioni, ma si
limita ad automatizzare e ad eseguire su più matasse un processo che prima
si doveva compiere a mano, con notevole risparmio di tempo.
Trasferimento in rocchetti del filo di seta tratto dalle matasse,
Non aveva bisogno di operai fissi per controllarne il funzionamento, a
parte la sostituzione dei rocchetti e delle matasse esaurire.

Il primo filatoio era situato all’interno del grande opificio della Mecca, di proprietà di Paolo Geraci. Dava lavoro a circa 350 operaie addette alla trattura ed alla tessitura, bambini e uomini per lavori pesanti. Per il funzionamento del setificio era necessario un capitale di 24.000 onze e venivano utilizzate maestranze di San Leucio (Caserta), giunte in Sicilia durante al seguito del re borbonico Ferdinando IV di Borbone (sovrano delle Due Sicilie).  Il secondo filatoio fu installato nella seteria della “Casa della bassa gente”, diretto da un certo Sig. Ronsisvalle ed occupava “duecento donzelle” ed “infiniti artisti”. La “Casa della bassa gente” sarebbe l’ex Collegio dei Gesuiti.

L’ex Collegio dei Gesuiti su Via Crociferi

via Crociferi

L’ex Collegio dei Gesuiti, posto su Via Crociferi ed adiacente alla chiesa di San Francesco di Borgia, fu costruito dopo il terremoto del 1693.
I lavori iniziarono nel 1698 e ultimati nel 1757.
Nel 1767 i gesuiti furono espulsi dal Regno di Sicilia e  il governo borbonico entrò in possesso dei beni decidendo di concedere  il loro patrimonio fondiario in enfiteusi ai contadini privi di terra e di trasformare i loro collegi in scuole pubbliche di Stato o in ospizi per l’assistenza ai poveri.
Nel 1778 il collegio dei  gesuiti venne trasformato in “casa di educazione della bassa gente” o secondo un altro appellativo in “Collegio delle Arti”. Ospitava sia lavoratori artigiani (di panni, sete, ceramiche, manifatture d’acciaio) che collegi per alunni.
In alcuni locali del collegio fu quindi collocata la seteria del sig. Ronsisvalle che, come detto, fu operativa verso il 1810.
I due opifici erano organizzati sul modello della manifattura “a ciclo integrale” di San Leucio e svolgevano tutte la fasi del ciclo della seta, dall’allevamento del baco da seta alla tessitura.
Attrezzature antiche e moderne erano presenti nei due opifici. Accanto ai piccoli aspi alla piemontese, alle quali erano addette le maestre trattrici, c’era la grande macchina per torcere ed incannare, mossa “a uomo” anziché ad acqua.
Diffuso era l’appalto di parte della produzione a terze persone o anche il ricorso al lavoro a domicilio di maestri tessitori indipendenti.
Nel ‘700 un ricco imprenditore Michele Auteri fece costruire un palazzo dove poter impiantare l’allevamento dei bachi e la lavorazione della seta. Un palazzo nato nel centro storico di Catania tra le Terme dell’Indirizzo e il Castello Ursino e registrato nel vecchio catasto dell’Orlando del 1761. L’attività del Sig. Auteri raggiunse il culmine  nei primi anni dell’ 800. L’edificio fu ricostruito nel secolo XIX ed è indicato come “Palazzo Auteri Perrotta”.


Palazzo Auteri - Perrotta


Il palazzo sorge su un insediamento greco- romano e prende il nome dall’importante famiglia Auteri che fu proprietaria di una delle più importanti e famose seterie d’Italia.
Il palazzo fu ristrutturato tra il 1851 ed il 1865 dall’architetto Carmelo Sciuto Patti.
La seteria fu in seguito ereditata dal figlio Giuseppe Auteri Fragalà per poi diventare, nel 1841, di proprietà dei fratelli Benedetto, Francesco, Vincenzo e Salvatore, figli di Giuseppe.
Nella seconda metà del XIX secolo, l’architetto Carmelo Sciuto Patti, sposato con Maddalena Auteri Berretta di Paola, ricevette l’incarico da Salvatore Auteri, nonno di Maddalena, l’incarico della ristrutturazione del palazzo.
Con  i lavori fu ricostruito il portale d’ingresso, opera del maestro scalpellino di Acireale, Brusà.
Nel cortile interno fu ricavata una feritoia nel muro che serviva  a controllare le scale e a sparare ad eventuali nemici. Dietro la feritoia c’era una stanza segreta che collegava l’appartamento del barone con l’appartamento del piano inferiore.
S’apriva un armadio, si sollevava una botola che fungeva da finto pavimento, giungendo alla stanza segreta del piano sottostante. In questa stanza venivano nascoste persone e preziosi, specialmente nel periodo dello sbarco dei Mille al comando di Garibaldo nel 1860.
Durante la seconda guerra mondiale il palazzo rimase vuoto. L’unica persona che vi abitava era la cameriera, Agata Torrisi, che fu inserita nello stato di famiglia della stessa famiglia Auteri. Si aveva paura che il palazzo, essendo vicino al porto, potesse essere bombardato dagli alleati come avvenne per molti palazzi dell’epoca.
 C’era anche un pozzo dal quale si prelevava l’acqua dal fiume Amenano ed utile per la seteria. Le scale interne erano di granito e al terzo piano c’era un cancello terminante con delle punte a protezione delle famiglie che vi abitavano. Le famiglie Perrotta ed Auteri, sia per motivi di sicurezza che per evitare le forti esalazioni provenienti dalla seteria del piano terreno, non abitavano il secondo piano, generalmente definito il “piano nobile”. La scala degli Auteri venne costruita in un secondo momento, insieme all’ammezzato del quarto piano.
Gli Auteri producevano tessuti, ben confezionati e impreziositi con fili d’oro e d’argento, che erano molto richiesti. Il governo, visto lo sviluppo e l’occupazione che gli opifici avevano creato nella città di Catania, appoggiavano e proteggevano l’attività. Come abbiamo visto anche a Catania fu istituito il Consolato della Seta  anche se nel 1727.
 I produttori di Messina, Palermo e Napoli, cercarono di boicottare le rinomate seterie Auteri. L’11 dicembre 1753 il Consolato della Seta  decretò che
I drappi catanesi superavano di gran lunga quelli degli altri paesi
in esattezza di lavoro.
 Grazie a questi riconoscimenti gli  opifici di Catania avevano diritto a tutte le franchigie.
Il 25 febbraio 1826 fu emesso un decreto dal Regno delle Due Sicilie
Perché la bollazione delle manifatture di seta della fabbrica di
Michele Auteri in Catania sia eseguita con bollo di piombo attaccato
con fili di seta, nella di cui parte convessa saravvi
l’emblema della Trinacria; e nella parte concava, nel primo giro la leggenda,
Regia Dogana di Catania;  nel secondo giro,
Fabbrica di seterie; ed in mezzo, di Michele Auteri.
Nel XIX secolo, malgrado la crisi, insieme alla Cina e al Giappone, l’Italia, grazie alle seterie Auteri, era ai vertici della produzione mondiale di seta greggia.

