Adrano (Catania) - Il Museo Reg. "Saro Franco" all’aperto per riscoprire la propria identità, i propri valori culturali e riflettere sul linguaggio dell’ambiente.



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Indice:
La Ricerca Archeologica nel tessuto urbano di Adrano;
Nella ceramica a figure rosse rinvenuta ad Adrano ci sarebbe l’arte del “Pittore di Adrano”.
La storia della Ricerca Archeologica nel Territorio di Adrano (Umberto Spigo – Alida Rosina Maretta D’Agata):
1. Contrada Fontanazza/Fontanazzi (Prof. Mara Guerri);
2. Contrada Zorbo (?);
3. Poggio dell’Aquila – Villaggio dell’Età del Rame - Dott.ssa Gioconda Lamagna;
Capanna di Contrada “Serro di Scarvi” – Troina (Enna);
Sito Neolitico di Serra dell’Arco - Milena (Caltanissetta) – (Cenni);
4. Le Gotte Maccarrone e Pellegriti.
Lo straordinario Teatro di vita della grotta Pellegriti;
5. Insediamenti (facies Castelluccio) di contrada Fogliuta, dei predi (fondi) Sapienza e Garofalo della grotta Pietralunga (cenni);
6. La Valle delle Muse – L’ara dei Palici? – La Chiesa di Santa Domenica – Il principe sicano Telio e la figlia Etna – Il matrimonio di Etna con Falaride, tiranno di Agrigento – I capitelli del Mendolito – Il tumulo funerario di Dowth, nei pressi di Dublino – Archia e i “Cilliri”  – I traghettatori del Simeto: i  “Cilliri”;
7. Sorgente delle Favare;
8. Ripostiglio di Bronzi,  fondo “Ciaramidaro” – Alcuni reperti acquistati da Paolo Orsi per il Museo di Siracusa - - Cuspidi di lance – Frammenti di recipienti in lamina di bronzo -  Lingotti discoidali a calotta;
9.  Le Necropoli di contrada “Ardichella” e di Sciare Manganelli –
a.     La placchetta rettangolare (magica) egizia di contrada l’Ardichella;
b.     Scarabeo – Necropoli di Sciare Manganelli (tomba circolare n. 16);
c.      Scarabeo - Necropoli di Sciare Manganelli (tomba circolare n. 14);
d.     Scarabeo - Necropoli di Sciare Manganelli (tomba circolare n. 16);
e.      Scarabeo -  – Necropoli di Sciare Manganelli (tomba circolare n. 5);
f.      Placca rotonda convessa - Necropoli di Sciare Manganelli (tomba circolare n. 16).
Riferimenti: Naukratis – Alionello (Matera) – Le ricerche di Paolo Orsi nelle Sciare Manganelli - - Centuripe (contrada “Casino”) – Monte Bubbonia – Luigi Pigorini e Paolo Orsi – Paternò (contrada San Marco) – Catania (Canalicchio – Monte San Paolillo) – Messina, una tomba circolare e altri rinvenimenti funerari); 
10. Zone ricadenti nel Comune di Adrano sottoposte a Vincolo di interesse Archeologico.
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La zona archeologica di Adrano conserva ancora una cospicua parte della polis di Adranòn, fondata da Dionisio (Dionigi), detto “il vecchio”, nel 400 a.C.
La cittadella era munita di possenti mura difensive ancora per un lungo tratto ben conservate, dalla rocca Giambruno alla contrada Buglio. 
Le fonti citarono Adranon nel periodo tra i due Tiranni (Dionisio I – Dionisio II), la rinascita timoleontea della metà del IV secolo a.C. e l’età agatoclea (317 a.C. – 289 a.C.).
La polis greca fondata di Dionigi “il Vecchio” nel 400 a.C. fu localizzata a Sud della Via Catania.
Imponenti sono i resti del muro di cinta della cittadella, che parte da via Catania, contrada Buglio e arriva all'enorme baratro, chiamato "Rocca" dagli abitanti di Adrano. Lo scavo della Sovrintendenza riportò alla luce un'abitazione con un pregevole pavimento che fu restaurato e collocato nel museo archeologico.
La Soprintendenza sistemò la contrada Buglio per valorizzare l’antica cinta muraria di levante che dovrebbe costituire l’ingresso all'area archeologica. Il resto dell'area è tuttavia utilizzata per attività agricole intensive ed è minacciata dall'espansione edilizia e dall'opera dei tombaroli.


Resti di abitazioni  O
Il tracciato delle vecchie mura non più esistenti ------



La torre addossata di S. Francesco in una immagine estratta dall’Annuario di archeologia dal titolo “Notizie dagli scavi”, 1915, (pag. 229) a corredo del testo dedicato alle mura di Adranon del famoso archeologo Paolo Orsi.

La Torre oggi, parte delle mura dionigiane.


Una parte dei resti del tracciato murario in c.da Cartalemi-Difesa, ancora oggi esistenti (fronte orientale). Foto dell’autore prof. Branchina, 2008.


Disegno in sezione di un tratto delle mura di Adranon (in alto) e schema in pianta di una postierla, da una illustrazione estratta dall’Annuario di archeologia dal titolo “Notizie dagli scavi”, 1915, (pag. 228) a corredo del testo dedicato alle mura di Adranon del famoso archeologo Paolo Orsi.



Purtroppo la mancanza di fondi, i terreni di proprietà privata e destinati ad una agricoltura intensiva
impediscono qualsiasi attività di ricerca.
Un altro  aspetto condizionante l’attività di ricerca sarebbe legato alla forte espansione edilizia senza
nessun controllo e quindi in mancanza di relative concessioni edilizie.
La zona da sempre è soggetta all’azione dei tombaroli molto numerosi nella zona etnea.
Il mercato dell’antiquario in questa zona (Paternò, Adrano, ecc)  è da sempre molto florido.
I tombaroli si permettono il lusso, come accade in altri comuni etnei, di mantenere anche dei
guardiani nelle aree soggette agli scavi clandestini.
Durante gli scavi di fondazione degli edifici, per lo più abusivi, furono riportati alla luce acquedotti,
mosaici e altri manufatti che dimostrarono l’esistenza di un abitato ben strutturato e vitale.
La  Sovrintendenza operò degli scavi tra mille difficoltà, definiti scavi di emergenza, con recuperi
spesso fortunosi e con complessi contenziosi con i privati.
Una attività che permise di acquisire elementi importanti per una possibile ricostruzione del tessuto
urbano di Adranon. Un tessuto urbano caratterizzato, dal punto di vista planimetrico, da una maglia
regolare ortogonale.
Non si raggiunsero quelle cognizioni sulla dimensione degli isolati anche se alcune ipotesi furono
avanzate grazie alle indagini delle prospezioni che furono effettuate dal Lerici nel 1986.
Grazie a questa intensa attività di difesa del patrimonio archeologico della città, si hanno oggi a
disposizione numerosi elementi per la ricostruzione dell'antico impianto urbano, caratterizzato
di una maglia regolare ortogonale. 
Furono individuati due assi viari, orientati in direzione Nord/Sud.
Il primo asse, con una larghezza di circa 8 metri, era probabilmente una delle strade principali e
presentava sul bordo orientale una canaletta per il deflusso delle acque. Una canaletta realizzata in
blocchi di pietra lavica. Riportare alla luce l’intero asse viario era un sogno purtroppo irrealizzabile
per le condizioni reali dell’ambiente. Furono quindi portati alla luce due distinti segmenti della
strada:
-        A Sud dell’odierna Piazza Dionigi “il Vecchio”, in proprietà Bertolo e Lazzaro Di Guardia, negli
scavi del 1981-82 e forse anche in proprietà Battiati (scavi 1983). La pavimentazione del piano
stradale (nel tratto individuato in propr. Lazzaro) era costituita da tritume lavico compattato e misto
a terra su un vespaio di pietrame.
-        Il secondo asse, a circa 170 metri di distanza ad Ovest del primo, è venuto in luce in due tratti,
rispettivamente: in proprietà La Naia (scavi 1984-1985) e Schillaci (scavi 1998). In quest'ultimo
terreno (un lotto di completamento stretto tra due condomini in pieno quartiere abusivo) il piano
stradale fu rintracciato per una lunghezza di circa 16 m.
-        Parte di un terza strada ad andamento Nord/sud fu individuata ad ovest della prima nel saggio
Bua (scavo 1995). Le strutture edilizie qui scoperte si potrebbero riferire ai prospetti di due distinti
edifici ai lati di uno spazio viario.
Nessuna traccia fu invece trovata delle strade, ortogonali alle prime, che dovevano attraversare la
città in senso Est/ovest.


Planimetria generale degli scavi eseguiti nel 1981-82 nella proprietà Lazzaro-Di Guardia.
A sinistra il tratto di strada delimitato sul bordo da una canaletta di pietra lavica.
A destra parte della casa “B”.
(Disegno di Umberto Spigo, 2009)
A causa delle difficoltà di ricerca, già citate,  non si riuscì ad indagare per intero una abitazione dell’antica Adranon. Furono indagati solo dei resti parziali che comunque permisero agli archeologi di proporre delle ipotesi architettoniche sul tipo di abitazione presente ad Adranon.
Dal punto di vista planimetrico le case erano costituite da vani che erano disposti attorno ad un ambiente maggiore, forse un cortile. Uno schema che trovava analogie con altre città siceliote secondo uno schema diffuso tra la fine del IV ed il III secolo a.C.
La Casa di Piazza Dionigi il Vecchio mostrava infatti una chiara sequenza di cinque vani, affiancati e rivolti a mezzogiorno su un ambiente che presentava una pavimentazione con lastre di terracotta.

Planimetria generale della Casa di Piazza Dionigi il Vecchio
Scavi del 1986 effettuati da U. Spigo 
Secondo l’archeologo Spigo, autore degli scavi, il locale maggiore era forse un “andron”.
L’Andron (Ἀνδρῶν-ῶνος) o Andronitis, era la zona dell’abitazione riservata agli uomini e che era opposta al gineceo ((gunaikeion), riservato invece alle donne.
Nell’andron si svolgeva il simposio e per questo motivo il locale era arredato con tavoli, lettini e anche opere d’arte.
Lo stesso archeologo propose una seconda ipotesi per l’ambiente maggiore. Forse un “pastas” cioè un loggiato coperto dove si potevano svolgere i lavori di casa all’asciutto quando pioveva e all’ombra nel periodo estivo. Il tetto del porticato poggiava su pilastri o colonne.
Le fondazioni delle case poggiavano sui basalti colonnari che venivano spianati e regolarizzati  per garantire un piano d’appoggio perfetto alla casa.

Resti di abitazione in proprietà Salines
(Scavi 1995)
I muri furono realizzati con l’impiego di grossi blocchi irregolari di pietra lavica mentre gli interstizi furono riempiti con pietrame minuto. Per consentire una migliore stesura degli strati di intonaco la faccia interna delle pareti fu rinzeppata con frammenti minuti di tegole e cocci.
L'elevato era probabilmente di mattoni crudi, tecnica molto diffusa nei siti ellenistici della Sicilia e della Magna Grecia. (Stranamente non fu isolato, almeno fino adesso, alcun strato riferibile al crollo di murature a crudo). Le coperture erano realizzate in laterizi.
Le pareti delle abitazioni erano spesso dipinte?
La risposta sarebbe affermativa perché furono rinvenute, nei siti di scavo, tracce di intonaco di vari colori sui muri (casa in proprietà Bua e in proprietà Salines, scavi del 1995) o nei crolli all’interno dei vani (casa B  in proprietà Zuccarà, Marcellino, Schillaci).
I pavimenti erano realizzati con semplici strati di terra ed argilla, opportunamente pressati e compattati dall’uso.
Importante fu il rinvenimento, durante uno sbancamento abusivo eseguito nel 1980 in via Grosseto, di un pavimento in “opus signinum” in numerosi frammenti.
Il frammento più grande recava all’interno di una piccola “tabula ansata” una iscrizione di augurio
XAIPE.

Probabilmente l’abitazione apparteneva ad un nobile.
All’interno della stessa casa o di un’altra appartenente al medesimo isolato ( nella proprietà Lazzaro-Di Guardia, scavi del 1981) fu individuato un locale di servizio con una vasca da bagno di terracotta a semicupio.
Vasca a semicupio.
Monasterace, III (seconda metà) secolo a.C.
Realizzata su tre livelli, aveva un sedile e un poggiapiedi davanti al quale
era situata una piccola conca per raccogliere l’acqua
Materia e Tecnica: Terracotta
Misure: altezza, 54 cm – lunghezza, 109 cm (1,09 m) – larghezza, 62 cm

La presenza della vasca da bagno indicava la presenza di un ambiente per la cura e l’igiene del corpo.
Il discorso è ancora più difficile per le necropoli da sempre colpite sia dall’abusivismo edilizio che dai tombaroli. 
Negli ultimi anni, con grande impegno, la Sovrintendenza riuscì a raccogliere qualche elemento importante per svelare le tipologie tombali, i riti funerari e le fasi cronologiche delle necropoli di Adranon.
Nella Necropoli occidentale, posta nei pressi della Chiesa di Sant’Alfio, lo scavo del 1978 riportò alla luce delle strutture dell’età bizantina e medievale oltre ad alcune tombe a fossa e alla cappuccina. Tutte tombe che erano state violate dai tombaroli.

Durante le indagini archeologiche fu rinvenuta, coperta da un coppo, una importante deposizione votiva o forse un corredo esterno, in analogia ad un contesto analogo trovato venti anni dopo negli scavi di piazza Eurelios.
La deposizione era costituita da una coppia di vasi a vernice nera con decorazione sovradipinta e una coppia di vasi acromi. I reperti furono datati tra l'ultimo decennio del IV e gli inizi del III a.C.
Nel 1996 un altro scavo poco distante dal primo, nella proprietà Cono Genova, furono rivenute altre due tombe violate e ben cinque intatte. Due di queste tombe inviolate avevano una copertura alla cappuccina mentre le altre tre erano a fossa semplice.

Necropoli occidentale.
Scavi in proprietà Cono Genova,1990.
Planimetria di uno dei saggi.


Tutte le deposizioni erano orientate in direzione nord-est/sud/ovest. Una delle tombe (la n. 4, del tipo a fossa) apparteneva forse ad un bambino. Dello scheletro si raccolsero, infatti, solo pochi resti della scatola cranica, che presentavano pareti troppo sottili per essere riferibili ad un adulto.
La tomba rinvenuta in migliori condizioni risultò essere la n. 5, con pesante copertura alla cappuccina di tegoloni piani, fermata alla base da un'accurata spalletta di pietre e frammenti di tegole.
Nella tomba furono individuati solo pochi resti ossei, mentre fu interamente recuperato il corredo. La tomba era sicuramente femminile, per la presenza tra i reperti, di vasi da toilette e di un ago da cucito di bronzo.

Ago da cucito - Età finale del Bronzo
a sezione circolare/ testa a placca con il vertice biforcuto e foro centrale
Barumini (Medio Campidano), ca XII sec. a.C. - ca IX sec. a. C
Materia e Tecnica: bronzo/ fusione a cera persa
Misure: diametro, 0,3 cm – Lunghezza, 11,7 cm – Peso, 4 g
La fusione a cera persa era una tecnica che veniva adoperata per la produzione di
oggetti di piccole dimensioni come spilloni, e aghi. Oggetti rinvenuti in strati risalenti
al IX – VIII secolo a.C.
La fusione a cera persa consisteva nel creare un modello di cera che veniva
adoperato per fare uno stampo in argilla. Nello stampo venivano praticati due fori,
uno in alto ed uno in basso. Si faceva uscire la cera scaldando lo stampo per poi versare
del bronzo fuso al suo posto. Si ricavava un modello identico a quello della cera.

La necropoli orientale era sita ad Est del braccio orientale della fortificazione, nella odierna contrada Difesa-Vigna di Corte.
La necropoli era nota fin dal XIX secolo ma era documentata solo attraverso degli sporadici rinvenimenti.
I primi dati importanti furono raccolti solo nel 1998 grazie ad uno scavo per la posa di una fognatura in piazza Eurelios.


Nela piazza fu quindi isolato un lembo della necropoli di levante dell’antica Adranon. 
Un gruppo costituito da dieci sepolture di varia tipologia e databili dal 325 al II secolo a.C.
La tipologia delle sepolture:
-        Ad inumazione con copertura alla cappuccina;
-        Ad inumazione con pietrame tampognato ( la chiusura della sepoltura con un telaio) con calce;
-        ad inumazione nella nuda terra;
-        ad incinerazione dentro cassa di mattoni crudi e copertura di tegole piane.

Parte della Necropoli Orientale – Piazza Eurelios (scavi del 1998).
La tomba n. 2 a fine scavo. Al centro il piano di posa con tracce di combustione e
i resti della parete est costituita da mattoni crudi.
Foto di S. Amari.
Vicino alla tomba n. 1 fu rinvenuto un corredo esterno forse da collegare ad una deposizione votiva come nella necropoli occidentale. 
Un corredo costituito da pochi oggetti coperti da un grande tegolone ricurvo che li proteggeva.

Adrano – Piazza Eurelios
Parte della necropoli orientale
Il corredo esterno della tomba n. 1
Foto di S. Amari

Adrano – Piazza Eurelios.
Pisside globulare rinvenuta nella tomba n.8
Nel 1999, a poche centinaia di metri a Sud-est di Piazza Eurelios, in un terreno adiacente la nuova Caserma dei Carabinieri, furono rinvenute in un saggio quattro deposizioni nella nuda terra. Deposizioni che erano poste a quote diverse.


Due sepolture erano intatte mentre le altre due erano rovinate dai lavori agricoli effettuati sul terreno.
Sepolture che erano prive di corredo.
 
In merito agli edifici pubblici e religiosi le notizie sono scarse.  Le ricerche della Sovrintendenza, almeno fino adesso, non hanno dato esiti positivi.
La presenza della stipe votiva, trovata nell’area dell’ex Monastero di Santa Maria di Gesù posta vicino al Castello Normanno, sarebbe un indizio importante per affermare come nella città di Adrano fosse presente un importante luogo di culto.
Un luogo di culto dedicato al dio Adranos?
Sull’ubicazione del tempio, anche in questo caso, non ci sarebbero precisi indizi.
Rimane un’illustrazione tratta da un volume di Sangiorgio Mazza:
il luogo in cui sorgeva il prsunto tempio del Dio Adrano.
“Storia delle città di Adernò” stampato nel 1820.
Il capitolo n. 6 sarebbe dedicato al tempio di Adrano.

Malgrado il grande impegno della Sovrintendenza dell’antica Adranon solo resti sporadici. Un vero peccato perché nelle viscere dell’odierna città si sarebbero sicuramente delle antiche vestigia.  Un grande rammarico per un patrimonio culturale perduto.  Sicuramente nei moltissimi e incontrollati lavori edilizi molti reperti andarono perduti e chissà quanto venduti nel mercato dell’antiquario.
Una lunga cinta muraria che si adattava in modo perfetto all’andamento altimetrico del terreno e che lasciava sguarnita solo la inaccessibile Rupe Giambruno, detta dagli abitanti di Adrano “la Rocca”.
Gli archeologi avanzarono delle ipotesi sullo sviluppo lineare della cinta muraria.
Una muro lungo circa 5 km e che racchiudeva al suo interno una città che occupava circa 60 ettari.
Il tratto meglio conservato, come evidenziato dalle planimetrie, è quello orientale posto nella contrada Difesa e che si sviluppa , con andamento a linea spezzata (lunga circa 600 metri), fino a raggiungere il burrone sul limite della contrada Giambruno.


L’antico muro di cinta.
Il pietrame sovrastante fu messo in opera in tempi recenti dai contadini durante
lo spietramento dei terreni.


La Sicilia  fu teatro dell’attività di grandi archeologi tra cui Luigi Bernabò Brea.



L’attuale stato di conservazione di un tratto delle mura, si deve al programma di tutela che fu varato proprio per volontà del Bernabò Brea.
Il suo piano riuscì a sottrarre le mura ai danni dell’espansione edilizia incontrollata e ne ha consentito il mantenimento all’interno di un paesaggio agrario ai limiti della zona urbana.
Del braccio settentrionale delle mura si riuscì a salvare la torre quadrangolare, già citata nelle ricerca, presso la chiesa di San Francesco. Una torre sommersa dalle costruzioni e che si riuscì a conservare in discreto stato grazie al collegamento con la chiesa come cappella laterale.
In merito alle mura occidentali, nel 1970 fu rinvenuto un tratto fra le vie della Regione e del SS. Cristo. Un tratto che fu distrutto dalle costruzioni abusive.


Le mura furono edificate con pietrame lavico e presentano uno spessore di circa 3,30 metri. Uno spessore misurato in alcuni punti che presenta in modo visibile la sezione (in alcuni tratti si trovano inglobate all’interno di muri di confine o di terrazzamento, entrambi di età moderna, che ne rendono difficile la lettura).
Presentano un doppio paramento costituito da blocchi parallelepipedi e con riempimento interno di piccole pietre e terra.
Una costruzione ben eseguita dato che  nei filari esterni sono presenti dei blocchi di pietra lavica disposti,  in modo alternato, di fianco e di coltello. Una tecnica che garantiva, grazie ai blocchi posti di coltello, l’ancoraggio di questi al riempimento interno ottenendo nel muro una maggiore solidità ed elasticità.

Malgrado il vincolo di tutela alcuni blocchi del muro di cinta furono prelevati ed impiegati in via Tagliamento nella costruzione della fondazione di un edificio moderno (1991).
Nel muro sono presenti dei blocchi con incisi i segni della cava da cui furono asportati.
In modo particolare  due di essi presentano:
una zeta ed una epsilon legate insieme;
una tau.
Sono segni visibili sul paramento esterno del muro, nel tratto più prossimo allo strapiombo della Rupe Giambruno.
Sono contrassegni legati all’attività dei cantieri estrattivi. Sono simboli o marchi comuni presenti nelle fortificazioni della Magna Grecia, in particolare dal IV secolo a.C.

Blocco lavico del muro di cinta, paramento esterno.
Legature di zeta ed epsilon.

Blocco lavico del muro di cinta, paramento esterno.
Marchio di cava Tau

Nel muro sono presenti delle fasi costruttive differenti.
Tratti che furono messi in opera con paramenti di blocchi grossolanamente squadrati disposti su filari irregolari  che si alternavano ad altri con pietre più regolari allineate su filari rettilinei.
Le indagini stratigrafiche permisero di evidenziare due differenti fasi costruttive nel tratto di mura prossimo alla Via Catania.
Il muraglione a grandi blocchi quadrangolari, che prima delle indagini era stato sempre interpretato come il paramento esterno della cortina originaria, costituiva  almeno per il tratto esplorato, una possente opera di rinforzo che venne addossata ad un antecedente e ovviamente più antico muro, occultandolo completamente.
La datazione del muro di cinta?
Sarebbe da collocare alle fasi della nascita della città nel 406 a.C., secondo le fonti di Diodoro Siculo, ad opera di Dionigi il vecchio.
Nel 1989 lo svedese Lars Karlsson ipotizzò, mediante confronti con altre fortificazioni dell’epoca,
la costruzione della Torre di S. Francesco al volere dello stesso Dionigi così come la costruzione del muro di cinta con paramenti esterni con blocchi non perfettamente squadrati.
La restante costruzione dell’opera muraria, si trattava di un rifacimento dell’opera, fu invece datata cronologicamente all’ultimo terzo del IV secolo a.C.
La datazione delle varie fasi di costruzione del muro non è ancora certa.
Un impianto iniziale dionigiano o da collocare successivamente.
I resti dell’abitato  evidenziarono una datazione tra la seconda metà del IV secolo a.C. ed il II secolo a.C.
Al II secolo a.C. sarebbero da collocare la  seconda fase della casa F e la tomba n.1 di piazza Eurelios.
I rinvenimenti archeologici relativi alla data ufficiale della nascita di Adranon del 406 a.C. sarebbero ancora oggi rari.
Ci sarebbe quindi una contraddizione tra i dati archeologici  e la letteratura storica di fondazione.
Forse il centro nacque come avamposto militare per il controllo del territorio ?
Solo in una fase più tarda subì un processo di urbanizzazione?

Adranon potrebbe essere paragonabile ad alcuni siti "d'altura" della Sicilia ellenistica (Solunto, Tauromenion, Termae Himerenses, Halesa e la stessa Tindari, l'altra città fondata da Dionigi il Vecchio) in cui la tradizionale data di nascita dell'insediamento è sensibilmente differente dal periodo di effettivo sviluppo monumentale dell'abitato.
Con queste città Adranon avrebbe in comune il periodo di fondazione (per quasi tutte l'età dionigiana), nonché le caratteristiche militari del primo nucleo insediativo. La mancanza di fasi successive al II secolo a.C. (perlomeno a giudicare da quanto finora riscontrato) farebbe propendere per una contrazione o un abbandono del sito dopo l'età repubblicana.
Nell'età imperiale si verificò lo sviluppo di un nucleo abitativo.
Un nucleo abitativo del quale non si conoscono le caratteristiche e la relativa estensione ad oriente dell’Adranon greca.
La presenza delle terme, forse di età tardo-imperiale, e i ritrovamenti di mosaici pavimentali in bianco e nero effettuati a seguito di scavi abusivi, quindi mai verificati perché scomparsi, permetterebbe di collocare in contrada Minà Capritti un insediamento di età imperiale che dovette mantenersi in vita anche in età bizantina, come provano i numerosi ritrovamenti databili tra il V e l’VIII sec. d.C. conservati al Museo regionale di Adrano.



Adranon era un centro molto ricco e dinamico valutando la sua produzione di ceramica e di
materiale coroplastico.
Metalli, piccoli gioielli, oggetti d'osso ed altra minuteria  inquadrarono nel centro una produzione
molto diversificata.
La ceramica figurata, segnalata negli scritti dell’ 800 di antiquario, con una produzione di prestigio.
Basterebbe fare riferimento a due pregevoli opera di ceramica che purtroppo si trovano nei musei
all’estero:
-        la pisside skypoide siceliota di Adrano con scena di preparativi nuziali- Mosca, Museo Archeologico.
(?)
-         la olpe di Leningrado con la raffigurazione di Eracle ubriaco con menadi e satiri, una delle opere di maggiore spicco dell'intera produzione figurata siceliota.



Nel 2005 la Dott.ssa Gioconda La Magna pubblicò i risultati della sua decennale ricerca nel
territorio di Adrano e sulla produzione locale di ceramica a figure rosse. Dall’interessante studio
emerse un’ipotesi molto suggestiva e importante:
nella polis di Adranon esisteva un’officina ceramica dove si produceva una tipologia di vasi dalla
forte impronta locale.
La sua ricerca si basava sullo studio dei vasi e relativi frammenti raccolti nel museo di Adrano e
sulle relazioni di altri archeologi sui vasi custoditi nei musei internazionali, ma provenienti da
Adrano.
Il primo a far cenno delle ceramiche trovate ad Adrano fu il preposto Petronio Russo che riferì di
un lebete siceliota ritrovato in contrada Mendolito, che definì cumano, ma finemente pitturato con
una figura femminile che attribuì alla Sibilla, ma che poi l’archeologo Trendall attribuì al pittore di
Cefalù. Riferì inoltre del notaio Galizia che aveva una collezione vasta (“più di mezzo migliajo di
pezzi”) di vasi cumani (sicelioti del IV secolo a. C.) ed etruschi (VI e V secolo a. C.) provenienti da
Adrano. 
La sua attenzione si rivolse anche ai due vasi sicelioti  conservati in Russia, ma provenienti, secondo
la tradizione, da Adrano:
-        la pisside skyphoide 510 di Mosca, con scena di preparativi nuziali;
-        la notissima olpe di San Pietroburgo 2079 (W. 1065) decorata con la rappresentazione di Eracle ebbro alla porta in compagnia di satiri e menadi.
 L’archeologa avanzò l’ipotesi di una
“fabbrica di vasi figurati ad Adrano”.
Arthur Dale Trendall fu uno dei primi a compiere uno studio sistematico sui vasi provenienti da
Adrano r li classificò individuando un
“gruppo di Adrano” che fa appartenere al “gruppo Etna”
(Paternò, Centuripe, Adrano, Randazzo e Agira), cui fanno parte pure i vasi custoditi nei musei
menzionati, ma non fece cenno a una possibile fabbrica di ceramiche ivi localizzata.
L’archeologo Umberto Spigo, dirigente del museo di Siracusa, approfondì meglio la questione,
rivendicando per Adranon un ruolo  non marginale nella produzione di ceramiche a figure rosse in
età timolontea e Agatoclea. Riconobbe una specificità adranita in alcuni ceramografi e anche nel 
pittore di Biancavilla.
Le analisi di questi archeologi e storici d’arte furono di natura stilistiche e meriterebbero una
conferma archeologica, benché una pisside  globulare di questo stile sia stata rinvenuta nel 1998
negli scavi di piazza Eurelios e altri frammenti in via De Felice e Via SS. Cristo. 

Adrano – Piazza Eurelios.
Pisside globulare rinvenuta nella tomba n.8

Anche se non fu trovata una fabbrica, come a Gela, si potrebbe applicare, a parere dell’archeologa,
uno studio tecnico-stilistico simile a quello condotto da Bernabò Brea su ceramiche figurate
rinvenute a Lipari.
E quindi muovendo su argomenti indiziari, da verificare sul campo, quali l’esistenza di una città
florida in età Timolontea, il rinvenimento di tratti di strade, pavimenti musivi, pezzi di fusione,
matrici per fabbriche di statue fittili e uno stile caratteristico nei disegni nel vasellame, Gioconda La
Magna ipotizzò l’esistenza di una fabbrica con artigiani che svilupparono una tecnica e uno stile
specifico.
 Una conferma sarebbe il gruppo di ceramiche che Trendal attribuì al 
pittore ZA,
ovvero vasi custoditi a Zurigo ma provenienti da Adrano (ZA).
Quali sarebbero questi elementi stilistici ?
L’archeologa sostenne che:
Veri “motivi firma” possono definirsi in questo caso il disegno del mento ampio e robusto (ben distinto, grazie ad una profonda fossetta, dalle labbra particolarmente carnose e sporgenti) nonché il modo di rappresentare le narici (un tratto di vernice nera a forma di virgola) e quindi la resa dell’occhio assai caratteristico per la presenza di due brevi tratti uniti ad angolo acuto al posto della palpebra superiore. Particolare, all’altezza delle tempie e dell’orecchio, è certamente il ciuffo di capelli che termina in due o tre gruppi di boccoli ben distinti, così come da notare, oltre la decorazione a fasce bianche sul copricapo, è la presenza di una larga benda bianca sulla fronte alla quale si accompagna un orecchino dello stesso colore costituito da un elemento a forma di punta di lancia seguito da una perlina rotonda.




Lekanis
Catania – Museo Civico “Castello Ursino”.
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La Storia Della Ricerca Archeologica Nel Territorio Di Adrano
di:
Umberto Spigo – Alida Rosina Marotta D’Agata
Anno 1984
Nel 1781 Ignazio Paternò di Castello, principe di Biscari,  riportò i risultati di un’attenta e
dettagliata ricognizione delle vestigia della Adrano greca e romana ancora visibili:
-        tratti della cinta muraria dionigiana in contrada Cartalemi e presso la chiesa di S. Francesco,-        resti attribuiti al tempio del dio Adrano;
-         terme romane nel fondo del dr. Pietro Pulia (poi contrada Camini) ora non più visibili;
-         sepolcro di età romana, coperto con volta a botte, in contrada Damuso (tuttora visibile nel fondo attualmente di proprietà Schillaci);
-        Basamento quadrangolare in blocchi squadrati di pietra lavica, presso la Chiesa di S. Maria delle Salette (recentemente rimessa in luce).

Frontespizio del volume “Viaggio per tutte le antichità della Sicilia”, del 1781. 

Il principe, grande appassionato di archeologia, verso la metà del ‘700 riuscì a raccogliere
moltissimi reperti che espose in un’ala del suo palazzo. Reperti che venivano ammirati dai visitatori
anche stranieri.
Possedeva molte proprietà terriere, in gran parte pianeggianti, tra cui una posta vicino al fiume
Simeto, in contrada “Ragona”.
Dove si trova la contrada “Ragona”?
Il termine “Ragona” equivale ad Aragona. La contrada era attraversata dal grande acquedotto
(Acquedotto di Biscari) che il principe fece costruire nel 1765-1776.
Costruito a circa 1 km dalle campagne del Mendolito, convogliava in un condotto chiuso le acque delle sorgenti delle "Favare", presso Santa Domenica, per dirigerle verso il feudo di contrada Ragona o Aragona.
Attraversava il fiume Simeto nel “Passo della Carruba”, in contrada Cimino, nel territorio tra i Comuni di Adrano e Centuripe.
I bellissimi archi ad ogiva dell’acquedotto sarebbero la testimonianza dell’antica costruzione che fu citata e rappresentata in un bel disegno del viaggiatore Jean Houel. Nel 1871 l’acquedotto crollò a causa di forti eventi metereologici e successivamente ricostruito.
Grazie al ponte-acquedotto, concepito dal principe per portare per portare le acque di sorgente dal lato sinistro a quello destro del fiume, trasformò i suoi terreni in risaie.



Il primo mulino in basso ed adiacente al fiume Simeto è il “Mulino d’Aragona””.
Il secondo, in alto e sempre adiacente al fiume” è un altro mulino di cui non conosco la denominazione


Il principe fece la descrizione delle antiche rovine di Adernò tra cui quelle delle terme romane.
Terme oggi non più esistenti e la presenza dell’edificio termale fu testimoniata anche dai disegni dei viaggiatori stranieri del ‘700 e dell’80.
Le antiche terme romane in una stampa pubblicata nell’opera di Ignazio Paternò di Biscari “Viaggio per tutte le antichità della Sicilia”, del 1781

“…scendendo da Centoripi guardera’ il fiume Salso, e traversera’ il feudo di Aragona, fino a che arriverà al fiume Simeto. Qui’ troverà il moderno ponte, che sostiene un alto acquedotto, e conduce le acque per la coltura di questo feudo. Sopra esso passando scanserà il pericoloso passaggio del fiume; entrerà nel territorio di Adernò, ed a due miglia di distanza troverà la città con numerosa popolazione, e civile. Osserverà nel centro di essa una bella torre dè tempi normanni, che fu’ l’abitazione dè suoi conti, ed oggi serve per car­cere dè malfattori. Ma presto andera’ in rovina si’ bello edificio, non venendo curato per la lonta­nanza del suo padrone.
Esistono ancora varj considerabili pezzi delle antiche mura, che a se chiameranno l’attenzione del nostro viaggiatore; e ne osservera’ un buon pezzo nell’orto di d. giuseppe reali; altro dietro il convento di S.francesco; un gran tratto se ne vede nel luogo chiamato di corta­lemi, oggi di dome­nico dell’erba;ed in altri diversi siti. Magnifica è la costruzione di essi, essendo interamente for­mati di grosse pietre di lava, ben riquadrate, e con­nesse senza calce. Sono palmi sedici grosse, e l’esteriore dell’ultimo soprannominato pezzo si stende più di canne cento; ed erano queste mura di tanto in tanto for­tificate di quadrate torri.
Celebre, se non grande, fu il tempio del dio Adrano, che in questo luogo religiosamente si ve­nerava; e vuole Diodoro (lib. 13.) Che dionisio re di Siracusa, fondando questa popolazione, le dasse il nome di questo tempio.
Dionysius in Sicilia oppidum sub ipsum aEtnam montem consti­tuit, quod ab insigne
quodam fano adranum vo­cavit.
Dal che deducesi, che questo tempio sia stato più antico della stessa città; la quale in tempo, che scrisse Plutarco la vita di timoleone, non era ancora arrivata a quel grado di grandio­sita’, che mostrano i suoi monu­menti.
Dice questo autore parlando degli adranitani, secondo la in­terpretazione di antonio tudertino :
hi enim par­vam urbem habitantes,(.. .) Deum adranum, qui ma­ximo in honore per universam Siciliam habe­batur, colen­tes, intestinas seditiones agitavere.
poiché questi, abitando in una piccola città, (.. .) adorando il dio Adrano, che era tenuto nel massimo onore in tutta la Sicilia, fomentavano sedizioni interne.
Se cerchera’ il viaggiatore alcun vestigio di questo tempio, gli sara’ mostrato un robustissimo pezzo di gran fabrica, costrutto di smisurati sassi riquadrati, ed ogni strato di questi ritirandosi un palmo, mostra, che possa essere un forte riparo per sostenere l’appoggiato ter­reno, sopra il quale potè essere alcun considerevole edificio; e vuole la volgare tradizione del paese, che un avanzo questo sia della rovina del tempio del dio Adrano.
Non pochi sono i monumenti, che in questo contorno il forastiero potra’ osservare, e da essi giudicare della floridezza dell’antico Adrano. Un testimonio non indiffe­rente potra’ quindi non lungi osservare in una possessione del dott. D. Pietro pulia, chiaro monumento della magnifi­cenza adranitana. Vedra’ qui’ gli avanzi di grande edificio, del quale ne resta non poca elevazione. Consiste in una grande stanza quadrata, lunga palmi sessanta, e larga 30. Le mura laterali ester­namente sono adornate di pilastri, e di archi for­mati di grossi mattoni, che risaltano dalla faccia del muro; dè quali è pari­mente esso ricoperto, formando un grazioso prospetto. Le testate però sono fabbricate di grosse riquadrate pietre di lava, in una delle quali è la porta, che guarda l’occidente; e nella parte opposta vedra’ una gran tri­buna, in ogni lato della quale nella parte in­terna osser­vera’ due nicchie, che forse contennero due statue. Un muro a distanza di palmi 12. Della riferita tribuna, divi­dea il gran vano, conoscen­dosi ancora, che il pavimento di questa minore stanza era sospeso da terra, si’ per lo sesto lasciato nel muro, si’ ancora per una bassa aper­tura, che comunicava in tale basso sotterraneo, per cui il viaggiatore conoscera’ essere questa fabbrica un bagno, e la stanza avanti la tribuna essere stata la stufa; e che quel sotterraneo per via dell’apertura suddetta ricevea il calore del fuoco acceso nella fornace forse nella parte esteriore.
Senza allontanarsi da questo luogo, nella stessa pos­sessione esistono gli avanzi di bello si, ma non grande edifizio. Egli è di molta solidita’, ed era tutto ricoperto di riquadrate pietre, oggi tolte in gran parte. Quattro picciole volte formavano l’ordine inferiore; ma tre sola­mente ne riman­gono. Sopra queste sono le rovine di una cella di palmi 16. Di larghezza, e palmi 18. Di lunghezza, che occupa lo spazio di due sole volte di mezzo; re­stando attorno ad essa una spaziosa galleria larga palmi sette. Resti in liberta’ del viaggiatore lo indovinare a quale uso questa fabbrica potesse essere stata destinata.
Nell’uscire dalla città ricerchi il viaggiatore in una pianura vicino il convento dè cappuccini, ove trovera’ un quasi intero sepolcro di robusta costruzione, formato tutto di grosse pietre riqua­drate; la di cui porta è for­mata di quattro soli in­teri pezzi, ed è coperto di soda volta a botte, ma rotta in qualche luogo. Nel suo interno dalle parti laterali ha due nicchie per parte, da riporvi le olle cinerarie; e quattro sarcofagi di fabbrica occupano la metà del suo pavimento; e nel grosso del muro, che è rotto in faccia la porta, ne vedra’ fic­cato un altro; a cui diversi altri si accostano dalla parte esteriore. Osservera’ il viaggiatore nell’entrare in città una fabbrica quadrolunga, tutta formata di pietre riquadrate, ed in buona conservazione per tutto il corpo inferiore; la quale posteriormente è stata ristorata con moderna fabbrica, e ricoperta, adat­tandola in uso di chiesa dedi­cata a S.maria della scala. Le porte sono moderne, e avanti la maggiore serve di scalino male adattato una gran pietra an­tica , in cui si osserva una incavatura in forma di nicchia, forse usata per riporvi alcuna figura. “
(Ignazio Paternò di Biscari, Viaggio per tutte le anti­chita’ della Sicilia, 1781)

