Eleonor de Moura - Prima ed unica donna Vicerè di Spagna in Sicilia - In 27 giorni di reggenza tante leggi anche a favore delle donne in difficoltà - Enciclopedia delle Donne (Settima Parte)
…………………..
Indice:
1.
Il
Vicerè - Le sue funzioni – Il
Compromesso di Capse del 1412 (Castello di Caspe).
2.
Vicerè
Francesco Fernandez de La Cueva, duca d’Alburquerque fu stimato dai Sicilianj (
1666-69) - Vicerè Claude Lamoral,
principe di Ligny – (1670-74) – Le Carestie e i provvedimenti presi per fronteggiarle - La
Rivolta di Messina – Rinforzo delle difese costiere: Trapani (Castello
Colombaria e Torre di Ligny) – Castello di Augusta e di Milazzo – l’Isola d’Ortigia
(Siracusa) – Fu trasferito a Milano dove
i Milanesi gli dedicarono un’opera – La sua partenza portò tanta tristezza nei
Siciliani.
3.
Vicerè Francesco Bazan y Bonavides, marchese di
Baiona – (1674) – La rivolta di Messina -
I disordini ebbero come pretesto un quadro satirico.
4.
Vicerè Fadrique Alvarez de Toledo y Ponte de Leon, marchese di Villafranca del Barzo. (1674
–76);
5.
Vicerè
Anielo Guzman y Caraffa, marchese di
Castel Rodrigo – (1676 -77) – Cenni sulla sua carriera militare – Il Matrimonio
con Eleonr de Moura – I suoi provvedimenti – Il Testamento
6.
Viceregina
Eleonor de Moura, marchesa di Castel Rodrigo ( 27 giorni) - Le sue riforme sociali – Forse l’unica
viceregina d’Europa - Con il marito Anielo Guzman ebbero un figlio, Felix –– Andrea Camilleri gli dedicò un romanzo:
“La Rivoluzione della Luna” - Nel 1600 impensabile per una donna avere una
carica così importante – Cenni sul romanzo (alcune pagine)
7.
L’immagine
di Eleonor de Moura è in realtà un quadro del Parmigianino (Girolamo Francesco Maria
Mazzola; Parma, 11 gennaio 1503; Casalmaggiore, 24 agosto 1540). Il quadro, databile al 1535 circa, aveva il
titolo di “Ritratto di giovane donna” e solo successivamente fu chiamato “Antea”.
8.
Enciclopedia
delle Donne: Altri file
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1.
Il Vicerè
La
nascita dei Vicerè è legata alla fine della dinastia regia indipendente
e con l’incameramento del Regno di Sicilia tra i beni ereditari diretti della
Corona d’Aragona.
Una decisione che fu presa nel Castello di
Caspe nel 1412.
Castello di Caspe
Caspe – Capoluogo
della comarca del Bajo Aragon – Caspe
Provincia di
Saragozza
Con la morte di
Martino il Vecchio, detto “L’Umano o l’Ellesiastico” avvenuta
a Barcellona il 31
maggio 1410, erano tutti deceduti i suoi
discendenti legittimi alla corona, nati dal matrimonio con la regina Maria de
Luna.
(Martino Il
Vecchio era re d’Aragona, Valencia, Sardegna e Maiora;
re titolare di
Corsica, Conte di Barcellona, Rossiglione, Cerdagna ed Empuries
dal 1396 al 1410;
primo duca di Montblanc dal 1387 al 1396; Re di Sicilia,
con il nome di
Martino II di Sicilia o come Martino il Vecchio, dal 1409 al 1410).
Nessun figlio era
nato dal suo secondo matrimonio con Margherita di Prades.
Lo stesso Martino,
su pressione del vescovo di Saragozza (Garzia Fernandez de Heredia), aveva revocato
il titolo di governatore della corona d’Aragona a
Giacomo II Perez
di Urgell e non aveva ancora portato a termine la pratica di
riconoscimento di
suo nipote Federico, Conte di Luna.
Per la pratica di
riconoscimento c’era un forte problema da superare.
Era figlio
illegittimo (naturale) del re consorte di Trinacria, Martino il Giovane
(figlio di Martino
il Vecchio e morto nel 1409) e della
sua amante Tarsia
Rizzari di Catania.
Per due anni ci fu
un grave periodo d’incertezza a causa della mancanza di
un sovrano che
portò l’opinione pubblica a schierarsi con i vari
pretendenti alla
corona. Uno scenario che stava per portare l’Aragona
alla guerra
civile.
I pretendenti alla
Corona d’Aragona e al Regno di Sicilia erano:
-
Federico, Conte di Luna, figlio illegittimo di Martino
il Giovane;
Giacomo Perez II,
Conte di Urgell, bisnipote, per linea maschile di
Alfonso IV “Il
Benigno” (Alfonso Jaimez d’Aragona);
-
Alfonso d’Aragona, duca di Gandia, nipote per linea maschile
di
Giacomo II il
Giusto. Morì nel marzo del 1412 e fu sostituito dal figlio
Alfonso II di
Gandia;
-
Luigi III d’Angiò, duca di Calabria, nipote,
attraverso la madre
Iolanda d’Aragona,
di Giovanni I d’Aragona;
-
Ferdinando di Trastamara, el de Antequera, infante di Castiglia,
nipote di Martino
il Vecchio attraverso sua madre, Eleonora d’Aragona, figlia
di Pietro IV
d’Aragona e sorella di Martino.
Le deliberazioni
dei rappresentanti delle corti d’Aragona, di Valencia e Catalogna, furono rese
difficoltose a causa delle lotte fra le varie fazioni
nobiliari. Il
clima era teso a causa della presenza di partigiani
del conte d’Urgell
e dell’intervento delle truppe castigliane di
Ferdinando de
Trastamara.
Le tre corti
decisero di ricorrere ad un arbitrato.
Fu fissata la data
per il 15 febbraio 1412 per una riunione ad Alcaniz dove
furono nominati
tre rappresentanti per ogni Regno.
Non furono
invitati alla riunione i rappresentanti di Maiorca, Sicilia e Sardegna.
I delegati eletti
si sarebbero riuniti a Caspe (Aragona) e in quella
riunione si sarebbero
pronunciati sui vari diritti dei pretendenti.
I delegati eletti
furono:
Domingo Ram, vescovo di Huesca.
Francisco de Aranda, vecchio consigliere reale e inviato dell'antipapa
Benedetto XIII.
Berenguer de Bardají, giurista delle cortes di Aragona.
Pedro de Sagarriga, arcivescovo di Tarragona.
Bernardo de Gualbes, consigliere di Barcellona.
Guillem de Vallseca, giurista delle cortes di Catalogna.
Bonifacio Ferrer, priore della certosa valenciana di
Portaceli.
San Vicente Ferrer, domenicano valenciano, fratello di Bonifacio.
Pedro Beltrán (che sustituì Ginés Rabassa, giurista), esperto di
diritto valenciano.
Il 24 giugno si procedette alla votazione nel castello di Caspe.
I rappresentanti dei Catalani furono indecisi mentre quelli aragonesi e valenziani,
nei quali erano presenti forti interessi economici legati ai vari commerci
(tra cui quello della lana) con la Castiglia, si schierano subito
per l’elezione di Ferdinando di Trastamara.
Nel dibattito furono esaltate le doti di Ferdinando dimostrate durante la
reggenza della Castiglia dal 1406 e la sua condotta in guerra contro
il Regno di Granada. Fu determinante l’opinione di San Vicente Ferrer che
sostenne, senza esitazioni, la candidatura di Ferdinando di T.
i voti furono espressi:
Domingo Ram, Ferdinando di Trastamara
Francisco de Aranda, Ferdinando di Trastamara
Berenguer de Bardají, Ferdinando di Trastamara
Pedro de Sagarriga, dopo aver elogiato Ferdinando di Trastamara si dichiarò
per Giacomo III di Urgell e Alfonso II di Gandia a cui
andava il suo voto da dividersi. Inoltre dichiarava che il regno di Sicilia
spettava di diritto a Federico di Luna
Bernardo de Gualbes, Ferdinando di Trastamara
Guillem de Vallseca, Giacomo II di Urgell
Bonifacio Ferrer, Ferdinando di Trastamara
San Vicente Ferrer, Ferdinando di Trastamara
Pedro Beltrán, astenuto perché non aveva avuto il tempo di approfondire,
essendo arrivato da poco.
Il Compromesso di Caspe
San Vicent Ferrer
(Juan Carreno de Miranda
Aviles, 25 marzo 1614; Madrid, 3 ottobre 1685
XVII secolo – Eszterhàzy Collection, 1871)
Il 28 giugno 1412 fu proclamato re della Corona d’Aragona e re di Sicilia
l’infante castigliano Ferdinando di Trastamara con il nome di Ferdinando i
d’Aragona grazie
al voto di tre delegati aragonesi, di due ecclesiastici valenziani e del
borghese catalano.
Comunque, anche se un valenzano e due catalani non
avevano votato per Ferdinando, l'elezione, pur con qualche disappunto, fu ben
accolta anche in Valencia e Catalogna.
Ferdinando I D’Aragona
(Manuele Aguirre y
Monsalbe
(Malaga, 1822 –
Borja, 1856)
Olio su tela
1851/1854 - (2,12 x 1,24)m
Collezione:
Provincial Deputation of Zaragoza
Esposto: Palacio de los condes de Sàstago (Zaragoza)
Da
Ferdinando I d’Aragona , detto “Il Giusto”, in poi il governo del Regno fu
affidato dai sovrani ad una o più persone di fiducia, definiti o meno con il
titolo di vicerè e con compiti, di volta in volta, particolari o generici.
Dall’esame
della letteratura storica si delinea ben preciso l’aspetto giuridico del vicerè
“
«l’assegnazione
della carica di viceré non era un atto burocratico politicamente marginale, ma
dipendeva di volta in volta dal livello e dall’esito del conflitto politico
all’interno della composita classe dirigente monarchica».
Grandi
personaggi quali d’Urrea, d’Acuña, de Spes, Monteleone, de Vega, Gonzaga,
Colonna, Medinaceli, Olivares, Osuna, Castro, Emanuele Filiberto di Savoia,
Juan José de Austria, (tanto per citarne alcuni) «non sono certo burocrati
esecutori passivi di ordini e quieti percettori di cariche onorifiche, ma
protagonisti del dibattito sulle sorti del grande impero, membri prestigiosi o
esponenti di schieramenti politici che si contendono la guida dello stato,
assertori di orientamenti e di scelte che si riflettono operativamente
nell’esercizio della loro carica determinando tra le forze locali l’attivazione
di nuovi gruppi ed il formarsi di nuovi equilibri e schieramenti».
I
vicerè erano quindi personaggi d’alto livello. Facevano parte della ristretta
cerchia dei confidenti e dei consiglieri del sovrano, avevano diretto accesso
alla persona, vivevano a corte quando non erano impegnati nell’esercizio delle
cariche più importanti e prestigiose in tutta Europa, partecipavano alla lotta
delle fazioni e dei partiti come protagonisti e componenti di clan familiari e
clientelari estesi e potenti.
Si
spostavano con la famiglia e una piccola corte di funzionari e militari
incaricati di vari incombenze istituzionali, di servitori, clienti,
amministratori dei loro beni, segretari privati, sacerdoti, monaci, amici e
finanziatori.
Una
molteplicità di figure che esportavano nelle periferie stili di vita,
abitudini, mode, passioni e idee sui rapporti interpersonali, la religione,
l’arte, la cultura così come erano elaborati, vissuti e condivisi
nell’entourage dei sovrani.
Questi
gruppi non rimanevano isolati nelle loro dimore, non si chiudevano in una
cerchia di cui facevano parte solo i connazionali ed i loro pari. Non si
sentivano portatori di una civiltà superiore che ripugnava dalla commistione
con i locali, ma parte integrante di un’unica, complessa, elaborata civiltà di
cui davano continua testimonianza con la partecipazione a cerimonie, feste,
rappresentazioni e ad ogni altra importante manifestazione della vita sociale
nobiliare, religiosa e cittadina. Insieme alla loro famiglia e alla loro corte
si spostavano con una certa regolarità tra Messina, Palermo e le altre grandi
città del Regno e non mancavano di affrontare lunghi viaggi per visitare le
grandi dimore signorili dei titolati siciliani con i quali intrattenevano
rapporti d’affari o di amicizia e con cui spesso s’imparentavano celebrando
nozze fastose. Profonde e durevoli erano quindi le tracce lasciate da molti di
loro nella vita politica o nel governo dell’economia, nella vita sociale e
culturale, negli assetti urbanistici delle grandi città, nella grande
viabilità, nei monumenti, nei palazzi, nelle chiese e nelle cappelle, nei
lasciti spirituali, religiosi, filosofici, nella promozione, nella tutela, nell’appoggio
fornito ad ordini religiosi, istituzioni formative e universitarie, accademie,
gruppi e associazioni di eruditi e scienziati, ed infine nell’introduzione di
nuovi gusti artistici, letterari, musicali, teatrali. Introdussero i Siciliani
alla cultura e allo stile di vita internazionale delle corti europee,
importandone però anche aspetti deteriori: la pompa eccessiva, il lusso
sfrenato, la mania per l’etichetta e per le questioni di procedura e di
precedenza, la seriosità spagnolesca, la pratica della dissimulazione, gli
intrighi e la passione per il potere.
