Adrano (Catania) - Museo Reg. "Saro Franco" - Reperti con Iscrizioni - Il valore dell’epigrafe: Parole di Pietra

 



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Le epigrafi sono importanti documenti per la conoscenza della società che li ha creati, per la loro comunicazione.
Ricoprivano un ruolo importante documentando molti aspetti della vita.
Fornivano informazioni su persone, eventi, istituzioni, normative, luoghi, opere, credenze, idee, cultura ed usanze.
Costituivano anche un importante strumento di propaganda politica per gli imperatori, governatori, capi di città e in genere di personaggi illustri.
Riconoscere il valore intrinseco e assoluto della cultura di un luogo significa identificarne la dimensione geografica e un ben preciso spazio fisico. Rappresentare la cultura di una società nel patrimonio di simboli costruiti nel corso della sua storia consente di esplorare la sua identità più profonda e di tracciare una visione dei valori di quella società. Luoghi, simboli e condizioni esistenziali costituiscono il terreno concettuale entro il quale procede la rappresentazione culturale di una società. Le mappe culturali, come le epigrafi, producono e trasmettono conoscenza oggettiva dei processi mentali, costituiscono un percorso di ricerca in grado di ricostruire il legame fondamentale tra le persone e i luoghi.
La traduzione dell’epigrafe diventa uno strumento  indispensabile ed essenziale per un “sapere” reale sul rapporto tra uomo e spazio, tra cultura e natura.
Queste fonti offrono una prospettiva diretta e spesso non mediata su aspetti della vita quotidiana, sociale, religiosa e politica delle civiltà passate. A differenza delle fonti letterarie, che possono essere soggette a revisioni e interpretazioni successive, le epigrafi forniscono informazioni contemporanee sugli eventi descritti
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Indice:

- Altare iscritto o base per altare;
- L’epigrafe del Mendolito – Cenni sul sito del Mendolito citato da Virgilio – le varie interpretazioni dell’epigrafe (Prof. Caltagirone Enrico – Dott. Branchina Francesco);
- Il Cippo “Sanfilippo”;
- L’iscrizione graffita su un vaso (oinochoe) di Contrada “Poira” – Paternò;
- Altre iscrizioni tra cui la Pietra Basaltica iscritta che fu rinvenuta vicino alla Grotta Pellegriti dov’era ubicata un’importante sepoltura. Le iscrizioni nelle lastre per uso funerario (contrada Ardichella) e per uso civile negli edifici (sito del Mendolito).
Riferimenti (cenni):
Santa Febronia (Palagonia – Catania); Tegola con iscrizione di Centuripe; Le lastre con iscrizioni del Mendolito, esposte nel Museo di Siracusa; Kalypter hegemon usato nelle sepolture; La sima di Selinunte; il sacello di Sabucina; Il tempio A di Himera; la necropoli di Rifriscolaro (Camerina- Ragusa);
- Altre epigrafi;
- Le epigrafi perdute;
- Frammento d’iscrizione latina;
- Iscrizione in una pietra di confine. Confronto con un simile reperto esposto nel Museo di Catania;
- Iscrizione greca – Fonte delle Favare:
file: Adrano – Museo all’aperto
 
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Altare iscritto o base di statua
Provenienza: Mendolito – Contrada Ardichella
Ritrovamento: predio del cav. Reale. Fu trovata da Orazio Cavallaro nel 1896; regalata alla famiglia Reale nel 1906 e acquisita dal Museo di Adrano nel 1957 (regalo della famiglia Reale).
Natura: Pietra Calcarea.
Datazione: III – II secolo a.C.
Condizioni del reperto: lato superiore rotto; la modanatura attorno alla base è spezzata sulla parte

sinistra, altrimenti intatta.
Misure: altezza 36 cm – larghezza 54,5 cm (49,7 cm esclusa la modanatura inferiore); profondità 40,5 cm (35,7 cm non tenendo in considerazione la modanatura inferiore).
Iscrizione: il lato iscritto è al massimo 26 cm in altezza e 49,7 cm in larghezza.
Numero inventario: 11647
Una base quadrangolare di pietra calcarea con una modanatura attorno a tutti e quattro i lati inferiori. Una modanatura perduta solo nel lato sinistro.
La parte superiore della base è andata perduta. Tutti e quattro i lati sono rifiniti e sul lato frontale si preserva un’iscrizione greca di almeno sei linee.
L’iscrizione è scolpita in modo grezzo ed inesperto o non curato.
I caratteri si distinguono in modo particolare per la loro irregolarità e per la povera o scadente qualità dell’iscrizione.
L’omega è aperto in ogni linea. Le forme delle lettere sarebbero tipiche dell’epigrafia della Sicilia ellenistica, forse del primo periodo piuttosto che del tardo.
La data di collocazione del reperto sarebbe tra il III - II secolo a.C., mentre il prof. Manganaro e il Lambertini suggerirono il IV secolo a.C.
Altezza delle lettere:
- Prima linea: incompleta;
- Seconda linea: 2 – 3 cm;
- Terza linea: 2 – 2,3 cm (il Φ misura 3,5 cm);
- Quarta linea: 1,7 – 3,5 cm;
- Quinta linea: 1,7 – 2,8 cm (omicron Ο misura 1 cm);
- Sesta linea: 1,7 – 2,5 cm;
- Settima linea: 2 – 3 cm.
Spazio tra le righe:
- Linee 1 – 2: 8,8 cm;
- Linee 2 – 3: 1,5 – 2 cm:
- Linee 3 – 4: 0 -1,3 cm;
- Linee 4 – 5: 0 – 1 cm;
- Linee 5 – 6: 0 – 3,5 cm;
- Linee 6 – 7: 0 – 1 cm
Traduzione:
[-?-]
(durante la magistratura / sacerdozio) di Theutoros e Philon.
(dedicata dagli) hierothytai Nikasion figlio di Eupolemos, Nemeios figlio di
Herakleidas, Agathon figlio di Eudamos.
Tracce di almeno due lettere sono visibili sul lato superiore sinistro del lato iscritto (solo i tratti verticali), con uno spazio per una o due lettere precedenti.
Seguono spazi vuoti, ma potrebbero esserci tracce di altre lettere in alto a destra.
Non è possibile stabilire quanto sia andato perduto della parte superiore del blocco.
Ci sarebbero state delle errate interpretazioni o traduzioni in alcune trascrizioni delle lettera finale della linea 4

a causa del graffio o tratto involontario inciso sulla pietra, che invece non appartiene alla lettera finale.
I nomi sono tutti molto comuni, con numerose attestazioni nel mondo greco ed in Sicilia. Si dovrebbe fare eccezione per Nemenios che sarebbe tipicamente siculo (13 su 16 esempi conosciuti sono siculi, Fraser-Matthews 1997).
Il sacerdozio di (hierothytes) è attestato ad Agrigento, Malta, Soluntum (Solunto), Segesta e in un’iscrizione in bronzo scoperta nel 2008 e dalla provenienza sicula incerta.
Per lo storico Wianand (1990) i casi legati ad Agrigento dimostrano un’influenza coloniale di Rodi sulla città agrigentina. Gli altri casi, compreso il reperto di Adrano, rilevano una forte influenza di Siracusa.
L’insolita forma dorica   sarebbe attestata a Rodi.
Forse  l’iscrizione è rivolta a due ufficiali eponimi siculi.
Non fu possibile stabilire se fosse pertinente alla  base di una statua o di un altare.
Piccole basi statuari simili furono trovati ad Akrai (Palazzolo Acreide). Probabilmente l’iscrizione sarebbe stata una dedica ad una divinità da parte del collegio degli hierothytai e, secondo il prof. Manganaro, si tratterebbe della divinità locale Adranos.
Una tesi non accettata da tutti gli storici. Sarebbe probabile come il nome della divinità, a cui questo altare era dedicato, si trovasse iscritto nella parte superiore   dell’iscrizione e cioè nella modanatura mancante.
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L’Epigrafe del Mendolito




Sull’antica città siculo-greca che sorgeva in contrada Mendolito di Adrano non si sa molto.
Il Mendolito di Adrano è uno dei luoghi più interessanti, ricco di misteri, della Sicilia.
Una fonte importante per la conoscenza della cultura sicula e questo non solo per la presenza della necropoli ma anche per l’abitato e per l’alfabeto del Mendolito che tanto fa discutere gli storici e che nasconde realtà storiche non sempre accettate.
Il prof. Massino Cultraro studiò a lungo il sito e affermò che
L’abitato arcaico era posto nell’area denominata “proprietà Sanfilippo” che
si trova all’interno delle mura (la villa Sanfilippo fu costruita sulle antiche mura).
L’iscrizione della porta fu trovata nelle mura dalla dott.ssa Paola Pelagatti mentre dalla confinante proprietà Sanfilippo provengono il cippo omonimo e due lastre fittili. Tutti i reperti con iscrizioni sicule sono esposti nel Museo Archeologico di Siracusa. Il cippo “Sanfilippo” e le due tegole furono rinvenuti dall’archeologo Paolo Orsi. Le tegole presenti nel Museo di Adrano provengono invece dagli scavi in contrada  “Ardichella” che non è legata all’abitato del Mendolito per ragioni sia topografiche che cronologiche.
La località del Mendolito, posta lungo il Simeto, per circa un secolo, grazie alle esplorazioni di Paolo Orsi, di Salvatore Petronio Russo, di Luigi Perdicaro, di Vincenzo Vinci, e del locale "comitato archeologico adranita", restituì i reperti di una necropoli e di una città "predionigiana" d'avanzata e affermata civiltà siceliota (sicana) (XV-V secolo a.C.).  Reperti, esposti nei Musei di Adrano e di Siracusa.

Adrano, Mendolito. Planimetria generale dell’abitato di età arcaica:
1) Porta Sud con la grande iscrizione;
2) Fondo Sanfilippo (area di provenienza delle tegole PID 576-577);
3) Ripostiglio di bronzi (fondo Ciadamidaro);
4) Acropoli;
5) Necropoli meridionale di Sciare Manganelli;
6) Località Ardichella (area di provenienza delle tegole con bollo);
7) Fondo Neri (area di rinvenimento di un’iscrizione, oggi perduta).


Un valido contributo alla soluzione del problema potrebbe essere fornito da un’attenta lettura dell’epigrafe del Mendolito che fu rinvenuta nei pressi dell’ingresso Sud dell’antica città.


Mendolito – Porta Sud


Torre Est


 Insediamento del Mendolito.
Pianta della porta urbica meridionale (da PELAGATTI 1964-1965)

Schizzo planimetrico con le tombe di  Sciare Manganelli
(dai taccuini di Paolo Orsi)

Sciare Manganelli



Dal punto di vista letterario il sito del Mendolito fu citato da Virgilio in merito al figlio di Arcente  quando accennò
Al Simeto, al “bosco di Marte” e all’ara di Palico.
Il siciliano Arcente era un suddito di Aceste, re di Sicilia, (figlio del dio fluviale Crimiso e di Egesta, nobile donna troiana).
Arcente fece crescere in un bosco sacro il suo unico figlio, per farne un grande guerriero. Quando Enea giunse con gli altri troiani esuli nel regno di Aceste, il figlio di Arcente, che era ormai un giovane uomo, decise di seguire Enea allorché questi si rimise in viaggio per raggiungere il Lazio. Arcente ne fu felicissimo. Non è noto se Arcente venne mai a sapere della fine tragica del figlio, ad opera di Mezenzio, nella guerra tra troiani e italici (il tiranno etrusco aveva colpito con la fionda il giovane nemico, spaccandogli le tempie).
Si ergeva in armi straordinarie il figlio di Arcente,
con una clamide ricamata e splendente di porpora iberica,
bello d'aspetto, che il padre Arcente mandava,
cresciuto nel bosco della Madre intorno al fiume Simeto,
dov'è la grassa e benigna ara di Palico;
deposte le lance, Mezenzio rotea intorno al capo
tre volte la fionda fischiante, impugnata la cinghia,
e a lui che gli s'opponeva spacca nel mezzo le tempie
con piombo fuso, e lo abbatte disteso sulla sabbia
con una clamide ricamata e splendente di porpora iberica,
bello d'aspetto, che il padre Arcente mandava,
cresciuto nel bosco della Madre intorno al fiume Simeto,
dov'è la grassa e benigna ara di Palico;
deposte le lance, Mezenzio rotea intorno al capo
tre volte la fionda fischiante, impugnata la cinghia,
e a lui che gli s'opponeva spacca nel mezzo le tempie
con piombo fuso, e lo abbatte disteso sulla sabbia
con una clamide ricamata e splendente di porpora iberica,
bello d'aspetto, che il padre Arcente mandava,
cresciuto nel bosco della Madre intorno al fiume Simeto,
dov'è la grassa e benigna ara di Palico;
deposte le lance, Mezenzio rotea intorno al capo
tre volte la fionda fischiante, impugnata la cinghia,
e a lui che gli s'opponeva spacca nel mezzo le tempie
con piombo fuso, e lo abbatte disteso sulla sabbia
(Virgilio, Eneide)
La descrizione che Virgilio diede del figlio di Arcente nell' Eneide ricorda molto la figura del semidio indiano Ati nelle Metamorfosi ovidiane. Entrambi giovani e bellissimi, abbigliati con una clamide orlata d'oro. Persino le loro uccisioni presentano analogie, con i due eroi che muoiono col cranio fratturato, colpiti presso la tempia (nel caso di Ati il corpo contundente è un ceppo). Virgilio omette nell'Eneide il nome del figlio di Arcente, con ogni probabilità è uno di quei passi che il poeta non riuscì a revisionare per la morte prematura. Una spiegazione diversa è stata data da Vincenzo Monti nella traduzione del poema, secondo cui Arcente avrebbe dato al figlio il proprio nome.
                                                                              Stavasi Arcente,
                                                             d’Arcente il figlio, in su’ ripari ardito
Probabilmente Palico era il nome della città in onore all’omonimo dio.
In età classica la città prese il nome di Adrano in onore della divinità Adranos.
L’epigrafe protostorica del Mendolito fu rinvenuta nel 1962 dalla dott.ssa Paola Pelagatti in una campagna di scavo da lei diretta, a seguito di continue segnalazioni da parte del comitato archeologico adranita, che aveva esplorato e studiato il sito per molti anni.