Nel 1844 il notaio Giuseppe Galizia rinvenne nell'area della necropoli (Est) di contrada Difesa alcune tombe con corredi vascolari e monete di età greca poi purtroppo dispersi.
Il notaro Galizia fecendo degli scavi per conto proprio con avidità di ritrovare
qualche tesoro, rinvenne nella necropoli orientale della città presso la contrada Difesa dei molini.
poche monete, moltissimi vasi etruschi, anfore e lucerne, e lacrimiere di terracotta
in foggia svariatissime e grandezze diverse.
La collezione del notaio Galizia fu visionata da S. Petronio Russo che fece in merito una relazione..
(di vasi).. Ve n’erano dei pregevolissini perché storiati o disegnati a danze, taluni
avevano perfino la circonferenza d’un metro circa, e l’altezza di m 0,50.
L’abbian detto: non amor di storia e d’illustrazione fu il movente (della collezione).
Una piccola parte fu venduta da lui stesso a stranieri, che passavano da Adernò;
il resto nel 1848 dagli eredi si venderono perfino a centesimi 10 il vaso,
come giocattoli da fanciulli. Oh sventura! Sventura! Sventura!
Cada sui vecchi reggitori del Comune tanta ignominia!
Oggi di quella collezione,
ricca di più di mezzo migliajo
di pezzi, tra cui
un gran numero di cimeli e di vasi cumani greco-siculi e etruschi
non rimane più traccia se non dalle note del prevosto S. Petronio Russo, padre della ricerca storica ed antiquaria ad Adrano.
Lo stesso S. Petronio Russo segnalò
Vasi e vasetti cumani trovati all’estremo della Difesa dei Molini da Michele Scifo in
terreno calcareo sotto lo strato di tufo


Le note di S, Petronio Russo sono importanti perché consentirono di rilevare la presenza della ceramica figurata nell’antica Adranon.
Sia la conoscenza ceramografica di Petronio Russo che le scoperte archeologiche successive consentirebbero di riconoscere nei “vasi cumani”, rinvenuti dal notaio Galizia, alcuni esemplari di ceramica a figure rosse siceliota del IV secolo. Ceramiche simili ai vasi di provenienza adranita e registrati nelle liste di Arthur Dale Trendall (storico dell’arte ed archeologo).
È bene precisare due aspetti in merito.
Il prevosto S. Petronio Russo aveva delle conoscenze nel campo della ceramica?
Il prevosto, storico e scrittore, Salvatore Petronio Russo (1835/1917) dimostrò di avere una chiara distinzione tra “vasi etruschi” (vasi attici) e “vasi cumani” (vasi sicelioti a figure rosse) ed anche gli strumenti o le conoscenze per impostare un’analisi stilistica delle ceramiche.
Una sua relazione in merito ad un lebete siceliota rinvenuto nella contrada del Mendolito e raffigurante, secondo la sua opinione, la Sibilla….
L’argilla, la forma del coperchio, la vernice, il disegno e il pennello certamente sono cumani, con la differenza che, mentre nella pittura delle faccie muliebri, sia nelle chicchere, sia nelle tazze con coperchio, il pennello cumano è frettoloso, non preciso e rozzo, in quello della Sibilla è più accurato, molto preciso e finissimo.
Il vaso descritto da Petronio Russo, un piccolo lebete, fu inserito da Trendall come opera del
Pittore di Cefalù.
Un aspetto importante è legato agli undici vasi sicelioti provenienti dal territorio di Adrano e che il Trendall inserì nel
Gruppo di Adrano
Molti di questi vasi si trovano nei musei sparsi in Europa….
- L’olpe 2079 di Pietroburgo con la rappresentazione di Eracle ubriaco (LCS, p. 604, n. 104, tay. 237);
- la pisside skyphoide 510 di Mosca (LCS, p. 604, n. 105, tay. 236, 5-6);
- la pisside skyphoide inv. 1 della collezione Portale di Biancavilla (LCS, p. 604, n. 107).
Al Gruppo della Bottiglia di Sydney e al Gruppo di Siracusa 51288 sono state rispettivamente assegnate:
- la pisside skyphoide 4043 di Vienna (LCS, p. 618, n. 224, tay. 241,5; LCS stcppl. III, p. 291, n. 351a);
- la pisside skyphoide 505 di Mosca (LCS, p. 619, n. 228, tay. 242, 3-4).
Ancora ad Adrano furono rinvenuti:
- lo skyphos inv. 12 della collezione Portale di Biancavilla (LCS, p. 629, n. 289, tay. 244, 4);
- le due lekanides di Zurigo, E.T.H. B24 — 25 (LCS, p. 628-629, nn. 281-282, tay. 244, 1-2 e 3 ),

Nel 1896 rinvenimento fortuito, da parte di tale Domenico Sangiorgio Gualtieri, di una testa in marmo di età romana.
Nel 1898 Orsi, accompagnato da Russo, eseguì le sue prime ricognizioni ai tratti superstiti della cinta muraria dionigiana, cui attribuì una lunghezza di circa 5 Km. (Orsi C 1915).
Diversi anni dopo, nel 1911, Orsi svolse una campagna di sgombero dalle sovrapposizioni moderne, c, insieme, di sistemazione e rilievo scientifico della fortificazione Est nelle contrade
Cartalemi e Difesa, tuttora il tratto meglio conservato in elevato ed in lunghezza (lunghezza m. 120 ca.), comprendente anch'esso avanzi di una torre quadrangolare e due probabili postierle (Orsi C 1915).
Analogo intervento venne effettuato, dallo stesso Orsi, sulla robusta torre quadrangolare appartenente al braccio NO della cinta, addossata all'attuale chiesa di S. Francesco (Orsi C 1915).
Fra il dicembre 1913 e il gennaio 1914 durante dei lavori nell’area dell’ex Monastero di Maria e Gesù, posto nel settore Nord-est della città, fu rinvenuta una stipe votiva con reperti datati al IV secolo a.C. furono in parte recuperate molte statuette fittili raffiguranti Demetra e Kore che furono portate dall’Orsi nel Museo di Siracusa.
 Nel 1959 la Soprintendenza Archeologica di Siracusa (gli archeologi Bernabò Brea e il noto preistoricista siciliano Santo Tiné) effettuarono alcuni saggi di scavo  nel settore SE dell'abitato greco, in contrada Difesa, a poca distanza dalle mura dionigiane (proprietà Bua e Castro).
L'archeologo Santo Tinè


Gli archeologi riportarono alla luce i resti di alcune case, con muri di pietre disposte a secco e con interessanti testimonianze della loro organizzazione interna (un pozzo, i resti di un focolare). All'interno, oltre a numerosa ceramica a figure rosse sovradipinta, a vernice nera ed acroma dell'avanzato IV sec. a.C. e della prima metà del successivo, venne anche rinvenuto un cospicuo tesoretto costituito da 107 monete in bronzo, di cui 70 della zecca siracusana di Iceta, tiranno di Siracusa dal 288 al 279 a.C., e 37 della zecca di Pirro.
Sempre nel 1959, durante gli scavi per la messa in opera di una fognature sul fronte Nord in Via Catania, furono riportati alla luce, anche se parzialmente, quattro vani di abitazione. Vani forse contemporanei a quelli scoperti dal Tinè.
Nel 1970 fu rinvenuto casualmente un tratto della cinta muraria occidentale tra  via della Regione e la via del SS. Cristo. Il muro fu abusivamente distrutto.
Nel 1977 la Soprintendenza Archeologica di Siracusa con l’archeologa Paola Pelagatti, fondatrice dell’importante Museo di Naxos, e il prof. Umberto e Spigo effettuarono, a fini di tutela, diversi saggi di scavo in contrada Difesa, nel settore S dell'abitato a ca. m. 100-150 ad Ovest della cinta muraria, in un'area che si rivelò però priva di resti di strutture antiche.
Negli scavi venne raggiunto il banco roccioso a circa 1 metro dal piano di campagna

L’archeologa Paola Pelagatti

Il prof. Umberto Spigo, direttore, nel 2011, del Parco Archeologico delle Eolie, Milazzo e Patti

Sempre nel 1977, sotto un accumulo di pietrame in via Tagliamento, venne scoperto un altro breve tratto di cinta muraria, in precario stato di conservazione.
Nel  giugno- luglio 1978, la Soprintendenza Archeologica di Siracusa (l’archeologa Paola Pelegatti e il prof. Umberto Spigo)   effettuarono una breve campagna di scavo presso l'odierna chiesa di S. Alfio (ex SS. Maria delle Salette), nella  necropoli occidentale posta al di fuori e vicino a quella che doveva essere l’antica cinta muraria Ovest).
Una necropoli colpita dagli scavi dei tombaroli, una piaga gravissima e mai riuscita a debellare, che ha devastato il territorio di Adrano e non solo.
Fu riportata alla luce una robusta struttura quadrangolare che era ancora visibile ai tempi del principe di Biscari che la citò.
Si trattava di una struttura forse di pertinenza dell’importante Monastero Normanno di Santa Lucia che fu fondato nel 1158 dalla contessa Adelasia di Adernò, nipote del Gran Conte Ruggero I d’Altavilla. Un monastero che seguiva la regola dell’Ordine di San Benedetto.



Adrano - Monastero di Santa Lucia
Nella costruzione del Monastero di Santa Lucia furono impiegati molti blocchi che costituivano la cinta muraria della città greca, di un ossuario medievale (riferito forse al suddetto monastero) e dei sottostanti resti di una basilichetta bizantina (superstiti le fondazioni di parte dell'abside e della navata laterale N).


Furono ripulite alcune tombe (terragne ed alla “cappuccina”) che erano state violate. Venne recuperato del materiale ceramico risalente al IV secolo a.C. ed al primo periodo greco.
Fu rinvenuta, perfettamente intatta, sotto la grande struttura  quadrangolare, descritta dal Biscari, una deposizione votiva.
Una deposizione votiva, protetta da una tegola ricurva, costituita da una pelike ed una coppa emisferica su piede sagomato, entrambe a vernice nera con decorazione sovradipinta (sottili tralci d'edera) e da una brocchetta e da una ciotola monoansata acrome.
Nel settembre 1979  iil Nucleo di Pubblica Sicurezza di Adrano effettuò il sequestro di un cospicuo lotto di materiale archeologico. I reperti sequestrati erano costituiti da vasi frammentari,  ceramica a figure rosse, a vernice nera ed acroma, provenienti in gran parte dalla Necropoli Occidentale del IV – III secolo a.C.
Nei mesi di luglio e novembre 1980 la soprintendenza Archeologica di Siracusa ( archeologi: Giuseppe Voza e Umberto Spigo) effettuò, sempre ai fini di tutela, altri saggi in contrada Difesa, all'interno dell'abitato, in tre lotti di terreno ed adiacenti al fondo già esplorato nel 1977. 

L’archeologo Giuseppe Voza

Anche in questo caso, pur recuperando una certa quantità di frammenti ceramici del IV e III sec. a.C., per di più in terreno riportato, non vennero messi in luce né resti certi di strutture murarie (nonostante alcuni cospicui accumuli di pietrame, insistenti però su terreno sterile), né altri indizi probanti di insediamenti abitativi.
Nel novembre 1980, nel corso di uno sbancamento abusivo in via Grosseto, fu recuperato un tratto di pavimento a mosaico (opus signinum) con l’iscrizione
XAIPE
Un mosaico pertinente ad una abitazione di età ellenistica posta nel settore Sud dell’abitato greco.

Nell'ultimo ventennio (1960-1980) vennero segnalati, nell'area urbana moderna e negli immediati dintorni, numerosi rinvenimenti fortuiti (nel corso di lavori stradali, edilizi o agricoli) di reperti mobili, consegnati dai rinvenitori al Museo Archeologico di Adrano o direttamente recuperati dal Conservatore Onorario S. Franco.
Fra i rinvenimenti più interessanti:
- numerosa ceramica preistorica di età tardo-neolitica (vicina allo stile di Diana) da via De Felice e da altre zone;
- ceramica attica a figure nere della seconda metà del VI sec. a.C. da piazza Napoli (fram-menti di kylix tipo Kleine Meister);
- in via SS. Cristo un lekythos del tardo VI sec. a.C.);
- un manico di specchio bronzeo da via De Felice;
- pregevoli statuette fittili di età tarda classica e del primo ellenismo, numerosa ceramica siceliota a figure rosse, sovradipinta e a vernice nera del IV e III sec. a.C. dalle necropoli e dall'area urbana;
- un tesoretto di monete d’argento di età repubblicana da via Catania.
Nei mesi di febbraio e marzo 1981 vennero effettuati alcuni saggi di scavo dalla Soprintendenza Archeologica di Siracusa (archeologi: Voza e Spigo) in piazza Milano, immediatamente a S e ad O di uno sbancamento abusivo a ca. 300 m. a O delle mura, presso via Grosseto, in un'area adiacente al luogo di rinvenimento dei frammenti di mosaico pavimentale recuperati nel novembre 1980. Vennero parzialmente messi in luce vani di abitazioni databili fra la fine del IV ed il pieno III sec. a.C.
Il materiale raccolto all'interno delle abitazioni era costituito da:
- ceramica a vernice nera e acroma di vario tipo;
- due monete in bronzo siracusane della zecca di Ierone II;
- di particolare interesse, numerosi frammenti di intonaco parietale dipinto a fasce e riquadri in color rosso, bianco e bruno secondo un partito decorativo riscontrato in altre case siciliane del primo ellenismo, da Siracusa a Gela (la casa ellenistica di Capo Soprano) a Heraclea Minoa.
Immediatamente ad Ovest dei suddetti ambienti fu individuata una strada in direzione Nord-Sud pavimentata con un acciottolato piuttosto regolare e compatto e fiancheggiata sul lato Ovest da una canaletta accuratamente realizzata in blocchi di pietra lavica, della quale sono stati evidenziati tre tratti in un'area della lunghezza complessiva di ca. 90 m.
L'area dell'antica Adranon è in buona parte occupata dal moderno centro urbano, che ne conserva il nome, in cui la fitta e spesso incontrollata attività edilizia degli ultimi 15 anni ha spesso gravemente compromesso l'integrità dei resti archeologici, già del resto occultati da varie sovrapposizioni di età medievale e moderna. Basandoci su una ricostruzione abbastanza sicura, attraverso i tratti superstiti, del tracciato della cinta muraria (ca. 5 Km. di lunghezza) si può con una certa credibilità attribuire all'Adranon dionigiana un'estensione di ca. 60 ha.
I rinvenimenti non permettono di ricostruire con esattezza il perimetro dell’Adranon greca che doveva essere una delle più importanti città anche dal punto di vista dell’estensione .
Un dato importante ai fini dell’ipotesi, appena accennata, fu il rinvenimento nel febbraio – marzo 1981 nel settore Sud dell’abitato, a circa 300 metri dalla cinta muraria di levante, della sopradescritta strada Nord-Sud, una delle principali.
Anche se non fu possibile rilevare la sua intera larghezza, furono riportati alla luce solo 7 metri di larghezza, sarebbe considerata una delle principale strade di Adranon.
La strada avrebbe un suo sviluppo verso Nord, tagliando la via Catania e la parallela via Garibaldi, per passare a circa 130 metri ad Est della Torre della cinta muraria (occidentale) inglobata nella Torre vicino alla chiesa di San Francesco.
Proprio nella prossimità della chiesa di San Francesco sarebbe ipotizzabile la presenza di una delle porte di Adranon.
Nel giugno 1981 la Soprintendenza Archeologica di Siracusa (archeologi: Voza, Spigo e Marchese) effettuò poi, a seguito di nuove sospensioni di lavori edilizi, una nuova campagna di scavo in contrada Giobbe, nella proprietà Zappalà-Puleo e Quaceci, ad E dei tratti di strada e delle strutture murarie scoperti nei mesi di febbraio e marzo.
Vennero parzialmente messi in luce altri ambienti di abitazioni databili nel corso del IV e nella prima metà del III sec. a.C..
In particolare, nel fondo Zappalà-Puleo, venne portato alla luce un muro in blocchi lavici di struttura piuttosto accurata, coi resti di un portichetto, forse riferibile (è peraltro situato sul lato N del saggio) ad una casa del tipo a 'pastas' (ma solo la prosecuzione degli scavi potrà dirlo con sicurezza).
(La “pastas” era un loggiato o porticato abbinato al cortile interno di una casa che dava accesso e luce ai singoli locali circostanti. Le antiche case greche erano chiuse su tutti i lati verso l'esterno, non avevano finestre verso l'esterno, così come le possiedono le case odierne).

Sugli edifici di culto non si sa molto. L’unico ritrovamento fu la stipe votiva, parzialmente recuperata, nel 1914 nella zona Est della città, ex monastero di Santa Maria e Gesù. Una stipe forse legata ad un edificio di culto a Demetra e Kore.
Restano nel buio più assoluto il luogo dedicato al Dio Adrano che l’Orsi ipotizzò in contrada Cartalemi.
Stesso problema in merito agli edifici pubblici. L’unico reperto importante sarebbe la cinta muraria.
Per quanto riguarda invece la produzione artigianale ed anche artistica della città, i numerosi rinvenimenti fortuiti uniti ai risultati dei pochi scavi regolari ci ricostruirono un quadro piuttosto ricco e variato, soprattutto nel periodo compreso fra la metà del IV e l'intero III sec. a.C:
Adrano aveva una propria zecca con notevoli emissioni.
 Fu sede di officine piuttosto fiorenti di coroplastica e di ceramica a vernice nera, sovradipinta e a figure rosse.
Quest'ultimo settore fu molto importante costituendo  un gruppo di artisti che prese il nome di “Etna Group”  secondo la definizione del Trendall.
Tra questi artisti il Pittore di Biancavilla o  il pittore Za (Zurigo- Adrano. Il pittore di Adrano i cui  reperti si trovano anche a Zurigo).
Artisti che usavano vistose vernici che risulteranno dominanti, in breve tempo, nel Pittore di Lipari e nel suo gruppo.
Una ceramica figurativa che verrà ulteriormente esaltata nella ceramica centuripina del III sec. a.C.
Nel sito della greca Adranon c’era un precedente villaggio?
Gli scavi sporadici diedero  delle testimonianze legate ad alcuni insediamenti preistorici, fra cui ragguardevole quella relativa ad una fase tardo-neolitica probabilmente rapportabile ai coevi stanziamenti rinvenuti nel territorio della vicina Paternò (frammenti di ceramica vicina allo stile di Diana in via De Felice), sia quelle relative ad un abitato arcaico (VII e soprattutto VI sec. a.C., con rinvenimenti di ceramica a figure nere dall'area urbana ecc.).
Quest’ultimo aspetto dimostrerebbe l’esistenza di importanti rapporti commerciali, culturali con il vicino centro indigeno del Mendolito. 
Il territorio di Adrano ha una sua grande valenza storica che purtroppo è stata colpita dall’azione dei tombaroli e dall’abusivismo dilagante che hanno violato antiche coscienze.
Se il materiale venduto o esportato abusivamente, non si può considerare perduto per il patrimonio culturale degli uomini civili, quello distrutto per negligenza o ignoranza può dare da solo la misura dell’immenso danno causato, danno che si ripete e si moltiplica in tutte le zone archeologiche del mondo antico ed in confronto al quale il danno causato dalle incursioni dei barbari, dai saccheggi storici durante le grandi invasioni, al declino dell’impero, nel medioevo fino a quelli avvenuti durante gli eventi bellici e rivoluzionari dei secoli XIX e XX appaiono piccola cosa. 
Oltre al centro indigeno del Mendolito, il territorio di Adrano conserva importanti testimonianze non solo nel suo tessuto urbano ma anche, come abbiamo visto, anche nelle sue contrade.
Un ruolo importante anche nella preistoria  con alcuni stanziamenti:

1.  Contrada Fontanazza/Fontanazzi: presumibili tracce di industrie del Paleolitico Inferiore (ancora peraltro ancora da focalizzare con maggior ricchezza di dati) e insediamento neolitico (cultura di Stentinello). Nel 1976 furono effettuate delle ricerche da parte dell’Istituto di Paleontologia dell’Università di Firenze ( prof.ssa Mara Guerri) che portarono alla luce anche una sepoltura ed inumazione con il cadavere immerso nell’ocra.



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Contrada Fontanazza
Tracce dell'industria litica del Paleolitico; Reperti neolitici con tomba ovale
Area di interesse archeologico ai sensi dell'articolo 142 lettera m, D.Lgs 42/04


Contrada  Fontanazza
Tazza a decorazione incisa
Neolitico Medio (V millennio a.C.)
Un sito dimenticato eppure ha una grande importanza storica.


La zona è lambita dal fiume Simeto ed è probabile che vi sia una relazione tra le acque e i rituali funerari neolitici.
A ridosso di un’area di dispersione di ceramiche stentinelliane riferibili al villaggio, fu  identificata una tomba a fossa ellittica ricoperta da grosse pietre, con i resti di un solo inumato. Tra la terra di riempimento della fossa furono raccolti piccoli blocchetti di ocra e frammenti
di ceramica impressa, secondo una pratica, forse legata alla frantumazione rituale di vasi.
Una fossa riempita da grossi massi, contenente i resti di un solo inumato, fu segnalata nell’insediamento di Rocca Giambruno, all’interno del moderno cimitero di Adrano.
Le affinità costruttive e planimetriche con la tomba di Fontanazza furono evidenti e anche in questo caso la cronologia rimandò ad una fase  non meglio definibile dello sviluppo diacronico dell’orizzonte stentinelliano.
Ancora ad Adrano, una tomba a fossa con pietre di copertura fu identificata nel centro storico (Piazza G. Maggio), a meno di 100 m a nord dell’insediamento di Via De Felice-Via Garibaldi a cui forse era pertinente.
La Cultura di Stentinello prende il nome dal sito omonimo posto vicino Siracusa (Sicilia sud-orientale).  Una cultura che fu datata alla metà del V millennio a.C. il villaggio preistorico fu riportato alla luce dall’archeologo Paolo Orsi nell’Ottocento e scavi successivi furono svolti nel Novecento e negli anni 1960.
Villaggio di Stentinello (Siracusa)



Una cultura caratterizzata dalle forme e dalle decorazioni della ceramica che apparve non solo in Sicilia ma anche nella Calabria centrale e meridionale, nelle Isole Eolie e fino a Malta.
Una ceramica impressa che segnava l’inizio del Neolitico.
La datazione al V millennio a.C. sarebbe ipotetica perché i siti più antichi avrebbe restituito dei reperti datati alla metà del VI millennio a.C.
La vita sociale era basata sull’agricoltura e sull’allevamento (capre e pecore) ed anche su diverse attività artigianali per la creazione di recipienti in ceramica e utensili in pietra scheggiata.
Fu in questo periodo che iniziò lo sfruttamento dell’ossidiana di Lipari che venne utilizzata soprattutto in Sicilia ed in Calabria. Ossidiana che veniva lavorata, con la scheggiatura, per la creazione di utensili. Non bisogna dimenticare che l’ossidiana di Lipari arrivò fino all’Italia settentrionale  e sulla costa orientale dell’Adriatico in blocchi.
Accanto all’ossidiana veniva sfruttata anche la selce che proveniva dai ricchi giacimenti dei Monti Iblei, in particolare Comiso  nel Colle Tabuto vicino il Castello di Canicarao.
Gli “Stentinelliani” vivevano in comunità costituiti da villaggi, costituiti da capanne, nati soprattutto in quei siti favorevoli allo sviluppo dell’agricoltura. I villaggi erano in genere circondati da fossati circolari. Il sito vicino Siracusa presentava un fossato che circondava un area di (253 x 237) m, aveva una profondità  di circa 1,40 metri e da 1,5 a 3,6 metri di larghezza.
La ceramica all’inizio era costituita da un impasto molto grossolano di colore bruno ma in seguito diventò sempre più raffinata raggiungendo un’alta qualità.
Era modellata a mano e i prodotti erano costituiti da tazze, pentole, giare, scodelle a labbro rientrante. Le bottiglie erano le forme più prodotte.
Le forme aperte, con l’apertura più grande del corpo, prevalsero nel periodo più antico mentre successivamente furono prodotte le forme chiuse. Caratteristica fu anche la produzione  di piccoli animali.
Una caratteristica della ceramica stentilleniana  erano le decorazioni.
Decorazioni molto varie formate da bande o zone geometriche costituite da zig-zag, piccoli cerchi, linee, fiamme o puntini.
Particolari furono i rombi che rappresentavano gli occhi in una forma molto stilizzata.
Le decorazioni venivano incise o impresse, prima della cottura, con le unghie, con  punzoni o ancora con conchiglie. Successivamente venivano riempite con pasta bianca ottenendo nel vasellame un aspetto  policromo.
Il tipo di decorazioni diede il nome a diverse culture  come lo stile di Kronio, di Serra dell’Alto, ecc.
Ma chi erano gli Stentilliani? Probabilmente dei Sicani che tra l’altro erano degli esperti navigatori.  Il villaggio di Stentinello è infatti molto vicino alla costa e sembra disporre anche di un piccolo porto adiacente come si rileva dall’immagine satellitare.

Frammenti ceramici della cultura di Stentinello
(Museo Archeologico Regionale di Siracusa)
Da notare la grande somiglianza con le decorazioni della tazza di contrada Fontanazza.

Contrada  Fontanazza
Tazza a decorazione incisa 

Fu la prof.ssa Mara Guerri a condurre gli scavi nella contrada Fontanazza.
Mara Guerri agli scavi di Grotta del Romito (1965)
Mara Guerri (1932-2023), già assistente di Paolo Graziosi e già ricercatrice presso l’Università di Firenze. Fu direttrice del Museo e Istituto fiorentino di Preistoria per diversi anni. La sua ricerca, essenzialmente sul Paleolitico, si svolse in Sicilia, Calabria, Puglia, Toscana e Liguria per quanto riguarda le missioni di scavo, più saltuari interessi la portarono a condurre importanti studi  in Africa e in Asia.
Anche Lei una grande archeologa
Seppe interpretare in modo perfetto il grande compito dell’archeologia..
Lo studio dell'antichità deve saper far parlare i documenti archeologici, dalle statue e dagli archi di trionfo ai più umili frammenti fittili, il loro eloquente linguaggio.
La prof.ssa Mara Guerri…
Siamo nel 1976, in Sicilia, lungo i terrazzi del fiume Simeto, costeggiati dalla Statale 575 e precisamente al Km 34 in località Fontanazza, in un terreno pianeggiante ai piedi di Poggio S. Maria (I.G.M. 269 I.N.O. Long 2°21'15", Lat 37°38'50"). 

Contrada Fontanazza, i terrazzi del fiume Simeto

 Qui venne effettuata una serie di saggi, sotto la direzione della sottoscritta, con laureandi e tecnici dell'Università di Firenze insieme a studenti e appassionati locali, saggi volti, non solo all'individuazione, ma anche all'analisi di sedimenti antropizzati e non, della frazione fine e grossolana, ecc., da effettuarsi in campagna, sullo stesso cantiere di scavo, per il controllo dell'andamento stratigrafico, secondo un metodo di prospezione che avevo messo a punto in quegli anni, sperimentato durante la mia direzione, nei giacimenti preistorici di Grotta Spagnoli, delle Arene Candide, di Riparo Longo ecc., e ormai di estesa applicazione (Guerri M., 1978, 1980). Gli scavi furono condotti col sistema delle coordinate cartesiane, che permette, oltre a un preciso recupero degli elementi artificiali e naturali, una visione sincronica e diacronica degli stessi e assicura il ricontrollo dei dati ottenuti, con la possibilità di una ricostruzione, in laboratorio, del documento ormai distrutto (Laplace G., Meroc L., 1954; Laplace G., 1972).
Tali metodiche dovevano costituire la base della ricostruzione storica.
I primi tre saggi non dettero risultati positivi, o meglio soddisfacenti, il quarto, invece, risultò di notevole interesse. Dopo lo strato superficiale, sterile, il terreno divenne più bruno e sabbioso (61 H, S F, Cailleux A., Tylor T., 1948); si doveva comunque arrivare alla profondità di 80 cm., dal piano di campagna, allo strato bruno grigio scuro (62 F), franco sabbioso argilloso (F S A) cioè, per trovare un terreno fortemente antropizzato costituito da frazione fine, leggermente concrezionata, che presentava numerosi frustoli carbonosi.
Immersa nel terreno apparve la parte terminale di blocchi di calcare, arrotondati, che sembravano seguire una linea curva. Emersero i primi frammenti di ceramica: liscia, incisa, impressa; quindi ossidiana e alcune selci unite a elix e ad altri resti faunistici, seppur rari.
Data la flessibilità del metodo di scavo usato, mi permisi, dopo aver allargato la trincea, di abbassare solo la parte non antropizzata, sterile, seguendo i criteri del colore, della consistenza, della natura del sedimento, della presenza o non di blocchi, ecc., in modo che il deposito antropizzato emergesse in tutta la sua evidenza.

La struttura durante la fase di evidenziazione.

Apparve, ben netta, una forma ellissoidale, con provocata discontinuità perimetrale, contornata da blocchi calcarei che, nella parte degradante verso il fiume, intaccata da uno sterro, erano di dimensioni maggiori e accuratamente sovrapposti in due ordini, quasi ad arginare il terreno, soggetto, in quel punto, a dilavamento. Allora, alla base dei massi, e fra le pietre perimetrali, comparvero numerosi blocchetti di ocra rossa. Su una pietra, non allineata alle altre, più interna, situata a circa 10 cm di profondità dalla base dei massi, apparve parte di una calotta cranica umana, rossa di ocra, concrezionata col sedimento, contornata da frammenti di ceramica impressa di tipo stentinelliano; quindi altri resti umani sparsi: una rotula, falangi e falangine di un piede, e forse di una mano, anch'essi immersi in un letto di ocra rossa. 

Fontanazza – La struttura con i resti di inumato

Eravamo di fronte, probabilmente, a un solo inumato, forse in posizione flessa, posto in direzione nord-sud, con testa a sud, in una struttura dalle dimensioni di m. 2,10 x 1,60 circa.
La fossa, fino alla profondità di m 1,10, la massima raggiunta dalla nostra indagine, non presentava basamento litico; non ritenni di dover procedere oltre, in profondità, per non compromettere la stabilità della struttura. Durante la stessa campagna mi fu possibile individuare, nelle vicinanze, una zona con caratteristiche morfologiche simili, suscettibile, probabilmente, di ulteriori nuove scoperte.
Il singolare ritrovamento fu pubblicato, solo a livello notiziario, nel 1977, nella Rivista di Scienze Preistoriche. L'esame, infatti, dei materiali, non si è reso a tutt'oggi possibile, per una serie di situazioni sfavorevoli. Vogliamo auspicare che l'odierno Convegno in onore di Paolo Orsi possa essere risolutivo anche al fine di poter realizzare lo studio di tale eccezionale documento, magari con la concessione in deposito dei materiali da noi scavati, attualmente giacenti presso la Soprintendenza di Siracusa.
Indirizzo dell’Autrice:
Mara Guerri – Università di Firenze
Museo  e Istituto Fiorentino di Preistoria – Via S. Egidio n. 21 – 50122 Firenze

2 - Contrada Zarbo: insediamento di età tardo-neolitica;  

3 -  Poggio dell'Aquila: villaggio dell'età del Rame con una capanna ovale associata a caratteristica ceramica dipinta in color cioccolato su fondo nocciola del così detto 'stile di Adrano' contemporaneo allo stile del Malpasso (Scavi Soprintendenza Archeo-logica di Siracusa, Cavalier, 1961). 

Poggio dell’Aquila
Villaggio preistorico dell’Età del Rame
Area di interesse archeologico ai sensi dell’Art.142 lett m, D.lgs.42/04

L’abitato di Poggio dell’Aquila è uno dei più importanti siti preistorici della fascia pedemontana etnea. Presenta una articolata successione stratigrafica e delle strutture abitative  riferibili alle fasi finali dell’Eneolitico. Purtroppo gli scavi non hanno mai assunto un aspetto sistematico ed i dati raccolti, legati ai reperti rinvenuti, non permettono di visualizzare in modo chiaro le varie facies archeologiche. Il Poggio dell’Aquila è una collina di circa 590 m s.l.m.  posta in contrada Pulica. Si tratta di una balza lavica che fa parte di colline di modesta altezza che delimitano il lato settentrionale dell’ampio terrazzo vulcanico della Fogliuta.

Contrada Fogliuta (in giallo)
Resti neolitici; grotte usate come sepolture e villaggio (fase castellucciana), tombe romane
Scheda 34  Piano Paesaggistico Regione Sicilia – Schede Siti di interesse archeologico 

L’area intorno all’insediamento eneolitico presenta una decina di cavità vulcaniche. Cavità di modesta entità e rientranti nella tipologia di “tunnel lavico”, in merito alle grotte Castro I e II, e a scorrimento lavico. Le grotte a scorrimento lavico presentano più camere come le grotte Quaceci e Pulica.
Queste grotte furono esplorate nel 1970 e non tutte presentarono delle informazioni  verificabili.
Ad esempio nel caso della grotta di contrada Pulica furono rinvenuti dei resti ossei suggerendo l’idea di un suo uso come spazio funerario. L’area attorno al villaggio presentava molte sorgenti attestate anche dai documenti storici del XVII secolo.
la chiesa dell’Annunziata o di Santa Maria della Grazia Vecchia, presso il Poggio dell’Aquila,
è ubicata in corrispondenza di una copiosa sorgente.
Chiesa di cui si persero le tracce?
Un rinvenimento fu davvero eccezionale. Fu rinvenuta una grande abbondanza di ossa di cinghiale e di cervo tra le faune dell’abitato eneolitico. Questi rinvenimenti erano importanti perché dimostravano l’esistenza nella zona di vasti boschi di leccio e quercia con un sottobosco costituito da erica e corbezzolo.
Una ricostruzione ipotetica? No, perché questi aspetti avrebbero un loro riscontro nell’insediamento preistorico di via Santa Caterina a Paternò.

Paternò – Via Santa Caterina
Nel 2005 la Sovrintendenza durante le operazioni di sorveglianza per  la messa in opera delle conduttore fognarie al centro della strada (Via Santa Caterina), identificò alcuni paleosuoli.
Il paleosuolo è detto  anche “suolo fossile” che è rimasto seppellito da detriti, frane, alluvioni, ecc. in un epoca anteriore all’attuale. Questo suolo conserva quindi i caratteri propri che aveva al momento del seppellimento anche se il clima ha subito delle  modificazioni più o meno profonde.
La  Sovrintendenza  iniziò le ricerche affrontando delle  difficoltà.
 Difficoltà legate all’esistenza nella trincea aperta, su entrambi i lati, di scarichi fognari posizionati senza alcuna sorveglianza ed autorizzazione nei decenni precedenti.
Malgrado queste difficoltà,  gli archeologi riuscirono ad identificare una serie di paleo-superfici che presentavano delle vistose chiazze cineree e livelli di bruciato, resti di focolari, piastre fittili ed anche una piattaforma in terra battuta e molto compatta. Terra che conservava una grande quantità di ossa  animali, frammenti ceramici, argilla concotta, carboni.

Argilla Concotta
Frammenti di probabile intonaco con impronte straminee (strame di paglia).
Carbonia: 3500 a.C. – 2700 a.C.
IV-III millennio a.C.

Concotto – argilla depurata
Ambito Etrusco-padano : V sec. a.C. – Iv sec. a.C. (449 a.C. – 390 a.C.)
Frammento di concotto con impronte lasciate dall'incannucciato. Argilla ben depurata di colore rosa-arancio, spesso rossa in frattura.
I concotti testimoniano l'uso di rivestire le pareti delle abitazioni, realizzate con intrecci di canne e ramaglie, con argilla cruda, a scopo isolante. Questo rudimentale tipo di intonaco veniva probabilmente lisciato e scottato col fuoco: sul pezzo si nota chiaramente l'impronta lasciata dai rami su un lato, mentre l'altro appare molto più regolare.

Valcorrente (Belpasso – Catania)
Argilla concotta che formava il rivestimento delle pareti
Età del Bronzo
Le ceramiche rinvenute in via Santa Caterina (Paternò) comprendevano sia vasellame da fuoco che pissidi globulari e piattelli su alto piede a superficie a stralucido rosso o marrone, databili all’età del Bronzo Recente.
Fu anche recuperata una valva frammentaria di matrice per fusione in arenaria pertinente alla produzione di un pugnale con manico a rivestimento osseo identico ad un esemplare rinvenuto in una tomba con materiali di facies Pantalica 1.  Il rinvenimento, insieme alla valva, di piccole concentrazioni di scorie metalliche, da interpretare come residui di colature, confermarono lo svolgimento nel sito di attività metallurgiche.
L’analisi paleobotanica condotta su alcuni campioni di carbone evidenziò la presenza di resti pertinenti a corbezzolo, leccio, ulivo e olmo. Il leccio e il corbezzolo hanno un’elevata capacità di
combustione e probabilmente erano stati usati nella preparazione dei focolari. I numerosi resti ossei comprendevano soprattutto specie domestiche in maggioranza gli ovicaprini, quindi i bovini, i suini e il cavallo. A circa 8,00 a Nord della piattaforma, fu identificata una struttura muraria con andamento curvilineo lunga  1,70 m  per una larghezza di 0,80 m.  composta da tre grossi blocchi in pietra lavica rozzamente sbozzati alla quale erano associabili un frammento di bacino globulare e un frammento di lama a sezione romboidale.
Dall’area della struttura si individuò l’inizio di un percorso sul fondo naturale della collina che saliva in direzione della sommità.



Nel 1959 la famiglia Cammarata avviò i lavori per la piantagione di un agrumeto nella loro proprietà di Poggio dell’Aquila. Durante i lavori furono rinvenuti numerosi frammenti ceramici e altri reperti. La famiglia  Cammarata, con grande responsabilità,  consegnò al nuovo Museo di Adrano i reperti. Museo che era stato appena costituito ed ubicato in un edificio di proprietà dell’Amministrazione Comunale sito all’interno del Giardino della Vittoria.
Il materiale archeologico rinvenuto, grazie ai lavori agricoli, si riferiva ad una facies culturale del villaggio, facies di Malpasso-Piano Quartara, cioè databile alla fase finale dell’Eneolitico.
Che tipologia di vasi?
Tra i reperti c’erano dei frammenti di ceramica dipinta in bruno su fondo chiaro. Un rinvenimento che fu definito come “stile di Adrano”.
(Tra i reperti,  un singolare gruppo di corni fittili forati forse pertinenti ad una deposizione di natura cultuale).
Nel 1960 la famiglia Cammarata decise di ampliare la superficie dell’agrumeto e diedero il consenso alla Soprintendenza per l’esecuzione di saggi esplorativi preliminari. Saggi che furono condotti dal dott. Vito Piscione.
I saggi diedero dei risultati soddisfacenti e la Sovrintendenza di Siracusa chiese quindi un finanziamento di 500.000 lire per avviare uno scavo sistematico.
La scavo fu affidato alla direzione di Madeleine  Cavalier che aveva come collaboratore lo stesso Piscione. Gli archeologi furono affiancati da altri giovani fra cui  un insegnate di disegno, Benedetto Coco. Il Coco eseguì i primi rilevi stratigrafici eseguiti durante gli scavi mentre i rilievi definitivi alla fine degli scavi, furono eseguiti da un dipendente della stessa Sovrintendenza di Siracusa.