Particolare del Salone delle Feste del Palazzo Paternò del Toscano di Catania
Una bellissima sala adorna di affreschi, specchiere e di magnifiche tele.
Si tratta di tele di seta dipinte a mano con motivi floreali.
Probabilmente si tratta di una seta prodotta dalle seterie di Catania attive
nell’Ottocento (Seteria Auteri e Mangannelli)

Ben presto accanto a queste filande si affiancarono nuove strutture, provviste di “macchina che dipanasse e torcesse la seta all’uso piemontese”.
 Verso il 1850 a Catania “otto se ne contano che perennemente torcono libbre ventimila di seta organzina”.
Numerose fabbriche di drappi trasformavano poi la seta ritorta in tessuti “che facilmente si scambiano con quei di Francia”.
L’elemento che univa queste attività fu l’origine artigiana degli imprenditori per lo più ex filatori, tessitori o tintori.
(Molti dei negozianti e imprenditori del settore serico erano iscritti alla fine del 1700 all’albo del Consolato della Seta. Il sig. Geraci era un aiutante filatoraio e  tessitore; i fratelli Auteri, possessori nell’Ottocento di una delle più grosse “fabbriche” di seta, presso cui lavorava uno stampatore francese, veniva da una famiglia di filatori e tintori).
I produttori avevano anche dei negozi dove vendevano accanto alle sete ed ai tessuti stranieri anche le manifatture prodotte nei loro opifici o date a tessere a domicilio. Avevano committenze con l’estero grazie a commissari stabilmente residenti a Palermo, Malta e Napoli. Attorno a queste fabbriche un ricco tessuto urbano costituito da artigiani tessitori, di incannatrici e di piccole tintorie.

(Una Relazione del Costanzo, risalente al 1834, calcola “tutti gli operai impiegati in Catania ne’ lavori di seta e di cotone…. da circa 20.000, e tutti i telai al numero di 5.000 tra i quali, senza tema di fallo, se ne possono contare 200 di quelli con la macchina a jacquars”.  Il Maurolico, nell’ottobre 1834, “conta 15.000 operai che lavorano attualmente in Catania ai drappi di seta, su una popolazione complessiva di 55.000 abitanti”. Francesco Paternò Castello duca di Carcaci, nel 1841,  “i drappi che si smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per ognuna, i telai che li lavorano 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la seta che vi si impiega a libbre 112.840”).

Il Paternò continuò nella sua descrizione…” La introduzione di quest’arte in Europa si deve allo imperatore Giustiniano, ed in Sicilia a Ruggero re, che tornando vittorioso dalla Siria, quivi condusse il più bel frutto di sue vittorie, il prezioso insetto che produce la seta, il modo onde svolgerla dal bozzolo e lavorarla. Una tal arte a Catania dovette stabilirsi molto di buon ora conciossiache’ fin da tempo assai antico vi fu eretto un magistrato al semplice scopo di vigilare alla qualità de’ tessuti e decidere la contestazioni che avessero potuto insorgere fra artigiani e trafficanti. Il Governo, ne’ principi del corrente secolo, cede l’eremo detto della Mecca al signor Geraci per erigervi macchina che dipanasse e torcesse la seta all’uso piemontese, che in fatti fu costruita per mezzo di artisti chiamati a bella posta dall’estero, altro ne assegnò da lì presso al signor Ronsisvalle al medesimo soggetto, e   diversi particolari  altre macchine sifatte alzarono ad imitazione delle prime, in quisa che oggi otto se ne  contano che perennemente torciono libbre ventimila circa seta organzina. Il resto della seta che s’impiega in drappo e in tutte le altre specie di lavori si dipana e si torce con macchine impropriamente dette filatoi. Quasi tutta Sicilia, Napoli, Malta si provvedono di drappi lavorati in Catania che facilmente si scambiano con que’ di Francia. Le fabbriche più conosciute sono quelle di Auteri, Geraci, Fragalà, Ronsisvalle; e per fazzoletti stampati ad imitazione di que’ delle Indie, la nascente di Barbagallo. I drappi che si smaltiscono in un anno fanno ascendersi a 13.284 pezze di canne 26 per ognuna, i telai che li lavorano a 1170 fra i quali 170 sono alla Jacquart, la seta che vi si impiega a libbre 112.840. vi sono inoltre 2.050 telai per nastri che impiegano libbre 9.000 seta e lavorano pezze 36.000 fettucce in un anno, ed altra non poca quantità di seta si impiega in lavori a maglia, frange, galloni, fiocchi, cucitura, ecc.”.

Joseph Marie Jacquard
Lione, 7 luglio 1752 – Oullins, 7 agosto 1834
Inventore francese

Telaio Jacquard

Queste fabbriche avevano un rapporto con il mondo rurale che si limitava all’acquisto di materie prime come bozzoli, seta grezza e limoni per la tintoria, tutti beni necessari alla produzione urbana.
I negozianti catanesi davano a tessere le loro sete nei telai di artigiani e di maestre dei centri vicini che, come Acireale, godevano di antiche tradizioni artigiane.
Nella provincia di Catania non sembra essere mai esistito un filatoio meccanico del tipo di quelli esistenti in città.
 
Lo stesso discorso si potrebbe affermare per Messina dove il grande opificio di  Antonino Zinniti era provvisto di una macchina per la torcitura
diversa affatto e più magnifica ed assai più perfetta di quelle che esistevano
che dava lavoro a 28 operai, 80 donne e 30 ragazzi ma la cui forza motrice era ancora rappresentata dell’uomo. Un opificio situato dentro la città.
Nel resto della provincia la presenza di piccole filande con i fornelli per la trattura e non si conoscono esempi di torcitura meccanica e nemmeno di incannatura diversa da quella manuale, da sempre esercitata dalle donne.
Il basso livello dei salari e delle retribuzioni degli artefici, che verso il 1840 era lo stesso di quello del 1770, non rendevano necessario il ricorso alle maestranze e alle risorse offerte dalle campagne.
Secondo Cacioppo Vicenzo  (Camera dei Deputati nel XIX secolo) .
.”i tessitori di seta nel 1853 guadagnavano tarì 3 e grana 12,  e per le ottime stoffe anche tarì4,10; le donne tarì 1,10; ed i ragazzi tarì 1,2”.
I salari registrati nei contratti delle maestranze catanesi dagli anni 1773 agli anni 1809, erano  gli stessi come risultano dagli atti dei notai Salvatore Niciforo e Angelo Niciforo.
Per le incannatrici e i minori vigeva la formula del contratto detto della “locatio personae”. Il padre, o nel caso di donne sposate, il marito “affittavano” il congiunto per un anno o più, dietro un anticipo in denaro che l’incannatrice o il giovane si impegnava a “schittare” col proprio lavoro. Spesso però gli anticipi e i soccorsi alla famiglia da parte del mercante o del maestro facevano crescere il debito e con esso la durata del rapporto di lavoro”.