Adrano: L. Bernabò Brea al momento della scoperta dell’iscrizione
sulla porta della città (1962) (foto: PELAGATTI 2004)
La grande iscrizione del Mendolito era legata alla “porta urbica” della città.
Il sito era difeso da una cinta muraria che fu rafforzata verso la metà del VI secolo a.C.
Cinta che fu portata alla luce dagli scavi eseguiti nel corso degli anni ’60.
Il blocco si trovava nello stipite destro della porta, ad un’altezza di circa 80 cm dal piano di calpestio. 
Un blocco quadrangolare di arenaria, lungo 2 metri, alto 60 cm e profondo 40 cm.
Sulla faccia a vista, su tre righe, una iscrizione ad andamento sinistrorso, con tratto sottile e lettere di dimensioni abbastanza disomogenee, con un’altezza variabile da 5 a 10 cm.
Nella parte di sinistra s’incontrano delle difficoltà nella lettura, a causa delle cattive condizioni della superficie del blocco e per la presenza di alcuni segni più piccoli e leggeri, forse estranei all’iscrizioni e inseriti da qualche “amante dell’arte” tanto numerosi in Sicilia e non rispettosi della propria Storia.
Un’epigrafe ancora da decifrare con chiarezza e la cui lettura esatta porterebbe luce sulla civiltà siculo-greca del territorio di Adrano.
È incisa su blocco arenario (rinvenuto rotto in due parti nel corridoio dell'ingresso della città) e contiene lettere sicule e greche (?).
Si legge da destra verso sinistra ed è tracciata su due righe per una lunghezza di circa 2 metri.
La sua eccezionale importanza, inoltre, sta nel fatto che fu rinvenuta in loco durante una campagna di scavi.

Mendolito, iscrizione della porta urbica. (Non completa).
Da Prosdocini – Agistiniani. 1976 – 1977 




Lettura da destra verso sinistra.
La prima parola….
IAM
(dal sanscrito Yam = questa)

IAM è un pronome deittico, cioè si riferisce al reperto o oggetto che si descrive. In questo caso si riferisce al muro. (IAM è un termine che appare anche in etrusco).
Questo
Poi c’è un verbo importantissimo che corrisponde al latino “creo”, creare..

AKARAM
(dal sanscrito Kr = creare, costruire)
Akaram è quindi un verbo sanscrito che significa
Fece costruire
segue una zona del blocco molto abrasa, quasi cancellata. Le lettere probabilmente si riferiscono al nome della persona che fece costruire il muro (patrominico)


L’indizio per dare un nome a questo personaggio sarebbero le seguenti lettere:
-        la prima: E
-        le ultime due lettere:  AS
Tutti i nomi maschili finivano  in AS.. da cui il nome interpretando le atre tre lettere..
ESPIAS
La traduzione di questa prima parte della frase sarebbe
Espias questo muro fece costruire…
Segue una 
segue un’altra parola

Fino alla S si legge  AGGES.
Aggia vuol dire gregge
Agies… agiato
In latino “pecus” vuol dire bestiame.. “pecunia” soldi.
Chi possedeva il bestiame era un uomo ricco, agiato.
Dopo non si riesce a leggere perché la zona è molto rovinata


La parola finisce con ED, quindi un verbo ottativo che corrisponde la nostro congiuntivo,,,
affinché proteggesse
Alcuni hanno letto la parola CEVED,  che significa “proteggere”
Ma, a causa  delle lettere molto rovinate, si potrebbe avere un duplice significato…
Affinché proteggesse dalle greggi…..
Affinché proteggesse la città dalle greggi cioè impedire l’ingresso delle greggi nella città.
Il primo rigo sarebbe quindi:
Espias fece costruire questo muro affinché proteggesse  dalle greggi
 
Il secondo rigo, sempre da destra verso sinistra..
Inizia con la parola  TEUTO
T  E  U  T  O
In quasi tutte le iscrizioni italiche, tradotte da Giacomo Devoto, e nelle tavole incubinie, la parolaTEUTOcorrisponde a città” o “popolo”
Potrebbe anche corrispondere a “Tato” che è u avverbio.
Segue..

VEREGAIESO
“Vara” – “Avara” è circondare qualcosa per proteggerlo;
gaia” vuol dire casa…
“Alle case protette / alle case protette della città….”
 segue
Ecadoara….


La O con il puntino in mezzo per differenziarsi dalle altre “O”.
In origine la parola era “dvara” con la “V”. Ma la “V” in sanscrito è una semivocale che si pronuncia “doara”.  “Doara” significa “porta”  (un termine  simile all’inglese “door”).
ECA vuol dire “uno solo”.
“Ecadoara” in sanscrito significa quindi
Una sola porta….
L’ultima riga, sempre da destra verso sinistra
IEAD
IEAD  significa condurre, è un verbo ottativo (congiuntivo)…
Espias questo muro fece costruire affinché proteggesse le greggi o dalle greggi.
Alle case protette della città una sola porta conduca.
(traduzione dal sanscrito del prof. Enrico Caltagirone)
Non sono un glottologo, come il prof. Enrico Catagirone che ha tradotto la stele, ma il termine “gregge” potrebbe riferirsi a “popoli”? Una moltitudine di persone e quindi nemici. Il muro quindi come cinta muraria difensiva della città?

Per molti storici l’interpretazione e la lettura restano ancora da decifrarsi.
È opinione diffusa che si tratta di un epigrafe con un testo di pubblico avviso per coloro che entravano nell'antica città, la quale doveva avere una notevole importanza strategico militare e nello stesso tempo, era caratterizzata da un livello di cultura abbastanza elevato.
Si tratta dell'unica iscrizione sicula rinvenuta "in situ" e probabilmente databile verso il VI secolo a.C. (rivista Kokalos, Palermo, 1965).
Verso la metà del secolo scorso la zona fu attentamente studiata da Salvatore Petronio-Russo, come precisa P. Orsi nel suo Diario (1898-1909), annotando che
"il prevosto vide quegli avanzi avanti un trentennio",
dopo aver personalmente battuto, palmo per palmo, il territorio adranita lungo il Simeto.
Lo stesso Orsi impressionato per i numerosi blocchi basaltici sparsi nel luogo scrisse:
"E' un ionismo imbastardito, penetrato per entro le aride forze del Simeto, ma è sempre testimone di quell'arte che in Katana noi cerchiamo invano" (Aderno' 1909).
Alcuni storici interpretarono le lettere delle due righe dell'epigrafe, da destra a sinistra……:
 
I rigo ; IAMAKARAME ......... RASKAS OEGS ....HHD
II rigo ; TATUVEREGAIE SHE KALD ARA
e si posero numerose le domande..
Parlerà di Palico ?
Parlerà di Adranos, dio locale, e secondo Eschilo, padre dei Palici ?
Forse è una arcaica segnalazione per indicare un luogo o un edificio religioso ?
Precisa forse delle norme di ordine pubblico ?
Contiene prescrizioni per gli abitanti o per i forestieri ?
Esalta un eroe ?
L'epigrafe non è stata restituita al Museo di Adrano, e si trova a Siracusa, questo dopo ben 62 anni dal suo ritrovamento.

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Una ricerca del prof. Francesco Branchina (pubblicata il 03/01/2019)
La lingua degli Adraniti: Epigrafi anelleniche.
Il prof. Branchina affermò l’esistenza ad Adrano di un santuario dedicato al dio Adrano venerato in tutta la Sicilia fino a quando l’isola mantenne la sua integrità culturale conservando il toponimo di Sicania.
La stele del Mendolito sarebbe la più lunga iscrizione anellenica trovata in Sicilia.
La stele è l’orgoglio degli adraniti perché  viene considerata come un testamento spirituale con il quale gli antenati (Sicani o Siculi) lasciarono un concetto di Nazione e di amore patrio ormai perduto nelle nuove generazioni.
Lo stesso professore si soffermò, giustamente, sulla stele adranita che si trova nel Museo di Siracusa.
Fu prelevata nel territorio adranita negli anni ’60 e condotta nel Museo Archeologico di Siracusa per essere restaurata e studiata. Ma da allora mai più restituita alla cittadinanza di Adrano. Quegli adraniti figli di quegli antenati che incisero quel messaggio che ha sfidato il tempo.
L’autore delle ricerca rilevò la traduzione dell’epigrafe che vedeva nel protogermanico la lingua di riferimento e quindi diede all’epigrafe una diversa traduzione.
La sua ricerca si basava sulla considerazione che il
Il protogermanico è in realtà una lingua ricostruita dagli studiosi attraverso la comparazione di lessemi delle lingue di derivazione germanica quali l’inglese, il gotico, il norreno. In questa sede intendiamo altresì sollecitare gli studiosi e appassionati ad intraprendere uno studio sistematico della lingua dei nostri Avi, lingua con la quale i primi abitatori dell’isola esprimevano  – anche attraverso l’uso della simbologia perfettamente in sintonia con il concetto dell’aldilà  - i profondi concetti d’ordine metafisico. È probabile che ad Adrano, sede del culto religioso che accomunava, anzi cementava, gli abitanti dell’isola, la lingua primigenia si mantenesse viva e inalterata per un periodo di tempo assai più lungo che nelle altre città della Sicilia, e ciò grazie alla presenza della casta sacerdotale degli Adraniti, nome che per importanza, nel periodo a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., venne attribuito anche agli abitanti della città dove sorgeva il santuario, che allora si chiamava Etna. La casta sacerdotale degli Adraniti, dunque, fu in condizione di tener in vita “la lingua degli dei” fin tanto che il culto dedicato all’Avo primordiale Adrano, venne esercitato con profonda devozione.
 Infatti, la lingua sicana, come quella latina per i cristiani, o ebraica per i Giudei, rappresentava la lingua sacra, l’unica attraverso la quale era possibile la comunicazione tra l’umano e il divino; il divino non avrebbe riconosciuto dei suoni che non gli fossero stati familiari. Quanto affermiamo rientrava in una antica conoscenza esoterica che si inseriva in un remoto periodo temporale, quando cioè, uomini e Dei comunicavano attraverso l’utilizzo di suoni e simboli convenzionali. Sulla base di queste affermazioni appaiono chiare le esortazioni del riformatore dell’antica religione mazdea Zarathustra, dirette al sacerdote sacrificante. Al sacerdote, Zarathustra, raccomandava che pronunciasse correttamente le formule rituali. Esse dovevano essere chiare e scandite, la pronuncia delle stesse non doveva subire inflessioni di sorta, una pronuncia falsata avrebbe provocato l’aborto del rito. Anche nel libro sacro dei Veda,  che è un complemento dell’Avesta, si insiste sulla necessità di conservare l’esatta pronuncia delle formule rituali. Ma tornando alla lingua dei Sicani, primi abitatori della Sicilia come sostiene Tucidide, il quale, a sua volta, si rifà agli storici locali.
ADRANO CENTRO RELIGIOSO DELL’ISOLA.
Come affermato sopra, la città di Adrano, in quanto sede del culto nazionale sicano, rappresenta per noi lo scrigno da cui va tratto ogni spunto di studio della lingua primigenia: la sicana. Qui risiedeva, e ciò è fondamentale per comprendere il motivo di una lunga, inalterata sopravvivenza della lingua, la casta sacerdotale degli Adraniti. Facendo la dovuta comparazione linguistica con la lingua ebraica, infatti, si può constatare che le liturgie giudaiche hanno utilizzato per oltre due millenni la lingua ebraica biblica quale lingua rituale. L’ebraico biblico che viene letto e compreso da un rabbino del ventesimo secolo, non si discosta enormemente da quello parlato dal colto Giuseppe Flavio. Esso continuò ad essere l’idioma rituale anche quando il volgo non lo parlava e non lo comprendeva più durante la diaspora, poiché il sacerdote, non con il popolo doveva interloquire, ma col divino. Dunque ad Adrano, come nel Vaticano o a Ninive, capitale dell’Assiria, dove è stata rinvenuta la più ricca e  importante biblioteca della regione — si calcola che siano stati oltre diecimila i testi ospitati nella biblioteca reale —, doveva conservarsi la conoscenza delle arcane cose e la lingua con cui esse venivano comunicate ai neofiti. Tuttavia, se abbiamo colto nel segno, la casta sacerdotale denominata Adraniti, come quella dei consanguinei druidi del nord Europa, non amava mettere per iscritto il proprio sapere: non a tutti erano aperte le porte della conoscenza, ma solo a coloro che, per loro innata predisposizione, avevano la capacità di comprenderne il profondo e, talvolta, gravoso significato ed essere in grado di sostenerne il peso. Questo atteggiamento misterico, non era prerogativa di adraniti e druidi, ma rientrava nella struttura esoterica del sacerdozio di tutti i popoli facenti parte della grande famiglia dei popoli convenzionalmente denominati indoeuropei; perciò anche dai saggi indiani, i rishi. Infatti, i sapienti indù esortavano il saggio a non scandalizzare la mente dei semplici comunicando loro concetti metafisici ad essi incomprensibili.
Vogliamo concludere formulando l’auspicio che possa nascere un centro studi telematico sulla lingua sicana che abbia in Adrano il suo baricentro.

Un quesito che la storiografia non ha ancora risolto è  l’origine del sito..
Fondato dai Sicani o dai Siculi?
Lo studioso Francesco Branchina considerò il popolo Sicano (Σικανοί), stanziato nel Lazio e successivamente spostatosi anche in Sicilia. Sicani che erano giunti nel Lazio in seguito ad una migrazione dall’Europa del Nord perché costretti ad abbandonare le proprie terre in seguito ai cambiamenti climatici legati all’ultima glaciazione che colpì i territori dall'Artide all'Europa centro-settentrionale.
(L'ultimo periodo glaciale, la glaciazione Würm, terminò all'incirca tra il 16000 e il 14000 a.C.. La tradizione vuole però chiamare piccola glaciazione il clima freddo che caratterizzò l'Europa dal XIV al XIX secolo).
Attraverso l’analisi delle epigrafi e dei numerosi lessemi lasciateci dai Sicani sotto forma di toponimi, antroponimi, idronimi, si identificò la lingua parlata da questo popolo con un'antica lingua riconducibile al protogermanico. Il protogermanico è in realtà una lingua ricostruita dagli studiosi attraverso la comparazione di lessemi delle lingue di derivazione germanica, che si sono conservati simili nelle lingue derivate, quali inglese, tedesco, gotico e molte altre.
L'attuale lingua tedesca sarebbe quella che, meglio di ogni altra, è rimasta aderente alla lingua d'origine. Fu questa lingua a cui fecero riferimento molti storici, assieme al gotico e all'antico alto tedesco, per decriptare alcune epigrafi sicane, incise in steli, vasi, tegoli funebri. L’indagine coinvolse anche la famosa stele urbica ritrovata nel territorio di Adrano, in contrada Mendolito.
Gli studiosi cercarono di fornire una probabile  traduzione dell’epigrafe.
Una traduzione esatta?
Forse, ma l’obiettivo degli studiosi era quello di dare l’input ad una attività di studio con la nascita di un centro studi telematico sulla lingua sicana e sicula.
Forse la stele fu impropriamente definita urbica dagli studiosi, forse condizionati e sviati dal luogo in cui venne ritrovata, secondo il  Branchina, non coincidente con quello di originaria collocazione. Secondo lo studioso era collocata su uno dei due torrioni realizzati a posteriori rispetto alle mura che cingevano l'insediamento, al fine di proteggere la porta d'ingresso delle mura stesse. Secondo il ricercatore la stele fu voluta da privati cittadini o, tutt'al più, da un gruppo o consorteria di lavoratori, non molto avvezzi alle lettere, come dimostrerebbe lo stile disordinato dei caratteri e le giustapposizioni, che intesero, con quella privata iscrizione, manifestare tutta la propria gratitudine al principe che aveva intrapreso, a spese dello stato, attività di bonifica del territorio.
Se si divide l'epigrafe, che nella stele è un continuum di vocaboli che vanno da destra verso sinistra, in lessemi, constateremo la presenza di vocaboli, che hanno preciso riscontro nella lingua germanica o gotica, perfettamente compatibili con il contesto storico, geologico e geografico del luogo in cui l'epigrafe fu rinvenuta.
Esse sono: 

AKARA, TEUTO e VARA.
Avremo pertanto la seguente suddivisione, che si ispira, con alcune significative varianti, alla lettura del professore Enrico Caltagirone:
JAM AKARA ME . ASKA, AG.ES G..D TEUTO VEREGAIESO, EKAD VARA IEAD
Akara. 
Il primo vocabolo esaminabile senza alcuna difficoltà interpretativa è akara, attestato in antico alto tedesco (akara) e corrispondente al moderno tedesco Acker col significato di "campo agricolo".