Madeleine  Cavalier con  l’archeologo Luigi Bernabò Brea
Una grande vita per l’archeologia
Gli scavi iniziarono il 7 febbraio 1961 e si conclusero il 20 febbraio. Fu eseguito da due operai specializzati della Soprintendenza, da cinque manovali e da due garzoni assunti sul posto.



Poggio dell’Aquila – Planimetria generale dell’area scavata nel 1961

I primi scavi archeologici furono eseguiti ad Est della strada pedonale che costeggia il colle. Una fascia stretta ed allungata, dalla pianta quasi trapezoidale delimitata
Sul lato settentrionale da un poderoso muro a secco di terrazzamento che,
prendendo inizio da un breve tratto trasversale subito all’ingresso, correva
rettilineo per circa 50 metri e piegava ad angolo ottuso verso Sud-Est,
prolungandosi in questa direzione per altri circa 22 metri mediante
un tratto obliquo.
Il limite meridionale di questa fascia di terreno confinava con l’agrumeto
nel quale nel 1959 vennero recuperati abbondanti materiali ceramici della
facies di Malpasso, era assolutamente rettilineo.
Nell’area oggetto della campagna del 1961 furono aperte due distinte
trincee di scavo: la prima, indicata con il nome di Zona A, verso Ovest, raggiunse,
con i vari ampliamenti (resi necessari per mettere in completa luce i resti archeologici)
le misure di 10 metri circa in senso Nord-sud e 11,30 metri in senso Est-ovest.
La seconda zona, detta B, aperta verso Est a circa metri 13 da essa, conserva una pianta
più regolarmente quadrangolare di metri 12 (Est-ovest) e metri 10 – 11 (Nord-sud).
Lo scavo fu condotto contemporaneamente in entrambe le zone.

Poggio dell’Aquila
Planimetria generale della zona di scavi A
Le strutture: A1 – A2 – B.
La zona A era stata già scavata dall’archeologo Vito Piscione nel dicembre 1960. Con lo scavo aveva messo in luce l’arco meridionale del perimetro di una capanna, quasi a pianta circolare, chiamata A1 e il cui diametro misurava circa 5,25 metri.

Eseguì anche dei saggi in profondità attorno alla struttura.
Lo scavo successivo fu eseguito nei punti che erano stati oggetto di saggi per cercare d’individuare livelli più antichi.
La superficie interna della capanna era occupato dalla caduta dell’elevato del suo muro perimetrale.
Pietrame che era addossato soprattutto lungo il muro perimetrale settentrionale e che, una volta asportato, rilevò tutta l’ampiezza della capanna.
Il suolo  originario della struttura era costituito da un battuto di terra compatta e da argilla.
Sullo strato di distruzione della capanna Al era stata edificata una struttura, a pianta quadrangolare con angoli stondati, che presentava un lembo di battuto. Sul battuto furono rinvenuti  frammenti di ceramica dipinta assegnabili ad una fase iniziale della cultura di Castelluccio. 

Poggio dell'Aquila.
Il tratto orientale della capanna.
Al centro, la struttura murarla dell'età del Bronzo antico




Poggio dell’Aquila.
Ceramiche  rinvenute sul suolo della struttura quadrangolare
dell’Età del Bronzo Antico.
Sul suolo della capanna furono rinvenuti gruppi di materiali fittili e anche ossa di animali.
Il rinvenimento delle ossa animali potrebbe anche essere collegato ad un abbandono della struttura.
I nuclei di materiali localizzati nel settore settentrionale della capanna furono i seguenti partendo dal
settore occidentale:
-        Il primo gruppo comprendeva una tazza con ansa sormontante a gomito.
presso la quale giacevano un percussore litico e un lisciatoio di pietra vulcanica. Più oltre. venne identificata una piattaforma di piccole pietre. presso cui stavano una fuseruola fittile e il fondo di un vaso di grandi dimensioni.
- Il secondo lotto giaceva a Sud-est del primo ed era costituito da uno scarico di ossa di animali (rifiuti di pasto?), da piccole pietre e da numerosi frammenti di vasi, tra cui una grande ansa a gomito.
II terzo e ultimo gruppo, posto a nord del primi due, era un apprestamento costituito da cinque grosse pietre disposte ad arco, all'interno delle quali giacevano un cranio di animale e tre grandi corni di cervo. Intorno alla struttura erano sparsi numerosi frammenti di vasi grossolani di grandi dimensioni. 

Poggio dell’Aquila.
Capanna A1
Tazze a vasca fonda e superficie rossa lustrata.

Poggio dell’Aquila.
Capanna A1
Fossa con paramento litico contenente ossa di cervo.

Capanna A.2

I saggi del Piscione avevano permesso d’individuare, al di sotto della capanna A1, una struttura più antica che venne indicata come capanna A2 e caratterizzata dalla pianta ellittica.
La stratigrafia del terreno fu realizzata mediante un saggio stratigrafico.

Poggio dell’Aquila.
Sezione Est-Ovest del saggio stratigrafico a Nord della capanna A1.
-   Taglio N. 1: fu asportato il battuto della capanna superiore e fu messo in luce il primo filare della struttura sottostante fino a trovare la sommità di un piano pavimentale. Un piano che era costituito da piccoli ciottoli mescolati con argilla chiara e terra battuta. Sul suolo della capanna A2 furono rinvenuti numerosi frammenti di vasi di fine fattura, tra cui un’olla a superficie monocroma rossa, e un gruppo di frammenti riferibili alla classe dipinta nota come “stile di Adrano".

Poggio dell’Aquila.
Ceramica dipinta  “stile di Adrano” – Capanna A2
- Taglio N. 2: (spessore 10 cm.). Si fece la rimozione del battuto pavimentale che risultava spesso circa 6 – 3 cm. Fu individuato un deposito di terra marrone fine che conteneva numerosi frammenti ceramici,
in generale meno grezzi di quelli rinvenuti nella Capanna A2. Tra questi frammenti c’era anche della
ceramica dipinta, schegge di ossidiana e un punteruolo d’osso.
- Taglio N. 3: (spessore 12 cm.): si eseguì nella stessa terra marrone sottostante al primo suolo delta capanna A2 e si notò che il muro perimetrale scendeva ancora. La ceramica non era numerosa ma presentava sempre gli stessi caratteri. Furono invece numerosi i resti ossei animali.
- Taglio N. 4: (spessore 18 cm.): si isolò un livello di terriccio fine con pietre di piccole dimensioni. La ceramica diventò piò abbondante e si notò the si trattava di un gruppo di manufatti dispersi su uno strato di terra battuta mista ad argilla, che costituiva il più antico piano pavimentale della capanna A2.
-   Taglio 5: si asportò il suolo inferiore delta capanna A2, mettendo in luce una massicciata di pietrame estesa su tutta la superficie della capanna, che evidentemente costituiva il piano di preparazione della stessa. 

Poggio dell’Aquila.
Particolare della massicciata di pietre posta sotto la capanna A2.
- Taglio N. 6: fu rimosso il livello. assai compatto di pietre e terra. e si recuperò ancora qualche frammento dipinto della classe dello “stile di Adrano”. Alla base della massicciata si trovò un livello di terra marrone chiara e di natura sabbiosa che ricopriva la superficie della roccia. Non furono rinvenuti reperti archeologici. La massicciata fu creata per livellare il terreno sul quale mettere in opera il pavimento della capanna e per preservarlo dall’umidità.

Saggio all'esterno della capanna verso Nord-Est.
Si proseguì con l’esecuzione di un saggio a Nord-est della capanna A1 ottenendo la seguente stratigrafia:
- Tagli N. 1-2: (spessore cm 36). Terreno rimaneggiato dalle buche agricole., con rinvenimento di pochi frammenti ceramici.
- Taglio N. 3: si raggiunse il livello di distruzione della capanna Al. Uno livello costituito da uno strato di pietrame, a ridosso del muro esterno della struttura, dove venne identificato un suolo battuto.
- Taglio N. 4: nella parte settentrionale dell'ampliamento venne isolato. al di sotto del primo battuto, un secondo suolo esterno su cui giaceva un punteruolo in osso.
- Taglio N. 5: Al di sotto del battuto furono raccolti frammenti ceramici della classe di Malpasso, un solo frammento dipinto nello “stile di Adrano” e numerosi resti di fauna.
Saggio all'esterno della capanna Al verso Sud
All'esterno della capanna Al venne aperto un secondo saggio di riprova stratigrafica mediante una trincea di m. 3.80 (Est-ovest) e di m. 2 (Nord-sud). Rimosso lo strato di crollo della capanna, venne messa in luce la seguente stratigrafia.
- I Tagli N. 1-5, per un'altezza complessiva di m. 0.80, erano in rapporto con un terreno bruno nerastro, con molti frammenti ceramici e ossa di animali e fortemente manomesso dai lavori agricoli.
- Nel sottostante taglio 6, sul lato orientale del saggio, affiorò la sommità di un muro perimetrale di una struttura più antica che fu indicata come capanna B e di cui si conservava solo un filare di pietre.

- Taglio N. 7: con questo saggio il muro si definì in modo più chiaro con il suo corrispondente.
- Taglio N. 8: fu asportato il suolo. Un suolo battuto e ben pressato di terra mista ed argilla di colore chiaro e dello spessore di 8 – 12 cm. Sul suolo furono recuperati numerosi piccoli frammenti di carbone ma non venne scoperto un focolare vero e proprio.
- Taglio N. 9: al di sotto del suolo, il terreno diventò più scuro, tendente al nerastro e compatto. Furono rinvenuti in questo strato pochi frammenti ceramici tra cui uno attribuibile alla classe dipinta di Serraferlicchio.
Questo strato compatto di terra scura (esplorato con i Tagli N. 10-11) non rivelò alcuna struttura in pietra, con la sola eccezione di due buchi di pali, forse riferibili ad una capanna. Tra i materiali spiccava la ceramica della classe dipinta nello stile di Serraferlicchio. Il tratto di muro, lungo m. 1,76, messo in luce nel saggio Sud, apparteneva al perimetro della capanna indicata come B. Sebbene fosse posta ad un livello lievemente più basso della struttura Al, la capanna B risulterebbe contemporanea della prima con la quale condivideva il medesimo sistema costruttivo e planimetrico.

La zona B
Il settore a nord del settore A presentava, al momento dello scavo, una distesa. di pietrame proveniente dal crollo delle strutture e la loro asportazione (Tagli N. 1-4) permise di mettere in luce il muro perimetrale di una capanna, conservato per un solo filare, indicata come struttura C

Poggio dell’Aquila
La capanna C vista da Nord.

La capanna presentava una pianta ellittica come le capanne A2 e B.
Nella parte mediana presentava un muro di spina largo 50 – 70 cm.
(Non venne specificata nella relazione l’altezza di questo muro di spina. Un’altezza importante per poter stabilire una sua eventuale funzione a sostegno delle coperture o come muro divisorio).
A Sud  questo muro incontrava il muro perimetrale della capanna.
Venne effettuato un saggio stratigrafico sotto il suolo della capanna C per mettere in evidenza la possibile esistenza di un’altra struttura preesistente.  Il taglio non diede risultati positivi anche se un taglio successivo  evidenziò la presenza di un focolare. La successione stratigrafica confermò gli stessi risultati che si erano ottenuti nel Taglio N. 1 effettuato nella capanna A2.
Questa interessante ricerca fu eseguita dalla dott.ssa Gioconda Lamagna, dal 4/11/2013 al 2016, Dirigente Responsabile del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” di Siracusa e dal 2016 direttrice del Polo Museale di Agrigento che comprendeva il museo archeologico Pietro Griffo e la casa museo Pirandello.
Una figura importante nella gestione delle aree museali.
Un’attività svolta sempre con grande impegno e con straordinari risultati.
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La dott.ssa Lamagna nella sua relazione  descrisse anche le strutture architettoniche.
Evidenziò come le strutture presentassero due varietà planimetriche ben distinte:
-        La pianta circolare nella capanna A1;
-        La pianta ellittica nelle capanne A2, B e C.
Nella relazione mise in evidenza come non ci fosse alcuna differenza di natura cronologica nell’adizione delle diverse piante planimetriche. Infatti l’estensione dello scavo dimostrò la coesistenza delle due tipologie planimetriche. La scelta del tipo di pianta andrebbe quindi ricercata nella funzione e nella relativa destinazione d’uso delle strutture domestiche.
Alla dimensione della capanna A1, diametro di 5,25 m, si contrapponeva la struttura A2, a pianta ellittica e con l’asse maggiore oscillante tra 7 e 8 metri.
In entrambi i casi lo stato piuttosto precario del perimetro murario non consentì di poter stabilire con esattezza l’ubicazione dell’ingresso.
La capanne del primo impianto del villaggio, quelle più antiche, risultavano messe in opera su una piattaforma di pietrame molto fitto, con poca terra. Terra che serviva a livellare le irregolarità del piano vulcanico e soprattutto a creare un piano isolante per ridurre al minimo le infiltrazioni di umidità dal sottosuolo.

Lo studio del rapporto cronologico e funzionale tra le strutture architettoniche costituisce uno degli aspetti più importanti nella lettura della documentazione archeologica di uno scavo.  Altro aspetto importante sarebbe l'analisi dello spazio domestico in rapporto alla forma e dislocazione delle capanne all'interno di un abitato eneolitico. Piattaforme irregolari di pietrame, in qualche caso con inserti di materiale argilloso, e funzionali alla messa in opera di strutture insediathe, furono documentate nel Castello di Lipari, fin dal periodo neolitico.
Una particolare caratteristica delle capanne era la presenza di un suolo posto ad una quota inferiore rispetto al piano esterno, come si nota con chiarezza nel caso della capanna Al, il cui pavimento era di circa 30 cm. più basso del battuto di argilla posto all'esterno della struttura.
Il perimetro murario era realizzato da un telaio litico formato da grandi pietre (struttura C e Al) e in qualche caso rivestito con pietrame di pezzatura più piccola.

Poggio dell’Aquila
Dettaglio del muro perimetrale della capanna C
 Di un certo interesse apparve la capanna B. con un muro perimetrale formato da una spina di grandi blocchi lavici e rinzeppatura di piccole pietre.
L'ottimo stato di conservatone della struttura A2 offrì la possibilità di ricostruire un alzato che raggiungeva 70/ 80 cm. di altezza e sul quale poggiava una copertura straminea.
(Stramineo, dal latino “stramineus”, derivazione di “stramen-minis” – strame, tetto fatto di strame di paglia e di erbe secche. La copertura straminea poteva essere impermeabilizzata nella parte inferiore con un consistente strato di argilla. Questo procedimento era dimostrato dai numerosi frammenti della stessa che, in alcuni siti, conservavano tracce dell’incannucciato).
La dislocazione sul suolo della capanna A2 di diverse tracce di carboni e terra bruciata, non necessariamente riconducibili a focolari, inducevano a ipotizzare che la copertura in fiamme sarebbe crollata all'interno della struttura.
Mancavano i dati archeobotanici per la definizione di materiali impiegati nella messa in opera del tetto, che potrebbe avere avuto una forma conica non diversa da quella ricostruibile per altri complessi eneolitici della Sicilia.
Resti di intonaco con impronte straminee, raccolti all'esterno delle capanne e nello strato di crollo, fecero avanzare l’ipotesi dell'esistenza di un tetto conico a basso spiovente, con un'intelaiatura lignea rivestita da argilla assai depurata, che risultava essere assai simile al composto impiegato nell'intonaco interno delle pareti.
I piani pavimentali erano sempre assai accurati nell'esecuzione, come quello superiore della capanna A2. Un pavimento realizzato con ciottoli fluviali cementati con argilla e terra fine.
I focolari erano costituiti da piccole fosse scavate sul suolo, in qualche caso delimitate da pietre. Infine, non mancarono strutture di complemento. non sempre di facile lettura, come la fossa rettangolare delimitata da pietre e che conteneva ossa e corni di un cervo. Una fossa che potrebbe essere interpretata con funzioni di natura cultuale. 
Poggio dell’Aquila
Fossa  con paramento litico contenente le ossa di cervo.
Interno della capanna A1
Di un certo interesse risultava un basamento litico messo in luce ad Est della capanna Al e in fase con quest'ultima.  Il rinvenimento, nelle immediate adiacenze, di un numero assai elevato di macine. trituratori in basalto e industria su quarzite, permetterebbe di identificare un'area di lavoro forse legata alla preparazione di cibi e alla macellazione di carni, dal momento che nell'area giacevano uno tra i più cospicui scarichi di ossa di animali.
Nell'insieme, le capanne sul Poggio dell'Aquila di Adrano sono, allo stato attuale della documentazione, tra i pochi esempi di architetture domestiche relative alle fasi tardi dell'Eneolitico.
Una struttura a pianta ellittica e muro perimetrale litico, assegnata alla fase di Malpasso (2500a.C.), fu messa in luce a Serra del Palco di Milena (CL), mentre sub iudice rimane la cronologia di una struttura simile, anch'essa con perimetro in muratura, identificata a Casa Sollima di Troina (EN)

La Capanna Preistorica di contrada Serro di Scarvi (Casa Sollima) (Troina - Enna)



Gli archeologi dell’Università di Cambridge e di Belfast, ricostruirono la
Struttura della capanna preistorica datata all’Età del Rame (IV – III millennio a.C.).
La capanna era costituita da un paramento litico ed aveva una dimensione di (10 x 12) metri ed un’altezza interna di 3 – 4 metri,
ospitava una famiglia, probabilmente seminomade, di circa 10 persone.
Il muro della capanna prosegue verso Nord creando un probabile recinto non coperto.
Gli scavi, eseguiti in diversi punti della capanna, riportarono alla luce notizie importanti
Anche sulle abitudini alimentari della piccola comunità e sul tipo di animali che allevavano. 

Foto di Mario Ricci.
La dott.ssa Stefania Amata presentò un lavoro di archeologia preistorica,
sviluppato fra il 1990 ed il 2000, eseguito nel territorio di Troina (Enna) in Contrada
“Serro di Scarvi”. Gli scavi furono eseguiti da un gruppo di ricercatori provenienti
da tutta Europa. Un progetto di Caroline Malone con il contributo di Simon
Stoddart, docenti dell’Università di Cambridge.

Il gruppo di lavoro era formato da:

Gli scavi furono eseguiti in contrada “Serro di Scarvi”  nella proprietà denominata
“Casa Sollima” a circa 650 m s.l.m. ed esattamente sulla estremità
Occidentale di un piccolo altopiano.

I ritrovamenti permisero di datare la capanna nel periodo
Eneolitico-prima Età del Bronzo, III – II millennio a.C.

Una capanna dalla pianta ovale. Furono rinvenuti oggetti di selce, ceramica, ossa di animali, asce levigate, ceramica fine e comune, resti vegetali carbonizzati, focolari.
I frammenti ceramici erano costituiti da setacci e colini oltre a vasi
tronco-conici che presentavano la base forata (scolatoi). Nel periodo neolitico
la vita dell’uomo mutò radicalmente. L’agricoltura ebbe un suo repentino sviluppo e l’uomo di
trasformò da nomade a stanziale. Le tecniche agricole, come la rotazione, costringevano
la comunità ad occupare il territorio per un periodo più lungo.
Nacquero così i primi villaggi e accanto allo sviluppo di una nuova agricoltura si attuò
 anche la prima domesticazione degli animali come risorsa alimentare e
di aiuto nelle attività agricole.
L’addomesticamento degli animali si differenziava per specie secondo la tipologia del territorio:
i bovini nei terreni pianeggianti e con buone risorse idriche; i suini nelle colline e nelle zone dove le risorse idriche erano limitate  e gli ovini/caprini nei terreni più impervi.

L’agricoltura e l’allevamento determinarono la creazione e il diffondersi di strumenti necessari non solo alla lavorazione della terra, ma anche adatti alla trasformazione di prodotti di base in alimenti di più razionale e comodo utilizzo, primi tra tutti i derivati del latte. I reperti di casa Sollima fanno parte di quegli strumenti, anche per similitudine con altri territori con analoghe situazioni ambientali e uguali strumenti di lavoro trovati, che consentono, per tracce rilevate di lavorazioni del latte, di affermare che anche a casa Sollima si procedeva alla attività di caseificazione, con latte di pecora o/e capra.
Le analisi archeobotaniche rilevarono la presenza di orzo grano
e diversi tipi di legumi.
Focolari per la cottura dei cibi e pozzetti che furono utilizzati come silos furono
rinvenuti sia nell’interno della capanna che nell’area del recinto.
Oltre agli abbondanti resti di capro-ovini e suini, furono rinvenuti all’interno
della capanna numerosi frammenti di vasi-colino e bollitoi utilizzati
per la trasformazione del latte e la relativa produzione di formaggi
Il museo, voluto dal sindaco archeologo e allestito dagli esperti di Cambridge, può essere visitato nella Torre Capitania di Troina dove è possibile vedere i reperti di cui abbiamo parlato insieme ad altro materiale rinvenuto durante gli scavi.
Testimonianze di una attività casearia già nel periodo eneolitico (3000-2000 a.C.) la più antica, a oggi nota in Sicilia, forse in Europa e, chissà nel mondo.


Serra del Palco di Milena (Caltanissetta)



Serra del Palco (Milena)
Planimetria dell’abitato Neolitico (Guzzone 1994)

Milena (Caltanissetta)


La capanna Neolitica di Serra del Palco vista dall’alto. Dall’immagine si possono osservare sia le coperture metalliche divelte e collassate in gran parte sui resti archeologici, che il grado di erosione subito dalla montagna, e che rischia d’intercettare la capanna.





Modello 3D dI Serra del Palco, con sovrapposizione dei rilievi tridimensionali delle capanne. Dall’immagine si può osservare la presenza dei grossi pannelli metallici che ad oggi obliterano del tutto i resti archeologici.

I materiali ceramici: gruppi tipologici in rapporto alle sequenze dell'abitato
L'individuazione delle classi ceramiche di Poggio dell'Aquila presero avvio da una prima analisi di tipo autoptico-intuitivo che suggerì una suddivisione a grandi linee del materiale, in attesa di più precisi riscontri su base chimico-mineralogica.
“Questa tecnica richiama il sistema costruttivo delle capanne sulla Montagnola di Capo Graziano, nell’isola di Filicudi:

Capanne sulla Montagnola di Capo Graziano, nell’isola di Filicudi
Datazione: 3000 a.C.




Un ulteriore elemento di confronto, per la tecnica edilizia e per la forma dello spazio domestico, fu offerto da una capanna recentemente identificata in località Tomabè (Pietraperzia, Enna), assegnata ad un momento di transizione tra l’Eneolitico finale e l’età del Bronzo Antico.


Il corpo ceramico era ancora in faso di studio ma l’esame dei principali elementi diagnostici dei reperti in riferimento ai contesti architettonici e stratigrafici consentirono di delineare una prima griglia di riferimento cronologico e tipologico.  Una griglia che sarà integrata dall’analisi sulla funzione dei vasi e sugli aspetti tecnologici della produzione.
Poggio dell’Aquila
Ceramiche dei livelli dell’Eneolitico Medio, recuperati al di sotto della capanna A2.

II livello al di sotto della massicciata
I depositi, indagati nei saggi stratigrafici all'interno e a ridosso della capanna A2, insieme al saggio di approfondimento nell'area B, restituirono un complesso di materiali assai omogeneo, forse in rapporto con una struttura in materiale ligneo, indicata da due buchi di palo e da un focolare.
Il materiale proveniente dal piano pavimentale della struttura può essere ricondotto a tre classi ceramiche:
Il primo gruppo comprende la categoria d'impasto grigio con superficie lucidata a stecca (classe di Piano Conte). Tra le forme si riconoscono le tazze emisferiche con ansa a perforazione orizzontale (la n. 2) e le olle a corpo globoso e collo everso (la n. 6). Entrambi i reperti trovavano precisi paralleli nella classe a superfici lustrate a stecca proveniente dagli strati della cultura di Piano Conte sull'acropoli di Lipari.
A questa classe si associa un gruppo di ceramiche d'impasto grossolano pertinenti ad olle a corpo sub-cilindrico e ansa a nastro schiacciato, anche in questo caso riconducibili ad una foggia documentata nell'ambito della cultura eoliana di Piano Conte2° ( la n. 5). 


                                                                      Lipari – Piano Conte

La Cultura di Piano Conte è una cultura dell’Eneolitico siciliano, nell’isola di Lipari
e nel resto delle Eolie.
La ceramica prodotta da questa facies era decorata con solchi concentrici. Modesta era invece l'attività nella lavorazione del rame. Reperti riferibili alla cultura di Piano Conte furono rintracciati a Pontecagnano, nell'Alto Cilento e nella grotta dell'Ausino (Castelcivita).


La seconda classe era rappresentata dalla ceramica dipinta che includeva una varietà in bruno violaceo su fondo chiaro e l'altra in bruno su fondo rosso lucente, quest'ultima ascrivibile allo stile di Serraferlicchio.
La prima varietà, nota anche come "Stile di Adrano"", presentava poche forme vascolari, in genere riferibili a vasi chiusi, di piccole/ medie dimensioni, a corpo globoso e collo distinto.
Il profilo di questi vasi apparve meglio ricostruibile dai frammenti raccolti sul suolo della capanna A2. 

Poggio dell’Aquila
Ceramica dipinta nello stile di Adrano – Capanna A2
La lettura della stratigrafia messa in luce nei saggi in profondità permise di stabilire che non si trattava di frammenti intrusivi provenienti dallo strato superiore relativa alle capanne della cultura di Malpasso.
La classe dipinta in bruno-violaceo su fondo chiaro risultava in associazione stratigrafica con la ceramica di Piano Conte e con quella dipinta nello stile di Serraferlicchio, e pertanto poteva essere considerata una produzione locale nell'ambito della tradizione artigianale dell'Eneolitico medio.
Di incerta collocazione era una categoria di ciotole a colletto distinto. con la superficie di colore marrone-giallino. a tratti nero cupo e lucidata a stecca.
Per la tecnica di esecuzione, poteva essere accostata alla classe delle ceramiche bruno-levigate dei livelli dell'Eneolitico avanzato (strato IV) nella grotta Chiusazza di Siracusa. 



Sito Archeologico di Grotta Chiusazza
La grotta è costituita da due grandi ambienti uniti da una vasta galleria e si svolge in direzione est ovest Aveva due ingressi uno dei quali ostruito. Ha pareti e volte solide e presenta belle formazioni stalattitiche e stalagmitiche soprattutto nella galleria. Il deposito stratificato comprende un quadro completo della preistoria siciliana: 
Neolitico superiore (Stile Diana- Masseria Bellavista;
Eneolitico Iniziale (ceramica dipinta dello stile del Conzo;
Eneolitico Medio (ceramica dello stile di Serraferlicchio);
Eneolitico Superiore (ceramica stile Chiusazza Malpasso;
Bronzo antico (ceramica dello stile di Castelluccio);
Bronzo medio (ceramica dello stile di Tahapsos);
Bronzo tardo (ceramica dello stile di Cassibile);
Età storica (ceramiche e statuine fittili di età greca-romana).
Località: Chiusazza Sito sottoposto a vincolo archeologico
La Grotta è anche un sito di interesse geologico: Grotta Chiusazza 
Vincolo archeologico ex art.10 D.lgs. 42/04 (vincolo diretto
D.A.//1984/10/05//n.1998;
D.A.//1986/05/01//n.1562;
D.A.//1987/07/31//n.1964
(Fonte testo scheda di rilevazione n. 123 Piano Paesistico della Provincia di Siracusa  – Beni Archeologici)
Infine, in un anfratto del banco lavico sterile (area a Sud della capanna A2), in uno strato di terra
scura con carboni, fu isolato un deposito di frammenti ceramici decorati ad impressioni. ascrivibili
al Neolitico stentinelliano. che rappresentava il primo momento di occupazione del terrazzo
vulcanico.
Significativa risultava l'assenza di frequentazione del sito nel corso delle fasi avanzate del Neolitico
e in un momento iniziale dell'Eneolitico. Tale assenza potrebbe non essere accidentale e avrebbe un
interessante parallelo nelle fasi d'uso di tre grotte prossime al Poggio dell'Aquila:
- la grotta Quaceci che rivelava una frequentazione nel Neolitico antico e una ripresa di occupazione
nel Bronzo antico;
- le due cavità vulcaniche indicate come Castro I e IL ai piedi dell'altura che sarebbero state
utilizzate come cavità funerarie solo a partire dall'Eneolitico medio (orizzonte di Piano Conte
Serraferlicchio).

La struttura A2 e il primo insediamento a capanne
Sui resti del precedente insediamento con materiali nello stile di Serraferlicchio e Piano Conte venne realizzata un'ampia piattaforma di pietrame e terriccio incoerente su cui si impostarono le fondazioni della capanna A2 a pianta ellittica.

Massicciata di pietre sotto la capanna A2
La struttura restituì due distinti piani pavimentali, ma nell'analisi dei materiali non si notarono significativi cambiamenti, suggerendo che tra i due interventi edilizi sarebbe trascorso un breve periodo di tempo. Le principali classi morfologiche della ceramica erano sostanzialmente tre:
- la prima era costituita dalla ceramica dipinta nello stile Adrano, che includeva esclusivamente forme chiuse a corpo globo-ovoidale e alto collo everso.
La decorazione era dipinta in bruno/ violaceo su fondo color crema e presentava motivi assai ripetitivi, che includevano fasce verticali a reticolo interno, triangoli e filetti a tremolo disposti sul collo.
- La seconda classe presentava della ceramica a superficie monocroma rossa, che comparve per la prima volta nella successione stratigrafica dell'insediamento. Si contraddistingueva per l'introduzione di fogge vascolari non documentate nella fase precedente, quali i vasi a bocca ovale. Fu possibile ricostruire una coppa troncoconica a doppio sgrondo che aveva un preciso parallelo in un vaso da una tomba tardo-eneolitica nell'abitato di Palagonia.
-    Furono trovate anche le anse a gomito pertinenti a tazze a calotta e gli orci a collo troncoconico e
anse a nastro verticali.


Tazze a calotta

orci

- In un caso fu documentata un'ansa a testa di elefante pertinente ad una forma chiusa a superficie lustrata in rosso chiaro, per la quale fu possibile istituire precisi paralleli con un frammento dallo strato IV (taglio 11) della grotta Chiusazza.

La giacitura del frammento nello strato più basso del deposito, in associazione con materiali della facies di Malpasso-Piano Quartara (isola di Lipari), permise di istituire un interessante parallelo con l'esemplare dalla capanna A2, suggerendo di riconoscere una varietà arcaica del tipo ancora legata al patrimonio formale di Piano Conte.
- La terza classe fu quella delle ceramiche a superficie marrone-giallina lucidata a stecca, che includeva tipi documentati nel deposito al di sotto della massicciata, quali ciotole con labbro a tesa e tazze emisferiche a colletto, in qualche caso munite di presine a bugna. Questa classe mantenne le caratteristiche morfotecniche delle ceramiche d'impasto bruno documentate nello strato al di sotto della massicciata, ponendo il problema della persistenza, nell'ambito della cultura di Malpasso-Piano Quartara, di elementi culturali riconducibili alla facies di Piano Conte.

Ciotole con labbro a tesa

Presine a bugna
Tra la ceramica d'impasto grossolano importante il tipo del bacino a basso piede e vasca emisferica, decorato con un sistema di solcature lisce all'interno della coppa e impressioni digitali sul lato esterno. 

Poggio dell’Aquila
Bacino su piede.
Suolo superiore della capanna A2
Vasi di foggia simile furono trovati nella grotta Barriera di Catania, nella grotta Chiusazza, nei siti all'aperto di S. Ippolito e di Serraferlicchio. sempre in contesti riferibili alla fase tarda dell'Eneolitico.
In ambito peloritano bacini su piede con costolature interne erano presenti nella Grotta dei Monaci di Castelmola (ME), nel sito all'aperto di Monte Belvedere-Fiumedinisi e al Riparo della Sperlinga di S. Basilio (Novara di Sicilia). A Novara di Sicilia furono rinvenuti diversi esemplari  nel primo strato in associazione con reperti dell’orizzonte di Malpasso.
Infine, tra il repertorio vascolare della cultura eoliana di Piano Quartara fu documentato un solo esemplare dal sito all'aperto di contrada Diana a Lipari. 

Le strutture Al, B, C e l'ultima fase di vita del villaggio
La capanna A2 viene distrutta forse da un incendio, come indicarono le chiazze di terra bruciata sull'ultimo piano pavimentale. Il repentino abbandono della struttura, inoltre, sarebbe indicato dalla dispersione delle suppellettili che furono lasciate in situ. Lo strato di crollo dei muri venne spianato e su esso si impostò la capanna Al a pianta circolare. Il materiale ceramico proveniente dall'ultima fase di occupazione del villaggio, documentata dai complessi delle capanne Al. B e C., presentava significative differenze rispetto alla fase precedente. L'aspetto più significative fu certamente la scomparsa della classe dipinta nello stile di Adrano e quella a superficie marrone-giallina lustrata.
Il panorama morfologico risultava rappresentato dalla classe a superficie monocroma rossa che presentava una maggiore varietà tipologica rispetto alla fase precedente. L'elemento di novità fu rappresentato dall'introduzione del tipo del bicchiere semiovoide a piastra sopraelevata su breve piede troncoconico. 

La terminazione sopraelevata includeva due principali varietà, quella con appendice trapezoidale asciforme e il tipo con piastra triangolare. 

Poggio dell’Aquila
Ceramica a superficie rossa lustrata rinvenuta sul suolo della capanna A1
Tale forma non sembrava documentata nei livelli corrispondenti alla prima fase del villaggio. Infatti i frammenti di imboccature ovali dalla capanna A2 erano pertinenti a ciotole con base piana, assai simili agli esemplari eoliani della cultura di Piano Quartara. L'assenza del tipo potrebbe essere ulteriormente confermata dal fatto che tra il repertorio ceramico della prima fase non risultava documentata l'appendice con terminazione ad ascia. Il bicchiere semiovoide con ansa a piastra fu  giustamente considerato il fossile-guida della cultura siciliana di Malpasso. Questa forma presentava un'ampia diffusione in numerosi siti dell'isola, in particolare nel comprensorio centro-orientale, dove fu notata attraverso alcune varianti nel profilo e nella terminazione dell'ansa che potrebbero essere ricondotte a differenze locali, ancora oggi poco note. L'ipotesi più verosimile potrebbe essere quella di una forma elaborata nell'ambito delle culture eneolitiche siciliane.
Infatti essa non trova riscontri nella coeva facies di Piano Quartara nelle isole Eolie, dove invece dominava la tazza o la ciotola con bocca ovale e ansa a gomito. Le tazze erano molto numerose e furono ricondotte a due principali varietà:
-  a profilo ovoidale o globulare munita di ansa a maniglia orizzontale;
-        a vasca fonda con breve colletto distinto. 


Per entrambe le categorie l'elemento strutturale in comune era la presenza di un'ansa a largo nastro che si contraddistingueva per un eccessivo sviluppo in altezza. 
Poggio dell'Aquila.
Tazze a vasca fonda e superficie rossa lustrata dal suolo della capanna Al

Tra le forme di ampia diffusione si segnalavano il boccaletto monoansato. a corpo ovoide e ansa a largo nastro appena insellato,
e la classe delle olle biansate, a corpo globoso-ovoidale e collo distinto, che presentavano numerose varianti nel profilo della vasca e nel tipo di elemento di presa. 


Per entrambi i tipi eravamo in presenza di fogge assai note nel repertorio ceramico dei complessi tardo-eneolitici di facies Malpasso. Alla categoria della ceramica di impasto grossolano appartenevano un'olla di grandi dimensioni con ansa obliqua, 
e una pentola a calotta con orlo ingrossato. 


Tra il repertorio vascolare di questo orizzonte c’era anche il tipo del bacino su basso piede troncoconico, che in qualche caso presenta il piede traforato. come in alcuni esemplari dalla grotta Chiusazza e dalla stazione di Serraferlicchio. 
A questa forma si riferiscono i frammenti di coppe a profilo assai rigido che. in qualche caso. presentano un labbro a tesa. 


Poggio dell'Aquila: bacini su piede dal suolo delle capanna Al e C
Ancora tra le fogge della classe a dipintura rossa era presente la tazza a vasca, emisferica con alta ansa a nastro, 

e le ciotole provviste di anse a gomito, in qualche caso con apici assai prominenti. 


Una caratteristica morfometrica delle tazze riferibili a. questa fase era la tendenza a. svilupparsi in lunghezza, presentando appendici linguiformi assai sviluppate. Nell'ambito della classe non dipinta, a superficie non lisciata, perdurava il tipo del bacino su piede con costolature all'interno della vasca, che non presentava significative modifiche morfologiche rispetto alla varietà documentata. nella fase precedente. 
Infine, tra gli strumenti domestici riferibili a questo orizzonte risultavano di un certo interesse il tipo del cucchiaio fittile, spesso munito di una presa a bastoncello desinente a “coda di rondine", e una serie di vasi a calotta, assai frammentari, con pareti forate, verosimilmente impiegati nella preparazione di particolari bevande o cibi solidi che richiedevano operazioni di filtraggio. 

L'abbandono del villaggio e la struttura rettilinea
Le capanne Al, B e C sarebbero state abbandonate in modo repentino, tant'è che vennero lasciate in situ sul piano pavimentale le suppellettili domestiche. Solo nel caso della struttura Al le ampie chiazze di bruciato sul suolo potrebbero essere in rapporto con un incendio, forse provocato dal crollo della copertura straminea all'interno della struttura. Uno strato di pietrame, proveniente dal dissolvimento delle strutture murarie, ricopriva le capanne e gli spazi esterni tra le singole unità domestiche. Al di sopra di questa distesa di pietre e grumi di argilla venne costruita, all'incirca nello spazio interno del perimetro della capanna Al, una struttura rettilinea ad angoli stondati, della quale fu  identificata solo una piccola porzione conservata per un solo filare, dal momento che lo strato  che la inglobava risultava fortemente alterato dai lavori agricoli moderni. Sul lembo di piano pavimentale superstite, costituito da uno strato di terra scura battuta, furono raccolti pochi frammenti ceramici che, sul piano morfologico e dell'impasto, differivano dal repertorio vascolare dell'ultima fase di vita, del villaggio. Le forme includevano ciotole o scodelle a vasca fonda, con parete concava e breve orlo e colletto, con la superficie rivestita di vernice rossa lucente su cui era stesa una decorazione dipinta in bruno. 
Poggio dell’Aquila
Ceramiche rinvenute sul suolo della struttura quadrangolare dell’Età del Bronzo Antico

Una delle tazze presenta una singolare presa a nervatura formante un archetto, impostata sulla spalla (1). I motivi decorativi comprendevano fasce verticali a denti di lupo, filetti verticali e, in un caso anche una fila puntiniforme (1-3). Non furono riconoscibili altre forme, ma tra il materiale raccolto si distinguevano anche due frammenti di forme aperte a superficie rosso lucente, pertinenti a ciotole a vasca fonda ( 4 – 5).
Il materiale della struttura a muri rettilinei presentava strette affinità, nel sistema di decoro e nel panorama formale, con il repertorio vascolare del sito eponimo di S. Ippolito di Caltagirone, dove furono rinvenute  tazze a colletto e gli elementi di presa a nervatura.

Industria Ittica
L'industria litica si contraddistingueva per l'impiego di quarzite, ossidiana e di una varietà di selce di colore biancastro. In tutti i livelli dell'abitato l'elemento che caratterizza la composizione dell'industria litica era l'ossidiana, che risultava notevolmente abbondante soprattutto negli strati riferibili alle fasi di vita della capanna A2. Furono raccolti centinaia di reperti  tra i quali  alcune piccole lame abbastanza regolari e un paio di grattatoi su estremità di lama corta.
Inoltre, sul suolo della capanna fu rinvenuto un piccolo nucleo in ossidiana di forma irregolarmente poliedrica. La selce era rappresentata da un discreto numero di esemplari e includeva in prevalenza lame a sezione triangolare e qualche robusta punta a ritocco bifacciale. In ognuna delle strutture furono rinvenuti oggetti in pietra e strumenti da lavoro in basalto, come pestelli-trituratori, lisciatoi e macine a forma di navicella.

