La Luce delle Donne Preistoriche: Delia, la donna di Ostuni.... Thea, la Principessa di Acquedolci.. Enciclopedia delle Donne - Capitolo XXI

 



Indice
Delia, la donna di Ostuni.
La Donna di Saint-Germain-La-Riviere; la collana di denti di cervo incisi (Megaloceros).
Marocco, collana di conchiglie risalente a 142.000 anni fa.
La cuffia del Gravettiano.
Video, “Segni fuori dal tempo” – Tributo all’archeologa Marija  Gimbutas.
La Donna di Paglicci (Rigano Garganico – Foggia) – I resti di un bambino – Le due statuette di Parabita – Nella grotta furono rinvenuti i resti di un cane risalente a 14.000 – 20.000 anni fa. Il primo cane domestico.
La Donna di Caviglione (Grimaldi di Ventimiglia) – Le altre sepolture tra cui quelle di due fanciulli. – Il principe Alberto I di Monaco.
La storia delle Veneri Paleolitiche, rinvenute nella Barma Grande e nella Grotta del Principe nei Balzi Rossi, trafugate da Jullien.
Il Principe/Principessa di Arene Candide ( Savona).
La Principessa Thea di Acquedolci (Messina) -  Anche la Sicilia ha la sua importante figura femminile della Preistoria.
La Gender Archeology – La visione dell’Archeologia di Genere.
Il caso di Birka (Svezia).
La donna di Abri de Cap Blanc (Marquay – Francia).
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Ostuni (Brindisi), Parco Archeologico e Naturalistico di Santa Maria D’Agnano, nel 1991 fu rinvenuto in una grotta uno scheletro che fu classificato con il codice “Ostuni 1”.


È una grotta carsica, in realtà costituita da due grotte, che fu frequentata dal Paleolitico superiore fino al XVII secolo.
Due ambienti ipogei (camera orientale ed occidentale) la cui continuità è interrotta dalla presenza di una cappella e da  uno spazio che fu usato nell’800 come ricovero delle greggi. Le sepolture paleolitiche furono rinvenute nella camera orientale.
In origine la  grotta non era quella che osserviamo oggi. Ci furono del tempo dei forti movimenti tettonici che ne modificarono il suo aspetto.
Nelle vicinanze della grotta si trova la masseria  Santa Maria d’Agnano in parte (?) di proprietà vescovile. Qui il vescovo trascorreva l'inverno. 


Nel 1700 il vescovo chiese all’arcivescovato di vendere la masseria e spostarsi altrove.
Una parte della masseria e della grotta furono venduti e il nuovo proprietario snaturò la grotta con interventi privati privandola della sua funzione religiosa e di pellegrinaggi.
La grotta, ex cenobio bizantino dove gli stessi bizantini lasciarono dei bellissimi affreschi, in epoca cristiana era diventata un luogo di culto.
All’interno della grotta nel 1500 sorse una cappella che presentava gli antichi affreschi bizantini.
Nel 1600 sorse una cappella all’esterno che serviva per riparare i fedeli dalle intemperie.
La cappella è indicata nella mappa come Chiesa di Santa Maria di Agnano.




Ostuni. Cripta di S. Maria di Agnano, planimetria

Cripta - Interno

Cripta - Interno
Il proprietario divise la grotta in due parti con un muro divisorio per adibire un’area alla pastorizia… al passaggio delle pecore.
Negli inizi degli anni ’80, i due ultimi proprietari decisero di vendere il tutto al Comune che ne  acquistò la proprietà.
L’acquisizione da parte del Comune favorì la nascita delle indagini archeologiche.
Nel 1987 il paleontologo prof. Donato Coppola iniziò degli scavi.

Planimetria della Grotta (D. Coppola e altri, 2016)


Interno della Grotta, dove sono state ritrovate le sepolture (ph. E. Visciola, 2021)
Solo nell’ottobre 1991 l’importante rinvenimento, operato sempre dal prof. Coppola
Della gestante più antica al mondo


Il ritrovamento di Ostuni 1 (ph. E. Visciola, 2021)

Dettaglio del ritrovamento (ph. D. Coppola, 2012)


Alla donna fu aggiunto successivamente il nome di Delia.
La donna era stata adagiata in posizione fetale sul fianco sinistro. Il braccio sinistro era ripiegato sotto la testa mentre quello destro era appoggiato sul ventre a protezione del bambino che non nacque. Per evitare la caduta della mano destra, fu adagiata una pietra.
Grazie a questo rinvenimento la grotta prese il nome di “grotta della maternità”.


La deposizione della salma presenta una grande “pietas” dei Cro-Magnon (Homo sapiens) della zona, che non è usuale nei ritrovamenti.
Furono subito effettuati le analisi per datare la salma. Nel 1992 fu realizzata una prima analisi al radio-carbonio effettuata dal “Centre de faibles radioactivités" di Gif-sur-Yvette in Francia.
Le analisi stabilirono una datazione risalente a circa 24.100 anni fa.
Successive analisi diedero una datazione più antica ed esattamente tra 27.810 e 27.430 anni fa..