 2. Alcuni Borghi della Seta

 A Savoca (Messina), antico borgo, posto su un colle prospicente il mare Jonio, l’allevamento del baco da seta risalirebbe al periodo arabo. L’allevamento raggiunse il suo apice nel XVI secolo quando a Savoca erano presenti, intorno al 1567, ben venti filande per la lavorazione della seta. Vari problemi, come il terremoto del 1908, cancellarono quest’antica arte.
La dott.ssa Maria Teresa Rizzo ha ridato vita a quest’antica tradizione sericola del borgo e ha ripreso ad allevare bachi da seta con l’obiettivo di raccontare la storia del piccolo centro attraverso la bachicoltura.

https://www.corrierejonico.it/Savoca-Maria-Teresa-Rizzo-la-farmacista-contadina-che-ha-ridato-vita-a-bachi-bozzoli-e-telai.htm

https://www.facebook.com/MariaTeresaRizzoOrganicFarm






Nel “Bar Vitelli” di Savoca furono girate nel 1971 alcune scene del film
“Il Padrino” di Francis Ford Coppola con Al Pacino
nel personaggio di Michael Corleone.


Altro piccolo Borgo della Seta è Sicaminò,  sempre in provincia di Messina, conosciuto come l’antico borgo dei bachi da seta..
È una piccola frazione appartenente al vicino comune di Gualtieri Sicaminò ed emblema dell’abbandono di un patrimonio culturale di valore inestimabile.
Il nome di Sicaminò deriva infatti dal greco “Sicaminos”, pianta di gelso, un tempo numerosi nel territorio e che garantivano la produzione del tessuto tipico della zona.
Il termine Gualtieri deriva invece dal nome del feudatario del luogo, Gualtiero Gavaretta.


Nella provincia di Messina un importante filanda era quella di Roccalumera



l'ex filanda prima dei restauri

Si tratta dell’ex filanda Papandrea i cui restauri da parte del Comune si sono conclusi nel febbraio 2010.
Una struttura che sarà destinata a museo.
Fu costruita da Giuseppe Papandrea nei primi anni del secolo e rimase attiva fino al 1945/46. La struttura a pianta rettangolare era costituita da due piani ed i prospetti erano caratterizzati da ampie finestre ad arco che si aprivano su un piccolo ballatoio in ferro che correva lungo tutta la costruzione.
Nella parte retrostante si eleva una ciminiera in mattoni a faccia vista. L’edificio fu demolito durante la guerra per non diventare facile bersaglio dei bombardamenti nemici. La filanda fu comunque ricostruita subito dopo.
All’epoca a Roccalumera si trovavano due filande a vapore. La Papandrea era a 32 bacinelle e vi si svolgevano le fasi della macerazione ( i bozzoli venivano immersi in bacinelle contenenti acqua saponata alla temperatura costante di 60 gradi); la scopinatura (con una spazzola morbida si battevano i bozzoli per estrarne i capifili); la trattura ( operazione con la quale si riunivano insieme e si saldavano un certo numero di
Bave o fili); la binatura e torcitura (lavorazione al filatoio) alle quali seguivano la sbiancatura e la tintura della seta.
Il piano terra era adibito a magazzino mentre al piano soprastante, di circa 400 mq, veniva trattata la seta. Quando il Comune entrò in possesso dell’edificio vi furono trovati delle importanti testimonianze documentali. Documenti costituiti da opuscoli scientifici, materiale cartaceo vario ed anche degli interessanti libri mastri. Libri mastri dove venivano registrati i movimenti “in entrata” dei bozzoli, provenienti dalle zone agricole dov’era sviluppato l’allevamento del baco da seta, e “in uscita” della seta grezza che era destinata ai mercati stranieri per essere lavorata e tessuta.
In una sezione del locale erano ancora visibili le impalcature in legno a torretta dette “pannalore” che sostenevano gli incannicciati ove veniva posto il bozzolo.
Purtroppo nessun macchinario o parte di esso fu trovato per testimoniare e rendere vivo il processo della lavorazione del filo sericeo.
Al momento dell’acquisizione del Comune, l’edificio presentava delle lesioni in più punti, nelle sue strutture portanti, a causa di una frana. Bisogna dare un plauso al Comune per aver salvato quest’antica testimonianza di “archeologia industriale” che sarà destinata a sala congressi e Museo della Seta.

A Caprileone (Messina) l’ex filanda Mellinghoff, oggi albergo.



A Messina, Viale della Boccetta Alto, si trova l’ex filanda Barbera – Mellinghoff di fine ottocento, che fu la sede storica del Museo Regionale di Messina all’indomani del catastrofico terremoto del 1908.
Dopo il sisma fu recuperato tra le macerie del centro urbano il materiale storico artistico e il patrimonio dell’ottocentesco Museo Civico Peloritano che dal 1890 era collocato nell’ex monastero di San Gregorio. Il tutto fu trasferito nella spianata del San Salvatore, vicino al torrente Annunziata, dove si trovavano i resti del cinquecentesco monastero basiliano che da 1860 era adibito a caserma militare.
Il materiale recuperato era vastissimo e fu collocato nelle aree esterne, le famose cataste, in alcuni capannoni o tettoie, che furono realizzate durante i recuperi.  Nel 1911 l’edificio della filanda Mellinghoff, rimasto miracolosamente in piedi, fu preso in locazione dalla Soprintendenza ai monumenti e fu qui collocato il materiale recuperato grazie  al regio ispettore  Pasquale Mallandrino, al soprintendente Antonio Salinas, Ettore Mirgalia e Gaetano Columba. La sistemazione dei reperti nell’ex filanda si deve ad  Enrico Mauceri che nel 1922, allapresenza del principe Umberto, inaugurò il Museo Nazionale di Messina “subordinato allo stato provvisorio dei locali con le loro tirannie di spazio e di luce”.
Nel 1954 grazie alla direttrice Maria Accascina, affiancata dall’arch. Nicola Tricomi, si ebbe  il restauro in economia dell’ex filanda nell’attesa dell’auspicata soluzione definitiva per il Nuovo Museo. Solo all’inizio del 2000 cominciarono i trasferimenti dei reperti nel Nuovo Museo.


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3.  I Fratelli  Eaton di Fiskerton a Messina e Villa San Giovanni

Sin dal loro arrivo, alla fine del primo decennio postunitario, i fratelli Eaton (Edward James e  John Thomas) avevano orientato la loro attività economica in quei settori tipici dell’economia siciliana e dell’area dello Stretto, quali la produzione della seta e le colture specializzate.
Differenziarono i loro investimenti e scelsero per la Sicilia Orientale la produzione degli agrumi e delle olive mentre per Messina e Villa San Giovanni la produzione della seta.
Gli Eaton  avevano acquistato una notevole esperienza nel settore serico, allorchè da Fiskerton si erano trasferiti a Tiverton, sede della “Heathcoat & Co” (fabbricante di trine (merletti) ed esercente il commercio delle seterie) ed erano venuti a Messina agendo per conto della ditta.