……………
2, Vicerè Francisco
Fernandez de La Cueva, duca d’Alburquerque (1666 - 1669)
La
morte del re Filippo IV d’Asburgo, il 17 settembre 1665, la successione
dell’unico erede Carlo II, un bambino di quattro anni, la lotta delle fazioni
per impossessarsi del governo, resero la situazione difficile e confusa.
Solo
nel 1666 fu deciso il nuovo vicerè, Francisco Férnandez de la Cueva, duca d’Alburquerque figlio dell’altro vicerè, con lo stesso nome,
che fu eletto nel 1628.
Tenente
generale dell’armata spagnola accompagnò fino a Trento Margherita Maria Teresa
d’Asburgo, figlia del re Filippo IV di Spagna e della sua seconda moglie
Marianna d’Austria, che andava a nozze
con Leopoldo Ignazio Giuseppe Baldassarre Feliciano d’Asburgo (Leopoldo I),
Imperatore del Sacro Romano Impero.
Giunse a Palermo nell’aprile 1666. Sul finire dell’anno
esplose un magazzino di munizioni sulla Porta Nuova che fu distrutta. Fu
subuito ricostrita dal vicerè con il medesimo disegno ma con l’aggiunta di
abbellimenti architettonici.
Nel 1669 una forte eruzione dell’Etna distrusse
cittadine e villaggi, campi e boschi,
giungendo a mare a Catania. La lava lentamente circondò le mura del grandioso
monastero Benedettino
e del castello Ursino senza distruggerli.
Il vicerè per ringraziare Dio dallo scampato pericolo di
distruzione della città, fece lavorare a sue spese una nobile lampada d’argento
che ardesse nella Cappella di Sant’Agata.
«Il Duca
d’Alburquerque fu amato a Palermo e per tutto il Regno; era questo Cavaliere,
di un carattere flemmatico e maturava lungo tempo gli affari prima di
risolverli, ed era adornato di tutte le virtù, che costituiscono l’ottimo
governatore».
Concluso
il triennio di governo, la Corte di Madrid, preoccupata delle continue
incursioni piratesche che colpivano l’isola, dopo decenni di relativa pace, decise d’inviare un
vicerè in cui “ai politici, si unissero i talenti militari”.
La
scelta cadde su Claude Lamoral, (Claudio La Moraldo/Moraldo), principe di
Ligny,
«Cavaliere di una
famiglia illustre, insignito del Toson d’Oro, che a quell’età era un distintivo
non molto comune. Ma la sua reputazione in fatto di guerra superava l’illustre
nascita».
La
nomina avvenne il 7 marzo 1670 a Madrid, ma il vicerè giunse a Palermo,
ricevuto sul mare dal suo predecessore su una galea siciliana, solo nel giugno.
Fece
l’entrata in tono minore il 7 luglio.
Nello
stesso mese di luglio del 1670 si rese conto della tensione sociale nel Regno e
del pericolo di una rivoluzione a Messina fomentata da
«congregazione che
molto nuoce alla pace pubblica e al servizio di V.M. Essi fanno tanta
impressione [sul popolo] da portarlo a credere tutto quello che dicono»
Il
principe di Ligny (o Ligne) aveva raggiunto una grande notorietà come
condottiero che persuase i pirati turchi
a desistere da attacchi alle coste siciliane. Solo allora, quando si rese conto
che la situazione sui mari era tranquilla, decise di insediarsi ufficialmente
nella sua prestigiosa carica
Il
21 dicembre entrò in città con il suo cavallo, vestito da guerriero, con il
bastone del comando, e con un gran cappello bordato di pennacchi rossi.
Il
Lamoral convocò il primo Parlamento l’11 gennaio 1671 riferendo la necessità di rinforzare le
difese costiere e di costruirne altre. I Turchi avevano conquistato Candia e
dalla nuova base potevano partire con facilità le azioni piratesche per colpire
la Sicilia.
Per
questo motivo attuò dei lavori di
consolidamento soprattutto del Castello di Mare (La Colombaia) di Trapani dove si
trova una lapide che fu posta su un muro
e che porta la data del 1671.
Nello
stesso anno fece costruire la Torre di Ligny che porta il suo nome.
Trapani – Il
Castello a Mare (La Colombaia)
Trapani – La Torre
di Ligny
Le spese ordinarie e straordinarie dei fortilizi furono a carico dei
parlamentari e delle persone benestanti, senza alcuna imposizione fiscale sul
popolo.
La
situazione sociale diventò grave per le terribili e devastanti carestie che
colpirono la Sicilia nel 1671 – 72.
Le
navi cariche di grano, che venivano mandate in soccorso della Sicilia, non
riuscivano a raggiungere l’isola perché al largo erano assalite dai corsari.
Eppure
il vicerè riuscì a sfamare i poveri e nominò alcuni suoi uomini di fiducia per
combattere il mercato nero e scoprire tutti coloro che avevano nascosto il
grano per poi lucrare vendendolo al mercato nero. Nel bando del 6 aprile 1672
furono dettate le norme a cui attenersi
e fu prevista anche la pena di morte per i contravventori.
Una
nota curiosa tra gli ordini: non fare mettere in vendita il pane calco perché
si mangiava più voracemente determinando così un maggiore consumo.
“…Molti
sotterravano il grano per poi rivenderlo a un prezzo più alto. Così incaricò un
suo Vicario al fine di dissotterrare i grano, che gli avidi possessori,
nonostante le pubbliche calamità, tenevano seppelliti e per distribuirli a
misura del bisogno per tutta la Sicilia. Non possiamo perà passare sotto
silenzio i mezzi violenti, che egli fu obbligato ad operare, perché la Capitale
non perisse interamente”.
Nella
città di Palermo confluivano tutti i disperati che, lasciate le campagne ed i
centri minori, si recavano in città alla ricerca di cibo.
Nel
mese di febbraio 1672 il vicerè fu costretto a regolamentare l’ingresso in
città, imponendo che gli arrivati fossero registrati dichiarando la loro
provenienza.
La
carestia durò a lungo ed il Lamoral impose altre misure più severe con
rammarico.
Furono
allontanati dalla capitale tutti coloro che erano stati prima accolti,
escludendo quelli che potevano dimostrare di non essere totalmente a carico del
Governo.
Per
comprendere la difficile situazione sociale che il Lamoral dovette affrontare,
furono esaminati i registri parrocchiali di alcune comunità. I dati rilevati furono
allarmanti.
Si
evidenziò una mortalità che variava dal doppio al quadruplo del normale (secoli
XV – XVII) ed era accompagnata da una forte caduta delle nascite. Dati che
evidenziavano una perdita demografica, da un anno all’altro, netta oscillante
tra il 10 ed il 15%.
In
termini numerici più precisi su una popolazione di 1.121.742, in base al
censimento del 1651 e sicuramente in crescita fino al 1670, si avrebbe avuto
nel biennio 1670 /1672 circa 200.000 morti ed un arretramento di oltre 100.000
unità.
L’esportazione
cerealicola, circa 5000 scudi in quattro anni,
si azzerò e il livello dei donativi verso la corona scese alla
bassissima media di 325.535 scudi.
Verso
la fine di aprile il Vicerè decise di andare di persona a Messina, dove si
erano verificati dei tumulti popolari per la prolungata carestia.
La
situazione sociale della città era gravissima perché lo stratigoto Luis de Hoyo
fomentò una rottura tra il popolo (Merli) e la nobiltà (Malvizi). Tra il marzo
e l’aprile del 1672 s’era quindi verificata un “colpo di stato” che
stravolse le norme del governo cittadino a favore dei popolari (Merli) e
dell’autorità dell’Hoyo.
Il
vicerè parti con tre galee siciliane, seicento soldati spagnoli e due vascelli
carichi di grano. Il suo obiettivo era quello di allontanare il de Hoyo, fare
rientrare alcuni nobili e giurati che erano stati allontanati dalla città,
isolare i repubblicani antispagnoli più accesi e ottenere l’appoggio dei moderati.
I
suoi obbiettivi furono raggiunti perché l’arrivo del grano calmò gli animi
accessi dei messinesi.
Il Bando sulla
Rivolta di Messina
Furono
messi sotto processo tutti coloro che avevano scatenato la rivolta, non
risparmiando i ceti nobili o i senatori che avevano tratto vantaggio dalla
situazione. Tutti furono puniti con pene diverse a seconda della loro colpa.
A
Messina, almeno per ora, era ritornata la calma.
Ai primi del 1673 altra grave situazione,
questa volta a Trapani.
Anche
a Trapani la carestia aveva provocato disordini e il popolo, esasperato, aveva
deciso di comprare direttamente il frumento scavalcando i senatori.
Senatori
che da sempre avevano speculato sull’intermediazione relativa all’acquisto del
grano.
Per
calmare la ribellione furono mandate da Messina due galee con trecento soldati
spagnoli sotto il comando del generale marchese di Bajona. La notizia
dell’imminente arrivo delle galee spagnole spinse i trapanesi a più miti
consigli e come segno di obbedienza al re, consegnò alle autorità governative
Girolamo Fardella che era stato il sobillatore della rivolta.
Quando
il generale Bajona arrivò a Trapani la situazione era tranquilla. Il generale
arrestò dodici rivoltosi e fece decapitare il Fardella.
Ristabilita
anche la pace a Trapani il vicerè Lamoral visitò le torri costiere di Sicilia
con lo scopo di migliorarne le difese. Tra le sue ultime opere c’è da ricordare
il distacco a Siracusa di Ortigia che grazie a questo intervento diventò un
isola, il rinforzo dei muraglioni ad Augusta e a Milazzo ed il restauro del
Ponte della Miraglia sul fiume Oreto a Palermo.
Siracusa – L’Isola
di Ortigia
Ortigia – Il
Castello Svevo
Il Castello di
Milazzo
Augusta – Castello
Svevo
Palermo – Ponte
dell’Amniraglio
Nel
giugno 1674 il vicerè Claude Lamoral fu trasferito da Palermo al più
prestigioso incarico di Governatore del Ducato di Milano.
Il
suo trasferimento fu accompagnato da un giudizio positivo da parte della Corte
di Madrid ed anche dai Siciliani
“
… la sua partenza non recò che dispiaceri ai Siciliani.
La
sua prudenza nel governare i popoli, lo studio che egli fece per
tenere
tranquillo il Regno, e le sue premure per proteggere l’isola
da
ogni temuta invasione dei nemici, erano tante ragioni,
per
cui i Nazionali (Siciliani) desideravano, che egli
continuasse
a reggerli”.
Come Governatore della città di Milano, riuscì a farsi amare
anche dai Milanesi. Gli dedicarono un’opera:
Affari ed amori, opera in musica presa dallo spagnuolo. Dedicata e cantata
all'ecc.mo sig.e il sig.r Claudio Lamoraldo principe di Ligne [...].
Nel regio Teatro
di Milano l'anno 1675
Libretto di Carlo
Maria Maggi
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3 Francesco Bazan de Benavides
Con dispaccio reale in Aranquez del 22 aprile 1674, Francesco
Bazan de Benavides, marchese di Bajona, fu nominato vicerè fino a quando non
fosse arrivato il nuovo designato.
Il 7 giugno 1674 il marchese di Ligny partì per Milano e il giorno seguente il marchese di Bajona
prese “possesso della nuova carica nella Cattedrale di Palermo”.
Una carica interina, provissoria, in attesa della nomina di
un nuovo vicerè. Per questo motivo non andò ad abitare nel regio palazzo ma nel
“palagio, detto Ajutamicristo”, che nel 1800 diventò proprietà del
principe di Paternò.
Francesco
Bazan de Benavides
Palermo
– Palazzo Ajutamicristo
La
partenza del Lamoral riaccese gli animi ribelli dei siciliani. Prima di partire
aveva eletto per strategoto di Messina Diego Soria, marchese di Crispano, che assecondando il “genio del vicerè” si era
mostrato contrario ai plebei (i merli) e biasimava pubblicamente la condotta del
precedente strategoto Luigi De Hojo.
Quando
il vicerè partì per Milano l’atteggiamento del Soria improvvisamente cambiò.
Con
furbizia seminò discordia fra i nobili (Malvizi) ed i plebei.
Il
nuovo vicerè erano contrario ai nobili per cui si aprì lo scontro fra i due
funzionari che risvegliò nei messinesi
l’idea antispagnola a favore di un indipendentismo molto accesso in cui
oltre agli aspetti politici e sociali
c’erano anche delle basi legati alla
grave crisi economica conseguente al perdurare della carestia.
La
sommossa si scatenò in seguito ad una rappresentazione satirica.
Il
2 giugno, ricorrenza della celebrazione a Messina della Madonna della Lettera,
i “mercadanti e gli artisti, in detta occasione, sono soliti adornare le
loro botteghe co, drappi, e mettervi della macchinette, o de’ quadri
simboleggianti quella celebrità. Ora
nella bottega di Antonio Adamo sarto comparve una pittura, in cui era il
ritratto del re Carlo II, a’ di cui piedi stava la città di Messina, e a canto
un personaggio a guisa di un Giano bifronte, che per uno de’ volti somigliava
allo strategoto Luigi dell’Oyo, coll’epigrafe:
“cadit falsitas,
surgit veritas”.
Altri
manifesti simili, decisamente contrari allo strategoto che era stato nuovamente
eletto al governo della città, furono
esposti anche in altre botteghe.
Il
marchese Crispano ordinò l’arresto del sarto appartenente alla fazione deli
nobili (Malvizi) e quindi accettato dal senato cittadino.