Strumenti da lavoro e altri oggetti fittili
Nelle due fasi di vita dell'insediamento venne impiegato il medesimo tipo di fuseruola d'impasto grigio, dalla forma biconvessa e sempre di grandi dimensioni. Solo nell'ultimo momento di occupazione (suoli delle capanne Al, B e C) apparve il rocchetto fittile a piani discoidali, che con molta probabilità era impiegato come peso da telaio. Una decina di esemplari, tra frammentari e integri, di corni o phalloi di terracotta grossolana. I phalloi che, in qualche caso, erano provvisti di una base a disco. Questi reperti rappresentavano un'importante testimonianza di attività di natura cultuale che potrebbe essere in stretto rapporto con la sfera domestica, come lascia suggerire la distribuzione uniforme all'interno delle singole unità abitatile.
Gli strumenti in ossidiana per le  analisi di laboratorio, per la definizione della caratterizzazione e della provenienza, furono affidati al  Laboratorio Landis/ INFN di Catania. I risultati preliminari provenienti dalle analisi sui manufatti dell'ultima fase del villaggio confermarono l'appartenenza delle ossidiane alla grande famiglia eoliana. In ambito coatto l'ossidiana è ancora presente in maniera cospicua nei livelli della cultura di Piano Quartara. 

Osservazioni conclusive
Il villaggio sul Poggio dell'Aquila. di Adrano, grazie alla sua articolata successione stratigrafica e architettonica, offrì l'opportunità di ricostruire in chiave diacronica lo sviluppo delle principali culture dell'Eneolitico medio e tardo nel comprensorio etneo. I dati erano ancora in corso di elaborazione, ma la griglia di inquadramento crono-tipologico può considerarsi in massima parte definita nelle sue linee generali. La fase media dell'Eneolitico era rappresentata dalla classe ceramica di Piano Conte che, nell'articolazione formale e nella coesistenza dei due principali gruppi (la ceramica a solcature e quella monocroma a stralucido), trovava, precisi paralleli nelle coeve culture eoliane. Pochi erano i frammenti dipinti in bruno su fondo rosso nello stile di Serraferlicchio e questo dato risultava in piena sintonia con quanto fu riscontrato in altri siti della media valle del Simeto dove questa classe risultava scarsamente documentata.
 Comparve in questa fase anche la varietà di ceramica dipinta in bruno su fondo chiaro, nota come stile di Adrano  e per la quale oggi si è in grado di proporre, in base alla nuova successione stratigrafica della capanna A, una parziale contemporaneità con la classe di Piano Conte. Per altro, non va taciuto che un frammento nello stile di Adrano, di probabile importazione, fu recuperato tra i materiali della stazione eponima di Piano Conte a Lipari, mentre un secondo frammento, con il medesimo trattamento della superficie e decoro, proveniva dai livelli medio-eneolitici sull'acropoli di Lipari. La messa in opera del primo impianto di capanne (struttura A2) coincideva con l'introduzione delle unità abitative con paramento litico e pianta ovale, mentre sul piano del repertorio vascolare si registravano significativi elementi di novità, quali le tazze o ciotole con anse a gomito e i vasi a bocca ovale che rimandavano al patrimonio della cultura eoliana di Piano Quartara. Dominava, in termini di rapporti di percentuale, la classe ceramica a superficie lustrata in vernice rossa, ma continuava la produzione dei vasi dipinti in bruno su fondo chiaro nello stile di Adrano. 
La seconda fase della cultura di Malpasso, indicata dalle strutture Al, B e C, si contraddistingueva per una maggiore articolazione delle fogge vascolari e per la forte uniformità della produzione ceramica, segnata dalla scomparsa della classe dipinta del tipo Adrano.
 Anche in questo caso erano assai evidenti le affinità con il patrimonio formale della cultura di Piano Quartara; il richiamo al mondo eoliano era ulteriormente rafforzato dal considerevole numero di strumenti in ossidiana presenti nei livelli dell'ultima fase dell'abitato.

L'insediamento capannicolo venne distrutto e/ o abbandonato per cause ignote e sullo strato di distruzione si impostò un nuovo villaggio, rappresentato da strutture con paramento litico e forse ancora a pianta ellittica allungata. Il patrimonio vascolare differiva da quello della fase precedente. Stretti confronti, nelle fogge e nella decorazione dipinta in nero su rosso, potrebbero essere istituite con il repertorio dello stile ceramico di S. Ippolito, attribuito al Rame Finale o al Bronzo antico, e soprattutto con i materiali dalla grotta Pellegriti di Adrano, assegnati ad un orizzonte "protocastellucciano".
………………………………

4) Grotte Maccarrone e Pellegriti: giacimenti funerari di orizzonte protocastellucciano.
Sulla grotta Maccarrone non ci sarebbero molti riferimenti. In un sito di speleologia risulterebbe oggi non più identificabile,
Dai dati in mio possesso  era ubicata:

Le pendici dell’Etna furono abitate sin dal Neolitico Antico come suggerì lo scavo di Sam Marco (Paternò). Una frequentazione legata alla fertilità del territorio ed alla grande disponibilità d’acqua.
L’occupazione continuò durante le successive fasi del Neolitico Medio e Tardo denominate di Stentinello, Serra d’Alto e Diana ( prima metà del V millennio a.C.).
Fu in questa fase che svilupparono le prime testimonianza della frequentazione dell’uomo nelle gallerie di scorrimento lavico.
Sarebbero sei/sette le grotte che avrebbero restituito delle tracce importanti con il rinvenimento di frammenti di ceramica neolitica. Tutte grotte poste nel versante occidentale:
- Balze Soprane/ Bronte (Ct);
- Tartarici – Bronte (Ct);
- Leonardi, in contrada Minà (ed un’altra grotta vicina, indicata come Minà-Capritti) – Adrano, dove furono recuperati dei frammenti nello stile di Diana;
- Maccarrone - Adrano;
- Sciare Manganelli – Adrano, frammenti nello stile di Diana;
- Pezzamandria - Misterbianco.
La prima ed ultima grotta non furono oggetto di uno scavo sistematico.
La grotta Maccarrone è famosa per i suoi reperti legati all’uso sepolcrale in una fase avanzata del Castellucciano (faces Castelluccio - 2300 a.C. - 1700 a.C. circa.).
In un ambiente della stessa grotta furono rinvenuti anche piccoli frammenti dello stile di Diana, legati al momento finale del Neolitico.
(La Cultura di Diana o cultura di Diana-Bellavista era una cultura neoitica che si sviluppò durante la prima metà del V millennio a.C..
Il none deriva dal sito di Diana, posto ai piedi dell’acropoli di Lipari nelle Isole Eolie).

Ceramica dello stile di Diana

Lipari - Sito archeologico di Diana
Le grotte Marca (Castiglione), Tartaraci (Bronte), Pellegriti,  Pietralunga, Maccarrone, del Santo (Adrano), Origlio (Biancavilla), Quadararo (Misterbianco) Basile e Petralia (Catania), presentano in parte aspetti che sarebbero riconducibili all’Eneolitico (Età del Rame) o alla fase di transizione tra il Neolitico e l’Eneolitico.
Sarebbero le grotte più ricche di reperti.
Le  grotte Tartaraci  (dove furono trovati due stupende punte di freccia peduncolate a distacco lamellare, rarissime in Sicilia e paragonabili a quelle della cultura del Gaudo - Salerno) e la Basile (dove fu rinvenuto un focolare con ceramiche tipiche dello stile di Malpasso) presenterebbero una frequentazione non sepolcrale.
Le grotte Marca, Petralia, Pellegriti, Maccarrone, Pietralunga, del Santo avrebbero quindi una funzione sepolcrale mentre per le altre non ci sarebbero dati sufficienti  per la loro funzione sepolcrale se non per un uso forse cultuale.
In nessuna fu accertato con sicurezza, tra l’Età del Rame e del Bronzo, una trasformazione d’uso da abitativa a sepolcrale.
La frequentazione delle grotte di scorrimento lavico, a tutte le quote dell’Etna, si intensificò con lo sviluppo del Bronzo Antico.

Malgrado questi rinvenimenti non si avrebbero sufficienti elementi per proporre l’uso delle grotte per fini sepolcrali. Le tombe nel periodo Neolitico erano in genere costituite da fosse all’aperto o a cisti come  a poca distanza dalle grotte di Balze Soprane e di Tartarici che sarebbero datate alla fine del Neolitico. (Tombe a cisti anche nel territorio di Comiso nel Colle delle Ciaole vicino a Monte Tabuto).
La frequentazione delle grotte si rafforzò  con l’Età del Rame. Le indagini misero in evidenza la complementarietà dell’insediamento nelle grotte rispetto ai siti all’aperto.
Fu solo con la Tarda Età del Rame che cominciò l’incremento di siti abitativi sulle pendici dell’Etna che avrà il suo culmine con l’inizio del Bronzo Antico (dal 2500 a.C. fino al 1500 a.C. – periodo caratterizzato dalla  ceramica del tipo Castelluccio).
I dubbi relativi all’attribuzione  culturale e cronologica dei reperti ceramici nelle grotte Pallegriti, Marca, Petralia ed altre, considerate come protocastelluciane sia come equivalenti degli aspetti tardi o finali del rame, in questa zona etnea, spinsero gli studiosi ad adottare, per la classificazione delle ceramiche, il termine “Pellegriti – Marca”.
Questo aspetto, anche se presenta dei caratteri singolari, sarebbe raffrontabile con la cultura di Sant’Ippolito e quindi il termine “Pellegriti – Marca” si potrebbe collocare nel momento di passaggio tra la fine dell’Età del Rame e l’inizio dell’Età del Bronzo Antico.
Questo tipo di ceramica fu utilizzato ininterrottamente anche durante il successivo periodo dell’Età del Bronzo Antico mentre altre forme ceramiche furono limitate a questa fase.
Infatti nella grotta Marca vi sarebbero ceramiche vicine ai tipi di Sant’Ippolito, accompagnate da frammenti  dello stile di Piano Conte (Lipari).
(Sant’Ippolito è un sito preistorico nel Comune di Caltagirone (Catania). Il sito rilevò la presenza di due villaggi di epoca neolitica e calcolitica (Età del Rame o Eneolitica). Nel sito fu identificata una facies culturale datata tra il 2000 e il 1800 a.C. che avrebbe preceduto la facies di Castelluccio e che ebbe rapporti con il mondo egeo ed anatolico).
La ceramica di Sant’Ippolito era dipinta con motivi di linee e triangoli in colore scuro su fondo giallo-rossiccio. Le forme tipiche furono una fiaschetta con corpo ovoidale e ad unica ansa, un vaso emisferico con beccuccio cilindrico e fruttiere con basso piede conico, che richiamavano modelli orientali. Erano presenti anche recipienti a partizioni multiple di uso incerto. La ceramica di Sant'Ippolito sarebbe stata collegata alla successiva "ceramica di Castelluccio".

Sant’Ippolito, un sito preistorico nel Comune di Caltagirone (Catania)
Solo poche grotte mostrarono una frequentazione molto lunga mentre altre furono occupate per brevi periodi e anche con interruzioni.
Le grotte ad uso sepolcrale mostrarono un basso numero di inumati e questo perché in uso da comunità ristrette forse su base familiare.
L’unica eccezione sarebbe la grotta di Pietralunga che presentò una forte funzione sepolcrale con inumati accompagnati da corredi o offerte funerarie vascolari. In particolare fu trovato, in una deposizione funeraria, un gruppo di vasi a superficie monocroma rossa che rientrerebbero nella facies di Malpasso. Le altre sepolture con vasi riferiti ad un periodo cronologico successivo, e con una tazza del tipo di Capo Graziano II.
La frequentazione delle grotte diminuì nel Bronzo Medio (1700 – 1350 a.C.).


Il fenomeno sarebbe da collegare con il cambio dell’economia, con l’apertura al commercio e con lo spostamento delle comunità verso la costa. Uno spostamento che non fu sempre repentino ma dilatato nel tempo come a Milena (Caltanissetta).
In merito alle sepolture in grotte, in questo periodo, fu completamente assente.
Le tracce greche nelle grotte furono assenti. Le grotte vicino alle grandi città vennero invece usate in epoca romana come magazzini.
Sarebbe il caso, a Catania, della distrutta grotta Marrano, nella quale vennero recuperati numerosi frammenti, soprattutto di lucerne africane, a suo tempo raccolti da speleologi.
Per alcune deposizioni di ceramiche come quelle neolitiche della grotta Maccarrone si ipotizzò che potessero essere collegate al culto delle acque di stillicidio come affermò il prof. Cultraro nel 1997.
Un’ipotesi che avrebbe bisogno di precise conferme.
Il culto di queste acque era legato alle loro presunte virtù salutari. Un culto che fu attestato nella grotta Palombara di Siracusa.

Nella grotta carsica Palombara furono recuperati alcuni vasi dell’Età del Rame che
furono trovati inglobati nelle stalattiti.
Il primo interesse per le grotte, probabilmente limitato alla costituzione di stazioni temporanee in aree di collina, spesso su lave anche recenti e adatte per le prime forme di mobilità pastorale di alcuni gruppi, evidenziò la fase culturale di Diana (Lipari).
Infatti dei frammenti furono recuperati nella grotta Maccarrone e nelle grotte di contrada Minà-Capritti (tutte nel territorio di Adrano).
La grotta Maccarrone fu usata per scopi funerari.
Evidenziò una tipologia funeraria particolare, legata ad una fase avanzata o finale del Bronzo Antico.
La tipologia funeraria era legata alla deposizione dei defunti all’interno di pozzetti circolari nel deposito terroso posto al di sopra del pavimento della grotta. I pozzetti presentavano le pareti rivestite di pietre.
Nella grotta Maccarrone furono rinvenuti tre pozzetti, con deposizioni singole forse non in connessione anatomica. Alcune di queste sepolture presentavano dei corredi importanti forse legati agli aspetti sociali del defunto.
La sepoltura in grotta sarebbe uno dei passaggi culturali tra l’Età del Rame e l’Età del Bronzo. 
La pratica funeraria subì delle modifiche come quella di deporre vasi e libare (offrire alla divinità versando vicino al defunto un liquido). I vasi dovevano avere un preciso repertorio vascolare con forme specializzate legate all’attività funeraria.
Quali forme dovevano avere questi vasi adottati nelle pratiche funerarie?
- una brocca a corpo globulare e con collo cilindrico, anche di grande dimensione.
Un aspetto particolare, legato alla cultura ed alla religiosità dei Sicani/Siculi: le brocche dopo essere state usate venivano rotte. Un aspetto che si evidenziò nella grotta Petralia di Catania e nella grotta Pellegriti di Adrano. In altre grotte le brocche furono lasciate integre come nella grotta Marca di Castiglione.
- Altro vaso adoperato nella pratica funeraria era la coppa su alto piede, anche decorata. Una coppa di piccole dimensioni e acroma ma, in qualche caso, anche di grande dimensione perché destinata a pasti comuni o a ricevere offerte liquide.
Queste pratiche funerarie fecero nascere un aspetto archeologico ben preciso, denominato “Pellegriti – Marca”, probabilmente contemporaneo alla Facies di Sant’Ippolito (2000 – 1800 a.C.).
Un aspetto che, secondo  l’archeologo Bernabò Brea, segnò la fine dell’Età del Rame. Per altri archeologi fu invece un semplice stile ceramico coesistente con le ceramiche monocrome della facies di Malpasso.
Nel corso del Bronzo Antico la ceramica subì una evoluzione stilistica e naturalmente tipologica.
Bernabò Brea indagò su queste nuove tipologie di ceramiche che furono rinvenute nelle grotte etnee.
Le coppe su alto piede   assunsero un aspetto più slanciato, legato alle dimensioni della coppa e alla posizione delle anse.
Una modifica subirono anche la tazze-attingitoio e le anforette che presero il posto di quelle globulari.
Questa nuova tipologia di ceramica si evidenziò nei corredi delle tombe a pozzetto della grotta Maccarrone.
Anche alla Fogliuta, nel “deposito Sapienza” vennero recuperati vasi con questo nuovo stile.  La grotta della Fogliuta non era però destinata a scopi funerari ma di culto.

Ma come si svolgevano i riti funebri nelle grotte?
Sin dagli inizi dell’Età del Rame la  grotta ha sempre avuto un suo aspetto cultuale legato al ventre della Madre Terra.
Nella rappresentazione simbolica della Preistoria e dell’età antica, l’acqua era il sangue di Madre Terra e la pietra la sua materia vivente. Nato da un’unica divinità femminile per partogenesi, il pianeta Terra assumeva l’aspetto di un sistema organico vivente che incuteva rispetto.
La grotta era anche uno spazio sotterraneo, quindi segreto, per poter svolgere determinati culti legati al mondo ultraterreno.
Il luogo nel quale i membri della comunità ritornavano periodicamente per svolgere rituali che richiedevano la manipolazione dei resti del defunto. Manipolazione che implicava diversi fasi: lo spostamento, la rimozione, il frazionamento degli scheletri, la selezione delle ossa e il successivo riseppellimento. In questo modo i defunti instauravano un rapporto duraturo con la comunità.
I dati archeologici non permetterebbero di affermare con precisione tutte queste fasi rituali legate al defunto.
 All’inizio le sepolture venivano infatti considerate come secondarie e indifferenziate, cioè come degli ossuari. Solo successivamente si avrà  una diversa modalità di seppellimento nelle grotte o anche in parti (camere) di esse. In questo caso si avranno delle sepolture primarie e altre secondarie, espresse in varie tipologie. 

Nella grotta Pellegriti di Adrano fu attestata una sepoltura primaria.
Nella grotta fu infatti ritrovato un inumato, in una fossa rivestita di ocra, con vasellame risalente all’Età del Rame Finale. La documentazione non permise di stabilire se in altri ambienti della grotta fossero presenti o meno altre sepolture primarie.
Sembra che di questa grotta si siano perse le tracce.
Anche la sepoltura (indicata con N.1) nella grotta Petralia di Catania sarebbe primaria.
Nella sepoltura della grotta Petralia fu rinvenuta solo la testa, un braccio e poco altro. La sepoltura presentava una copertura con grandi pietre e scheggioni. Aveva il cranio a sua volta protetto con pietre che non lo toccavano.
Non si riuscì a stabilire se si fosse in presenza di uno scheletro in origine integro o se fu sottoposto ad un tentativo di ricomposizione secondaria.

Sigla catastale: SICT 1205 - Comune: Catania - Sinonimi: Grotta Leucatia –
Anno eruzione: Prehistorical - Località: via Liardo 17 –
Sviluppo: 518 m - Dati carta I.G.M.: Catania, Foglio 270, - Dislivello totale: 21 m
Quadrante IV, Orient. SE, Ediz. 1971 –
 Quota s.l.m.: 138 m - Longitudine: 15° 05’ 07” E - Latitudine: 37° 31’ 59” N

Catania – Grotta Petralia - Pianta
In merito alle sepolture secondarie, sarebbero quelle con accumuli di ossa di vari individui.
Si tratterebbe di una sepoltura non differenziata e che troverebbe un riscontro in quella di contrada Marca di Castiglione.

Grotta Marca
Deposito di ossa degli individui deposti nella grotta.

In un settore della grotta Marca gli archeologi, pur con una ricerca molto accurata, non poterono distinguere gruppi di ossa pertinenti a singoli individui. Le ossa erano immerse in un terreno molto fangoso che aveva prodotto degli spostamenti e rimescolamenti oltre a quelli effettuati probabilmente nella deposizione. Uno dei crani aveva al di sotto quattro lame di falcetto che furono collocate  in occasione della sua rideposizione.
Un altro aspetto nelle pratiche funerarie, in particolare quelle più antiche, era l’uso dell’ocra.
L’ocra veniva adoperata come rivestimento della base della fossa o anche deposta sulle ossa del defunto.
L’ocra, il colore della morte, aveva una sua funzione evocatrice del sangue e della vita, era probabilmente oggetto di attivi commerci sin dall’Età del Rame (molto usata  dagli antichi Egizi, nella civiltà nuragica; per i commerci proveniva dall’Isola d’Elba, Spagna, Francia, Turchia).
Veniva impiegata nelle cerimonie per cospargere il corpo del defunto ed anche il suo corredo funerario, per sacralizzare un luogo. Quest’ultimo aspetto fu evidenziato nella grotta Petralia di Catania dove fu rinvenuta una nicchia riempita con ocra.
La presenza dell’ocra fu evidenziata in tutta la preistoria siciliana almeno fino alla fase iniziale del Bronzo Antico ma senza una precisa regola e frequenza in tutte le zone della Sicilia.
Infatti sembrerebbe più diffusa nella Sicilia occidentale e nell’Età del Rame sia nelle sepolture primarie che in quelle secondarie.
L’ocra veniva cosparsa sul defunto al momento della sua sepoltura o successivamente?
A Rinaldone, ( provincia di Viterbo) (facies d Rinaldone – Periodo Età del Rame-Eneolitico; metà del IV – III millennio a.C.) la colorazione delle ossa era legata al momento del rituale di manipolazione dei resti scheletrici. L’ocra manifesterebbe i suoi effetti coloranti solo se applicata in quel momento.

I Rinaldoniani, misteriosi antenati degli Etruschi
Le deposizioni secondarie costituivano il rituale funerario maggiormente praticato nell’area adranita.
Rituale che avveniva all’interno della grotta o anche all’esterno?
La presenza di offerte e del corredo personale del defunto potrebbero dimostrare come il rituale si svolgesse all’interno della grotta.
Il numero degli individui sepolti nelle grotte fu esiguo e non potevano rappresentare l’intera comunità tenuto conto anche del probabile periodo, non troppo breve, del loro uso.
Il seppellimento nelle grotte etnee, come nel caso della grotta Petralia di Catania,  sembrerebbe svolgersi per nuclei familiari e non sembrerebbero esservi state distinzioni per classi d’età o di genere.
L'assenza di individui di età più che matura, anche nell'insieme delle grotte esplorate, potrebbe probabilmente rientrare nel normale andamento della mortalità dell'epoca. In un contesto sostanzialmente paritario, che non contempla figure emergenti all'interno della compagine sociale. Esisterebbero tuttavia dei casi in cui il rango dei defunti fu sottolineato o dal trattamento del corpo e dalla preparazione del sepolcro (il caso della tomba della Petralia) o dal corredo deposto, che probabilmente si riferiva all'attività svolta in vita dal defunto, come nel caso del "cacciatore" della grotta Pietralunga.
Verso la fine dell'età del Bronzo Antico, nella grotta Maccarrone, furono trovate sepolture all'interno di pozzetti con deposti oggetti importati dall'Egeo, di particolare pregio e valore, come una tazza di bronzo e vaghi di collana in pasta vitrea, oltre ad un'ascia di rame che non si sa se collegata alle sepolture.
(Omero, Odissea XV, 459-463 - Gli elementi di collana, detti anche “vaghi” (dalla parola latina baca, cioè perla).
Il rituale funerario, là dove fu possibile ricostruirlo, prevedeva l'uso di versare o consumare liquidi, utilizzando, come si è detto più sopra, le brocche e le coppe su piede (alla grotta Pietralunga la coppa con decorazione a motivi zoomorfi aveva un foro regolare sul fondo della vasca per il deflusso del liquido versato). Non fu possibile accertare se si riferissero  a riti lustrali o di libagione anche i grandi contenitori d'acqua, pithoi di varie forme e dimensioni, di ceramica grezza spesso cordonata e decorata a rilievo, ritrovati con una certa abbondanza in numerose grotte dell'area adranita e catanese, ma anche in insediamenti collinari, come Randazzo. Indubbiamente la loro diffusione fu legata alla necessità di conservare le scarse risorse idriche in un ambiente con poca idrografia di superficie e lunghe estati asciutte, ma la presenza di particolari decorazioni, come nel caso delle svastiche sul pithos della grotta Spartiviali di Biancavilla, esposto nel Museo di Adrano, potrebbe volere assegnare significati simbolici all'uso di questi vasi.
Non furono segnalati con certezza nelle grotte di Adrano, probabilmente per poca sistematicità delle ricerche di scavo, altri usi rituali individuati nella grotta Petralia di Catania. È probabile che azioni quali la frammentazione volontaria delle offerte funerarie, con spostamento e asportazione di frammenti, la "decapitazione" e il capovolgimento di vasi, abbiano rappresentato un fenomeno diffuso. I vasi ritrovati insieme ai resti umani nelle diverse grotte, infatti, furono per lo più ricostruiti, mai completamente, da numerosi frammenti. Inoltre, due brocchette dalla grotta Maccarrone erano entrambe prive del collo e potrebbero testimoniare la pratica di decapitare questo tipo di vaso e di renderlo, quindi, inutilizzabile in circostanze diverse e successive alla cerimonia funebre.
Un ritrovamento di alcuni decenni fa, purtroppo privo di documentazione, potrebbe fare pensare a deposizioni di tipo votivo e non funerario.
Alla periferia di Adrano, nella Grotta Spitaleri, una piccola cavità in seguito manomessa, alla fine degli anni '70 fu recuperato, assieme a pochi frammenti dipinti e ad una brocca dello stile Pellegriti-Marca (fine età del Rame), un singolare vaso "a gabbietta", con foro circolare sulla faccia anteriore e una piccola presa sottostante che richiamò modelli egei.


Vaso a gabbietta
Rinvenimento: Adrano – Grotta Spitaleri.
Materiale del reperto: Argilla grezza beige-rossiccia con abbondante tritume lavico; superficie originariamente lisciata..
Condizioni del Reperto: Piccola lacuna nella parte alta dell’apertura. Ricomposto un ampio settore, presa sbeccata.
Datazione: Antica Età del Bronzo ?
Dimensioni del Reperto: (altezza, 25,5 cm – base, 24 x 18,5 cm).
Numero inventario: 11082
Forma quasi parallelepipeda: parte superiore fortemente convessa e lievemente ad ogiva, pareti verticali appena arrotondate, base rettangolare con angoli arrotondati; la faccia anteriore, piana, presenta nella parte alta un’apertura approssimativamente ovoidale, nella parte bassa una linguetta orizzontale con estremità stondata (rendere tondo) (presa?).
Il reperto presenta numerosi problemi relativi alla sua datazione e alla sua funzione.
In assenza di dati stratigrafici, gli unici elementi di valutazione sono affidati ad aspetti tipologici-formali, quali il trattamento della superficie e la composizione dell’argilla, ricca di tritume vulcanico di grana fine, che rientrano nella lunga tradizione della ceramica di impasto tipica dell’età del Bronzo e del prima età del Ferro siciliana. Dal punto di vista formale, il vaso può essere probabilmente assimilato alla categoria dei modellini fittili. In Sicilia la più antica evidenza di rappresentazioni miniaturizzate di edifici si colloca nell’ambito della cultura di Castelluccio, momento al quale si datano i singolari modellini a pianta circolare dal complesso cultuale di Monte Grande (Agrigento), che rappresentano probabilmente degli spazi aperti con delle figure stilizzate. Nel caso del reperto in esame, la struttura dovrebbe fare riferimento ad uno spazio chiuso, nel quale il breve listello alla base dell’apertura potrebbe suggerire ad una sorta di soglia.
Elementi fittili in frammenti pertinenti a modellini molto simili a quelli di Monte Grande sono stati segnalati anche tra i materiali dal Santuario di Monte San Giuliano (Caltanissetta), sempre dell’età del Bronzo Antico, in esposizione presso il Museo Archeologico di Caltanissetta.
Al momento non sono invece noti modellini fittili nelle fasi successive dell’età del Bronzo siciliano, il manufatto di Adrano, per la struttura e la sezione ovoidale, richiama in qualche modo alla categoria dei vasi a gabbietta presenti, in contesti culturali e orizzonti cronologici diversi, in tutto il Mediterraneo centro-orientale.
Il modellino della grotta Spitaleri rimane al momento un unicum. La sua struttura chiusa e la forma irregolarmente ovoidale potrebbero simbolicamente riprodurre il luogo nel quale il manufatto fu rinvenuto, ovvero una grotta vulcanica. In tale ipotesi un possibile precedente può essere riconosciuto nel misterioso modellino fittile con figura maschile itifallica dalla necropoli eneolitica di Piano Vento presso Palma di Montechiaro (Agrigento). Un reperto collocato all’interno di una nicchia o di un antro. Reperto conservato soltanto in frammenti non reintegrabili fra di loro.

Un reperto che rientrerebbe nella categoria, non molto estesa, dei modellini fittili, conosciuti in forme diverse, nel Bronzo Antico siciliano. Oltre che una capanna o un santuarietto, indiziati da quella sorta di soglia che fa anche da presa, il vaso potrebbe, come suggerito dal compianto prof. V. La Rosa, simboleggiare la stessa grotta, intesa quindi come luogo di culto. Tale ipotesi aprì scenari nuovi, che avvicinerebbero le grotte etnee ad altre realtà della stessa Sicilia e di altre regioni, dove furono attestate nelle grotte delle attività non esclusivamente connesse col mondo funerario.
Una ipotesi tutta da dimostrare dato che mancherebbero ulteriori indizi archeologici.
Importante comunque la singolarità del complesso delle grotte etnee e in particolare, considerato il loro numero, di quelle del distretto etneo occidentale. Il seppellimento di individui e di gruppi familiari al loro interno, noto anche in altre zone della Sicilia, si originò, con ogni probabilità, durante la colonizzazione delle difficili pendici etnee, per la ricerca di un ambiente legato direttamente al mondo ctonio, in un contesto di religiosità legato all'elemento "terra".
Esso si mantenne qui però durante tutta l'Età del Bronzo Antico, in alternativa al sistema delle grotticelle a deposizione multipla del resto dell'isola, per assicurare la continuità post-mortem del gruppo familiare allargato, con le cerimonie connesse, in un contesto geologico certo non adatto ad altre soluzioni. 






 Lo straordinario teatro di vita della Grotta Pellegriti
 Nel 1955 il sig. Michelangelo Pellegriti, allora dodicenne, passeggiava in contrada Pulica, con il suo cane. Un cirneco che veniva adoperato dal padre, Salvatore Pellegriti,  un ex  bersagliere decorato con la medaglia di ferro, nella caccia al coniglio.
Il cane per inseguire un coniglio s’infilò in un cunicolo e non ritornò indietro.
Una grotta di scorrimento lavico, una delle tante presenti nel territorio adranita. Una grotta risalente  a circa mezzo milione d’anni fa e formatosi  grazie allo scorrere della lava in direzione del Simeto.

Una delle grotte di scorrimento lavico dell’Etna

La lava durante il suo fluire a causa del contatto con l’aria è soggetta a perdere continuamente per irradiazione il suo calore. In particolare la temperatura della lava che normalmente effluisce sull’Etna, ha temperature comprese tra 1050° e 1150°. La parte esterna di una colata (basica) già in prossimità della bocca di emissione, inizia un rapido processo di raffreddamento, mentre all’interno la lava si mantiene fluida stancandosi dalla crosta superficiale irrigidita. In questo modo si  origina un distacco tra le due parti : esterna, rigida o semi-solida, ed interna calda e fluente.
Grazie a questo processo si possono formare le gallerie di scorrimento lavico o tunnel di lava. In genere, hanno forma pressoché tabulare e si originano in seguito allo svuotamento della colata, la cui parte esterna per lo stesso processo precedentemente trattato, rimane in sede mentre la massa interna ancora molto calda e quindi fluida, scorre con perdita di calore relativamente lenta. Tale svuotamento si completa quando cessa l’alimentazione della colata stessa e la massa lavica della parte alta della galleria fluisce verso il basso per gravità e per pressione idrostatica, lasciando una cavità più o meno grande.

Il ragazzo era molto affezionato al cane e preso dall’ansia, cercò di entrare nel cunicolo ma era troppo stretto perché occluso da pietre.
Chiamò il padre e insieme si recarono all’ingresso del cunicolo.
Riuscirono a liberare l’ingresso in modo da formare un piccolo varco, avvolsero degli stracci attorno ad un robusto fusto di ferla a cui diedero fuoco creando così un torcia.
Il ragazzo riuscì ad entrare nel cunicolo per ritrovarsi in un corridoio.
Il ragazzo, con grande coraggio, percorse lo stretto corridoio per qualche metro per poi ritrovarsi in un’ampia sala. Dopo circa quarant’anni il sig. Michelangelo ricordava molto bene quel momento ricco di stupore.
Un’ampia sala di circa quaranta metri quadri.
Il grande stupore di quegli attimi legati anche allo spettacolo che i suoi occhi stavano ammirando, lo spinsero a tornare indietro per raccontare il tutto al padre.
Attorno all’ampia camera erano disposti delle giare..
In realtà erano degli oggetti funerari che il ragazzo, inesperto di conoscenze archeologiche, definì
  “giare”.
Il padre capì subito di trovarsi di fronte ad un importante rinvenimento archeologico.
Inviò quindi il figlio a cercare degli amici ad Adrano mentre lui sarebbe rimasto a guardia del sito.
Gli amici del padre erano tutte persone con cui condivideva la passione per l’archeologia, studiosi di storia patria.
Il gruppo di amici erano costituito da:
- Il prof. Saro Franco i cui meriti per i suoi studi non furono mai riconosciuti. Fu anche uno dei fondatori e direttore del Museo Archeologico di Adrano;
- Il maestro Carmelo Cozzo che, più volte interrogato, diede sempre la stessa versione dell’accaduto;
- Il prof. Piscione;
- Il fotografo signor Milazzo che era in possesso anche di una cinepresa con la quale voleva riprendere le fasi dell’importante rinvenimento.
Il gruppo giunse davanti all’ingresso del cunicolo. Per prima cosa allargarono l’ingresso per permettere l’entrata degli adulti.
Una volta allargato l’ingresso, vi penetrarono e tutti rimasero allibiti da quello che si presentava ai loro occhi… era come se si fossero trovati in presenza di un qualcosa che non apparteneva al mondo reale.
Capisco le sensazioni provata perché amo l’archeologia e condivido i loro momenti perché
L’archeologia non è quello che si trova, è quello che si scopre….
Penso che ritrovarsi lì dentro quella grande camera, permette di isolarti
dalla realtà quotidiana, fatta di compromessi e di ombre viventi.
Si pensa a sé stessi e si riesce a riconoscersi più di quanto uno si conosca e
la vena poetica di ritrovarsi dentro ad un ambiente di migliaia e migliaia di anni,
mai vista prima di me, non è indifferente.
La camera diventa una filosofia di vita, l’isolamento dalla civiltà rude e moderna.
I reperti diventano un po' come il corpo del passato,
quello che consapevolmente la terra trattiene nella sua memoria, partorendolo di nuovo,
e l’archeologo, in questo caso, diventa come l’ostetrico della terra riportando alla luce.
… la luce dell’immortalità
Successivamente tutti i reperti rinvenuti furono datati con l’ausilio del radiocarbonio al IV millennio a.C.
Reperti di gran valore costituiti da ceramica dipinta con ocra rossa e sfumature di grigio. Alcuni contenevano dei motivi decorativi mentre altri erano di natura più grezza.
Gli scopritori dopo aver superato l’attimo di stupore e visionato anche se superficialmente i reperti, si posero una domanda:
nella grande camera ci deve essere il corpo del defunto o, comunque,
ciò che del suo corpo rimane?
Tutti si aspettavano di trovarlo nel mezzo della camera disteso sul duro basalto e magari coperto da un cumulo di pietre o tegole.
Erano studiosi e appassionati di archeologia e si trovarono concordi nella decisione di scavare nel centro della grande stanza.
L’arredo funebre era disposto lungo il perimetro della camera e lasciava quindi il centro della stanza libero. Era questa una precisa indicazione.
Levarono dal suolo le pietre che erano cadute dalla volta e subito si accorsero che il terriccio era diverso da quello presente nella camera. Aveva una consistenza più fine come se fosse stato sottoposto ad una attenta e accurata setacciatura.
Furono asportati alcuni centimetri di quella terra fine e apparve uno strano strato di argilla cruda molto compatta. Argilla che era disposta come se si volesse creare un piano di posa, perfettamente piano. Si riuscivano ancora a leggere le impronte lasciate dalle dita di chi aveva creato questo accurato piano di posa. Venne asportato anche questo piano di argilla e apparve subito uno scheletro che era adagiato su un altro strato di argilla. Argilla che era disposta in modo tale da isolare il corpo del defunto dal pavimento della grotta.
Gli scopritori furono subito colpiti da un particolare aspetto dello scheletro.
Furono colpiti dalla sua lunghezza: misurava circa 2,03 metri.
Al collo presentava una collana di denti di animali e questo monile lo rendeva principesco.
In un lato, a fianco dello scheletro, era stata deposta una enorme ascia di pietra. Nel lato opposto erano presenti dei raschiatoi in selce che erano ancora taglienti come rasoi.
L’ascia era scanalata al centro, in modo che vi potesse scorrere la corda o il budello essiccato, che sarebbe servita per fare aderire l’arma o utensile al suo manico di legno ( di cui non vi era traccia dopo millenni).
L’ascia era lavorata in modo tale che da un lato aveva il taglio e dall’altro la forma a martello.
Stranamente gli scopritori si lasciarono andare, non riflettendo, ad una irrimediabile azione.
Decisero di portare fuori dalla grotta lo scheletro per ricomporlo e utilizzando la cinepresa e la luce del sole fare delle riprese dell’importante reperto.
Purtroppo lo scheletro a contatto con l’atmosfera si polverizzò.
A distanza di anni il sig. Michelangelo Pellegriti non ricorda se il fotografo fece in tempo a riprendere lo scheletro.
Dei reperti recuperati alcuni si trovano nel Museo di Adrano però molti, a detta dello stesso sig. Pellegriti, mancano all’appello, forse perché esposti nel Museo di Siracusa.
Fra gli oggetti mancanti un preziosissimo reperto che fu descritto in modo molto dettagliato dallo stesso Pellegriti.
Si tratterebbe di una pietra che si trovava nei pressi della grotta, posta a qualche centinaio di metri.
Tutti i reperti vennero rimossi dal loro luogo e trasportati nel Museo per essere esposti in una teca che portava il nome dello scopritore.
Il merito alla pietra , il sig. Michelangelo Pellegriti la ricordava molto bene tanto da farne un’attenta descrizione:
Era questa, una pietra lavorata, di forma ovale, leggermente concava nella faccia superiore, convessa in quella inferiore, ai lati era stata modellata in modo tale che fosse resa possibile la presa della stessa, cioè erano state ricavate delle sporgenza che fungevano da manici.
Nella faccia superiore del manufatto, levigata in modo molto accurato era
Incisa una freccia che puntava a destra
indicando, o avendo come bersaglio, un segno che riproduceva la cappa (K).


Il prof. Francesco Branchina  affermò come i reperti siano stati datati al IV millennio a.C. e quindi sarebbe stata necessaria un comparazione tra i segni e le lingue ideografiche dello stesso periodo come la sumerica, l’egiziana, ecc.
Secondo lo studioso nel IV millennio a.C. i popoli emigrati dal Nord, a causa delle condizioni climatiche difficili, non avevano ancora del tutto compiuto la separazione linguistica e culturale che li aveva uniti prima che avvenisse la loro dispersione.
Mise in evidenza l’affinità spirituale tra il simbolismo adottato dai Sicani e quello runico adottato dai popoli Indogermanici (Druidi?).
Il sig. Pellegriti nel descrivere l’incisione riferì del disegno di una freccia sulla parte superiore della pietra che secondo lo studioso Branchina corrispondere alla ruina che avrebbe come suono “Tyr” e che avrebbe come simbolo il guerriero spirituale.
In merito alla “K”, che sarebbe l’aspetto principale dell’oscuro messaggio, il sig. Michelangelo in realtà vide una lettera simile che per l’alfabeto runico sarebbe la “ass”.
Simboli e nomi delle rune impostati. alfabeto runico, futhark.
Antiche lettere tedesche e scandinave. esoterico, occulto, magico. predizione del futuro, predizione.