Teuto 
è il principe sikano che Polieno 
(II secolo d.C.) nella sua opera Stratagemmi, afferma essere a capo di un popolo insediato in un territorio o città chiamato Innessa. Ora si dà il caso che, in lingua germanica, anche il nome di questa città o territorio, derivante da Inn ed Essen, rivesta un suo specifico significato, traducibile letteralmente con l'espressione "il cibo dentro" ovvero, più liberamente, come "terreno fertile". Si noti che la fertilità del suolo siciliano e, più precisamente, etneo, è attestata anche nell'Odissea, dove si afferma, a proposito dei Ciclopi, che non aravano né seminavano poiché il terreno, fertilissimo, produceva spontaneamente i suoi frutti. I Ciclopi, fratelli dei Titani, in quanto tutti figli di Urano e Gea, erano ottimi fabbri e, secondo il mito greco, avevano il compito di costruire i fulmini per Zeus. La loro fucina era posta dentro il vulcano Etna. Quando, di tanto in tanto il vulcano si destava con i suoi acuti boati, si pensava che fossero i Ciclopi a picchiare, col loro martello, sull'incudine; da qui il soprannome di klopfer, battitori, picchiatori (dal tedesco klopfen, battere, picchiare) della terra, Ki: Ki-klopfer appunto. In merito alla traduzione del lessema ki con il termine "terra", ci si avvale della lingua dei Sumeri, di cui in altra sede si è dimostrato l'affinità etnica con i Sicani, nella quale appunto il lessema Ki significa terra; non a caso il dio sumero Enki (en-ki) veniva identificato con "il Signore della terra". A differenza del termine akara, che definisce un campo agricolo, il lessema ki identifica un territorio in senso politico o geografico. Dunque i Ki-klopfer (Ciclopi) sarebbero gli "scuotitori o battitori della terra" sicula.
Per ciò che concerne il nome Teuto, si osserva che esso è riconducibile al popolo germanico dei Teutoni ed è un nome tipico di principi e re: si pensi a Teuta, la regina degli illiri, succeduta nel 204 a. C. al marito, o a Teutomato, re dei Nitiobrogi, un popolo gallo che si scontrò con Cesare. In sanscrito il nome comune teuto corrisponde a "popolo", come il termine tuatha nella lingua degli Irlandesi (popolo col quale avevamo, in altra sede, vantato affinità etniche ancestrali, come sembrerebbe attestare tra l'altro la corrispondenza tra il nome della figlia del re irlandese Balor, Eithne e il nome della figlia del sikano Teuto, Etna, Eithne in greco); il Tuatha de danann è infatti la saga del popolo dei Dani. Poiché il nome proprio Teuto caratterizzava uomini e donne di stirpe regale e poiché il nome comune teuto/tuatha significava "popolo", ne potrebbe derivare che Teuto significasse in origine "padre della patria" o, più specificatamente, del popolo teutonico.

 Vara. 
Anche questo vocabolo rientra a pieno titolo nel vocabolario germanico e, senza tema di errare, può essere tradotto con il vocabolo "fiume" o con l'espressione "acque navigabili". Nel moderno tedesco il lessema vara, modificatosi nel vocabolo wasser, perso l'originario significato, indica l'acqua, sotto qualsiasi forma. Il lessema vara era molto probabilmente presente nel linguaggio marinaresco nordico; lo confermerebbe l'attributo di Vareghi dato ai Vichinghi svedesi, composto dai lessemi vara e gehen, col significato di "andare sull'acqua" . Si aggiunga che Varusana era, a detta dello storico Erodoto, l'antico nome del fiume Dnepr, così chiamato dagli Sciiti, gli attuali Ucraini, che gli Unni, semplificando, chiamavano solo Var. L'antico nome del fiume è composto da Vara (fiume, via fluviale), Hus (casa) e Ana (antenato); indica pertanto "la via che conduce alla casa dei padri". Kiev, la capitale dell'Ucraina bagnata da questo fiume, era un'importantissima tappa vichinga, toccata dai famosi navigatori nordici durante i lunghi viaggi verso il ricco Oriente. Non può passare inosservato inoltre che il nome della capitale ucraina riconduce al significato di chiglia: Kiev appare infatti come una corruzione del vocabolo tedesco Kiel, che significa appunto "chiglia" , termine riconducibile ad un'economia basata sull'utilizzo delle vie fluviali. Kiel è anche il nome di una città tedesca vicino Hamburgo, il cui porto si apre sul mar Baltico, nella quale si tiene ancora oggi un'importante regata. Si tenga ancora conto che Vara è il nome di un fiume italiano, lungo il quale sorgono i villaggi di Cirella sul Vara, Borghetto di Vara. Non è escluso pertanto che il vocabolo Vara contenuto nell'epigrafe del Mendolito (scolpita in una stele inserita nel torrione eretto a protezione della porta d'accesso) indicasse, nella lingua dei Sicani di re Teuto, il fiume oggi chiamato Simeto, che scorre appunto nei pressi della cittadella.
Si comprende come, alla base della nostra ipotesi interpretativa, debba essere posta la tesi dell'origine nordica della lingua sicana, dettagliatamente provata in altre nostre pubblicazioni, sostenuta dalla riconducibilità dell'ampio patrimonio semantico, etimologico, mitologico e filologico del territorio alla lingua ed alla cultura nord europee. Si pensi all'omonimia tra il dio sicano Adrano e il fiume germanico Adrana, citato da Tacito nel suo racconto delle imprese di Germanico, figlio adottivo di Tiberio, nella terra dei Germani; si pensi all'attributo Odhr o "furioso", che designa il dio sicano (Odhr-ano o Adrano, cioè "l'Avo furioso"), che caratterizzava, secondo Dumezil e Adamo da Brera, pure il dio germanico Odhino; si pensi ancora al nome Etna o Eithna, con cui venivano designati in Sicilia il famoso vulcano, la figlia di Teuto e qualche divinità femminile assimilabile alla greca Atena e in Irlanda la figlia del re irlandese Balor. Con l'Irlanda inoltre i Sicani condividono il simbolismo della spirale, che si ritrova scolpita in territorio adranita su capitelli di colonna e in Irlanda su pietre che formano tumuli funebri (o astrologici) del neolitico.

Veregaieso. 
Riteniamo che il termine fosse riferito a Teuto, definito nella stele come "colui che porta la lancia" o, semplificando, "il consacrato", "il capo supremo" . Si tratta di un nome composto, tipico della lingua germanica, la cui struttura ricorda il nome proprio del famoso principe gallo, Vercingetorige. Nei due termini, Veregaieso e Vercingetorige, si nota la presenza del lessema Ve, seguito rispettivamente dai vocaboli gaes e ger. Ve, come abbiamo avuto modo di provare abbondantemente nelle nostre pubblicazioni, non è solo il nome di uno dei due fratelli del dio scandinavo Odino, ma è un nome astratto con il quale, in lingua germanica, si faceva riferimento ad un concetto di sacralità; gaes e ger sono entrambi vocaboli che indicano la "lancia" (gär in inglese, geirr in norreno, gaisu in gotico, gaesum in latino, gae in irlandese antico), simbolo, in tutto il mondo indoeuropeo, del comando e "di imperio", per dirla con Plutarco, il quale narra che, quando venne chiesto allo spartano Agesilao quali fossero i confini della Laconia, egli rispondesse, vibrando la lancia, "fin dove arriva questa". Lo stesso dio sicano Adrano era raffigurato, come lo descrive ancora Plutarco nella Vita di Timoleonte, nell'atto di brandire una lancia. Per questi motivi riteniamo che Veregaieso, riferito a Teuto, significhi "colui che porta la lancia", "l'imperatore".

 Aska. 
Il vocabolo sicano Aska è molto affine al tedesco Asch, cenere. Lo stesso significato di cenere o forno è contenuto nel vocabolo ittita Hasas e in quello sanscrito asa. Ora si tenga conto che il territorio del Mendolito, ove era collocata l'epigrafe, è di origine lavica ed ancora oggi - nonostante le bonifiche effettuate nel tempo dai nostri coloni, i quali, con duro e tenace lavoro manuale, vi hanno piantato, nel secolo scorso, splendidi agrumeti - è evidente la sua origine morfologica di "grattugia" lavica, molto più evidente oltre duemila e cinquecento anni fa quando, per questo territorio arido, incenerito dalle lave vulcaniche, simile ad una fornace spenta, ma allietato dalle vicine e copiose acque dell'attuale fiume Simeto (Vara), era estremamente appropriato l'aggettivo Aska. Che Aska riconduca al concetto di un territorio arido, lo si deduce ancora da Esiodo, nato nella greca Ascra, da lui definita terra triste, calda d'estate e fredda d'inverno. Ed ancora, terre inadatte alla coltivazione sarebbero state la scandinava Askania e la filistea Ascalona. Lo stesso Strabone definisce "cinereo" il suolo lavico che sovrasta la città di Etna (Adrano):
"Vicino Centuripe c'è la città di Etna, menzionata poco sopra; essa dà accoglienza a quelli che salgono sul monte (Etna) e fornisce ad essi la guida: è là infatti che inizia la zona della vetta. Le terre intorno sono nella parte alta nude e cineree, coperte di neve d'inverno; in basso sono occupate da foreste e piantagioni di ogni specie".
A questo punto della nostra disquisizione, posti alcuni significativi punti fermi, potremmo già avventurarci nel tentativo di fornire una grossolana traduzione della nostra epigrafe, lasciando il difficile compito di perfezionarla, attraverso la ricerca di una struttura linguistica e di ricorrenze grammaticali, ai linguisti e ai filologi e invitando gli appassionati e gli studiosi adraniti a cimentarsi in tale interpretazione, nella convinzione che, riportando in vita la lingua dei nostri Avi, si darebbe fiato vitale anche alla weltanshauung (Concezione del mondo, della vita, e della posizione in esso occupata dall'uomo) che informò la nostra isola nel suo periodo più splendido e spiritualmente creativo.

· JAM questo
· AKARA terreno, campo agricolo
- ME mio, me
- ASKA arido, cinereo
- AG..ES il lessema ha una lacuna. Se il vocabolo mancante fosse una R, il termine agres potrebbe essere assimilabile al germanico Hugr, termine col quale si indicava un altare, un tumulo, un ricettacolo di forze metafisiche; tale interpretazione sarebbe coerente con le singolari caratteristiche del territorio del Mendolito, in cui, non a caso, si può ancora ammirare "la valle delle Muse", dove insiste l'Ara degli dèi Palici, figli del dio Adrano. Il termine germanico Hugr sembrerebbe caratterizzare anche i termini latini Augusto e Augure, i quali infatti incrociano il campo semantico della sacralità.
- TEUTO nome di persona, dal quale probabilmente deriva il latino Tito, che in origine dovette avere il significato di "padre del popolo o padre della patria".
- VEREGAIESO probabile titolo onorifico conferito a Teuto, primus inter pares, visto che ai Sicani era invisa ogni forma di dispotismo, traducibile, per le ragioni sopra esposte con le seguenti espressioni: "colui che porta la lancia" o, semplificando, "il consacrato", "il capo supremo".
- EKAD (?)
- VARA fiume, acque navigabili.
- IEAD condurre, portare (?).
La probabile traduzione è pertanto la seguente:
SU QUESTO MIO ARIDO TERRENO, TEUTO, PRINCIPE CONSACRATO,   
CONDUSSE L'ACQUA.
L'epigrafe sarebbe dunque un simbolo di manifesta gratitudine, realizzata per ordine di un facoltoso privato cittadino che, forse assieme ad altri possessori di terreno a lui limitrofi, beneficiò dell'opera di bonifica voluta dal principe.
Nella certezza che l'utilizzo del protogermanico quale lingua di riferimento per l'interpretazione della lingua sicana costituisca la corretta chiave interpretativa, ci cimenteremo nella traduzione di altre epigrafi funebri sicane, arrivate a noi alquanto lacunose e tuttavia degne di attenzione per l'alto valore spirituale da esse veicolato, al fine di sollecitare studiosi ed appassionati ad intraprendere uno studio sistematico della lingua dei nostri avi.

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CIPPO “SANFILIPPO” rinvenuto nel Mendolito (Adrano)
Dal punto di vista epigrafico famoso è il "Cippo Sanfilippo", della cui lettura ed interpretazione si occupò il prof. Manganaro dell'Università di Catania.
Il Prof. Giacomo Manganaro
Importante storico dell’antichità, archeologo ed epigrafista.


Il “cippo” si trovava nella proprietà Sanfilippo, da cui il nome, dove esisteva allora una villa che portava il nome del proprietario del fondo.


Il famoso, importante e imponente cippo era stato segnalato da Petronio Russo ed era rimasto incustodito nella campagna. Fu recuperato solo negli anni ’60 e studiato dal prof. G. Manganaro in ((in ArchCl XIII, 1961, pp. 106-112).
Un parallelepipedo in pietra lavica che fu in realtà scoperto nel 1883. Fu considerato dagli archeologi come un cippo terminale e datato intorno al VI secolo a.C.
Nella prima indagine del reperto si rilevò la presenza, su una delle quattro facce, di un’iscrizione la cui lettura risultò molto difficile a causa dello stato di conservazione della pietra.