La sepoltura di Delia, la donna di Ostuni nella grotta di Santa Maria di Agnano.
a)     La sepoltura durante lo scavo (foto di E. Vacca);
b)     Un ingrandimento della regione pelvica di Delia (Ostuni I -Os1) con
il feto (Ostuni 1b – Os1b) ripreso durante lo scavo (Foto di E. Vacca)

Il racconto di Delia una donna sfortunata di 28.000 – 24.000 anni fa
Aveva vent’anni, alta, slanciata (1,70 m) e nell’aspetto simile alle sue attuali discendenti. La sua dentatura era intatta ma consumata. Un consumo tipico perché usavano masticare la pelle degli animali per ammorbidirla e quindi per essere adatta ad essere lavorata per capi d’abbigliamento.
Era una Cro-Magnon (Homo sapiens) e quindi condivideva gli aspetti morfologici come le gambe lunghe e robuste e gli aspetti di vita come la caccia.
Morì nel tentativo di dare alla luce e il suo clan le tributarono una sepoltura  con grande onore.
Il suo corpo venne portato nella caverna e adagiato nella fossa.
La sua mano destra fu adornata con un bracciale e adagiata sul ventre a protezione di quel bambino/a che non vide mai la luce.
Un segno evidente di materna dolcezza che supera la visione  del culto dei morti perché evidenzia una grande pietà.
Il feto, giunto all’ottavo mese di gravidanza, era in perfette condizioni. Fu rinvenuto sotto una pietra poggiata sul ventre della donna e, dettaglio curioso, con le manine a pugno completamente integre poste davanti agli occhi, come in un gesto naturale per un bambino pronto per venire al mondo.
Delia riacquistò la sua vita con il suo rinvenimento da parte del paleontologo Donato Coppola.

Il Prof. Donato Coppola e Alberto Angela davanti alla teca di Delia.


Perché fui chiamata Delia? 
Il prof. Coppola mi diede il nome in omaggio alla sua fidanzata e futura sposa.
Il prelievo del mio scheletro fu problematico per evitare che subisse danni.
Fu rimosso in un grande blocco il pavimento sotto il quale c’erano i miei ormai fragili reperti ossei. Grossi assi di ferro furono saldati tra loro per formare un cassone di contenimento per la sepoltura che, dopo accurati interventi di restauro e sistemazione, furono esposti nel Museo delle civiltà preclassiche della Murgia Meridionale nella città di Ostuni.
Il Prof. Coppola e i suoi volontari trascorsero intere giornate, usando pennello e scappello, per separare i resti ossei dalla pietra, come uno  scultore che con amore cerca di ricavare dalla nuda e fredda pietra una figura immortale.
Un lavoro duro e meticoloso e piano piano alla fine il mio scheletro fu individuato. Ero come mi avevano  adagiato i miei compagni e compagne del clan.. raggomitolata.. e osservando il mio bacino  ricordo lo sguardo del prof. Coppola.. uno sguardo ricco di stupore , di incredulità perché stentava a credere a quello che gli si presentava al suo sguardo.. vide il feto con tutte le sue tenere ossa del cranio, la mandibola, le braccine ripiegate e la minuta gabbia toracica…..anche i suoi collaboratori furono colpiti in quello che si presentava davanti ai loro sguari e anche loro provarono una grande senso di pietà e dissero tra loro…
è la prima volta che ci troviamo di fronte a una famiglia così antica.
Con il suo amore riuscì a liberarmi dalla pietra ed oggi la mia vita rivive, giorno dopo giorno, sono vista, osservata dai visitatori assieme al mio bambino/a... Sono diventata immortale.. così come il mio bambino/a che per tragico destino della vita non vide mai la luce.

Teca di Ostuni 1 al Museo di Civiltà Preclassica della Murgia Meridionale (ph. E. Visciola, 2021)

Dettaglio dello scheletro del bambino dalla teca di Ostuni 1 al Museo
 di Civiltà Preclassica della Murgia Meridionale (ph. E. Visciola, 2021)

Delia non poteva sapere se il feto che portava in grembo era un maschio o una femmina.
Solo nel maggio 2025, a ben 34 anni dal suo rinvenimento e rinascita, s’è riusciti a sapere il sesso del suo feto di circa 8 mesi…era un bambino…
Il sesso del feto fu ottenuto grazie alle analisi sul DNA. I risultati che si sono raggiunti dimostra il grande valore storico e scientifico della sepoltura di Santa Maria di Agnano.
Il prof. Coppola in un’intervista dichiarò..
È una notizia che aspettavamo da tantissimo tempo …. solo ora, grazie a tecnologie avanzatissime e alla collaborazione con l’Istituto di Antropologia della Sapienza di Roma e altri centri europei, abbiamo la certezza: il feto era maschio. E non solo: il DNA è risultato tra i meglio conservati al mondo per individui del Paleolitico. Questa scoperta – ha continuato Coppola – ci tranquillizza anche da un punto di vista interpretativo. Per anni si potevano fare solo ipotesi, spesso molto aleatorie. Ora possiamo rispondere con dati certi a una delle domande che più spesso ci venivano poste. Ma il lavoro non finisce qui: le analisi continueranno, per chiarire le relazioni genetiche tra madre e figlio, e per indagare eventuali paleopatologie che possano aver causato la loro morte.