( Il sistema runico, detto “fuþark” dalla sequenza dei primi sei segni che lo compongono “ Fehu, Uruz, Purisaz, Ansuz, Raido, Kaunan”, era un sistema segnico che fu usato dalla antiche popolazioni germaniche come ad esempio: i Norreni, gli Angli, gli Juti, i Sassoni e i Frisoni. Il sostantivo norreno “run”, presente nelle iscrizioni, è conservato nelle lingue germaniche antiche con il significato di “segreto, “mistero”. Nella lingua tedesca il verbo “raunen” significa “bisbigliare, sussurrare”.
Il “fuþark” era formato, come abbiamo visto nella figura, da 24 segni detti rune. Si furono successivamente delle evoluzioni che proposero delle rune diverse per forma ed anche come numero. La grafia delle rune era composta da linee rette. Il motivo era legato alle incisioni che venivano eseguite sulle pietre, su legno o altre superfici a seconda del loro uso. Osservando l’immagine si nota subito come fossero assenti nelle rune i segni orizzontali. Anche questo aspetto avrebbe una sua motivazione. Le incisioni venivano effettuate soprattutto sul legno. Escludendo i tratti orizzontali si evitava la loro coincidenza con le nervature orizzontali del tronco. Si evitava in questo una cattiva interpretazione del testo portando ad errori di lettura.
 La cultura scandinava attribuisce a Odino il dominio delle rune, come sorgenti magiche di ogni potere e sapienza.
(Odino nei miti scandinavi sarebbe la divinità principale, personificazione del sacro e principio dell’universo.  Era associato alla sapienza, all’ispirazione poetica, alla profezia, alla guerra ed alla vittoria).
Il mito della “scoperta” delle rune da parte del dio venne riferita in una strofa del poema eddico “Hàvamàl”..


Il passo descrive l’autosacrificio di Odino. Il dio s’impiccò, di sua volontà, ad un albero e trafitto con una lancia.
La narrazione rispecchia i sacrifici umani che venivano tributati al dio nella Scandinavia preistorica. Le vittime venivano impiccate e trafitte a colpi di lancia. Non fu specificata la specie dell’albero ma venne identificato nel frassino cosmico della mitologia norrena che era chiamato “Yggdrasill”. Il nome significherebbe “destriero di Yggr”, dove “Yggr” (terribile) sarebbe un epiteto dello stesso Odino. Il termine “drasill” (destriero) sarebbe una metafora poetica per indicare la forca alla quale venivano appesi gli impiccati. Sarebbero presenti degli aspetti relativi all’iniziazione sciamanica. Gli sciamani acquistavano i loro poteri di mediatori con il mondo soprannaturale attraverso vari rituali di morte e rinascita. Tacito (55 – 120 d.C. circa) riportò come in Germania i sacerdoti, capi tribù praticavano dei sortilegi leggendo la disposizione dei pezzetti di legno sparpagliati a caso su un telo bianco. Su questi pezzetti di legno erano incise le rune.
Spesso le rune venivano impresse anche sugli strumenti o nel legno delle imbarcazioni per assicurare virtù soprannaturali.
Secondo alcuni linguisti, un ipotesi molto interessante, l’origine dei sostantivi della lingua inglese (book) e tedesca (Buch), indicanti il libro come materiale scrittorio, avrebbero origine dal germanico bôk ( il legno di faggio) (Buche, corrispondente al latino fagus) su cui le rune erano incise. Analogamente, il sostantivo tedesco Buchstabe ("lettera") avrebbe come significato in origine "bastoncino di legno di faggio". Secondo altri linguisti le parole Buch ("libro") e Buche ("faggio") non sarebbero correlate.
Le rune entrarono nel misticismo germanico e le successive rune di Guido von List e Karl Maria Wiligut giocarono un ruolo importante nel simbolismo nazista. Simbolismo che fu utilizzato da Heinrich Himmler nella creazione delle SS-Ehrennig (anella con la testa di morto) e del simbolo dell’organizzazione paramilitare SS. Ad esempio la runa ᛣ (runa della morte) veniva posta sulle lapidi delle tombe dei membri delle SS caduti in battaglia. Lo stesso simbolo delle SS era formato dalla runa “sowilo” : la runa antica - (ᛊ) (s – sole) e alle SS (ᛋ).

In Italia le uniche iscrizioni in runico antico si troverebbero in due località:
Nel santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo (Foggia)
Nelle Catacombe dei santi Marcellino e Pietro a Roma.
Iscrizioni che probabilmente sarebbero legate ai pellegrinaggi e al periodo normano.
Segni ruinici sarebbero stato trovati in una fusaiola risalente però al VII secolo d.C. e rinvenuta a Belmonte nel Canavese (Piemonte). Probabilmente questa fusaiola giunse in Italia dalla Pannonia.
Un'altra iscrizione runica è presente su uno dei leoni originari della Grecia, testimonianza della presenza vichinga ad Atene, che successivamente, in età moderna, fu trafugato dai veneziani e attualmente si trova esposto nell'Arsenale di Venezia.
Il simbolismo runico ad Adrano, come rilevò lo studioso Branchina, si ritroverebbe impresso nei pesetti da telaio. Utensili che furono trovati come corredo funebre in tutte le sepolture dell’epoca. I segni runici impressi erano costituiti da croci, cerchi, spirali, ecc.
Segni che esprimevano un collegamento con le divinità nordiche che erano deputate a tessere il destino delle persone sulla terra e che trovata il compimento finale nella morte.
La runa “ass” veniva associata a Dio.
In base a questa identificazione che lettura si dovrebbe dare all’iscrizione sulla pietra?
Il guerriero spirituale (l’inumato) compie il proprio destino (o missione terrena) diventando Dio, ovvero unendosi al divino.
L’inumato doveva essere un personaggio spirituale, e non solo, molto importante e questo per diversi motivi:
- la sua deposizione era principale nel senso che solo lui era stato deposto in quella grotta di circa 40 mq;
- - la disposizione accurata del corredo funebre posto lungo il perimetro della grotta;
- La sua tomba accuratamente preparata con diversi strati di argilla ben pressata e soprattutto la presenza di terra fine ben setacciata;
- La sua sepoltura al centro della camera;
- La collana di denti disposta attorno al collo.
Una guida spirituale e nello stesso tempo un grande capo della comunità sicana?
La sua missione come guerriero spirituale si era conclusa e quindi incarnato in Dio.
Un discorso difficile quello del “divenire Dio”.
Gli Ittiti quando moriva qualcuno esclamavano
È divenuto Dio.
Dovrebbe fare riflettere l’incisione in una tavoletta d’argilla in merito ad un re ittita che volendo indicare il momento della sua ascesa al trono affermò:
dopo che mio padre divenne Dio (morì), io ne presi il posto.
Altro aspetto importante sull’aspetto dello scheletro era la sua dimensione. Gli scopritori misurarono uno scheletro di circa 2,02 metri.
Ancora oggi nel territorio adranita è presente un antico mito che indica la presenza di antichi giganti.
L’abate Vito Maria Amico ( 1697 – 1762 – autore tra l’altro del “Dizionario Topografico della Sicilia”) rilevò in un suo testo le indiscrezioni di un nobile di Erice che aveva sposato una Moncada di Adrano…
Sul rinvenimento nel feudo del potente amico, dello scheletro di un gigante.
L’Amico rilevò nel suo trattato che egli era in possesso di un dente del gigante donatogli dall’amico. Dente che nessuno mai vide. L’abate era famoso per la sua cultura ed autorevolezza e nessuno osò criticare la sua narrazione.
Sulla collana di denti ci sarebbe tanto dire.
Che fine ha fatto questa collana?
Erano denti di cervo? Un cervo presente nel territorio come dimostrarono i resti rinvenuti negli scavi del villaggio di Pulica.
Erano colorati? Erano incisi o ancora sagomati?
Ogni aspetto sarebbe legato ad un rituale ed avrebbe un suo significato.
In alcune civiltà come quella persiana, i denti venivano paragonati alle perle ed alle stelle.
Erano infatti il simbolo del tempo e la loro disposizione in una collana stavano a significare un modo per trascendere il tempo.
Nelle età più antiche (20.000 a.C.) il dente rappresentava una relazione tra l’uomo e l’animale e, in senso più ampio, tra l’uomo e l’ambiente circostante.
Un rapporto relazionale uomo-animale importante per la loro sopravvivenza.
Il contesto, in una sepoltura di 20.000- 13.000 a.C., di queste “perle” dimostrerebbero come queste relazioni abbiano avuto un ruolo centrale nella vita sociale di quelle popolazioni. Relazioni diverse rispetto all’inumato rinvenuto nella grotta Pellegriti di Adrano.
Altro spetto importante sarebbe la pietra con il segno runico. L’inumato ha voluto lasciare di sé un’importante traccia, i Druidi credevano nella reincarnazione, e quel luogo veniva probabilmente venerato. Questa pietra inscritta che fine ha fatto?







5) Insediamenti castellucciani di contrada Fogliuta, dei predi Sapienza e Garofalo e della grotta Pietralunga 
L’archeologo Umberto Spigo relazionò come per la chora di Adrano dionigiana, mancavano sicuri elementi per definirne l'estensione ed i confini. Non escluse, allo stato delle sue conoscenze, che vi fosse compresa parte dei moderni territori dei vicini comuni di Biancavilla (resti di insediamento del IV e III sec. a.C. in contrada Giardinelli, di S. Maria di Licodia (area di necropoli in contrada Pietra Perciata, in cui ricerche clandestine hanno fra l'altro messo in luce materiale e ceramica del IV e II sec. a.C.) e, forse, di Bronte (strutture murarie affioranti in contrada Barbaro, associate a frammenti di ceramica a figure rosse e a vernice nera della seconda metà del IV sec. a.C.) (Umberto Spigo).

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La Valle delle Muse…. Dove abitano gli dei.
Un’ambiente da favola, una delle zone più suggestive del versante etneo. Un’oasi naturalistica ricca di aspetti naturalistici ed anche storici, quest’ultimi arricchiti dal mistero che sempre affascina il visitatore.
La Valle delle Muse è posta a circa 3 km dalla città di Adrano. Un’area solcata dal fiume Simeto che, proprio in questo punto, crea una piccola ansa dove scorre lentamente tra bellissimi ed alti basalti colonnari.
Il fiume scorre  delimitato a destra dalla roccia lavica con i suo basalti colonnari e  quella calcarea a sinistra.

Sulla sponda sinistra, quai al centro di questa insenatura, si trova un grosso e poderoso masso di roccia arenaria dalla forma tondeggiante.
Un semplice masso roccioso eroso dalle acque del mitico fiume Simeto?


Questo masso ha da sempre attirato l’attenzione degli archeologi  ed è stato al centro di studi e quindi di interpretazioni. La curiosità degli archeologi è nata dalla presenza sul masso di due piccole cavità (vasche), scavate nelle pietra, poco profonde e poste l’una sopra l’altra comunicanti tra loro tramite un foro.
Ai lati della vasca sovrastante, più grande, si notano due fori rotondi forse usati per l’inserzione di pali che dovevano sostenere una tettoia. La descrizione non finisce qui perché ci sono altri aspetti che affascinano e che danno origine a tanti interrogativi che forse non avranno mai una precisa risposta.


Nella vasca sottostante è presente una scanalatura incisa nella roccia prospiciente il fiume.
Non sono visibili i gradini intagliati nella roccia che, procedendo dalla destra delle vasche, conducono all’estremità della roccia. La sommità della roccia forse fungeva da altare e dal quale il sacerdote invocava gli dei e offriva loro il sacrificio compito nelle vasche sottostanti.
La scanalatura presente nella vasca sottostante permetteva al sangue della vittima sacrificale di versarsi nel fiume.
Scranni delle Muse

Ara dei Palici negli anni ’60.
https://www.adranoantica.it/?p=259

La tettoia, posta sora la vasca superiore,  permetteva al sacerdote che compiva l’atto sacrificale di ripararsi dal sole.
Un masso quindi con una sua funzione sacrale?
La vittima sacrificale, un toro o un agnello, veniva sacrificato al fiume Simeto così come  avveniva nella città mitologica greca Ftia dove i giovani  Mirmidoni sacrificavano al fiume Spercheo le loro bionde e fluenti chiome, secondo il loro uso.
(Nella mitologia greca Ftia (in greco antico: ΦθίαPhthía o ΦθίηPhthíē; in latino Phthia) era una città ed anche una regione storica della Grecia settentrionale, che fu poi incorporata nell'Achea Ftiotide  (ubicata all'incirca a Sud-Est della pianura della Tessaglia).
Le città principali erano la stessa Ftia, Farsalo, Tebe, Larissa Cremaste.
Ftia fu la patria dei Mirmidoni, i guerrieri guidati da Achille (re mitologico di Ftia) durante la Guerra di Troia.  Peleo, padre di Achille, era re di Ftia. Nella città viveva anche la madre Teti (ninfa del mare) e il figlio Nettolemo, avuto da Achille con la principessa  Deidamia.
Lo stesso Achille fu re di Ftia dopo la fine della Guerra di Troia).
Il sangue della vittima, sacrificata sul masso, veniva raccolto nella prima vasca  per fluire nella seconda vasca più piccola. Dalla seconda vasca, tramite un foro, fluiva in una scanalatura scavata nella roccia per scendere infine sul fiume.
Il sangue sulle acque del fiume alimentava il dio Simeto. Acque che, scendendo a valle, irrigavano le fertili terre del Simeto permettendo agli Inessei di avere abbondanti raccolti. Inessei ( gli adraniti) che erano governati dal saggio principe sicano Teuto.
Il masso, posto quasi al centro del fiume, è molto levigato alla sua base. A sinistra è presente il materiale di riporto che è addossato al masso. Il materiale di riporto coincide con l’inizio della levigatura del masso avvenuta grazie all’azione delle acque. Il masso doveva quindi trovarsi al centro del fiume e probabilmente i Sicani o i Siculi dovevano usare delle zattere per raggiungerlo.


Osservando il segno dell’acque del fiume sul masso, si può notare come il livello dell’acqua era in tempi antichi molto più alto. C’è da aggiungere che nei pressi del masso ci sono due sorgenti che formavano un laghetto le cui acque poi defluivano nel fiume sottostante.
Le offerte sacrificali erano dedicate al dio Symaethus, fratello della ninfa Symaethide, a sua volta madre di Acis da cui prendono nome i vari comuni etnei posti a nord della città di Catania?
Oppure al dio Adranon in memoria del quale gli adraniti avevano edificato un tempio nei pressi dell’insediamento urbano?
O ancora l’ara sacrificale fu adoperata per venerare i gemelli Palici ,  considerati come delle divinità oracolari generate dall’unione di Zeus e della ninfa Talia?
(Secondo altre fonti i gemelli Palici sarebbero figli del dio siculo Adranos e della ninfa Etna; altri ancora come figli di Efesto (dio del fuoco, delle fucine, dell’ingegneria, della scultura e della metallurgia).
Che il masso fosse un’ara sacrificale lo dimostrerebbero le due vasche, comunicanti per mezzo di un foro e il foro che dall’ultima vasca, più piccola, permetteva al sangue di fluire nelle acque sottostanti del fiume.
Anticamente il Simeto fu citato da Ovidio nelle sue “Metamorfosi” (libro XIII)  perché era
Eroicizzato e particolarmente venerato.
Un giorno Galatea, mentre le offriva la chioma da pettinare,
(era pettinata da Scilla, figlia di Cratéide)
sospirando dal profondo del cuore, le fece questo discorso:
"Tu almeno, fanciulla, sei desiderata da uomini civili
e puoi negarti a loro, come fai, senza timore.
Ma io, che pure sono figlia di Nèreo, partorita
dalla cerulea Dòride, che ho alle spalle uno stuolo di sorelle,
solo a prezzo di grandi sofferenze ho potuto sottrarmi
alla passione del Ciclope". E il pianto le impedì di continuare.
La fanciulla glielo deterse con le dita bianche come il marmo
e, dopo averla consolata: "Racconta, carissima," le disse
"e non celarmi (di me puoi fidarti) la causa del tuo dolore".
Allora la Nereide così rispose alla figlia di Cratèide:
"Aci era figlio di Fauno e di una ninfa nata in riva al Simeto:
delizia grande di suo padre e di sua madre,
ma ancor più grande per me; l'unico che a sé mi abbia legata………..
Dialogo tra Galatea e Ciclope
Ma persino il tuo disprezzo potrei io sopportare,
se rifiutassi tutti. Perché invece respingi il Ciclope
e ami Aci? Perché ai miei amplessi preferisci i suoi?
Che lui si compiaccia pure di sé stesso e, cosa che non vorrei,
piaccia anche a te, Galatea; ma se capita l'occasione,
sentirà come corrisponde a questo corpo immenso la mia forza.
Lo squarterò vivo e per i campi, sopra le acque in cui vivi
a brandelli scaglierò le sue membra: e s'unisca a te se gli riesce!
Brucio, brucio, e la mia passione offesa più indomabile divampa,
mi sembra che con tutte le sue forze l'Etna
mi sia entrato in petto: ma tu, Galatea, non ti commuovi!"
Dopo questi vani lamenti (nulla mi sfuggiva)
170
si alzò e, come il toro furibondo per il ratto della compagna
non può star fermo, si mise a vagare per boschi e forre a lui noti.
Così quell'essere feroce, senza che ce l'aspettassimo,
ci sorprese ignari, me ed Aci, e urlò: "Vi ho colto:
questo, state certi, sarà l'ultimo vostro convegno d'amore!".
E la sua voce fu così assordante, come è giusto che l'avesse
un Ciclope infuriato: un urlo che terrorizzò persino l'Etna.
Io sgomenta mi tuffo sott'acqua, nel mare lì vicino;
il nipote del Simeto, voltate le spalle, fuggiva
gridando: "Aiutami, Galatea, ti prego; aiutatemi, aiutatemi,
genitori miei, ma se mancassi, accoglietemi nel vostro regno!".
Il Ciclope l'insegue e, staccato un pezzo di monte,
glielo scaglia contro: benché soltanto lo spigolo esterno
del masso lo colpisca, Aci ne viene del tutto travolto.
Noi, unica cosa che permetteva il destino, facemmo in modo
che in Aci riaffiorasse la natura avita.
Ai piedi del masso colava un sangue rosso cupo:
non passa molto tempo che il rosso comincia a impallidire,
prima assume il colore di un fiume reso torbido dalla pioggia,
poi lentamente si depura. Infine il macigno si fende
e dalle fessure spuntano canne fresche ed alte,
mentre la bocca apertasi nel masso risuona d'acqua a zampilli.
È un prodigio: all'improvviso ne uscì sino alla vita
un giovane con due corna nuovissime inghirlandate di canne,
che, se non fosse stato così grande e col volto ceruleo,
Aci sarebbe stato. Ma anche così era Aci mutato in fiume,
un fiume che conservò il suo antico nome".
Galatea aveva finito il suo racconto





Sorgente delle Favare


Adrano - La Chiesa di Santa Domenica
Il culto per Santa Domenica ad Adrano era presente al tempo del Conte Ruggero
e di sua nipote Adelicia, come riferisce il Prevosto D. Petronio Russo nell'opuscolo
"cenno storico sul martirio e sul culto di Santa Domenica, vergine e martire" (Adernó 1911):
In suo onore sulla riva destra del fiume Simeto, in contrada Sciarone un tempio era stato dedicato a Santa Domenica. Adelicia (che aveva ereditato dal padre il vasto territorio di Adernó e che aveva istituito il grande conservatorio delle Vergini povere in Adrano, cui aveva donato le contrade Pulichello e Sciarone) raccomandava ai fedeli cristiani, abitanti presso le due chiese di Santa Maria (che si trovava sulla sponda sinistra) e di Santa Domenica che seguitassero a vigilare perchè non fossero profanate dai Saraceni.



Nel borgo di Carcaci è presente la chiesa di Santa Domenica
che fu costruita nel 1700(?).

Carcaci – L’attuale Chiesa di Santa Domenica

Dell''antica Chiesa, forse di etá bizantina, che si trovava nel casale di Carcaci vecchio, oggi all'interno della proprietá del Cavaliere Ferrante di Carcaci, rimangono alcuni ruderi dell'abside, quasi sommersi da sterpaglie. In essa nel 1517 sostarono i cavalieri lentinesi, provenienti dal Convento di Fragalá, che lasciarono delle reliquie dei Santi Alfio, Filadelfio e Cirino.

Nel XVII sec. il culto fu trasferito sulla riva opposta del Simeto, nella vicina Chiesa dedicata a Santa Maria, che da allora prese il titolo assoluto di Santa Domenica. Come si puó dedurre osservando i resti dell'affresco dell'abside che riproduce fedelmente il drappeggio in velluto, ancora esistente nella Chiesa di Santa Lucia in Adrano, la preesistente Chiesa di Santa Maria fu restaurata e dedicata al culto di Santa Domenica a cura delle suore del monastero di Santa Lucia. Al tempo del Prevosto Petronio Russo la chiesa era elegante e abbondava di distinti sacri arredi, vi si trovava l'artistica e bella statua lignea della Martire, opera del Bellini, nella mano destra in alto stringe la croce argentea, nella sinistra tiene una palma di argento, simbolo della sua verginitá, sul capo la corona, simbolo del martirio.; di essa rimangono solo alcuni ruderi messi di recente in sicurezza dalla Soprintendenza. In seguito al decreto reale di Francesco I°, nel 1826, nei giorni di sabato, domenica e lunedí dell'ultima settima di Agosto si svolgevano nel terreno adiacente alla Chiesa campestre di Santa Domenica la festa e la fiera, dato che le campagne intorno erano fertili e intensamente abitate. Tale fiera, a sentire qualche testimonianza, si teneva fino a 60/50 anni fa. La devozione degli abitanti (borghesi, pastori, mulattieri ed agricoltori) era grande verso la Santa, perchè aveva loro concesso delle grazie liberando i loro armenti dalla epizoozia o altre malattie. I festeggiamenti oggi si svolgono in una chiesetta, costruita all'incirca negli anni 20, all'insegna della piú assoluta essenzialitá, con i fedeli provenienti da Adrano, Cesaró, San Teodoro, Troina.
Franca Meli
Da http://www.santalfioadrano.it/

Adrano – Chiesa di Santa Domenica



Accanto all’Ara dei Palici è presente una sorgente mentre un’altra si trova più a Nord, ” Sorgente delle Favare”  ed è sovrastata da una roccia basaltica sulla quale è incisa un’epigrafe.
Queste fonti anticamente erano chiamate “ Fonti dei Palici”.
Secondo il mito, le due fonti erano i Palici stessi trasformati da Zeus in acque sotterranee per ritornare alla luce.
Zeus nascose, in questo modo, i due gemelli all’ira della moglie Era che non aveva accettato il tradimento del marito con la ninfa Etna-Talia.  Dalla relazione di Zeus con la ninfa sarebbero nati i gemelli Palici.
La Sicilia… la Regione dei Miti… e il mito dei Palici diede il nome  alla contrada nella quale scorgono le due fonti…
Contrada Polichello.
Sono passati quasi tre millenni eppure il mito resiste ancora nel nome della contrada come a ricordo di un rito ancestrale, un rito purificazione legato alle acque delle due fonti. Ancora oggi molti adraniti si recono sui luoghi per rifornirsi di quelle fresche acque.
Il luogo non finisce di stupire perché  a poca distanza, sempre a Nord dell’Ara dei Palici, è presente la piccola chiesa semidistrutta di Santa Domenica. Una chiese che fu costruita in epoca cristiana sulle rovine di un tempio dedicato alla dea Venere.
La Valle, malgrado il suo fascino, è lontano dagli itinerari turistici. Colpa di una comunicazione sbagliata? Forse.  Penso che gli itinerari turistici debbano essere a “Tema”, sarà poi il turista, in base al suo patrimonio culturale ed alle sue aspettative, a scegliere  i percorsi.
Il sito è frequentato dagli allevatori di bestiame, che richiamano il ricordo degli antichi siculi e sicani dediti alla pastorizia (sic khu – vaccaro), e dai contadini che con le acque irrigano i loro preziosi campi.
Il luogo ispira le anime sensibili alla conoscenza, alla saggezza, alla virtù e forse anche alla pietas.
I frassini, il suono delle acque del Simeto ispirano la pietas e fanno sognare. Alzando lo sguardo si vede la ninfa Etna  con il suo aspetto di immenso gigante pietrificato che manifesta la sua vita con i vapori e i bagliori  rossi espressione del suo sangue.
Il suo sangue nello scorrere si è pietrificato in lava nera che, nel corso dei millenni, è diventata in tratti della ricca e fertile terra.
La Valle delle Muse sorge a poca distanza dal sito del Mendolito. Il sacerdote e storico Petronio Russo riferì che lungo il tragitto tra i due siti furono ritrovate numerose epigrafi che non furono decifrate.
Il cippo Sanfilippo presenta le quattro facce incise e alcuni storici ipotizzarono come le iscrizioni potrebbero essere riferibili a diverse lingue: cartaginese, greca, siculo/sicana e latina.  Un ipotesi difficile da sviluppare dato che le facce del cippo non sono facilmente leggibili a causa dell’usura del tempo.
Virgilio e Plinio nei loro racconti fecero dei riferimenti alla Valle delle Muse.
Virgilio, nell’Eneide fa riferimento all’Ara dei Palici, sulle rive del Simeto, nel libro IX, v. 908.

Stavasi Arcente,
          D’Arcente il figlio, in su’ ripari ardito
           Egregiamente armato, e sopra l’arme
(905) D’una purpurea cotta era adobbato
      Di ferrigno color, di drappo ibero;
       Un giovine leggiadro, che dal padre
           Fu nel bosco di Marte a l’armi avvezzo
   Lungo al Simèto, u’ l’ara di Palico
(910) 
Tinta non come pria di sangue umano,
     Più pingue e più placabile si mostra.

  La valle delle Muse fu un sito frequentato da diversi etnie?
Il sito del Mendolito era, per la sua posizione, un crocevia importante per gli scambi commerciali e questo favorì la convergenza di diverse etnie?
Il luogo assunse una sua importanza con la reggenza del re sicano Teuto che fu citato da Polieno nel suo  “Stratagemmi”.
Non potendo Falari prendere per modo alcuno i Sicani in quella guerra in cui gli Agrigentini gli assediavano, portatovi di molto frumento fece fine alla guerra. Inoltre egli lasciò loro tutto il frumento che aveva negli alloggiamenti con questa condizione però che in iscambio di quello riceverebbe la ricolta vegnente. I Sicani l’accettarono con bell’animo. Ma Falari corrotti i provveditori dell’ abbondanza con denari, acciocché rovinassero i tetti delle case, fece sì che il frumento si venne a infracidare più facilmente. All’ incontro egli si prese secondo i patti quello che si mieteva. Perchè avendo dato i Sicani tutta la ricolta del paese loro a Falari, e ritrovando le loro provviste infracidate , costretti dal difetto del frumento s’ arresero a lui. Mandò Falari a domandare per moglie la figliuola di Teuto prìncipe di Vessa città di Sicilia ; la quale , e per ricchezze, e per grandezza avanzava tutte le altre città del paese. Il quale avendogliela promessa , egli collocò su cocchj soldati sbarbati in abito donnesco come serve , le quali portassero i presenti alla fanciulla. I quali entrati in casa sfoderarono le spade , e Falari subitamente sopraggiunto ridusse la città in sua possanza.
(Polieno - in latino Polyaenus Macedo, in greco antico: Πολύαινος?, Polýainos- nacque in Macedonia nel II secolo d.C.
Importante fu la sua opera “I Stratagemmi”. Una vera enciclopedia storica divisa in otto libri.  In origine era una raccolta di ben 900  aneddoti, con esempi di coraggio o di virtù militari, detti memorabili e astuzie di guerra. Degli originari otto libri, parti del sesto e settimo libro sono mutile, e dei 900 stratagemmi iniziali ne sono rimasti 833.
L'opera è scritta in un greco arcaicizzante ed è ritenuta un’opera dal grande valore storico.)

Stratagemmi di Polieno, a cura di Lelio Carani, 1821, incisione
Il principe sicano Telio visse tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C.
Secondo alcuni storici nell’epigrafe del Mendolito si potrebbe leggere il nome di Teuto.
Le ricerche del prof. Francesco Branchina permisero di fare luce sul principe sicano Teuto.
Al tempo del suo principato la città si chiamava “Innessa”.
Il racconto di Polieno, nel suo “Stratagemmi”, è uno dei tanti stratagemmi militari che furono messi in atto da diversi strateghi in secoli diversi. Uno stratagemma messo in atto dal malvagio Falaride (Φάλαρις), tiranno di Agrigento dal 570 al 554 a.C., ai danni di Teuto, principe di Innessa.
Teuto aveva una figlia , in età da matrimonio, che aveva ricevuto diverse proposte di matrimonio dai   principi siciliani pretendenti, tra i quali il tiranno di Agrigento.
Falaride in realtà non era interessato alla figlia di Teuto ma alle ricchezze della città che era una delle più ricche città Sicane.
Il tiranno inviò dei messaggeri per presentare la richiesta di matrimonio. Gli ambasciatori erano dei giovani guerrieri sbarbati e vestiti da donne che erano scortati da veloci brighe.
In realtà le “donne” portavano sotto le vesti delle armi per sferrare un attacco ed anche per visionare le reali ricchezze di Innessa.
Il nome della figlia di Teuto?
Secondo l'attenta ricerca del prof. Banchina, il nome della ragazza si potrebbe svelare attraverso delle comparazioni fiilologiche, storiche, culturali ed etniche.
Teuto diede alla sua città un grande prestigio politico che fu accompagnato da un grande sviluppo economico.
La produzione della ceramica aveva un mercato di vendita che si estendeva al territorio orientale dell’isola ed era caratterizzata dalla ripetuta raffigurazione di un volto femminile.
Un volto femminile che lo storico Petronio Russo attribuì alla Sibilla Cumana.
Un aspetto particolare sarebbe legato al fatto che il volto femminile sarebbe uguale in tutti i vasi della ceramica locale come se fosse il volto di una donna reale.
In una  pisside skyphoide, nota come “La toeletta della sposa”, conservata nell'antico museo di Adrano  sito in un locale del liceo classico G. Verga,  purtroppo trafugata assieme ad un altro vaso e a reperti vari dai soldati russi durante la seconda guerra mondiale ed oggi esposta al museo di Mosca, vi è raffigurata la celebrazione di un matrimonio.
 L'iconografia in questione si riferisca alla figlia di Teuto e al suo celebre e sicuramente faraonico matrimonio, che vide coinvolti pretendenti di tutta la Sicilia, così come emerge dal racconto di Polieno?
Esempio di
Pisside Skyphoide Siceliota a Figure Rosse
lato a
lato b

Datazione: IV secolo a.C.
Produzione: Sicilia, Gruppo di Lentini.
Stato di Conservazione: ricomposta da frammenti con piccole integrazioni
Dimensioni: Altezza, 11 cm – Diametro, 13 cm.
CFR.: A. D.Trendall Red Figure Vases of South Italy and Sicily, London, 1989, p.235.
https://www.arsvalue.com/it/lotti/356734/pisside-skyphoide-siceliota-a-figure-rosse-datazione-iv-sec-a-c-materia-e
Materia e Tecnica: argilla figulina rosata; vernice nera lucente, eseguita a tornio veloce.
 Vasca con labbro obliquo verso l’interno per l’alloggiamento del coperchio; vasca troncoconica a profilo convesso, piede ad echino modanato
Decorazione Accessoria:
vasca interamente verniciata in nero ad eccezione dell’interno delle anse, dell’attacco col piede e della parte inferiore del piede; sul bordo fascia risparmiata con decorazione a puntini, sotto le anse grande palmetta aperta fra volute e infiorescenze, alla base della scena figurata meandro ad onda.
Decorazione:
Lato A: figura femminile seduta a sinistra sopra uno sgabello con i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca e fermati da una tenia; la donna, a torso nudo, è in atto di suonare un cembalo ed indossa un mantello drappeggiato intorno alla vita e alle gambe, di fronte a lei un arbusto ed una situla;
Lato B: giovane donna gradiente a sinistra e retrospiciente, con le braccia sollevate ed una cista nella mano sinistra; la donna ha i cappelli raccolti in una crocchia ed indossa un chitone plissettato fermato in vita da una fascia le cui pieghe si aprono seguendo il movimento.

Pisside skyphoide di Gruppo di Lipari (ultimo quarto SECOLI/ IV a.C)
Materia e tecnica: argilla depurata, dipinta a figure rosse.
Sovradipinta in vernice bianca fiammeggiata di giallo.
Misure: altezza 22 cm -  diametro bocca, 14,5 cm – diametro base, 7,3 cm –
Coperchio: altezza, 9 cm – diametro 13,3 cm
Decorazione: sotto ciascuna ansa: palmetta  tra due girali e mezza palmetta.
Sul coperchio: tre rami di alloro si alternano a cuscini ricamati, qua e là
ritocchi di vernice bianca.
Condizioni del reperto: ricomposto. Superficie abrasa.
Vernice a tratti evanida (debole, evanescente). Coperchio scheggiato sul bordo.
Il pezzo è stato integrato e ricomposto da numerosi frammenti.
Il matrimonio si celebrò intorno al 560 a.C. circa e Falaride regnò, come tiranno di Agrigento, fino al 554 a.C.
Dal momento del matrimonio non si hanno più notizie su Innessa.
Nel 480 a.C. appare al fianco di Gelone, tiranno di Siracusa, che sta conducendo una guerra contro i Cartaginesi, una potente città alleata, Etna.
In realtà Etna ed Innessa, come emerge dalla lettura di Diodoro, non sono altro che due nomi diversi per indicare la stessa città, inizialmente denominata, sino al periodo di Teuto, Innessa e rinominata successivamente prima Etna, poi di nuovo Innessa nel 478 a.C., dal tiranno di Siracusa Jerone (il quale aveva contemporaneamente attribuito il nome di Etna alla città di Catania, ingenerando confusioni interpretative tra gli storici), ed infine Adrano.
Il buco storico che vede assente Innessa dal 560 a.C. circa fino alla battaglia di Imera del 480 a.C. può essere dunque facilmente colmato immaginando le nozze di Etna, l'unigenita figlia di Teuto che, una volta sposata, avrebbe dato alla città il proprio nome.
Il motivo della rinominazione della città - che non esclude però la sporadica coesistenza dei due nomi, Innessa ed Etna, come accade ancor oggi per Adrano, nota anche come Adernò -  doveva sicuramente avere implicazioni di natura politica e socio culturale tipiche del popolo sicano.
Era accaduto cioè che la successione al principato della città per via patrilineare si era probabilmente interrotta, non avendo avuto Teuto figli maschi.
Secondo il prof. Brancina i nomi di cose, persone e città che ruotano attorno al territorio di Adrano posto sotto la giurisdizione di Teuto erano riconducibili ad una lingua nord europea, come la stessa epigrafe del Mendolito testimonierebbe il termine Innessa.
Il primo nome della città, risulta formato da Inna ed essen,  col significato "il cibo che cresce spontaneamente" o "il cibo contenuto nelle viscere della terra". Il nome Teuto, sempre secondo il prof. Branchina,  indica un uomo appartenente al popolo dei Teutoni, popolo che sarebbe stato conosciuto in seguito, attraverso il racconto di Pitea di Marsiglia, che fece nel IV sec. a.C. un viaggio fino in Scandinavia.
Adhrano, l'attributo del dio sicano, composto dai lessemi Odhr e Ano significa "divino furore" o "furore dell'Avo"; ed infine Etna è un nome di persona comunissimo nelle sue varianti di Atina, Tina, nel nord Europa. Va segnalato inoltre che il nome proprio di persona Eithne faceva già parte dell'antichissima mitologia nordica, di quella irlandese in particolare, dove con questo nome veniva indicata una ninfa figlia del re Balor, moglie dell'eroe celta Cian (Ciane è il nome della ninfa trasformata in fiume da Plutone, presso Siracusa).
Con l'Irlanda Adrano condivide inoltre il simbolismo solare della spirale, incisa nei capitelli rinvenuti nel Mendolito. 
A Dowth, nei pressi di Dublino, fu rinvenuto un tumulo funerario del 2500 a.C. con inciso nella roccia tre spirali disposti a triangolo. 

Ingresso della camera
 3200 e il 2900 a.C.
Dowth, nei pressi di Dublino, un tumulo funerario 

Dowth è allineato con il solstizio d'inverno

Schizzi di sculture in pietra di Dowth

Dowth

Mendolito (Adrano)

Capitello
Rinvenimento: Contrada Mendolito (Adrano)
Materiale: Pietra lavica nerastra molto porosa.
Datazione: VI secolo a.C.
Dimensioni: (altezza, 59 cm – larghezza abaco, 53 x 37 cm – larghezza colonna, 29 x 29 cm).
Numero Inventario: 11586
Su una delle facce due volute a spirali; sull’altra due dischi crociati; abaco rettangolare; colonna quadrata.
 
Capitello
Rinvenimento: Contrada Mendolito.
Materiale: Pietra lavica nerastra molto porosa.
Datazione: VI secolo a.C.
Dimensioni: (altezza, 54,5 cm – larghezza abaco, 39 x 31 cm – larghezza colonna, 28 cm).
Numero Inventario: 11587

Si imposta su un rocco di colonna ottagonale.
L’echino, molto schiacciato, segna il passaggio alle volute rese con due cerchi crociati; al centro due rilievi, forse bucrani, contrapposti; abaco rettangolare.
 
Capitello
Rinvenimento: Contrada Mendolito.
Materiale: Pietra lavica nerastra molto porosa.
Datazione: VI secolo a.C.
Dimensioni: (altezza, 43 cm – larghezza abaco, 42 x 42 cm – larghezza colonna, 26 cm).
Numero Inventario: 11588
Di stile dorico. Si imposta su un rocco di colonna ottagonale. Alto echino arrotondato sormontato da abaco quadrangolare.

Dal taccuino archeologico di Paolo Orsi (1898 – 1909).

Schizzi raffiguranti elementi architettonici di pietra lavica (Orsi – Pelagatti 1967 – 68)

Anche tre illustri re Irlandesi si chiamavano Teuto (Tuathal in irlandese), mentre altri tre re irlandesi, vissuti dal XV al III sec. a.C., portarono il nome, a noi oltremodo familiare, di Enna Airgtheach, Enna Derg, Enna Aignech.
Molti nomi nordici, come per esempio quello di Andrea (An e odhr), che significa "potenza degli antenati", venivano utilizzati sia per gli uomini che per le donne, poiché il significato di tali nomi era perfettamente compatibile con entrambi i sessi. Pure il nome Etna ricade molto probabilmente in questa regola grammaticale. Infatti esso ha il suo corrispettivo nel nome sumero Etana, antico re di Kis, la prima città sumera in cui fu introdotta la monarchia (i Sumeri, secondo gli studi del prof. Branchina, traevano le proprie radici etniche da un popolo affine a quello dei Sicani).
Il re Etana non poteva avere figli e temeva, fino all'esasperazione, il fatto di non poter continuare né la stirpe né la dinastia regale. Questo esagerato timore si giustifica però solo se si comprende il concetto romano e nord-europeo, dunque anche sicano e sumero, di "gentes", inteso quale moto generazionale che procurava l'immortalità agli avi: i discendenti cioè, attraverso la propria nascita, garantivano l'immortalità degli Avi.
Il mito di Etana (sigillo?)

