Palermo – La Magione e i Cavalieri Teutonici….Il “Recinto “ della Magione: Il Conservatorio delle “Male Maritate” – Il Collegio di S. Maria della Sapienza, La chiesa dei santi Euno e Giuliano, i Seggettieri
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1. La
Palermo Araba – Le strutture Ospedaliere – L’arrivo dei Normanni – L’Ospedale
di San Teodoro;
2. I
Centri Assistenziali nella Palermo Medievale;
3. Ruggero II d’Altavilla fonda un Ospedale per
Lebbrosi – La Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi;
4. La
Magione (Basilica della SS. Trinità del Cancelliere) - Il fondatore, Matteo D’Aiello da Salerno – I
Cistercensi a Palermo;
5. La
Magione e i suoi Tempi Storici – Costanza d’Altavilla e la profezia – Tancredi,
re di Sicilia – La moglie Sibilla di Medania (Acerra) – A Messina, Riccardo Cuor
di Leone e Filippo II Augusto – L’incontro con l’abate Gioacchino da Fiore – Lo
scontro tra Tancredi e Riccardo Cuor di Leone – Enrico VI nel Regno Normanno –
Enrico VI lascia la moglie Costanza a Salerno per farla curare dai medici della
“Schola Salernitana” - Costanza viene
catturata e portata a Palermo – Morte di Tancredi e di suo figlio Ruggero III
(forse avvelenato) – Sibilla di Medania
a Caltabellotta – Enrico Vi entra a Palermo, le stragi – La fine di
Sibilla e dei suoi figli tra cui il
piccolo Guglielmo III – I tesori della reggia di Palermo trafugati da Enrico VI
– L’incendio della Cattedrale di Catania voluto da Enrico VI… centinaia di
morti tra i fedeli – Morte a Messina di Enrico VI, forse avvelenato dalla
moglie Costanza
6. I
Cavalieri Teutonici e la loro origine; Gerusalemme e S. G. Acri;
7. Enrico
VI cede la Magione ai Cavalieri Teutonici
che mantennero il possesso fino al 1492 –
8. Architettura
della Magione
Il Chiostro con la vera da pozzo
(iscrizione ebraica) – Oratorio di Santa Cecilia – Descrizione della Basilica –
Oratorio del SS Crocifisso;
9. Collegio
“S. Maria della Sapienza” ..in abbandono – Collegio collegato
all’idea di Evangelizzazione del cardinale P.M. Corradini;
Collegio della Vitrera o
Conservatorio delle “Male Maritate” – Momenti di vita del
Collegio – Il prete Don Paolo Riggio Saladino e la sua opera nel recupero delle
povere donne – I Racconti del tempo
La Chiesa dei Santi Euno
e Giuliano – la Chiesa dei Seggettieri e perché scelsero i due
santi come protettori – I moti del 1647 – Il principe del cassero non pagò i
seggettieri – La rivolta e le persecuzioni – i Seggettieri nel tessuto sociale
di Palermo – La via delle “Sedie Volanti” – La Statua del Genio di Palermo –
Altre
Commende dell’Ordine Teutonico
Palermo – La Chiesa e il
Lebbrosario di San Giovanni del Lebbrosi
Prizzi (Palermo) – Castello della
Margana
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1.
La
Palermo Araba
Dall’831
Palermo diventò la sede dell’Emiro. Una città favorita a Siracusa che aveva il
primato, nel periodo bizantino, di guida della Sicilia. Palermo, grazie agli
emiri kalbiti, subì uno sviluppo molto dinamico con la presenza di quartieri
extra moenia.
Lo
sviluppo dovette riguardare anche le strutture ospedaliere e che si collegavano alla tradizione dei grandi
ospedali arabi (“bimaristan”) che erano fondati, con intenti
caricatevoli, dai sultani d’Egitto.
Fachada del
edificio histórico del hospital de Bimaristan del al-Muayyad,
distrito de
Darb Al Labana, El Cairo viejo, Egipto.
Il termine “bimaristan”
deriva dal persiano بیمارستان, (bīmārestān),
ospedale.
Il termine ”bimar” significa
“malato” mentre “stan” “luogo o posto”,
quindi il “luogo dei malati”.
Furono creati con questo termine
nella Persia sasanide (dinastia dei Sasanidi)
nel III secolo e si diffusero in
tutta l’area del mondo arabo-islamico.
Nel X – XIII secolo la medicina
araba veniva pratica anche su malati psichici e i
bimaristan erano costruiti in modo da offrire
un ambiente tranquillo allietato da
fontane, rivoli d’acqua che
aiutavano a rilassare i pazienti offrendo
un po’ di conforto.
Spesso i bimaristan erano
delle opere notevoli con magnifiche architetture.
Venivano costruiti da potenti
signori e offerti alla popolazione.
Funzionavano anche come luogo
d’istruzione per futuri medici.
Il mondo islamico ebbe il merito di
aver trasmesso al mondo occidentale
le antiche conoscenze della scienza
medica greca, persiana e indiana.
Bimaristan di
Aleppo
Nella
città di Palermo, con l’arrivo dei Normanni nel 1071, si sovrappose a questi
ospedali un fitto reticolo di chiese e
monasteri secondo quello che era il principio di cristianizzazione dei sovrani
normanni. Molti di questi monasteri davano assistenza ai malati.
Il
più antico ospedale di Palermo sarebbe quello di San Teodoro che fu menzionato
da Gregorio Magno in una sua lettera del 601 in cui si davano indicazioni circa
la ricostruzione di uno xenodochium
(ospedale), cioè di una casa d’accoglienza per forestieri, sui resti di quello
di San Teodoro. San Teodoro fu fondato da un diacono di nome Pietro che era
amministratore locale dei beni della Chiesa. Un origine del VI secolo in cui
San Teodoro era un ricovero per pellegrini e con lo xenodochium si sarebbe trasformato in ospedale. Distrutto dagli
arabi sarebbe rinato con i Normanni con una nuova configurazione: il monastero
delle Vergini, con una chiesa dedicata a S. Teodoro, affidata in un primo tempo
alle monache basiliane e poi alle benedettine e di cui oggi rimangono pochi
resti.
Palermo – resti
della chiesa di San Teodoro
Piazzetta delle
Vergini
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2.
I Centri Assistenziali nella Palermo Medievale
Lo
storico Henrzi Bresc nel suo studio sulla Palermo religiosa tra il XII ed il XV
secolo, calcolò che attorno al 1431 erano presenti nella città circa 34 centri
assistenziali.
L’anno
1431 era importante nello studio perché proprio in quell’anno si avviò la
fondazione di un grande e novo ospedale cittadino.
I
34 enti assistenziali erano così distribuiti:
-
10
nel Cassero;
-
9
nel Seracaldio;
-
5
alla Kalsa;
-
2
alla Conceria;
-
1
all’Albergheria;
-
7
fuori le mura.
Erano
anche presenti due fondazioni gerosolimitane:
-
S.
Giovanni alla Guilla (Rocco Pirri citò un ospedale dedicato a S. Giovanni
Battista risalente al periodo normanno e di cui non si conosceva l’anno esatto
di fondazione, affidato alle cure dei gerosolimitani ed ubicato presso la
Chiesa di S. Agata alla Guilla);
-
La
Magione
Si
tratterebbe di ospedali o ricoveri destinati ad ammalati e lebbrosi.
Gli edifici ospedalieri che sorsero
nel centro storico di Palermo tra il XII ed il XV secolo erano riconducibili a diverse tipologie:
-
Ospedali sorti per iniziativa di
ordini religiosi e confraternite;
-
Per volontà regia;
-
Per beneficenza privata e devozione;
-
Ospedali delle nazioni, dei gruppi
presenti a Palermo per ragioni militari, commerciali e politiche;
-
Ospedali degli organi cavallereschi;
-
Ospedali sorti per iniziativa
vescovile;
-
Ospedali di origine incerta.
Lo
storico Rocco Pirri, storiografo regio e abate netino vissuto tra il XVI e il
XVII secolo, elencò quindici ospedali sorti dentro e fuori le mura in un
periodo che andava dall’XI secolo alla metà del XIV secolo:
-
S.
Giovanni Battista:
-
Santa
Maria dei Teutonici;
Sede dell’”ordo hospitalis Sanctae Mariae theutonicorum Jerusalem” altrimenti
noto come Ospedale di Santa Maria dei Teutonici o Ospedale della
Santissima Trinità di Gerusalemme” cioè la struttura che fu fondata dal
Cancelliere Matteo d’Ajello da Salerno nel 1160. Un ospedale destinato, forse in
origine, ai pellegrini e gestito prima dai Cistercensi e successivamente dai
Cavalieri Teutonici.
-
Tutti
i Santi;
L’Ospedale sembra che sia stato fondato
dal cancelliere Matteo d’Ajello nel 1661. Si trovava lungo la strada che
scendeva verso il fiume Papireto, nei pressi di San Giovanni la Guilla.
-
S.
Maria La Nuova;
-
San
Dionigi;
Antonio
Mongitore, storico e canonico della Cattedrale di Palermo (1663-1743) divise
invece gli ospedali tra antichi e nuovi.
Gli
antichi erano quindici:
-
S.
Giovanni Battista,
-
SS.
Trinità, Ognissanti,
-
S.
Maria La Nuova,
-
S.
Dionigi,
-
S.
Maria de Recomendatis,
-
S.
Maria la Mazara,
-
S.
Teodoro de Occisis,
-
S.
Agata de Petra,
-
S.
Giovanni dei Lebbrosi,
-
S.
Giovanni a Castellammare,
-
S.
Oliva,
-
S.
Maria la Misericordia,
-
S.
Cita,
-
S.
Quaranta Martiri;
gli
ospedali nuovi erano nove:
-
della
Cattedrale,
-
di
S. Leonardo,
-
di
S. Bartolomeo,
-
di
S. Giovanni dei Tartari,
-
di
S. Antonio,
-
di
S. Spirito,
-
della
Pinta,
-
di
S. Pietro la Bagnara,
-
dell'Arcivescovato
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3.
Ruggero II
d’Altavilla fonda un Ospedale per Lebbrosi – San Giovanni dei Lebbrosi -
Ruggero
II d’Altavilla nel 1130, avviò un programma di riordino sociale e religioso che
coinvolse sia il centro che l’area extra moenia di Palermo (nei secoli XI –
XII).
Fuori
le mura e vicino al fiume Oreto fu fondato un ospedale, del quale non resta
traccia, con annessa chiesa, S. Giovanni dei Lebbrosi, dedicato all’accoglienza
dei lebbrosi. La società medievale provava nei confronti dei lebbrosi un
atteggiamento piuttosto confuso perché misto di solidarietà e repulsione.
La
prima cura che la società medievale rivolse nei confronti di persone colpite da
patologie particolari fu l’isolamento. Il Mongitore nei suoi scritti si riferì
in modo particolare ai lebbrosi e “mentecaptorum” che furono isolati per
cercare di ridurre al minimo il rischio di contagi. Nella società era presente
un orrore atavico legato alla deformità e mostruosità che la malattia
provocava. Una malattia che veniva
considerata espressione esteriore del peccato.
Il
lebbroso era considerato il frutto del concepimento, da parte dei genitori,
avvenuto durante uno dei periodi in cui la copulazione era vietata come ad
esempio la Quaresima.
Le
origini del lebbrosario palermitano sono incerte e sembra superata la tesi che
attribuirebbe la costruzione del complesso a Roberto il Guiscardo e a Ruggero I
d’Altavilla nel 1071.
I
due fratelli si sarebbero accampati per l’assedio della città in mano agli
arabi, sulla sponda destra del fiume Oreto e avrebbero costruito la Chiesa di
San Giovanni dei Lebbrosi.
Il
lebbrosario, invece, sarebbe stato costruito da Ruggero II (1130 – 1154) alla
prima metà del XII secolo vicino alla Chiesa costruita dal padre.
Una
tradizione, che non presenta precisi riscontri storici, vorrebbe il lebbrosario
costruito sempre da Ruggero II ma in memoria del fratello Goffredo che era
malato di “morbus elephantinus” e che morì, secondo il cronista normanno
Goffredo Malaterra, di lebbra.
Un’altra
tradizione lega la fondazione del lebbrosario, sempre da parte di Ruggero II,
all’insalubrità del luogo colpito dai miasmi del fiume Oreto.
Successivamente
il decadimento del lebbrosario diventò così grave che Federico II di Svevia nel
febbraio 1219 decise di concedere chiesa ed ospedale all’Ordine dei Cavalieri
Teutonici della Magione.
I
Teutonici mantennero il possesso della
Chiesa e dell’ospedale sino alla fine del XV secolo.
Altro
intervento importante da parte di Federico III d’Aragona che diede mandato ai
gabelloti delle tonnare Siciliane di fornire gli otto tonni l’anno dovuti
all’Ospedale di San Giovanni “Infectorum” di Palermo.
Il
sostentamento alimentare di San Giovanni fu quindi a carico della Magione dei
Teutonici.
Prima
di descrivere la Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi è opportuno soffermarsi
sulla Magione e sull’Ordine dei Cavalieri Teutonici.
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4 La Magione (Basilica della “SS Trinità del
Cancelliere”) – Il fondatore: Matteo d’Aiello da Salerno - Filiazione dell’Abbazia dello “Spirito
Santo del Vespro” – I Cistercensi a Palermo
La
Basilica della “SS Trinità del Cancelliere” è conosciuta come “Basilica La
Magione”. Si tratta di una delle più antiche chiese di Palermo, posta nel
quartiere della Kalsa, di fonte all’omonima piazza.
Una
storiografia, ormai consolidata, cita la fondazione della chiesa ad opera di
Matteo d’Ajello (“Matheus comes de
Agello Cancellarius”) detto anche “da Salerno”.
Il
d’Ajello fu un protagonista importante nella vita politica degli Altavilla sin
dal 1150.
La
sua presenza nella corte normanna era
ben radicata già nel 1156 quando fu scelto dal cancelliere del Regno, Maione da
Bari, per la stesura del concordato di pace di Benevento con papa Adriano IV.