John Heathcoat

All’inizio erano indicati come “negozianti di prodotti” poiché gestivano per conto della “Heathcoat” la filanda ubicata nel villaggio Gazzi e sempre per conto della stessa ditta avrebbero intrapresero la stessa attività anche a Villa San Giovanni.

Filanda di Gazzi (?)

Dalle fonti notarili risulta che poco tempo dopo Edward James Eaton abbia intrapreso un’attività analoga e del tutto autonoma sia a Messina che a Villa San Giovanni. Acquistò degli impianti che erano esistenti in queste città e li destinò ad uso di filanda.
Gli impianti di Messina, come risulta da un atto del notaio Pietro Aversa (numero repertorio 4483 del 22 giugno 1912) erano ubicati nella zona di Porto Salvo.
Lo Eaton affiancò la sua attività a quella per conto della “Heathcoat”.
A queste attività Edward James aggiunse la gestione, con i soci Geroge Oates e Carlo Sarauw, a Villa San Giovanni di un pastificio ancora attivo nel 1908 e la proprietà di un immobile affittato, ad uso di uffici dello Stato, per un canone annuo di 650 lire.
(L’immobile era in affitto all’Ufficio del Genio Militare, Sezione Artiglieria (notaio Pietro Aversa, n. repert. 414, atto del 18 giugno 1897).
Gli Eaton avevano una diversificazione dei loro investimenti e dimostrarono di essere degli imprenditori intraprendenti, moderni e anche accorti nei loro investimenti.
Non sono noti i rapporti economici che gli Eaton avevano con la ditta inglese di Tiverton cioè se fossero degli intermediari della “Heathcoat & Co.” o dei soci.
Come già detto è anche vero che gli Eaton avevano operato a Tiverton, prima di giungere a Messina, e alcuni membri della seconda generazione degli Eaton  risiedevano nella contea di Devon come il figlio di John Thomas Eaton, John Edward Caldwell.
Gli Eaton giunsero quindi a Messina per conto della ditta inglese per attivare una filanda che doveva produrre la seta, materia prima, per lo stabilimento inglese.  La filanda di Gazzi s’inseriva in questo progetto.
L’intraprendenza degli Eaton e la forte disponibilità di capitali, portò Edward James Eaton ad avviare la stessa attività in proprio acquistando nella zona a sud di Messina,  a Porto Salvo, una filanda che sarà ereditata nel 1902 dall’unica figlia Elsie Marie e dal marito Giovanni Cassis.
A Messina ed a Villa San Giovanni  Edward Eaton non si limitò solo al commercio della seta e nella cittadina calabrese aveva anche un deposito di grani insieme ai soci Carlo Sarauw e Michele Santacatterina.
Tuttavia l’attività principale fu quella della filanda di seta di Gazzi, nella zona sud di Messina, dove una lunga tradizione culturale aveva fatto nascere durante il primo Ottocento, prima della diffusione della coltivazione degli agrumi, numerose filande lungo la strada del Dromo (da “dromos” veloce, una strada che collegava Messina a Catania)   .

Messina - Strada del Dromo con l'ubicazione delle vecchie filande

Nel 1831 vi era ubicata la filanda Guerrera con “ ben 146 bacinelle”  e nel 1846 s’era insediata, sempre nella stessa zona, quella dell’inglese Thomas Hallam. Gli Eaton avevano iniziato l’attività in un momento in cui la crisi del comparto sericolo nazionale determinava una forte spinta verso un necessario rinnovamento tecnologico e conseguente fu la scomparsa delle piccole filande che operò una vera e propria selezione nel settore.

Alla fine del secolo XIX erano scomparse dalla città parecchie filande e quelle rimaste, sebbene progredite,  risentirono non poco della crisi del settore.
Malgrado la crisi Edward James Eaton si apprestò con coraggio a rinnovare il contratto di locazione della filanda con gli eredi Guerrera.
Nell’affitto erano compresi anche … legname e tutti gli altri materiali bisognevoli per l’uso della filanda”;  alcuni locali posti “ dalla parte di settentrione, ponente e mezzogiorno della filanda”  dove erano tenuti i bozzoli e la seta per il lavoro giornaliero e quei locali destinati alla conservazione dei restanti bossoli che forma l’oggetto principale dell’industria”.
Comprese nell’atto erano le cinque stanze poste nella parte bassa della casa adiacente ai laboratori e contigui alla filanda, come pure i due cortili attigui alla filanda stessa e i luoghi di deposito.
I Guerrera s’obbligavano a mettere a disposizione dell’Eaton i magazzini necessari a riporre “ cofani, canestri ed altri recipienti ed oggetti nei quali si contengono e conservano i bozzoli, dovendo tale magazzino essere indipendente dalla filanda ed in un sito da non  apportare alla filanda della seta il minimo ostacolo, ed alle operazioni  tutte che per questa si debbono praticare”.
Dall’atto risulta quindi che la filanda doveva essere logisticamente ben organizzata in  modo da agevolare il più possibile l’attività produttiva mentre le dimensioni dovevano essere considerevoli poiché l’area delle filanda comprendeva anche il terreno circostante dove si trova un gelseto ed una casa adiacente da tempo abitata da Giuseppa Guerrera.
In quell’area si trovava anche una fabbrica di agrocotto che era esclusa dalla locazione e che non rientrava quindi nelle attività produttive dell’Eaton che erano circoscritte solo al settore serico. (Notaio Pace Orioles, atto del 10 agosto 1899).
(agrocotto: succo concentrato derivato dagli agrumi. Attraverso un processo di cottura e purificazione, era destinato alla produzione di acido citrico, probabilmente la “Sanderson” ).
Nella filanda “Eaton” importante fu il ruolo svolto da Thomas Skinner che ne fu il direttore per molto tempo. Faceva parte di quei tecnici giunti dall’Inghilterra su incarico della “Heathcoat & Co.”  e la sua collaborazione nella filanda “Eaton di Gazzi”, come tecnico e direttore, fu importante a tal punto che la filanda era conosciuta come filanda “Skinner”.
Alla morte di Edward James fu lui a gestirla  per conto della ditta inglese e, successivamente, dopo la sua morte, il posto fu preso dal figlio William Beek Skinner.
Qualche anno più tardi venne chiarita la posizione del defunto Edward James Eaton nei confronti della filanda Gazzi ed i suoi rapporti con la “Hearthcoat & Co.”.
Davanti al notaio Pietro Aversa si presentarono tutti i componenti della famiglia Guerrera,   George Edward Oates (cognato del defunto Edward Eaton e procuratore della “Heathcoat & C.”)  e Antonio Cappuccio Gangemi in qualità di procuratore dei coniugi Eaton-Cassis (Elsie Mary Eaton e il marito senatore Giovanni Cassis).
Nell’atto si specificava che nel precedente contratto di locazione della filanda di seta, Edward James Eaton era intervenuto “non nel nome ed interesse suo proprio ma quale incaricato grazioso e per fare piacere alla ditta John Heathcoat & C., quindi la locazione deve intendersi fatta e stipulata con la ditta medesima ed a questa vi competono tutti i diritti e le obbligazioni del contratto di locazione”.
Da questo momento non ci sarà più alcun rapporto commerciale tra gli eredi Eaton e la ditta Inglese mentre restava confermato il contratto d’affitto firmato da Edward James.