I
nobili chiesero la scarcerazione del prigioniero ma il Crispano si dimostrò
ostinato nelle sue decisioni.
Due
fazioni si fronteggiavano, i nobili -Malvizzi e i plebei – Merli per il
predominio sulla città con accuse reciproche.
Il
Crispano chiamò i senatori nella sua abitazione per invitarli a fare calmare la
popolazione ma commise un grave errore perché schierò davanti alla sua
abitazione ben duecento soldati spagnoli.
Il
malcontento messinese era stato
sottovalutato e si era ormai formato nella città un vero e proprio partito
antispagnolo ben organizzato e guidato.
I
nobili Malvizi mobilitarono l’apparato militare e portarono il popolo alla
rivolta nel luglio 1674 facendo anche ripetute stragi di plebei (Merli).
Si
chiedeva un Regno indipendente con un re proprio. Un obiettivo che era
condiviso dai Ventimiglia (di Geraci, di Gratteri e di Prades), dai Valdina,
dai Diana, dai Cefalà, dai Montaperto di
Raffadali..
Alcuni
furono scoperti ed arrestati con relativi processi, altri fuggirono lontano
dalla Sicilia.
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4, Fedrique Alvarez de
Toledo y Ponte de Leon
Il
nuovo vicerè Fedrique Alvarez de Toledo
y Ponte de Leon (Francisco Toledo ed Osorio), marchese di Villafranca, giunse a
Palermo con una squadra di ben 17 galee nel mese di dicembre del 1674.
Castello di
Villafranca del Bierzo (Provincia di Leon)
Si
limitò a porgere i suoi omaggi alla viceregina che ancora risiedeva nella città
e si recò subito a Milazzo. Milazzo era diventata un’importante piazza d’armi e
centro di coordinamento per l’esercito schierato contro la ribelle Messina che
aveva chiesto l’aiuto francese al re Luigi XIV
I
vari tentativi di pacificazione tra Messinesi e Spagnoli erano miseramente
falliti e l’esercito spagnolo si stava preparando all’assalto della città
ribelle quando giunse la notizia che una squadra francese, composta da sette
vascelli da guerra, otto tartane cariche
di viveri e tre vascelli incendiari era arrivata a Vulcano e faceva rotta verso
Messina.
La
flotta spagnola restò spettatrice dell’evento e poi vilmente si ritirò verso le
coste calabresi.
«azione vituperosa
che fece sospettare, che vi fosse una qualche segreta
intelligenza con i
Francesi, per cui la corte di Madrid fece arrestare
l’ammiraglio
Melchiorre de la Cueva, e i principali Ufficiali dell’Armata, sottoponendoli al
giudizio del Consiglio di guerra».
Nei
due anni successivi i vari tentativi militari spagnoli non ebbero successo e
due scontri navali, Stromboli e Lipari
si risolsero con la sconfitta spagnola.
I
messinesi finirono con il giurare fedeltà al re di Francia mentre l’ammiraglio
francese il Visconte di Vivonne fu nominato Vicerè di Messina.
Il
marchese di Villafranca, scosso dagli eventi bellici, prima della scadenza del
mandato, chiese di essere sostituito e il 22 settembre 1676 lasciò la Sicilia.
«Non molto egli
operò negli affari politici: intento sempre alla guerra, e trattenutosi,
durante il tempo, che fu in Sicilia, nel campo a Milazzo, non poté rivolgere
l’animo a procurare la felicità del Regno, che bene può un accorto Ministro
promuovere nei tempi di quiete e di pace»
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5. Aniello de Guzman y Caraffa
Il
nuovo vicerè Aniello de Guzman y Caraffa arrivò a Trapani il 2 settembre 1676 e
il giorno sei giunse a Palermo dove si fermò alcuni giorni. Lasciata la moglie
(viceregina) Eleonor de Moura a Castellammare, si spostò a Milazzo dove incontrò
il vicerè uscente marchese di Villafranca che lasciò l’isola il 22 settembre.
Alla
partenza del marchese di Villafranca, il Guzman fu investito della carica e in
presenza dei ministri fece il solenne giuramento.
Il
vicerè trovò una Sicilia “all’ultima
rovina anche nello stato militare e in
parte politico”.
I
francesi “dominavano il mare, destrutta la flotta olandese e la spagnuola e
questo assoluto potere dei nemici impediva lo esterno commercio cotanto
necessario, per bilanciare almeno i bisogni della nazione”.
“Ma
quel che crucciava questo nuovo vicerè era appunto la mancanza di denaro,
trovandosi affatto esausto l’erario regio, né potendosi impinguare con nuove
contribuzioni, senza mettere a risico, che il resto della isola, per isfuggirne
il peso, non si buttasse dalla parte dei Francesi, e non riconoscesse il re
Cristianissimo per suo sovrano (Carlo II d’Asburgo, Re di Spagna)”.
Ma
chi era Anelio Guzman y Caraffa ? Per
quale motivo viene spesso indicato nei testi come Marchese di Castel Roderigo
(Castel Rodrigo) ?
Anielo
(Aniello) Guzman y Caraffa (Napoli, 1641 – Palermo, 16 aprile 1677) era figlio secondogenito di Ramiro
(Ramirez) (Filippo ?) Núñez de Guzmán y Quiñones.
(Burgo de Osma, c. 1600 - Madrid, 8 dicembre 1668)
(II Marchese del
Toral, I Duca di Medina de las Torres, II Duca di Sanlúcar la Mayor, Conte di
Aznalcóllar, Cavaliere Calatravo (1622),
Viceré di Napoli (13
novembre 1637 - 6 maggio 1644),
Consigliere di
Stato (1627)
e
della sua seconda moglie, Ana (Anna) Caraffa (Carafa) Gonzaga e Aldobrandini
Anna Caraffa
(1617- 1644)
(VI Principessa di
Stigliano, VII Duchessa di Mondragone,
V di Sabbioneta e
Trajetto, Contessa di Fondi, Aliano e Piadena).
Stemma dei Guzman
“I Guzman forse
discendono dal sangue reale dei Goti”
Il casato si
trasferì in Castiglia per combattere i Mori.
Un Domenico de
Guzman nel 1216 fondò l’Ordine dei Domenicani.
Tra i 54
compatroni di Napoli, rappresentati dai busti d’argento del
Tesoro di San
Gennaro, vi sono anche sette santi spagnoli tra cui
San Domenico di
Guzman e san Francesco Borgia.
Secondo alcune
fonti il nome deriverebbe dal legame di un gentiluomo
della casata
Chico, della città di Cuenza, con una signore della stirpe Guzman.
I nomi di questi
due personaggi e la data del loro matrimonio sono oscuri.
L’unico dato certo
è che la famiglia Guzman è molto antica ed era
una della più
prestigiose della città da cui si estesero in tutta la Spagna.
“Pedro Guzmán, originario di Ribatajada, del distretto giudiziario di
Priego, nella provincia di Cuenca e originario di questa città, entrò a far
parte dell'Ordine di Montesa nel 1590. Ginés Guzmán, originario di Cuenca e uno
dei continuatori del Il primogenito maschio di questa famiglia, venne a
popolare a Cehegín, cittadina nel distretto giudiziario di Caravaca ...”
Cuenca – Comune della Comunità Autonoma Castiglia – La Mancia
Castello Belmonte (Cuenca)
Cuenca nel XIX secolo
Don Ramiro, consigliere del re Filippo IV di Spagna e
grande di Spagna, fu nominato vicerè di Napoli nel 1637. A Napoli sposò Ana Caraffa Gonzaga e
Aldobrandini nel maggio/ottobre del 1636.
Anna Caraffa della Stadera (Portici, novembre 1610:
Portici, 24 ottobre 1644), principessa di Stigliano era l’unica figlia
sopravvissuta di Elena Aldobrandini (nipote di papa Clemente VIII) e di Antonio
Carafa della Stadera (morto avvelenato).
I suoi fratelli Onofrio e Giuseppe erano morti (il
primo all’età di due anni ed il secondo quindicenne). Aveva ereditato quindi
una fortuna immensa… 1.500.000 scudi
oltre a 65.000 ducati in beni mobili. Era quindi una delle ereditiere più
ricche del regno di Napoli.
Ramiro Guzman era rimasto vedovo dopo appena due anni
di matrimonio.
La moglie Maria de Guzman y Zuniga, marchesa di
Heliche, era morta nel 1626 di parto.
Il matrimonio con Anna fu combinato dall’ex suocero di
Ramiro, Gaspar de Guzmán y
Pimentel Ribera y Velasco de Tovar, conte di Olivares e duca di
Sanlúcar.
Il matrimonio tra don Ramiro e donna Anna fu osteggiato in
particolare dalla nonna della ragazza, Isabella Gonzaga. Il nobile spagnolo al momento del suo arrivo
a Napoli aveva solo la nomina “in pectore” di vicerè, cioè non accora
ufficializzata.
Fu stipulato il
contratto di matrimonio e la nomina a vicerè era una delle condizioni.
I due comunque si
sposarono e il matrimonio avvenne nella dimora cittadina di famiglia Caraffa
presso la porta Chiaia. Un palazzo maestoso che fu denominato “Cellammare” e che
era appartenuto, agli inizi del Cinquecento all’abate di Atella, Giovan
Francesco Caraffa, e trasformato in grandiosa dimora dal nipote Luigi, secondo
principe di Stigliano.
Napoli – Palazzo Cellammare
Napoli - Veduta del Borgo di Chiaia da Pizzofalcone
(con il particolare di Palazzo Cellammare)
Dipinto di Gaspar van Wittel (1653 – 1736)
Napoli - Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes
Don
Ramiro Guzman solo il 27 ottobre 1637, a distanza di un anno dal suo
matrimonio, ricevette ufficialmente la
carica di vicerè del regno di Napoli.
La coppia risiedeva anche a Posillipo nel bellissimo palazzo
in riva al mare detto “Palazzo Donn’Anna”.
Posillipo (Napoli ) – Palazzo “Donn’Anna”
- Disegno di Saint Non – 1795
Palazzo "Donn'Anna"
La coppia ebbe tre figli:
-
Nicolas
de Guzman y Caraffa ( Napoli, 22 marzo
1637; 1689) che ereditò i titoli paterni e materni,
-
Anielo,
il nostro vicerè di Sicilia
-
Domingo
(1644 – 1674).
Il
6 maggio 1644 il vicerè Ramiro Guzman fu sostituito e richiamato in
Spagna. Donna Ana nello stesso anno
1644, l’8/24 ottobre, morì a causa di una grave infezione conseguente
all’interruzione della quarta gravidanza. La madre la fece seppellire nella
chiesa degli Agostiniani Scalzi, a Napoli
per poi essere trasferita nella basilica di San Domenico Maggiore.
I documenti non citano con precisione la data
di nascita di Anielo Guzman. L’unico riferimento è legato ad una documentazione
lasciata dall’ammiraglio francese, il visconte Vivonne, che citò Anielo Guzman negli scontri bellici seguiti alla rivoluzione di Messina del 1674.
Scontri bellici seguiti all’intervento delle truppe francesi che avevano come
obiettivo la conquista dell’isola fino allora dominio degli spagnoli.
In
quel documento il visconte affermò come il Guzman fosse trentacinquenne.
Il
giovane Guzman iniziò la sua carriera militare appena diciassettenne mostrando sempre una grande fedeltà, coraggio
e perizia militare.
Durante
uno scontro con le truppe portoghesi Anielo insieme al marchese Heliche, al
conte di Escalante e ad un pugno di compagni “che facevano il loro dovere”,
furono fatti prigionieri e condotti nelle carceri del castello di São Jorge a Lisbona.
Qui
restarono per quasi cinque lunghi anni fino a quando con il trattato di pace,
firmato a Lisbona l’11 febbraio 1668, fu rilasciato.
Lisbona – Castello
Sao Jorge
Durante
la prigionia, il padre organizzò il matrimonio di Anielo con Eleonor de Moura y
Aragón ( c . 1642-1706), figlia maggiore ed erede di Francisco
de Moura Corterreal y Melo (1610-1675), (III marchese di Castel Rodrigo, II
conte di Lumiares e duca di Nocera) e di Ana Maria de Aragòn y Cardona, figlia
di Antonio Moncada, IV principe di Paternò e di Juana de la Cerda.
Nobile famiglia
portoghese che ebbe origine da un
D. Pedro Rodrigues
che con suo fratello D. Alvaro Rodrigues conquistarono
nel 1166 il
castello di Moura occupato dai Saraceni.
Un’altra fonte
cita invece come la famiglia abbia avuto origine, nel XIII, da una
concessione della
regina Beatrice di Castiglia e Guzman, moglie del
re del Portogallo
Alfonso III. La concessione del Castello di
Moura era infatti
legata all’aiuto militare prestato dalla famiglia
per la conquista
dell’Aragave. La famiglia prese quindi il nome di Moura.
Gli esponenti
della famiglia si distinsero per il servizio reso ai re portoghesi.
Questo fedeltà ai
sovrani portoghesi si mantenne fino al XVI secolo quando
dal 1854 Cristòvao
de Moura rese i suoi servizi al re di Spagna Filippo I.
La famiglia de
Moura entrò nell’aristocrazia iberica grazie
all’aggregazione
della corona portoghese alla monarchia ispanica nel 1580.