A
parte due brevi interruzioni, legati a due momenti particolarmente drammatici
della corte palermitana (l’attentato mortale contro Maione di Bari nel 1160 e la
rivolta contro l’arcivescovo e
cancelliere del Regno di Sicilia, Stefano di Perche, nel 1168), il d’Aiello fu
per quasi mezzo secolo nel gruppo dei più stretti consiglieri degli ultimi tre
sovrani di casa Altavilla: Guglielmo I (Il Malo), Guglielmo II (Il Buono) e
Tancredi (1189 – 1194).
La
denominazione di abbazia del “Cancelliere” ha fatto spostare, di circa mezzo
secolo, la data di fondazione della Magione allontanandola dall’anno 1150.
L’anno
1150 fu infatti proposto come anno della fondazione dallo storico Tommaso Fazello nel suo “De Rebus siculis
decaded dues” del 1558.
In
un documento del 1194 Riccardo, figlio di Matteo d’Ajello, ricorda “Monastero
Sancte Trinitatis Panormi, quod Dominuns Cancellarius pie recordationis pater
nostre infra moenia eiusdem Civitatis iuxta portam Thermarum de ordine
Cisterciense construxit”.
Nel
documento di Riccardo c’è un preciso riferimento topografico e storico..”portam
Thermarum” (Porta Termini) la cui presenza è attestata dal 1171 e non
lascia dubbi sulla identificazione del complesso cistercense.
La
porta, purtroppo distrutta nel 1852, era posta
allo sbocco di un’importante via che collegava la zona dei mercati
urbani con la strada costiera per Termini Imerese e con il fertile territorio a
sud di Palermo. (Si trovava circa a metà dell’attuale via Lincon).
Un
tratto delle mura di porta Termini delimitavano il “viridarium magnum”
del monastero annesso alla Chiesa della SS Trinità.
A
completamento dei lavori la chiesa ed il monastero occupavano un ampio settore
urbano, entro le mura della città (“infra moenia in civitate panormi”)
con un edilizia che ai tempi era molto rada. Infatti la Magione era circondata
da un grande giardino, il viridiarium magnum, un ampia estensione di terreno così vasta che,
nei periodi di carestia, veniva piantata a grano per sfamare la popolazione. Un
attività che si collega in maniera chiara all’Ordine Cistercense i cui monaci
avevano sempre un occhio di riguardo verso le attività agricole.
Ritornando
alla Magione e alla sua estensione territoriale, in un atto del 1289 è
riportata la concessione a Perri de Nicosia
del vasto giardino “de solo viridari magni…. Siti in quartiero Halcie
a duabus partibus cuius sunt menia de civitate et ab altera parte est dictum
quarterium et si qui alii sunt confines”.
Nel
1171 l’Abbazia della SS. Trinità,
monastero e Chiesa, quest’ultima forse non ancora ultimata, erano
presenti nel territorio.
Resta
di chiarire se l’Ordine Cistercense era già nel 1171 presente a Palermo.
Un aspetto che potrebbe fare nascere altre considerazioni.
Nel
1173 la regina Margherita di Navarra e di Sicilia, moglie di Ruggero II morto
il 26 febbraio 1154, finanziò il vescovo di Palermo Gualtiero Offamilio nella
costruzione di un tempio, Santo Spirito, che doveva essere affidato ai monaci
cistercensi.
La
posa della prima pietra fu nel 1173 e nel tabulario dell’Ordine Cistercense si
riporta che la fondazione della chiesa avvenne il 23 giugno 1172.
Nel
1178 la fondazione del monastero con il riconoscimento da parte del sovrano
Guglielmo II (“Il Buono”) della concessione all’Ordine Cistercense dell’Abbazia
di Sambucina (Filiazione dell’Abbazia Madre di Clairvaux o, secondo altre
fonti, filiazione dell’Abbazia di Casamari, anch’essa filiazione dell’Abbazia
Madre di Clairvaux).
Sia
Guglielmo II che la regina madre Margherita di Navarra fecero delle cospicue
donazioni all’Abbazia di Santo Spirito con i feudi di Altopiano, Baucina,
Raisivito, Catuso e Randino.
La
consacrazione della chiesa avvenne nel 1179 come riporta un’iscrizione presente
nel presbiterio.
La
Chiesa prese il nome di “Santo Spirito del Vespro” perché il 30 marzo 1282,
martedì di Pasqua, proprio davanti alla
chiesa iniziò la sommossa popolare dei Palermitani (il “Vespro Siciliano “
contro gli Angioini
Nel
1232 il Capitolo Generale Cistercense decise
che “Madre di Spirito Santo divenisse Casamari, visto che l’abate di
Sambucina non compiva le visite regolari prescritte dalla Regola dell’Ordine”. (
Il Monastero fu distrutto nel 1782 su ordine del vicerè Domenico Caracciolo
per creare….. un cimitero che fu
chiamato Sant’Orsola dal nome dei frati che fino allora avevano occupato
l’edificio…).
Palermo – Abbazia
di “Santo Spirito del Vespro”
Secondo il tabulario dell’Ordine Cistercense il Monastero “SS Trinità della Magione” fu
fondato nel 1150 ad opera di Matteo d’Ajello e terminato dal figlio
Nicola d’Ajello, arcivescovo di Salerno dal 1181 al 1220.
Dato che le fonti citano l’esistenza del Monastero già
nel 1171 è probabile che il complesso era concesso ai Benedettini o a qualche
altro ordine. Infatti, sempre nel tabulario dell’Ordine Cistercense, il
Monastero della Magione era considerato come una filiazione del Monastero Cistercense
dello “Spirito Santo” e quindi di Sambucina solo dal novembre del 1192 quando
fu nominato il suo abate. ( Il Documento di Riccardo D’Aiello, sopracitato, è
infatti del 1194).
Palermo – La Magione
Fu l’ultima delle chiese edificate dalla dinastia
normanna degli Altavilla .
Re Tancredi vi fece seppellire il figlio primogenito
Ruggero e lo stesso re ordinò di essere sepolto nella Basilica.
La storia della Basilica della Magione si collega alla
storia della Sicilia perché l’ordine Cistercense ne tenne il possesso solo per
cinque anni cioè fino al 1197 quando furono cacciati da Enrico VI.
Una pagina di storia lunga ma interessante per gli
attori che si alternano nelle vicende ricche di intrighi, sequestri e atrocità.
5 La Magione e i suoi tempi storici… 5 anni di conflitti e stragi
Guglielmo II “Il Buono” d’Altavilla, sovrano di
Sicilia, morì il 16 novembre 1189 all’età di 36 anni, dopo 24 anni di regno. Si
apriva nel regno di Sicilia una aspra contesa per la successione al trono.
Il sovrano aveva indicato come erede al trono la zia
Costanza d’Altavilla (sorella del padre Guglielmo I e figlia di Ruggero II
d’Altavilla e di Beatrice Rethel).
Lo stesso sovrano aveva obbligato i cavalieri a
giurarle fedeltà malgrado il matrimonio con Enrico VI di Germania (Hohenstaufen),
figlio di Federico Barbarossa. (Alcuni baroni di Puglia non giurarono fedeltà a
causa della loro avversione alla signoria normanna).
Costanza era figlia legittima di Ruggero II
d’Altavilla e di Beatrice di Rethel ed era quindi zia di Tancredi. Il padre,
Ruggero III di Puglia era fratello di Costanza.
Il matrimonio di Costanza con Enrico VI era stato voluto e concluso dal vescovo di
Palermo Gualtieri Offamail e nessuno a corte considerava di buon auspicio
quell’unione avendo la visione di una Sicilia sotto lo scettro tedesco.
Matrimonio tra Costanza d’Altavilla ed Enrico VI
“Quando nel 1154 nacque Costanza, il re Ruggero II
fece venire a Palermo dalla
Calabria
l’abate Gioacchino da Fiore, con il carisma della preveggenza, per sapere da
lui
cosa ne
sarebbe stato dei suoi figli.
L’abate
scrutando nel futuro, disse che se Costanza si fosse sposata, un fuoco
avrebbe incendiato
e distrutto il Regno.
Il re
sconvolto dalle parole dell’abate, non sapeva cosa fare.
Qualcuno
dei suoi consiglieri gli suggerì d’avvelenare la piccola Costanza, ma
Tancredi,
suo figlio, gli disse che era un’empietà fare morire così un’innocente e
gli
consigliò di costringerla a monacarsi.
Una favola
raccontata da Tommaso Fazello nella sua “Storia di Sicilia” del 1558.
In realtà
quando Costanza nacque da Beatrice di Reithel, il sovrano
Ruggero II
era già morto da qualche mese. Di
Costanza non si sa molto
se non il
suo matrimonio con Enrico VI e la nascita del grande Federico II di Svevia.
Per il
resto Dante la colloca nel Paradiso come “anima costretta a lasciare il voto
monacale
per un matrimonio politico” (un matrimonio voluto dal vescovo di
Palermo) e
la descrive con dei versi stupendi:
Quest' è la luce de la gran Costanza
che dal secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza.
(Dante Alighieri- Paradiso - canto terzo - vv 118-120)
In realtà non si hanno riferimenti o documenti sulla sua entrata in un
convento.
Quando si sposò aveva circa
trent’anni e certamente, se fosse stata una
donna libera, non avrebbe raggiunto quell’età da nubile. La sua
appartenenza al
nobile casato degli Altavilla, la sua posizione politica come erede al
trono, le avrebbero
fatto contrarre qualche matrimonio
ben prima. Lo stesso intervento del vescovo
sembra svelare ogni dubbio. La sua uscita dal convento era legata ad
una discendenza senza eredi.
Tancredi pur essendo figlio illegittimo di Ruggero III
di Puglia e di Emma dei conti di Lecce (figlia di Accardo II) era pur sempre
l’ultimo esponente della casa Normanna ed era apprezzato per le sue capacità
militari, la sua intelligenza ed anche per l’amore delle arti. Fu eletto re di
Sicilia dal Parlamento Siciliano nel novembre del 1189 e papa Clemente III
riconobbe ed approvò, suo malgrado, l’elezione.
Sempre nel 1189 Tancredi aveva sposato Sibilla di
Medania (o di Acerra).
Il Re Tancredi
Miniatura dal Liber ad honorem Augusti
Sibilla di Medania
I
monaci cistercensi naturalmente erano
favorevoli a Tancredi esponente di
quella casata Normanna che aveva favorito l’espansione dell’ordine nel Regno di
Sicilia (Calabria… Puglia.. Sicilia) secondo i rapporti benevoli che alla fine
s’erano instaurati tra Ruggero II e Bernard di Clairvaux.
Ma
la situazione politica nel Regno non era ormai da tempo delle più tranquille.
Nel
1190, nel loro viaggio verso la Terra Santa, si fermarono nel porto di Messina
due flotte imperiali al comando rispettivamente di: Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra; e di Filippo
II Augusto, re di Francia.
Una
sosta legata a condizioni meteo particolarmente sfavorevoli alla navigazione ma
in realtà altri motivi si celavano in
quella sosta che a prima vista potrebbe sembrare normale data la posizione
strategica del porto di Messina.
I
due sovrani, stranamente alleati malgrado un rapporto ambiguo, incontrarono
l’abate Gioacchino da Fiore,
assiduo frequentatore dell’Abbazia Cistercense di Sambucina, a cui
chiesero una profezia sulla nuova crociata da loro intrapresa.
In
realtà fu Riccardo Cuor di Leone a volere l’abate a corte per chiedergli la profezia.
Gioacchino
da Fiore, da grande teologo, fu sprezzante e senza mezzi termini perché
descrisse le reali motivazioni della guerra e biasimò i due sovrani
alleati. Li inchiodò nei loro limiti e
l’invitò a non portare la guerra in Terra Santa anche se benedetta dal Papa.
Riccardo
Cuor di Leone non accettò le parole dell’abate e lo minacciò di morte. Nell’incontro si stava per configurare un’accusa
ben precisa d’eresia e di una possibile morte sul rogo da parte dell’abate.
La
vendetta del sovrano inglese fu invece molto sottile ed anche astuta. Una volta
che l’abate lasciò la corte, Riccardo manipolò la realtà dei fatti e dispose
che venisse redatto un verbale sull’incontro avuto con l’abate naturalmente con
frasi e spiegazioni rispondenti alle sue esigenze. Un semplice modo per uscire
vincitore dall’incontro, giustificare l’impresa che si accingeva a compiere e
soprattutto senza commettere delitti o azioni che avrebbero potuto offuscare la
sua immagine.
Riccardo Cuor di Leone
Riccardo
Cuor di Leone
Gioacchino
da Fiore ( a destra) e San Francesco di Paola
Durante
la sosta a Messina i tre sovrani (Riccardo
Cuor di Leone, Filippo II Augusto e Tancredi) ebbero dei rapporti molto tesi
che sfociarono in veri e propri scontri armati.
Giovanna
d’Inghilterra, moglie del defunto sovrano di Sicilia Guglielmo II (Il Buono),
era la sorella di Riccardo di Cuor di Leone, ed era stata rinchiusa da Tancredi
nel castello della Zisa di Palermo senza che le fosse stata restituita la dote.
Riccardo
pretese non solo la liberazione della sorella, ormai da più d’un anno rinchiusa
in prigione, ma anche la restituzione della legittima dote.
Palermo
– Castello della Zisa
Il
sovrano Siciliano liberò Giovanna ma
restituì solo una parte della dote provocando l’ira di Riccardo che occupò
Messina facendo anche costruire una torre di legno che fu detta “Mata Grifon”
(“Ammazza Greci”)…
“Mata Grifon”
perché si contrapponeva al Monastero Basiliano
del SS Salvatore
in Lingua Phari .
La
città subì un grave saccheggio da parte degli inglesi e lo stesso ammiraglio
della flotta Siciliana, Margaritone, non riuscì ad arrivare il tempo per
evitare o comunque contenere l’azione devastatrice degli occupanti. Molte case
vennero anche incendiate tra cui quella..”magnifica..” dello stesso
ammiraglio.