Mendolito – Cippo Sanfilippo –
Orsi – Pelagatti, 1967 -1968

Fu recuperato  da Paolo Orsi nella villa “Sanfilippo”
Rozzo cippo in lava, con zoccolo inferiore per innestarlo in terra e cavo circolare sopra
per fissarvi una statua, cippo od altro. Su una delle tre facce tracce di rozzissima iscrizione..
Il cavo superiore è recente e tutte le facce, a differenza di quanto affermò l’Orsi, compresa quella superiore erano iscritte. Forse era un cippo terminale e quindi si può escludere la sua funzione funeraria. Un blocco di pietra lavica simile si trova nell’antiquario di Taormina, con iscrizione anche in questo caso incomprensibile, salvo forse una Reia.


Particolare del blocco in pietra lavica. La faccia più leggibile del blocco.
Si tratta di un cippo parallelepipedo di trachite. Presenta un’altezza totale di 84 cm e si presenta squadrato solo nella parte superiore, per un’altezza di circa 40 cm mentre la parte inferiore, da infiggere nel terreno, è lasciata rozza.
Sulla base superiore si trova un foro circolare, diametro di 32 cm e profondo 6 cm.
L’iscrizione corre, con andamento bustrofedico, sinistrorso per la prima riga, sulle quattro facce squadrate
del parallelepipedo. L’altezza media delle lettere, incise con tratto largo e abbastanza irregolare, è di 7 cm. Anche la base superiore presenta qualche traccia di scrittura, intorno all’incavo.
La superficie fortemente corrosa e profondamente scheggiata ne rende molto difficile la lettura.
Sulla base della grafia il documento può datarsi alla prima metà del V secolo a.C.
Una prima menzione del cippo è reperibile nella
Illustrazione storico-archeologica di Adernò,
di Salvatore Petronio Russo;
l’edizione vera e propria si deve a Manganaro, in un articolo su “Archeologia Classica”.
Stando a quanto affermato da Petronio Russo, il cippo fu scoperto nel 1883 da un tale Giovanni Mazzaglia nei pressi del giardino della villa del dr. Vincenzo Sanfilippo. Se ne deduce che il cippo proveniva dal centro noto come “città del Mendolito”. La villa Sanfilippo era situata, appunto, in tale località, e precisamente, come rileva Paola Pelagatti, nell’area dove oggi sappiamo si trovava la porta urbica.
A quanto pare, il cippo fu conservato nella villa dei Sanfilippo.
dopo la scoperta “noi tosto avemmo la premura di interessare il
Dr. Vincenzo Sanfilippo per tenerlo in custodia nel prossimo suo giardino”.
Ma discorda un appunto dei taccuini di Paolo Orsi. In base a questi appunti, ancora nel 1898 il cippo sarebbe stato “in possesso dello scopritore”, che d’altronde viene indicato con il nome di Orazio Cavallaro, e non di Giovanni Mazzaglia.
Ma deve trattarsi di un errore: come dimostra il fatto che il cippo arrivò al Museo Archeologico di Adrano, nel 1960, come dono della famiglia Sanfilippo.
Non è affatto escluso che l’incavo della faccia superiore sia stato eseguito in età moderna, per permettere un reimpiego del cippo: che stando a Petronio Russo, fu utilizzato dai Sanfilippo “come base di un torso di colonna” venuta alla luce nel loro terreno. Ma questo non trova conferma in quanto si legge nei taccuini di Orsi, che si limita a rilevare l’esistenza del “cavo circolare di sopra per fissarvi una statua, cippo o altro”.
 Le disperate condizioni di conservazione dell’iscrizione sul cippo impediscono di affermare granché sul suo contenuto. Per quanto si può vedere, a parte la forma circolare, e non quadrangolare, di omicron, l’alfabeto è largamente compatibile con quello definito “del Mendolito”.  

Le porzioni dell’iscrizione che si leggono con una certa sicurezza sono quelle della faccia A e C.
Per il resto, le condizioni della superficie iscritta sono cattive. Infatti separare le tracce delle lettere dalle abrasioni è una operazione molto insicura. Questo determina dei risultati, nella interpretazione delle lettere, non esatti anche in dipendenza delle condizioni di luce.
Ai tempi di Petronio Russo e dell’Orsi il cippo si trovava in queste condizioni, infatti lo stesso Orsi scrisse nei suoi appunti:
Su una delle facce tracce di rozzissima iscrizione,; il Petronio pretende averne viste
anche nelle atre tre… Per è certo illeggibile la iscrizione da un lato ( sicilit – faccia C?),
dubbia e negativa negli altri.
Il cippo per molto tempo rimase esposto alle intemperie e nel 1971 si trovava all’aperto in una delle torre dell’edificio del vecchio Museo di Adrano.
La disposizione del testo è comunque evidente, quattro sequenze bustrofediche su ognuna delle quattro facce, mentre non è chiaro se quella che si trovava, e si rileva in minima parte, sulla base superiore, corresse intorno all’incavo, oppure se l’incavo è successivo al testo e quindi ha eleminato una parte dell’iscrizione originaria
Si tratta di un’iscrizione in lingua locale, vista la provenienza e il tipo di alfabeto. In base a questa considerazione, la non leggibilità dell’epigrafe è una grave perdita culturale. L’iscrizione probabilmente era di carattere pubblico e informava sulla realtà socio-istituzionale del centro del Mendolito (così come l’iscrizione della porta urbica). Le numerose riprese fotografiche digitali del pezzo, eseguite in maniera esemplare da Giuseppe Barbagiovanni nel corso della campagna fotografica effettuata il 22 giugno 2004, sono da ritenere una buona base per elaborazioni informatiche: elaborazioni che però, almeno per ora, non hanno portato a risultati esaltanti.
 Cippo Sanfilippo – Scheda
Rinvenimento: Mendolito (Adrano) – Area della porta urbica.
Materiale: Trachite
Condizioni del reperto: superficie fortemente corrosa e profondamente scheggiata.
Dimensioni: altezza totale, 84 cm  - squadrato solo nella parte superiore per un’altezza di 40 cm circa. – La por zione lavorata misura alla base ( 50 x 57) cm, alla sommità (48 x 54) cm - Sulla base superiore, un incavo circolare, del diametro di 32 cm
Datazione: prima metà del V secolo a.C.
Numero Inventario: 12188.
…………………….

L’iscrizione graffita su un vaso, una oinochoe,  di Contrada Poira.
Oinochoe
Rinvenimento: Paternò, contrada Poira. Il reperto fu rinvenuto in una tomba a grotticella artificiale.
Materiale: argilla bruna di fabbricazione locale.
Dimensioni: altezza, 15 cm – diametro piede, 5 cm.
Datazione: nella tomba a grotticella fu rinvenuta anche una coppa attica a figure nere databile al 530 – 520 a.C.. L’Oinochoe dovrebbe quindi essere collocata  in un periodo compreso tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C.
Numero Inventario: 63523



Paternò (Catania) – Vincolo archeologico
Area Archeologica di Poggio Cocala
Provvedimento n. 7540 del 09-11- 1999

Oichonoe a corpo globulare, collo cilindrico distinto e bocca trilobata, piede a disco e ansa a nastro; dipinta a vernice bruna la metà superiore; sul collo sono presenti tre sottili linee bianche orizzontali.
Sulla parte inferiore del corpo del vaso è presente un sequenza alfabetica destrorsa, incisa dopo la cottura e con tratto sottile.
La contrada Poira si trova nell’area collinare che dal Fiume dei Margi va alla valle del Simeto. Nell’area  sono visibili i resti di una città. Si propose, non senza problemi, di identificarla con Inessa 
("Inhssa), la città in cui, come si ricorderà, si rifugiarono gli abitanti greci di Aitna, quando questa cadde sotto il dominio di Ducezio. L’abitato di Poira non fu mai oggetto di uno scavo sistematico.
Uno scavo episodico, eseguito negli anni ’60 del secolo scorso dalla Soprintendenza di Siracusa,  portò alla luce una tomba, del cui materiale di corredo faceva parte una oinochoe a bocca trilobata.
La oinochoe  recava sulla parete, spostata verso la base, una iscrizione graffita dopo la cottura. 


Oinochoe a bocca trilobata, da Poira (particolare)
Secondo Massimo Cultraro il reperto risaliva agli  ultimi decenni del VI secolo a.C.
L’iscrizione…
himii
Tutti i reperti sono di grande interesse storico perché metterebbero in evidenza le condizioni epigrafico-linguistiche locali in epoca arcaica.
In particolare le condizioni linguistiche della città del Mendolito e della cittadella di Poira.
Il corpus epigrafico sembrerebbe testimoniare la tipicità in queste due zone di tracciare iscrizioni a crudo sui manufatti.
Ci troviamo in presenza di un “alfabeto del Mendolito”?
In merito al reperto di Poira, l’iscrizione esprimeva , sempre secondo gli studiosi, l’appartenenza dell’oggetto ad un personaggio.
L’importanza del graffito di Poira  è sul piano squisitamente linguistico.
Graffiti con queste caratteristiche hanno molto spesso lo scopo di esprimere l’appartenenza dell’oggetto su cui si trovano ad un certo personaggio: e contengono infatti nomi di persona o di divinità (al nominativo, o flessi al genitivo o al dativo). Il contesto funerario (e non votivo) del graffito di Poira punta per un nome di persona, del defunto o di un donatore/donatario dell’oggetto. 
Il prof. Cultraro mise in evidenza la possibilità che si trattasse di un nome al genitivo (il caso normalmente impiegato per codificare il possesso), marcato dalla -i finale, come in latino.
Questa ipotesi evidenziava due difficoltà. La prima era legata al rilevamento che nelle iscrizioni dell’area storicamente “sicula” si  rimandava a caratteri delle lingue italiche ma, allo stato attuale delle conoscenze, non sono più sostenibili, come invece si è fatto in passato, rapporti privilegiati con il latino: e il genitivo in -i, all’interno del mondo italico, è solo del latino.
La seconda difficoltà consisteva nel fatto che, al tempo della pubblicazione, non c’erano altri esempi, in iscrizioni dell’area storicamente sicula, di testi anellenici che impiegassero il genitivo in -i.
Il centro indigeno grecizzato di Morgantina ha restituito una serie relativamente cospicua di iscrizioni graffite di età arcaica. In un caso almeno, quello del graffito su una coppa, che suona pibe, cioè (per evidenza, e al di là di ogni ragionevole dubbio) “bevi!”, si è di fronte ad un testo in lingua locale, che imita le esortazioni a bere tipiche delle iscrizioni greche di ambito simposiaco. Questo rende probabile, anzi, metodologicamente preferibile, che la stessa lingua locale si debba riconoscere in quelle iscrizioni arcaiche di Morgantina che non si presentano come greche. E tra queste ve ne sono due che mostrano le stesse caratteristiche del graffito di Poira: presumibile
nome proprio, con uscita in -i. Dunque, un genitivo in -i di tipo latino parrebbe documentato, e in misura comparativamente non trascurabile (tre attestazioni) nella zona. Come questo si possa conciliare con il carattere italico “antilatino” delle iscrizioni locali, a cominciare da quelle del Mendolito, è problema che ancora deve essere risolto.
Anfora a decorazione geometrica da Poira (Paternò - Catania)
Tomba n. 1 (VI – V secolo a.C.)






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Le altre iscrizioni tra cui la Pietra Basaltica incisa che fu rinvenuta vicino alla Grotta Pellegriti, dov’era ubicata un’importante sepoltura.
Le iscrizioni nelle lastre per uso funerario (Contrada Ardichella) e per uso civile negli edifici (sito del Mendolito).
Le altre iscrizioni, tre reperti, conservate nel Museo di Adrano, sarebbero da attribuirsi ad una lingua anellenica:
- due incise su lastre frammentarie di terracotta;
- una graffita sulla parete di un vaso.
A fronte di queste tre iscrizioni, ci sarebbe in sospeso il giudizio su un quarto reperto.
Si tratta di una pietra basaltica che porta due segni: una sorta di freccia orizzontale che punta a destra e, alla destra di questa, un segno complesso, evidente legatura di kappa e alpha. (La pietra che fu rinvenuta vicino alla grotta Pellegriti dov’era ubicata un’importante sepoltura).

Pietra basaltica con segni incisi

Il prof. Manganaro affermò che proveniva dall’area della città greca per poi successivamente affermare come proveniente dal Mendolito. Particolare era la tecnica di esecuzione.  Il tracciato non era ottenuto secondo la normale procedura d’incisione ma ricorrendo ad una sorta di ripetuta  e superficiale “graffitura”.  La lettura del testo “aka” era problematica e il prof. Manganarono la attribuì al siculo.
Probabilmente si trattava di un numero e di una sigla alfabetica presenti nelle iscrizioni greche dette “commerciali”?  Sarebbe quindi un reperto greco?

Le due iscrizioni su lastre di terracotta provenivano dalla località denominata Ardichella, situata in posizione limitrofa, a Nord, all’area urbana nota come “città del Mendolito”.
 

La prima era costituita da due frammenti combacianti, rinvenuti casualmente in occasione di lavori di trasformazione agricola. 

Lastra di terracotta, dall’Ardichella

Il prof. Massimo Cultraro, in base al contesto del rinvenimento, datò il reperto al secondo quarto del V secolo a.C.
L’incisione era a crudo con tratto molto deciso e regolare. Era  costituita da una sequenza alfabetica destrorsa, con lettere alte 7 cm., integra a sinistra….
hol [– – –]
La seconda iscrizione su lastra di terracotta  si trovava, anch’essa, su due frammenti combacianti. 

Lastra di terracotta, dall’Ardichella 
 
Era costituita da una sequenza destrorsa, incisa a crudo, di 4 lettere, alte mediamente 7 cm., di cui solo le prime tre identificabili:
]bab-[.
 Una datazione tra fine VI e V secolo a. C. sia per i caratteri paleografici che per la località di provenienza.
L’importanza delle due iscrizioni, su lastre d terracotta dell’Ardichella, è legata a vari motivi:
- sono tipologicamente simili con due famose lastre iscritte che sono esposte nel Museo Archeologico di Siracusa;
- provengono dall’area della città del Mendolito;
- sono piccoli “corpus” epigrafici che testimoniano, come tipico del sito del Mendolito, la consuetudine di tracciare iscrizioni a crudo su delle lastre.
Si trattava di tegole a copertura di tombe alla “cappuccina”?
Secondo il prof. Cultraro non erano impiegate nelle sepolture e quindi per usi funerari ma erano destinate alla copertura di edifici/strutture del centro abitato.
Questo tipo di iscrizioni non sono da paragonare, per tecnica e funzione, con i bolli delle tegole di Paternò.
Tegole on bolli, provenienti da Paternò, sono presenti nel Museo Archeologico di Adrano.
Il termine “hol […], presente in uno dei frammenti, s’inserisce nella tradizione alfabetica locale, “alfabeto del Mendolito”. Una tradizione alfabetica caratterizzata dalla forma quadrangolare di “omicron” e dal rovesciamento, rispetto alla matrice calcidese dell’alfabeto, di “lambada” e “ypsilon”.
L’altro frammento presenta poche lettere, solo due, con “bab……”..
L’alpha è tipologicamente affine, anche se non identica, a quella canonica dell’alfabeto del Mendolito.
Queste due lastre dell’Ardichella presentano una similitudine tipologica con le iscrizioni, provenienti sempre da Adrano, esposte nel Museo Archeologico di Siracusa che sono definite anelleniche. Questa similitudine ne suggerisce l’autenticità legata alle caratteristiche dell’alfabeto del Mendolito.