Castello di Moura
Moura – Distretto di Beja - Portogallo
Moura – Distretto di Beja - Portogallo
Il Marchesato di Castel
Rodrigo era un titolo nobiliare spagnolo che fu creato, a
titolo personale, dal re Filippo III di Spagna a favore di Cristobal
de Moura y Tàvora. (27 dicembre 1598)
Il nome si
riferisce alla città di Figueira de Castelo Rodrigo (Portogallo).
Per due
generazioni, Castel Rodrigo, ha difeso, non senza difficoltà, il titolo di
“alter ego” dei re spagnoli d’Asburgo in Portogallo.
In merito al titolo di Duca di Nocera dè Pagani c’è da dire che la
ducea apparteneva alla famiglia Caraffa che la tennero per più di un secolo.
(nel 1530 Ferdiando I Caraffa costruì il palazzo ducale).
Il 28 aprile 1648 mori a Soriano Calabro (Vibo Valentia) Francesco Maria Domenico Caraffa, VI duca di Nocera. Dal suo matrimonio con
Maria Ruffo Santapau (figlia del I principe di Palazzolo e discendede dei
marchesi di Licodia) non nacquero figli/e. La contea di Nocera passò al Regio Demanio e successivamente al nobile spagnolo Francisco de Moura, padre di Eleonor.
Nocera Inferiore – Palazzo Ducale (ex caserma)
Il castello di Pagani Inferiore prima della
costruzione del palazzo Ducale
Francisco de Moura y Corterreal
Dal matrimonio con Ana Maria de Aragòn y Cardona
nacquero due
figlie: Eleonor e Giovanna
Il
matrimonio tra Eleonor de Moura e Anielo Guzman avvenne nello stesso anno 1668,
quando venne liberato dalla prigionia nel castello di Sao Jorge di Lisbona.
Il
Guzman diventò marchese di Castel Rodrigo alla morte del suocero avvenuta a
Madrid il 26 novembre 1675.
La
sua carriera militare s’arricchì di ripetuti scontri contro l’esercito francese
con la conquista di numerose città.
Non
saranno le sue virtù militari a determinare la nomina del Guzman a vicerè di
Sicilia ma “piuttosto una corruzione da condannare”.
Nel
1675 la regina Maria Anna d’Austria, a nome dell’ancora minore Carlo II,
concesse la carica di gentiluomo al suo “prediletto “ Fernando Valenzuela,
soprannominato “l’elfo del Palazzo”.
Don Fernando de
Valenzuela, marchese di Villasierra, ritratto di Juan Carreño de
Miranda, Museo Lázaro Galdiano di Madrid.
Fernando
Valenzuela, figlia di don Gaspar, capitano spagnolo di stanza
a Napoli, alla
morte del padre era ritornato in Spagna assieme alla madre.
Si arruolò nella
fanteria al comando di
Rodrigo Dia de Bivar Gomez de Sandoval y Mendoza, duca
dell’Infantado.
Don Rodrigo fu nominato vicerè di Sicilia e il
Valenzuela lo
segui nell’isola (1651).
Nel 1659 rientrò
in Spagna, sposò Ucedo Ambrosia, cameriera della
Regina Maria Anna
d’Asburgo, e fu nominato cavaliere di corte.
Quando morì
Filippo IV, il Valenzuela s’avvicinò alla regina, rimasta vedova e reggente in nome
del figlio minore Carlo II.
Iniziò nel 1671 la
sua ascesa a corte. Prima come cavaliere dell’Ordine di
Santiago, poi con
la carica di ambasciatore e alla fine come
“primer
caballerizio”
riuscendo ad ottenere la carica malgrado la presenza
di persone più
titolate.
Il Valenzuela
riuscì a tessere a corte una fitta rete di interessi e favori,
stringendo rapport
d’alleanza con cortigiani e nobili con l’obiettivo
di raggiungere un
maggiore prestigio e potere. Una condotta che ebbe
successo dato che
molti funzionari come il conte di Peneranda e
Gaspar de
Bracamonte Guzman, presidente del Supremo Consiglio
d’Italia lo
appoggiarono.
Nel 1669 era il
favorito della regina con funzioni di ministro, e a corte
non tutti gli
erano favorevoli.
Grazie
al Valenzuela, Nicolas de Guzman y
Caraffa riuscì ad ottenere la presidenza
delle Fiandre e nello stesso tempo la
promessa per il fratello Anielo della carica del Vicereame di Sicilia.
L’8
luglio 1676 il Venezuela raggiunse a corte una forte supremazia sugli altri
nobili della Camera e riuscì ad ottenere dalla Regina il decreto di nomina di
vicerè per Anielo Guzman “ senza procedere con la regolare consultazione dei
Consigli di Stato e d’Italia”.
Il
segretario dell’Ufficio Universale, il Marchese de Mejorada, sollevò presso la
regina l’irregolarità della nomina.
Il
marchese de Mejorada fu sostituito nella sua carica, senza perdere i suoi
benefici, da Jeronimo de Eguia che firmò la nomina di Anielo Guzman il 10
agosto 1676.
Il
Guzman assunse la sua nomina il 22 settembre 1676 come Vicerè di Sicilia
sostituendo Fadrique Alvarez de Toledo y Ponte de Leon, marchese di
Villafranca, in carica dal 1674, e ritenuto responsabile, senza averne colpa,
della sconfitta spagnola nella battaglia navale di Stromboli, dell’11 febbraio
1675, e di Alicudi, dell’8 gennaio 1676, che avevano visto la vittoria della
flotta francese.
I
francesi, guidati dal visconte di Vivonne, per incarico del re di Francia Luigi
XIV, erano penetrati in Sicilia per appoggiare la rivoluzione antispagnola di
Messina. Da Messina si erano poi spostati a sud verso Augusta.
Il
vicerè Guzman si stabilì a Catania e cercò d’impedire l’avanzata francese che
aveva già conquistato i castelli di Brucoli e di Melilli. Da questi centro
l’avanzata francese puntò su Lentini, Carlentini, Sortino ma
senza riuscire ad espugnare i castelli.
Forti
con la loro flotta i francesi riuscirono a conquistare Taormina, il 16 ottobre
1676, e una serie di centri lungo la costa jonica,
Data
la gravità della situazione il vicerè Guzman inviò alla corte di Spagna, alla
fine del 1676, una relazione in cui dichiarava il pericolo francese che
minacciava l’intero regno.
Chiedeva
in modo esplicito e chiaro
Un aiuto
sostanziale ed immediato, che se non fornito, lo
sollevasse dalla
sua posizione (di vicerè) per evitare la responsabilità
di essere colui
che ha perso.
Solo
i centri di Carlentini, Lentini e Catania impedirono ai francesi di controllare
la linea di costa tra Augusta e Messina. Il maresciallo Vivonne su decisione del
re Luigi XIV pose fine alla sua avanzata.
Approfittando
della tregua, il Guzman si preparava nel tornare a Palermo, dove aveva lasciato
la moglie viceregina, nominando come difensore della città di Catania Ignazio
Migliaccio principe di Baucina ed eleggendo, come vicario generale della valle
di Noto Diego Bragamonte.
Partì
da Catania i primi giorni del gennaio
1677 e dopo cinque giorni di viaggio
raggiunse Palermo.
Nel
frattempo alla corte di Madrid c’erano stati dei forti cambiamenti.
Il
ministro Valenzuola era stato rimosso, privato dei beni e mandato in esilio.
Cuadro de Manuel
Castellano, 1866. Museo del Prado
La
carica di ministro fu assunta da Giovanni d’Austria, fratello naturale del re
Carlo II che a causa dei “maneggi della regina madre e dei confidenti era
stato relegato in Aragona”.
Giovanni
d’Austria, fratello naturale di Carlo II
Questa
notizia giunse a Palermo nel mese di marzo 1677 e rattristò moltissimo il
Guzman perché amico del Valenzuola a cui doveva la carica di vicerè. Lo stesso
vicerè fu conquistato dalla preoccupazione di vedersi ritirato il mandato ma fu
solo un pensiero fugace e il 10 aprile fece celebrare una messa in Cattedrale
per “rendere grazie all’Altissimo”.
Poco
tempo dopo arrivarono a Palermo alcune navi da guerra spagnole con tremila
soldati. Soldati che vennero schierati nella Piana di Sant’Erasmo per la rassegna
militare sempre alla presenza del vicerè, mentre dalla Sardegna, da Maiorca, da Napoli e da Milano giunsero delle truppe di fanteria e di
cavalleria.
Nello
stesso tempo Giovanni d’Austria, ora ministro, scrisse una lettera ai messinesi
invitandoli a rimettersi sotto il dominio spagnolo. Nella lettera ricordava di
essere stato a Messina nell’anno 1649.
Messina nel 1649
Sperava
in cuor suo che “avendo ivi date molte riprove di affezione a quei cittadini,
gli sarebbe stato agevole ora di attirarseli”.
Nella
lettera prometteva un generale perdono e la conferma degli antichi privilegi.
Una lettera spedita il 19 aprile per essere recapitata ai senatori della città
La
lettera di Don Giovanni d’Austria non diede i risultati sperati. Era forte l’odio
contro gli spagnoli che riusciva a coprire anche le malefatte, gli abusi che i
francesi eseguivano sulla popolazione. Abusi di ogni genere, anche violenti, che avevano creato un diffuso malcontento
anche verso le truppe francesi.
Lo
stesso don Giovanni pensò di richiamare il vicerè Guzman e di spedire in
Sicilia il duca di Bornaville molto esperto nell’arte militare.
Il
Guzman non era rimasto nel frattempo inerte ad aspettare la sua eventuale
rimozione dall’incarico. Si era adoperato nel fortificare i presidi militari
che potevano essere colpiti dai Francesi e aveva soprattutto ordinato la
creazione di un nuovo baluardo alla Torre del Faro di Messina che era ancora un
mano agli spagnoli.
Vista calabra del
vortice di Cariddi con sfondo di Ganzirri, Torre Faro ed Isole Eolie fumanti in
una stampa del 1835.
Palermo
per ben due volte era stata minacciata da un invasione francese e aveva
predisposto una migliore fortificazione alla Porta di Carini mediante la
creazione di un terrapieno.
Alla
costruzione del terrapieno “concorsero le braccia di tutti gli abitanti,
essendosi veduta la nobiltà, il ministero, i regolari, i preti, e così gli
altri cittadini, previo l’esempio del vicerè, portare ciascheduno un cesto di
terra; di modo che in breve tempo fu colmato quel baluardo, la di cui custodia
restò affidata alla fedeltà, e vigilanza degli artisti”
“Fe
anche piantare alla lanterna del Molo una batteria di cannoni a fior d’acqua,
per difendere la città da’ bastimenti nemici, che doveano necessariamente
passare per quella punta prima d’entrare in porto”.
Dopo
aver dato queste disposizioni si preparò per tornare a Catania.
Ma
prima di partire, nel mese di aprile s’ammalò e nel giro di pochi giorni morì.
Aveva trentacinque anni.
“Morì
egli nel giorno 16 aprile, lasciando desolata, ed afflitta la marchese sua
moglie, ma non già scorucciati i
Siciliani, e particolarmente i nobili, che non erano stati punto contenti
dell’alterigia, e dell’asprezza, con cui erano trattati”.
“Varie
cagioni di questa immatura morte vengono additate dagli scrittori. Evvi chi
vuole ch’ei si fosse caduto in una profonda malinconia dietro alla disgrazia
del suo amico Valenzuola, e l’esaltazione del serenissimo Giovanni d’Austria;
piace ad altri, che fosse rimasto crucciato dallo udire destinato al comando
delle armi in Sicilia il duca di Bornaville, quasi che egli, che si tenea per
valoroso e sperimentato capitano, non fosse dal detto serenissimo principe
riputato capace a sostenere questa guerra.
La
fama ancora, che per lo più suol essere menzogniera, addita altre occulte
cagioni, ch’è bene di lasciare sotto il velo della decenza”.
Nel
suo testamento lasciò alla moglie Eleonor de Moura il titolo di Viceregina fino
all’arrivo di un nuovo vicerè.
Prima
di morire determinò che:
“il governo
politico restasse nelle mani della viceregina la marchesa
Eleonora di Mora,
e che il militare, giacchè il Bornaville non era ancora arrivato,
si amministrasse
dal maestro di campo
Francesco
Gattinara marchese di S. Martino Pavese”.
Il
dispaccio viceregio è dato in Palermo “lo stesso giorno della di lui morte”.
“Morto
che fu, fu presentato al Sacro Consiglio il viglietto viceregio a favore della
moglie dal protonotario Ugo Papè. I ministri lo approvarono, e la viceregina
fece il solito giuramento.
Ma
nel tempo istesso il consultore Sancio Lossada manifestò una lettera reale
diretta al medesimo consiglio, ch’ei avea ordine di presentargli in caso di
morte del vicerè.
Apertasi,
vi si trovò che il re (Carlo II “Lo Stregato”) comandava, che se mai morisse il
vicerè, si dissigillasse il plico, che il detto consultore, e Pietro Guerriero
avrebbono esibito, in cui stavano tre dispacci reali, coi quali erano nominati
tre soggetti, che doveano subentrare l’uno dietro l’altro successivamente, se
quello, ch’era nominato, o fosse molto lontano, o non più vivesse”.
La
lettera è datata 31 dicembre 1676 e sottoscritta a Madrid.
(Il
Marchese Guzman era stato un’altra volta gravemente ammalato a Milazzo oppure a
Catania e la stessa lettera del 31 dicembre 1676 suppone la grave malattia per
cui si temeva la morte).