Era
la primavera del 1191 e Tancredi, malgrado il suo arrivo nella città con le
truppe, preferì l’accordo consegnando a Giovanna altre 20.000 once d’oro ed
indennizzando Riccardo con altre 20.000
once d’oro…… Un indennizzo in cambio dell’alleanza contro Enrico VI, marito di
sua zia Costanza e legittima erede, come abbiamo visto, di Guglielmo II Il
Buono.
Nell’accordo
era anche previsto il matrimonio tra una delle figlie di Tancredi e il nipote di Riccardo Cuor di Leone, Arturo I
di Bretagna, in quell’occasione nominato
suo erede.
Riccardo ebbe anche il tempo di ripudiare la fidanzata
ufficiale Adele (di Francia) che ritornò
dal fratellastro Filippo II Augusto con il quale avrebbe proseguito la
Crociata. Filippo anche se adirato, partì il 30 marzo 1191 verso la Terra
Santa.
Il
sovrano Inglese era così libero di poter sposare il suo grande amore, Berengaria di Navarra,
che giunse a Messina assieme alla madre del sovrano, Eleonora d’ Aquitania.
Matrimonio
che si svolgerà a Limassol (Cipro) perché Riccardo partì da Messina verso la
metà d’aprile del 1191 portando con sé in Terra Santa sia la sorella Giovanna
che Berengaria.
I
problemi per Tancredi ed il regno di Sicilia non erano svaniti. Il 10 giugno
1190 moriva nel castello di Selifke (Turchia)
l’imperatore Federico I Hohenstaufen (Federico Barbarossa) e nel 1191 Enrico VI successe al trono del
padre.
Selifke (Turchia)
Enrico
VI decise subito di riconquistare il Regno di Sicilia (rivendicazioni sul regno
legittime dato che aveva sposato Costanza, l’erede al trono) e trovò un
appoggio nella flotta delle Repubbliche di Pisa e di Genova oltre all’appoggio
economico di molte città lombarde.
S’avviò quindi verso Roma dove papa Clemente III doveva incoronarlo.
Mentre
era in viaggio, verso la fine di marzo del 1191, il pontefice morì e sul soglio
pontificio fu nominato l’ottantacinquenne Celestino III. Il papa indugiò a prendere
l’ordinazione per impedire il conferimento ad Enrico VI della corona imperiale.
Ma successe un imprevisto. Gli abitanti della città di Tusculo chiesero aiuto
ad Enrico VI ed avevano già ricevuto una guarnigione di soldati tedeschi nella
loro città. Un avvenimento che aveva destato scalpore tra i romani. I romani
fecero sapere ad Enrico VI che si sarebbero opposti alla sua incoronazione se
non avesse ritirato la guarnigione. Pronta la risposta del sovrano con la promessa
di consegnare Tuscolo nelle mani del papa, dal quale i Romani l’avrebbero
ricevuta, ma solo dopo la sua incoronazione. Celestino fu quindi costretto a
prendere l’ordinazione il 14 aprile e il 15 dello stesso mese a San Pietro
incoronò Enrico VI e la moglie Costanza d’Altavilla.
Il
17 aprile, come promesso, Enrico VI consegnò la città di Tuscolo al papa e
questi ai romani che diedero sfogo ad una atroce vendetta…”fecero scempio degli
abitanti, i cui pochi superstiti trovarono asilo a Frascati e nei luoghi
vicini”.
Nel
maggio 1191 Enrico VI entrava nel Regno Normanno mentre le flotte delle
Repubbliche marinare di Genova e Pisa partirono per fronteggiare l’armata
siciliana comandata da Margaritone.
L’inizio fu una serie di successi per
l’esercito tedesco:
-
Rocca
d’Arce, difesa da Matteo Borrello fu espugnata e data alle fiamme;
-
Sorella,
Atino e Colle S. Germano, Teano, Capua, Aversa si arresero senza nessuna
resistenza;
-
L’abate
Roffredo di Montecassino e i conti di Molise, Fondi e di Caserta si sottomisero
all’imperatore tedesco e si unirono a lui.
-
Napoli
fu difesa validamente dal Conte Riccardo d’Acerra (cognato del Re Tancredi).
Durante l’assedio la città di Salerno aprì le porte ad Enrico VI e nella città
lasciò la moglie Costanza per la sua
malferma salute affinchè fosse curata dai famosi medici della città. Lo stesso
re riprese quindi l’assedio a Napoli. La città si difese ad oltranza ed anche
la flotta pisana fu costretta a rifugiarsi a Castellammare. Enrico VI, con la
sua ostinazione, perse nell’assedio i migliori combattenti, tra cui alcuni
personaggi importanti come l’arcivescovo di Colonia e il duca Ottone di Boemia.
Lo stesso imperatore fu colpito da una malattia e quindi costretto a levare
l’assedio e a rifugiarsi a San Germano. Anche la flotta genovese, giunta in ritardo,
fu costretta dagli attacchi della flotta siciliana a rifugiarsi a
Civitavecchia.
Enrico
VI lasciò un presidio a Capua e in qualche altra città per partire da San
Germano e ritornare in patria, in Germania, dove era scoppiata una rivolta
della casa Guelfa.
Nel
suo ritorno in Germani portò con sé l’abate di Montecassino.
I
Normanni riconquistarono subito i territori, tranne Montecassino che rimase
fedele ad Enrico Vi ed il papa per la questione lanciò l’interdetto contro il
monastero.
I
Salernitani, per farsi perdonare dall’aver aperto le porte all’imperatore
tedesco, fecero prigioniera l’imperatrice Costanza che, dopo alcuni giorni
trascorsi nel carcere del castello, fu condotta a Palermo.
Salerno – Castello
Arechi
Gli
eventi sembravano favorevoli a Tancredi che pretese da Enrico VI un accordo di
tregua.
Costanza
venne nel frattempo trasferita a Palermo e tenuta sotto il controllo della
regina Sibilla, moglie di Tancredi.
Le
cronache citano i rapporti tra le due regine..” Costanza che pranzava con
Sibilla e dormiva nella sua camera da letto”.
La
stessa Sibillia si oppose con decisione “a che Tancredi onorasse Costanza
credendo che ciò avrebbe riconosciuto la rivendicazione di quest’ultima.
Trovando che la popolazione locale nutriva simpatia con Costanza con cui essa
una volta aveva litigato, suggerì a Tancredi che la mettesse a morte, ma
Tancredi, preoccupandosi che ciò avrebbe danneggiato la sua popolarità e
ritenendo che Costanza, viva, in mano sua, costituisse un’opportunità per costringere
Enrico ad un armistizio, non era d’accordo”.
Sibilla,
su suggerimento di Tancredi, si rivolse
al cancelliere Matteo d’Ajello sul luogo dove imprigionare Costanza. Il
cancelliere scrisse una lettera per convincere Tancredi ad imprigionare Costanza nel Castel dell’Ovo a Napoli ..”un
luogo sicuro circondato dall’acqua”.
Napoli – Castel
dell’Ovo
Nell’estate
del 1192 Tancredi, anche a seguito della pressione di papa Celestino III, fu
costretto a mandare Costanza a Roma. Una mossa azzardata che aveva alla base il
riconoscimento al titolo di Re di Sicilia da parte dello stesso papa. Durante
il viaggio la scorta fu attaccata dai soldati tedeschi e la regina Costanza fu
liberata.
Secondo
altri storici Costanza, che fu in ogni caso trattata con grande riguardo da Tancredi,
per pressione del papa fu lasciata libera e ritornò dal marito con ricchissimi
doni.
Un
atto di grande cortesia, ammesso che quest’ultima versione sia veritiera, che
non ebbe l’adeguata gratitudine perché la guerra riprese con grande vigore.
Nell’Italia
meridionale arrivarono le milizie comandate dall’abate Roffredo di Montecassino
e dal Conte Bertoldo. Bertoldo, per il
numero esiguo delle sue milizie, non attaccò l’esercito di Tancredi ed arretrò
nel Molise. Durante l’assalto ad un castello una sassata lo colpì in testa.
Svanì ancora una volta l’attacco tedesco e papa Celestino III per riconoscenza
nei confronti di Tancredi lo investì del titolo di re della Puglia e di
Sicilia. Il sovrano Normanno tornò quindi a Palermo.
La
vita purtroppo è contraddistinta da alti e bassi, da momenti fortunati e meno,
e si preparava a manifestarsi davanti a Tancredi con tutta la sua crudeltà.
Sul
finire del 1193 (24 dicembre – Palermo) Tancredi perdeva il suo figlio maggiore
Ruggero III, che era stato dal padre associato al Regno ed aveva preso in sposa
la bella e giovane Irene Angela (Irene Angelo) , figlia dell’Imperatore Isacco
II Angelo di Costantinopoli. Tancredi nominò alla successione il secondogenito
Guglielmo III, ancora fanciullo, e non riuscì a sopportare a lungo il suo
dolore al punto di ammalarsi. Morì di dolore pochi mesi dopo nella sua Palermo
il 20 febbraio 1194 lasciando la tutela del figlio alla moglie , la regina
Sibilla di Acerra.
Enrico
VI si ripresentò in Italia nel giugno del 1194 con un poderoso esercito, aveva
bisogno di una flotta e stipulò con la Repubblica Marinara di Genova un accordo
per l’invio in Sicilia di una poderosa flotta.
Si
recò a Pisa ed anche qui stipulò con la repubblica Marinara un accordo per la
concessione di dodici galee che si dovevano unire alla flotta genovese
comandata dal podestà Uberto D’Olevano.
Nella
sua discesa l’imperatore non trovò particolari resistenze ed anche la città di
Napoli di arrese senza combattere.
Salerno
si difese strenuamente per paura di rappresaglie per la consegna di Costanza a
Tancredi. Alla fine si arrese e venne saccheggiata dalle truppe tedesche che
massacrarono gli abitanti. Tutti i domini Normanni erano ormai in potere dei
tedeschi ed Enrico nella sua marcia verso sud giunse a Messina nello stesso
momento in cui giunsero le flotte pisane e genovesi.
La
città dello Stretto non oppose resistenza ed Enrico VI in premio concesse alla
cittadinanza molti privilegi e la giurisdizione del territorio tra Patti e
Lentini.
L’imperatore
attaccò quindi Catania che era difesa da un eroico presidio musulmano.
L’esercito tedesco, comandato da Marcovaldo, trovò una certa resistenza ma alla
fine la città fu costretta ad arrendersi subendo lo stesso destino della città di
Salerno… saccheggiata, i notabili del luogo catturati e legati come buoi…
Marcovaldo
lascò a Catania una guarnigione per fare ritorno a Messina .. portandosi l’arcivescovo (Leone
IV ?) e molti cittadini autorevoli di Catania..
La
stessa sorte subì Siracusa attaccata dalla flotta genovese. La Sicilia
orientale era ormai in potere di Enrico VI
e restava da conquistare la capitale Palermo.
La
regina Sibilla aveva lasciato Palermo per rifugiarsi nel munito castello di
Caltabellotta con il piccolo re Guglielmo III, le tre figlie, la nuova Irene
(vedova di Ruggero III), l’arcivescovo di Salerno (Niccolò D’Aiello),
l’ammiraglio Margaritone e tutti i baroni che erano rimasti fedeli alla casa
Normanna.
Niccolò
d’Aiello aveva completato la costruzione della Magione che era stata iniziata
dal padre Matteo d’Aiello.
Enrico
VI giunse a Palermo nel mese di novembre del 1194 e la città aprì le porte
senza combattere.
“Un
gesto che i Palermitani si dovettero amaramente pentire, ma del resto non
avrebbero mai potuto resistere alla numerosa soldataglia che l’avrebbe
conquistata comunque e, guardando alla
fine di Salerno, Catania e Siracusa, anche Palermo non sarebbe stata
risparmiata dalla distruzione dei nuovi barbari”.
I
siciliani non avevano molta simpatia per Tancredi e speravano in un
provvidenziale ritorno di Costanza, figlia del grande Ruggero II ed ora moglie
di Enrico VI. Ma quando il tedesco
cominciò a colpire gli avversari con le repressioni, si accorsero ben presto
che Costanza non era più la figlia dell’amato Ruggero II, bensì un’imperatrice
plagiata dal sovrano germanico. Conquistata Palermo… tutto il reame Normanno
era in potere di Enrico VI.
Il
successo non era ancora completo….. mancava il piccolo re Guglielmo III ma non
era un impresa facile espugnare il castello di Caltabellotta, un presidio ben
fornito di viveri e con una cinta di poderose fortificazioni.
Per
paura che proprio da Caltabellotta potessero partire delle possibili ribellioni
contro il suo potere decise di ricorrere all’inganno.
Fece
sapere alla regina Sibilla che se avesse deposto le armi e la corona, le avrebbe restituito al figlio Guglielmo la
paterna contea di Lecce e gli avrebbe concesso anche il principato di Taranto.
Castello di Caltabellotta
Caltabellotta
La
regina prestò fede alle parole di Enrico VI e si recò con il figlio a Palermo
dove fece atto di sottomissione e depose la corona.
Enrico
radunò il parlamento, ricevette la corona dall’arcivescovo Bartolomeo Offamil,
fratello del precedente vescovo Gualtiero. La notte di Natale del 1194, Enrico
VI, figlio di Federico Barbarossa, fu incoronato re di Sicilia.
Durante
la cerimonia in un angolo, c’erano Sibilla con il piccolo Guglielmo a cui il
sovrano offrì le contee di Lecce e Taranto. Ma dopo tre giorni, con la scusa di
un complotto inesistente, fece arrestare
il piccolo sovrano insieme alla madre e ad altri nobili.
Un
atto ignobile, indegno, vista la giovane età
del sovrano e la mancanza di un difensore da parte di Sibilla, che
provocò un senso di ribellione in alcuni nobili.
Il
tutto era un piano ben studiato da
Enrico Vi perché riuscì a catturare i nobili più audaci e li imprigionò per ben
due anni.