4
 A Villa San Giovanni e nel comprensorio reggino il numero delle filande era drasticamente diminuito, prima del terremoto del 1908 erano 18 rispetto alle 30 degli anni precedenti), a causa non solo della crisi ma anche delle trasformazioni industriali di cui Edward James si era reso protagonista.
 Tra  la fine del XVIII e la prima età del XX secolo Villa San Giovanni era particolarmente famosa per l’allevamento del baco da seta e per le sue filande. Si parla di ben 56 filande che costituivano una grande fonte di lavoro  e di sostegno economico della zona e di cui rimangono dei ruderi.
L’attività sembra che sia iniziata verso il 1785 grazie all’opera di Rocco Antonio Caracciolo che nel 1792 rese operativa a Villa una filanda ed un filatoio. La prima era situata fra il palazzo del Caracciolo e l’attuale Fontana Vecchia, la seconda presso la strada Micene, oggi Via Micene, vicino all’attuale Asilo salesiano.

Villa San Giovanni - RC
Fontana Vecchia

«Nel V anno di regno di Francesco I delle Due Sicilie
Bonaventura Palamolla Prefetto della Calabria Prima Ulteriore
Raffaele Greco, Filippo Corigliano e Santo Coppola
triumviri incaricati della costruzione
S. C. (per Senatoconsulto)»

«O Villa, che ti specchi nel Peloro Trinacrio,
che la ninfa ti somministra le gelide acque presso questa fonte
lo devi a Palamolla: egli ordinò che, io
nata dal Cenide, scorressi per questi umidi antri.»

La prima fontana fu eretta nel 1972 per ordine del Re, per il  benessere
della popolazione e l’utilizzo della dello Stabilimento della seta della
famiglia Caracciolo che era adiacente alla stessa fontana.
La fontana su costruita a spese dell’Università di Fiumara di Muro
(Vllla San Giovanni) per il costo di ducati 1580, grane 73 e colli 8, e dei
Fratelli Caracciolo per il costo di Ducati 626,grane 91 e colli 4.
A beneficio del Comune di Villa San Giovanni sarebbe rimasto il diritto di
attingere acqua per bere, per cucinare e per abbeverare gli animali.
Lo scolo di detta fontana sarebbe rimasto a beneficio della famiglia
Caracciolo con il diritto di attingere acqua dalla medesima fontana mediante
una “margherita” posta dietro per uso loro privato.
Il 18 gennaio 1827 si otteneva una netta distinzione tra acqua pubblica
del Comune di Villa San Giovanni e quella per uso privato della famiglia
Caracciolo. Il Consiglio d’Intendenza (Prefettura della Calabria) stabilì che
le acque dovevano essere divise per 4/5 (3/4) di proprietà del Comune di
Villa San Giovanni e 1/5 (1/4) di proprietà della famiglia Caracciolo.
Venne anche stabilito che le 4/5 parti d’acqua rimanessero in perpetua
proprietà del Comune e si facessero scorrere ad un Fonte con canale
aperto, in modo che gli abitanti potessero usufruirne in qualsiasi momento e
che l’intero scolo (acqua in eccesso) dei suddetti 4/5 parti d’acqua,
insieme alla quinta parte delle acque di detta Fontana, rimanessero di proprietà
dei Fratelli Caracciolo per l’uso della loro filanda. Per eseguire la
suddivisione suddetta il Comune di Villa San Giovanni fece realizzare
un nuovo bottesco, ed una seconda fontana allo stesso livello e contigua
alla Fonte che allora esisteva sulla proprietà Caracciolo, dando
incarico per la progettazione all’ing. Stefano Calabrò (di Reggio Calabria) nel 1829.
La tipologia architettonica e gli elementi architettonici della fontana
sarebbero riconducibili al tempietto greco. Il frontone con il timpano in cui
è collocata l’iscrizione lapidea, l’arco e i piedritti, la semicupola e l’esedra o incavo
in cui è collocata la vasca con il nasone,, sul quale sono state rinvenute le
fattezze del volto e dei capelli di una figura femminile, il basamento e i gradini
d’accesso alla fontana.
Il 23 maggio 1862 il Consiglio Comunale a maggioranza dei voti deliberava che,
 per le necessità della popolazione, il comune acquistasse dai fratelli
Signori Francesco a Michelangelo Caracciolo la quarta parte dell’unica e
pubblica fontana, mediante corrispondente indennità a favore dei
Signori Caracciolo e stabiliva per loro esclusivo uso soltanto
L’intero scolo dell’acqua (acqua un eccesso) della fontana medesima.
Una deliberazione che venne approvata dal Prefetto della Calabria
Palamolla il 26 Maggio 1862.

La crescita dell’attività fu anche per merito del torinese Francesco Bal, direttore della filatura 
nell’area di Reggio e della grande filanda di Santa Caterina. 
La nuova attività fu presto seguita da altri villesi e sorsero numerose filande fra Villa, Pezzo e 
Cannitello. L’attività industriale fece crescere anche la popolazione. “Fossa” nel 1777 registrava 
solo 236 “anime” mentre nel 1811 ne registrava ben 1804, nel 1849 salirono a 3475 e nel 1901 
raggiunsero le 6647 unità.
Nel 1847 le filande a Villa erano  44 con 676 mangani, 676 maestranze e 676 discepole. Ben presto 
arrivò la meccanizzazione e subito dopo l’Unità d’Italia ci furono gli investimenti d’imprenditori 
settentrionali e stranieri come il milanese Adriano Erba e gli inglesi Thomas Allan ed il nipote 
Edward James Eaton che aprirono varie attività in società con villesi. La città venne chiamata la 
piccola “Manchester” proprio in riferimento all’attività serica della città inglese di Manchester ed 
alla discreta presenza industriale inglese.
Il 19 marzo 1877 fu istituita la Società Operaia di Mutuo Soccorso, tuttora esistente ed operante.
La Camera di Commercio di Reggio Calabria annotò che nel 1887 tra le industrie locali quella della 
produzione della seta era 
forse l’unica che meriti questo nome… e che a partire dal 1883 era in continuo progresso”. 
Si stava portando avanti un processo di ristrutturazione che nel giro di qualche decennio avrebbe 
determinato la totale scomparsa delle filande di Reggio Calabria e la concentrazione dell’industria 
Villa San Giovanni.
“Nel 1888 ne operavano sedici a vapore e quattro “fuoco diretto” a cui si aggiungevano le tre a vapore e le “quattro a fuoco diretto” dei centri contigui di Cannitello e Campo Calabro, impiegando 2416 addetti, di cui 1768 adulti e 505 minori, mediamente per 250 giorni all’anno”.