Le cause della morte?
Era nello stato terminale della gestazione e probabilmente morì a causa di una grave infezione, forse una gestosi o per una complicanza severa della sua gravidanza, l’eclampsia.  Una patologia, potenzialmente letale, caratterizzata da convulsioni.
La convulsione è una violenta contrazione involontaria di alcuni muscoli volontari.
(I muscoli volontari, chiamati anche muscoli striati o muscoli rossi, sono quei muscoli del corpo umano la cui contrazione è regolata da un'attività cerebrale volontaria, ovvero possono essere contratti per volontà del soggetto).
Le convulsioni posso essere causate da: infezioni virali, tumori, emorragie,  tossiemie (uremia o avvelenamento da piombo o cocaina); disturbi del metabolismo (ipoglicemia)… queste potrebbe essere le cause collegate all’epoca.
Nei due mesi e mezzo precedenti la morte, Delia ebbe infatti dei gravi problemi di salute.
Prima di procedere nella ricerca sarebbe importante ricordare come il rinvenimento di resti fetali o neonatali di ominidi fossili sarebbero molto rari.
Il registro fossile umano anatomicamente moderno include un numero relativamente esiguo di esemplari fetali o neonatali . I neonati noti del Paleolitico superiore furono rinvenuti a:
- Cro-Magnon (Francia, ca 27 ka – 27.000 anni fa)
- Kostenki (Russia, 23–29 ka);
- Krems-Wachtberg (Austria, 26–27 ka);
- Neuwied-Irlich (Germania, ca 12 ka);
- Qafzeh (Israele, 90–120 ka);
- Wilczyce (Polonia, ca 13 ka);
- Nazlet Khater (Alto Egitto, ca 37 ka);
- Ostuni 1b (Os1b, Puglia, Italia, ca 27 ka);
- Nataruk (Lago Turkana, Kenya, ca 10,5–9,5 ka).
I feti di Nazlet Khater, Ostuni e Nataruk furono trovati all'interno delle pelvi delle loro madri.

Delia non mostrava segni macroscopici di stress o trauma, a parte una leggera parodontite e una piccola quantità di tartaro dentale sulla dentatura anteriore inferiore .
Il feto quasi completo (Os1b) fu trovato anche in un eccellente stato di conservazione. I resti includevano le corone parzialmente formate di sei incisivi decidui anteriori in situ o isolati . La posizione del feto era coerente con la posizione tipicamente osservata durante la gravidanza. La testa di Os1b era situata all'interno della piccola pelvi mentre tutti i suoi resti postcranici furono trovati, articolati, all'interno della grande pelvi .
Per stabilire le cause della morte di Delia fu A effettuato uno studio su tre denti del feto.

c. Rendering volumetrico virtuale dell'emimandibola destra del feto ( Os1b) in vista laterale.
L'incisivo deciduo laterale inferiore destro (LRi2) è visibile attraverso la trasparenza ossea.

I  denti del bambino si formano a partire dai 3-4 mesi di gestazione e giorno per giorno lo smalto si arricchisce di un nuovo strato finché non cadono intorno ai 6-7 anni.
Per questo motivo la loro analisi è importante per avere delle informazioni sulla regolare crescita del feto.
Dall’esame dei denti ancora in formazione è  possibile ricavare dati sullo stato di salute della mamma e del feto nelle ultime fasi della gravidanza, stabilire l’età gestazionale del feto, identificare alcune peculiarità dello sviluppo embrionale.
I reperti furono studiati a Trieste grazie ad un acceleratore di particelle, il sincrotone Elettra.
(L'imaging microtomografia a raggi X di sincrotrone a contrasto di fase di due corone di denti decidui e le misurazioni TC microfocus dell'emimandibola destra del feto Ostuni 1b sono state eseguite presso la linea di luce SYRMEP e presso la stazione TomoLab del laboratorio Elettra - Sincrotrone - Trieste, Italia).
La ricerca, realizzata per l’Università Sapienza dalla dott.ssa Alessia Nava in collaborazione con altre Università e Istituti di ricerca quali il Museo della Civiltà di Rona, il Centro Fermi di Roma, la citata Elettra-Sincrotrone di Trieste, il Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam di Trieste, l’Università degli Studi di Bari e la University of Wollongong in Australia, fu pubblicata sulla rivista Scientific Reports.
L’analisi evidenziò negli anelli di accrescimento dello smalto, tre episodi di stress nella crescita del bambino negli ultimi due mesi e mezzo di vita. 


Per la prima volta in assoluto è stato possibile ricostruire alcuni aspetti di vita e di morte di un individuo fetale così antico e, contemporaneamente, gettare luce sullo stato di salute della madre.
In particolare, tre incisivi da latte ancora in formazione appartenenti al feto sono stati visualizzati e analizzati tramite la tecnica di microtomografia a raggi X. “Nel caso specifico le prime indagini microtomografiche sulla mandibola – Lucia Mancini, ricercatrice di Elettra – sono state condotte presso il laboratorio Tomolab di Elettra e sono state fondamentali per studiare uno degli incisivi da latte presenti all’interno della mandibola stessa. Poi, grazie alle proprietà uniche della radiazione di sincrotrone, è stata effettuata un’analisi 3D ad alta risoluzione sui tre denti alla linea di luce SYRMEP.  Questo approccio ci ha consentito di eseguire sui reperti fossili uno studio istologico virtuale, che ha rivelato le strutture più fini dello smalto dei denti in modo non distruttivo, preservando l’integrità dei rarissimi reperti‘’.
L’istologia virtuale ha permesso di accertare come la morte della madre e del bambino sia avvenuta tra la 31a e la 33a settimana di gravidanza. È emerso, inoltre, che durante gli ultimi due mesi e mezzo di vita, tre momenti di acuta sofferenza hanno colpito madre e figlio, come evidenziato dalla presenza di marcatori di stress formatisi a livello microscopico nello smalto. Questi marcatori, che appaiono come linee ben definite  entro lo smalto, derivano da un’alterazione nella secrezione in momenti di stress. Oltre allo stato di salute della mamma e del feto nelle ultime fasi della gestazione, l’analisi dei denti del bimbo ha permesso di stabilire con precisione la sua età gestazionale e di identificare alcune differenze nello sviluppo embrionale rispetto a quanto avviene oggi.