Ora, il significato del nome Etana è
"colui che invoca gli antenati al fine di concedere loro una progenie".
Infatti il nome risulta composto dai lessemi Et o hit, che in gotico significano invocare,
e Ana col significato di nonna, antenata. Visto che il nome Etna o Aitna, in greco,
non rappresenta altro che una variante sicana di quello sumero Etana,
assieme alle varianti greca Atena, laziale Atina e germanica Tina,
il nome della principessa avrebbe lo stesso significato già attribuito ad Etana,
meglio traducibile con l'espressione: "colui che invoca una discendenza".
Etna dunque fu per suo padre Teuto l'incarnazione dell'invocazione stessa rivolta agli Avi, probabilmente all'Avo per antonomasia, al nonno (Ahn in tedesco moderno) di tutti i Sikani, o meglio al dio Odhr-ano (Adrano), il cui santuario egli custodiva nella propria città, Innessa, rivestendo il ruolo di principe e sacerdote, come era di dovere nelle antiche società indoeuropee. Come tutte le invocazioni fatte da uomini, aderenti a qualsivoglia religione, timorati di dio, se fatte con vera fede vengono accolte dal Dio o Avo protettore della stirpe, pure quella di Teuto venne accolta da Adhrano, l'Avo divinizzato dei Sikani\Sikuli. Ma la benedizione del dio sicano si spinse a manifestarsi oltre la carne e investì lo spirito se, ancora alla fine del IV sec. a.C., oltre due secoli dopo il principato del sovrano sicano nella città di Innessa\Etna\Adrano, sia Teuto, attraverso la scritta urbica del Mendolito, che sua figlia, immortalata nell'iconografia della ceramica adranita, vivevano nel ricordo e nei cuori della discendenza adranita, al punto da essere evocati quale simbolo della democrazia sicula contro i tiranni greci, nella feconda era adranita timoleontea.
A confermare la reggenza di Etna nella città, prima della sua rinominazione in Adrano, ci sarebbe la presenza di un volto femminile nelle monete della zecca adranita.
Il Petronio Russo affermò come Adrano ebbe una zecca di dodici monete. Monete che furono pubblicate nel suo libro sulla storia di Adrano, facendone anche delle attente descrizioni.
Su queste monete c’erano dei volti femminili che il Petronio Russo attribuì alle dee Cerere e Proserpina, malgrado l’incisione faceva riferimento alla principessa Etna e l’iscrizione “Aithion”. Monete che furono rinvenute ad Adrano.

Con il termine di “Adraniti” si indicavano i sacerdoti del dio Adranos, ipotesi confermata dal rinvenimento di una moneta, con sul dritto il profilo di una donna e sul rovescio  un cavallo marino con la scritta ADRANITAN.
Partendo dall’ipotesi che il volto raffigurato sulla moneta fosse quello di Etna, figlia di Teuto, e che il conio risalga prima del IV secolo a.C., la scritta ADRANITAN  non sarebbe rivolta ai cittadini, dato che la città non si chiamava ancora “Adrano” ma Etna, ma ai sacerdoti quali evocatori “HILT” o “HELTAN”, della potenza o furore, “ODHR”, del dio Ano (ODHR – AN(O) – HEITAN).


Un’altra moneta presenta  nel dritto la figura del dio mistico, con il capo coronato d’alloro e sul rovescio un toro con la scritta ADRANITAN. Il toro era il simbolo della città di Agrigento e la scritta si leggeva da destra verso sinistra, ciò testimoniava come la moneta fosse stata coniata prima che la cittadina adottasse la scrittura greca che si leggeva da sinistra verso destra. (quindi prima della nuova fondazione della città che, in realtà, si limito sono nella nuova rinominazione del centro con il termine di Adrano).
Il Toro era il simbolo di Agrigento e il cavallo marino con i delfini, creature marine,  il simbolo di Siracusa. Forse le due monete furono coniate per proclamare la lega anti-cartaginese, durante il principato di Terone in Agrigento e del grande Gelone a Siracusa. Un’alleanza che portò alla celebre vittoria di Himera del 480 a.C., nella quale gli Etnei, futuri Adraniti,  avrebbero dato un impulso eroico determinante per la vittoria sui Punici.


Dracma di Aitna
Un’altra moneta presenta da un lato una lira con la scritta ADRANITAN e dall’altro il volto di un giovane uomo con il capo cinto di alloro che lo storico Petronio Russo identificò con Apollo.
Secondo il Branchina il dio non sarebbe Apollo ma il dio locale Adrano,  ritratto in versione mistica e non nella consueta versione guerriera. 
Emilitra  in bronzo di Adranon che riporta nel diritto la testa laureata del
dio Arano (Apollo?), rivolta a sinistra con i calli che ricadono sul collo e
bordo di puntini. Al rovescio una cetra a sette corde con intorno la scritta
etnica AΔPANITAN in senso orario.
La lira era strumento utilizzato allora in funzione liturgica al fine di esercitare, col suo suono melodico, una influenza estatica, spirituale, compatibile con il significato del verbo gotico Heitan, "invocare".
(La lira era presente anche in una iscrizione sumera cuneiforme, nella quale si fa riferimento alla lira del dio Anu).
Se la scritta fosse stata riferita agli abitanti della città e non ai sacerdoti del dio sarebbe stata Adranoy piuttosto che Adranitan. È probabile perciò che queste due monete fossero state coniate in due particolari occasioni di pericolo scampato per la città, di cui i sacerdoti si presero il merito, avendo evocato (Heitan) l'intervento del dio. Una potrebbe essere stata quella dell'incursione perpetrata ai danni della città dall'infido tiranno greco Falaride, durante i preparativi di matrimonio della principessa sicana, come raccontato da Polieno, motivo per cui sulla moneta fu coniata anche l'iscrizione del nome Aitnion; l'altro quello dell'assedio del tiranno Iceta nel 344 a.C., durante il quale si vide prima la statua del dio Adrano sudare e scuotere la lancia.  Poi vennero viste le porte che si aprivano, motivo per cui gli abitanti accolsero amichevolmente il generale greco Timoleonte e al suo fianco si resero protagonisti delle più belle pagine di storia non scritta della nostra città: la cacciata dei tiranni greci da tutte le città siciliane.
Ritornando alla Valle delle Muse c’è’ da dire che il sito si trova circa tre km dal tempio del dio Adrano. Un tempio che era famoso in tutta l’Isola e che era frequentato da genti provenienti dagli altri centri come si nota nel racconto che Plutarco diede nella “Vita di Timoleonte”.
Sfuggito Timoleonte per mare e scioltasi l’assemblea, i Cartaginesi che presidiavano Reggio, mal sopportando di essere stati vinti mediante uno stratagemma, offrirono motivo di divertimento agli abitanti, se proprio loro che erano Punici non avevano gradito un’azione frutto d’inganno. Inviano dunque a Tauromenio un ambasciatore su di una nave, il quale, dopo aver discusso con Andromaco numerose questioni, esaltato in modo odioso e barbarico, qualora egli non avesse fatto uscire al più presto i Corinzi, mostrato infine il palmo della mano e poi di nuovo capovoltolo, minacciò di ridurgli allo stesso modo la città, rovesciandola sottosopra. Andromaco, dopo una risata, non rispose altro, ma ora stendendo il palmo della mano, come aveva fatto quello, ora il dorso, lo esortò a prendere il largo, se non voleva che alla sua nave, capovolta, toccasse la medesima sorte. Iceta nel frattempo, messo al corrente della traversata di Timoleonte e preso dal timore, fece giungere numerose navi dai Cartaginesi. Accadde allora che i Siracusani abbandonarono ogni speranza di salvezza, vedendo che i Cartaginesi s’impossessavano del loro porto, che Iceta occupava la città, che Dionisio era padrone dell’acropoli, e che Timoleonte stava invece come attaccato alla Sicilia per un lembo sottile della piccola città dei Tauromeniti, con deboli speranze ed un esercito ridotto. Egli infatti aveva a disposizione non più di mille soldati ed il vitto a questi necessario. Le città poi non davano fiducia, poiché oppresse dalle sventure ed inferocite verso tutti coloro che conducevano eserciti, e questo era dovuto in massima parte alla slealtà di Callippo e Farace, dei quali il primo Ateniese, l’altro Spartano, sebbene proclamassero di essere giunti per la libertà e per abbattere i tiranni, mostrarono alla Sicilia che le sventure subite sotto le tirannidi erano oro in confronto, e fecero apparire quelli che erano morti nella schiavitù più degni di coloro che avevano visto la libertà.
Aspettandosi dunque che il Corinzio non sarebbe stato migliore di quelli, ma che tornavano ad insidiarli le medesime abili lusinghe, resi docili al cambio del nuovo padrone con speranze generose e benevole promesse, erano sospettosi ed evitavano le proposte dei Corinzi, eccetto gli abitanti di Adrano. Questi, che abitavano una piccola città consacrata ad Adrano, un dio onorato in diverso modo nell’intera Sicilia, erano in lotta gli uni con gli altri, poiché alcuni si schieravano con Iceta e i Cartaginesi, altri invece si volgevano verso Timoleonte. E mentre entrambi s’impegnavano per giungere tempestivamente, per caso avvenne che giunsero nello stesso momento. Tuttavia Iceta arrivò con cinquemila soldati, Timoleonte invece ne contava complessivamente non più di mille e duecento. Dopo averli presi da Tauromenio [estate 344 a.C.], distando Adrano trecentoquaranta stadi, durante la prima giornata non si avvantaggiò molto nella marcia e si fermò a riposare, mentre il secondo giorno, avendo coperto rapidamente il percorso ed avendo attraversato territori impervi, verso sera venne a sapere che Iceta si era appena avvicinato alla piccolissima città e che poneva il campo. I locaghi e i tassiarchi allora fecero fermare i primi, per poterli utilizzare con più prontezza dopo che avessero mangiato in fretta e riposato per qualche tempo, ma Timoleonte, sopraggiunto , chiese di non farlo, di condurre invece l’esercito velocemente e di venire a contatto con i nemici che non erano ancora schierati, come era naturale avendo questi appena terminato la marcia ed essendo impegnati nell’allestimento delle tende e nella cena. E nel mentre diceva queste cose, raccolto lo scudo si mise al comando come verso una vittoria evidente; quelli incoraggiati lo seguirono, essendo distanti dai nemici meno di trenta stadi. Come ebbero percorso anche questa distanza, si gettano sui nemici in disordine e che si davano alla fuga, non appena compresero che quelli si stavano avvicinando. Di conseguenza ne vennero uccisi non più di trecento, e ne vennero catturati vivi il doppio, e fu conquistato anche il campo. Gli abitanti di Adrano dopo aver aperto le porte della città si unirono a Timoleonte, raccontando con paura e meraviglia che, nell’imminenza della battaglia i sacri portoni del tempio si erano aperti da soli, che si era vista la lancia del dio scuotersi dalla sommità della punta ed il suo volto grondare copioso sudore.
duemila opliti e duecento cavalieri i quali, giunti nei pressi di Turi, vedendo che l'attraversamento risultava difficoltoso – il mare infatti era controllato dai Cartaginesi con numerose navi – data la necessità di trattenersi in quel luogo aspettando il momento migliore, utilizzarono il tempo a loro disposizione per un'opera assai degna. Ricevuta in consegna la città, poiché gli abitanti di Turi erano impegnati in una spedizione contro i Bruzii, la difesero fedelmente e senza macchiarsi d'infamia, come fosse stata la loro patria. Intanto Iceta, mentre assediava l'acropoli di Siracusa ed impediva che i rifornimenti di grano giungessero per mare ai Corinzi, preparati due stranieri ai danni di Timoleonte, l'inviò segretamente ad Adrano con il compito di assassinarlo, non avendo questi una sorveglianza disposta attorno alla sua persona e trovandosi in quel momento, per via di una cerimonia sacra, del tutto disimpegnato, tranquillo e senza sospetti insieme agli Adraniti. I sicari, venuti casualmente a sapere che Timoleonte era in procinto di celebrare un sacrificio, giunsero al tempio, recando i pugnali sotto al mantello e, mescolatisi a quanti si trovavano attorno all'altare, si fecero man mano più vicini. Ma, mentre si esortavano l'un l'altro ad iniziare la loro opera, un tale colpì con un pugnale uno dei due alla testa; caduto a terra non rimase né chi aveva sferrato il colpo né chi era giunto assieme a quello  rimasto colpito, ma l'uno, come ebbe raccolto il pugnale, fuggì verso una rupe elevata e vi balzò sopra, l'altro invece, strettosi all'altare, implorò Timoleonte di aver salva la vita, se avesse rivelato ogni cosa. Ottenuto quanto chiedeva, denunciò se stesso ed il morto dicendo che erano stati inviati per uccidere Timoleonte. Intanto altri trassero giù anche quello dalla rupe, il quale andava gridando di non essere in alcun modo colpevole, ma di aver ucciso a buon diritto l'uomo per vendicare la morte del padre, che quello aveva ucciso tempo prima a Leontini. Ed ebbe a testimoni alcuni fra i presenti i quali al contempo rimasero meravigliati dall'ingegnosità della sorte: mettendo in movimento una cosa tramite l'altra, riunendole tutte insieme seppur separate e distanti, intrecciandole con quelle che paiono assai diverse e non avere alcunché di comune fra loro, ogni volta essa fa del termine di una il principio dell'altra. I Corinzi dunque ricompensarono l'uomo con un dono di dieci mine, poiché aveva messo un giusto sentimento a disposizione di quel dio che proteggeva Timoleonte, e non aveva sprecato il primo proposito che era con lui da lungo tempo, ma insieme a motivazioni personali lo aveva conservato  sotto la guida della sorte per la salvezza di Timoleonte. La buona fortuna legata alla circostanza presente diede speranza anche per quelle future ed indusse ad onorare e proteggere Timoleonte quanti scorgevano in lui come un personaggio sacro ed un vendicatore giunto in Sicilia con il favore divino.
 Nella Valle delle Muse venne anche ritrovata, sul capitello di una colonna, un’iscrizione in caratteri greci (?) che fu tradotta dal Petronio Russo con il nome di
Ercole.
Sempre, secondo le relazioni del Petronio Russo, nei pressi del sito sorgeva il tempio di Marte e che l’attuale chiesa di Santa Domenica fu costruita sulle fondamenta del tempio di Venere.
La Valle in esame si trovava al di fuori delle mura della città e che i luoghi sacri erano dedicati a dei stranieri, in massima parte greci e, nel caso dei Palici, probabilmente cartaginesi (come riferisce il prof. Branchina).
Il culto delle Ninfe era invece di chiara origine indigena e quindi collocato in un ambiente agreste.
Il tempio del dio Adrano si doveva invece trovare dentro la città, nel punto più elevato.
Un punto elevato che, circondato dalle mura,  costituiva un cerchio mistico… invalicabile.
Probabilmente nei pressi del Simeto era presente un emporio commerciale, luogo d’incontro fra gente delle città sicane circostanti e altre provenienti da diverse aree del Mediterraneo.
Il sito del Mendolito sarebbe stato un importante punto strategico perché permetteva di penetrare verso la costa tirrenica per raggiungere Tindari, Alesa (fondata nel 403 a.C.), Cefalù, Himera (unica città greca) e un gran numero di villeggi citati da Tucidide e Cicerone.
Il fiume Simeto, ad iniziare dalla valle delle Muse fino al porto di Catania, era navigabile. Una tesi sostenibile osservando la distanza fra le due opposte rive del fiume. Rive rocciose corrose alla base dalle impetuose del fiume in piena.
Era forse presente  una specie di consorzio di portuali o barcaioli “Cilliri”, un termine di cui rimase traccia nella città di Adrano.
Il termine Cilliri, nella lingua nord-europea, riconduce ad ambienti portuali. Ma questa è ancora un’ipotesi che le indagini archeologiche potrebbero svelare.
Il sito del Mendolito non si sviluppò mai dal punto di vista architettonico malgrado la sua importanza.
Era un insediamento dove si stoccavano le merci in arrivo e in partenza, dove si acquistavano le vittime sacrificali. Erano presenti fabbriche, forni, negozi dove si producevano e si vendevano gli ex voto per i pellegrini. Si spiegherebbe così anche il carattere piuttosto rustico dei manufatti che si ritrovano nell’enorme area del Mendolito, con le  imperfezioni dei disegni sui vasi, con le colature di colore. Gli oggetti, del resto, rimanevano solo qualche giorno nella cella della divinità, dopodiché, per motivi di spazio, i sacerdoti addetti al culto, erano costretti a rimuoverli per fare posto alle nuove offerte.
Quanto detto fin qui sulle Ninfe e sulle Muse – il cui culto veniva esercitato in quest’area del fiume Simeto che Virgilio, nel libro IX dell’Eneide, raffigurò come boscosa (“Capi … l’aveva mandato di Sicilia il padre da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto, ov’è la mite, ricca di doni, ara di Palico”) – impone l’obbligo di indagare ulteriormente su queste divinità agresti, molte delle quali sembrano affini a quelle del mondo celtico, l’Irlanda in particolare. 

Il termine KILLICHIROI (CILLIRI) era un termine utilizzato dagli storici greci per indicare la popolazione pre-greca di Siracusa. Un termine che fu solo attribuito alla popolazione di Siracusa?
I Killiri o Cilliri erano probabilmente un’associazione” di lavoratori portuali e il termine fu adottato nella lingua dei profughi greci quando arrivano a Siracusa da Corinto nel 743 a.C. sotto la guida dell’ecista Archia.
Il termine fu poi esteso agli oppositori politici di Archia. Quando Archia si affermò a Siracusa prendendo in mano il governo della città, una delle sue prime azioni fu la monopolizzazione dei cantieri navali che affidò ai coloni greci escludendo i Siculi. Siculi esperti di navigazione, un’arte che avevano imparato dai Sicani, facenti parte dei  “Popoli del Mare” che con le loro azioni nel Mediterraneo avevano creato nuovi equilibri politici.
I Siculi erano dei guerrieri e non sopportarono l’occupazione degli spazi sociali siracusani da parte dei coloni greci.
Perché il termine KILLIROI?
Un termine che il prof. Branchina affermò di provenienze germanica che nella lingua attuale tedesca viene indicato con il vocabolo KIEL (CHIGLIA) da cui deriva KIELHOLEN (carenare una nave).
La chiglia è una trave longitudinale a sezione quadrata o rettangolare che percorre l'imbarcazione da poppa a prua nella parte sommersa destinata al galleggiamento (scafo). Ha sulle facce laterali delle scanalature chiamate batture, sulle quali, con un incastro semplice detto a palella, si incastrano le tavole del fasciame esterno.
Si  tratta quindi di un elemento fondamentale di un’imbarcazione ed è progettato in funzione dell’uso della stessa imbarcazione.
Il termine KIEL-IRI diventò KILLIRI per indicare, almeno all’inizio, una manodopera specializzata nella costruzione di questa parte della nave, la chiglia.
Plutarco, nei suoi “Moralia, citò come in una nave vi erano uomini con diverse specializzazioni: quali marinai, ufficiali di prua, maestri nel remare, timonieri, manovali.
Il termine KIEL-IRI indicava non solo la manodopera specializzata nella costruzione della chiglia ma genericamente anche i marinai ed anche i portuali che in ogni caso avevano un’attività legata all’imbarcazione.
È importante non confondere il termine KILLIRI/CIRILLI con la parola ILLIRI.
Gli Illiri erano chiamati dai greci ILLIROI ed era un popolo che abitava l’attuale Albania. Un popolo che faceva della pirateria la sua principale ricorsa economica. Una vera e propria industria molto fiorente che vedeva nel Mare Adriatico la sua base. 
Nel 230 – 228 a.C:, sotto la reggenza della regina Teuta, gli Illiri raggiunsero il massimo dominio sul mare ed i Romani furono pregati dai popoli confinanti di intervenire per contrastare questo dominio illirico.
I Romani dovettero affrontare una guerra per contrastare la pirateria illirica e alla fine cercarono di mediare con la regina Teuta ma la sua risposta non diede molte speranze.
La regina disse che
Poteva intervenire nella pirateria di stato, ma nulla poteva fare su quella privata,
in quanto essa era una consuetudine del suo popolo.
La guerra (la prima guerra illirica) durò ben due anni e fu vinta dai romani. Guerra che si concluse con un trattato di pace…
La regina Teuta s’impegnava a non utilizzare più nessuna nave militare e le
e le era consentito di servirsi di non più di due navi commerciali alla volta.
Una flotta illira molto temuta e dovrebbe fare riflettere il termine Illiri come derivante da Kiel “esperti costruttori di navi e di chiglie”.
Il termine KIEL  è legato ad oggetti, uomini ed anche città che , in vario modo, entrano in contatto con le acque.
 In Calabria c’è il piccolo centro di Cirella, sulla costa tirrenica  e un altro Cirella nella Val di Vara in Liguria, nei pressi del fiume Vara. Anche l’importante città di Kiev, posta sul fiume Dnepr, importante per i commerci perché collega il Mar Nero con il Mar Baltico.
Nel campo commerciale la città di Kiev era molto importante per i Vichinghi che fornivano alla Russia non solo merci ma anche re come riportarono le “Cronache” di Nestore.
Secondo le fonti fornite da Erodoto il fiume Dnepr nella lingua degli Sciti, antichi abitatori dell’Ucraina, veniva chiamato VARUSTANA, e gli Unni lo chiamarono VAR.
Il prof. Branchina nell’epigrafe del Mendolito isolò il lessema VAR con il significato di “acqua”.
Nella stele aveva individuato anche il termine TEUTO, principe di Inessa. Entrambi i termini, così come gli altri della stele, collegati ad una lingua nord europea molto simile all’attuale tedesco.
Quindi per l’autore della ricerca i termini Cilliri, Cirella e varianti furono sempre utilizzati per indicare insediamenti umani posti nei pressi di un fiume o vicino ad acque navigabili. Fiume che spesso veniva chiamato VARA
Riassumendo quanto sin qui esposto, emergono singolari e non certo casuali affinità tra: gli Illiri o Illiroi della regina Teuta, pirati del mare o uomini della chiglia (kiel); la capitale Kiev, posta, come una chiglia o nave sul fiume Dnpr o Varustana, il corso fluviale che “conduce alla casa degli Avi” (vara, acqua – usa, casa – an, antenato); i Vareghi, coloro che vanno sull’acqua; i Killiri o Killiroi di Siracusa, abili costruttori di chiglie, navi e poi flotte navali talmente potenti da sconfiggere gli Ateniesi non solo nel mar di Sicilia, durante la guerra del Peloponneso, ma fin nel porto di Atene, sotto la guida del grande generale siciliano Ermocrate.
La relazione tra i Cilliri e Teuto ed ancora con Adrano?
La storia ha lasciato testimonianze di come il Simeto (l’antico LETE?) fino alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento, spesso rompeva gli argini. Il fiume in certi punti poteva essere attraversato solo tramite l’uso di imbarcazioni. L’utilizzo di queste imbarcazioni veniva dato in appalto alle famiglie adranite.
A queste famiglie venne probabilmente dato il soprannome di KILLIRI O CILLIERI, fino a tempi recenti. Infatti proprio ad Adrano esiste una piazza intitolata a questi “traghettatori” che avevano una grande importanza nella comunità sociale della città. Diedero infatti anche un nome al quartiere in cui abitavano (CILLARA, per indicare l’attività del traghettatore).
Sotto il principato di Teuto questi traghettatori erano presenti lungo il Simeto e dovevano essere molto esperti perché allora il fiume aveva un regime d’acqua molto più elevato. Traghettatori che forse erano anche esperti nel costruire piccole imbarcazioni non solo in grado di traghettare da una sponda all’altra ma pure di scendere lungo il corso del fiume fino ad arrivare negli empori e nel porto di Catania. Piccole imbarcazioni che trasportavano prodotti che dovevano  poi giungere, con imbarcazioni più grosse, nei vari centri del Mediterraneo. Molti reperti in pietra, ritrovati nell’area del Mendolito, hanno una caratteristica forma arcuata come a richiamare il profilo delle imbarcazioni. Forse degli ex voto resi alla divinità fluviale che aveva il suo altare nella Valle delle Muse.
Cicerone, durante il processo di Verre, citò i Centuripini come fornitori di navi alla flotta romana.
I Centuripini abitanti in un alto colle e dirimpettai degli Adraniti dal 213 a.C. godevano di una grande libertà che era stata preclusa agli adraniti.
Adrano nel 213 a.C. fu sconfitta dai Romani, grandi tiranni del passato, e subirono non solo la chiusura del loro tempio dedicato al dio Adrano, quindi privazione della loro libertà religiosa, ma anche diverse penalizzazioni nelle loro attività economiche.
Cicerone nel 70 a.C. affermò come la città di Adrano
Fu costretta alla cessione coatta di una parta dei propri terreni agricoli ai
confinanti Centuripini, premiati per il loro passaggio all’alleanza romana.
I Centuripini avevano assistito alla distruzione, quasi totale, della vicina
Adrano da parte dei legionari romani, ed avevano chiesto una pace separata con i Romani.
Questa azione  li preservò dalla distruzione della loro città e li avvantaggiò.
I centuripini guadagnarono, in questo modo, l’appellativo di
Consanguinei dei Romani, come riferì Cicerone.
Sembra che ai Centuripini venne concessa l’esclusiva facoltà di costruire delle imbarcazioni per la navigazione sul Simeto e di praticare, gestire i commerci fluviali che prima erano esclusiva degli adraniti di Teuto.
Infatti nel tempo gli Adraniti si riappropriarono di quei privilegi perduti, tra cui quello importante del servizio di attraversamento del Simeto.
Lo storico adranita, prof. Simone Ronsisvalle, rilevò nelle sue ricerche come fino all’Ottocento, i Centuripini dovevano pagare alla famiglia appaltante del servizio, gli Spitalieri di Adrano, un dazio sul passaggio del Simeto, nonostante lo scarso utilizzo da parte degli stessi centuripini.
Quando i Greci giunsero in Sicilia furono accolti amichevolmente. Un’affermazione legata agli scritti di Diodoro Siculo che affermò come
Dei megaresi furono accolti dal re sicano Iblone e
si inserirono perfettamente nel tessuto sociale dell’Isola all’interno delle città.
La stessa accoglienza non fu riservata ad Archia che in realtà non fu ecista di Siracusa ma piuttosto un esule  aristocratico fuggito da Corinto.
La vicenda di Archia fu narrata da Diodoro Siculo e da Plutarco….
Fidone, re di Argo, decise di conquistare Corinto.
Il suo obiettivo era quello di fare di Corinto la propria residenza per
poi passare alla conquista del Peloponneso.
Agì con l’inganno….e chiese con una scusa 1.000 giovani corinzi tra i
più validi e coraggiosi. Il suo intento non era amichevole, egli voleva provare
la città di Corinto delle sue forze militari migliori. ma il suo piano fallì a causa del
tradimento di due comandanti di Argo, Dessandro e Abrone.
Abrone, per fuggire alle ire del re Fidone, prese la sua famiglia e si recò nella città
di Corinto difesa da possenti mura. Qui fu ben accolto dai corinzi per aver salvato la loro città.
Abrone ebbe un figlio che chiamò Melisso, il quale a sua volta fu genitore di Atteone.
Atteone era per virtù e bellezza il primo fra i corinzi.
Per queste qualità aveva dietro una gran schiera di spasimanti che volevano sedurlo,
dei quali il più ardimentoso era proprio Archia dei Bacchiadi.
«Acteone, il più bello e più costumato giovane di sua età, e però amato da molti, ma sopra tutti ardeva per lui Archia della famiglia degli Eraclidi, il più ragguardevole e per ricchezza e per autorità che fosse infra i Corinti »
Archia venne più volte rifiutato dal giovane Atteone e, non volendosi rassegnare,
decise che lo avrebbe rapito. Con altri Bacchiadi della sua famiglia si presentò presso
la casa di Melisso, padre di Atteone, per portare con sé il giovane.
Archia e i suoi complici incontrarono la resistenza del padre Melisso che chiamò altri
suoi amici per impedire il rapimento del figlio.
Nella gran foga che si creò, Atteone venne strattonato dagli uni e dagli altri, finendo lacerato, ucciso in questa maniera. Di tale tragedia Melisso invocò giustizia. Recante il corpo del figlio, si portò in pubblica piazza e qui pronunciò parole d'astio e rammarico verso i corinzi, i quali, dimentichi del bene fatto da suo padre Abrone, lasciavano che i Bacchiadi restassero impuniti per tale crimine commesso ai danni della sua prole.
Egli voleva giustizia contro Archia, ma i corinzi temevano l'ereclida a causa della potente fama di cui erano stati insigniti i Bacchiadi. Vedendo che né Senato e né popolo osava parlare contro il colpevole, durante i giochi dell'Istimo, salì sul Tempio di Poseidone - o Nettuno - e maledicendo i Bacchiadi e invocando il nome di tutti gli dei, afflitto dal profondo dolore, si gettò da un dirupo, non sopravvivendo così al figlio.
«... pregava [Melisso] per ricompensa della congiura scoperta da suo padre, che dovessero vendicar l'oltraggio, e la morte del suo misero figliuolo. Le parole di costui, e le lagrime, bench'elle avessero commosso assai gli animi de' popoli, e che i Senatori s'andassero immaginando di gastigar questa ribalderia secondo la severità delle leggi, tuttavolta la possanza d'Archia in tutta la città era tanto grande, che non si trovò mai alcuno, che lo volesse accusare, ne accusato pigliar la causa contra di lui.»
(Tommaso Fzello – Della Storia di Sicilia. Deche due… 1817, pag. 218)
Dopo la morte di Melisso incominciò un lungo periodo di carestia e pestilenza presso Corinto. Disperati gli abitanti andarono a consultare l'Oracolo delfico - il più importante tra gli oracoli dei greci - e questi rispose loro che l'ira del dio Poseidone era stata scatenata, e non si sarebbe mai placata fino a quando la morte di Atteone non sarebbe stata vendicata.
Archia, che faceva parte della delegazione di corinzi mandati presso l'oracolo, udendo tali parole decise di auto-esiliarsi. Per i sensi di colpa che gli vennero nei confronti dell'intera città, o per il timore che l'ira funesta di Poseidone potesse abbattersi contro di lui se fosse rimasto a Corinto.
Naturalmente ci sono altre narrazioni sull’episodio ma un dato sarebbe comune: Archia fuggì in esilio per giungere in Sicilia.
La Sibilla delfica dipinta dal Michelangelo; colei che presso l'«Ombelico del mondo», in nome di Apollo, disse ad Archia di recarsi nel sito dove sarebbe sorta la futura Siracusa.

Nel 733 a.C. Archia, non si sa se il suo esilio fu volontario o in seguito ad una condanna, allestì più navi con un equipaggio costituito da amici e parenti per raggiungere la Sicilia.
Strabone affermò come nell’equipaggio di Archia vi fossero anche del Megaresi del villaggio di Crommione (Krommyon).
Giunti in Sicilia vennero accolti dal principe sicano Iblone, il quale fondò per loro una città chiamata Megara Ibla, come segno di fratellanza.
Probabilmente Archia, personaggio importante, aristocratico, proveniente da una città illustre come Corinto, fu ospitato nella reggia di Iblone a Siracusa, città allora poco conosciuta.
A Siracusa in quel periodo, come riferì Cicerone nelle sue Verrine, vi era un tempio dedicato ad Urio (Urios), un dio minore associato alla protezione ed alla guarigione.
Il tempio di Urio, come quello di Poseidone della greca Kalauria (anche in Sicilia esisteva una città di nome Kalauria, nominata da Plutarco nella Vita di Timoleonte), veniva utilizzato dai supplici come intoccabile rifugio per scampare alle persecuzioni politiche.
Nel tempio di Poseidone della greca Kalauria trovò, ad esempio, rifugio e, almeno la prima volta, protezione l’oratore Demostene (Atene 384 – Kalauria 322 a.C.), accusato di appropriazione indebita di somme di denaro di proprietà dello stato. Successivamente Demostene, incalzato da un certo Archia (vissuto 400 anni dopo l’Archia di Siracusa), che non si sarebbe fatto scrupolo di immolarlo sull’altare di Poseidone, preferì darsi la morte.
Alla morte di Iblone, Archia riuscì a dare nuovamente vita al suo carattere avido, dispotico riuscendo a tessere delle trame politiche per dare vita alla prima tirannide di Sicilia, relegando i Siculi ed i Sicani, definiti KILLIRI dai greci, all’opposizione politica.
Lo stesso Archia riuscì a coinvolgere nei suoi piani politici dispostici gli aristocratici di Siracusa, chiamati GAMOROI, isolando sempre più nel tessuto sociale l’opposizione dei KILLIRI.
L’opposizione politica dei KILLIRI a Siracusa fu molto forte e si nota nel racconto di Tucidide sulla Guerra del Peloponneso. Nel 413 a.C. Siracusa venne attaccata dagli Ateniesi, guidati da Nicia. Una forte “intelligence” siracusana formata dai KILLIRI e dai GAMOROI pentiti cercarono di convincere Nicia, in grave difficoltà, a condividere la causa e cioè facendo fronte comune contro il governo siracusano di Archia.
Plutarco e Diodoro Siculo affermarono come l’ecista ebbe due figlie, Ortigia e Siracusa, e fu ucciso dal suo amante Telefo.
      Francesco Branchina

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Iscrizione greca – Fonte delle Favare
Contrada Polichello – Adrano
Iscrizione in sito sulla pietra sopra la fonte.
Misure: Altezza dell’area inscritta : 29 – 34 cm – larghezza dell’area inscritta: 1,25 m.
Condizioni dell’epigrafe: si conserva interamente
L’iscrizione è scolpita sul lato verticale di una pietra naturale che si trova subito sopra la fonte.
Il testo è scolpito a caratteri grandi e spessi, spesso con un tratto verticale che si estende sopra le lettere A, Ʌ, Δ.
I caratteri variano nel testo, con il sigma usato indifferentemente in forma lunare e dritta; la epsilon è generalmente dritta, ma appare in forma lunare in  alla linea 2; l’alfa è generalmente dritta ma riporta un’asta mancante in alla linea 3.
Il ph riporta un occhiello angolare alle linee 1 e 2 ma curvo alla linea 3.
Che i caratteri cambino di forma lungo il testo è un aspetto comune negli scritti epigrafici e non si deve quindi necessariamente ipotizzare che si tratti di mani diverse a seconda delle forme delle lettere. Si leggono quattro legature lungo il testo che in passato hanno dato origine ad interpretazioni sbagliate. I caratteri sono tra i 7 – 9 cm; la palma alla destra delle righe 2 e 3 è alta 20 cm


Iscrizione  greca?


Traduzione:
Keladianos, Lalos, Rouphos, Pheseinos, Eusebes, Pauleinos si sono divertiti (rallegrati)
L’iscrizione fu pubblicata per la prima volta da Gualtherus nel 1624.  La trascrizione fu ritoccata quasi interamente da Franze, in CIG III – 5741, ma l’edizione del Kaibel in IG XIV,572  ripristinò la trascrizione originaria del Gualtherus. Il testo fu rimaneggiato in base agli studi effettuati da Paolo Orsi il 2 aprile 1898.
Ma la prima lettura corretta, anche se con una divisione in due colonne artificiale, fu quella del prof. Manganaro (1961).
Alcuni studiosi interpretarono il testo come non greco per via delle difficoltà di trascrizione e riconciliazione delle legature e delle forme desuete (non in uso) di alcuni dei nomi.
Il verbo finale   fu correttamente trascritto e tradotto dall’Orsi e come osservò il prof. Manganaro, si trattava di una parola comune in un contesto conviviale e doveva quindi essere riferita al godimento della fonte.