Prima i Caracciolo, poi Barker ed Hallam, Eaton e Adriano Erba, in collaborazione con l’emporio 
messinese, concorsero in buona parte con lo sviluppo calabro.
Tra il 1876 ed il 1879 le filande a vapore erano già aumentate a sette, tutte nel comune di Villa San 
Giovanni. Le ditte inglesi che erano presenti nel territorio dal 1875 erano quella di Eaton e l’altra 
da lui gestita per conto della ditta inglese.
Ditta inglese (“Heathcoat & C.”)  che era proprietaria di “stabilimento industriale e terreno relativo 
nel comune di Villa San Giovanni, contrada Solaro”  ed affidato alla Gestione di E.J. Eaton. 
L’Eaton che successivamente acquistò un altro stabilimento industriale limitrofo. La contiguità tra i 
due stabilimenti adiacenti aveva spinto l’Eaton alla costruzione di alcuni ambienti nel terreno in cui 
era ubicata la filanda della ditta inglese, in modo da unire di fatto i due stabilimenti. Costruzioni 
che furono fatte con il consenso della “Heathcoat & C” e riguardavano
due piccoli vani a pianoterra ed alcune camere nel fabbricato nel secondo e terzo piano, aggregandoli al suo stabilimento”.(Notaio Pietro Aversa, n. rep. 4483, 22 giugno 1912)
All’interno della sua filanda l’Eaton non si era solo limitato alla produzione della seta perché in un 
adeguato spazio, ricavato sempre nello stabile di sua proprietà, aveva inserito un attività per la 
“molitura di grani e granaglie”.
Attività  nella quale fu affiancato dai soci George Edward Oates e Carlo Sarauw. La società che 
sorgeva per la gestione del pastificio e gli investimenti operati, con l’introduzione di tecnologie più 
moderne, ne avevano fatto l’unico “a vapore” di Villa San Giovanni. (Notaio Pietro Aversa, n. rep. 
48, 16 giugno 1897; 760,5 gennaio 1899; 1045, 4 gennaio 1900; in merito alla società Oates e 
Sarauw).
Nel 1892 a Villa operavano 21 impianti a caldaia ed un solo impianto a fuoco diretto (Bambara 
Pasquale).
Le maggioro filande a caldaia erano:
-          L’Eaton (3 caldaie, 35 cavalli, 128 bacinelle e 300 addetti)
-          L’Erba (3 caldaie, 42 cavalli, 110 bacinelle e 253 addetti);
-          Florio e Marra ( 2 caldaie, 14 cavalli, 120 bacinelle e 238 addetti);
-          Caminiti Giovanni e figli ( 2 caldaie, 16 cavalli, 56 bacinelle e 136 addetti);
-          Lofaro Rocco e figlie (2 caldaie, 12 cavalli, 60 bacinelle e 196 addetti).
-          Aricò Salvatore (2 caldaie,…..)
-          Sergi Cosimo (2 caldatie,…….)
-          13 filande ad una caldaia di imprenditori villesi.
Nel 1890 la “filanda Eaton”, che univa le due filande Heathcoaut ed Eaton, continuava ad essere la 
più importante con le sue tre caldaie a vapore, 128 bacinelle e 300 addetti.
Anche a Villa S. Giovanni come a Messina lo Eaton contribuì in modo decisivo alla crescita del 
settore serico grazie all’ammodernamento delle strutture, impianti moderni simi a quelli in uso a 
Manchester, con conseguente aumento della produttività.
La gestione e la cura della filanda e del pastificio era affidata ad Achille Spadaro, che diresse gli 
impianti sino alla sua morte avvenuta nel 1899, occupandosi anche della “compra di bozzoli” per la 
filanda.
Dopo la morte dello Spadaro, la moglie, Gaetana Crisafulli, ricevette da Eaton due certificati di 
rendita nominativi intestati alle figlie di 100 lire ciascuno a saldo ed estinzione di 
ogni pretesa che la vedova Spadaro potrebbe vantare, nonché in saldo ed estinzione di ogni pretesa di detti minori per stipendi e per ogni compenso dovuto ad Achille Spadaro” (Notaio Pietro Aversa, n. rep. 781, 2 febbraio 1899).

La morte di Edward James Eaton, avvenuta pochi anni dopo quella di Achille Spadaro, chiudeva un 
lungo e positivo ciclo d’attività della filanda mentre restava in vita quella del molino-pastificio.
Nel suo testamento aveva stabilito che per un anno, dopo la sua morte, “l’azienda commerciale e 
civile” doveva essere gestita dal cognato George Edward Oates che, poco, dopo nominava tale 
Giuseppe Correnti, già “commesso” della ditta Eaton, come procuratore generale concedendogli 
“pieno potere e facoltà d’amministrare incondizionatamente tutti i beni di Eaton e di esercitare e 
continuare tutti i negozi attuali e futuri riguardanti” la ditta E.J Eaton.
Un anno dopo la gestione passava nelle mani della figlia Elsie Marie e del marito Giovanni Cassis 
che rinnovarono la procura al Correnti (senza che si menzionasse la filanda di seta) con l’unico 
scopo di amministrare il molino pastificio.
Nel 1906 il Correnti cessava la collaborazione con i coniugi Cassis che nominarono un nuovo 
procuratore, Bernardo Mengotti. Due anni dopo conferirono la procura a Meridio Zenatto con il 
compito perà non solo “di amministrare tutti i beni presenti e futuri di pertinenza di Elsie Marie 
Eaton” ma anche “con la facoltà di venderli”. (Notaio Pietro Aversa, n. rep. 3676 e 3677, 10 
novembre 1908).
Questo avveniva dopo il tragico terremoto del 28 dicembre 1908 a circa un mese di distanza.
L’evento sismico aveva danneggiato una parte dei fabbricati della ditta Eaton ed interrotto ogni 
progetto di vendita. Erano crollati quei vani che aveva fatto costruire per unire i due stabilimenti ed 
in particolare i piani superiori “rimasero danneggiati pur rimanendo in buone condizioni” mentre 
“crollarono in gran parte i piani a pianoterreno occupando la proprietà della ditta Heathcoart & C”.
Il risiedere dei detriti di crollo determinò una controversia con la ditta inglese, rappresentata da 
William Beek Skinner, e gli eredi Eaton.
La controversia fu risolta con una transazione nella quale Elsie Marie Eaton decideva di vendere 
alla ditta inglese “le suddette costruzioni e tutto il materiale ivi esistente” al prezzo convenuto di 
4.500 lire. (Notaio Pietro Aversa, n. repe. 4483, 22 giugno 1912)
Si concludeva così la lunga e attiva presenza di Edward James Eaton sulla sponda calabrese dello 
Stretto.
A causa del terremoto a Villa San Giovanni la produzione della seta venne interrotta e furono 
ricostruite solo tre filande tra cui la “Filanda Cogliandro”. Filande che continuarono la produzione 
fino al 1950 circa.