“I denti sono una specie di scatola nera  – sottolinea  Claudio Tuniz dell’ICTP  – in cui vengono registrate varie informazioni: a che tipo di ominide appartengono (lo smalto dei Neanderthal, per esempio, è generalmente più sottile di quello dei sapiens), la loro dieta, l’età alla morte e i tempi dello sviluppo. Per il futuro sarebbe importante stabilire un collegamento tra chi studia gli umani di oggi, i medici, e i paleoantropologi che studiano gli umani del passato”.
“Gli antichi romani ci avevano fornito l’indizio di uno sviluppo fetale accelerato nel mondo antico – spiega Alessia Nava, primo autore dell’articolo – anche se di poco. Questa ricerca sembra confermare questo andamento, in un periodo molto più antico. Ora si tratta di estendere nello spazio e nel tempo il nostro studio: forse altre sorprese ci attendono”.
Non si riuscì ad individuare quindi con esattezza le motivazioni della morte di Delia e si confermò la sua morte tra le 31 e 33 settimane di gestazione.
Gli studi esclusero la morte per malnutrizione dato che il sito, dal punto di vista ambientale, era all’epoca ricco di animali selvatici
Lo studio osseo del feto (Ostuni 1b) a 33 settimane di gestazione visualizzò come nel paleolitico lo sviluppo fetale fosse più veloce di quello moderno, anche se non è escluso che i tre episodi di stress registrati abbiano accelerato lo sviluppo del bambino oppure abbiano ritardato la formazione degli anelli di accrescimento dei denti; in quest'ultimo caso il periodo di gestazione calcolato in 33 settimane potrebbe essere stato sottostimato. 

Delia faceva parte di un clan con circa 10 individui e forse  la grotta era un rifugio saltuario per i periodi di caccia.
Il rito di sepoltura fu eseguito con lo scavo della fossa, l’accensione di un focolare  e la formazione di un letto di ciottoli sul quale fu posto il corpo della sfortunata donna.
Il corpo fu deposto in posizione fetale. Nel polso destro aveva un bracciale composto da conchiglie forate (ciprea, cyclope e columbella) e da un canino di cervo rosa. Sul capo un bellissimo copricapo costituito da 600 conchiglie marine (columbella rustica) che erano impastate con ocra rossa.  Le 600 conchiglie marine erano intervallate, ogni 80 pezzi, dal canino di un cervo. Vari strumenti litici d’uso quotidiano e molti resti di fauna (ossa di cavallo e di bue).
I resti fossili della fauna selvatica permisero di visualizzare la fauna del sito, costituita in gran parte da cavalli ed uri.
Una sepoltura con il suo ricco corredo risalente a circa 28.000 – 24.000 anni fa legata ad una cerimonia cultuale. Una cerimonia che si svolse in una grotta, simbolo di sacralità (il ventre della Madre Terra).
Ma che significato avevano per le comunità preistoriche i denti di cervo rosa, le conchiglie, il copricapo, l’ocra rossa?

La dott.ssa Izzy Wisher, ricercatrice presso il dipartimento di Archeologia della Durham University nel Regno Unito,  pubblicò un interessante ricerca in merito ad un ritrovamento avvenuto a Saint-Germain-La-Rivière nella Francia sud-occidentale.
Saint-Germain-La-Rivière 
Arrondissement: Libourne - Dipartimento della Gironda - Regione: Nuova Aquitania



In un riparo roccioso fu rinvenuta una sepoltura relativa al periodo Medio Magdaleniano.
La sepoltura, scoperta nel 1934, conteneva lo scheletro di una donna di circa trent’anni morta 19.000 anni fa. Studi recenti datarono la morte della donna a 15.780 +/- 200 anni fa.
Il clan operò la sepoltura con grande onore.
Fu deposta in posizione fetale e la sua salma riccamente adornata e rivestita di ocra rossa.
Sul collo una collana composta da ben 72 canini di cervo rosso, appartenenti a circa 63 capi differenti.  I denti furono perforati per essere usati come perle e vi furono incisi 32 segni.
Un aspetto che lascia stupiti è che i segni sui denti sono tutti diversi. Anche questi denti furono ricoperti di ocra rossa di cui rimasero le tracce.