“Adempiendo
l’ordine sovrano, fu aperto il primo dispaccio, ch’era de’ 31 dicembre 1676, e
vi si trovò che veniva eletto per luogotenente del regno il cardinale Ludovico
Fernandez Portocarrero, che ritrovavasi a Roma.
Nacque
quindi il dubbio, essendo questi lontano, se dovessi aprirsi il secondo
dispaccio, e così opinarono Pietro Oliveri presidente della gran corte, il
principe di Campofranco (Antonino Lucchesi Palli e Gallego) maestro razionale, il tesoriere
generale Orazio Olduino; nondimeno il maggior numero di quei ministri fu
d’avviso, che potendo in pochi giorni arrivare il cardinale era conveniente
aspettarlo; e frattanto lasciare nel possesso già preso della carica la
viceregina”.
“Approvato
questo sentimento, scrisse il sacro consiglio due lettere in data de’ 17
aprile, l’una al re dandogli conto di questa risoluzione, e l’altra allo stesso
cardinale, cui fu spedito un corriere per terra, ed una galea per mare,
pregandolo a venirsene tostamente, e ad approvare insieme, durante la sua
lontananza, la elezione interina della marchesa moglie del defunto vicerè per
amministrare il politico, e del marchese di S. Martino per reggere gli affari
militari.
Due
altre simili lettere scrissero i ministri stessi intorno a questo affare, l’una
al principe di Lignè governatore di Milano (Claude Lamoral – Claudio La
Moraldo), e l’altra al marchese de
Los Veles vicerè di Napoli (Fernando Joaquin Fajardo de Requesèns y Zuniga
y Alvarez de Toledo).
“
Fu ache avvisato il marchese di San Martino, che trovavasi al campo a Milazzo,
della determinazione fatta dal morto vicerè, ed approvata dal sacro consiglio,
che il comando delle armi era ad esso affidato”.
“Perciò
egli in detta città a’ 22 dello stesso
mese di aprile prese possesso della nuova carica di capitan generale, e
fe il giuramento, con cui si obbligò per la sua parte ad osservare i privilegi,
e le prammatiche del regno”.
“Fe
la viceregina celebrare solenni esequie
al caro suo sposo nel Real tempio di S. Pietro del Palagio, e lo fe seppellire
nella chiesa sotterranea dello stesso, e vi fe apporre un bel lungo epitaffio,
che vien rapportato dall’Auria: testimonio della tenerezza di una moglie
afflitta, ma non un monumento della verità”.
“La
elezione di questa dama non fu punto approvata dalla corte come si fa chiaro
dalla carta reale sottoscritta in Madrid ai 5 di luglio di questo anno (1677),
registrata in Palermo a’ 13 del seguente agosto, che rinviensi nel tomo III
delle prammatiche, con cui annullando il re Carlo II la elezione fatta dal
marchese di Castel Rodrigo, comanda, che in avvenire i vicerè non possono
nominare interinamente nel viceregnato di Sicilia le loro mogli, né il sacro
consiglio acconsentire a cotali scelte.
È
degna di essere osservata la principale ragione, che se ne adduce:
“.. pues de mas, que siendo el Virrey de Sicilia en lo ecclesiastico dessa
Monarchia legado nato de sù santidad. y saria implaticable
este puesto en quien por naturaleza es incapaz de exercerle”.
Giovanni
Di Blasi nella sua “Storia Cronologica dei Vicerè Luogotenenti e Presidenti del
regno di Sicilia” del 1842, concluse il
suo argomento con parole che lasciano intendere la condizione femminile:
“Per
altro questo governo dannesco fu assai breve: né durò, che ventisette giorni,
come or ora saremo per dire, nel quale spaziom aspettandosi di momento in
momento il luogotenente interino destinato dal re Cattolico, nulla di nuovo fu
fatto”.
6, Viceregina Donna Eleonor de Moura
Fu
così che la Sicilia ebbe un Vicerè
“anomalo”.. un governatore donna… una viceregina non menzionata nella pagine di
storia.
La sua figura ?
Donna
Eleonora era un bellissimo ritaglio di notte: capelli neri, nerissimi gli occhi
con uno sguardo che andava ovunque, scrutando, studiando…una
bellezza che nessun pittore avrebbe potuto ritrarre tal qual era.
Dimostrava
una freddezza come la luna,, e come il pianeta femminile condivise la durata
della sua carica.. della sua “rivoluzione”.
La
luna compie in quasi ventotto giorni il giro dello Zodiaco. E meno di un mese
fu concesso alla viceregina Eleonora (ventisette giorni) per riparare alle
malefatte di un governo, risollevare la condizione mortificante delle donne,
calmierare il prezzo del pane, provvedere all’assistenza di chi pativa,
riconoscere benefici alle famiglie numerose, riformare le maestranze.
Ci
volle una donna per adempiere alle vere funzioni sociali di un governo, solo
fiscale e predatorio….
Contro
di lei a nulla valsero le “baroccherie” di repertorio; l’accusa di complicità
con il diavolo portata avanti da un vescovo corrotto, le proteste dei nobili
che avevano nel fanatico vescovo un valido alleato.
Donna
Eleonor non solo resisterà e riuscirà a circondarsi di amici fidati, tra cui il
suo medico personale, ma costringerà alcuni consiglieri a dimettersi.
Forse è una versione romanzata ma sostituirà
le persone non adatte, perché
chiaramente contrari al benessere comune della società con altrettanti
galantuomini sempre siciliani rispettosi
delle sue idee e pronti a condividerle.
Gli
uomini giusti e desiderosi del fare del bene per la propria terra, come dice lo
scrittore Camilleri, sono sempre esistiti, ma manca la volontà politica di
servirsene.
I
consiglieri di Eleneor accuseranno i
loro predecessori riducendoli in carcere e sul lastrico e non “c’è cosa
peggiore per un ricco malfattore della povertà mai provata”.
Eleonor
de Moura affrontò con coraggio il nemico forse più pericoloso di tutti.. il
vescovo di Palermo.
Già
il vescovo del periodo. Anche la storiografia in questo caso presenta delle
lacune.
Secondo
alcune fonti era Juan Lozano (O.S.E.A.) ( in carica ; 4 febbraio 1669 –
26 aprile 1677 nominato arcivescovo, titolo personale, di Plasencia); secondo
la Diocesi di Palermo Lozano (o Lozzano)
fu vescovo dal 1668 al 1676; oppure Jiame de Palafox y Cardona (in carica: 8 novembre 1677 – 13 novembre 1684, nominato
arcivescovo di Siviglia), secondo la Diocesi
di Palermo Giacomo Palafox y Cardona (1677 – 1684).
Il
vescovo in carica doveva essere Juan Lozano che fu metropolita di Palermo fino
al 26 aprile 1677 e probabilmente rimase in carica fino a quando non fu
designato un sostituto. Eleonor de Moura prese il titolo di viceregina il 16
aprile e certamente il vescovo non accettò la designazione della donna come
viceregina.
Il
Sacro Regio Consiglio con le sue mosse
proditorie, da sempre lecite, si trovò spiazzato davanti ad una donna ferma,
decisa nella difesa delle leggi e della giustizia sociale, designata proprio
dal marito, che apprezzava gli ideali di vita della sua compagna di
vita, perché ritenuta capace di sostituirlo in caso di morte improvvisa.
Venne
sostituita solo per un cavillo legale…. Indovinate da chi ? Dal vescovo di Palermo… che si dichiarava “perseguitato
da Eleonor”
La
carica di Vicerè di Sicilia comprendeva anche la figura di legato Papale e
quindi impossibile da attribuire ad una
donna……
I provvedimenti presi da Eleonor de Moura furono dimenticati dalla
storiografa eppure in appena 28 giorni riuscì a lasciare una sua impronta nel
tessuto sociale dell’Isola tanto che furono approvati dal re. Provvedimenti
decisamente rivoluzionari per l’epoca.
“Fece cose più e meglio degli altri Vicerè” pur avendo contro
funzionari…. E il vescovo….”
Ripristinò il “Conservatorio per le Vergini pericolanti” che era
stato chiuso per la mancanza di fondi.
Ragazze appartenenti a ceti poveri e che erano rimaste orfane.
Correvano quindi il rischio di cadere nel baratro della prostituzione allora
molto diffusa. Per aiutare queste ragazze veniva dato un sussidio tramite il
Conservatorio.
Ricostituì il Conservatorio delle Ripentite con l’intendo di
salvaguardare le ex-prostitute che venivano aiutate a cambiare la loro vita ed
istituì una Dote Regia per le ragazze povere che desideravano sposarsi.
Diminuì le tasse per chi aveva una famiglia numerosa ( da 12 a
8); la legge per abbassare il prezzo
del pane, la creazione del Magistrato del Commercio che riuniva le 72 maestranze
palermitane. Praticamente in un tempo brevissimo questa donna Viceré apportò
migliorie notevoli a beneficio della popolazione.
Con
l’arrivo a Palermo, il 13 maggio 1677 del nuovo vicerè, Luis Manuel Fernandez
Cardinale de Portacarrero, (eletto da papa Clemente X) e successivamente
Arcivescovo di Toledo, Eleonor de Moura lasciò la Sicilia.
I Siciliani furono dispiaciuti per la sua
partenza perché era riuscita a meritarsi il rispetto del suo popolo per quello
che era riuscita a legiferare.
Come
abbiamo visto era titolare della Ducea di Nocera de’ Pagani che non visitò mai.
I
Nocerini non videro mai la loro duchessa, la sua vita si svolse tra la Spagna e
la Sicilia, eppure le manifestarono sempre una grande devozione……. Le belle
figure, grazie ai loro ideali ed alle azioni, solcano i mari, superano i
confini territoriali e conquistano la gente.
Si
narra che fecero celebrare delle messe quando rimase vedova per la morte del
marito Guzman e fecero scoppiare fuochi di giubilo quando si risposò…
Si
risposò nel 1679 con Carlos Homodei y Lasso de La Vega. Da questo matrimonio
sarebbe nato un figlio che morì giovane.
In
realtà le ricerche dello storico da
Raffaele Raimondo (1974) dimostrarono altre verità.
La
letteratura storica cita come il matrimonio tra Anielo Guzman y Caraffa ed Leonor de Moura y Aragón sia stato sterile.
In
realtà i due coniugi ebbero un “frutto precoce”
“Félix de Guzmán y
Carrafa, nativo di Madrid, figlio di Anelo de Guzmán e Leonor de Mora; nonni
paterni: Ramiro Núñez de Guzmán e Ana Carrafa "
come
dimostra il documento d’iscrizione nell’ordine di Gerusalemme nel 1687.
Un
figlio nato a Madrid intorno al 1669 – 70 che sfuggì ai genealogisti del tempo
come Caetano de Sousa (1743) o Alvarez y Baena (1789). Il figlio, scoperto da
Raffaele Raimondo (1974) morì in
tenera età pochi anni dopo il padre.
Rimase
orfano del padre all’età di sette anni e non era il solo erede di Castel
Rodrigo, per via della madre, ma anche del nonno Guzman con i suoi numerosi
titoli.
Lo
zio Nicòlas Guzman non aveva avuto figli dal suo lontano matrimonio contratto
nel 1657 con Maria de Toledo y Velasco e morì il 7 gennaio 1689
Felix
scomparve dal mondo nel 1688, quando era in viaggio a Malta per compiere il
triennio obbligatorio dei servizi nelle galere dell'ordine, una morte così
tempestiva anche se più silenziosa di quella dello zio Domingo, perché entrambi
costituivano un ostacolo per le cause di successione che avrebbero poi
strappato via la loro immensa eredità: praticamente tutti gli italiani e buona
parte degli spagnoli.
Forse
Domingo fece qualcosa da parte sua per risolvere la sua disgrazia.
Gregorio
Marañón lo fece diventare maestro di campo ma la verità fu che dovette lasciare
la corte, all'età di vent'anni, dopo aver ucciso in duello il marchese di
Almazán (22 maggio 1664). Poi visse tra Genova e Bologna, raccogliendo la fama
di "spadaccino e donnaiuolo", ma non fu "ammazzato,
con archibugiate, di notte per [...] cagion d'onore", ma perché
c'erano feudi che importavano centinaia di migliaia di scudi in affitto, nonostante
fosse solo il secondo anello della catena della successione, subito subordinato
al nipote Felice. Il destino di quest'ultimo, non importa quanto sconosciuto, fu
meno giustificabile, poiché la sua scomparsa genealogica rende sospetto - contribuzione
di parte in causa
Insomma,
il figlio e l'erede scomparvero, la madre ridiventò oggetto del desiderio e lo
stesso anno contrasse un secondo matrimonio con Carlos Homodei Pacheco e Laso
de la Vega, II marchese di Almonacid, non riuscì a perpetuarsi nella casa di
Castel Rodrigo.
Eleonora
de Moura morì a Madrid l’uno gennaio 1707.
Nei
titoli del casato De Moura gli successe la sorella Giovanna (Joana) che sposò
Gilberto Sigisberto Pio, II principe di San Gregorio. La coppia ebbe quattro
figli/e:
Margherita
Pio;
Francesco
Pio di Savoia, VI marchese de Castel Rodrigo,
Beatrice
Pio
Luis
Antonio Pio de Moura
Il
patrimonio dei Guzman Caraffa invece andò perduto.