Filanda Cogliandro – Villa San Giovanni










Il fondatore Domenico Cogliandro nel 1920 riportava nelle sue memorie:
“La nuova costruzione comprendeva una grande sala di metri 20×10, per l’impianto di 40 bacinelle a pianterreno, con bozzoliera di uguali dimensioni a primo piano. Inoltre, a pianterreno: sala per macchine e caldaia a vapore, sala per cernita di bozzoli, sala per pulitura e imballaggio seta, uffici. Tutti i lavori, iniziati nell’aprile 1895, ebbero termine nel marzo 1896 e nel luglio successivo si poté iniziare il lavoro con le bacinelle installate. Modesto opificio, è vero, ma che poté bene stare a pari delle altre filande. Tutto il complesso di opere occupava all’inizio una superficie di circa 400 mq.
Oggi, con le nuove costruzioni realizzate dopo il terremoto del 1908,
l’area supera i 4500 mq.”

I ruderi della filanda “Erba” si trovano lungo la Marina.

 





Nell’ex filanda “Erba, subito dopo la Prima Guerra Mondiale era attiva una fabbrica di pipe, la 
“Vasas”.
Nel 1926 venne ceduta al toscano Egidio Dei, ex direttore della stessa ditta “Vassas”. Una fabbrica 
molto attiva con le sue 25 seghe circolari dove si producevano e raffinavano pipe in radica di erica.
I prodotti delle fabbrica subivano la lavorazione finale nell’Italia settentrionale (Milano), in 
Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti.
Il merito di questa fabbrica era di Dei Egidio Rinaldo Ferdinando nato a Castelnuovo Val di Cecina 
(Pisa) il 12 ottobre 1870, figlio di Giuseppe e Assunta Pianigiani. Il padre era uno sbozzatore di 
pipe ed ispettore di una ditta che le produceva.
Una figura dal punto di vista storico perché nel 1900 era segnalato come anarchico e svolgeva una 
forte propaganda politica fra gli artigiani- nello stesso periodo era stato uno dei firmatari della 
protesta, sul giornale “L’Agitazione” di Ancona, contro la condanna di Errico Malatesta (anarchico 
e grande amico di Michail Bakunin) e di altri compagni di fede politica.



Fa parte del gruppo “L’Avanguardia” ed assieme a 14 compagni firma ed invia da Massa Marittima 
(Grosseto) al giornale “L’Agitazione”, in data 8 luglio 1900, una dichiarazione di solidarietà ad 
alcuni compagni processati per associazione a delinquere.
Il 12 aprile 1904 alcuni carabinieri di Follonica (Grosseto) sequestrarono un pacco che conteneva 
cinquanta copie del giornale sovversivo “Il Seme” di Livorno. Copie che erano dirette ad Egidio 
Dei. Dopo qualche mese anche a Messina  le autorità sequestrarono ben seicento copie del primo 
numero del giornale anarchico “La Rivolta” che erano diretta al Dei.
Malgrado la stretta sorveglianza della polizia, il Dei continuò a partecipare a riunioni anarchiche e 
propagandare le idee di libertà in particolare tra gli operai. Nel giugno del 1907 partecipò al 
congresso anarchico che si svolse a Roma dove insieme a Luigi Fabbri ed Enrico Marcucci, 
appoggiò l’ordine del giorno, presentato da Ignazio Scaturro, circa la necessità di 
“combattere le religioni non meno delle altre autorità del sistema capitalistioco”.

Congresso Anarchici

Il 4 ottobre  1907 venne arrestato e processato dal tribunale di Grosseto. La relativa condanna fu di 
due mesi di reclusione per oltraggio alla forza pubblica nel corso di una manifestazione contro 
l’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Alla manifestazione aveva partecipato insieme ai 
compagni Nicomede Bertini, Natale Boschi, Giuseppe Gasperi e  Ivemero Giani. Fu nominato 
ispettore della ditta “Wassas Freres”, produttrice di pipe, e per questo motivo i suoi spostamenti in 
Calabria erano frequenti. Dal 1910 al 1925 abbandonò la scena politica e cambiò spesso la sua 
residenza.
Nel 1925 si stabilì a Villa San Giovanni dove manifestò nuovamente le sue idee anarchiche.
Nel 1926 risultava abbonato al periodico anarchico “Pensiero e Volontà”

Alla sua morte, avvenuta nel 1929, non si conoscono le data e le cause, la polizia sequestrò 
nella sua abitazione di Villa alcune copie del giornale e delle carte appartenute a Errico Malatesta.
All’inizio Egidio Dei amministrava per conto della “Wassas(Vassas) Freres”, d’origine 
francese, ben 36 segherie che erano dislocate nel salernitano, in Calabria, in Sicilia e anche in 
Sardegna. Nella fabbrica di Villa San Giovanni  rilevata successivamente dallo stesso Dei, riuscì a 
dare lavoro a cento famiglie. Compresi gli scavatori o “cioccaioli”, i boscaioli, camionisti aveva 
alle sue dipendenze ben mille operai.

Lo stesso Dei lasciò un memoriale dove tra l’altro scrisse di aver ricevuto dal 1885 al 1890
“una paga tra le 180 e 220 lire mensili…. Che gareggiava con lo stipendio dei professori d’università”.
Scrisse di aver fatto il “tagliatore” in una segheria di Serrazzano (Pisa) di proprietà francese e 
sempre, in una segheria francese, alla Roche di Massa Marittima, aveva cominciato  a lavorare 
all’età di 15 anni.
Lavorò in Calabria, Sicilia, Campania e visitò i boschi in Albania, Turchia e in Romania. Fu in 
Grecia per insegnare come si estraeva e si puliva il ciocco.
“A quell’epoca quasi tutte le segherie erano azionate a forza idrica, ad eccezione di poche impiantate vicino alla ferrovia che si servivano di piccole locomobili alimentate con segatura e ritagli di legno da pipe. C’erano difficoltà e liti con gli agricoltori per l’utilizzo dell’acqua. Il turno di passaggio delle acque nelle due segherie era di notte. Lavorare dieci ore alla luce di affumicati lumi a petrolio ed in ambiente talmente umido che l’acqua trasudava dai muri, era un vero martirio”.
 
Una fabbrica di pipe molto specializzata, quella di Villa San Giovanni, che era un indice di 
prestigio nell’economia calabrese.
Il legno per la creazione delle pipe arrivava soprattutto dall’Aspromonte ma anche dalla Sicilia, 
dalla Sardegna ed anche dalla Grecia. La fabbrica fu attiva sino ai primi anni ’80, quando fu 
costretta a chiudere a causa della diminuzione della richiesta. Nello stesso periodo fu attiva a Villa 
San Giovanni un’altra fabbrica di pipe, la “Tripepi”, che si trovava nei pressi della Fontana 
Vecchia. La fabbrica sparì agli inizi degli anni ’80.
 La pipa è fatta di radica, un legno speciale e un po' misterioso.  Il legno è fornito dal ciocco… una  
specie di “palla” o “grossa patata” che si sviluppa sotto terra.
Svelando il mistero,. Si tratta di un ingrossamento o di un escrescenza che si forma nell’apparato 
radicale di un arbusto, molto presente in Calabria,  l’Erica Arborea.