Disegno autoptico dell’iscrizione della Fonte delle Favare (J.R.W. Prag)
È difficile datare iscrizioni soltanto sulla base dei suoi caratteri e specialmente quelle di carattere rupestre come quella delle Favare.
L’iscrizione, secondo il prof. Manganaro, apparteneva probabilmente al II secolo a.C. o al periodo successivo in base allo stile della palma. Successivamente lo stesso prof. Manganaro  fece una correzione alla precedente datazione, collocando l’epigrafe solo al II secolo a.C. basandosi sulla forma delle lettere. Alcuni storici suggerirono l’epoca cristiana.
L’uso di nomi al singolare, tre greci e tre romani, potrebbe rilevare anche uno stato di servitù ma è solo un’ipotesi.
Foto della prof.ssa Ina Garaffo poste nel sito: www.etnantura.it





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Ripostiglio di Bronzi
La segnalazione di importanti vestigia nella zona del Mendolito era presente negli scritti del XVII e del XVIII secolo.
Nell’Ottocento ci fu un importante impulso nella ricerca grazie a due storici di Adrano:
-        L’avv. Giovanni Sangiorgio Mazza, che nel 1820 riferì che
Gli avanzi delle grosse mura, e della maceria in ispessi mucchi, nella tenuta così detta
del Mandorlito nell’ex feudo di Pulicello”;
-        Il prevosto Salvatore Petronio Russo impegnato nella ricerca archeologica nel territorio di Adrano, fondatore nel Novecento del primo Museo Archeologico di Adrano e dal 1908 Regio Ispettore Onorario degli scavi di antichità per il circondario i Catania.
Il Petronio Russo fu il primo che identificò nelle rovine del luogo i resti di una città che chiamò “Simezia”. Segnalò la presenza di un tratto dell’antica fortificazione in proprietà Sanfilippo. Forni delle immagini dei resti come si trovavano fino al 1870….. prima di essere brutalmente smantellati.
Una vera e propria ricerca archeologica iniziò con l’archeologo Paolo Orsi che fu chiamato nel sito del Mendolito dallo stesso Petronio Russo.
Tra il 1898 ed il 1909, l’Orsi, allora  direttore del Museo Archeologico di Siracusa, fece dei sopralluoghi. I risultati di questi sopralluoghi furono riportati nei suoi taccuini n. 38 (1898), n. 70 (1908 – 1909, n. 71 (1909). Taccuini che furono successivamente pubblicati dall’archeologa Paola Pelagatti nel 1967 – 68.
Tra i vari sopralluoghi dell’Orsi ci furono, tra il 1907 ed il 1910, degli autonome interventi del disegnatore Rosario Carta, spesso accompagnato dall’operaio Veneziano. Disegni che furono riportati nei taccuini dell’Orsi.
L’archeologa Pelagatti ebbe il grande merito di rendere noti alla comunità scientifica i taccuini di ricerca dell’Orsi su un territorio allora in gran parte sconosciuto.  Un  gran numero di dati che altrimenti sarebbero stati sconosciuti. L’Orsi infatti pubblicò molto poco sulla zona del Mendolito limitandosi alle scoperte più importanti e ad alcune riflessioni su vari argomenti.
Restarono invece avvolti nel buio gli argomenti ritenuti di minora importanza come: relazioni di sopralluoghi, visite a monumenti e siti archeologici, notizie di rilevo secondario. Tutti questi dati  furono trascritti nei suoi 150 taccuini che furono conservato nel Museo Archeologico Paolo Orsi di Siracusa.
L’Orsi fece nel sito delle lunghe escursioni. Visitò in modo accurato l’abitato, si soffermò a riflettere sulla cinta muraria, si spinse nella necropoli prendendo degli appunti anche su reperti che erano presenti nella villa del Dott. Vincenzo Sanfilippo, ricco  proprietario dei terreni della zona.
Fu nell’abitazione del dott. Sanfilippo che l’Orsi prese visione dei primi reperti della zona: capitelli in pietra lavica, terrecotte, vasi, iscrizioni rinvenuti dai contadini durante la lavorazione nei campi.
Grazie agli elementi raccolti, compilò un relazione riportando che…
Non identificava il sito con Simaethia ma con la sede di una città sicula.
L’Orsi non si limitò ad un analisi d’indagine ma si adoperò per acquistare, per conto del Museo Nazionale di Siracusa, una serie di reperti archeologici di diversa natura e tutti provenienti dal sito.
Il primo oggetto venne registrato nell’inventario dell’istituto nell’anno 1902.
Si trattava di
Una robusta lancia di bronzo a cannone”
che fu acquistata per 25 lire. (N. Inventario 22385) (Inedita)
L’ultimo ordine di acquisto avvenne nel 1918
Una grattugia di bronzo.
acquistata per 5 lire (Inventario 39753) (Inedita).
In realtà nel 1895 (prima dell’inizio dei sopralluoghi nel sito) c’era stata l’acquisizione di due punzoni per monete false che l’Orsi acquistò per 25 lire, giustificando la spesa con la seguente motivazione..
Interessanti la storia della falsificazione in Sicilia
I venditori dei punzoni affermarono che provenivano dal Mendolito.
Scheda Inventariale del Museo Archeologico regionale “Paolo Orsi”, n. 15343.
Conio per Tetradramma o “civetta” di Atene
Laura Breglia
Laura Breglia, una delle più importanti numismatiche e specialista nel campo
della numismatica greca, affermò come
gli antichi si servirono altresì, per la preparazione dei coni di puntoni di metallo duro con disegno in rilievo, che venivano affondati nel metallo riscaldato del conio dandogli l'impronta principale, mentre alcuni particolari venivano ripresi, o tracciati successivamente, col bulino e impressi con punzoncini indipendenti. Tale uso, già riscontrato in età greca, si generalizza nell'età romana dell'impero; esso offriva da un lato il vantaggio di accrescere la resistenza del conio col dar maggior densità al metallo con la compressione, dall’altro, vantaggio ancor più notevole, specie per la ricchissima produzione dell’impero, facilitata il lavoro, permettendo di ricavare da un solo punzone parecchi coni.
https://www.erroridiconiazione.com/1-1-fabbricazione-dei-coni/

Nell’arco di circa sedici anni l’Orsi acquistò, per il Museo di Siracusa, un notevole gruppo di metalli, terrecotte, vasi e ceramiche tutte provenienti dalla zona del Mendolito.
Solo pochissimi casi furono delle donazioni o  ritrovamenti occasionali durante i sopralluoghi.
Un piccolo lotto di bronzi (n. inventario 33570) fu donato dall’antiquario Fiorito mentre per i ritrovamenti occasionali, due frammenti di vasi e di tegole (n. inventario 31700), furono recuperati da Rosario Carta e dall’operaio Veneziano.
Uno degli acquisti più onerosi, in vari lotti, si verificò tra il 1909 ed il 1912.
Era un acquisto importante e di grande valore storico perché riguardava
Il ripostiglio di metalli del predio Ciaramidaro
Per quantità il maggiore della Sicilia, ben 900 kg, e che fu rinvenuto casualmente nel 1908 dentro un pithos all’interno dell’area del urbana del Mendolito. I reperti erano stati immessi nel mercato dell’antiquario.
Infatti l’Orsi annotò sul suo taccuino n. 70 del 29 dicembre 1908…
Il famoso ripostiglio di Adernò minaccia di venire un disastro per il Museo come
il terremoto di Messina.
La sua nota non era solo un riferimento al valore storico dei reperti che si stava perdendo ma anche allo sforzo economico sostenuto dal Ministero per l’acquisto dei vari lotti.
Il deposito era costituito sia da materiale grezzo (aes rude), cioè pani di metallo, sia da oggetti lavorati, integri o rotti. Tutti reperti risalenti, come epoca di interramento, alla seconda metà del VII secolo a.C..
Il deposito presentava anche oggetti più antichi risalenti al IX secolo a.C.
Forse era il deposito di una fonderia legata ad un santuario.


I reperti sono oggi esposti nel settore A del Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” di Siracusa.
Una piccola parte di questi reperti, costituiti da lance e lingotti, sono esposti nel Museo Regionale di Adrano.
Punte di lance
Ripostiglio del Mendolito 
Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa

Nel 1911 acquistò un reperto di grandissima importanza storica ed artistica, proveniente dal sito del
Mendolito o dalla sue vicinanze.
Si tratta di un bronzetto raffigurante un’atleta e inventariato nel Museo di Siracusa al n. 31888.
(Bronzetto (L’Efebo o atleta) già descritto nella ricerca.
La statuetta apparteneva alla collezione di Petronio Russo e fu acquistata dal Ministero per una
somma, allora notevole, di 2.000 lire.
Il reperto fu attribuito a Pitagora di Reggio o alla  sua officina e datato al 460 a.C.
Una grande testimonianza dell’arte siceliota e uno dei reperti più importanti del Museo di Siracusa.
Nel 1908 fu acquistato (per 100 lire) un bronzetto (numero inventario 29263) raffigurante un
guerriero nell’atto di incedere in avanti, con indosso una corta cosacca ed un cinturone.
Anche questa statuetta già descritta).
Un bronzetto opera di un artigiano indigeno della prima metà del V secolo a.C.
In quegli anni furono acquistati altri reperti:
-        Un’antefissa fittile a maschera leonina della seconda metà del VI secolo a.C. (N. Inv. 30059);
-        Una lastra arcaica con decorazione a rilievo (N. Inv. 30061).
Entrambi i reperti furono registrati nel 1909.
Nel 1916 furono acquistati due antefisse, entrambe a protome femminile, datate al terzo / quarto del
VI secolo a.C. (N. Inv. 30024 – 38025).
Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” – Siracusa
Antefissa a maschera leonina

Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi” – Siracusa
Antefissa a protone femminile

Nel 1911 furono acquisiti i due frammenti di tegole con iscrizione in lingua anellenica incisa prima
della cottura e descritte nelle presente ricerca.
Nel 1910 questi due reperti erano conservati nel piccolo museo creato da Petronio Russo nei locali
annessi alla Chiesa Madre di Adrano come risulta dai taccuini di Paolo Orsi.
Nel taccuino n. 75 del febbraio 1910, l’Orsi riportò..
Il Carta, avendo accompagnato in Adernò i prof. Von Scala ed Hersche, eseguì per mio
ordine il calco delle due misteriose iscrizioni tracciate nella creta fresca di due
tegole, prov. dal Mendolito, ed ora tutte e due conservate nel Museo adranitano
della Matrice. Quando lo visitai nel marzo 1909 non vi era colà che la prima, e la
seconda era in mano del dott. Sanfilippo, il quale arrendendosi alle preghiere
del Prevosto la ha finalmente ceduta al Museo Predetto”.

Ripostiglio Bronzeo
Cuspidi di Lance
Località: Contrada Mendolito, predio Ciaramidaro.
Materiale: Bronzo
Condizioni dei reperti: integre, lacunose e frammentarie; spezzate intenzionalmente. Patina di ossidazione di colore verde
Dimensioni:
-        Lunghe, 60 cm – 48,2 cm
-        Lame con cannone di immanicatura: lunghezza 13,2 cm – 12,5 cm – 11 cm – 8 cm.
Datazione: Seconda Età del Ferro,  tra la fine dell’VIII secolo a.C. e il VII secolo a.C.
Cuspidi di lancia bronzee; lama allungata a base distinta, talora con fori: costola a tre-quattro
nervature, a sezione ovale, romboidale, poligonale; cannone di immanicatura a base
circolare-ovale.
Cuspidi di lance a lama molto allungata alla base delle alette distinta, talora fornite di fori,
sono proprie della seconda Età del Ferro e si ritrovano in Sicilia nel deposito di bronzi di
Giarratana (Ragusa), oltre che il Calabria nella necropoli di Canale.
Alla Calabria si riporta anche l’uso di decorare le cuspidi con motivi impressi e incisi,
attestato in alcuni esemplari del Mendolito.

Frammenti Di Recipienti In Lamina Di Bronzo.
Ripostiglio Bronzeo
Località: Contrada Mendolito, predio Ciaramidaro.
Materiale: Bronzo
Condizioni dei reperti: deformati, spezzati intenzionalmente, ripiegati. Patina di
ossidazione verde.
Dimensioni: altezza 12,3 cm – larghezza max labbro, 7,8 cm – larghezza, (13 x 10) cm ; (10 x 8,2) cm.
Datazione: Seconda Età del Ferro,  tra la fine dell’VIII secolo a.C. e il VII secolo a.C.
Numero Inventario: 29945
Frammenti di recipienti in lamina bronzea, di cui: uno a labbro bombato ripiegato su anima
di filo bronzeo. Un secondo con toppe in lamina bronzea fissate con ribattini. Un terzo con
tacche e segni dello strumento usato per il taglio.
Numerosi sono nel ripostiglio del Mendolito i frammenti di recipienti in lamina di bronzo,
ripiegati intenzionalmente per essere destinati alla rifusione, nei quali talora la presenza di
toppe di restauro in antico indicano il loro lungo periodo d’uso. In un frammento è
riconoscibile la pertinenza ad un bacino a labbro bombato, ripiegato su un’anima di filo
bronzeo alla scopo di rafforzarlo, e parete curvilinea.

Lingotti Discoidali A Calotta
Ripostiglio Bronzeo
Località: Contrada Mendolito, predio Ciaramidaro.
Materiale: Bronzo
Condizioni dei reperti: lacunosi. Patina di ossidazione verde con chiazze marrone..
Dimensioni: Larghezza, 10,5 x 10,5 cm; 12 x 8,5 cm; 15,5 x13 cm; 8 x 8,5 cm; 11 x 10
cm.  Frammento con fibula: larghezza, 7 x 4 cm – Fibula, lunghezza 5,7 cm
Datazione: Seconda Età del Ferro,  tra la fine dell’VIII secolo a.C. e il VII secolo a.C.
Numero Inventario: 29700
 
Frammenti di lingotti discoidali a calotta; due frammenti inglobano un fibula con arco a
navicella con quattro scanalature e due bottoni laterali;  molla a due giri a sezione quadrata;
staffa a canale allungata.
I lingotti discoidali a calotta piano-convessa costituiscono una delle forme più diffuse di
lingotti in Egeo e nel Mediterraneo. In Sicilia sono documentati nel Bronzo recente e finale e
nella prima e seconda Età del Ferro. Essi possono essere prodotti a fusione utilizzando una
matrice o il fondo di un vaso convesso, ma anche semplicemente in buche scavate nel
terreno. La produzione locale dei lingotti nel ripostiglio del Mendolito è testimoniata da
lingotti che recano inglobati frammenti di oggetti parzialmente rifusi, come nel caso di due
frammenti nel gruppo in questione.

………………………………………

Al centro sicano del Mendolito appartenevano alcune necropoli poste nei
territori limitrofi:
-        Sciare Manganelli poste a Sud del Mendolito;
-        Contrada Ardichella a Nord.





Le due tombe circolari a tholos




Sciare Manganelli
Necropoli protostorica (n.3 tombe circolari in pietra lavica e a tholos di età greco‐arcaica).
Sito sottoposto a vincolo archeologico 



Adrano - Contrada Ardichella

Nella necropoli dell’Ardichella fu rinvenuta nel 1959, in modo casuale, una placchetta
egizia.
Placchetta Rettangolare
Rinvenimento: Contrada Ardichella – Adrano.
Materiale : Faience (terracotta) bianca, fine, dura e molto compatta, con smalto duro
ancora un po' lucente di color verdastro beige, ben preservato in tutto il reperto.
Condizioni del reperto: quasi integro, solo l’angolo sinistro in alto è rotto.
Dimensioni: altezza (incluso l’anello di sospensione) 3,45 cm – larghezza, 2,3 cm
spessore (orlo inferiore): 0,7 cm.
Datazione: dalla fine dell'Età del Bronzo alla seconda metà dell'VIII secolo a.C.
Numero Inventario: 11632
Con anello di sospensione sul lato corto superiore, angoli appena arrotondati, rovescio e
facce laterali sono lisci, parte inferiore lievemente arcuata. Decorazione sul recto in rilievo
con interstizi abbastanza profondi fra i vari elementi: a destra ureo con disco solare sul capo,
rivolto verso destra; il corpo dell'ureo è eseguito in forma d'un cappio alto; nella coda del
serpente è collocato un cartiglio col nome regale Mn-Xpr-ro; il corpo dell'ureo è vergato in
senso orizzontale, il corpo del coleottero all'interno del cartiglio mostra tre costole verticali.
Al di sopra si trova un occhio (però non del tipo udjat), il quale è unito alla cornice superiore
mediante piccoli raccordi cilindrici (forse ciglia).
Una placchetta magica, identica in tutti i dettagli della forma e del decoro così come con
misure simili (3 x 1,9 x o,5 cm), fu trovata in superficie a Tel Ara/Tell CAra (Israele
settentrionale): HERRMANN 2006, KatNr. 491, tav. CV (solo il rilievo sembra alquanto
meno accentuato rispetto al reperto del Mendolito). Sul reperto palestinese il disco solare
posto sul capo dell'ureo ha la forma parimenti ovoidale come sull'oggetto in esame.
Quell'amuleto proveniente da Téll Ara, certamente più o meno contemporaneo con quello del
Mendolito, fu datato orientativamente a cavallo fra la Tarda Età del Bronzo Palestinese e la
Prima Età del Ferro. Tuttavia proprio nelle dinastie XXV e XXVI erano molto in uso
placchette rettangolari con decoro a rilievo attorniato dalla cornice rettangolare e fornite con
uno o due anelli di sospensione: GRIFFITH 1923, tav. LVI, 28; DUNHAM 1950, tav. LVIII,
A e B, 4a riga (tomba Ku 53 d'una sposa di Piye/Pianchi); DUNHAM 1963, p. 46, fig. 31 c,
47, fig. 32 d (dalle tombe W 671 e W 678, ambedue dalla fine dell'VIII fino alla metà del VII
secolo a.C.); per le placchette rettangolari, lisce sul retro e dotate di anello di sospensione, le
quali recano sulla faccia anteriore un bovide (vacca di Hathor) in rilievo, cfr. REISNER
1907, n° 12334; PETRIE 1914, tav. XXXVI I, n° 209e. Una composizione decorativa, molto
affine a quella delle placchette provenienti da Té11 Ara e dal Mendolito, appare già su
placchette lavorate su ambedue le facce e risalenti al regno di Amenofi I: HALL 1913, nn.
424-425. Si tratta di reperti custoditi nel British Museum, senza anello di sospensione; sulla
faccia anteriore essi mostrano un ureo rivolto verso destra, con la coda alzata, ed a sinistra,
cioè dietro il serpente, un cartiglio verticale col nome di Amenofi I. Il nome Mn-Xpr-ro,
scritto nel cartiglio dell'amuleto in esame, fu il «nome d'incoronazione» di Tutmosi III che
dopo la morte del re veniva scritto assai spesso sugli scarabei e su altri oggetti magicamente
efficaci. Anche Piye/Pianchi (ca. 747-716 a.C.), il fondatore della XXV dinastia in Egitto,
assunse ovviamente questo nome o all'inizio o piuttosto verso la fine del suo regno (L.
Teirtik, in FH N, I, pp. 49, 51-52). A questo re potrebbe riferirsi il nome di trono nel cartiglio,
a meno che non fosse inteso solamente un effetto magico con il nome ben noto di Tutmosi
III. 
Su tutto l'amuleto, quindi, sono uniti tre elementi magici: il cartiglio con il nome regale,
l'ureo (simbolo della potenza regale per eccellenza) ed inoltre l'occhio sovrastante. Amuleto
egizio del periodo che va dalla fine dell'Età del Bronzo alla seconda metà dell'VIII secolo
a.C.
 Nelle tombe circolari della contrada Sciare Manganelli, la prof. Paola Pelagatti, duranti gli
scavi effettuati nel 1962,  recuperò altri “Aegyptiaca”: quattro scarabei e uno scaraboide.
Reperti che furono recuperati nelle tombe n. 5, 14 e 18.

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Scarabeo
Rinvenimento: Mendolito, necropoli di Sciare Manganelli – tomba circolare n. 16
Materiale : Faience (terracotta) biancastra, di grana alquanto grossa, abbastanza dura
e compatta con smalto degradato in massima parte di colore verde scuro, che contiene
anche punti di puro bianco.
Condizioni del reperto: integro.
Dimensioni: altezza, 0,69 cm – lunghezza, 1,4 cm – larghezza, 1 cm.
Datazione: produzione egea del VII secolo a.C.
Numero Inventario: 11633

Tipologia entomologica molto ben eseguita: testa lunata con passaggio ondulato scendente al
clipeo, quest'ultimo dotato di quattro lobi frontali e connesso con le guance deperite (un tipo
intermedio verso quello con testa e clipeo a forma di clessidra); separazione del pronoto e
delle elitre con semplici linee; callosità degli omeri in forma di triangoli appuntiti che si
distendono molto all'indietro; zampe naturalistiche. Base decorata orizzontalmente:
all'interno d'un ovale appena discernibile tre geroglifici con lettura sinistrorsa, ossia a destra
il giunco sw, a sinistra di esso in alto una linea orizzontale (geroglifico n semplificato), al di
sotto di quest'ultimo un segno circolare. I segni possono essere letti come “hnsw”, qual'è il
dio fanciullo di Tebe di nome Khonsu.
Il nome del dio fanciullo tebano Khonsu appare spesso su scarabei egizi, ma i geroglifici
sono scritti perlopiù nella loro sequenza fonetica (NEWBERRY, 1907, tav. VIII, 36376;
Skarabaen Basel 1976, p. 405, n° Va 9). Nel reperto del Mendolito, invece, i segni indicano i
suoni in successione contraria; grafie simili si trovano altresì su scarabei di provenienza
egiziana (NEWBERRY 1907, tav. X, 36609; Skarabeien Basel 1976, p. 397, n° MV 12). In
ordine fonetico giusto gli stessi geroglifici rendono quel nome divino su uno scarabeo in
terracotta fine, il quale fu rinvenuto nell'ambito dei santuari della dea Hera a Perachora
(vicino Corinto), ma senza stratigrafia: JAMES 1962, p. 485, D 140; p. 487, fig. 31;
quest'ultimo è un manufatto della produzione d'imitazione egea, alla quale appartiene con
certezza anche il pezzo in esame, però come tanti altri della stessa produzione è realizzato in
grana grossa. 
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Scarabeo
Rinvenimento: Mendolito, necropoli di Sciare Manganelli – tomba circolare n. 14
Materiale : Faience (terracotta) biancastra, fine abbastanza dura e compatta, con strato
superficiale di smalto grigio, oggi opaco, quasi dovunque preservato.
Condizioni del reperto: integro.
Dimensioni: altezza, 0,74 cm – lunghezza, 1,58 cm – larghezza, 1,14 cm.
Datazione: manufatto levantino del VII o dell'inizio del VI sec. a. C.
Numero Inventario: 11634


Testa aperta con passaggio liscio scendente al clipeo, la cui delimitazione anteriore è
leggermente ondulata; guance deperite; separazione del pronoto e delle elitre con solchi
semplici, piuttosto larghi; callosità degli omeri in forma di piccoli triangoli; zampe
naturalistiche, però l'area triangolare fra le zampe anteriori e mediane non è incavata come al
solito, cosicché esse appaiono quasi in rilievo sul corpo del coleottero; l'ovale della base,
visto dall'alto, sporge rispetto a quello del dorso. Base decorata orizzontalmente: sequenza di
geroglifici stilizzati in maniera non-egiziana con lettura sinistrorsa; a destra la canna, al
centro una figura seduta con barba regale, con corona dell'Alto Egitto stilizzata, così come
con flagello enorme sopra il ginocchio; sotto il flagello si trova la scacchiera mn; a sinistra il
canestro nb posto verticalmente. I segni si possono leggere Jmn nb nsw „Ammone, signore,
re".
Si può notare che sin dalla dinastia XVIII, negli scarabei egizi visti dall'alto, l'ovale della
base e con esso parte delle estremità del coleottero talvolta sporgano rispetto al dorso (KEEL
1995, p. 51, § 100). Tale caratteristica, insieme all'esecuzione delle zampe in rilievo così
come alla linea del profilo longitudinale del dorso, avvicina tipologicamente il pezzo agli
scarabei greco-arcaici del VI secolo a. C. (BOARDMAN 1968, p.15, fig. i; ZAZOFF 1983,
pp. 114-115, figg. 33-34), nonché ai loro precursori in terracotta, i quali sono noti sia nell'Est
(Al Mina) sia nel Mediterraneo centrale (Sardegna): HóLBL1986, I, pp. 250-253, II, tav.147.
Dal momento che la figura regale sta al centro in posizione dominante, una lettura della
medesima come "re" mi sembra ovvia, tanto più che "re", oppure "re degli de', era un epiteto
frequente del dio Ammone.. Sebbene rappresentazioni d'un re siano molto comuni su
scarabei egizi (stanti, in trono oppure in ginocchio) e sebbene anche il re seduto con attributi
diversi sopra il ginocchio appaia ripetutamente (MATOUK 1977, p. 357, ma non con il
flagello), pare che la forma con la corona dell'Alto Egitto e con il flagello, che offre il pezzo
in esame, sia poco attestata (cfr. PETRIE 1925, tav. XII, 647: anch'esso riferibile ad
«Ammon-Ra» e con un segno sulle ginocchia abbastanza simile al flagello, ma senza
corona). In uno stile molto affine e schematico si trova il re, seduto con la doppia corona e
con un braccio levato, su uno scarabeo in Blu Egiziano con smalto grigio-bruno alquanto
ruvido, venuto alla luce fra gli Aegyptiaca del tempio di Poseidone a Sunio (Atene, Museo
Archeologico Nazionale, F. De Salvia, n° di studio personale 32)4. Tanto la tipologia esterna
dello scarabeo del Mendolito, inv. 11634, quanto lo stile dei suoi segni indicano la
produzione del pezzo fuori del paese del Nilo. Possibilmente si tratta d'un manufatto
levantino del VII o dell'inizio del VI sec. a. C.

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Scarabeo
Rinvenimento: Mendolito, necropoli di Sciare Manganelli – tomba circolare n. 16
Materiale : Faience (terracotta) grossolana, dura e compatta, verde scura con tracce di
smalto biancastro nella fascia superficiale; si tratta ovviamente dello stesso tipo di
faience di quella del n. inventario 11633.
Condizioni del reperto: integro ma con margine della base corroso.
Dimensioni: altezza, 0,069 cm – lunghezza, 1,37 cm – larghezza, 0,39 cm.
Datazione: Manufatto della produzione egea del VII sec. a. C.
Numero Inventario: 11635
Dettagli della testa e del clipeo appena discernibili; separazione del pronoto e delle elitre con
solchi semplici, piuttosto larghi; callosità degli omeri in forma di triangoli appuntiti; zampe
semplici, naturalistiche. Base decorata verticalmente: del contorno includente la legenda
rimane a destra in basso solo una parte; al suo interno si trova una iscrizione geroglifica con
lettura sinistrorsa, la quale nomina in alto Jmn-Ro «Ammon-Ra», scritto col disco solare
nella barca, e al di sotto, in grafia regolare, il medesimo dio una seconda volta, con un epiteto
come “Ammon-Ra, it [mio] signore».
La grafia del nome divino «Ammon-Ra» con la barca solare deriva dalla lettura dei due
geroglifici (sole e barca) come jm(w) n Ro „nave di Ra"; per semplice omissione della
consonante debole „w" si arrivò alla sequenza fonetica Jmn-Ro (Skarabden Basel 1976, p.
174; KEEL 1995, p. 243). Il modo in cui è resa la barca è ben noto da scarabei egizi
(NEWBERRY 1907, tav. X, 36421, 36627, 37117), specialmente anche da quelli della prima
parte del I mill. a. C. (GRIFFITH 1923, tav. LIV, 17; KEEL 1997, Aschkelon, n° 28; KEEL
2013, Tel Gamma, n° 130). Però la barca solare di questo tipo fu inclusa anche nella
produzione egea di scarabei, cioè specialmente nella scrittura di «Ammon-Ra» (JAMES
1962, p. 487, fig. 31, D 150, 151, 156, 157, 160). Lo scarabeo rinvenuto sul Mendolito ci
offre la combinazione di due scritture diverse per «Ammon-Ra», in cui la seconda forma
grafica chiarisce la prima. Un siffatto accostamento può essere stato creato solo in un
ambiente dove si conoscevano i geroglifici. Con questa combinazione grafica è noto un altro
esempio dell'Epoca Tarda proveniente dalla Palestina (KEEL 201o, Tell el-Fir, n°1), così
come un ulteriore scarabeo, ritrovato ad Ajia Irini (Cipro), di origine egea (GJERSTAD ET
AL. 1935, p. 768, n° 2543, p. 835, tav. CCXLVII, n° 22; Periodo 4, cioè seconda metà del
VII - prima metà del VI sec. a. C.) (A Perachora fu rinvenuto un reperto simile). Ambedue gli
scarabei, cioè quello da Ajia Irini nell'Est e quello nostro dal Mendolito nell'Ovest, offrono,
quindi, legende identiche secondo un modello egizio. 



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Scarabeo
Rinvenimento: Mendolito, necropoli di Sciare Manganelli – tomba circolare n.5
Materiale : Faience (terracotta), nucleo non visibile; nella fascia superficiale oscillante
fra grigio scuro e giallastro verde, di grana  grossa, dura e compatta, con bolle disperse;
smalto perso.
Condizioni del reperto: integro ma corroso.
Dimensioni: altezza, 0,73 cm – lunghezza, 1,3 cm – larghezza, 1 cm.
Datazione: Manufatto della produzione egea del VII sec. a. C.
Numero Inventario: 11636
Note: la tomba presentava un corredo funerario della prima metà del VI secolo a.C.,
forse con alcuni reperti della fine del VII secolo a.C.

Tipologia grossolana: testa lunata, senza piega scendente al clipeo; guance deperite;
separazione del pronoto e delle elitre con solchi semplici, piuttosto larghi; callosità degli
omeri non riconoscibili; zampe formate in rilievo sul corpo del coleottero; per quest'ultimo
aspetto cfr. n° dell'inv. 11634 . Base decorata orizzontalmente con tre geroglifici stilizzati in
maniera non-egiziana con lettura sinistrorsa: a destra figura seduta rivolta a destra, la quale
può essere interpretata quale dea Maat con la piuma sulle ginocchia; al centro il geroglifico
nfr, a sinistra il canestro nb in posizione verticale.
La Maat seduta deformata così come il segno nfr bipartito sono elementi frequenti in legende
geroglifiche su scarabei della produzione egea, le quali nell'insieme spesso non sono
leggibili. Il fatto che, sul pezzo dal Mendolito, la Maat appaia tanto stilizzata e che anche il
segno nfr consista in due parti separate, si spiega con la completa abrasione dello smalto: noi
vediamo soltanto lo strato interiore dei segni fortemente incavati. Nondimeno l'esecuzione
della Maat sullo scarabeo in esame è tipica della produzione egea; cfr. JAMES 1962, p. 509,
fig. 37, D 628, 631, 634, 635. La Maat deformata in questo modo si ritrova spesso su
scarabei da Mileto, Asia Minore, non ancora pubblicati. Quanto al nfr bipartito, l'incavatura
superiore oblunga sfiora appena, con la sua estremità inferiore appuntita, quella inferiore
rotonda; cfr. JAMES 1962, p. 494, Fig. 33, D 275; BLINKENBERG 1931, tav. 62, 1545
1547 etc. Nel corso d'una corrosione più grave nasce uno spazio intermedio fra le due parti.
Una variante della legenda in esame offre a sinistra, al posto del canestro, un ureo eretto:
conosciamo un esempio da Lindo, Rodi (BLINKENBERG 1931, tav, 62, 1535), ed un altro
dalla tomba 259 della Necropoli Paladino Ovest ad Amendolara, Calabria (DE SALVIA
2012, 151, n° 14.5); questa seconda tomba viene datata al secondo terzo del VII secolo a. C.
Un altro scarabeo proveniente da Lindo esibisce i tre segni del pezzo dal Mendolito, però in
ordine inverso: BLINKENBERG 1931, tav. 62, 1528. Poiché le legende trovantisi sugli
scarabei della produzione egea non furono inventate ex novo, ma erano normalmente i
risultati di abbreviazioni, contaminazioni etc., possiamo interpretare il gruppo Maat, nfr e nb
quale forma abbreviata di N b-m#ot-[ro] nfr „Amenophis III è perfetto".
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Placca Rotonda Convessa
Rinvenimento: Mendolito, necropoli di Sciare Manganelli – tomba circolare n.16
Materiale : Faience (terracotta), di grana media, moderatamente dura e compatta, con
smalto verde, corroso e ruvido, ma in massima parte preservato.
Condizioni del reperto: integro.
Dimensioni: altezza, 0,7cm – diametro lungo la perforazione, 1 cm.
Datazione: Manufatto d'una officina del Delta egiziano, probabilmente di Naukratis.
VII secolo a.C.
Numero Inventario: 11637
Lato superiore leggermente convesso con rosetta in rilievo; sulla base disco solare sopra il
dorso di un'oca all'interno del contorno incavato. Perforazione lungo l'asse orizzontale della
rappresentazione.
Sigilli amuleti circolari, i cosiddetti "button-seals", erano molto in uso a Naukratis, cioè sia
con lato superiore liscio, sia con una rosetta in basso rilievo, come lo mostra il sigillo dal
Mendolito; su questo tipo cfr. PETRIE 1886, tav. XXXVII, 2; GARDNER 1888, tav. XVIII,
25. Questo tipo di sigillo si diffuse dal Delta del Nilo nel mondo mediterraneo; sulla variante
con la rosetta cfr. per es. VERCOUTTER 1945, tav. XIV, 501 e 503 (Cartagine); HÓLBL
1986, II, tav. 126,3 (Tharros); originario di Naukratis è certamente anche un pezzo con
rosetta rinvenuto a Perachora (JAMES 1962, p. 484, D 110, p. 487, fig. 31, senza
stratificazione); in quel luogo si trovò, tuttavia, una placca simile in un deposito
protocorinzio del periodo 700-650 a. C. (JAMES 1962, p. 481, D 68, p. 483, fig. 30; per la
cronologia: ibid., pp. 465-466); ma la problematica che ne consegue non può esser discussa
in questa sede. I due geroglifici sulla base (oca e disco solare) possono essere letti come
titolo regale z# Ro „figlio di Ra", ma vanno certamente interpretati quale riduzione d'una
legenda con tre segni frequentemente attestata, in cui davanti all'oca si trova la penna di
struzzo (simbolo della dea Maat oppure del dio Shu); questa legenda con i tre geroglifici è
polivalente e fu discussa nell'ambito d'un grande gruppo di legende, il quale viene
caratterizzato dalla "oca in posizione dominante" (1-5LBL 1979A, pp. 96-101). Su altri
esemplari con la legenda "ridotta", consistente in oca con disco solare, cfr. per es. PETRIE
1925, tav. XIV, 910 (placca circolare); PETRIE 1886, tav. XXXVIII, 88: scarabeo di
Naukratis); HÓLBL 1979A, II, cat. 247 (placca circolare da Tarquinia).. Bibliografia:
VERGA 1990, p. 69, n° 5, p. 93 (fig.II1,5). 


Questi piccoli reperti hanno un grande significato storico perché legati alla diffusione della
cultura egizia attraverso il Mediterraneo dell’Età del Ferro.
Da chi furono diffusi questi beni religiosi-culturali?
I responsabili furono i Fenici ed altri Asiatici, Ciprioti e successivamente i Greci.
Anche gli Etruschi, anche se in lieve misura, portavano le cosiddette “Dark Ages” (VIII
secolo a.C.), gli Orientalia (oggetti votivi e di culto), nei centri ostieri del Mediterraneo.
Il periodo in cui giunsero di Aegyptiaca (importazioni dalla terra del Nilo e gli oggetti
egittizzanti di altra origine) nell’ambiente italico  sarebbe da collocare nel periodo compreso
tra l’VIII secolo a.C. e la prima metà del VI secolo a.C.
Ma che significato avevano gli Aegyptiaca nell’ambiente sicano/siculo?
Gli oggetti erano soprattutto costituiti da vasetti e figurine in faience (terracotta), da amuleti,
e fra essi perlopiù dalle migliaia di scarabei, inoltre dai bronzi egizi dell'Heraion di Samos,
dai Cypriaca egittizzanti (specialmente in pietra), dai manufatti egittizzanti dell'arte fenicia
(avori e coppe metalliche), da alcuni oggetti egizi in pietra dura etc.
Questi oggetti furono divisi secondo le loro aree d’origine. Nel caso delle terrecotte erano
espressioni di arte minore in aree differenti: Egitto, nel levante asiatico fino a Rodi.
Gli scarabei erano prodotti in Egitto, in Fenicia, in Siria settentrionale e nell'area egea.
Dove si diffusero i vari tipi di Aegyptiaca?
Dai rilievi archeologi si determinò come i vari oggetti si diffusero in determinate zone ben
precise.
Nell’VIII secolo a.C.  gli scarabei asiatici in Blu Egiziano erano presenti  dalla Siria
settentrionale, via Cipro ed Egeo, fino alla Campania ed all'Etruria.
Nel VII e VI sec. a. C. ci furono delle diversità fra l'insieme degli Aegyptiaca del mondo
greco e quello del mondo fenicio(-punico). Certi scarabei d'imitazione, che in massa erano
venuti alla luce a Perachora (presso Corinto), a Lindos (Rodi) e anche a Mileto (Ionia), il
cosiddetto gruppo «Perachora-Lindos», erano  diffusi proprio in area greca, dalla fine
dell'VIII a quella del VII sec a. C., sino alla Sicilia greca nell'Ovest.
 Nell'Est, invece, furono recuperati dei reperti  sporadici a Cipro.
Gli scarabei dell'officina di Naukratis (ca. 600 - 55o a. C.), furono trovati non soltanto in area
greca, ma anche, per esempio, a Cartagine o in Sardegna.
Nel Mendolito furono trovati degli amuleti che rappresentavano la classe più numerosa di
Aegyptiaca  nel Mediterraneo.

La placchetta rettangolare, definita “magica”, in base al materiale, alla sua tecnica di
creazione riconoscibile sull’oggetto (smalto), per lo stile delle raffigurazioni, è un reperto di
gran valore perché deve essere considerato un reperto d’importazione autentico egizio.
L’unico confronto diretto sarebbe presente solo nella sorella Palestina.
Gli scarabei rinvenuti nel Mendolito sarebbero l’espressione di una produzione d’imitazione
egea asiatica.
La placca convessa sarebbe originaria di  Naukratis oppure da un'officina affine da
localizzarsi nel Delta egizio.
La città si trova sul ramo canopico del Nilo. Spiccano due quartieri:
un quartiere egiziano nella parte superiore del disegno,
un quartiere greco nella parte inferiore.
Ogni distretto ha templi egiziani o greci.
Naukratis, città dell’Antico Egitto, posta a circa 80 km a Sud-est di Alessandria,
nei pressi del villaggio di Kom Gi’eif. Fu fondata durante la XXVI dinastia come punto
d’appoggio per i mercanti greci e rimase il principale mercato tra i greci e gli egizi prima
della fondazione di Alessandria.
Nel sito anche un grande magazzino o tesoreria egizia 
Sfinge seduta. Piatto, orientalizzante greco-orientale, VI secolo a.C. Da Naucrati in Egitto.

In sei reperti di Aegyptiaca rivenuti nel Mendolito corrispondono, dal punto di vista
numerico, ad altri grandi rinvenimenti del mondo greco (Rodi).
Ma c’è un aspetto da tenere in grande considerazione.
I sei reperti del Mendolito finirono come corredo funerario nelle tombe di un centro sicano
siculo, indigeno.
Nella Sicilia greca molti Aegyptiaca furono rinvenuti nella zona di Siracusa e di Megara
Hyblaea e quindi nella zona Sud-est dell’Isola.
La quantità degli Aegyptiaca dell'Età del Ferro si riduce fortemente lungo la costa meridionale verso Gela, Agrigento e Selinunte; simile è la situazione sulla costa orientale e settentrionale (Messina, Milazzo, Lipari, Himera). Nelle zone interne distanti dalla costa Aegyptiaca, il cui numero supera due o tre pezzi, sono documentati solo
a Polizzello (Mussomeli/Caltanisetta)i e sul Mendolito.
A Polizzello furono rinvenuti ben otto scarabei di produzione egea (la tomba 25, VII sec. a.
C.).
La presenza di questi amuleti in un centro indigeno, posto nell’entroterra dell’Isola, dovrebbe
essere affrontata per una attenta analisi.
In Italia tra i centri in cui furono rinvenuti degli Aegyptiaca: in Campania  (Capua, Calatia,
Suessula); in Calabria a Cozzo Michelicchio (Corigliano C./Cosenza); in Basilicata nella 
necropoli di Alianello (Aliano/Matera, Val d'Agri).

Alianello 


Alianello è un centro posto alla sinistra del fiume Agri nella valle omonima.
In realtà è composto da due nuclei abitativi: Alianello di Sotto e  Alianello Nuovo.
Secondo il censimento del 2001 avevano rispettivamente 74 e 196 abitanti.
Oggi Alianello di Sotto è chiamato il “Borgo fantasma” perché completamente disabitato.
Nella zona importanti testimonianze archeologiche risalenti alla preistoria del V millennio a.C.
Importanti comunità indigene (Enotri) occuparono la valle nelle fasi iniziali della storia.
In contrada Cazzaiola fu riportato alla luce un cimitero con più di 1000 tombe a fossa
risalenti al VII – VI secolo a.C.

Alianello, fraz. di Aliano (MT), Cazzaiola. Area archeologica enotria con tombe a fossa terragna rivestite con pietre e lastre litiche.
https://journals.openedition.org/mefra/2438?lang=it
Nella necropoli di Alianello, all'interno della tomba femminile 315, fu rinvenuto un
"diadema" sontuoso con sette scarabei del gruppo egeo.


Fu anche rinvenuta una figurina egizia di Sekhmet, nella tomba n. 309,  la dea potente
(divinità della guerra, della medicina e delle guarigioni.  La ferocia, la violenza e l'ira
distruttiva erano infatti caratteristiche attribuite a questa temuta dea che veniva rappresentata
con la testa di un leone).
Da altre tombe furono rinvenuti   una dozzina circa di scarabei.
I rinvenimenti nel Mendolito assumono però un altro aspetto significativo.
Fu anche rinvenuta una figurina egizia di Sekhmet, nella tomba n. 309,  la dea potente
(divinità della guerra, della medicina e delle guarigioni.  La ferocia, la violenza e l'ira
distruttiva erano infatti caratteristiche attribuite a questa temuta dea che veniva rappresentata
con la testa di un leone).
Da altre tombe furono rinvenuti   una dozzina circa di scarabei.
I rinvenimenti nel Mendolito assumono però un altro aspetto significativo.

Le ricerche dell’archeologo Paolo Orsi nelle Sciare Manganelli

Le tombe della necropoli di Sciare Manganelli avevano una copertura a volta come si ricava
dai disegni presenti nei taccuini di scavo di Paolo Orsi.