Questa collana dimostrerebbe una chiara finestra sulla visione del periodo magdaleniano risalente a circa 19.000 anni fa. Le comunità negoziavano le relazioni e percepivano l’importanza di questa rete di relazioni per la loro sopravvivenza.  Relazioni centrali nella vita sociale del clan perché il modo con il quale vennero realizzate le “perline”, utilizzate e depositati, non farebbe altro che rilevare i modi creativi e l’importanza  con cui i nostri antenati usavano gli oggetti per negoziare e attribuire agli stessi le complicate relazioni uomo – animale – oggetto – ambiente o paesaggio.


Si potrebbe pensare come la collana sia un semplice dono di cacciatori e quindi rappresentare l’abilità venatoria dei componenti del clan, magari come ringraziamento alla donna che aveva aiutato più volte nella sua vita gli uomini nella caccia.
L’ipotesi però si scontrerebbe con quelle che erano le condizioni ambientali del tempo.
L'ambiente ghiacciato della Francia sud-occidentale era inadatto al cervo rosso infatti, questa specie costituiva meno dell'1% della fauna fossile del sito di Saint-Germain-La-Rivière.
Dove procurò il clan i 73 denti di cervo appartenenti a ben 63 capi diversi?
La regione più vicina con un'abbondanza di cervi nobili durante questo periodo si trovava a circa 300 km di distanza, nel nord della Spagna. Le ricerche paleoambientali condotte presso i siti archeologici di questa regione dimostrano che non si trattava di un paesaggio completamente arido in quel periodo, e che quindi beneficiava di aree sparse di alberi decidui, condizioni ideali per i cervi nobili, che erano molto più abbondanti in quest'area. È probabile che le perle abbiano avuto origine proprio nel Nord della Spagna, e forse furono acquisite tramite lo scambio di oggetti e materiali con diversi gruppi sociali della regione.
Le perle dimostrerebbero quindi l’esistenza di relazioni tra comunità di Homo sapiens  di diverse regioni d’Europa.
Ogni perla presenta una sua narrazione. Sono tutte diverse perché decorate e perforate in modo unico. Sarebbe necessaria almeno un’ora per perforare ogni dente. Le variazioni nella forma e nelle dimensioni non erano accidentali.
Ogni perforazione potrebbe rappresentare un “gusto” o una preferenza artistica.
In merito alle incisioni si tratta di linee incise nello smalto con una pietra molto affilata di selce e rese visibili mediante l’applicazione di ocra rossa. Questo rendeva le incisioni ben visibili.
Ogni perla rappresentava una persona? La diversità delle incisioni era forse legata al concetto di esprimere la moltitudine di individui all’interno del clan?
Ci sarebbe una relazione  tra l’essere umano e il cervo?
Infilare insieme queste molteplici perle ibride cervo-uomo in un'unica collana voleva rappresentare l'unione sociale di diverse persone e diversi cervi rossi, tutti incarnati da un unico oggetto. ?
Lo sforzo e la cooperazione nella creazione di questa collana furono tutt'altro che banali ed ebbero un grande significato per le persone che la realizzarono.
La collana probabilmente non fu mai indossata e fu preparata in occasione della sepoltura.
Questa ipotesi potrebbe chiarire il ruolo della collana all’interno dei rito funerario.
Le perle rappresentavano il clan, la collettività formata da persone diverse e che insieme si unirono per rendere omaggio forse alla donna più adulta del clan.
 Non veniva sepolta da sola ma con le rappresentazioni materiali di ogni singolo individuo del clan espresse nelle parti di molti diversi cervi rossi.
Non si potrà mai sapere per quale motivo scelsero proprio i denti del cervo rosso tra l’altro non presente nel loro territorio.
Il cervo è un animale che modifica il suo aspetto  in funzione delle stagioni e il mantello estivo si presenta con una tonalità bruno-rossiccio piuttosto uniforme, come se l’animale si ricoprisse di ocra.
Un colore, l’ocra, che era associato al sangue e alla vita dalle popolazioni di umani che lo rappresentavano con grande attenzione di particolari.
Una caratteristica del cervo  è la perdita dei palchi che come rami vecchi cadono per ricrescere più grandi e più forti man mano che l’animale cresce.
In questa visione il cervo appariva come una manifestazione di rigenerazione. Era in gradiodi risorgere con le sue grandi corna più forte di prima ad ogni stagione estiva.
Una manifestazione a cui gli esseri umani guardavano con grande ammirazione, venerazione e forse   desiderio di trasmutazione.
Il cervo a  cui si fa riferimento era
Il Megaloceros, un cervo estinto, poteva raggiungere i 2,10 metri d’altezza ed aveva
un'apertura alare delle corna di 3,6 metri.
È denominato alce irlandese e un suo scheletro è esposto al Museo di Storia Naturale
dello Smithsonian – Washington.
Era presente nell’Eurasia settentrionale, dalla Siberia all’Irlanda.
Annualmente perdeva le sue imponenti corna.