Altre considerazioni sui rinvenimenti di lastre fittili.
I rinvenimenti di lastre fittili, con brevi iscrizioni in lingua sicula erano note sin dai primi anni del secolo scorso.
I primi rinvenimenti furono effettuati da Paolo Orsi che li riportò nei suoi quaderni sugli scavi.






A questi primi due frammenti si aggiunsero successivamente altri esemplari, sempre frammentari.
Nel 1989-90 fu rinvenuta una tegola che era di pertinenza ad un contesto funerario.
Secondo gli ultimi dati sarebbero cinque le tegole (o lastre) presenti nel Museo di Adrano e due nel Museo Archeologico di Siracusa.
Malgrado l’impegno di archeologi e di storici resta ancora incerta l’attribuzione dei testi epigrafici del Mendolito alla lingua sicula, così come resta aperta la funzione di queste tegole o lastre che la ricerca storica interpreta, in massima parte, come copertura di tombe.
In ambito indigeno sono note molte iscrizioni anelleniche di destinazione funeraria ma si tratta sempre di stele o lastre litiche impiegate come “sema” (segno) della tomba o come nel caso di un’epigrafe di Licodia Eubea, del portello di una camera funeraria. Di chiara visibilità e dal forte impatto simbolico sono due iscrizioni che si trovano, in questo caso sul corridoio di accesso di una tomba a camera di Santa Febronia (ai margini meridionali della Piana di Catania), forse databili all’epoca arcaica.

Santa Febronia (Palagonia – Catania) – T.15. Pianta e sezione.
Laura Maniscalco 1993 - 94

Santa Febronia (Palagonia – Catania).
T.15 – Iscrizioni sulle pareti d’ingresso – Cordano 1998 – 99.

Ma perché è importante sapere se le tegole o lastre siano di pertinenza all’ambito funerario o se destinate, come affermò il prof. Cultraro, alla copertura di edifici?
Sapere la loro destinazione è importante sia dal punto di vista puramente archeologico ma soprattutto sul piano epigrafico e linguistico.
La pertinenza ad usi funerari permetterebbe di restringere l’indagine sulle iscrizioni perché la formula onomastica bimembre sarebbe legata al nome del destinatario della sepoltura.
Le iscrizioni del Mendolito non hanno alcun riscontro nell’ambito delle iscrizioni anelleniche di carattere funerario in Sicilia.
Le due tegole conservate nel Museo di Siracusa,  le immagini sono su riportate,  furono inserite da Paolo Orsi
Nel contesto archeologico locale…
I resti in questione furono recuperati nella proprietà Sanfilippo, che si estende ai
margini del settore meridionale della città antica, all’interno della cinta muraria.
L’Orsi non fece alcuna citazione sulla loro funzione e neanche ad una probabile destinazione d’uso funeraria.

Adrano – Mendolito
Planimetria generale dell’abitato d’età arcaica
1-     Porta Sud con l’iscrizione;
2-     Fondo Sanfilippo (area di provenienza delle tegole PID 576 – 577);
3-     Ripostiglio di bronzi (Fondo Ciadamidaro);
4-     Acropoli;
5-     Necropoli Meridionale di Sciare Manganelli;
6-     Località Ardichella (area di provenienza delle tegole con iscrizione o bollo);
7-     Fondo Neri (area di rinvenimento di un’iscrizione, oggi perduta).

Negli anni ’60 il prof. G. Manganaro ipotizzò, per la prima volta, un uso funerario delle tegole.
Il rinvenimento delle tegole in Contrada Ardichella era, per il prof. Manganaro, una prova del loro uso funerario. La contrada era nota agli archeologi per il rinvenimento di corredi funerari.
Questo frammento di tegolone iscritto, rinvenuto in zona Ardichella
insieme con vasi funerari di tipo siculo,
esposti al Museo di Adrano, può confermare il carattere funerario
delle iscrizioni degli altri due tegoloni editi da P. Orsi».
Negli stessi anni la tesi del Manganaro fu accettata da M. Lejeune secondo il quale
anche per alcune tegole con bollo da Paterno,
che venivano interpretate come lastre di chiusura poste su sarcofagi.
La tesi dell’uso delle tegole nella sfera funeraria venne quindi accettata dagli storici. Un successivo reperto, frammento di una tegola con iscrizione rinvenuto sempre in contrada Ardichella, impiegato come elemento di copertura di una tomba a fossa, confermò ulteriormente la tesi.
La correlazione tra le tegole con iscrizione e l’ambito funerario fu stabilita solo sulla presunta analogia delle lastre fittili con quel tipo di copertura impiegato nel sistema della tomba ‘alla cappuccina’.
L’archeologia è:
-        conoscenza;
-        tutela, consapevolezza del significato del patrimonio culturale di cui siamo custodi;
-        partecipazione… siamo custodi di questo patrimonio culturale, ma non inerti, non passivi. Il patrimonio culturale, compreso quello archeologico, ha un senso, e una possibilità di futuro, solo se si riesce a preservarne il valore sociale.
La conoscenza è ricerca, apprendimento che permette di ampliare e modificare vecchie conoscenze o realtà storiche.
Il famoso archeologo Andrea Carandini scrisse in un suo quaderno di scavi,,,
In fondo l’archeologo […] isola quel che si è salvato […] per riorganizzarlo, come se si trattasse di reidratare un fiore essiccato.
Per l’archeologo Roberto Sirigu..
L’indagine archeologica, rilevando le tracce materiali sepolte…
è una risposta della psiche umana all’angoscia della morte […] l’illusione
di poter ripercorrere il tempo a ritroso per tornare a dare vita,
a “reidratare‟ il “fiore essiccato‟ della realtà materiale.
.. ridare voce ad antiche sapienze umane e del loro agire…
Una scoperta, avvenuta a Centuripe, sconvolse le tesi sull’uso funerario delle tegole.
Era la seconda iscrizione arcaica  dopo quella dell’askòs iscritto rinvenuto a Centuripe ed esposto purtroppo nel Museo di Karlsruhe.  Entrambe le iscrizioni in lingua Sicula.
Una tegola rinvenuta a circa 3 km ad Ovest dell’abitato in corrispondenza della sella posta tra i colli “Ficarazza” e “Ffucamuli”, entrambi i siti frequentati sin dall’epoca preistorica.

Nell’area sono attestate le seguenti fasi:
- preistorica, contraddistinta da frammenti vascolari risalenti al Bronzo Antico (2200 – 1400 a.C.);
- arcaica, due tombe a grotticella, con pianta rettangolare e volta piana, che purtroppo sono state saccheggiate da tombaroli mafiosi. Frammenti vascolari (uno di coppa ionica databile al 520 – 500 a.C.; altri dello stile di Licodia Eubea (Monte Casasia – Ragusa); un frammento di una gorgonia a rilevo e il laterizio della ricerca;
- ellenistica. La fase ellenistica è costituita da frammenti ceramici e resti di ossa umane che attestano l’insediamento di una necropoli con tombe terragne, purtroppo saccheggiate, che in base all’esame del materiale rimasto sul terreno, dovrebbe essere collocata al primo ellenismo. Una grande quantità di laterizi databili tra l’età ellenistica ed imperiale (tegole curve, mattoni quadrangolari e circolari), una mola circolare, uno di macina (tipo Olinto – macina rettangolare) e uno di “trapetum” ( l’elemento fisso del mortaio) documentano, nelle aree limitrofe, l’esistenza di un insediamento a carattere agricolo.


L’epigrafe sulla tegola piana fu tracciata a crudo.
Il frammento iscritto era pertinente al lato inferiore destro, presenta il consueto incavo rettangolare sulla faccia posteriore, di una tegola piana a margini rilevati.

Bordo laterale di una tegola piana a margini ispessiti,
con parete di incavo oblunga sulla faccia posteriore, in corrispondenza del marine.
Argilla  rosso mattone a nucleo interno nerastro, con pietrisco nero nell’impasto.
Ingobbio giallastro.
Misure: (13,8 x 9,1) cm – spessore cm 2,5 e 4,3 (al margine).
La scritta, con andamento sinistrorso, fu tracciata parallelamente al bordo laterale rialzato, sulla faccia anteriore, nell’argilla ancora fresca e prima che fosse steso l’ingobbio.
Nonostante il cattivo stato di conservazione e la grafia poco accurata, è possibile riconoscere un segno ricorrente nelle iscrizioni anelleniche della Sicilia orientale e meridionale,  ma finora non attestato a a Centuripe….
“l’alpha” a freccia 
e forse anche il
digamma
(In base al sanscrito, l’alpha a freccia dovrebbe essere una “A” mentre il diagramma una “C”).
La lettura dell’epigrafe fu interpretata come....
…… einav[i?.....]
La seconda lettera potrebbe corrispondere ad un’epsilon anche se non si ha la traccia dell’asta mediana.
Un’altra tegola fu rinvenuta nel territorio di Licodia Eubea ed una anche a Randazzo.
Sembra che entrambe siano state adoperate per la copertura ti tombe alla “cappuccina”. Mentre l’idioma delle tegole del Mendolito è anellenico, quella di Licodia Eubea presenta un nome  che è siculo mentre quella vista da Paolo Orsi nel Museo Vagliasindi di Randazzo recava un’iscrizione che fu ritenuta greca dallo Schmoll.
Paolo Orsi nel suo taccuino di scavi del Mendolito (1909 – 18) citò le due lastre fittili oggi conservate nel Museo di Siracusa. Entrambe furono rinvenute nel medesimo luogo all’interno della proprietà Sanfilippo.

Non si conosce l’esatta indicazione del rinvenimento ma alcuni punti sarebbero importanti:
1- furono rinvenute a ridosso del tratto meridionale del muro di fortificazione;
2- la loro provenienze dal sito dell’abitato arcaico;
3- facevano parte del medesimo contesto del quale però si ignora la destinazione;
4- la natura domestica dei reperti. Le indagini condotta dall’importante archeologa Paola Pelagatti e quelle successive del 1988 – 89, dimostrarono l’esistenza di diversi livelli architettonici da inquadrare tra il VII e gli inizi del V secolo a.C. e tutti riferibili a strutture domestiche. Dopo questa fase l’abitato fu abbandonato e non f trovata traccia di una possibile riutilizzazione dell’area a scopo funerario. Le uniche tombe erano quelle poste a circa un centinaio di metri a Sud della porta urbica che delineavano quella che fu chiamata come “necropoli meridionale”.
Una terza tegola con iscrizione fu rinvenuta a Nord della proprietà Sanfilippo ma andò perduta.
L’Orsi, nell’agrumeto dei fratelli Neri, trovò i resti di alcune strutture abitative e numerose frammenti di tegole fittili a listello. Una di queste presentava un inscrizione. Fu consegnata al Museo Simenziano di Adernò (Adrano) ma il reperto scomparve.
Alle fine degli anni ’50 furono trovate altre tegole, sempre frammentarie, con iscrizioni e consegnate al nuovo Museo di Adrano.
Provenivano sempre dalla contrada Ardichella, posta a Nord-est del sito del Mendolito.
Il sito dell’Ardichella è un complesso autonomo che si differenzia dal Mendolito sia per la cronologia, per la natura dei reperti rinvenuti e per la topografia perché posta al di fuori del perimetro dell’antica città.

In questa contrada, costeggiata dalla strada provinciale n. 22, sin dall’800 furono rinvenute delle tombe databili tra il I ed il III secolo a.C.
Sepolture del tipo a fossa con copertura di tegole e forse in rapporto con un complesso di abitazioni che fu citato da Petronio Russo agli inizi del XX secolo.
In periodi recenti furono condotti, con grande passione, delle ricerche da parte del gruppo archeologico locale e nella proprietà La Mela fu trovato uno scarico di tegole con  iscrizione impressa su bollo che erano di pertinenza ad una struttura abitativa.
 Successivamente, a circa 200 metri dallo scarico di tegole, nella proprietà D’Agate, fu scoperta una tomba.
La tomba era del tipo “alla cappuccina” e presentava una lastra con iscrizione. Fu trovato anche il relativo corredo ceramico che fu datato 450 a.C.
In una proprietà vicina (famiglia Fragalà) venne recuperata una lastra fittile forse in un contesto funerario. La lastra presentava un iscrizione, incisa  prima della cottura, con la scritta
BAB […]
Sempre nello stesso luogo fu trovata anche una base con iscrizione. Si trattava di una base di calcare e secondo l’epigrafe fu datata III – II secolo a.C.. Fu recuperata nel 1898, al di fuori del sito del Mendolito, nella proprietà Reale, sempre in contrada Ardichella. Nella contrada esisteva quini un abitato di epoca tardo – classica.
Gli archeologi confrontarono le tegole rinvenute nel Mendolito con quelle di contrada Ardichella.
Le differenze riguardavano il campo:
-        epigrafico; le tegole sono del tipo piano con bordi laterali rialzati e presentano, nella faccia interna, un incavo rettangolare entro cui è impresso a rilievo un bollo composto di una o più lettere e, in qualche caso, di segni o motivi geometrici. Si tratta di un importante elemento che differenzia morfologicamente questo gruppo di tegole dai due esemplari della proprietà Sanfilippo al Mendolito, che invece presentano le iscrizioni incise prima della cottura sulla faccia esterna
-        cronologico; Il gruppo di tegole da contrada Ardichella trova un prezioso parallelo nelle iscrizioni su bollo dall’abitato indigeno di Civita, presso Paternò, sempre in area etnea, che gli editori collocano nell’ambito del V secolo a.C.
-        d’uso. In entrambi i casi, le tegole con bollo risultavano pertinenti alla copertura di edifici domestici e le iscrizioni impresse sull’incavo interno devono essere interpretate come lettere per il montaggio delle lastre o segni di identificazione della fabbrica del figulo, secondo una pratica riconducibile al mondo greco coloniale.
(L’autore, inoltre, menziona una tegola con bollo da Lentini, che potrebbe offrire un ulteriore dato a favore dell’ipotesi che l’impiego di tegole con iscrizioni impresse nell’incavo interno sia una pratica nata e diffusa nell’ambito delle colonie calcidesi. Il tema dell’introduzione in Sicilia delle tegole con bollo non è stato ancora sufficientemente indagato: i dati relativi all’entroterra etneo confermano la datazione dei pezzi più antichi alla prima metà del V secolo a.C., ma non andrebbe escluso che tale pratica possa essere ricondotta al tardo-arcaismo. In ogni caso, si tratterebbe di un sistema di contrassegno riconducibile al mondo greco e trasmesso in Sicilia attraverso l’esperienza delle colonie corinzie, come sembrano confermare anche i dati più recenti relativi alla Grecia centrale: R. C. S. Fe l s c h , Further stamped rooftiles from Central Greece, Attica and the Peloponnese, in Hesperia LIX, 1990, pp. 301-323).
L’iscrizione della lastra fittile di proprietà Fragalà con l’iscrizione
BAB[…]
le lettere risultano tracciate prima della cottura, sulla faccia esterna della tegola alla stessa maniera delle due tegole del Mendolito (proprietà Sanfilippo).
La vicinanza del sito con il presidio Stissi, dove fu trovata una tomba “alla cappuccina” suggerì una pertinenza della tegola ad un contesto funerario.
In merito alla tegola del presidio Stissi,  faceva parte come elemento di copertura di una tomba “alla cappuccina” che si colloca nel 450 a,C.. ma la tomba fu costruita riutilizzando tegole frammentarie di diverso spessore e tecnica, probabilmente prelevate da qualche scarico.
Il riutilizzo di materiale di scarto non era raro nel sito del Mendolito. Paola Pelagatti individuò una tomba “alla cappuccina”, posta al di fuori della porta meridionale della città arcaica, nella quale fu riutilizzato parte di un  kalypter hegemon proveniente da quella che doveva essere un importante struttura domestica.