Il
padre di Anelio Guzman, don Ramiro Núñez
de Guzmán y Quiñones, prima di sposare Anna Caraffa y Aragon si era sposato con
Maria de Guzman y Zuniga ( figlia di Gaspar de Guzman, Conte Duca di Olivares e
di Ines de Zuniga y Velasco, (figlia di Gaspar de Zuniga y Acevedo, V Conte Monterrey, senor de Biedma y de Ulloa, Virrey de Nueva Espana y del Perù e di Ines de Velasco y Aragon).
Gaspar
de Guzman, Conte Duca di Olivares, era il potente e valido primo ministro del
re Filippo IV. La Giovane Maria Guzman aveva 18/19 anni quando sposò don Ramiro
Guzman e morì poco dopo il matrimonio.
Alla
morte della seconda moglie Anna Caraffa, don Ramiro si sposò una terza volta
con
Catalina Vélez Ladròn de Guevara y Manrique de la Cerda,
IX contessa de Onate (figlia di Inigo “el Mozo” Vélez Ladròn de Guevara y
Guevara, VIII conte de Onate, Virrey de Napoles e di Antonia Manrique de Lara y
de la Cerda, IX contessa de Castaneda).
Dal matrimonio nacque un’unica figlia: Marianna Sinforosa
de Guzman y Guevara, IV duchessa de Medina de las Torres.
Si sposò con Don Juan Clariz de Guzman, XI duca de Medina
Sidona, Virrey de Cataluña e non ebbero figli.
L’intero
patrimonio Guzman Caraffa, valutato in oltre tre milioni di ducati ( più di 300
beni immobili tra terre, città e castelli) passarono al Regio Demanio.
Dalle
notizie in mio possesso sembra che una parte del patrimonio dei Guzman fu
acquistato dal banchiere Ferdinando Vandeneyndem, che lo lascio alla figlia
Giovanna.
Il
palazzo di via Chiaia a Napoli, fu
acquistato nel 1722 da Antonio Giudice, principe di Cellammare, che diede il
nome al nobile e bellissimo palazzo.
A
quando sembra sui beni del casato Guzman
c’era un diritto di successione legato
all’applicazione della legge salica cioè
di trasmissione dei beni per via esclusivamente maschile.
Andrea
Camilleri,
il grande scrittore Siciliano, dedicò a
Donna Eleonora un romanzo.
Un
romanzo storico magari intriso di alcuni spunti inventati, ma alla fine in gran
parte veritiero perché lo scrittore amava scendere nell’ ambiente siciliano,
nelle viscere delle pagine storiche cercando di studiare e di scoprire la loro
essenza.
Un
romanzo dal titolo “La Rivoluzione della Luna”…. un giusto
riconoscimento per una donna che sia pure in un limitato periodo di tempo,
riuscì a portare avanti il concetto di giustizia sociale…. Ormai dimenticato….
Lo scrittore Siciliano Andrea Camilleri
Porto Empedocle(Agrigento),
6 settembre 1925 – Roma, 17 luglio 2019)
Il romanzo è un carosello di pantomime, effetti
caricaturali. La realtà storica del secolo XVII è vivisezionata attraverso una
lente d’ingrandimento dei vizi, dei costumi libertini, delle dabbenaggini,
dell’opportunismo più bieco e meschino. E’ la fiera delle vanità, dei soprusi
più abietti, delle violenze perpetrate ai deboli e alle giovani fanciulle
orfane, alla mercè libidinosa di laidi nobilastri e chierici senza freni. In
questo quadro miserevole affonda Camilleri la sua vis comica al pari di un
novello Giovenale, mette in rilievo le bassezze più recondite dell’animo umano,
l’immoralità diffusa. In una Palermo della nobiltà ad alto tasso di licenza per
l’illegalità e la licenziosità, viene elevato a simbolo di beltà l’alto senso
morale e l’elevato grado di perizia politica e diplomatica di una donna:
Eleonora di Mora, spagnola sì, ma di famiglia siciliana. Nera di capelli e di
occhi, ammantata di una regalità connaturata che ammalia e toglie il fiato.
L’immagine muliebre che adombra Camilleri è un canto alla donna, una
celebrazione della sua beltà in omaggio non solo alle attraenti forme fisiche,
ma alla sua intelligenza, acume e perspicacia.
Il mondo femminile da Camilleri è tratteggiato sempre
con un senso di rispettosa adesione, compartecipa con animo femminile ai
sentimenti e ai risentimenti di esso. Le sedute del Sacro regio Consiglio sono
delle farse da commedia dell’arte. I sei
consiglieri, componenti il suddetto consiglio, sono delle maschere tragiche,
ciascuna annidata ha una macchia, un crimine di diversa natura e rivoltano in
bizantine manomissioni le leggi secondo il proprio interesse e a scopo di
lucro.
L’ouverture del libro è già di per sé un capolavoro:
l’inizio di una seduta del Consiglio con tutto il suo cerimoniale ridicolo, con
movenze e riverenze cortigiane, fautore di una politica farsesca, dispensatrice
di favori e leggi ad personam. Il resto del racconto è un crescendo senza sosta
in due alterità: libidine, indegnità, corruzione da una parte, limpida onestà,
rettitudine e senso morale dall’altra. Alla conclusione della storia si eleva
un canto a celebrare il breve regno di Donna Eleonora: ventotto giorni ci mette
la luna a girare intorno alla terra e un giro di luna fu il suo regno, ma fece
della notte giorno chiaro e bastò a fare del dolore meno amaro, nel cuore della
gente c’è una luna piccola, quella è lei che vi regna di splendore. Il libro è
un misto di storia ed invenzione, degno di un romanzo classico, così la lettura
suscita nel contempo indignazione civile e ridanciano umorismo. La duplicità è
uno dei segni identificativi di questo scritto.
A prova di ciò anche l’uso doppio della lingua: il
siciliano alla Camilleri e il piacevole e personale italo-spagnolo parlato da
Donna Eleonora. Un felice romanzo storico, uno tra i più riusciti senz’altro
del nostro grande Andrea Camilleri.
Alcune
Immagini del Romanzo
Il
Vicerè s’avvia a presiedere il Sacro Regio Consiglio. «Non era facili per lui
cataminarisi. Data la grassizza delle cosce, per fari un passo, non potiva
portari il pedi in avanti come voli natura ma doviva spostari prima tutta la
gamma di lato e po’ avanzari il pedi».
Un Vicerè ammalato del quale i consiglieri si prendono gioco,
giungendo al punto che accortisi della sua morte, continuano con la seduta per
far approvare delle norme a favore dei loro interessi e dei loro amici. Leggi
che il Vicerè in vita, nonostante le difficoltà legate alla sua malattia, non
avrebbe mai fatto approvare. Son sicuri di farla franca nel loro inganno perché
controllano i gangli del potere, perché il loro clientelismo è cosi diffuso da
distorcere i normali meccanismi del funzionamento delle istituzioni.
Perché non immaginano che qualcuno possa scoprirli e fermarli, del
resto sono abituati a commettere ogni forma di abuso e di ingiustizie,
coprendole con collusioni e corruzioni. Ma anche per loro giunge l’ora della
giustizia, anche per gli intoccabili. E la giustizia prende la forma di una
donna, la marchesa Eleonora di Mora, che Camilleri delinea così: «La picciotta
che lo stava a taliare aspittanno che parlasse era nìvura di capilli, àvuta,
slanciata, aliganti, vistuta alla spagnola. Il meglio pittori che c’era supra
alla facci della terra non avrebbi mai saputo pittarla com’era».
E la bellissima viceregina è anche dotata di una intelligenza
fuori dal comune, da una capacità di osservatrice acuta, e sa anche governare.
Prende subito in mano le redini del governo, riesce a mutare la composizione
dell'intero Sacro Regio Consiglio, fa punire gli ex consiglieri per le loro
colpe, riesce a far restituire le ricchezze illecitamente accumulate. Ma la
sfida più difficile la deve combattere contro Turro Mendoza, l’arcivescovo di
Palermo, il capo della Chiesa siciliana.
Uomo potente, astuto, furbissimo, manipolatore dell'opinione
pubblica attraverso le sue prediche dal pulpito della cattedrale, riesce pure
ad organizzare manifestazioni di piazza contro la viceregina. Ma donna Eleonora
riesce ad anticipare od a controbattere ad ogni sua mossa, e con riforme eque a
vantaggio dei ceti deboli, quali il dimezzamento delle tasse sul grano con
conseguente diminuzione del prezzo del pane, conquista la fiducia di
moltitudini di gente. Ed ancora, agisce su quello che oggi definiremmo welfare,
aiuta le orfane, le donne in difficoltà, i più deboli, i disagiati, con riforme
vere. E cosa non irrilevante finanzia le nuove uscite con i soldi recuperati
dalla corruzione, dai potenti che evadevano le tasse del Regno. Il vescovo
Mendoza contrattacca, cerca cavilli, ma ha degli scheletri nell'armadio, accuse
di nefandi crimini versi due bambini del coro della cattedrale.
Donna Eleonora con la collaborazione del protomedico, i nuovi
consiglieri, il Capitano di giustizia, e quello che potremmo definire un
antenato del commissario Salvo Montalbano, delegato alle indagini sul campo,
Torregrossa, riesce a far emergere i crimini dell'arcivescovo che cade su una
provata accusa di essere mandante di un omicidio. Anche le potenti protezioni
delle quali aveva goduto si sciolgono come neve al sole. Anche per il vescovo
Mendoza si aprono le porte del carcere.
Ma una operazione del vescovo va in porto, il Papa ha chiesto al
Re di Spagna di destituire la viceregina perché in quanto donna non può essere
«il Legato nato», del Papa. La marchesa Eleonora tornò in Spagna, ma le leggi e
le decisioni da lei assunte non decaddero per volontà del Re. La rivoluzione fu
breve ma la viceregina nel romanzo camilleriano riesce a far condannare il
vescovo, non per vendetta, ma per giustizia...
II
sigritario si susì, anno a pigliare la busta, la considerò con attenzioni e
dissi:
«Fettivamenti cca supra c'è scritto "da consegnare e da fare leggere subito al Sacro Regio Consiglio in caso di mia morte improvvisa". Ci stanno macari il sigillo e la firma di don Angel. Che fazzo, lo rumpo il sigillo?».
«Certamenti» dissi il Gran Capitano. Il sigritario ruppi il sigillo, raprì la busta, ne cavò un foglio, lo isò 'n aria ammostrannolo a tutti.
«È scritto dalla mano del Viciré» dissi.
«Avanti, avanti» fici 'mpazienti il viscovo.
Finalmenti il protonotaro si misi a leggili.
«Qui esprimo il mio volere ultimo, che rendo a Voi manifesto in pieno e chiaro senno e nell'esercizio dei poteri alla persona mia conferiti per grazia di Dio e di Sua Maestà il Re Carlo III di Spagna. In caso di mia morte improvvisa, la diletta mia sposa donna Eleonora di Mora, marchesa di Gastel de Roderigo, dovrà accedere a pieno titolò alla carica di Viceré di Sicilia, con tutti gli onori e gli oneri, i doveri e i diritti a tal carica annessi, in attesa che la Sacra Persona di Sua Maestà Carlo III consenta a questo mio volere o in caso contrario invii altra persona da Lui scelta. Pertanto non vige la norma consueta che in assenza del Viceré sia il Gran Capitano di Giustizia ad assumerne la carica provvisoria. Questo è il mio volere e desidero che sia accolto e rispettato da tutti senza por tempo di mezzo.
«Firmato: il Viceré, don Angel de Guzmân, marchese di Caste! de Roderigo» II silenzio fu tali che si sintì persino 'na musca che volava vicino alla testa del protonotaro.
«Minchia!» fu la prima parola che lo ruppi.
Era stato il viscovo a dirla.
E subito appresso fu tutto un murmuriare, un parlottiare, un gesticoliare, un agitarisi con qualichi risateddra addivirtuta sparsa cca e ddrà e subito assufficata.
Il principi di Ficarazzi si scotì dalla gran botta che l'aviva 'nzallanuto, storduto e mezzo assintomato, arriniscì faticosamenti a mittirisi addritta supra al troniceddro squasi per soprastari ancora chiossà a tutti l'autri e gridò:
«'Sto tistammento non ha nisciun valori!».
«E pirchì, fici il viscovo, è scritto di pugno dal Viciré e c'è macari tanto di sigillo!».
«Pirchì... pirchì...» fici il Gran Capitano che stava circanno alla dispirata 'na raggiuni qualisisiasi alle paroli che aviva ditto. Ma non cinni viniva una che fusse una 'n menti.
«Sintemo il pareri del protonotaro che la liggi l'accanosce bona» suggerì don Cono Giallombardo.
«Sintemelo! Sintemolo!» ficiro l'autri Consiglieri 'n coro e pigliannsi un potiri decisionali che non avivano.
Don Gerlando Musumarra si susì. A malgrado della scarsa luci, si vidiva che era pallito e prioccupato.
«C'è picca da diri. La liggì parla chiaro e non ammetti dubbio. Il voliri del Viciré è supremo e inoppugnabili sia che sia stato espresso a voci 'n prisenza di testimoni sia che sia stato scrivuto. Come in questo caso. E va applicato macari se tutto il Consiglio è contrario».
«Ma è il voliri di un morto!» vociò il Gran Capitano.
«A parti che per questo avrebbi maggior valori, 'sto voliri don Angel l'addichiarò, scrivennolo, quann'era ancora vivo» replicò friddo il protonotaro.