Nel
1197 – 97 scoppiò un insurrezione generale ed il sovrano ordinò delle
sanguinose repressioni con esecuzioni in massa, accecò molti nobili che vi
avevano preso parte e dopo aver fatto uscire i nobili dalle prigioni, dove
erano stati rinchiusi per ben due anni, li fece accecare… “strappando gli
occhi anche a loro”.
“Le
carceri di Palermo si riempirono di prigionieri appartenenti alle più cospicue
famiglie del regno; processi sommari furono istruiti a carico di baroni,
vescovi e dignitari della corte normanna, e i carnefici ebbero un gran da fare,
impiccando, scorticando, bruciando, accecando, mutilando orribilmente i
condannati”.
Il
piccolo Guglielmo, questa è una delle tante versioni, fu accecato e castrato; i
figli del protonotaro Matteo D’Aiello (Riccardo e Niccolò, che era arcivescovo
di Salerno) furono anch’essi privati della vista. Dei baroni e dei prelati che
avevano portato Tancredi al trono, solo l’ammiraglio Margaritone si salvò
grazie alla sua perizia militare che poteva tornare utile al sovrano. Il
Margaritone ottenne infatti il
principato di Taranto con il titolo di duca di Durazzo.
Alla
donne fu riservata una sorte “migliore”. Irene Angela affascinò il duca di
Svevia che la prese in moglie.
La
regina Sibilla con le figlie (Albiria o
Maria Albina; Costanza; Medania o Cecilia (?) e Valdrade) furono incarcerate in
un monastero in Alsazia. (Dopo la morte di Enrico VI a Messina nel 1197 furono
liberate e si sposarono: Albiria, contessa di Lecce, con Gualteri III di Brienne, con Jacopo di Tricarico e con
il conte Tegrimo Guidi; Costanza con
Pietro Ziani, doge di Venezia e Valdrade con Jacopo Tiepolo, doge di Venezia).
Il
tedesco sfogò la sua rabbia anche con i morti… ordinò che i cadaveri di Tancredi e del Figlio Ruggero III
fossero dissepolti “per togliere loro solo le corone”.
“Del
giovane re Guglielmo III, ultimo normanno della casata, non si seppe più
nulla…”
Alcune
fonti citano che sia stato mandato in Germania dove morì mentre altre fonti
citano una sua mutilazione (accecato) da parte di Enrico VI e altre ancora,
forse la meno plausibile, rinchiuso in un convento.
Anche
i suoi alleati, i Genovesi ed i Pisani,
furono oggetto dei suoi soprusi. Le due
repubbliche Marinare richiesero il mantenimento degli accordi che prevedevano
anche la dotazioni di feudi ed ingenti somme di denaro. La risposta di Enrico
VI alle richieste del podestà e dell’arcivescovo di Genova ”di adempiere ai
patti stipulati prima della spedizione, oltre il rifiuto si ebbero lo schermo
perché Enrico VI rispose che se volevano un reale dovevano conquistarselo… ed
indicò loro quello d’Aragona 8come se fosse suo) che lo avrebbe concesso come
feudo a Genova !!!!!”
Stessa
risposta anche ai rappresentanti della Repubblica di Pisa che non reclamarono
forse per paura di essere incolpati di congiura ed essere quindi arrestati.
Nel
frattempo Costanza passando da Jesi “nella
marca d’Ancona dava alla luce un figlio cui era posto il nome di Federico”.
Nella
direzione del regno Enrico VI mise al suo fianco fidati consiglieri tra cui
Corrado di Urslingem, duca di Spoleto.
Spogliò
la Reggia di Palermo trafugando i suoi tesori che inviò in Germania..”ed erano tanti che per il trasporto furono impiegati
centocinquanta muli.. nel maggio del 1195 ripassò lo Stretto…portandosi
dietro la maledizioni dei Siciliani, che, inorriditi dalle sue crudeltà, gli
attribuirono il nome di Ciclope…. Era Signore della Monarchia degli Altavilla…
padrone della casa longobarda…. Era arbitro di tutta la penisola … il potere
temporale del pontefice era ridotto a nulla.. grandi feudo imperiali a
sud….ecc..”
I
disegni del giovane imperatore erano
giganteschi. Ritornato in Germania, portandosi una folta schiera di nobili
prigionieri normanni e su una lunga colonna di muli gli immensi tesori
sottratti alla povera Sicilia, osò tentare qualcosa che nessuno dei suoi predecessori
avevano mai tentato di fare…”rendere con pubblico atto ereditario nella propria casa Sveva lo sovrana dignità”.
Questo atto avrebbe unito all’Impero il Regno Siciliano, esteso anche alla
linea femminile il diritto ereditario dei feudi imperiali, e rinunciato ad ogni
diritto del fisco sui beni della chiesa.
L’opposizione
tedesca alla casa Sveva si faceva sempre più sentire ed Enrico VI fu costretto
a rinviare l’attuazione del progetto e nella dieta di Worms del 30 novembre
1195 si raggiunse solo l’accordo che per via di elezione fosse assicurata la
corona a suo figlio Federico, allora aveva solo un anno, il quale fu proclamato
re dei Romani ed ebbe dai grandi vassalli il giuramento di fedeltà.
L’impero era minacciato dalla folle politica ottusa e
disgregatrice dell’imperatore e le città cominciarono a sollevarsi.
In
Sicilia dove la crudeltà dell’imperatore e il suo tradimento all’amata casa
normanna, la ferocia e la licenza d’agire delle soldatesche germaniche, avevano
creato un odio molto radicato nei
confronti dell’imperatore. Fu ordita una
congiura per rovesciare il trono. Enrico VI aveva preparato un esercito per una
spedizione in Terra Santa ma fu costretto, a causa della situazione in
Sicilia, a dirigere una parte delle
truppe verso il Meridionale.
Napoli
e Capua furono assediate e il Conte di Acerra, caduto nelle mani dei tedeschi
mentre travestito cercava la fuga, fu trascinato per le vie prima attaccato
alla coda di un cavallo e poi impiccato e molti nobili pugliesi furono messi a
morte.
Catania si difese grazie ai suoi cittadini ma fu espugnata dal
gran maniscalco Marcovaldo.
Molti cittadini furono
passati alle armi ed anche quelli che si erano rifugiati nel tempio di Sant’Agata
non ebbero scampo. La chiesa fu incendiata e i cristiani che vi si trovavano,
perirono tra le fiamme… le vittime… tantissime ed anche le cifre tacciano.
A
Palermo furono ripetute le atrocità di qualche anno prima e Margaritone e un
certo Conte Riccardo furono accecati. I palermitani avevano nominato come re
dei ribelli un certo Giordano che fu catturato dalle truppe imperiali. Gli fu
calcato sul capo una corona di ferro rivestita di chiodi… molti personaggi
autorevoli furono bruciati vivi o impiccati.
La
ferocia dell’imperatore non riuscì ad intimorire i Siciliani che pieni
d’orgoglio reagirono ancora con maggiore forza alle crudeltà tedesche. Il
castellano di Castrogiovanni issò il vessillo delle rivolta sfidando la collera
di Enrico VI che con parte del suo esercito corse ad assediarlo. I suoi sforzi
di conquista furono vani e forse fatali per Enrico VI.
Il
re, forse stanco per gli sforzi bellici, fu colpito da una malattia e si ritirò
a Messina dove si erano concentrati numerosi crociati.
Qui
cessò di vivere nella notte fra il 28 ed
il 29 settembre del 1197 all’età di 32 anni.
Una
morte misteriosa dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua fredda.. forse una
congestione o .. avvelenato per ordine della moglie Costanza forse intimorita
dalla azione del marito e in preda ad un
ravvedimento legato alla sua nobile appartenenza al casato degli Altavilla così
lontani nei loro comportamenti militari da quelle tristi immagini di violenza
tedesca … Una donna con un bambino di appena 3 anni a cui doveva dare l’esempio
di vita e quello del padre Enrico… ancora giovane… e quindi in grado di
accompagnare la crescita del fanciullo non era il più adatto….
Tancredi seguito
dai figli Ruggero e Guglielmo III
Dal
“Liber ad Honorem Augusti”
Sibilla e i presunti cospiratori
contro Enrico VI
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6. I Cavalieri Teutonici
Un altro tassello di questa pagina di storia e di architettura
è legato alla presenza dei Cavalieri Teutonici la cui origine non è molto
chiara.
L’Ordine di Santa Maria dei Tedeschi (“Ordo Sanctae
Mariae Teutonicorum” oppure “Ordo Teutonicus”) (“Feutsche Ritterorden” o
“Deutsche Orden”) ha delle origini
incerte. I cristiani europei sin dagli
inizi del Medioevo avevano l’abitudine di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Un viaggio o per via mare, dai porti del Sud Italia o via terra attraversando tutta l’Europa sino a
Costantinopoli e proseguendo attraverso l’Asia Minore e la Siria.
Le vie erano pericolose ed i pellegrini spesso
arrivano in condizioni fisiche e sanitarie molto precarie a causa del clima,
delle condizioni igieniche, delle epidemie e anche degli assalti dei predoni. I
pellegrini tedeschi preferivano intraprendere per la Terra Santa la via
terrestre. Un viaggio lunghissimo, dal
centro della Germania per giungere a Gerusalemme sono circa 3.685 km che a
piedi si percorrono in 700 ore, considerando tappe giornaliere di circa 25 km
si percorreva in 147 giorni in circa 5 mesi senza considerare i giorni di
riposo.
I pellegrini arrivano quindi in condizioni di stress
psichico-fisico e affrontavano l’altro grave problema legato alla lingua.
C’era quindi la necessità di creare un’istituzione
caritativa che si occupasse dei pellegrini e che mosse i primi passi prendendo
il nome di “Fratelli dell’Ospedale di Santa Maria di Gerusalemme”.
Si narra che fu un mercante tedesco, stabilitosi con
la moglie a Gerusalemme verso la fine dell’XI secolo, che durante la crociata
del 1099 accolse nella sua dimora un cavaliere tedesco gravemente ferito
durante la conquista di Gerusalemme. Il milite fu curato e riacquistò la
salute. In seguito i due coniugi si misero a disposizione dei connazionali, che
giungevano malati o feriti, e procedendo per piccoli passi, con l’approvazione
del patriarca di Gerusalemme, l’opera caritativa intrapresa si trasformò in un
vero e proprio “hospitalia” per l’accoglienza dei pellegrini tedeschi.
La coppia lasciò i propri beni in eredità
all’ospedale, in cui prestavano servizio dei frati, prendendo il nome di
“Ospedale di Santa Maria dei Tedeschi di Gerusalemme”.
Il nuovo ospedale fu
sottoposto all’autorità degli ospitalieri di San Giovanni pur mantenendo
sempre un priore tedesco. L’esistenza dell’ospedale è confermata da Jacques de
Vitry nella sua “Historia Orientalis” e la data del 1118 fu considerata come la
data di fondazione dell’istituzione ospedaliera. Verso la fine del XII secolo è
comunque confermata l’esistenza
dell’ospedale con ospizio destinato
all’alloggio ed alla cura dei pellegrini tedeschi e gestito da un priore
tedesco e posto sotto la tutela dell’ordine degli Ospitalieri di San Giovanni.
Nell’Ospedale era presente un foresteria
ed una cappella dedicata alla Vergine Maria.
Nei primi anni i fratelli dell’Ospedale erano pochi
rispetto agli ospitalieri di San Giovanni ed ai templari e la loro storia in
quei tempi non è ben nota anche se continuarono la loro azione di assistenza
specialmente dopo la seconda crociata del 1147. Crociata che fece aumentare il
flusso dei pellegrini tedeschi per Gerusalemme.
La conquista della città nel 1187 da parte di Saladino
li costrinse ad abbandonare la città, l’ospedale fu distrutto, e a rifugiarsi
in qualche luogo sconosciuto.
Con la caduta della città fu indetta la terza crociata
e l’uno settembre 1189 55 navi che trasportavano i cavalieri crociati tedeschi
attaccarono Acri, importante città portuale, che era sotto assedio di Saladino
dall’agosto 1189.
Nella città fu creato un ospedale da campo,
“utilizzando una delle vele di una nave”, grazie ad alcuni mercanti tedeschi al
seguito di Adolf von Holstein, con la
concessione del re di Gerusalemme, Guido di Lusignano, di poter edificare un
ospedale all’interno della città una volta conquistata.
È
probabile che in questo ospedale campo prestassero la loro opera assistenziale
alcuni fratelli dell’antico ospedale di Santa Maria di Gerusalemme dato che,
dopo la presa della città avvenuta nel luglio 1191, l’ospedale si trasferì in
un palazzo entro le mura e riprese l’antico nome di “Ospedale di Santa Maria
dei Tedeschi di Gerusalemme”.
Le
fonti riportano anche come l’ospedale fu lasciato, una volta conquistata la
città, a dei frati tedeschi che acquistarono dei terreni e un edificio, costituendo
l’ordine dei “fratres domus
hospitalis sanctae Mariae Teutonicorum in Jerusalem”.
In
realtà il papa Clemente III il 6 febbraio 1191 aveva concesso all’ordine la sua
approvazione e la protezione.
La
regola seguita dagli appartenenti all’ordine era quella dei “cavalieri
Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme”. Il 21 dicembre del 1196 furono
confermati all’Ordine i possedimenti del tempo e futuri.
C’è
una differenza fondamentale tra i Cavalieri teutonici e gli altri ordini che
sorsero al tempo delle crociate. Gli altri ordini avevano una visione
universale, abbracciavano figure provenienti anche da paesi diversi, mentre i
teutonici era vincolati ad una precisa idea d’identità nazionale circoscritta
alla “Vaterland” cioè la madre patria germanica.
I papi s’interessano subito all’Ordine costituito e il primo fu, come abbiamo visto,
papa Clemente III (1187 – 1191) che
assicurò ai cavalieri l’approvazione ecclesiastica. Celestino III (1191 – 1198)
conferì all’ordine la regola monastica di Sant’Agostino ed Innocenzo III (1198
– 1216) ne ratificò la costituzione ponendoli sotto la protezione della
Vergine.