Gela. Kalypter hegemon, probabilmente proveniente da un edificio di culto,
riutilizzato come elemento di copertura in una sepoltura
nella necropoli di Predio Russo. VI secolo a.C.
Nel comprensorio etneo famoso il caso  delle stime dipinte rinvenute nella contrada Cumma di Paternò.



Queste sime erano di pertinenza di un importante edificio templare della seconda metà de VI secolo a.C. e furono riutilizzate come tegole di copertura di tombe tarde.
L’archeologo Paolo Orsi, nel corso di una sua visita a Paternò, nella primavera del 1903, visitò la contrada Cumma, a Sud-est della rocca normanna. Nella contrada Cumma l’Orsi  credeva di aver localizzato la necropoli greca di Hybla. Oggi la contrada Cumma è interamente inglobata all’interno del moderno abitato e ogni reperto è andato perduto.
È importante capire cosa sia la “sima”. In archeologia è modanatura incavata superiormente che corona la trabeazione dei templi greci e romani lungo i lati e il frontone. È  destinata a raccogliere le acque piovane, che vengono poi scaricate fuori dall’edificio attraverso doccioni posti a intervalli, per lo più a forma di teste di animali (leoni, arieti e sim.).

La Sima con la Testa di Leone di Selinunte


Una testa di leone in marmo prezioso intatta e in perfetto stato di conservazione. È un’antica sima, ovvero l’estremità superiore del tetto di un tempio, rinvenuta a Selinunte dall’archeologo Jon Albers durante le ricerche condotte dall'Università di Bochum nell’agosto del 2023.
Un reperto archeologico imponente, alto circa 62 centimetri per un peso di oltre 250 chili. In passato furono rinvenute alcune decorazioni molto grandi, circa 70 centimetri d’altezza, provenienti dal Tempio di Eracle ad Agrigento e dal Tempio della Vittoria a Himera, realizzate in calcare locale di alta qualità,. La sima di Selinunte è più preziosa data la sua fattura in marmo importato dalle isole greche, forse da Paros.
Un materiale estremamente raro, se si considera che nel IV secolo a.C. queste decorazioni erano realizzate in terracotta e successivamente in pietra.
La sima aveva la doppia funzione di abbellire il tempio e di raccogliere l'acqua piovana
che poi veniva fatta defluire da beccucci a forma di testa di leone.
«Questa è una scoperta straordinaria, se si pensa che sono soltanto nove i templi del V secolo con una sima in marmo greco in tutta l’Italia meridionale e in Sicilia”.
Fu trovata nella zona portuale e nelle vicinanze del quartiere delle fornaci dell’antica città.
Questo permette di avanzare anche delle ipotesi sugli importanti rapporti commerciali
della città e sulle capacità artistiche degli abitanti.
Il blocco non risulta completato a causa della mancanza del beccuccio per lo smaltimento dell’acqua e della criniera posteriore del leone. Manca anche la decorazione
sulla parte superiore della lastra che non fu completata.
Si avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un tetto in marmo unico in Sicilia.

Le tegole con bollo dell’Ardichella sarebbero quindi da collocare nel V secolo a.C. quando il sito del Mendolito era abbandonato.
L’abbandono del sito sarebbe confermato dalle esplorazioni archeologiche nella Porta Sud . Nelle esplorazioni furono rinvenuti frammenti di ceramica a vernice nera della fine del V  secolo a.C. che giacevano sullo strato di crollo della copertura del vano d’ingresso.
È probabile che dopo l’abbandono del Mendolito, una piccola comunità si sia insediata più a Nord forse non lontano da un luogo di culto che resterà in uso fino al III – II secolo a.C.
In conclusione si può affermare come le due lastre fittili con iscrizione  e la terza perduta, provenienti dal Mendolito (predio Sanfilippo)  si possono considerare come delle tegole.
Infatti queste tegole sono a superficie piana con listello laterale distinto e trovano un preciso confronto con una classe di manufatti che erano molto diffusi in Sicilia. Diffusi nei centro indigeni ed anche in quelli greci, almeno dalla seconda metà del VII secolo a.C.
Queste tegole sono frammentarie e questo non permette di ricostruire le dimensioni originarie.
Le due lastre o tegole,  pur essendo trovate nel predio Sanfilippo non provengono dal medesimo manufatto cioè non furono adoperate per la copertura del medesimo edificio.
Erano due pezzi differenti per tecnica e morfologia. Differenti anche per la posizione delle iscrizioni che in una  fu tracciata nel listello mentre nell’altra al di sotto del bordo.
Resta valida  la tesi che si riferiscano ad un medesimo contesto cronologico confermato dall’analisi epigrafica.
Resterebbe da scoprire  un aspetto affascinante ed importante: a quale struttura erano destinate?
Il predio Sanfilippo occupa un’ampia terrazza subito a ridosso del tratto meridionale del muro di fortificazione arcaico, dove si apre la porta urbica con la nota iscrizione.
In questa area furono trovate un numero rilevante di tegole piane e kalypteres (coprigiunti) che erano destinati alla copertura di edifici pubblici di una certa grandezza.

Ricostruzione ipotetica del tetto del Tempio “della Vittoria” di Himera.

Le campagne di scavo dell’archeologa Paola Pelagatti, negli anni ’60, permisero di isolare nell’area un livello di tegole pertinenti alla copertura del vano d’ingresso della porta urbica.
Erano lastre piane a listello simili alle due tegole rinvenute dall’Orsi. Simili non solo nella tecnica di esecuzione ma anche nella loro morfologia.
Questo dimostra anche l’esistenza di contatti tra Greci ed Indigeni dato che quest’ultimi adottarono un sistema di copertura fittile di tipo greco che era pertinente ad una struttura difensiva che rientrava nel panorama architettonico locale.
Nel predio Sanfilippo, durante la campagna di scavi condotta nel 1988 – 90, a circa 150 metri a Nord-Est della porta urbica furono portate alla luce le fondazioni di un grande edificio costruito in modo accurato. Non fu possibile ricostruire  la pianta dell’edificio a causa della limitata estensione dei saggi. L’edificio presentava una copertura con tegole fittili trovate in posizione di crollo.
Furono rinvenuti alcuni kalypteres hegemones di grandi dimensioni, i frammenti di una casetta pertinenti ad una sima frontonale che era decorata con una fascia di astragali e un altro kalyptere a maschera gorgonica (che rientra nei tipi tardo arcaici noti nei vicini siti dell’area calcidese).
La presenza di questi reperti e il ricco rivestimento fittile fecero avanzare l’ipotesi di un edificio di carattere pubblico databile nella seconda metà del VI secolo a.C. e quindi contemporaneo al momento di costruzione o di monumentalizzazione della Porta Sud ( come attestano la costruzione delle due torri a pianta semicircolare, di tipo greco, e l’inserimento della iscrizione pubblica).
Il settore a ridosso della porta meridionale era uno spazio urbano molto importante. Questo aspetto si rileva dagli appunti dell’Orsi che nella proprietà Sanfilippo segnalò la presenza di elementi architettonici in basalto:  alcuni capitelli a doppia voluta e resti di colonne a sezione ottagonale, che lasciarono intuire l’esistenza di un ampio edificio pubblico
Nel settore a ridosso della porta urbica andrebbe localizzato un gruppo di edifici pubblici di
una certa importanza, databili nella seconda metà del VI sec. a.C. All’interno di questo
contesto, pertanto, andrebbero inserite le due tegole con iscrizione allo scopo di proporre
una più corretta lettura della loro funzione e destinazione.
Scoprire la destinazione d’uso di questo edificio sarebbe una scoperta di gran valore storico.
Probabilmente le iscrizioni poste sulle tegole dell’edificio pubblico non sarebbero legate al nome del ceramista ma al personaggio che aveva sostenuto le spese di copertura dell’edificio.
Un altro aspetto importante sarebbe quello di scoprire il sistema di copertura degli edifici sicelioti, in particolare dei luoghi di culto.
Per affrontare il problema sarebbe importante prendere visione di un reperto dal grandissimo valore storico: il modellino fittile di sacello rettangolare di Sabucina.


Sabucina - reperto che raffigura un sacello


Si può notare come le tegole o lastre sono disposte con i listelli centrali coperti da coppi coprigiunto e quelli laterali coperti dalle sime frontali. Questo sarebbe un sistema, detto dagli archeologi, “eolico – siciliano”. Un sistema che univa coppi convessi di tipo laconico e tegole piane di tipo corinzio. Il modellino proviene da un centro indigeno ma deve fare riflettere il fatto che riproduce un sacello di tipo greco con la copertura fittile e con l’uso di tegole e sime frontali. Gli indigeni avevano assimilato i modelli tipici dell’architettura greca. L’impiego di tegole in cotto, molto pesanti, suggerivano di abbassare la pendenza delle falde e quindi le due lastre iscritte non sarebbero state visibili.
Un’altra ipotesi era la collocazione delle lastre nel primo filare dello spiovente ma in questo caso l’iscrizione non risulterebbe leggibile perché capovolta.
Nel caso che la lastra fosse stata impiegata come “geison” orizzontale, pur essendo le iscrizioni visibili, si sarebbero potuto leggerle solo guardando dal basso, quindi in una posizione decisamente innaturale.
(Il Geison è quella parte della trabeazione che sporge dalla sommità del fregio nell'ordine dorico.
Nell’ordine ionico il geison è costituito da una fascia liscia coronata da un ovolo e dotata di un soffitto profilato a cavetto, che si raccorda alla sottocornice con un altro ovolo.
Forma il bordo esterno del tetto sui lati di una struttura con tetto spiovente).
La trabeazione dell’ordine dorico

Ordine dorico

Ordine ionico

L’ordine Corinzio risale  al V secolo a. C e raggiunge la sua massima diffusione in età ellenistica. Sarà utilizzato molto dagli architetti Romani. Simile allo ionico, presenta un capitello caratterizzato dalla presenza di un motivo decorativo a foglie di acànto.


Ordine Corinzio

Se la lastra fosse stata impiegata come geison orizzontale, sarebbe stata leggibile osservandola dal basso in una posizione non naturale.
Pur appartenendo le due lastre a tegole di coperture è probabile che non siano state utilizzate per la copertura di un edificio.
Molte le ipotesi sulla loro destinazione d’uso tra cui quella di rivestimento fittile di un altare o di una banchina.

Schizzo di una base per offerte rivestita da lastre fittili

Malgrado diversi rinvenimenti archeologici manca una documentazione scientifica sugli altari presenti nei santuari indigeni della Sicilia arcaica. Strutture adoperate nei rituali.
Nell’area sacra di Monte Saraceno (Ravanusa) è presente un sacello, datato alla seconda metà del VI secolo a.C., che presenta nel centro del vano una struttura (bassa e dalla pianta quasi quadrangolare (circa 1 metro per lato), rivestita da piccole pietre ed argilla. La struttura presenta una lastra fittile, priva di listello, che forse aveva una funzione di rivestimento.
Monte Saraceno (Ravanusa)
Un confronto si potrebbe avere con il Santuario di Gravisca, presso Tarquinia.
Qui fu rinvenuta una cista costruita con tegole fittili poggiate per il taglio e destinata a contenere un deposito votivo.
Esempio di cista.
Il confronto con il sito di Monte Saraceno  non fu considerato appropriato dato che il contesto culturale con il Mendolito sarebbe differente.
Il confronto con il Monte Saraceno potrebbe invece avere una sua validità considerando la lastra non come copertura di un altare ma come supporto in muratura per offerte o dediche.
Un’ipotesi suggestiva dato che creerebbe un rapporto tra il supporto e l’iscrizione.
Potrebbe essere anche una lastra collocata su una parte dell’edificio e quindi non come elemento di copertura ma come rivestimento parietale.
Un esempio di utilizzazione delle tegole  legato al tempio di A di Himera.


https://virtualplus.regione.sicilia.it/multimedia/?idsito=5/&idpoi=2/
Il tempio presentava una copertura di tegole in cotto e alla base del muro, era presente  un rivestimento di tegole fittili. Il paramento esterno presentava su tre lati una fascia di solenes (con i bordi rialzati) fittili (0,80 x 0,48)m, ciascuno disposto per coltello, con la funzione di ‘fascia battiacqua’ per salvaguardare l’elevato in mattoni crudi e ridurre i danni provocati dall’infiltrazione di acqua piovana. Si trattava di vere e proprie tegole, come indica la presenza dell’incavo rettangolare sul bordo interno, e non di lastre di forma differente.
solenes
Questo spiega sia il diverso utilizzo delle tegole   sia una certa influenza dal Peloponneso attraverso la mediazione delle colonie greche.
La tecnica di rivestimento adottata nel tempio imerese sarebbe il primo esempio nell’isola dell’impiego  di lastre piane a listello, del tutto simili alle tegole del tetto, come elemento edilizio autonomo, integrandosi in un sistema costruttivo che prevedeva uno zoccolo litico su cui si elevava una parte in mattoni crudi.
( L’ipotesi che nel centro del Mendolito le strutture di epoca arcaica fossero costruite con uno zoccolo in pietrame che supportava un elevato in mattoni crudi trova un prezioso elemento di sostegno nell’evidenza del vicino abitato indigeno di Monte Castellacelo di Paternò, dove tale tecnica edilizia è documentata fin dal VII sec. a.C.).