Un ingrossamento che si forma molto lentamente. Per raggiungere la dimensione di un pallone, la 
pianta impiega circa vent’anni.
Dal punto di vista botanico sono numerose le piante e gli arbusti che danno origine al ciocco 
sotterraneo ma soltanto il “ciocco” dell’Erica Arborea fornisce la materia prima per la 
fabbricazione delle pipe. Infatti ha delle caratteristiche tecniche come compattezza, durezza, 
resistenza al calore, leggerezza, tutti elementi necessari per la riuscita di una buona pipa. Altro 
elemento caratteristico è la distinzione del ciocco tra “maschio” e “femmina”. Il fiore maschile è 
bianco-rosato  ma in assenza di fioritura non è facile la distinzione. In Toscana i ciccaioli della 
provincia di Siena e di Grosseto erano in grado di riconoscere il sesso del ciocco guardando 
l’arbusto ed è quindi probabile che anche quelli i ciaccaioli di Villa San Giovanni erano in grado di 
fare la distinzione. Un’arte che si è perduta.
L’arbusto è anche chiamato “scopa” e raggiunge l’altezza di tre/quattro metri e secondo l’antica 
descrizione dei ciccaioli toscani
… fa uno sforzo, il fusto è piccolo (puà averne anche più d’uno), le foglie sono
più di aghi verdi. Il meglio dell’arbusto è sottoterra.
L’erica maschio è più bella, più piumosa, la femmina è più magra, più
stecchita, tanto è vero  che l’adoprano per fare ramazze.
Questa erica è un arbusto tipico della macchia mediterranea
 
Cresce spontaneamente in zone costiere, arrivando fin quasi gli 800 metro di altitudine…..
ma deve continuare a sentore l’area marina.
Si trova in Italia, Francia (poca), in Algeria, Corsica, in Istria, in Grecia, in Albania, in Turchia, in 
Spagna e qualcosa anche in Sud America ed in Eritrea.
Quando e perché si forma quell’escrescenza, ingrossamento, callosità, subito sotto il colletto, 
“ciocco”, ci sarebbero delle ipotesi.
Alcuni botanici affermarono che sarebbero la 
conseguenza di fattori patologici determinati da traumi di origine diversa. Sarebbe come una malattia”.
I ciccaioli respinsero questa ipotesi e si portarono avanti la tesi legata alla crescita dell’arbusto-
L’arbusto vive infatti in ambienti difficili, caratterizzati da molto vento e poca pioggia.  Queste 
condizioni ambientali trovano la loro realizzazione in una crescita alquanto stentata dell’arbusto, 
con fogliame piccolo, rami stecchiti che tendono a stringersi al fusto, queste  spingerebbe la pianta 
spingere le sue energie sottoterra all’apparato radicale.


“in effetti l’arbusto grosso, ben sviluppato, è più facile che abbia poca “palla”. Insomma, le 
qualità del ciocco sarebbero un risultato indiretto dell’ambiente ostile. Il ciocco di pianura, per 
esempio, dove la vita dell’arbusto è indubbiamente più facile, presenta quasi sempre il tarlo ed è in 
generale meno compatto, meno buono”.





“Poi c’è il terreno, elemento importantissimo. In quello tufoso (in Maremma) ci crescono i ciocchi migliori, forse perchè trovano minore resistenza”.
I botanici aggiunsero che la frattarietà al fuoco del ciocco  era dovuta anche ad un elevato tenore di 
anidride silicica, ceduta dal terreno. La relativa incombustibilità dipende soprattutto dalle fibre, che 
sono legate fra loro per la particolare irregolare conformazione della “palla”. Mentre il legno, 
quello dei fusti, ha fibre disposte in modo lineare e questo determina minore compattezza e minore 
resistenza all’azione del fuoco.
“Il ciocco ha una crescita concentrica, sia pure irregolare, ma questo non avviene per strati successivi che si depositano dall’esterno, bensì “dall’interno”. La parte più vechia del ciocco è quella esterna, mentre “il cuore” è la zona in formattazione, più giovane ed quindi con processi di consolidamento appena avviati o ancora in atto”.
 
La pianta, dalla caratteristica corteccia rossastra, presenta delle foglie aghiformi e fiorisce tra 
marzo e maggio. Rientra tra le piante officinali per le sue proprietà  diuretiche, disinfettanti ed 
antireumatiche. Anticamente si riteneva un ottimo antidoto ai morsi della vipera. Molto pregiato è 
il miele di erica.


La pianta veniva adoperata per la fabbricazione di scope, per la copertura delle capanne, per creare 
un ottimo carbone ed anche nell’allevamento del baco da seta. I rami dell’erica arborea venivano 
adoperati per la creazione del bosco dove i bachi formavano i loro bozzoli.
I ciocchi dopo la raccolta vengono sottoposti alla bollitura, operazione che dura circa 15 ore per 
stabilizzare e depurare il pezzo di radica, che poi viene fatto asciugare e stagionare da 2 a 5 anni, o 
volendo anche di più. Avviene poi lo sbozzamento, cioè la delicata lavorazione del ciocco, in cui lo 
sbozzatore, seguendone ed esaltandone esattamente la forma e le venature, crea la pipa nella sua 
singolare bellezza.
E’ un’arte antica questa, strettamente legata al territorio e probabilmente nata tra i pastori che nelle 
lunghe ore dei pascoli si dedicavano all’intaglio.
Già nel Seicento i raffinati artigiani calabresi, i maestri segantini o ebanisti, diedero vita a 
laboratori che diventarono il fiore all’occhiello dell’artigianato locale di alcune zone interne delle 
Serre e della Sila. Pare che il primo a scoprirne le potenzialità fu un ufficiale napoleonico al seguito 
di Murat che impiantò la prima vera fabbrica a Villa San Giovanni ai primi dell’Ottocento.
Gli abbozzi, cioè i ciocchi sbozzati, e le pipe complete erano molto richieste all’estero, soprattutto 
in Inghilterra, paese con il quale si intrecciarono fiorenti scambi commerciali. Al momento esistono 
in Calabria diverse piccole aziende artigianali, fabbriche che continuano a produrre fornelli e pipe 
di altissima qualità e apprezzati in tutto il mondo.




Filanda -   Lofaro Rocco e figlie (2 caldaie, 12 cavalli, 60 bacinelle e 196 addetti).








Commenti

  1. Vorrei entrare in contatto con l'autore di questo articolo per chiedergli qualche delucidazione sulla parte che riguarda la Filanda Erba, Egidio Dei e la radica. La mia mail è enrico.castruccio@fastwebnet.it

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