Nella grotta di Lascaux, un vero e proprio Museo d’arte rupestre Paleolitica, circa
17.000 anni fa un’artista disegnò un cervo irlandese. Una raffigurazione molto precisa
di un animale che all’epoca era molto conosciuto e cacciato.
Un’animale imponente, i maschi pesavano circa 680 kg e presentavano delle
corna imponenti: 3,6 m di diametro e quasi 40 kg di peso. Le femmine erano in media
più basse del maschio (10 – 15% in meno) ed erano prive di corna.
Non era un alce ma un cervo gigante e presentava un aspetto importante di selezione sessuale.
Secondo il paleobiologo Adian Lister, Natural History Museum di Londra,
la letteratura scientifica fu legata per tanto tempo alla tesi secondo la quale
le corna dell’animale fossero solo un segno di esibizione. In realtà le corna
venivano usate anche per difesa, per combattere. I maschi rivali,
            abbassando la testa, intrecciavano la parte inferiori dei palchi, per poi spingere,
torcere l’avversario. Le femmine si accoppiavano con il vincitore.
Era uno degli animali più celebrati nella ricerca scientifica.
Come mai si estinse?
Anche qui la letteratura scientifica all’inizio sposò la tesi secondo la quale le corna
dell’animale, troppo grandi e pesanti, rimanevano impigliati negli alberi costringendo
l’animale ad una terribile fine. In realtà la fine dell’animale fu causata da un forte
cambiamento climatico. Gli animali si estinsero nell’Europa occidentale in un
periodo di rapido raffreddamento climatico, noto come effetto Dryas recente, che durò
da 13.000 a 12.000 anni fa. La loro alimentazione, molto ricca di minerali, era erbivora,
(foglie e germogli). Il raffreddamento climatico determinò un rapido declino della vegetazione.
Naturalmente il cambiamento climatico ebbe il suo effetto negativo anche
                        nei confronti delle femmine perché la capacità di produrre ed allattare
i piccoli dipendeva dallo stato nutrizionale della femmina.
In un paesaggio caratterizzato da ghiaccio e tundra, le dimensioni delle
mandrie subirono un forte declino fino a sparire completamente.
Sembra che in Russia l’animale sia sopravvissuto fino a circa 8.000 anni fa.
L’aumento delle temperature favorì la formazione in Russia  di foreste.
Qui erano già presenti gli uomini Neolitici e probabilmente con la caccia
determinarono l’estinzione degli ultimi animali.
Il reperto esposto a Washington fu trovato in Irlanda da alcuni agricoltori che,
scavando alla ricerca di torba da usare come combustibile, rinvennero
i preziosi resti ( all’inizio del XVII secolo). 

Un ulteriore aspetto che rende ancora più affascinante la collana francese è la presenza nei denti del cervo di iscrizioni tutte differenti.
Una scrittura ? Forse… quelle incisioni sarebbero la manifestazione di coesione sociale da parte della comunità con l’obiettivo di creare rapporti condivisi.
Il fatto che ogni incisione è differente dall’altra potrebbe rappresentare anche un sistema primordiale per codificare e tramettere un messaggio, un primo sviluppo della scrittura.
Decifrare queste incisioni sarebbe impossibile dato che non si conosce il significato simbolico attribuito ai grafemi e soprattutto il significato attribuito agli animali.
Che siano stati scelti i denti del cervo non sarebbe casuale. L’animale fu rappresentato in molte grotte  con pitture risalenti a 19.000 anni fa: AltamiraTito BustilloFont-de pGaumeLascaux
NiauxChauvet.
Nelle pitture rupestri l’animale è riconosciuto soprattutto per il suo grande palco di corna. Palco di corna che ricopre spesso la testa di sciamani e sciamane.

A sinistra: Incisione di un cervo rosso nella Grotta di Lascaux;
a destra: un cervo nero nella Grotta Cosquer.
L’aspetto strano è che il cervo ancora oggi ha un suo aspetto sacro.
Il cervo con i suoi molteplici espressioni: di regalità, di rinnovamento ciclico della vita, di rinascita.
La cerva appare nella letteratura, nella mitologia con Diana, nell’alchimia e nell’arte medievale, dal ciclo bretone a quello legato al Graal (il cervo bianco guida il cavaliere in cerca del Graal, indicando il cammino da seguire o precedendo eventi prodigiosi), e alla fine il cervo e la cerva figuravano come segni di Cristo o della Chiesa.
La Basilica di Sant’Eustachio a Roma, è sormontata dalla testa di un cervo sulla quale è posta la Croce.


Questo aspetto  sarebbe legato alla vita di Sant’Eustachio che si convertì vedendo la Croce del Cristo tra i palchi di un cervo.
Sant’Uberto è il patrono dell’arte venatoria ma anche il primo oppositore della caccia.
Secondo la leggenda rinunciò a cacciare dopo aver avuto la visione del cervo con la Croce.



Apparizione del cervo a Sant’Uberto
Nel centro della tela, circondato da un fitto bosco, è rappresentato il cervo con la Croce fra le corna. A sinistra, nel primo piano appare il Santo con i ricchi vestiti, a cavallo, circondato da tre cani. Cornice a bacchetta dorata contemporanea al quadro
Materia e Tecnica: pittura a olio
Misure: altezza, 68,5 cm – Larghezza, 91 cm.
Ambito Culturale: Fiammingo.
Datazione: (1650 – 1699) circa.
Localizzazione: Policoro (Matera).
Notizie Storico Critiche.
Il dipinto presenta un'impostazione tipica in quadri seicenteschi nordici. A questi rimanda anche il gusto del paesaggio e l'esecuzione delle figure. Si potrebbe pensare a un prodotto, uscito da qualche bottega fiamminga, in cui si riscontra qualche sommarietà esecutiva, che non va a scapito della qualità media del dipinto. E' databile alla seconda metà del Seicento.
L'opera risulta rubata nel 1983
Le incisioni sui denti di cervo non erano un puro e semplice ornamento.
Con questa sepoltura il clan volle mandare un messaggio comprensibile da tutti e cioè su quello che la donna era per il gruppo umano a cui apparteneva…. Una figura importante.