Π considerevole spessore delle lastre e la disposizione delle iscrizioni su un supporto, che necessariamente doveva essere posto per coltello, trovano una propria coerenza nella proposta di interpretare questi manufatti come parti del rivestimento di un edificio,  solo in tal modo le iscrizioni sarebbero risultate visibili e leggibili.
In merito alle iscrizioni, furono tracciate al momento della fabbricazione e quindi prodotte nell’officina del figulo (vasaio). Si tratta quindi di manufatti creati per un preciso scopo.
La letteratura sull’organizzazione delle fabbriche di laterizi nelle colonie greche è molto scarsa. I dati riferiti alla Grecia continentale dimostrerebbero come fosse costosa la produzione di tegole.
La realizzazione di una tegola per il santuario di Istmia (sull’istmo di Corinto e dedicato a Poseidone), del peso e delle dimensioni di quelle del Mendolito, tenendo conto dell’intero ciclo di produzione (preparazione, essiccamento, eventuale decorazione, cottura) avrebbe richiesto tre o quattro giorni di lavoro.  Come indica la documentazione sul mondo italico, le iscrizioni, sia quelle interpretate come marchi di fabbrica che quelle dedicatorie, venivano tracciate al momento di essiccamento dell’argilla, prima della cottura. 

Tempio di Istmia (Corinto) dedicato a Poseidone

L’iscrizione, per la sua posizione  sulla faccia a vista della lastra, doveva avere una sua importanza legata al manufatto sul quale era posizionata.
Poteva essere un edificio pubblico e in questo caso  avrebbe espresso il nome  e il gentilizio della persona da ricordare oppure anche il nome del fabbricante delle lastre. Questa formula era molto frequente in epoca classica ed ellenistica ma molto rara nella Sicilia arcaica.
Uno dei pochi casi si ritrova in un’antefissa delle necropoli di Rifriscolaro di Camerina.

Necropoli di Rifriscolaro (Camerina – Ragusa)
In un’antefissa era presente il nome “Oiopos”, cioè il fabbricante delle lastre.
Anche in questo caso i caratteri  dell’iscrizione rimandano al mondo corinzio e quindi estraneo all’ambiente indigeno.
In Grecia la consuetudine di scrivere su terrecotte architettoniche era molto comune. Venivano impressi i nomi anche di personaggi mitici o anche singole lettere e numeri che richiamavano le divinità.
Un rituale comune nella Sicilia greca  con l’uso di segni e numerali per agevolare la messa in opera del rivestimento fittile come a Selinunte, Gela e Siracusa ma mai in ambiente indigeno.
Se l’uso di apporre lettere o brevi iscrizioni sulle lastre di rivestimento di edifici pubblici in Sicilia rimane un fatto isolato e limitato ai centri greci, diverso è il significato da attribuire alle due iscrizioni del Mendolito che invece appartengono ad un contesto indigeno, anche se fortemente permeato di influenze culturali provenienti dal vicino mondo calcidese di Katane.
Nell’iscrizione PIO 576,
Siracusa, Museo Archeologico Regionale. 
Tegole fittili con iscrizione dal Mendolito di Adrano:
Lastra PID 516.

scomponendo il testo in
dohit im rukes hazsuies,
si avrebbe forse la formula arcaica che codifica il ruolo del possessore nelle due possibili varianti:
“dà questo Ruke Hazsuies”, oppure “dono di Ruke Hazsuie”.
Le due iscrizioni del Mendolito sarebbero da collegare  con un dono.

Siracusa, Museo Archeologico Regionale. 
Tegole fittili con iscrizione dal Mendolito di Adrano:
Lastra PID 577;


Le epigrafi  furono quindi apposte su elementi architettonici del rivestimento fittile e si differenziano da altre categorie testuali di tipo occasionale che riutilizzavano laterizi in giacitura non primaria.
Il mondo etrusco-italico della fine del VI secolo ci fornisce preziosi esempi sull’uso di apporre nomi personali o di divinità sul rivestimento fittile di edifici pubblici e le complesse iscrizioni del Mendolito restano un caso isolato e privo di confronti nell’ambito siceliota. Accettando l’ipotesi che le lastre facessero parte del rivestimento esterno di un edificio, verosimilmente un tempio, allora sarebbe lecito attendersi non tanto il nome del fabbricante, quanto quello di personaggi connessi alla natura stessa dell’edificio. 
V. Pisani nella sua ricerca affermò come le iscrizioni fossero delle dediche votive di magistrati ad una figura divina.
Magistrati che erano a capo di una importante struttura militare, a presidio della Porta Sud del Mendolito, e che in alcuni casi commissionavano, facendo proprio l’onere finanziario, la manifattura di tegole destinate alla copertura di edifici pubblici.
I testi epigrafici del Mendolito potrebbero essere quindi iscrizioni dal valore politico. I nomi
personali seguiti dal gentilizio, pertanto, andrebbero interpretati come quelli di magistrati o di membri di una specifica struttura cittadina.
La ricostruzione del contesto di provenienza delle tegole con iscrizioni e la loro sicura pertinenza all’ambito urbano e non funerario, come erroneamente suggeriva la tradizione storiografica, offrono nuovi e sorprendenti indizi per tentare una prima valutazione dell’anonimo centro del Mendolito nel quadro delle forme di contatto tra comunità indigene e mondo greco coloniale. Nel settore meridionale della città  doveva essere presente un importante zona di interesse pubblico. Gli elementi architettonici, tra cui capitelli a volute e parti di colonne scanalate segnalati nella proprietà Sanfilippo, erano certamente in rapporto con edifici di una certa complessità planimetrica e di apparato, che lascerebbero intravedere una possibile influenza calcidese, forse mutuata attraverso la vicina Katane. Anche la pertinenza a questo sito del cippo con iscrizione menzionato in
precedenza, di cui si sono privilegiati per lo più gli aspetti epigrafico-linguistici, mentre la sua precisa localizzazione non ha avuto il dovuto rilievo, è un fatto di una certa rilevanza in termini di strutturazione urbana, dal momento che offre un ulteriore dato in direzione della configurazione di questo settore della città come sede di attività politico istituzionali e forse anche religiose.
Un altro aspetto sovente ignorato è il fatto che a meno di m. 150 a nord-ovest della proprietà Sanfilippo, lungo l’asse che si diparte verso nord dalla porta urbica in cui è collocata la nota iscrizione, si estende il fondo Ciadamidaro, dove nel 1908 venne scoperto il copioso deposito di bronzi.  Nell’area fu anche rinvenuto una testa fittile di cavallo che probabilmente faceva parte di un acroterio fittile.
(L’acroterio è un elemento architettonico, decorato o figurato,  che corona il vertice e gli angoli del frontone nei templi antichi).
L’Orsi annotò nei suoi taccuini come il ripostiglio era in relazione con un complesso di abitazioni di epoca arcaica, con pavimento in stucco rosso e copertura con rivestimento fittile di tipo greco. Non si conosce la natura e lo schema planimetrico delle strutture, ma il rinvenimento nella stessa area di un capitello a volute ioniche in trachite e di una antefissa a protome leonina suggerì di collocare in questo punto un sacello. Infatti, come annotò R. Μ. Albanese Procelli, l’antefissa si inserisce in una tradizione coroplastica maturata nei centri calcidesi, come Naxos e Zancle, e destinata a costituire uno degli elementi più significativi del sistema di rivestimento fittile di edifici sacri nel tardo arcaismo.
Poco a nord del fondo Ciadamidaro si estende una bassa altura che sembra prestarsi alla funzione di acropoli del centro.  Sulla sommità di essa P. Orsi annotò la presenza di un certo numero di elementi architettonici in pietra lavica, tra cui basi di colonne a sezione prismatica e capitelli «come quelli della proprietà Sanfilippo». All’interno di questo specifico contesto topografico dovrebbero essere interpretate le lastre con iscrizioni PID 576-577: anche se non si è in grado di stabilire con sicurezza la loro pertinenza ad un edificio templare, oppure ad una base per offerte. In ogni caso le due tegole dovrebbero rientrare  all’interno di quel vasto ed articolato complesso di elementi che qualificano il settore a ridosso della porta urbica meridionale come il più importante polo istituzionale e religioso dell’anonima comunità del Mendolito.
Massimo Cu l t r a r o

Epigrafe apposta su un tegolo funebre rinvenuto in territorio di Adrano
DVIHTIMIRUKESHAISHUIARESESANIRESBE  (.lacuna)
Si propone la seguente suddivisione:
-        DV         tu
-        IHITI       chiamare
-        MI          me
-        RUKE    mistero, segreto, silenzio
-        SHAI     cercare; in tedesco “suchen” significa cercare, ricercare, andare in cerca, fare ricerca.
-        RESESANIRES   viaggio nel regno del sole; in tedesco “reisen” significa viaggiare e vi sono molte parole composte con questo lessema: Reise'sack, sacca da viaggio; Reise'wagen, carrozza da viaggio.
-        BE.      forse il nome del deffnto
Probabile traduzione:
MI CHIAMASTI A PARTECIPARE DEL MISTERO (dell'aldilà). INTRAPRENDI ORA IL TUO VIAGGIO VERSO IL SOLE, BER. (nome del defunto).
……………………..
Altra epigrafe
DOEITIPHAKEBEZELNIPEZB.
-        DO: tu
-        EITI: chiamato, nell'accezione di invocare
-        PHAKE: nome del defunto
-        BEZEL: enumerare
-        NIPEZB: grado parenterale del defunto con coloro che gli hanno dedicato l'epitaffio
TU (morte) HAI CHIAMATO PHAKE, NOSTRO CONGIUNTO E LO HAI AGGIUNTO (enumerato) AL NUMERO (dei morti).
Si sottolinea che la simbologia sicana, incisa su numerosi manufatti, di cui il territorio del Mendolito è cosparso, dalla spirale alla ruota del sole, dal sole alle croci potenziate, è perfettamente in sintonia con il concetto dell'aldilà espresso nelle epigrafi funebri.
La traduzione delle epigrafi, al di là delle ipotetiche interpretazioni, dovrebbe stimolare  la nascita di un centro studi telematico sulla lingua sicana.
Francesco Branchina

....................................

Le Iscrizioni Perdute
Nel territorio di Adrano furono recuperate numerose iscrizioni greco-romane ma di queste sono rimaste solo un esiguo numero perché molte sono andare perdute (riconosciute solo attraverso antichi testi) o si trovano in altri musei anche all’estero.
Non tutte provengono propriamente da Adrano ( l’antica Άδρανόν - Hadranum) ma anche dall’area del Mendolito e dal territorio della Valle del Simeto.
I testi epigrafici sarebbero tutti in greco tranne uno e cronologicamente sarebbero da collocare al periodo ellenistico e romano.
L’unica iscrizione latina  proviene da Adrano ma è molto danneggiata e quindi non facile da interpretare.  La traduzione  mostrerebbe la prova dello stato municipale di Hadranum nel periodo romano imperiale.
Quattro iscrizioni sarebbero funebri, databili al periodo ellenistico, e di pertinenza degli antichi cimiteri di Adrano posti in contrada Difesa e della Chiesa di Sant’Alfio.
Le due iscrizioni greche trovate al Mendolito sarebbero di pertinenza della vecchia Adrano. Entrambe sono di natura religiosa e di pertinenza di antichi santuari posti fuori le mura della città.
Entrambe le iscrizioni sarebbero dedicate ad Eracleo o ad Adranos, importante divinità locale.
Altre due epigrafi appartengono al periodo romano: l’epigrafe sopra la Fonte delle Favare (gia menzionata nella ricerca) e una pietra vicina alla fonte dal significato oscuro dell’area di Centuripe.

Iscrizione greca funeraria dedicata a Aischylos figlio di Chryson
Rinvenimento: la pietra  proviene dalle rovine del sito originario del tempio dedicato alla divinità locale Adranos.
Condizione del reperto: Perduto. (lo stato di conservazione del reperto non fu riportato negli antichi testi).
Datazione: IV – I secolo a.C. (con un indice di incertezza)
<Α>ίσχύλος
Χρύσω<ν>ος
Secondo la traduzione di Gualtherus la prima riga:
ΧΙΣΧΥΛΟΣ
la seconda riga:
ΧΡΥΣΩπΟΣ
La traduzione:
"Aischylos figlio di Chryson".
 
Il nome Aischylos è attestato dieci volte in Sicilia e ben 250 altrove. Il nome Chryson è invece molto raro.  È l’unico proveniente dalla Sicilia mentre è presente altre cinque volte fuori dell’Isola.

Frammento di iscrizione greca (funeraria?)
Rinvenimento: Adrano.
Condizioni del reperto: Perduto – materiale e forma sconosciuti,
Datazione: periodo ellenistico.
l’epigrafe fu annoatata indirettamente da castelli che ricevette il testo da Nicolaus Capretti.
Il testo dell’epigrafe.
Άρχε(- - -]
ί- - -]ας
Πολυς
La pietra probabilmente è una stele funeraria.
Franz propose la seguente lettura:
Αρχε[λtϊ] ας Πολυσ[τράτον] ο Πολυσ[Θένευς]
La traduzione:
dί Archelaίdas, figlίo dί Polystratos/Polysthenes.
Il nome Archelaides non è attestato in Sicilia mentre Polystratos è presente in Sicilia una sola volta. Il nome  Polysthenes non è presente nella Grecia occidentale e in Sicilia.
Ilcastello non indicò alcuna perdita nel testo dopo la lettera finale.

Iscrizione greca funeraria dedicata a Kallistratos
Rinvenimento: Adrano. Dalle rovine del tempio della divinità locale Adranos. Georg Kabel (1849 – 1901) affermò che fu “scoperta di recente”.
Materiale: “Pietra Nera”.
Condizioni del reperto: Perduto.  Stato di conservazione e dimensioni non riportate nei testi.
Datazione: Periodo ellenistico
Κα<λλ>ίσ-
τρατος
Ράτορος
Gualtherus e il castello riportarono la prima parola
ΚΑΜΙΣ
ma altri autori successivamente apportarono delle correzioni alla prima parola sostituendo la “M” con “ λλ “.
La traduzione:
Kallistrato, figlio di Rhator.
Il nome ‘Ράτωρ non è attestato altrove, anche se in Sicilia si conoscono un paio di forme analoghe, `Ρατοράς e `Ρατορώ.
 Gli storici proposero l’ipotesi che non si era in presenza di un nome proprio ma  dell’appellativo rhetor. Si ebbero così tante letture e interpretazioni.
Si avanzò anche l’ipotesi che si trattasse del rethor attico Kallistratos, sepolto in Sicilia dopo la condanna da parte degli ateniesi. Comunque Kallistratos è un nome comune in Sicilia ed attestato anche al di fuori dell’Isola.