Sciare Manganelli (Mendolito – Adrano)
Le tombe a circolo nei disegni di Paolo Orsi (Orsi Pelagatti 1967 – 68)
L’Orsi mie in risalto il profilo aggettante del muro e il sistema trilitico dell’ingresso.
Il sistema trilitico (dal greco τρεῖς = tre + λίθοι = pietre) è una struttura architettonica
formata da due elementi disposti in verticale (o aggettanti verso l’interno) detti “piedritti” e
un terzo elemento appoggiato orizzontalmente sopra i piedritti, in modo da formare un
ingresso. Questo accorgimento architettonico permetteva di coprire luci non molto ampie.
Il vantaggio sarebbe quello di creare delle forze spingenti verso il basso e quindi di non
essere soggette alle spinte laterali. Gli svantaggi sarebbero legati alla distanza tra i piedritti.
L’architrave spinge infatti il suo peso sui piedritti e quest’ultimi, per sostenerlo, scaricano le
forze al suolo. (Se la luce sui piedritti fosse molto ampia, sarebbe necessaria una
fondazione).
Gli impianti funerari a circolo di Sciare Manganelli trovano una grande somiglianza con le
strutture funerarie:  di Centuripe, in contrada Casino; di Monte Bubbonia (Mazzarino –
Caltanissetta) e con una tomba trovata vicino al castello di Paternò (Catania).
Centuripe – Contrada Casino.
Tomba a circolo (Paolo Orsi, 1913)


Monte Bubbonia (Mazzarino – Caltanissetta)
Planimetrie di tombe a circolo
(Paolo Orsi – Pancucci, 1972 – 73)
Un discorso a parte  merita la tomba di Paternò distante circa 20 km dal Mendolito
(Adrano). Nel Museo Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma sono conservati
numerosi reperti provenienti dall’Isola.
Come mai si trovano a Roma?
Furono acquistati nel periodo tra il 1878 e gli anni del Fascismo, a più riprese e con diversi
protocolli di trasmissione (non so se legittimi), come donazioni private, acquisti da parte
della Pubblica Amministrazione, scambi di materiali e cessioni ufficiali.
Di questa vasta raccolta farebbero parte:
-        Il lotto di Monte Tabuto (Comiso – Ragusa) comprendente reperti dell’Età del Bronzo
Antico, che un tempo faceva parte della collezione Pennavaria di Ragusa !!!!!!!
-        Altri reperti, circa 800, datati tra il Paleolitico Superiore e l’Età del Ferro !!!!!!!
Di particolare interesse archeologico sarebbe un lotto di ceramiche recuperati durante degli
scavi eseguiti da Paolo Orsi negli anni 1907 – 1908 e riferibili a due tombe poste nel
territorio di Paternò.
La campagna di scavi, oltre l’aspetto archeologico, aveva l’obiettivo di contenere e prevenire
il fenomeno, sempre dilagante e diffuso in Sicilia, degli scavi clandestini nell’intero
comprensorio.
I reperti trovati nelle due tombe risulterebbero dai dati contenuti nel registro di entrata del
Museo Romano e dallo scambio epistolare tra lo stesso Orsi e Luigi Pigorini.
Reperti importanti e riuniti in lotti:
Il primo lotto comprendeva quattro vasi d’impasto e costituiva il  corredo di una tomba
Formata da un circolo di pietre di grezza lava (2 metri di diametro), coperta da altro
pietrame minuto, con un modesto accesso segnata da due lastre dritte.
Dove si trovava la tomba?
Nel pianoro ad est della rocca del Castello in una terrazza di basalto rasposo,
dove si vedono altri cumuli di pietrame, relitti di tombe depredate dai contadini del posto.
Pianoro ad Est del Castello sarebbe l’attuale Piano della Fiera.
In questo sito anni fa fu recuperato un vaso biconico coperto da una scodella capovolta
probabilmente destinato al contenimento delle ceneri del defunto.


L’Orsi fece una descrizione sommaria della tomba mettendo in risalto solo la pianta circolare
con ingresso. Non era chiaro se il recinto funerario sosteneva una copertura  pseudovoltata o
del tipo a tumulo.
Il corredo funerario delle due diverse sepolture era costituito da venti vasi che furono
trasferiti a Roma nel maggio 1911. Un dono a Luigi Pigorini per incrementare la collezione
romana con  importanti testimonianze del Terzo Periodo Siculo.
Archivio Soprintendenza Pigorini, Roma: fascicolo 308, f.2, 15 maggio 1911.

Luigi Pigorini

Lettera inviata da Paolo Orsi a Luigi Pigorini
FPUPd – Orsi Paolo, 2 giugno 1880.

Prima pagina della lettera inviata da Paolo Orsi a Luigi Pigorini
dopo la presa di servizio a Siracusa
FPUPd, Orsi Paolo, 20 settembre 1888

La distinzione dei reperti fra le due sepolture fu evidenziata grazie a dei contrassegni
che accompagnavano ciascun vaso. 
-  Il primo lotto comprendeva quattro vasi;
- Il secondo lotto comprendeva  sedici vasi che si riferivano alla sepoltura a camera
di contrada Rigolizia che in parte era stata manomessa da scavi clandestini e che fu
esplorata dall’Orsi nel dicembre 1917. Vasi riferibili alla “facies” di Licodia Eubea
(V millennio a.C.?). La Contrada Rigolizia si trova sul versante meridionale del Colle
di Paternò, a ridosso di Rocca Scala, a Sud del castello Normanno.

Una struttura simile fu rinvenuta durante una campagna di scavi condotta dalla
Soprintendenza di Catania nella vicina località S. Marco – Salinelle che dista appena un paio
di chilometri dal castello.
La tomba aveva una pianta ovoidale o sub-circolare, con l’accesso sul lato meridionale e
preceduta da un breve “dromos”.
Tomba a circolo di contrada San Marco


All’interno della camera era posta una banchina in pietra sulla quale giacevano delle ossa
umane. Il resto delle deposizioni, erano presenti sei crani, erano invece sparse, prive di
alcune unione anatomica, sul pavimento della camera.
Il corredo funerario era composto da quattro vasi appartenenti alla cultura di Pantalica Nord.
Reperti che insieme ad un anforetta a stralucido rosso del Mendolito di Adrano e ad un
gruppo di vasi sporadici rinvenuti nel territorio di Paternò, sarebbero le più significative
espressioni da collocare nell’Età del Bronzo recente nella media valle del Simeto.
Ritornando alla tomba rinvenuta vicina al castello di Paternò nel Piano Fiera, il corredo
funerario fu lasciato sul posto dai tombaroli forse perché avevano percepito l’arrivo dei Regi
Carabinieri.
Un avvenimento che fu riportato dall’Orsi come si legge in una lettera che lo stesso Orsi
inviò a Luigi Pigorini in data 28 maggio 1911.
Non si sa se i tombaroli riuscirono a portare via dei reperti, come manufatti i metallo o di
ornamento. Orsi trovò solo i quattro vasi d’impasto.
La tipologia dei vasi era la seguente:
-        Anforetta (a) a corpo carenato e anse a forcella impostate tra la vasca e l’orlo;
-        Un’olletta (b) biansata a colletto;
-        Una ciotola (c) a vasca emisferica;
-   Un’olla (d) a collo imbutiforme e anse a maniglia.

Museo Preistorico ed Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma
Corredo di vasi da una tomba nel territorio di Paternò.
a-     Anfora biansata;
b-     Olfetta biansata;
c-     Ciotola emisferica;
d-     Olla a collo imbutiforme.
I quattro reperti presentavano la stessa tecnica nel trattamento della superficie che era
rivestita da un ingobbio nero-marrone a stralucido. Presentavano delle dimensioni ridotte che
variavano tra 8 – 11 cm in altezza.
Sarebbe della ceramica riconducibile alle fasi avanzate dell’Età del Bronzo.
L'anforetta a corpo biconico sarebbe in uso nel repertorio vascolare dell'Ausonio II di Lipari,
dove si trova anche l'ansa a forcella.
Nello stesso panorama culturale si dovrebbe collocare anche la ciotola con anse a bugna
quadrangolare bifora.
In merito  al piccolo orciolo biconico,  nell'Ausonio I e 11, rappresenta una delle forme più
comuni nella ceramica da fuoco.
L’Ausonio II sarebbe da collegare agli eventi che verso il 1270 a.C. colpirono l’isola di
Lipari nell’arcipelago delle Eolie. Le altre isole delle Eolie  erano deserte. A Lipari
s’insediarono delle genti “Ausonie” provenienti dalle coste della Campania.
Proprio dal 1270 a.C. iniziò l’Ausonio II che determinerà un periodo di grande prosperità
lasciando anche importanti tracce nel castello di Lipari. L’Ausonio II durerà più di due
secoli  fino al 900 a.C. quando l’insediamento di Lipari venne distrutto, forse a causa di una
violenta eruzione vulcanica, e per circa tre secoli l’isola restò deserta.
I primi tre vasi sono espressioni di produzione eoliana dell’Ausonio mentre l’olla biansata
sarebbe da attribuire alla cultura di Pantalica.  Un’olla ampiamente documentata nella culta
di Pantalica Nord (vasca a profilo ovoidale e robuste anse a maniglia).
I reperti della tomba di Paternò sarebbero da attribuire ad Bronzo recente o all’inizio dell’Età
del Ferro. Una grande espressione artistica dell’Età del bronzo nella media valle del Simeto.
L’architettura funeraria della “tomba a circolo” era un’espressione insolita nella Sicilia
orientale della tarda età del bronzo.
L’ipotesi di una sua creazione legata all’adattamento locale del tipo della camera ipogea a
grotticella in un ambiente roccioso che non consentiva escavazioni artificiali è una ipotesi da
scartare.
La “tomba a circolo” con copertura a pseudovolta sarebbe da collegare all’architettura
funeraria di Creta di epoca subminoica (1100 – 950) a.C. e protogeometrica ( epilogo della
Civiltà Micenea tra il 1100 ed il 900 a.C.).
Lo studioso Massimo Cultraro nelle sue ricerche affermò che..
Anche se le affinità tra gli esemplari cretesi e quelli dell'area etnea possono trovare una
adeguata collocazione e giustificazione nel quadro delle più recenti acquisizioni di materiali
ed elementi di tradizione egeo-micenea nell'entroterra catanese", sono proprio le strutture
funerarie siciliane a mettere in crisi tale ricostruzione. In primo luogo, dai dati attualmente
disponibili si evince che mancano elementi certi sul sistema di copertura per questa
particolare tipologia funeraria: ignoriamo il tipo di copertura per la struttura di S. Marco,
che è quella sulla quale si dovrebbe fare maggiore affidamento essendo stata esplorata con
metodi di scavo più accurati, mentre lo stesso Orsi, nel caso delle sepolture di Mont
eBubbonia, esprimeva dubbi circa uno spiccato assai elevato del perimetro murario. Solo le
tombe della necropoli dí Sciare Manganelli al Mendolito di Adrano sembrano aver avuto
una copertura a volta, come si ricava dai disegni dello stesso Orsi che fondava la sua
ricostruzione su due ordini di considera-zioni: il profilo aggettante del muro e il sistema
trilitico dell'ingresso. 
Elementi di tradizione egeo-micenea nell'entroterra catanese?
Alle più antiche attestazioni si fa riferimento ad una tazza in lamina bronzea e perline in
materiale vetroso trovata nella Grotta Maccarrone di Adrano (Cultraro 2009, p.76, f. 8) e dei
frammenti di ceramica egea da Monte Paolillo nella periferia Nord di Catania (Tanasi 2010).
Nella Grotta Maccarrone, nella tomba 3, fu anche trovato un bicchiere con ansa sopraelevata,
simile a quello di Rodi. Nella stessa grotta fu rinvenuta un’industria litica con manufatti in
ossidiana (Bernabò Brea).
Bicchiere rinvenuto nella grotta Manganaro
Disegno di Cultraro

Canalicchio – Monte S. Paolillo
“Frequentazione preistorica e greca; edifici sepolcrali romani.”
Area di interesse archeologico, art. 142 lett.m) D.lgs. 42/04
Fonte: scheda 126  Piano Paesaggistico Regione Sicilia 


Ai due reperti sopracitati si aggiunge un modello di doppie corna fittili che si trovano in
una collezione privata messinese ed attributi all’area etnea su base archeometrica. Questo
oggetto è stato accostato a manufatti simili in ambito tardo minoico della ceramica di
Castelluccio. In realtà trova precisi riferimenti paralleli nell’ambito della produzione
della ceramica di Castelluccio dell’antica Età del bronzo. In particolare con tre modellini
di doppie corna fittili, uno dei quali dipinto, dal villaggio Garofalo di Adrano (materiale
inedito presso il Museo Archeologico di Adrano).
Alla luce di questi confronti il modellino di doppie corna della collezione messinese
dovrebbe essere ricondotto alla sfera culturale di Castelluccio piuttosto che al mondo
cretese del tardo Minoico.
Sul sistema di copertura delle “tombe a circolo” esaminate non si conosce il tipo di
copertura.
Per la tomba di Contrada San Marco di Paternò non si sa nulla, anche se fu esplorata
dall’Orsi con metodi di cavo molto accurati, mentre per le sepolture di Monte Bubbonia
lo stesso Orsi   riferì
Dei dubbi  circa uno spiccato assai elevato del perimetro  murario.
Solo le tombe di Sciare Manganelli al Mendolito di Adrano sembrano avere una
copertura a volta.
Molti storici  collegarono la dipendenza della “tomba circolare costruita” al costume
indigeno che era in uso nella Sicilia protostorica.
Le tombe a tholos di piccole dimensioni erano presenti a Creta fin dall'età dei Primi
Palazzi (terzo millennio a.C.).
I confronti con la favolosa civiltà minoica sarebbe legate a strutture di epoca subminoica
e protogeometrica.
Il periodo protogeometrico  sarebbe la prima fase dell’arte greca compresa tra la
distruzione delle rocche di Micene, inizio del XII secolo a.C. e il 900 a.C..  periodo che
diede l’avvio nel mondo greco a quella forma di aggregazione sociale che darà avvio alle
polis.
I confronti con la necropoli di Kourtes (Kurtes) ed Erganos  dimostrerebbero un tipo di
tomba costruita all’interno di un declivio naturale o parzialmente ricoperta di pietra e
pietrame.
La tomba di San Marco a Paternò non è una escavazione artificiale con paramento in
pietra ma fu costruita in elevato.
In elevato furono anche costruite le tombe di Sciare Manganelli, di Centuripe e di Monte
Bubbonia.
Il prof. Massimo Cultraro riferì come queste sepolture non avessero alcuna relazione con
le strutture in elevato di epoca protostorica.
Le sepolture infatti si datano tra la fine dell’VIII secolo a.C. e non oltre la prima metà del
VI secolo a.C., mostrando grandi differenze sul piano delle tecniche costruttive.
A Monte Bubbonia tre  tombe (6,12 e 33/1905) furono costruite con doppio paramento a
lastre e riempimento in pietrame minuto. Una tecnica che potrebbe tradire modelli edilizi
e forse anche planimetrici riconducibili al mondo greco o cretese di epoca storica. La
piena convergenza tra i dati archeologici e quelli architettonici per le tombe di Paternò,
dove forse a S. Marco erano presenti almeno due strutture" mentre sulle pendici del
Castello sarebbero documentati altri esempi andati distrutti. Questi rilievi porterebbero  a
concludere che nella media valle del Simeto fosse in uso una particolare tipologia
funeraria nel corso dell'età del Bronzo Recente e Finale.
Che tipo di struttura funeraria?
Una struttura che nella planimetria, dimensione e volumetria, riproduceva le tombe a
grotticella scavate nella roccia tenera e particolarmente diffuse nella Sicilia meridionale e
centrale.
Nell’architettura funeraria della Sicilia dell’età del Bronzo Tardo (1500 – 1200 a.C.) e
Finale (1200 – 700 a.C.), si sviluppa un’elaborazione e sperimentazione di nuove
tipologia funerarie che si realizzeranno nella cultura di Pantalica. Nell’antica tradizione
culturale di Pantalica legata alla creazione di tombe a camera, si registrò l’inserimento di
nuovi elementi stranieri legati all’architettura funeraria egea e orientale.
Probabilmente sulla nuova architettura funeraria influì  la necessità di adattare la
sepoltura alle condizioni geologiche del terreno perché l’escavazione delle tombe era
malsicura e non adatta.
Un aspetto delle facies autoctone nel corso dell’Età del Bronzo sarebbe il caso delle
tombe a pozzetto e paramento in pietra che furono costruite all’interno di una grotta a
Biancavilla e databili alla cultura di Castelluccio.
Pozzetti che si ritrovano anche all’interno della Grotta Maccarrone di Adrano.
La grotta Maccarrone presentò del materiale ceramico non omogeneo perché fu
probabilmente vissuta per un periodo molto lungo fino all’Età del Bronzo Antico (2300 –
1600) a.C.
Nella grotta Maccarrone oltre ad una tomba a pozzetto furono rinvenuti oggetti di
prestigio importanti come un’ascia di bronzo e frammento di una tazza di lamina bronzea
proveniente dall’Egeo dove fioriva la civiltà minoica di Creta. Mancano per la grotta usi
non sepolcrali quali abitativi o rurali. Per la presenza di grandi recipienti da derrate
potrebbe avere avuto un uso come magazzino.

Adrano - Grotta Maccarone - Ascia di bronzo

Nei primi 15 giorni di gennaio del 2012  fu scoperta una tomba circolare, costruita in
elevato, in Via Taormina di Messina, a ridosso del torrente Gazzi. Tomba che fu datata al
Bronzo Medio (1600 – 1350) a.C.
La tomba fu scoperta durante i lavori di costruzione del complesso “I Granai” sorto  in
seguito alla demolizione dei “Molini Gazzi”.

La “Molini Gazzi” nacque nel 1884 come “Molino e Pastificio Pulejo” e nel
1926 prese il nome di “Molini Gazzi”. Una fiorente attività nella produzione di
farine e semola per uso alimentare.  
Sfornava il pane per gran parte della città di Messina
e produceva la semola per pasta dei noti marchi messinesi “Triolo” e Puglisi”.
L’azienda riuscì a resistere al devastante terremoto del 1908 e 
uno degli imprenditori che
diede lustro all’azienda fu il senatore Umberto Bonino che la guidò per circa 50 anni.
Era uno stabilimento, uno dei pochi in Sicilia, ad avere due distinti impianti con
una capacità produttiva totale di ben 300 tonnellate/giorno per la macinazione del
grano duro e tenero. Fu demolito nel 2011 per dare vita ad un complesso industriale
in “barba” all’archeologia industriale tanto rispettata nel Nord Italia.

I Granai:
quando un nome non può restituire una storia a cui è stato negato un futuro

Durante i lavori di costruzione del complesso residenziale  fu portata alla luce una tomba
che fu subito definita a “tholos”. Un ritrovamento importante dato che si trattava di un 
aspetto greco al di fuori dell’area greca della città antica. Risalente all’Età del bronzo
(3500 – 1200)a.C., con una pianta circolare e con copertura a volta.



La tomba fu rinvenuta a ben 5,00 metri sotto il livello stradale. Il tetto non era integro e
all’interno non vi erano corredi funerari.
-        Diametro Esterno: 3,75 metri;
-        Diametro Interno:  1,80.
-        Copertura: a Volta
Il diametro esterno era di 3,75 metri e sarebbe una misura importante. Infatti una delle
tombe a tholos più grandi della Sicilia si trova a Sant’Angelo Muxaro e il suo diametro
sarebbe di ben 9 metri.  La notizia riportava che per la salvaguardia del monumento,
sarebbe stato modificato il progetto… speriamo che ciò sia avvenuto….
Adiacente è un recinto anulare largo mediamente 1,20 metri che gira intorno alla cella.
La dott.ssa Gabriella Tigano, dirigente della Sezione Beni Archeologici della
Soprintendenza di Messina,  si occupò delle importanti fasi di recupero del
monumento….
è un ritrovamento eccezionale perchè è la prima volta che a Messina troviamo qualcosa
del genere, e in Sicilia ci sono pochissime strutture simili. Una delle poche è quella di
Lipari, la Tolhos di San Calogero, che però non era una tomba. Lì, infatti, c’è una
sorgente termale e l’edificio fu costruito per sfruttare proprio la sorgente. Invece qui
siamo certi che si tratti di un’antica tomba, anche se sulla datazione abbiamo pochi dati
certi. Sicuramente è una struttura dell’età del bronzo, ma dobbiamo ancora lavorare
meglio sulla tomba perché  non è intatta in quanto era stata profanata anticamente,
dentro non c’era corredo e non c’era nulla che ci potesse aiutare sulla datazione, che
quindi si deve basare solo sugli elementi esterni e quindi non è molto semplice“….
l’ampia collaborazione da parte della ditta che sta costruendo il complesso dei
‘Granai’: ci hanno messo a disposizione tutto ciò che era necessario per fare lo scavo, e
adesso stanno elaborando una variante del loro progetto per fare in modo che la
sepoltura possa rimanere accessibile al pubblico e ai turisti. Il nostro obiettivo, infatti, è
quello di far sì che un domani anche questa tomba possa diventare un punto di attrazione
di un percorso archeologico sempre  più ricco per la città di Messina“.
Il più antico ritrovamento archeologico a Messina risale al 1558 quando una necropoli
romana fu portata alla luce durante i lavori di ristrutturazione  della chiesa di San
Giovanni di Malta.
La chiesa fu fondata nel VI secolo quando San Placido, discepolo di San Benedetto e
martire per mano dei pirati insieme alla sorella Eustachia ed altri trenta monaci - fondò,
sulle rovine di una vasta necropoli romana, il primo monastero benedettino.
Nel XII secolo i ruderi di quello che era stato il Monastero vennero affidati dal Conte
Ruggero ai Cavalieri Giovanniti che ne fecero il loro primo Gran Priorato. Da allora, e
fino al XIX secolo il complesso di San Giovanni divenne la sede siciliana dei Cavalieri di
Malta. Fu nel 1588 che la Chiesa e l'annesso Ospedale subirono radicali rifacimenti a
seguito dei quali vennero casualmente ritrovate le reliquie di San Placido e dei Compagni
Martiri. Fatto, questo, che trasformò il Tempio di San Giovanni in un luogo di culto
particolarmente caro ai messinesi e che comportò la realizzazione di un'ampia chiesa
affidata alla confraternita di San Placido, di una basilica superiore sede del Gran Priorato
dei Cavalieri di Malta e, sull'altare maggiore, di un sacello per la custodia delle reliquie,
realizzato dal Senato di Messina.


La chiesa alla fine del XIX secolo circa.
Durante i lavori del 4 agosto 1588, oltre alle sepolture con i resti umani dei martiri
San Placido, della  sorella e dei fratelli martiri, scaturì una copiosa
 bolla d’acqua dal sepolcro.
Un acqua che fu subito definita prodigiosa perché guariva dalle malattie.
Per permettere a tutti di attingere, fino al sisma del 1908, nella cripta della chiesa
si trovava un piccolo pozzo in marmo rosso di Taormina coperto da una mezza
sfera di rame con pomello. Dal pozzo si prelevava l’acqua che veniva distribuita ai
fedeli grazie ad una bacinella d’argento. 
Il pozzo oggi si trova nel sagrato antistante la
chiesa  e fu realizzato del Comune. Fu scavato ad una profondità di oltre sette metri.
A questa quota fu trovata una falda d’acqua che dovrebbe corrispondere a quella
dell’antica sorgente miracolosa.
Nello stesso cortile si trova una pianta di ulivo, risultato del trapianto di quello antichissimo che la tradizione vuole “assistette” al martirio di San Placido  e dei Santi Martiri.

Nel 1806 Carmelo La Farina fondò il Museo dove vennero collocate alcune epigrafi e nel
1832 altre epigrafi furono rinvenute nel Piano San Giovanni (Villa Mazzini).
Nel 1886 il Soprintendente alle Antichità di Palermo, Antonio Salinas, pubblicò i risultati
sul rinvenimento di cospicuo vasellame  e a Camaro, durante i lavori per la realizzazione
di una ferrovia, fu riportata alla luce una necropoli ellenistica. (Camaro  sarebbe un sito
importante per la Preistoria nel territorio messinese).
Dal 1910 al 1915 l’archeologo Paolo Orsi, allora Soprintendente di Siracusa, si occupò
di accurate indagini archeologiche nella città di Messina. Fece uno scavo archeologico
nel 1914, durante i lavori di costruzione del palazzo della Prefettura, portando alla luce
una vasta necropoli romana che fu definita
Di rarissima tipologia ed utilizzata fino al II – III secolo d.C.
Una necropoli tardo- imperiale.
Nel 1935 – 36 l’archeologo Pietro Griffo diede avvio ad una campagna di scavi in Via
Cesare Battisti, detta “Orti della Maddalena”, pubblicando i risultati nella rivista “Notizie
degli scavi di antichità-Atti della Reale Accademia d'Italia, 1942” con il titolo…
“Messina- Necropoli ellenistico-romana agli Orti della Maddalena e nella zona ad essi adiacente”.
Nel 1958 il francese Georges Vallet nel suo libro
“Rhegion et Zancle: Histoire,commerce et civilisation des cites chalcidiennes du detroit de Messine”
affrontò la ricostruzione topografica delle due città nell’antichità in base ai reperti e agli
scavi archeologici.
Lo stesso Vallet individuò altre necropoli di età ellenistica in diversi punti della città di
Messina.
Tra il 1965 ed il 1975 la grande attività del gruppo archeologico “Codreanu”, poi
confluito nell’Assiciazione “Amici del Museo di Messina”, permise di riportare alla luce
importanti siti tra cui (nel 1971) la monumentale Tomba a camera, datata IV – II secolo
a.C.) nel Largo Avignone , sotto la scalinata che conduce alla Caserma “Zuccarello”, in
via Cesare Battisti.


Ad eseguire lo scavo e lo studio della tipologia di sepoltura fu il prof. Giacomo Scibona,
docente dell’Università di Messina.
Nella necropoli fu rinvenuta una camera con tre letti di giacitura ed anche una tomba
quadrata a gradoni (“Epytimbion”) ed altri tipi di sepoltura ad incinerazione. Subito dopo
la scoperta, ad inizio anni ’70, il sito fu aperto e visitabile. Poi basta, oblio. La stanza fu
adibita prima a magazzino per strumenti di scavo, poi a deposito: all’interno, infatti, sono
state incredibilmente accatastate diverse centinaia di cassette di legno con dentro reperti
archeologici. 
La tomba a camera di Largo Avignone è costituita da una camera a pianta rettangolare
delle dimensioni interne di (2,85 x 2,90) m, semi-ipogeica e costituita da grandi blocchi
squadrati di pietra calcarea locale.
Alla tomba si accedeva tramite una breve gradinata e una porta monolitica ruotante su
perni, larga cm. 90. All’interno, tre klinai in muratura con cuscino (gli etruschi e i greci,
ancora prima dei romani, mangiavano semi sdraiati su letti conviviali, detti klinai),
giaciture dei tre defunti facenti parte, probabilmente, di una famiglia di ceto elevato.
Modificato il progetto della scalinata, la tomba a camera fu restaurata e conservata sotto
la scalinata insieme ad una monumentale tomba ad Epytimbion a pianta quadrata a
gradoni, del tipo di quelle di età tardo-classica ed ellenistica rinvenute ad Abakainon
(Tripi) nella necropoli di contrada Cardusa. Fu  riaperta alla pubblica fruizione il 9
giugno 2017 grazie alla sinergia tra Comune, Soprintendenza ai Beni Culturali di
Messina (Direttore della Sezione Beni Archeologici Gabriella Tigano), su iniziativa
dell’allora Presidente della Commissione Comunale Cultura Piero Adamo e l’importante
contributo di varie associazioni di volontariato (“Vento dello Stretto”, “Atreju”, “Fare
Verde”, Lions Club “Messina Host”, “Compagnia Rinascimentale della Stella”, 
Associazione Amici del Museo” rappresentata da uno degli scopritori, Franz Riccobono.
Nel gennaio - agosto 1982 Giacomo Scibona, un importante archeologo messinese autore
in numerose campagne di scavo condotte a Messina ed in altre province,  rinvenne delle
testimonianze della Messina arcaica ed ellenistica nel grande scavo del “Palazzo della
Cultura” posto nel rione Boccetta.
Una sequenza cronologica di gran rilievo che andava da una grande necropoli romano
imperiale con 228 sepolture ad una del Bronzo Antico del Neolitico Medio ( 4000 a.C.).
Nel 1976 lo stesso Scibona con l’archeologa della Soprintendenza di Messina, Gabriella
Tigano, portò alla luce l’abitato medievale e moderno (XIII – XIX) secolo e il complesso
romano , che andava da I-II secolo al IV secolo) nel cortile di Palazzo Zanca.



Sempre negli anni  ’90  durante i lavori per la costruzione della nuova mensa
della Casa dello Studente in via Cesare Battisti furono riportati alla luce dei resti
archeologici costituiti da una necropoli.
Si stata realizzando uno sbancamento in un’area molto edificata dove era
impossibile operare a quote così profonde.
I risultati furono soddisfacenti perché rilevarono ben sei fasi principali di
frequentazione dell’area.
La più antica, scavata in estensione, risaliva all’Età del Bronzo che evidenziò una
frequentazione articolata in due distinti momenti:
-        Lo sviluppo di un villaggio poi distrutto da un alluvione;
-        Una necropoli ad “Enchytrismos” dove i corpi venivano inumati in posizione
rannicchiata dentro grandi vasi (pithoi). 
Una zona che si sviluppò al limite della zona colpita dall’alluvione.
Furono rinvenute 11 tombe. Sepolture all’interno di pithoi che erano chiusi da una
lastra-coperchio capovolta e poi ricoperti da un piccolo tumulo di pietre.
I corpi, in posizione rannicchiata, presentavano la testa verso l’imboccatura del
vaso. Ogni vaso conteneva un individuo ad eccezione di uno che presentava due
scheletri: una donna insieme ad un bambino.

I corredi funerari erano molto rari. Sono nel vaso che conteneva i due corpi erano
presenti delle ossa  del piede di diversi animali (astragali) con un numerose
considerevole, circa un centinaio.
Gli astragali nelle sepolture erano di corredo funerario nelle sepolture dei bambini. A
questi astragali si attribuiva un potere magico perché erano  usati nelle pratiche degli
oracoli.
Il loro uso  è ben documentato in epoca greca mentre è rarissimo in età preistorica e in
particolare nell’Età del Bronzo Antico.
Quattro  pithoi sono esposti nel Teatro Vittorio Emanuele di Messina e non nel Museo
Archeologico.
Altri pithoi sono invece esposti nell’ex chiesa del Buon Pastore, sconsacrata negli anni
’30 del secolo scorso e adiacente alla sede della Soprintendenza.
Questo edificio è stato recuperato ed è oggi una sala espositiva aperta al pubblico, nella
quale è possibile ammirare alcuni reperti rinvenuti durante vari scavi effettuati nella città
di Messina, a tutela del ricchissimo patrimonio archeologico che, purtroppo, è ancora
oggi poco noto ed apprezzato.


Nel 2020 nella necropoli greco-romana furono rinvenute sei tombe nel cantiere “Torre”.
Le tombe furono rinvenute in una area sommitale dell’is. 96 e facevano parte della vasta
area sepolcrale costituita da centinaia di sepolture anche monumentali, corredi funerari e
strutture murarie,  che documentavano un periodo che andava dalla prima età ellenistica
al tardo antico (IV sec. a.C. – V sec. d.C.).


Il consigliere di quartiere Renato Coletta rilasciò  in una intervista…
“Purtroppo le sepolture rinvenute negli anni 90′ sono state smontate e trasferite nei
depositi della Soprintendenza. Il vincolo archeologico vigente nell’area impone indagini
accurate del sottosuolo in tutta l’area del cantiere, che certamente restituirà importanti
testimonianze della storia di Messina, per poter ottenere una variante al progetto
necessaria a rendere fruibili i ritrovamenti in situ….”
“sull’area esiste un “Vincolo archeologico diretto” che impone l’esplorazione integrale
dell’area in profondità prima di qualsiasi attività edificatoria, pertanto occorre
procedere ad una indagine del sottosuolo particolarmente minuziosa, con la certezza che
lo scavo restituirà altri preziosi reperti che si auspica questa volta vadano finalmente
salvaguardati “in situ” e quindi resi fruibili, assieme alla bellissima tomba a camera
poco distante”.
Le foto si riferiscono alla necropoli adiacente a quella rinvenuta e che fu riportata alla
luce grazie agli scavi effettuati dal 1991 al 1997 nell’area degli isolati 83 e 96.
Nella città di Messina  fu quindi l’unica tomba in elevazione e a “pianta circolare” quella
rinvenuta ai “Molini Gazzi”.
Questo a dimostrazione che in Sicilia nacque nell’Età del Bronzo una architettura
funeraria diversa dalle comuni espressioni ipogeiche che ebbe nell’area etnea e in quella
tirrenico-peloritano un importante centro di sperimentazione.
Questo nuovo aspetto funerario in una fase avanzata dell’Età del Bronzo Anrico e di
transizione al Bronzo Medio e in un paesaggio funerario dominato dal rito
dell’enchytrismòs (deposizione in grandi vasi) e dalla tomba a grotticella.
L’archeologa Paola Pelagatti affermò
La nostra campagna del 1962 aveva come oggetto l'esplorazione delle tombe della
necropoli arcaica che si estende a Sud della città del Mendolito dove fortuitamente erano
venuti in luce, poco prima, sepolture con corredo assai ricco.
La prima campagna di scavi fu eseguita il 18 aprile-9 giugno 1962; la seconda
campagna: 27 maggio-12 giugno 1963. Ringrazio i proprietari Cav. Enzo Moncada
Paternò Castello e Cav. Francesco Sanfilippo per il permesso gentilmente accordato di
scavare nei terreni di loro proprietà.
Durante tali ricerche furono individuate 15 tombe simili a quelle viste da Orsi, costituite
da un unico ambiente di forma circolare o ovale al quale si accedeva attraverso un
breve dromos (corridoio). Le tombe erano costruite direttamente sul banco lavico e
risultavano destinate ad accogliere più individui appartenenti quasi certamente alla stessa
famiglia. 
Tombe singolarissime, di un tipo forse unico in Sicilia, probabilmente a forma di tholos,
di cui già l'Orsi aveva rilevato la singolarità dandone anche qualche disegno per noi
prezioso. Purtroppo i risultati furono molto magri perché la necropoli era stata troppo a
lungo saccheggiata da scavatori di frodo per generazioni. Comunque fu raccolto qualche
elemento assai interessante per documentare la struttura di queste tombe e per datarle.
I materiali permisero di affermare come la necropoli fu in uso tra la seconda metà del VII
ed il V sec. a. C.
Importante fu il rinvenimento dei materiali egittizzanti perché testimoniò una certa
vivacità del centro coinvolto in scambi commerciali con il mondo orientale.
 Restò aperto il problema delle origini di queste tombe, la cui forma a tholos, spesso
collegata a modelli funerari egeo-micenei, fu recentemente messa in dubbio per la
mancanza di dati certi sull’elevato, conservatosi solo nei filari più bassi.

........................................

10. Zone ricadenti nel Comune di Adrano sottoposte a Vincolo di interesse Archeologico



Contrada Difesa (varie aree)
Tratto di cinta muraria greco‐ellenistica dell’antica Adranon. Settore orientale (Fine IV ‐ III sec a.c.). resti dell’antica Adranon (Schede 416 a 496
Siti sottoposto a vincolo archeologico

Bibliografia:
I. Paternò Castello 1817, Viaggio per tutte le antichità di Sicilia, Palermo, ristampa ediprint srl, Siracusa 1990, p. 57; AAVV 1989, La Sicilia di Jean Houel all’Hermitage, Catalogo della mostra, Palermo 5 dicembre 1988 ‐ 30 gennaio1989, Palermo Sicilia

 






…………………………………….

Contrada Giobbe (Via Ranuccio Bianchi Bandinelli/Via Salvatore Petronio Russo)
Abitazioni greco‐ellenistiche








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Dall’interessante studio sulla presenza umana preistorica sul Monte Etna, in relazione
alla sua evoluzione geologica, effettuato dai seguenti studiosi e ricercatori:
-        Stefano Branca; dell’Istituto di Geofisica e Vulcanologia, Osservatorio Eteneo- Sezione di Catania;
-        Francesco Privitera; Museo regionale, Dipartimento Beni Culturali, Regione Siciliana;
-        Orazio Palio; Dipartimento Scienze della Formazione, Università di Catania;
-        Maria Turco; Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Catania, Regione Siciliana.
ho estrapolato le seguenti mappe relativi ai siti preistorici presenti sul vulcano.

Figura (a).
Carta geologica del vulcano Etna modificata da Branca et al. [2011a] con l'ubicazione dei siti archeologici del Neolitico Medio (5700-4500 anni a.C.).
Legenda della carta:
1) depositi alluvionali presenti e recenti; Fase stratovulcano-vulcano Mongibello:
2) prodotti vulcanici 122 aC-presente (formazione Torre del Filosofo);
3) prodotti vulcanici 3.9 ka BP-122 aC (formazione del membro superiore di Pietracannonne);
4) Colata detritica di Milo;
5) Deposito Chiancone;
6) Successione piroclastica della Cubania;
7) prodotti vulcanici 15-3,9 ka BP (formazione dei membri inferiori di Pietracannonne);
Fase stratovulcano-vulcano Ellittico:
8) successione piroclastica;
9) antichi depositi alluvionali terrazzati;
10) prodotti vulcanici 60-15 ka BP;
11) prodotti vulcanici della fase Valle del Bove (110-65 ka BP);
12) prodotti vulcanici della fase Timpe (220-110 ka BP);
13) prodotti vulcanici della fase basale tholeiitica (500 e 330 ka BP);
14) depositi sedimentari quaternari;
15) Catena Appenninico-Maghrebina.

Carta geologica del vulcano Etna modificata da Branca et al. (2011a) con l'ubicazione dei siti archeologici del Neolitico Recente e Finale (4500-3700 anni a.C.).
Per la legenda della mappa vedere la Figura (a).

Carta geologica del vulcano Etna modificata da Branca et al. (2011a) con l'ubicazione dei siti Carta geologica del vulcano Etna modificata da Branca et al. (2011a) con l'ubicazione dei siti archeologici dell'età del rame (3700-2200 anni a.C.).
Per la legenda della mappa vedere la Figura (a).

Carta geologica del vulcano Etna modificata da Branca et al. (2011a) con l'ubicazione dei siti archeologici della prima età del bronzo (2200-1450 anni a.C.).
Per la legenda della mappa vedere la Figura (a).

Carta geologica del vulcano Etna modificata da Branca et al. (2011a) con l'ubicazione dei siti archeologici dell'età del Bronzo Medio, 
Tardivo e Finale (1450-900 anni a.C.).
Per la legenda della mappa vedere la Figura (a).

I siti preistorici del territorio etneo e i loro rapporti con la successione vulcanica definita in Branca et al. (2011a) e successivo aggiornamento. MN=Neolitico medio; LN= Neolitico Tardo; FN= Neolitico finale; ECA= Prima Età del Rame; LCA= Tarda Età del Rame; FCA= Età Finale del Rame; EBA= età del bronzo antico; MBA=Età del Bronzo Medio; LBA= Tarda Età del Bronzo; FBA=Età del Bronzo Finale.
(Le colonne della tabella:
Sito – Tipo di insediamento –Altitudine s.l.m. -  Coordinate - Fasi archeologiche - Colata lavica e unità vulcanica di Branca et al. (2011a) - Età assoluta o stratigrafica delle colate laviche –
 Localizzazione dei siti Date col 14C del sito – Riferimenti)




















Facendo riferimento alle seguenti coordinate in gradi sessagesimali:
37°39’45” N
14°50’41” E

Nella mappa viene identificato  questo punto (evidenziato in rosso)

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Predio Garofalo:



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ALTRI  FILE
 
Adrano – Museo Regionale “Saro Franco”.   Leggere il Passato…

…………………….
 
ADRANO (Catania) – Museo  Reg. “Saro Franco”  - Reperti con Iscrizioni -
Il valore dell’epigrafe: Parole di Pietra

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