Le conchiglie forate nella preistoria avevano diversi significati, tra cui oggetti di uso quotidiano, gioielli, segni di identità e simboli religiosi o magici. Venivano utilizzate per la creazione di collane, braccialetti e altri ornamenti. Alcune conchiglie, come le cipree, erano associate al culto della fertilità. 
Come oggetti d’uso quotidiano erano utilizzate come strumenti per la pesca, la caccia o per la lavorazione di altri materiali. Erano utilizzate anche per marcare la propria identità e appartenenza ad una comunità.
Alcune conchiglie, come le cipree, per la loro forma erano associate al culto della fertilità e alla dea madre e, in alcuni casi, le conchiglie forate erano incorporate nei rituali funebri. 
In alcuni casi, le conchiglie forate erano utilizzate come oggetti di scambio tra comunità diverse. 
In Marocco fu rinvenuta una collana di perline di conchiglia risalente a ben 142.000 anni fa.
Grotta di Bizmoune, a Essaouira, Sud-ovest del Marocco. 



Furono rinvenute nel livello 4c 33 perline di conchiglie forate che facevano parte di una collana.
Il rinvenimento grazie ad un team internazionale di ricercatori.
Le conchiglie erano il gasteropode marino “Tritia gibbosula” e facevano quindi parte del più antico pezzo di ornamento mai rinvenuto. Altro aspetto importante era che stesse conchiglie erano la prova diretta di un sistema di scambio e comunicazione tra gruppi umani. La ricerca fu pubblicata sulla rivista “Science Advances”.
Gruppo di ricerca costituito dai seguenti organismi;
- Istituto nazionale di scienze archeologiche e del patrimonio (INSAP, Rabat, Marocco);
- Laboratorio mediterraneo di preistoria Europa Africa (LAMPEA, Aix-en-Provence) e dell'Università dell'Arizona (Tucson, USA);
- l'Università Hassan II Casablanca-Mohammedia;
- Centro nazionale per l'energia, le scienze e le tecnologie nucleari (CNESTEN);
- Dipartimento di Antropologia dell'Università di Harvard negli Stati Uniti;
- Istituto Max Planck per l'antropologia evolutiva di Lipsia;
- Università di Tubinga in Germania;
- Università di Las Palmas in Spagna;
- Università di Sheffield nel Regno Unito.

 

L’età delle perline fu determinata con il metodo della datazione della serie dell’uranio.
Le 33 perline mostravano gli aspetti delle  modificazioni  manuali come scheggiature e lucidature eseguiti con strumenti di pietra.
Presentavano inoltre le  tracce di usura dovute alla sospensione con un filo e una colorazione con ocra rossa, pigmento naturale di ossido di ferro.
Lo strato in cui furono rinvenute  era costituito da limo marrone scuro e quindi il pigmento non era presente in quello strato.
Questo confermò l’ipotesi che le perline furono colorate e quindi utilizzate con obiettivi simbolici.
Chi furono gli artigiani?  L’Homo neanderthal o l’Homo sapiens?
In ogni caso l’uso delle conchiglie come ornamento dimostra un comportamento simbolico dell’Homo.
Le prime scoperte si verificarono in Siria e Libano (i reperti risalivano a circa 135.000 anni fa), in Nordafrica (reperti datati tra 116.000 e 35.000 anni fa) e in Sudafrica (reperti datati a circa 76.000 anni fa).
Le conchiglie presentavano tracce di usura e lucidatura e la stessa colorazione con ocra rossa era dovuta al pigmento naturale di ossido di ferro che è presente nei residui microscopici di queste conchiglie.
Secondo i ricercatori le perline erano l’espressione di una identità sociale e culturale di chi l’indossava.
queste conchiglie marine sembrano piccole e insignificanti a prima vista,
ma queste minuscole conchiglie forniscono informazioni cruciali sull'origine
del comportamento simbolico come il linguaggio…….
L'età e la diffusione delle perline di conchiglie nei siti dell'età del
Paleolitico medio in nord Africa, sono la prova della loro importanza come segni d'identità.
Sarebbero tante le domande a cui dare una risposta.
Le indossavano all'epoca sia i maschi sia le donne dopo riti d'iniziazione?
Cambiavano di numero, di forma e di colore secondo le diverse comunità?
O anche in base all'esperienza nella caccia? Tutte le perle di conchiglia, tranne una, trovate nella grotta di Bizmoune, erano della stessa specie,  Tritia gibbosula, un tipo di lumaca di mare, e simili a quelle rinvenute in altri siti datati tra 80.000 e 100.000 anni fa.
La pratica di lunga durata di utilizzare queste conchiglie in tutto il nord Africa rappresenta la prima prova materiale diretta di un diffuso sistema di comunicazione umana….. Le perline della stessa specie sono state infatti trovate anche a centinaia di chilometri dal mare, segno che le varie comunità, nel tempo, se le passarono di mano in mano come doni o merce di scambio.
Nei diversi livelli della grotta furono rinvenuti molti resti di fossili animali a testimonianza di un clima molto arido ed anche della presenza di una via di comunicazione tra il centro-ovest del Marocco e l'Africa subsahariana (corridoi ormai scomparsi).
Resti fossili costituiti da equini, gazzelle, facoceri, gnu, grandi antilopi, bovini, rinoceronte, da piccoli animali come la lepre e la tartaruga oltre a frammenti di uova di struzzo.
I frammenti di carbone rinvenuti provenivano da taxa come l'argan o la tuia, ancora oggi presenti nella regione. 