Il Gran Capitano, a malgrado che avvertiva a pelli che tutto il Consiglio gli era contro, non volli mollare l'osso.
«Ma la norma non può essiri cangiata dal Viciré, abbisogna che a farlo sia il Re stisso!».
«E 'nfatti la norma non è stata cangiata» replicò il protonotaro. «Tant'è vero che le dilibire fatte oggi sono state firmate da voi, signor principi, post mortem del Viciré. Quindi, doppo morto, il Viciré ha continuato, attraverso di voi, a manifistari il so volili. Se mittemo 'n discussioni il tistamento, dovemo di necessità mettiri 'n discussioni macari tutte le dilibire fatte stamatina dal Consiglio pirchì non portano la firma di don Angel».
Era un colpo vascio tirato dal protonotaro. Lassava accapire che se il tistamento viniva arrefutato, allura puro tutte le malifatte, i favori, i soprusi, l'anghirie che i Consiglieri avivano cangiato 'n liggi facenno fìnta che il Viciré era sulamenti sbinuto e no morto, arrischiavano di non arrivari a signo.
Per un momento, il principi di Ficarazzi sinni risto muto.
E il viscovo sinni approfittò. «Pirchì non mittemo ai voti l'approvazioni del tistamento? » spiò facenno 'na facci di 'nnuccenti angiluzzo.
I Consiglieri pigliaro come la menta.
«Ai Voti! Ai voti!» ficiro 'n coro.
Il Gran Capitano accapì d'aviri pirduto la partita. Tornò ad assittarisi supra al troniceddro. «Fate come voliti».
«Chi riteni valido il tistamento isasse il vrazzo» dissi il protonotaro.
Cinco vrazza si isaro 'n aria, n tistamento di don Angel era stato approvato.
Tutti allura si votaro a taliare a donna Eleonora che sinni era sempri ristata ferma e muta 'n mezzo al saloni.
"«Fatemi posto» dissi lei arrivolta al principi, senza che nella so voci ci fusse la minima 'mperiosità.
Ma il principi si scantò propio per quell'assenza di cumanno. La friddizza di quella fìmmina gli faciva aggilare il sangue. Calò la testa, scinnì dal troniceddro e sinni tornò al so posto di Gran Capitano.
Donna Eleonora traversò il saloni sutta all'occhi affiatati dei prisenti, si firmò davanti al trono vacanti del Re, calò la testa, si spostò, acchianò con grazia i tri scaluna, s'assittò supra al troniceddro, s'aggiustò il vistito e po' a lento si livò il velo nìvuro scummigliannosi la facci.
A tutti di colpo ammanco il sciato.
Fu come se nella scurìa del saloni fusse comparso tutto 'nzemmula un punto di luci cchiù luminoso del soli che abbagliava accussì forti da fari lacrimiare l'occhi.
«Dâteme el signo de vuestra obediencia».
E macari stavota nisciun tono di cumanno, era 'na semplici, aducata, gentili richiesta di 'na fimmina di granni nobirtà.
I Consiglieri, stracatafuttennosinni della gerarchla, scattare tutti e sei addritta, compriso il Gran Capitano macari lui affatato, e correrò squasi fusse 'na gara verso il troniceddro ammuttannosi e travaglianno di gomito, s'attrupparo ai pedi dei tri scaluna, s'agginocchiaro, portare la mano dritta al cori, calaro la testa.
'N quel priciso momento a don Cono Giallombardo scappo di murmuriari:
«Beddra!».
«Beddra!» ficiro l'autri cinco Consiglieri.
«Beddra beddra!».
«Beddra beddra!» arripitero l'autri.
«Fìmmina di Paradiso!» fici don Cono.
«Fìmmina di Paradiso!» litaniaro l'autri.
Donna Eleonora 'nterruppi l'adorazioni.
«Tornate al vuestro posto».
S'allontanare a malincori, con la testa votata verso di lei, come a chi devi lassare 'na fonti d'acqua avenno ancora siti.
Donna Eleonora parlò.
«Confirmo che no habrà ningun entierro de solemnidad y ninguna visita de condolencias. In Sacro Regio Consiglio se réunirà pasado manana a la misma hora de hoy. La sesión ha terminado».
«Fettivamenti cca supra c'è scritto "da consegnare e da fare leggere subito al Sacro Regio Consiglio in caso di mia morte improvvisa". Ci stanno macari il sigillo e la firma di don Angel. Che fazzo, lo rumpo il sigillo?».
«Certamenti» dissi il Gran Capitano. Il sigritario ruppi il sigillo, raprì la busta, ne cavò un foglio, lo isò 'n aria ammostrannolo a tutti.
«È scritto dalla mano del Viciré» dissi.
«Avanti, avanti» fici 'mpazienti il viscovo.
Finalmenti il protonotaro si misi a leggili.
«Qui esprimo il mio volere ultimo, che rendo a Voi manifesto in pieno e chiaro senno e nell'esercizio dei poteri alla persona mia conferiti per grazia di Dio e di Sua Maestà il Re Carlo III di Spagna. In caso di mia morte improvvisa, la diletta mia sposa donna Eleonora di Mora, marchesa di Gastel de Roderigo, dovrà accedere a pieno titolò alla carica di Viceré di Sicilia, con tutti gli onori e gli oneri, i doveri e i diritti a tal carica annessi, in attesa che la Sacra Persona di Sua Maestà Carlo III consenta a questo mio volere o in caso contrario invii altra persona da Lui scelta. Pertanto non vige la norma consueta che in assenza del Viceré sia il Gran Capitano di Giustizia ad assumerne la carica provvisoria. Questo è il mio volere e desidero che sia accolto e rispettato da tutti senza por tempo di mezzo.
«Firmato: il Viceré, don Angel de Guzmân, marchese di Caste! de Roderigo» II silenzio fu tali che si sintì persino 'na musca che volava vicino alla testa del protonotaro.
«Minchia!» fu la prima parola che lo ruppi.
Era stato il viscovo a dirla.
E subito appresso fu tutto un murmuriare, un parlottiare, un gesticoliare, un agitarisi con qualichi risateddra addivirtuta sparsa cca e ddrà e subito assufficata.
Il principi di Ficarazzi si scotì dalla gran botta che l'aviva 'nzallanuto, storduto e mezzo assintomato, arriniscì faticosamenti a mittirisi addritta supra al troniceddro squasi per soprastari ancora chiossà a tutti l'autri e gridò:
«'Sto tistammento non ha nisciun valori!».
«E pirchì, fici il viscovo, è scritto di pugno dal Viciré e c'è macari tanto di sigillo!».
«Pirchì... pirchì...» fici il Gran Capitano che stava circanno alla dispirata 'na raggiuni qualisisiasi alle paroli che aviva ditto. Ma non cinni viniva una che fusse una 'n menti.
«Sintemo il pareri del protonotaro che la liggi l'accanosce bona» suggerì don Cono Giallombardo.
«Sintemelo! Sintemolo!» ficiro l'autri Consiglieri 'n coro e pigliannsi un potiri decisionali che non avivano.
Don Gerlando Musumarra si susì. A malgrado della scarsa luci, si vidiva che era pallito e prioccupato.
«C'è picca da diri. La liggì parla chiaro e non ammetti dubbio. Il voliri del Viciré è supremo e inoppugnabili sia che sia stato espresso a voci 'n prisenza di testimoni sia che sia stato scrivuto. Come in questo caso. E va applicato macari se tutto il Consiglio è contrario».
«Ma è il voliri di un morto!» vociò il Gran Capitano.
«A parti che per questo avrebbi maggior valori, 'sto voliri don Angel l'addichiarò, scrivennolo, quann'era ancora vivo» replicò friddo il protonotaro.
Il Gran Capitano, a malgrado che avvertiva a pelli che tutto il Consiglio gli era contro, non volli mollare l'osso.
«Ma la norma non può essiri cangiata dal Viciré, abbisogna che a farlo sia il Re stisso!».
«E 'nfatti la norma non è stata cangiata» replicò il protonotaro. «Tant'è vero che le dilibire fatte oggi sono state firmate da voi, signor principi, post mortem del Viciré. Quindi, doppo morto, il Viciré ha continuato, attraverso di voi, a manifistari il so volili. Se mittemo 'n discussioni il tistamento, dovemo di necessità mettiri 'n discussioni macari tutte le dilibire fatte stamatina dal Consiglio pirchì non portano la firma di don Angel».
Era un colpo vascio tirato dal protonotaro. Lassava accapire che se il tistamento viniva arrefutato, allura puro tutte le malifatte, i favori, i soprusi, l'anghirie che i Consiglieri avivano cangiato 'n liggi facenno fìnta che il Viciré era sulamenti sbinuto e no morto, arrischiavano di non arrivari a signo.
Per un momento, il principi di Ficarazzi sinni risto muto.
E il viscovo sinni approfittò. «Pirchì non mittemo ai voti l'approvazioni del tistamento? » spiò facenno 'na facci di 'nnuccenti angiluzzo.
I Consiglieri pigliaro come la menta.
«Ai Voti! Ai voti!» ficiro 'n coro.
Il Gran Capitano accapì d'aviri pirduto la partita. Tornò ad assittarisi supra al troniceddro. «Fate come voliti».
«Chi riteni valido il tistamento isasse il vrazzo» dissi il protonotaro.
Cinco vrazza si isaro 'n aria, n tistamento di don Angel era stato approvato.
Tutti allura si votaro a taliare a donna Eleonora che sinni era sempri ristata ferma e muta 'n mezzo al saloni.
"«Fatemi posto» dissi lei arrivolta al principi, senza che nella so voci ci fusse la minima 'mperiosità.
Ma il principi si scantò propio per quell'assenza di cumanno. La friddizza di quella fìmmina gli faciva aggilare il sangue. Calò la testa, scinnì dal troniceddro e sinni tornò al so posto di Gran Capitano.
Donna Eleonora traversò il saloni sutta all'occhi affiatati dei prisenti, si firmò davanti al trono vacanti del Re, calò la testa, si spostò, acchianò con grazia i tri scaluna, s'assittò supra al troniceddro, s'aggiustò il vistito e po' a lento si livò il velo nìvuro scummigliannosi la facci.
A tutti di colpo ammanco il sciato.
Fu come se nella scurìa del saloni fusse comparso tutto 'nzemmula un punto di luci cchiù luminoso del soli che abbagliava accussì forti da fari lacrimiare l'occhi.
«Dâteme el signo de vuestra obediencia».
E macari stavota nisciun tono di cumanno, era 'na semplici, aducata, gentili richiesta di 'na fimmina di granni nobirtà.
I Consiglieri, stracatafuttennosinni della gerarchla, scattare tutti e sei addritta, compriso il Gran Capitano macari lui affatato, e correrò squasi fusse 'na gara verso il troniceddro ammuttannosi e travaglianno di gomito, s'attrupparo ai pedi dei tri scaluna, s'agginocchiaro, portare la mano dritta al cori, calaro la testa.
'N quel priciso momento a don Cono Giallombardo scappo di murmuriari:
«Beddra!».
«Beddra!» ficiro l'autri cinco Consiglieri.
«Beddra beddra!».
«Beddra beddra!» arripitero l'autri.
«Fìmmina di Paradiso!» fici don Cono.
«Fìmmina di Paradiso!» litaniaro l'autri.
Donna Eleonora 'nterruppi l'adorazioni.
«Tornate al vuestro posto».
S'allontanare a malincori, con la testa votata verso di lei, come a chi devi lassare 'na fonti d'acqua avenno ancora siti.
Donna Eleonora parlò.
«Confirmo che no habrà ningun entierro de solemnidad y ninguna visita de condolencias. In Sacro Regio Consiglio se réunirà pasado manana a la misma hora de hoy. La sesión ha terminado».
E’ commovente il finale.
A picca a picca, nello spiazzo davanti al
Palazzo, accominzaro ad arrivari a taci maci mindicanti, genti coi vestiti
pirtusa pirtusa che cadivano a pezzi, genti struppiata alla quali ammancava un
vrazzo o na’ gamma, ciechi, stroppi, malatizzi, sbinturati di nascita, curti di
menti…ognuno aviva ‘n mano un pezzo di pani che s’era potuto accattari pirchì
ora il pani costava picca e loro ci potivano arrivari. E se l’erano venuto a
mangiari ‘n silenzio, per ringrazio, davanti a donna Eleonora.
6 marzo
2013
Andrea
Camilleri
“Nel
mio nuovo libro un’eroina del Seicento”
……………………….
7. "Antea"
Autore :
Parmigino
(Girolamo Francesco Maria Mazzola; Parma, 11 gennaio 1503; Casalmaggiore, 24 agosto 1540)
Olio su tela – (135 x 88 ) cm
Museo
Nazionale di Capodimonte – Napoli
L’opera, prima del 1671, era intitolata “Ritratto di
giovane donna”. Fu il pittore e critico d’arte Giacomo Barri (Jaques de Pierre de Bar, di
Lione) a darle il titolo di Antea sostenendo che la donna ritratta fosse un
amante del Parmigianino.
Secondo il critico Antea
era una cortigiana romana ricordata anche dallo scultore. Benvenuto Cellini.