Con
questi riconoscimenti i Cavalieri teutonici avevano l’avallo sia dell’Impero
che del Papato
Nell’Ordine
la rigida regola che vietava l’accesso a chiunque non fosse aristocratico e di
lingua tedesca. Importante il ruolo riservato alle donne che erano presenti ed
attive nella loro assistenza ai feriti ed agli ammalti.
Per
lo stretto rapporto d’intesa che ebbero con l’imperatore Federico II di Svevia,
rappresentato nell’Ordine Teutonico da maestri di sua fiducia, i cavalieri
teutonici acquisirono un esteso potere in Puglia ed in Sicilia. Ma il loro grande
sogno era rivolto al Nord dell’Europa dove all’inizio del XIII secolo intrapresero
azioni di conquista dei territori senza però tralasciare la Terrasanta.
Si
scontrarono in i danesi, i lituani, con i polacchi , con i russi ed anche i
mongoli, e nelle loro conquiste posero
le base per la nascita della Prussia moderna.
Durante l’impero di Enrico VI l’ospedale ricevette
molte donazioni fondiarie tanto che spinsero i cavalieri a richiedere un
riconoscimento ufficiale della propria indipendenza.
Come
abbiamo visto da Papa Clemente III a Papa Innocenzo III l’Ordine ricevette un
suo ufficiale riconoscimento sottoponendolo alla regola degli ospitalieri per
quanto riguardava l’assistenza ed imponendo la regola dei Templari (per
l’azione militare) dai cui si distinguevano per il mantello bianco e la croce
nera rispetto a quella rossa portata dai
Templari. In quel periodo l’ordine aveva già cinque sedi in Terra Santa ed era
in espansione anche nell’Italia meridionale, a Barletta e in Sicilia.
(A
titolo di cronaca c’è da dire che nel 1300 l’ordine aveva circa 300 commende
diffuse in Terra Santa, Cipro, Grecia, Italia, Sicilia, Spagna, Paesi Bassi,
area Baltica,,ecc.)
Castello di
Malbork (Polonia) – fu Costruito dai Cavalieri Teutonici
Castello di Prata
Sannita – Presidiato dai Cavalieri Teutonici
Castello di Bran -
Transilvania
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7. Enrico VI
assegna la Magione ai Cavalieri Teutonici
Nel 1197
Enrico VI, incoronato tre anni prima re di Sicilia, decise di levare il
monastero ai Cistercensi, forse puniti per aver appoggiato il suo rivale
Tancredi, e lo affidò ai Cavalieri Teutonici, di cui egli stesso faceva parte.
Questi ultimi ne fecero un ospedale del loro Ordine, mutando il nome della
chiesa in quello di Santa Maria della Magione, che significava appunto ospizio.
Altri
storici farebbero derivare il termine “Magione” da “Mansio”, il nome del
precettore dell’ordine che risiedeva nell’attigua Abbazia.
Nel 1216
presso le strutture furono ospitati i Domenicani che costruirono la Cappella
della Madonna del Rosario.
Nel 1220, in
seguito alle polemiche ancora esistenti tra Cistercensi e Cavalieri Teutonici,
papa Onorio III confermò il trapasso del monastero e i monaci bianchi dovettero
abbandonare ogni speranza di ritornare nella loro abbazia.
I Cavalieri
Teutonici grazie alla loro attività ed
alle donazioni, aumentarono il prestigio dell’Abbazia.
Il 4 aprile
1463 si svolse una solenne consacrazione presieduta da Simone Beccadelli di
Bologna
I Cavalieri Teutonici mantennero il possesso della Magione fino al 1492
quando fu eretta in Commenda (data in
affidamento) e governata per quasi due secoli da abati commendatari.
Primo abate Commendatore fu il cardinale Rodrigo Borgia, futuro papa
Alessandro VI.
La Magione cominciò a subire diverse manomissioni che culminarono, durante
il XIX secolo, nella aggiunta di un duplice loggiato neoclassico alla facciata.
Nel 1782 l’edificio fu posto sotto il patronato dei re borbonici e il 30
maggio 1787, Ferdinando III di Borbone aggregò la Magione all’Ordine
Costantiniano di San Giorgio.
Restaurata prima della seconda guerra mondiale, fu danneggiata dai
bombardamenti e infine restaurata dall’architetto Guiotto. A sinistra
dell’edificio restano ancora visibili alcune parti del monastero e del
chiostro.
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8. Architettura
Le
ricerche archeologiche hanno riportato alla luce dei reperti di età araba e
normanna che hanno suggerito l’ipotesi di una struttura preesistente alla nuova
basilica.
L’antico
complesso sarebbe sorto al confine della cittadella fatimida che era chiamata
“al – Halisah” (cioè “l’Eletta” ovvero il termine moderno “Kalsa”) ed era la
sede emirale e il centro amministrativo e militare arabo. Una cittadella fondata da Halil Ibn Ishaq che
nel 937 giunse in Sicilia per reprimere una rivolta scoppiata contro il governo
musulmano.
La
chiesa, realizzata da maestranze e da artisti di origini islamiche, e fu
costruita probabilmente inglobando una struttura religiosa preesistente
(moschea). Rappresenta uno degli ultimi prodotti dell’architettura medievale siciliana
d’impronta fatimita ( che fu una dinastia musulmana sciita che si impose
tra il X e il XII secolo in alcune regioni mediterranee, tra cui la Sicilia) e
mostra in chiave ridotta, lo stesso schema iconografico delle cattedrali di
Palermo e Monreale.
La
notizia più antica dell’Abbazia risale al 1191, cioè un diploma in lingua greca
nel quale si registra la vendita per 50 tarì, fatta all’abate della Santa
Trinità del Cancelliere, di una casa a
Palermo, presso il panificio di corte.
Importanti
documenti per cercare di capire l’originaria planimetria della Magione sono:
-
Una
pianta generale del complesso, datata 1791, e conservata presso l’Archivio di
Stato di Palermo;
-
Una
planimetria d’inizio del Novecento;
-
La
planimetria attuale del complesso.
I
confronti permetterebbero di
rilevare la complessità dell’edificio per
gli interventi che si sono susseguiti. Interventi di restauro eseguiti tra il
1800 ed il 1815 che diedero all’edifico un aspetto neoclassico; restauri condotti
verso la fine del XIX secolo (ultimi decenni) mirati al ripristino delle
originarie linee arabo-normanne ad opera dell’architetto Giuseppe Patricolo;
altri restauri nel 1920 e dopo i
bombardamenti della seconda guerra mondiale. Nei restauri del 1920 furono cancellati gli
interventi che furono effettuati, senza alcuni criterio, tra il 1800 ed il
1815, che avevano portato alla creazione di un loggiato su tutta la facciata.
Manufatto che fu appunto demolito durante il restauro condotto nel 1920 da Francesco
Valenti.
Restauri
post-bellici mirati al presunto recupero di un “immagine originale” , quella
della fabbrica Normanna, vennero condotti da Mario Guidotto, Soprintendente a
Palermo dal 1942 al 1949.
Dell’antico
edificio Cistercense, l’ultima costruzione religiosa normanna e filiazione
dell’abbazia palermitana di Santo Spirito, rimane l’impianto basilicale a tre navate
divise da tre arcate a sesto acute su colonne, munite di pulvino, elemento
architettonico di natura bizantina, collocato tra il capitello e l’imposta
dell’arco, la cui funzione è quella di garantire la distribuzione dei carichi.
Ha
una caratteristica forma a tronco di piramide rovesciata, posto tra il
capitello e l’imposta dell’arco, e permette di concentrare le tensioni generate
dai carichi soprastanti verso la colonna posta al di sotto del capitello.
Il chiostro, da sempre il nucleo centrale dell’organizzazione
monastica, secondo l’architettura cistercense doveva appoggiarsi sul lato
meridionale della chiesa mentre nella Magione si trova sul lato settentrionale
della chiesa.
Uno
dei capitelli presenti sulle colonne del chiostro
Del chiostro originario, databile alla fine del XII
secolo, restano le corsie nord occidentali e sud-orientali, anche se
quest’ultima fu quasi completamente ricostruita tra il 1951 ed il 1954. Le
parti mancanti furono ricostruite copiando le colonne superstiti.
“Simile al maggiore esempio del Duomo di
Monreale del quale riprende l’ordine delle arcate ogivali a doppia ghiera, con archivolto e costola
all’intradosso, su colonne binate con capitelli di buona fattura, il chiostro
della Magione se ne distacca per dimensione e ricchezza decorativa”.
La
vera da pozzo, che si trova al centro del chiostro, è il risultato di un
riutilizzo di materiale del XIV secolo proveniente da una tomba che presentava
un'iscrizione ebraica.
Chiostro
– La vera da pozzo – si notano le doppie ghiere sugli archi del chiostro
Questa
vera ha una sua storia perché fu portata ne chiostro della Magione solo nel
1943. La vera è quella parte visibile del pozzo che si eleva al di sopra della
superficie del terreno.
Il
bordo, costituito da marmo bianco e collocato al di sopra di una struttura di
mattoni, presenta delle iscrizioni in lingua ebraica. Si trattava di una pietra
sepolcrale del 1353 che era stata posta sulla tomba di un giovane ebreo
palermitano di nome Daniele.
L’iscrizione
recita:
Nella sua arca
giace ancor vegeto Daniele, figlio di Rabbi Saadia. La sua anima sia custodita
nello scrigno della vita. Su di lui il bene e il riposo dell’anima. Il suo
riposo sia nella gloria.
È
logico chiedersi come mai una tomba ebraica diventò il bordo di una vera di un monastero.
Gli
Ebrei furono cacciati dalla Sicilia nel 1492 e i cimiteri ebraici di Palermo,
posti nei terreni limitrofi alla Porta Termini, furono abbandonati.
Probabilmente
molti elementi architettonici che adornavano queste tombe furono utilizzati per
abbellire palazzi, chiese e monumenti cittadini. Il cimitero ebraico fu d’altra
parte sconvolto nel 1537 dalla costruzione di un nuovo fossato esterno alla
città.
L’elemento
architettonico giunse alla Magione dove le monache decisero di utilizzarlo come
pezzo di pregio della loro vera di pozzo e probabilmente non si accorsero nemmeno
della presenza dell’iscrizione. Ancora oggi sono visibili i solchi creati dal
continuo passaggio della corda, al quale era legato il secchio, sul marmo.
La vera, opportunamente coperta, da quello che mi
risulta, è spesso usata come altare per cerimonie nuziali. E chissà, come ha
scritto uno studioso, se il giovane ebreo Daniele sia contento del nuovo
utilizzo romantico di parte della sua tomba.
Al periodo teutonico risalgono gli ambienti annessi
alla chiesa e costituiti dal refettorio, la cappella del 1463(consacrata il 4
aprile del 1463) dedicata al santo militare San Giorgio e le stanze del
Commendatore.
In un ambiente allungato, un tempo utilizzato come
battistero, si trova l’Oratorio di Santa Cecilia. Sulla parete di destra
è presente un affresco della Crocifissione. Un Cristo sofferente con San
Giovanni e la Madonna ai cui piedi è presente un personaggio inginocchiato e
raffigurato di profilo. Si tratterebbe di Leonard von Mederstorsen, procuratore
dell’Ordine nel 1458 e ritenuto da alcuni storici il committente dell’opera. Al Von Mederstorsen si deve la sistemazione
dell’antico refettorio dove doveva essere collocato il prezioso affresco.
Palermo – Magione
– Santa Cecilia all’organo
(Santa Cecilia
patrona dei musicisti e dei cantanti)
Opera di Giacomo
Lo Verde (Trapani, ? – Palermo, XVII secolo)
Palermo – Magione
– Oratorio di Santa Cecilia
“La Crocifissione”
con Maria e Giovanni Evangelista
(si nota il
Cavaliere Teutonico inginocchiato)
Dipinto del 1512
Palermo – Magione
- Oratorio di Santa Cecilia
Nell’Oratorio
è presente una bifora con iscrizione in arabo.
La
bellissima facciata è caratterizzata da tre portali a sesto acuto strombati e
incorniciati da bugne (i due portali laterali sono di dimensioni minori). Nel
secondo ordine sono presenti cinque monofore di cui le tre centrali sono
chiuse. Il frontone è caratterizzato da tre monofore di cui quella centrale, di dimensione più
grande rispetto alle altre due, è posta in asse con il portale principale.
Il
motivo delle monofore con ghiere si ripete anche nei prospetti laterali e nelle
absidi. L’abside centrale è disegnata da archi intrecciati ben sporgenti mentre
le due absidi minori, caratterizzate da slanciati archi a sesto acuto, sono
appena accennati.
Prospetto laterale
Magione – Le
Absidi
L’INTERNO
Sul
soppalco ligneo, posto sopra l’ingresso, si trova un maestoso organo.
La
chiesa nel suo interno presenta un esempio di stile arabo-normanno con le
finestre ogivale incassate e il motivo delle arcate intrecciate che è
riprodotto anche nell’abside.
Otto
colonne, sei archi e vari livelli di pavimento conducono nel presbiterio.
La
copertura lignea, quasi del tutto rifatta, della navata centrale, più alta ed
ariosa, sicuramente prima era policroma, dato il rinvenimento di travi
istoriate con figure di animali e formule augurali in arabo, durante i restauri
ottocenteschi.
Lungo
la navata centrale alcune tombe dei Cavalieri Teutonici del ‘400. (Altre lastre tombali, se non ricordo
male, furono spostate nel chiostro).
Un
dipinto su tavola, proveniente dalla Magione, è conservato presso il Museo
Diocesano.
Il Dipinto “Abramo
e i Tre Angeli” raffigurati con il committente
(tres vidit et
unum adoravit”) ‘ una tempera su tavola, opera del
“Maestro delle
Incoronazioni”.
Un pittore
palermitano vissuto tra la fine del XIV
e l’inizio del
XV secolo, che
presenta influssi artistici pisano-senesi.