Iscrizione greca funeraria(?) dedicata a Nikaios
Rinvenimento: Asrano. Proveniente dal sito della divinità locale Adranos.
Georg Kaibel (1849 – 1901)riportò “scoperta di recente”.
Materia: “Pietra nera”.
Condizioni del Reperto: Perduto. Stato di conservazione e dimensioni non riportate
Datazione: periodo ellenistico
Νίκαιος
Traduzione:
"Nikaios".
Il nome è comune ma in Sicilia è presente solo un altro esempio a Siracusa.

Dedica greca a Eracle
Rinvenimento: Area del Mendolito
Materiale: frammento di pietra lavica.
Condizizoni del reperto: Perduto. Cornice superiore completa in alto, in basso e a destra. Cornice rotta sul lato sinistro.
Dimensioni del reperto: (45 x 25) cm.
Datazione: periodo ellenistico.
L’epigrafe fu menzionata da Paolo Orsi come
Scritta a buone lettere
La pietra fu menzionata per la prima volta da castelli nel 1769 sulla base di una descrizione di Nicolaus Capretti.
L’Orsi riportò come la pietra fu
Conservata a lungo incassata nel muro della chiesa del SS. Cristo prima
di essere rimossa dall’avv. Sanfilippo per la sua collezione di Adrano.
dove l’Orsi la studiò affermando
si sa che proviene dal Mendolito.
L’Orsi non riportò la fonte di questa affermazione.
Sulla provenienza della pietra gli archeologi non furono concordi.
Il Libertini attribuì la provenienza della pietra dal Mendolito insieme all’altare o base di colonna con iscrizione (gia descritta nella ricerca); il Manganaro e l’Albanese dalla contrada Polichello posta a Sud del Mendolito, facendo riferimento alle affermazioni dell’Orsi.
L’Orsi distinse in modo ben preciso la contrada Polichello dal Mendolito.
[---].Ι `Ηρακλεί
Trαduzione:
"[---] α Erαcle".
L’Orsi nella descrizione dell’epigrafe riportò un’asta verticale a sinistra prima della “I”, dove la pietra è rotta. Suggerì  l’ipotesi dell’asta obliqua di una “N” oche sia parte di una lettera precedente, in questo caso di tratterebbe di una “A” o di una “Ʌ”.
Paolo Orsi – Particolare dell’inscrizione (1900)
Secondo l’Orsi potrebbe trattarsi del nome dell’individuo dedicante.
Lo storico Kabel ipotizzò come la pietra fosse incompleta anche nel lato destro e propose  delle ricostruzioni alternative di un nome al genitivo come ad esempio Hρακλεί[ου].
L’Orsi aggiunse che come
La forma della pietra che presenta una cornice lungo il lato superiore sia
Compatibile con una stele/cippo oppure che sia parte di un piccolo edificio.

Frammento di iscrizione latina
Rinvenimento: Contrada Mola (Adrano)- Trovata durante i lavori, eseguiti nel 1959, durante l’installazione di un impianto di irrigazione.
Materia: Pietra calcarea grigia, forse proveniente dalla sponda del Simeto nel suo tratto meridionale.
Condizioni del reperto: rotto in tutti i lati. Parte del lato frontale e posteriore sono ancora intatti.
Dimensioni: altezza max, 27 cm – larghezza max 19 cm – profondità max, 21 cm.
Datazione: periodo imperiale romano. (II secolo d.C.?)
 Un frammento irregolare di pietra, rotto tutt'attorno, con solamente parti del lato frontale e posteriore ancora intatte. La parte posteriore presenta una superficie regolare, non liscia ma a scaglie. La parte frontale presenta resti di un pannello incavato, con parte del margine sinistro preservato sul lato. La superficie del pannello è lievemente ricurva, con la parte convessa lungo il piano orizzontale, il che suggerirebbe che il blocco/monumento originale da cui deriva il frammento fosse di forma cilindrica. Il pannello inscritto misura 11,5 cm in altezza al lato sinistro e la sua altezza massima preservata è di 14 cm, la quale diminuisce fino a 9,5 cm al lato destro; la massima larghezza del pannello è di 12 cm. L'iscrizione, 6 linee visibili, era incisa sul pannello incavato. Si preserva parte del margine sinistro del testo, ma non si conosce l'estensione completa del testo, che probabilmente continuava nella parte superiore, a destra e in basso. Le lettere sono incise con un profondo taglio a V e sono di forma squadrata regolare. Un unico esempio di legatura si trova all'inizio della linea 2. Un insolito interpunto è usato alla linea 4 (i doppi interpunti sono rari nella pratica epigrafica latina; seppur nessun interpunto sia visibile tra la S e la P alla linea 4, non ci si aspetterebbe interpunti in nessun'altra parte del testo, per cui è difficile speculare sulle ragione dell'utilizzo del doppio interpunto in questo punto del testo). Le linee 4 e 5 vedono entrambe l'utilizzo della lettera R sovrascritta per creare una forma di abbreviazione sia della forma che della lettera propria, un uso altrimenti non attestato; la R sovrascritta alla linea 4 si estende fino alla linea 3; la R sovrascritta alla linea 5 si estende fino alla base della linea 4. Altezza dei caratteri:
linea 1: incompleta;
linea 2: 21 mm;
linea 3: 23-25 mm;
linea 4: 25 mm;
linea 5: 26 mm (R sovrascritta 17 mm);
linea 6: incompleta.
Spazio tra le righe:
linee 1-2: io mm;
linee 2-3: 7-9 mm;
linee 3-4:13 mm;
linee 4-5: 8 mm;
linee 5-6: lo mm.
A[---]
AEDEM[---
] CARE[---]
S(ua) P(ecunia) : DR :[---]
(vac.2) DR[---]
[..]+[---]
 
Il prof. Manganaro nel 1961 in una sua relazione sull’epigrafe affermò come nella linea 3
la quarta lettera è sicuramente i, mentre la lett. successiva poteva essere n, in margine alla quale si sia verificata la rottura della pietra.
Propose quindi la lettura del nome “Carinus”.
Da una più attenta analisi si rilevò come la lettera fosse abbastanza chiaramente una “E”. la cattiva condizione della pietra, dovuta anche alla rottura ed anche alla curvatura, rendevano  illeggibile il tratto superiore e centrale della “E” illeggibili solo il tratto inferiore era molto chiaro.
Le tracce che, su suggerimento del Manganaro, sarebbero compatibili con una N alla fine della stessa riga sembrarono piuttosto appartenere ad una lettera R in posizione sovrascritta dopo la lettera D alla linea 4, come visibile chiaramente alla fine della linea 5.
Nella linea 6 lo stesso Manganaro non riportò commenti a proposito delle tracce di una o più lettere visibili sotto la linea 5. Le tracce rimanenti furono attribuite alla lettera “M” o “N”.
Il testo dell’epigrafe farebbe riferimento ad un tempio o a una teca (aedes) e all’avvenimento che qualcosa fu fatto a spese di qualcuno ( sua pecunia), onorato nel teso o committente del testo stesso.
Sarebbe quindi un atto di costruzione o una beneficenza all’origine della costruzione, riparazione, o decorazione dell’aedes.
Il frammento, data la sua particola forma ricurva, dov’era inserito?
Il Manganaro propose l’ipotesi che si potesse trattare di un pezzo di un altare cilindrico. Furono formulate altre ipotesi come parte di un piedistallo statuario  o di parte di un monumento in rilievo.
Nella linea 3 è presente il termine “care”, sono rare le parole che cominciano con questo termine, da
collegare al termine della linea precedente come ad esempio “aedificare”.
Non si conoscono esempi comparabile alla forma DR. Data la sua posizione nel testo, verosimilmente verso la fine e separato dall'interpunto, è ragionevole interpretarla come una rara forma abbreviativa del comune D(ecreto) D(ecurionum), ossia
D(ec) r(eto) D(ecu)r(ionum)
Trattandosi di una forma abbreviativa rara di per sé e dal momento che nulla sembra suggerire che più mani abbiano inciso il testo, non c'è alcun motivo di ritenere che le lettere siano state aggiunte posteriormente  come suggerì il Manganaro.
Se le lettere DR DR significano decreto decurionum, allora il testo in questione potrebbe, non senza qualche riserva, indicare che lo stato di Hadranum nel periodo imperiale fosse quello di municipium latino. Questa sarebbe l'unica iscrizione latina attestata nell'antico centro di Adranum.

Pietra di Confine Iscritta
Rinvenimento: Territorio di Centuripe (En) – Contada Cavalera - Fondo Canellieri – Nicolò Reina. Acquisita nel 1975.
Materiale: pietra vulcanica grigia, con superficie bucherellata.
Condizioni del Reperto: Intatta, con parziale disgregazione della superficie.
Dimensioni: Altezza max, 86 cm  - lato inscritto, 81 cm – larghezza della base, 46 cm – larghezza del lato superiore, 36 cm – profondità, 25,5 cm.
Datazione: dal periodo ellenistico in poi. La pietra fu proposta come una delle molte pietre di confine territoriale della Chiesa. Pietre attestate, quindi presenti, nel territorio catanese (la parola “KAT” sarebbe il sinonimo di Catania). In questo caso la datazione potrebbe essere del V secolo d.C.
Numero Inventario: 480
Si tratta di un grande cippo rettangolare, lievemente smussato, con tre grandi tratti di lettere nella parte superiore del lato più largo. L’area inscritta è di circa (altezza, 36 cm x larhezza, 30 cm).
La prima linea del testo è meno chiara, in particolare attorno al margine superiore e quello destro. Una linea continua orizzontale separa la linea 1 dalla linea 2. Le lettere sono intagliate a grandi tratti arrotondati (in parte a causa di agenti atmosferici) e hanno forma regolare. Le linee diagonali della lettera K non raggiungono il livello superiore e inferiore del tratto verticale; le linee della E sono tutte della stessa lunghezza; la lettera A ha un tratto spezzato. Il testo è in latino o in un misto di latino e greco, vista la presenza di una L alla linea 2.
Altezza dei caratteri: linea 1: 12-13 cm; linea 2: 10-11 cm; linea 3: 10 cm.
Spazio tra le righe: linee 1-2: 3-4 cm; linee 2-3: 1-3c m.
 
Linea i: la terza lettera della linea i è incerta; è di dimensioni ridotte rispetto alle altre lettere, e le tracce alla sua cima sono compatibili con la X proposta da vari editori. Non credo vi sia motivo di leggere la lettera finale come un W come riportò il MANGANARO 1994, p. 173; la lettera finisce ad un margine della pietra e non è chiusa.
Linee 2-3: il testo è completamente chiaro, senonché non corrisponde a nessuna delle edizioni precedenti. La lettera finale della linea 2 si unisce alla linea orizzontale superiore; e la lettera finale della linea 3 è danneggiata in alto a destra; sono tuttavia entrambe visibili sotto luci diverse.
Il testo fu riportato originariamente da Gualtherus, 1624, p. 5o nr. 332 .
In scopulo pietra di pecunia nuncupato. cis flumen Magnum. MM. passibus ab Hadrano
TPXC
EKI
ICMI
Il Castelli riportò il testo con:
TPXC
EKI
ICMT
E infine il Manganaro con:
TPXW
EKO
KATC
 
Il prof. Manganaro avanzò l’ipotesi che si trattasse di una pietra limitrofa al cippo di confine, usando l’iscrizione ellenistica di Halesa (Tusa). Una ipotesi legata alla sua lettura del testo..
Τ(έ)ρ(μων) χώρου) έκ ό(ρίου) κάτω
Termine del fondo, a partire dal cippo di sotto.
Una ipotesi di lettura che non fu accettata dagli storici perché la trascrizione delle lettere necessita di correzioni.
Lo stesso Manganaro, nella sua interpretazione del testo, segnalò l’esistenza di testi simili a quello di Centuripe. Gli storici risposero che si basava su una lettura non corretta dell’epigrafe.
Il Gualtherus nel 1624 affermò un paio di epigrafi trascritti in cippi di confine posti nel territorio di Catania ed oggi perduti..
Padre Antonio Ferrua, famoso epigrafista ed archeologo, nel 1989 basandosi su antichi testi, riportò
che le epigrafi menzionate dal Gualtherius e rirese dal Manganaro, erano tre pietre di confine
diverse, non collegate tra di loro e provenienti dal territorio di Paternò, frazione Sterri.
Ogni cippo era costituito da
Colonna quadrata di lava.
All’inizio avanzò l’ipotesi che i tre cippi
Fossero tutti appartenenti alla stessa pietra.
Successivamente affermò che ogni cippo era a sé stante.
In merito alla lettura delle epigrafi:
-        Il primo cippo conteneva un’epigrafe in entrambi i lati:
-        Il secondo cippo riportava….
ECL
KAT
-        Il terzo cippo…
+
ECL  KAT  NVA

Anche lo storico ed archeologo Biagio Pace di Comiso (Ragusa) intervenne nell’interpretazione di
queste epigrafi di Paternò. Il Ferrua e il Pace inserirono i cippi nel contesto dei territori della prima
Chiesa in Sicilia.
Entrambi  interpretarono il termine
ECL
come                                                              “Ecclesia”
e il termine
KAT
Come                                                             Katinensis
Un aspetto deve fare riflettere ed è legato alla presenza della stessa frase
ECL KAT oppure EKL KAT
E ancora, considerando il reperto di Centuripe esposto nel Museo di Adrano, le lettere
EKL
che riportano una linea superiore di cui non si conosce il significato (forse un segno di abbreviazione
o una separazione dalla linea precedente?).
La lingua dell’iscrizione non è chiara. Non è chiara perché l’uso della “K” è normale nel greco ma la
lettera “L” si trova nella forma latina.
L’uso di alfabeti misti fu molto comune in Sicilia e quindi la lettura della linea 1, proposta dal prof.
Manganaro, interpretata come greca e quindi inclusiva di un’abbreviazione di  è esatta. 

………………………

Altri file:

Adrano (Catania) – Museo Regionale “Saro Franco”.   Leggere il Passato…

https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2025/01/adrano-museo-regionale-saro-franco.html


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Adrano: Il Museo all’aperto per riscoprire la propria identità, i propri valori culturali e riflettere sul linguaggio dell’ambiente.


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