Naturalmente la critica
storica ha cercato di svelare in mistero
formulando diverse ipotesi:
-
una famosa cortigiana
romana vissuta nella prima metà del Cinquecento ma sul suo nome con ci sono
riferimenti precisi;
-
una dama seguace della
moda in vigore nelle corti dell’Italia settentrionale nei primi decenni del
Cinquecento e forse appartenente alla nobiltà parmense;
-
Ottavia Camilla Baiardi,
nipote di Elena e Francesco Baiardi, amici e committenti dell’artista. La donna
si sposò quattordicenne con il conte Magrino Beccaria e fu cantata dai poeti
per il suo fascino e la sua allegria.
Nel Seicento il dipinto faceva
parte delle raccolte farnesiane del Palazzo del Giardino a Parma e alla fine
del Seicento fu trasferito nella Galleria Ducale del Palazzo della Pillotta
sempre a Parma.
Nel 1734 il dipinto fu
trasferito a Napoli e Ferdinando I di Borbone lo inviò, assieme ad altri quadri, a Palermo
dove restò fino al 1816 quando fu
portato nuovamente a Napoli.
Durante la seconda guerra
mondiale fu portato nei depositi di Montecassino dove venne rubato dalle truppe
tedesche e trasportato in Germania. Fu recuperato nel 1945 e riportato nel
Museo Nazionale di Capodimonte.
La luce, proveniente da destra, mette in risalto il
volto che è la parte più intrigante del quadro.
Lo sguardo fisso con un espressione serena. L’eleganza
del vestito, i gioielli, la pettinatura, la pelliccia di martora sulla spalla,
sono tutti aspetti che fanno intuire l’appartenenza della donna ad una
condizione nobile come si evince anche dal voluto distacco espressivo dello sguardo.
Il grembiule finemente ricamato, decorato, tipico
delle nobildonne che lo indossavano in
casa.
Presenta una mano sinistra scoperta con la quale
accarezza una catena probabile regalo di un amante o ammiratore.
Il gesto di questa mano, all’altezza del cuore e sotto
il seno appena scoperto, indica che la
donna ha accettato l’offerta amorosa del probabile amante.
I rubini posti tra i capelli e al dito in quel periodo
erano considerati degli amuleti contro la sterilità così come la stola di
martora adagiata sulla spalla sinistra della donna.
Un bellissimo ritratto di donna dove traspare un ideale
di bellezza femminile ricco di grazia ed eleganza senza aspetti eccessivi di
sensualità.
Probabilmente per questo motivo la figura fu presa da
Andrea Camilleri come copertina del suo libro dedicato ad Eleonor de Moura.
Nel 2018 fu prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà un film/documentario dal titolo
Nel Nome di Antea
Un documentario diretto da Massimo Martella in cui
Antea racconta in prima persona di come, insieme ad altre opere italiane, sia
riuscita ad uscire indenne dalla Seconda Guerra Mondiale.
TRAMA
Due
opere della pittura italiana raccontano come sono riuscite a uscire indenni
dalla Seconda Guerra Mondiale, senza essere per nulla intaccate. A
salvaguardare queste e molti altri ritratti sono stati un gruppo di giovani
funzionari italiani delle Belle Arti, che, nonostante il loro coraggio e la
loro dedizione, sono rimasti nell'ombra fino a poco tempo fa. Hanno tenuto
lontano i capolavori dai bombardamenti, tenendoli nascosti in luoghi al di
fuori delle città prese di mira; poi, dopo l'armistizio, li hanno protetti
dall'avanzare della linea del fronte e da possibili razzie.
Tra gli umili eroi che hanno messo al riparo questi quadri e hanno agito dietro le quinte del conflitto ci sono: Pasquale Rotondi, che in due rifugi nelle Marche mise in salvo migliaia di opere del Nord Italia; diversi i funzionari ministeriali, come Lavagnino, Argan, Lazzari, che quando nessun posto in Italia era più sicuro, riuscirono a ricoverarne una parte all'interno del Vaticano; le giovani studiose, Palma Bucarelli e Fernanda Wittgens, che, mettendo a rischio le loro stesse vite, hanno salvato i capolavori loro affidati.
Un tentativo di salvaguardare l'arte dell'intera nazione, dalle opere d'arte napoletane, portate via da Montecassino, ai capolavori dei musei fiorentini, trafugati dai nazisti e recuperati prima che passassero il confine.
Tra gli umili eroi che hanno messo al riparo questi quadri e hanno agito dietro le quinte del conflitto ci sono: Pasquale Rotondi, che in due rifugi nelle Marche mise in salvo migliaia di opere del Nord Italia; diversi i funzionari ministeriali, come Lavagnino, Argan, Lazzari, che quando nessun posto in Italia era più sicuro, riuscirono a ricoverarne una parte all'interno del Vaticano; le giovani studiose, Palma Bucarelli e Fernanda Wittgens, che, mettendo a rischio le loro stesse vite, hanno salvato i capolavori loro affidati.
Un tentativo di salvaguardare l'arte dell'intera nazione, dalle opere d'arte napoletane, portate via da Montecassino, ai capolavori dei musei fiorentini, trafugati dai nazisti e recuperati prima che passassero il confine.
Il
racconto di questa missione di salvataggio culturale, però, interessa anche i
tentativi di restaurare ciò che sembrava irrimediabilmente perduto. Anche se
non tutto si è salvato, è grazie a queste persone coraggiose che oggi possiamo
ammirare e mostrare al mondo intero Caravaggio, Giorgione, Raffaello e molti
altri. Il generale americano Clark, a comando delle truppe coinvolte nella
Compagna d'Italia, disse che fare la guerra in Italia era come combattere in
“un maledetto museo”; eppure, quel museo è sopravvissuto ed è testimone della
storia della nostra identità, trasmettendo ogni giorno il valore universale
della bellezza.
Per vedere il
film:
e seguire le
istruzioni.
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8. Enciclopedia delle Donne; altri file
Enciclopedia delle
Donne – Seconda parte
16/Maggio/2019
Alcune Donne
Importanti dell’Antichità
Aspasia – La Pizia
– Cinisca – Ipazia
Atlete Vittoriose
nell’Olimpiade
Le Allieve della Scuola
Pitagorica di Kroton (Crotone)
…………………………………………..
Enciclopedia della
Donne – Terza Parte
30/ Settembre/
2019
Le Prime Mediche
della Storia
1. Asclepio, il dio della medicina – Le sue figlie tutelari della salute;
2. Medica o Medichessa ? .. Medichessa è un
termine ironico………;
3. Le Prime Mediche della Storia:
a) Merit Ptah (egizia; 2700 a.C.);
4. Le Mediche presenti nel Mondo Greco e Latino – Ippocrate;
a) Agnodice ( 400- 300 a.C.)….. si travestì da uomo per fare la
professione di medica;
b) Mousa; Sorano d’Efeso (I – II sec. d.C.); Scribonia Attice di
Ostia; Antiochide; Pontea di Pergamo; Cleopatra di Roma (I sec.
d.C.); Cleopatra (II sec. d.C.); Cleopatra…la regina; Maria “La
Maestra” fondatrice dell’Alchimia e della
tecnica detta “bagnomaria";
5. Il Primo Ospedale di Roma; Santa Fabiola di Roma;
6. Gli Ospedali Bizantini; Oribasio; Ezio Amideno; Alessandro di Tales;
7. Metradora (V – VI sec. d.C.);
8. La “Schola Salernitana” – la Nascita e collegamento con Velia – La
Leggenda; La Storia della “Schola Salernitana” – Il Giardino di Minerva – Le
Sedi – La Storia D’Amore fra il Principe Enrico e la contadina Eslie- Federico
II di Svevia e la “Schola Salernitana” – I “Reginem Salernitatum” e Arnoldo di
Villanova
Le Mediche della Scuola Salernitana;
8 a) Trotula De Ruggiero (Salerno…; …1097); una delle più importanti mediche
della Scuola Salernitana;
8 b) Abella di Castellomata; Rebecca Guarna (XIII – XIV sec.); Maria Incarnata;
Mercuriade (XII sec.); Costanza Calenda; “Regimen Sanitatis Salernitanim”,
scritto in versi, “Flos Medicinae” (Arnaldo da Villanova commentò il “Regimen
S.”)
8c) Le Mediche Catanesi: Bella de Paija (1400) –
Virdimura da Catania (XIV sec.)- In Sicilia nel 1300-1400 si praticava la
chirurgia plastica
9 – Le Prime Donne Laureate in Medicina in Italia
Adelasia Cocco; La Prima
Medica di Condotta in Italia
10 - Il Giuramento di
Ippocrate sulla Professione Medica
………………………….
Enciclopedia delle
Donne – Quarta parte
01/Gennaio/ 2010
Costanza d’Aragona
– Prima Moglie dell’Imperatore Federico II di Svevia
1. Il primo marito: Emerico d’Ungheria – Costanza fu la prima Regina
d’Ungheria - Il Figlio Ladislao – La
fuga verso l’Austria – Ritorno in Aragona dalla madre Sancha nel Monastero di
Sigena (Sijna);
2. Costanza d’Aragona sposa Federico II di Svevia – La Cerimonia
d’Incoronazione nella Basilica di San Pietro – Le Lodi Imperiali;
3. Il ritorno di Costanza d’Aragona in Sicilia e la sua morte a Catania;
4. Il Mondo di Costanza;
5. Il sarcofago di Costanza nella Cattedrale di Palermo;
6. La Corona di Costanza d’Aragona nel Tesoro della Cattedrale di Palermo
– La riproduzione della Corona, opera di Katia Foti, nel Museo dell’Abito
Medievale di Montalbano Elicona (Messina);
7. La tragica fine del figlio di Costanza, Enrico VII, re di Germania – Le
varie prigioni – il fantasma della moglie - Il suo sarcofago, con rilievo
della “Caccia al cinghiale calidonio”, nel Duomo di Cosenza – La vera causa
della morte di Enrico VII: “lebbra lepromatosa”;
8. Dolce Tipico Siciliano : La Cassata di Costanza.
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Enciclopedia delle
Donne – Quinta Parte
Jolanda (Isabella)
Brienne – Seconda Moglie dell’Imperatore Federico II di Svevia
05/Gennaio/ 2020
OLANDA (ISABELLA) DI BRIENNE
- SECONDA MOGLIE DELL'IMPERATORE
FEDERICO II DI SVEVIA
FEDERICO II DI SVEVIA
REGINA DI
GERUSALEMME E DI SICILIA
Sposò
Federico II a 14 anni e morì di parto quando aveva 16 anni...un
matrimonio voluto dalla Chiesa .....il suo Triste "Diario"
…………………………
Enciclopedia delle
Donne – Sesta Parte
Le Poetesse Siciliane del
Risorgimento
22/Luglio/2020
Indice:
1. Introduzione
La donna siciliana vista da Jean Pierre Houel
L’Elenco delle Donne Siciliane del Risorgimento
Il Manifesto del 1848 delle Donne Siciliane contro l’oppressione
politica e sessista con la creazione della “dignità conforme” ovvero delle
“pari opportunità”.
2. Rosina Muzio Salvo – La Legione delle Pie Sorelle - La collaborazione
con importanti riviste pedagogiche – Alcune pubblicazioni poetiche e
letterarie. – Fu accusata con il principe Vergata di cospirazione.
3. Giuseppina Turrisi Colonna “La Rivoluzionaria” – La sorella Anna o Annetta,
pittrice. Due donne unite nella vita e nella morte, morirono a distanza di tre
giorni l’una dall’altra.
4. Letteria Montoro – Il suo romanzo storico “Maria Landini” –
5. Concettina Ramondetta Fileti - Poetessa di grande ispirazione, dotata di
grande sensibilità e di forti sentimenti patriottici.
6. Lauretta Li Greci – la sua poesia di grande spiritualità, morì all’età di
sedici anni.
7. Mariannina Coffa – L’amore per il musicista Ascenzio Mauceri – Fu costretta
a sposare il ragusano Giorgio Morana – Fu definita la “poetessa maledetta” –
Morì in misera e solitudine.
……………………………………….
8 Marzo
Giornata
Internazionale della Donna
La Donna nell’arte,
nella cultura, nella politica…
07/marzo/2018
Simone De Beauvor
- Judith Layster - Lucrezia Marinelli – Properzia De’ Rossi –
Julia Margaret
Cameron – Edomia Lewis – Margaret Fountaine – Sibilla Aleramo
……………..
Le prime Donne
Sindaco in Italia
Ninetta Bartoli –
Caterina Pisani Palumbo Tuffarelli – Lydia Toraldo Serra –
Ines Nervi in
Carratelli – Elsa Damiani – Margherita Sanna –
Ottavia Fontana –
Elena Tosetti – Anna Montiroli – Alda Arisi – Lina Poletti
……………………….
Il Movimenti Femminista
- Il Diritto al Voto in
Italia
08/Marzo/2018
Storia
emancipazione femminile – Riviste femminili – La donna delle guerre –
Codice Napoleonico
Bianca Milesi –
Cristina trivulzio – Clara Maffei – Margaret Fueller – Luisa Otto –
Angelina Grimkè –
Nathalie Lemel – Louise Michel – Ravizza Alessandrina
Sibilla Aleramo –
Anna Maria Kuliscioff – Clara Zetnik – Jpsephine Buttler –
Rosa Luxemburg – Caroline Norton – Salvatore Morelli – Laura Lombardo
Radice –
Legge delle
Quarantigie – Giuramento Antimodernista della Chiesa –
Le Riforme “Elettorali”
–
La “Pascendi Dominici
gregis” della Chiesa
Video
Emily Davison
La Suffrageta
Inglese morta nell’Ippodromo.
Si uccise per
protesta a favore del diritto al voto delle donne
............................................
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