(Oggetto :
Tavola dipinta cuspidata
Tecnica: Tempera
su tavola – Datazione: Fine XIV – inizi XV secolo
Misure: (106 x 63 x 3 )cm
Le corone con
parti terminali a forma di giglio erano realizzate alla fine
del Trecento da
orafi spagnoli. Infatti tra gli oggetti provenienti da
Valencia e
Barcellona vi erano quelli che nel 1393 la regina
Maria di Sicilia
diede in pegno a Martino Russo e Simone di Lerda
per un prestito..”coronam
argenti in quo sunt flores undezim facti
ad modum florum
liri”
Gli artisti del
tempo adornavano i diademi dei loro Santi non
solo dovevano
tenere presente la moda del tempo ma anche
conoscere il
valore simbolico delle gemme e dei fiori disegnandoli
secondo un preciso
significato.
Navata
Destra
-
La
Pietà. Una scultura marmorea del 1953 opera dell’artista Archimede Campini. In
questa cappella era documentata un’opera che fu commissionata ad Antonello
Gagini nel 1513 e realizzata dal figlio Vincenzo. Una scultura realizzata con una mistura di
stucco con basamento in marmo. L’opera fu distrutta dai bombardamenti della
seconda guerra mondiale e di essa rimangono solo dei frammenti;
-
Acquasantiere
del XVI secolo;
-
“Cristo
Benedicente”, opera della bottega del Gagini;
Cristo Benedicente
-
Trittico
in marmo bianco. Le figure rappresentano la Santa Vergine con il Bambino e
Santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata simbolo del suo martirio. Vi
sono anche due santi, probabilmente San Nicola e San Bernard da Clairvaux o San
Domenico, che sono posti ai lati.
In alto è presente la raffigurazione
dell’Annunciazione con Dio, Maria e l’arcangelo Gabriele. In basso, a chiudere
il trittico, la Crocifissione.
Cristo in Croce affiancato da Apostoli e
Santi. Questo bellissimo trittico era posto in origine dietro l’altare maggiore
e costituiva la primitiva Cappella del Rosario che fu costruita dai Domenicani
nel 1216.
-
Cappella
di Santo Stefano, un altare documentato (nel 1315 ?) con quadro di Santo
Stefano Protomartire.
NAVATA
SINISTRA
-
Croce
in pietra raffigurante l’emblema dei Cavalieri Teutonici (XV secolo)
Croce in pietra
dell’Ordine Teutonico
-
Sarcofago,
monumento funebre di Francesco Perdicaro, Maestro Razionale del Regno. Fu
realizzato da Vincenzo Gagini e reca la data del “9 dicembre 1567”. Secondo
le volontà del Perdicaro vi fu tumulata anche la salma della moglie Eleonora.
Perdicaro Francesco fu “Maestro Razionale del Real Patrimonio” nel 1566 e
subentrò a Luigi Beccadelli “di Bologna da Palermo”, in carica dal 1564.
-
Madonna
con il Bambino, statua marmorea della bottega del Gagini (XVI secolo)
-
Un
Portale rinascimentale, che introduce
alla sacrestia, opera di Francesco Laurana
PRESBITERIO
Nell’abside
a destra si trovano uno stupendo tabernacolo, opera della Scuola del Gagini,
datato 1528 e una Madonna dipinta su lavagna risalente al ‘500.
Nell’abside
a sinistra, una Madonna lignea policroma posta su una base di marmo del ‘500
con S. Domenico e Santa Caterina.
Nell’abside
centrale il poderoso altare in pietra decorato a rilievo. Il cappellone
dell’abside è decorato da 16 colonnette marmoree e nel catino e posto il dipinto della Vergine Incoronata.
Al
centro della navata un Crocifisso sospeso del XII secolo
Nel
portico del chiostro un portale rinascimentale e lungo le mura dello stesso
portico è presente un affresco rinascimentale della Madonna delle Grazie.
Il
portale barocco presente le statue della Fede e della Carità e sul timpano è
incastonato un medaglione con la Croce Costantiniana
Affresco Rinascimentale
Madonna delle
Grazie
Nel Chiostro
L’Oratorio
di Santa Cecilia costituisce l’accesso al settecentesco Oratorio del
Santissimo Crocifisso.
La
Congregazione del Santissimo Crocifisso, dedita all’assistenza degli ammalati e
ad attività di carità ebbe in dotazione tra il 1766 ed il 1786, dal cardinale
Antonio Branciforte Colonna la concessione di un locale ricavato
nell’originario refettorio della Magione.
C’erano
dei bellissimi affreschi che con il tempo si sono deteriorati.
Presenta
una fascia decorata in stucco che
raccorda le pareti con la volta a botte e sopra l’altare una raffigurazione
dello Spirito Santo con cherubini disposti a raggera.
Sul
cornicione si trovano invece due putti,
Lungo
le pareti sono presenti degli elementi ovali a stucco, all’interno dei quali,
erano affrescate scene bibliche ormai scomparse…
Sull’altare
un affresco del 1472 raffigurante Gesù Crocifisso ritratto con la Vergine Maria
e San Giovanni Evangelista, che da recenti restauri ha svelato un ulteriore
frammento d’affresco d’epoca anteriore.
Il
Crocifisso posto sull’altare risale al XVII secolo mentre sotto la mensa è presente la teca
contenente il Cristo Morto.
Un
Cuore di Gesù, posto dalla parte opposta all’altare, domina l’aula e vicino si
trova una statua in gesso che rappresenta i pellegrini che preso la Magione
trovavano accoglienza e conforto.
.
Facevano
parte del recinto sacro:
9. Collegio “S. Maria della Sapienza” per le ragazze
povere
-
Il
Collegio di Santa Maria della Sapienza sorto nel 1740, un’istituzione
nata per accogliere, educare ed istruire le ragazze povere del rione (Kalsa).
Ospitò le Suore di Madre Teresa di Calcutta.
“Si
conosce sotto il titolo di “Collegio di Maria della Sapienza” o del P.D.
Ignazio Capizzi, perché questo sacerdote gran servo di Dio ne fu quasi il
fondatore, quantunque prima gli avesse dato principio il Sacerdote D. Gaetano
Lo Piccolo.
Ritornando
nella strada della Vetraja, su la fine di essa alla destra è la fabbrica di
bocce, di bicchieri, caraffe, fiaschi, ed altri vasi di vetro per gli usi
domestici. A questo luogo succedono i
MAGAZZINI DEL SENATO ALLO SPASIMO…”
Chiesa
e Collegio di Santa Maria della Sapienza in Piazza Magione … un triste abbandono….
Fu
quindi don Gaetano Lo Piccolo a fondare nel 1741 il Collegio di “Maria della
Sapienza” per le fanciulle del quartiere Kalsa. All’inizio la sede era in via
Butera presso l’Oratorio di Gesù e Maria (oggi mi sembra sconsacrati),
successivamente presso la chiesa della Savona e nel 1754 nell’attuale luogo di
Piazza Magione.
Nel
1761 il collegio passò a don Ignazio Capizzi che ultimò la chiesa e il
collegio. Per questo motivo è considerato come cofondatore.
Una
chiesa molto semplice. Ha una facciata con loggia superiore e all’interno la
navata è preceduta dal coro. Oltre al
presbiterio vi sono due cappelle. Venne benedetta nell’aprile del 1850 dal
cardinale don Ferdinando Pignatelli. Il complesso si salvò miracolosamente dai
terribile bombardamenti del 1943 che
devastarono Palermo.
Fu
abbandonato dalle suore collegine anche
perché era prevista la demolizione della struttura, non attuata, in previsione
di un piano regolatore.
Le
suore si trasferirono nella nuova sede di via Castellana portando anche le opere d’arte e le suppellettili.
Venne utilizzata per alcuni anni dalle suore di Madre Teresa di Calcutta e da
anni è ormai in abbandono. Nella chiesa sull’altare maggiore era rimasto un
grande Crocifisso del XIX secolo non so
se ancora presente.
Nella
Piazza della Magione..… ."Le demolizioni che risultavano ancora non
completate nel 1968, si arenarono poco dopo di fronte al Convento della
Sapienza (oggi al centro della “piazza”, tanto che propriamente si dovrebbe
dire “Piazza della Sapienza”) in prossimità del quale si interruppe la
realizzazione del tratto stradale pavimentato a sanpietrini che fino alla fine
degli anni novanta rimase ad indicare, sui luoghi, il tracciato previsto della
via del Porto."
Il Collegio con la
chiesa
Sul
prospetto orientale del Collegio si trova un’edicola votiva con la
raffigurazione di Santa Rosalia.
Edicola con Santa Rosalia
Questi
collegi erano nati grazie all’idea di evangelizzazione del cardinale Pietro Marcellino
Corradini (Sezze, 2 giugno 1658 – Roma, 8 febbraio 1743) perchè le donne erano
al centro della sua idea sia come soggetti da educare sia come educatrici.
Grazie
al loro ruolo di madri, operavano all’interno delle famiglie ed erano quindi in
grado di plasmare gli animi dei fanciulli.
In
quei tempi, siamo nel XVII – XVIII secolo, c’era la consuetudine di trascurare
le donne e di lasciarle all’ignoranza. Questo le spingeva, notava il cardinale ed
arcivescovo Marcellino Corradini, alla prostituzione o a divenire presto ragazze
madri. La donna non doveva essere abbandonata a se stessa ma curata, protetta,
educata ai sani principi della fede, all’onestà dei costumi ed ai lavori
femminile, per essere in grado di essere libera di trovare un lavoro. Quindi donne non emarginate dalla comunità ma
inserite in essa come fattore di crescita morale ed economica della stessa
comunità. Un aspetto che la società si ostinava a non comprendere.
Le
collegine, in quanto madri della grande famiglia che era lo società, dovevano
uscire dai collegi o istituti e recuperare tutte quelle ragazze in pericolo per aiutarle, educarle.
Un
agire che richiedeva un grande impegno e quindi le collegine dovevano
essere in possesso di una grande fede e
motivazione nel loro agire. La figura della collegina era quindi l’incarnazione
perfetta della donna impegnata socialmente.
La
funzione delle collegine era anche spirituale perché la formazione e la guida
dell’individuo andava al di là del senso strettamente umano. S’invitava ad
intervenire in un senso quasi mistico come educazione all’unione ed alla
comunione con Dio secondo il fine ultimo che deve essere l’uomo che a Dio
tende, in lui trasformandosi.
C’è
da dire che questo misticismo del Corradini diventò un elemento che caratterizzò
la fondazione di molto collegi. Gli istituti più antichi furono infatti legati
ad apparizioni, a miracoli e a parole profetiche esclamate da persone in odore
di santità. Si sviluppò quindi un idea interpretativa in cui Dio stesso
richiedeva alla comunità di creare un collegio di Maria, strumento principe per
redimere la povera gente. La popolazione del paese si ricomponeva davanti alla
realizzazione dell’opera in cui il clero assumeva un ruolo di stimolo vero
maggiori traguardi nella realizzazione della parola di Dio e per il raggiungimento
della salvezza collettiva. Tutto soffuso da un profondo misticismo.
-------------
-
Il Collegio della Vitrera, del 1592, detto
anche Conservatorio di Santa Maria Maggiore o delle “Male Maritate alla
Vetraia”.
“Circa
l’anno 1592 il Senato Palermitano in riguardo di D. Maria Pimentelli Contessa
di Olivares, Viceregina, che ne fece le istanze, determinò fondare un
Conservatorio per quelle donne del basso popolo, che per un infelice maritaggio
potevano correre qualche rischio, come anche per quelle, che a causa della loro
cattiva condotta meritassero correzione. A questo fine destinò once cento
all’anno per lo acquisto di una casa, ed elesse de’ Deputati per soprantendere
alla fondazione. Pigliarono questi a
censo un tenimento di case con giardino rimpetto il monistero di
Montevergini posseduto da D. Vincenzo
Calvello, e vi fondarono il conservatorio colla chiesa. Nel 1606 dovendosi
riformare il monistero di Montevergini, dall’Arcivescovo D. Diego Aiedo di
concerto col Senato si levarono via dal Conservatorio queste donne, e vi si
fecero passare le educande, che erano nel detto monastero, mettendovisi la
clausura a 16 Luglio del detto anno.
Per le donne poi “male maritate” fu fondato l’attuale nella contrada
della Vetraja sotto lo stesso titolo dell’antico di S. Maria Maggiore. Sta
questo conservatorio sotto l’immediata giurisdizione del Senato, eleggendone
egli i Deputati, de’ quali uno suol essere ecclesiastico graduato, e l’altro un
nobile. Vi è una piccolissima chiesa, e parlatorio, e dentro de’ cameroni per
abitarvi quelle povere donne, che o volontariamente vi si ritirano, o che vi
sono rinserrate per castigo dai Magistrati.
Nel
1754 soffrì un incendio, per lo quale si consumarono quasi tutte le fabbriche,
indi fu rifatto, e si appose in memoria la iscrizione, che si legge sulla porta
del parlatorio.
Non
molto distante da questo luogo ed in quella strada, che dritto conduce alla
Magione, è il Collegio di Maria alla Magione della Sapienza…..”.
Il
Conservatorio continuò la sua importante funzione sociale fino a quanto nel
1823 fu distrutto dal terremoto e non “fu più rialzata”.
Ma
dove si trovava esattamente il Conservatorio delle “male maritate” ?
I
punti fondamentali sono la vicinanza al Collegio di Santa Maria della Sapienza,
la Contrada “Vetraja” e l’indicazione “lungo la strada che dritto conduce
alla Magione”.
Potrei
anche sbagliarmi ma penso che il Conservatorio si doveva trovare alla fine
dell’attuale via Vetreria, all’angolo con la Via della Pace e quindi vicino alla
Chiesa dello Spasimo. Vicino alla Chiesa dello Spasimo c’era anche l’antica
“Casa dei pezzenti” che fu eretta verso il 1605.
Il Conservatorio
delle “male maritate” doveva trovarsi
all’angolo tra via Vetreria e Via della Pace. Con la lettera “A” dovrebbe
essere l’antica fabbrica di bocce, di bicchieri, caraffe, fiaschi, ed altri
vasi di vetro per gli usi domestici. A questo luogo succedono i MAGAZZINI DEL SENATO ALLO SPASIMO…”(posti
a Sud di “A”)
Nel
Conservatorio momenti di vita.. come quello drammatico del 29 agosto 1727
quando Palermo fu colpita da un forte temporale.
“…
nella Città di Palermo furono spaventevoli i Fulmini che s’udirono a 29. Agosto
del 1727. Di quei che caddero si ha la certezza di tre per gli effetti che
fecero.
Cadde
uno nella spiaggia del Mare, e privò di vista un Pescatore in mezzo a molti.
Altro nel Conservatorio di Santa Maria Maggiore, detto delle Male Maritate,
e uccise una Giovane, senza lasciare altro segno nella sua persona, che poco
sangue grondante da un occhio. Il terzo fu nel Monastero di San Carlo de’
Padri Casinesi….”
Nel
Conservatorio prestò la sua opera un don
Paolo Riggio e Saladino, dei principi di Campofiorito, che fu appellato come
“Grande Servo di Dio”.
Don
Paolo Riggio e Saladino nacque il 25 gennaio 1660 ed era figlio di Luigi
Riggio, 2° principe di Campofiorito, e
di Donna Francesca Saladino e Celestri, Baronessa di Valguarnera e di Radali.
Una
vita vissuta nell’insegnare la Dottrina Cristiana ai fanciulli, nell’istruire
gli adulti negli obblighi della divina legge…”si distendeva a varj Monasterj,
per ajutare nel cammico della perfezione l’anime a Dio consagrate: ed in questo
esercizio mostrava un distinto godimento, senza mai annojarsi nel travaglio…”.
Aveva
diversi Monasteri nella sua parrocchia…”per confessare nel Monastero di san
Vito era costretto a camminare oltre un miglio; e nulladimeno abbracciava più
che volentieri la fatica, e ancorchò gli fosse più volte offerta comodità di
carrozza, non volle mai accetarla”.
Il
Conservatorio delle “Male Maritate”, era posto nella sua parrocchia..”perché
ridotto di persone cadute nelle laidezze sensuali, o in pericolo di perdere col
corpo anche l’anima, considerato dal Don Paolo, più bisognevole di caricativi
soccorsi, era da lui proveduto non men nel temporale, che spirituale,
sovvenendolo con larghe limosine”.
“Più
volte la settimana vi predicava; nel tempo della Quaresima si partiva a piedi
dalla Sua chiesa, fino al Convento de’ Padri cappuccini, in distanza di due
miglia, per ottenere dal Guardiano di quel Convento un buon Predicatore per
detto Conservatorio; e sortiva sempre, che impetrava il più fruttuoso Predicatore,
molto giovevole al profitto di quelle anime…. Lo stesso faceva nella novena
della Presentazione di Maria vergine”.
Cercava
di portare sollievo e conforto “ di quelle ivi ristrette”.
“Una
volta ad ore sette della notte accorse a dare il Viatico ad una di esse
inferma; pregando poi il Custode di quel luogo a non ritenersi a chiamarlo nottempo,
quante volte v’era necessità di consolar co’ sagramenti quelle povere anime”.
Lo
stesso “Custode” rilevava come era ammirabile la sua carità..”esercitata a
beneficio di quelle Donne; e che mentre esortava una di loro alla penitenza,
volendo confermare con qualche sentenza quel che diceva, rivoltosi per sua
umiltà allo stesso Custode, che era persona d’inferiore condizione, e privo
affatto di lettere, disse: come m’insegna questo Signore”.
“S’adoperò
non poco la carità di D. paolo in levar dalle sozzure de’ peccati molte Donne
di perduta coscienza. Più volte fu osservato nottempo girar per le strade più
scandalose della Città per visitar le case delle Meretrici, esortandole ad
astenersi dall’offese di Dio, provedendole di buone limosine per non peccare.”
“
A questo fine di tratteneva sul tardi, nelle prime ore della notte nel piano
della Marina, ove costumavano alcune Donne portarsi, per tirare nella loro
diabolica rete gl’incauti giovani, e vivere con disonesto guadagno”.
Palermo – La
Marina – Incisione del 1724
“Ma
Don Paolo con ferventi esortazioni; e
col dono di larghe limosine, ritiravale da quell’impuro traffico: e alle volte
non senza pericolo della vita”.
A
causa di questa sua grande carità una volta mise in pericolo la sua vita.
“Ritrovandosi
in questo piano (della Marina) una volta verso le ore due della notte per
l’esercizio della sua carità, s’avvenne passare una truppa di birri, che
chiaman Ronda, guidata dal Vicecapitano; e veduto Don paolo, credendo che fosse
qualche malandrino, che ivi stesse per rubare quei, che passavano, fu da’ birri
legato, e malmenato con sol con parole di sommo
dispregio, ma anche schiaffeggiato: e poi credendo d’aver fatto una
buona preda, il portarono alla Vicaria, che è il pubblico carcere della Città”.
Palermo – Castello
a Mare
Don
Paolo sopporto le azioni degli spagnoli in silenzio, non svelando il suo nome e
il suo operato.
“Appena
entrato nella Vicaria, al lume della lanterna fu da tanti riconosciuto: onde
confusi per lo pessimo trattamento, gli chiesero perdono; e vollero
accompagnarlo alla sua Chiesa, ove giunti furono da Don paolo pregati a non dir
niente di quell’avvenimento; ringraziandoli d’averlo accompagnato”.
La
mattina seguente con un suo cappellano mandò al Vicecapitano un ..”canestro
di cose dolci, quattro capponi, sei galline, e due genovine (una moneta
d’oro simile al fiorino)..”. A chi gli chiedeva il perché di quell’azione ,
rispose…” che ciò faceva in riconoscimento del favore ricevuto nell’averlo
accompagnato…”.
In
un altro avvenimento la sua vita fu in pericolo nell’agire ..”una notte per
beneficio dell’anime, in un avvenimento, che ha molte circostanze prodigiose.”
“Presosi
Don Paolo per compagno il Sacerdote D.
Fabrizio del Giudice, si portò alla casa d’una dissolutissima Donna, la cui
porta era guardata da quattro sgherri ben armati. Disse D. Paolo a D. Fabrizio,
che battesse alla porta: ma il sacerdote ricusò di farlo, temendo di quei
sicarj; onde Egli intrepidamente la bussò con un piccolo Crocifisso, che avea
sul petto; e a quel battimento ristettero immobili quei che la custodivano,
senza potersi opporre: e ancorchè la battesse lentamente, nulladimeno risuonò
un prodigioso rimbombo, come si fosse stata battuta a tutta forza da grossa
pietra”.
“Aperta
la porta salì animosamente le scale, e trovato ivi un giovane Cavaliere di gran
nascita, cominciò a riprenderlo del peccato commesso. Niegò la sua colpa il Cavaliere: ma Don paolo ardendo di zelo, e quasi fuor di
se, gli pose il Crocifisso sugli occhi, e con vangelica libertà gli disse:
Questo Cristo a me
l’a detto, e tu hai ardimento di negarlo
in faccia di chi è
la stessa verità, e che tutto conosce ?
Risentito
il Cavaliere gravemente, stimandosi offeso per quel suo parlargli di Tu, mostrò
il suo pregiudizio, col dirgli: avertisse bene con chi parlasse, e che parlava
con un Cavaliere Titolato.
Don
Paolo con zelo replicò:
Tu Cavaliere
? Tu Cavaliere ?
Hai offeso il Re
de’ regi, e vuoi chiamarti Cavaliere ?
Confusa
a questi rimproveri la Donna, e tocca dagli stimoli della coscienza, uscì dalla
camera, e genuflessa a’ suoi piedi, confessò pentita il suo peccato”.
“
Allora Don paolo con quell’impero, che gli comunicò lo stesso Iddio, presosi
per la cintola il Cavaliere, e senza che egli avesse animo di resistere,
portollo seco alla sua Chiesa; lasciando chiusa a chiave la porta della casa.
Indi ritiratolo nella Cappella del SS Crocifisso, gli fece un ardente sermone;
che non avrebbe terminato, se il Cavaliere entrato in se stesso, e ravveduto;
non gli prometteva una vera emendazion
della vita; e di far seco una confessione generale.
Ma
poiché era avanzata la notte, il Cavaliere gli chiese in grazia la chiave della
casa di quella Donna dissoluta, per ripigliarsi il cappello, parrucca, e
spadino ivi lasciati. Alla richiesta il Servo di Dio:
Eccoti la chiave.
Questa, avverti
bene, è la chiave della porta dell’Inferno,
che aprirai a te
stesso se torni a peccare.
Morrai di morte
improvvisa, e i Demonj ti trascineranno all’eterne pene.
Ciò
detto il Cavaliere partì, andò a ripigliarsi le sue robbe, e pochi giorni
appresso collocò in Conservatorio (
delle “Male Maritate”) la Donna, con assegnarle per il suo mantenimento tarì
due al giorno.
Indi
atterrito alle minacce di D. Paolo ritornò a’ suoi piedi, fece la promessa
confession generale, corresse il tenor della sua vita, e si diede a vivere col
santo timor di Dio”.
Una
volta fu trovato gravemente ferito..”sopra un mucchio di pietre nella
contrada de’ Lattarini”
probabilmente per aver cercato fi salvare qualche anima dalla
strada. Aiutò molte donne povere che
avevano le case pignorate e subì anche tante rapine (paramenti sacri, somme di
denaro da destinare alle elemosine. Ecc.)
La
sua parrocchia, in base alle mie ricerche, doveva essere quella di San Nicola
di Bari all’Albergheria.
Morì
il 14 febbraio 1728…
------------------
La
Chiesa dei Santi Euno e Giuliano
Vicino
alla Magione la Chiesa dei santi Euno e Giuliano, collocata lungo il lato Est
della Piazza Magione
Una
costruzione risalente alla seconda metà del XVII secolo costruita dalla
Confraternita dei Seggettieri o “Vastasi di cinga” o “portantini” cioè i
costruttori o conduttori di portantine.
I
lavori iniziarono nel 1651 e terminarono abbastanza rapidamente nel 1658. Con
l’evolversi dei mezzi di trasporto la Confraternita perse gran parte della sua
importanza a causa della scomparsa dei portantini e la chiesa cadde in rovina.
Il colpo definitivo gli fu impresso durante i bombardamenti del 1943 quando fu
colpita e subì gravissimi danni con il crollo anche del tetto.
Fino
ai primi anni del 2000 era in completo abbandono e rovina, molte decorazioni
furono trafugate. Grazie all’intervento del Comune l’edificio fu recuperato. I
lavori iniziarono nel 2006 e terminarono nel 2017 con la riapertura al
pubblico.
La
facciata è quasi interamente occupata dal portale d’ingresso sopra il quale si
trova un oculo rettangolare.
Il
secondo ordine presenta un complesso fastigio superiore in pietra con un arco,
oggi tamponato, che forse in origine concepito come campanile a vela o come
nicchia. La loggetta campanaria, oggi tamponata, è decorata da volute e cippi
recanti i simboli del martirio dei santi titolari della chiesa.
L’interno
dell’aula è costituito da un’unica navata decorata con stucchi bianchi e
decorati. Decoro che è stato attribuito alla bottega di Procopio Serpotta.
Presenta
due altari laterali che erano dedicati al Crocifisso e alla Madonna del Rosario
mentre nell’altare maggiore si trovava una tela raffigurante i Santi titolari ,
opera del pittore Carlo d’Anselmo, andata perduta.
Sotto
la navata si sviluppa una cripta, anch’essa di origine barocca che ha un
particolare. La cripta ha uno sviluppo maggiore rispetto alla navata della
chiesa dato che si estende per circa sei metri sotto la piazza. Alle pareti si trovano dei loculi verticali e loculi
disposti su tre ordini. Un altro aspetto particolare fu il rinvenimento duranti
i lavori di restauro del 2016 di una seconda cripta o ambiente ipogeo, sotto la
cripta attuale. L’ambiente era pieno di ossa miste a fango. Fu svuotato e alla fine
si rilevò come fosse un essiccatoio multiplo con un sistema di raccolta e
smaltimento dei percolati.
La
chiesa fu recuperata cercando di mantenere l’aspetto originario. In merito
esiste una foto degli anni ’50. Dal piano terra della canonica fu ricostruita
la scala di accesso alla cripta che è oggi visitabile.
I
Seggettieri fondarono la
Confraternita dei Santi Euno e Giuliano nel 1649. C’è da chiedersi come mai i
seggettieri scelsero questi due santi martiri d’Alessandria d’Egitto come loro
protettori e ai quali costruirono la chiesa nel 1651.
La
storia del loro martirio fu narrata in una lettera di S. Dionigi, vescovo
d’Alessandria (morto nel 264 circa), nel quale si racconta le atrocità che
furono compiute contro i cristiani nelle persecuzioni avvenute ad Alessandria
d’Egitto ai tempi dell’imperatore romano Decio (200 – 251).
Giuliano
era un cristiano, appartenente ad una famiglia facoltosa, e fu costretto ad
apparire davanti al giudice in seguito ad una denuncia.
Era
malato di podagra e fu trasportato davanti al giudice da due servitori
cristiani.
Un
servitore apostò subito, mentre l’altro, di nome Cronione, e soprannominato
Euno, rimase con Giuliano saldo nella sua fede.
Furono
quindi condannati a morte non solo per non avere rinegato la loro fede ma per
non avere compiuto i riti prescritti nei confronti degli dei pagani. Furono
quindi condannati al supplizio.. legati su cammelli e flagellati lungo la
strada.
Sarebbero
quindi stati gettati in un immenso rogo e, secondo alcune versioni, nella calce
viva.
La
figura di Euno deve aver ispirato i seggettieri perchè era un umile portantino
come loro e lo presero come protettore.
Il
martire s’era addossato sulle spalle il peso del padrone (Giuliano) sulle
spalle cos’ come facevano i più miseri facchini palermitani che, per
qualche “spicciolo” o “piccola moneta”, si
caricavano sulle spalle i passanti per attraversare i fiumi d’acqua che si
formavano in talune strade quando
pioveva in maniera intensa.
La
Congregazione fu fondata ad un anno di distanza dai gravi moti sociali che
sconvolsero Palermo nel maggio del 1647 e che si prolungarono sino all’agosto
del 1648.
Una
sommossa popolare in una Sicilia profondamente colpita da una gravissima crisi
economica ed aggravata dalla carestia. In quel periodo la città era rifugio di
una folla di gente affamata proveniente dalle più disparate province
dell’Isola.
Una
vera e propria rivoluzione con episodi d’inaudita violenza che il vicerè Vincenzo
de Guzman, marchese di Montalegre, non riuscì a fermare malgrado le sue succubi
promesse.
La
rivolta sembrò fermarsi con l’abolizione delle tassazioni più odiose al popolo
minuto ed alle maestranze e con l’impiccagione dei più facinorosi capipopolo:
Vincenzo La Farina e Onofrio Ranieri.
Ma
la rivolta si riaccese il 3 luglio 1647 quando dei “siggitteri”, per una
questione di compenso con corrisposto da Gaetano Cesare, principe del Cassero e
pretore della città di Palermo, vennero
alle mani coi suoi servitori.
I
portantini, che Rocco Pirri definì in maniera non obiettiva pur essendo un
abate, “della più infima plebe”, nella lite che seguì gridavano “voler
dar fuoco a’ signori”.
I
“siggittieri” furono rinchiusi nelle carceri della Vicaria per subire una forte
punizione. Questo scatenò una nuova rivolta popolare da causare la fuga del
vicerè su alcune galere ancorate al Molo.
Da
qui la prese al potere da parte del capopopolo “battiloro” (batteva l’oro con
un grosso martello per polverizzarlo) Giuseppe D’Alesi, il ferimento e la morte
di Pietro Novelli, l’anarchia imposta dalle compagnie d’arti e di mestieri
incapaci di governare unite, a cui seguì l’assassinio del D’Alesi e dei suoi
soldati.
La
morte del vicerè e l’insediamento alla presidenza del Regno del cardinale Teodoro Trivulzio che, con pugno durissimo e
risoluto, riuscì a reprimere la rivolta e le congiure successive. Furono
arrestati i più facinorosi, ottenendo delle confessioni estorte con le torture…
i colpevoli furono strozzati e i loro corpi esposti nudi e a testa in giù nelle
forche poste ai Quattro Canti … e i loro quarti squartati ed esposti allo
Sperone……
Il Cardinale
Teodoro Trivulzio…. L’assassino
E il carnefice di
tanti palermitani
Una pagina di
storia … nascosta….
Questi
i fatti avvenuti, narrati in breve, tra il 20 maggio 1647 e il 29 agosto 1648.
Ma altre congiure vennero scoperte ancora fino al dicembre 1649. L’azione di repressione fu continuata dal
tribunale del Santo Offizio guidato dal 1647 dai famigerati Diego Garcia
Trasmiera e Juan Lopez de Cisneros.
Le
azioni giudiziarie dei due inquisitori erano rivolte in modo così proditorio
nei confronti alcuni accusati, da giustificare il forte sospetto che sotto le
accuse ufficiali di stregoneria ed eresia venissero camuffati dei reati
politici.
Mentre
si continuava a dare la caccia anche ai simpatizzanti dei ribelli, fu
pubblicato il primo volume dell’opera del sacerdote don Agostino Inveges “Annali
della felice città di Palermo prima sedia, corona del re, e capo del Regno di
Sicilia”.
Un
opera che esaltava la storia della città di Palermo giustificando il suo ruolo di capitale del
Regno contro le pretese dei messinesi che ne rivendicavano il titolo.
Le
case patrizie erano tornate a curare i propri affari e il loro patrimonio veniva salvaguardato
obbligando le fanciulle al Convento e gli ultrageniti maschi alla carriera
ecclesiastica dopo aver rinunciato alla propria quota legittima in favore del
primogenito.
I
matrimoni tra consanguinei servivano a riunire i patrimoni tra i vari rami del
casato, come il caso di una povera ragazza, priva della parola e diciannovenne,
sposta con lo zio cinquantenne. (Marianna Ucria costretta a sposare lo zio
Pietro Ucria, di Campo Spagnolo, fratello della madre.
Ritratto di Mariannina Ucria
Palazzo Alliata di
Villafranca
Fu
in questo clima sociale che i “siggitteri”, considerati come “infima
plebe”, vollero porsi aduna posizione sociale più elevata e capirono che il
primo passo era quello di costituire un “Unione” simile a quella degli
artigiani.
C’è
un aspetto strano che a distanza di tempo non si è riusciti a svelare. Nei
documenti conservati presso il Senato cittadino non risulta che i seggettieri
palermitani abbiano mai costituito una vera e propria corporazione, maestranza
o consolato.
Eppure
nei capitoli della confraternita si
afferma che i lavoranti seggettieri e “bastasi” operanti in città erano circa
cinquecento. Un numero consistente che rileva l’importanza della categoria nel
settore lavorativo della città.
Scelsero quindi di formare un unione di
mestiere materializzata in una confraternita eleggendo come santi patroni, Euno
e Giuliano.
Due
santi sconosciuti tanto che il nome di
Euno venne spesso travisato in Arteo, anche nei capitoli di fondazione, e in
Eunio, Unio, Junio o Julio.
La
corretta pronunzia del nome di Sant’Euno fu suggerita, scrivendola a
stampatello, da Don Vicenzo Auria, accademico
che pubblicò nel 1651, nell’anno in cui fu iniziata la costruzione della chiesa
dedicata ai due Santi, un piccolo volume che illustrava la storia dei due
martiri d’Alessandria d’Egitto.
La
stesura del piccoli volumetto fu commissionata da “Gente devota” (i
seggettieri) ..”Io essendo stato pregato da Gente devota a scrivere il
presente martirio….”
Il
l’Auria spiego nel suo libro che “Il primo che diede luce a’ seggiattieri di
questa città fu il signor don Vincenzo la Farina e Vintimiglia nobile
palermitano e baron d’Aspromonte di felice memoria, persona dottissima
dell’historie sacre e curioso investigatore delle cose antiche”.
(Il
La Farina, indicato dall’Auria non dovrebbe essere il La Farina che fu
impiccato nei moti del 1647, ma un suo omonimo).
Con
questo libro i seggettieri si prefiggevano di far conoscere alla città i loro
santi martiri. L’autore concluse il suo scritto con una preghiera rivolta ai
due martiri di:
“pregar e rimirar
al quanto su questa città che prima è stata
ad abbracciar la
vostra devozione per messo d’alcuni cittadini
ch’esercitano
l’officio di seggiattiero”.
La
società del tempo era divisa in caste ed i seggettieri sembravano al tempo
occupare i gradini più bassi della società.
In
merito alla storia dei due martiri, il l’Auria si allontana un po' dalla
tradizione canonica.
Riportò
che i due portanti del nobile Giuliano, erano infedeli idolatri e che uno dei
due, Euno, si convertì ascoltando con quanta dottrina il patrizio (Giuliano)
confutava le tesi del prefetto suo persecutore.
L’autore
pose una grande attenzione nella conversione del “seggettiere” Euno per
proseguire poi la narrazione, in modo particolareggiato, sul martirio subito
dai due santi sul rogo, dove il corpo umano si consumava “ in quell’istessa
guisa che l’oro si raffina nelle fiamme”.
L’effetto
del rogo fu descritto in modo cos’ forte, raccapricciante, da convincersi
ch’egli avesse probabilmente più volte assistito a simili spettacoli eseguiti
per ordine del Tribunale del Sant’Uffizio.
Ad
un certo punto il l’Auria si chiese il “perché fu concesso a Cronione bèver
del calice della gloria d’Iddio”.
La
risposta mette in luce il comune sentire di quel tempo… anno 1651… quasi quattro secoli fa…
“Cronione
Euno, benchè uno della plebe più infima e bassa ha chiarissimamente dimostrato
che anche in tal gente, quando si fa degna del divino aiuto alberga la virtù
della fortezza e della magnanimità non punto disuguale à quella d’un principe o
d’un heroe…”…”per concludere hà voluto dimostrare il Signore che ogni sorte di
persone di qualunque stato si sia può
guadagnare la salute dell’anima, quindi in quasi tutte le professioni veggiamo
esservi stato un santo”.
Il martirio dei
Santi Euno e Giuliano
(Tavola tratta da
un testo del 1841)
Sempre
sui seggettieri si narra che all’alba del 27 maggio 1860 la città era in
agitazione per l’ingresso dei garibaldini e delle squadre di “picciotti” da
Porta Termini.
Garibaldi
giunse nella piazza della Fieravecchia …”gli
si presentarono i facchini di questa piazza, e caldamente pregarono perché
fosse restituita la statua (del Genio di Palermo) nell’antico suo posto,
ciò che il generale promise. Allora i facchini corsero allo Spasimo, ne
trassero la statua, e nell’ebrezza dell’entusiasmo trionfalmente la
trasportarono nella piazza suddetta”.
Una
litografia dei fratelli Terzaghi (1862) tratta da una fotografia di Eugene
Savaistre del 1860, mostra la piazza della Fieravecchia pochi giorni dopo la
ritirata delle truppe regia dalla città.
L’ultimo contingente di truppe borboniche lasciò Palermo il 19 giugno
1860 e la foto è datata 26 giugno 1860.
Mostra
la statua del Genio mancante del basamento e poggiata al suolo della piazza,
circondata dai festoni di un teatrino effimero e dalle balate divelte dalle
strade che servirono per allestire le barricate.
La
statua fu prelevata dai magazzini della Chiesa dello Spasimo dove la polizia
borbonica l’aveva fatta rinchiudere. Fu prelevata dai facchini, che avevano la
loro posta in questa piazza, e ricollocata
al suo posto.
Piazza della
Rivoluzione (Ex Fieravecchia) oggi
Con la statua del
Genio di Palermo (scultura del XVI secolo)
Esistono altre
raffigurazioni del Genio di Palermo posti in diversi punti della città.
Genio del Garaffo,
detto in Siciliano “Palermu lu granni”.
Una scultura
realizzata da Pietro de Bonitate alla fine del XV secolo.
Si trova alla
Vucciria, nella nicchia centrale dell’edicola realizzata
da Paolo Amato nel
XVII secolo,
(Nella foto la
differenza tra l’edicola nel 1969 e nel 2010).
Via Sedie Volanti nel 1973
Sempre
nella toponomastica di Palermo è inserita una “Via dei Seggettieri al
Capo” nei pressi di via Vittorio
Emanuele, Via Matteo Bonello…
Così
denominata in ricordo dei facchini che trasportavano le persone con grandi e
robuste sedie, simili alle portantine.
I
“seggettieri o vastasi da cinghia” erano appunto coloro che trasportavano (a
nolo) le portantine ed abitavano nei vicoli del rione Capo. Era denominata “al
Capo” per distinguerla dalle altre che si trovavano in altri Mandamenti.
Vicino alla chiesa
il palazzo Naselli Spaccaforno prima dei restauri
La chiesa prima dei restauri
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La
Magione non fu il solo complesso che fu consegnato ai teutonici nella città di
Palermo. All’Ordine teutonico fu infatti concessa la preesistente chiesa
dedicata a San Giovanni Battista detta successivamente “dei Lebbrosi” e posta
nell’attuale Via Cappello, nella zona ovest della città.
Bibliografia:
Quando le sedie erano volanti. Storia della confraternita dei bastasi siggitteri e della chiesa dei Santi Giuliano ed Euno nella contrada della Vetriera a Palermo.
Libro del Prof. Carmelo Lo Curto (Gelius Loci Palermo, 2018)
Quando le sedie erano volanti. Storia della confraternita dei bastasi siggitteri e della chiesa dei Santi Giuliano ed Euno nella contrada della Vetriera a Palermo.
Libro del Prof. Carmelo Lo Curto (Gelius Loci Palermo, 2018)
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Altre
Commende dell’Ordine Teutonico:
Palermo – La Chiesa e il Lebbrosario di
San Giovanni del Lebbrosi
Prizzi (Palermo) – Castello della Margana
Egregio signore/a, visto che ha copiato vasti brani tratti dalla mia pubblicazione "Quando le sedie erano volanti" che ne direbbe se, per evitare una accusa di plagio, volesse indicare da dove sono tratte le notizie che pubblica sulla chiesa dei santi Euno e Giuliano? Carmelo Lo Curto
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaGentile Signor Lo Curto. come sta? M dispiace per il suo commento che ritengo legittimo. Il mio blog. come vede ha un solo obiettivo: quello di mostrare al pubblico gli aspetti della nostra amata Terra. Rispondo in maniera affermativa al suo rimprovero. . mi dica solo se il link era questo
Eliminahttps://www.ibs.it/quando-sedie-erano-volanti-storia-libro-carmelo-lo-curto/e/9788894308419.. In ogni caso indicherò il testo del suo libro.
La ringrazio per gli attimi che mi ha dedicato leggendo il mio messaggio.. Le porgo i più Cordiali saluti.. Antonio Barrasso.
Bibliografia
EliminaQuando le sedie erano volanti. Storia della confraternita dei bastasi siggitteri e della chiesa dei Santi Giuliano ed Euno nella contrada della Vetriera a Palermo
Autore: Prof. Carmelo Lo Curto (Genius Loci Palermo 2018)
Le indicazioni bibliografiche sono corrette, grazie. Mi vorrà scusare per l'appunto che le ho mosso, ma chi ha speso, come me, due anni del proprio tempo in ricerche d'archivio per poter pubblicare un volume come quello di cui sono autore, e che Lei ha attentamente letto, credo meriti di essere quanto meno citato come fonte di ciò che si pubblica sulla rete.
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