Elementi di ornamento (Tritia gibbosula e Columbella rustica) dal livello 4c di Bizmoune
Crediti fotografici: A. Bouzougar, INSAP, Marocco





Il copricapo di conchiglie era un tipico ornamento della Dea che trova analogie nelle statuette di Willendorf in Austria o di Brassempouy in Francia mentre l’ocra rossa, altro simbolo tipico dei rituali funerari coevi, rappresentava il colore del sangue che rigenerava la stessa Dea Madre appena sepolta.
La cuffia del Gravettiano
Da un articolo della dott.ssa Alessandra De Nardis del 25 gennaio 2021.


La cuffia è presente in diverse sepolture di epoca gravettiana (facies del Paleolitico superiore risalente a circa 29.000/27.000 a 20.000/18.000 anni fa).
La Facies  “Gravettiana”  prese il nome dal Riparo di La Gravette (Bayac in Dordogna). 



Parte dei reperti rinvenuti a la Gravette
A sinistra:  dente forato per ciondolo;
al centro: conchiglia forata, forse una conchiglia di torretta, usata come ciondolo;
a destra: conchiglia forata usata come pendente.


Parte dei Reperti di la Gravette
Punte Gravettiane
Foto: Don Hitchocock 2015

La cuffia era quasi sempre pertinente ad individui di sesso femminile.
Una cuffia  composta da piccole conchiglie intrecciate dei generi Nassa neritea, Trivia o Columbella, a cui alle volte vengono inseriti canini di cervo rosso.  Il tutto era annodato finemente in modo da formare una sorta di copricapo ricoperto di ocra rossa e trovato a copertura del cranio della persona inumata. Non si sa se la cuffia era portata dalla persona in vita ma simili rappresentazioni sono visibili in molte statuine appartenenti alla stessa epoca, le cosiddette Veneri, per il resto del corpo nude.
Nella ricerca è stato messo in risalto il suo aspetto  da associare  ad una persona (donna) nel momento della sua morte.
Per alcuni storici la cuffia invece aveva un preciso riferimento: l’appartenenza a un determinato ceto e superiorità sociale della persona che la indossava.
Sarebbe lecito porsi una domanda… 29.000 anni fa nelle comunità o clan c’era una stratificazione sociale ?
Nel clan c’era un capo ma era presente un grande spirito di collettività. Ogni membro aveva una sua funzione e l’aiuto reciproco era sempre presente. Una grande condivisione legata ad un obiettivo importante.. la sopravvivenza in un ambiente difficile e ricco di insidie.
Forse una frase potrebbe svelare il problema nel non sapere leggere il modo di essere degli umani vissuti nella preistoria…
non riusciamo ad immaginare nulla di diverso del nostro passato
che sia altro da ciò che siamo noi oggi.

Nel documentario di Donna Read e di Starhaw, “Segni fuori dal tempo”, un tributo alla grande archeologa Marija Gimbutas,  si ricostruisce la sua visione di una civiltà precedente a quelle storiche..


https://www.youtube.com/watch?v=whfGbPFAy4w&t=19s

Che immagine abbiamo del nostro passato e come influenza ciò che siamo e come viviamo?  Siamo capaci di immaginare una cultura pacifica e in armonia con la natura?
Ce n’è mai stata una?

La Donna di Paglicci
Ubicazione: Grotta di Paglicci ( Rignano Garganico – Foggia)




Gli scavi furono condotti dall’Università di Siena e diretti dall’archeologo Arturo Palma di Cesnola. Nella ricerca furono individuati 146 resti ossei umani oltre alla sepoltura di una donna (identificata con il codice Pa25) e di un bambino (identificato con il codice Pa12).
Il corpo del bambino fu scoperto durante gli scavi eseguiti nel settembre 1971. La sua tomba era posizionata sulla parete Sud-Ovest della sala principale della grotta ad una profondità di circa 8 metri dal piano di calpestio attuale.
Il fanciullo aveva circa 12 – 13 anni, era un Cro-Magnon o Homo sapiens, di sesso maschile. La sua struttura fisica era longilinea e presentava una statura elevata, 1,56 – 1,65 m,  considerando la sua giovane età.

La sepoltura del giovane di Paglicci (Pa12) nell’atrio della grotta.
(Prof. Palma di Cesnola, 1988).
Era disteso in posizione supina e parallelamente alla parte rocciosa. Deposto sulla superficie sassosa e il suo corpo ricoperto da ocra rossa (ematite polverizzata).
Il cranio era rivolto a destra e poggiava su una pietra di grandi dimensioni come un poggiatesta.
L’’avambraccio destro era piegato completamente sul braccio mentre quello sinistro  era posto trasversalmente al tronco e gli arti inferiori distesi.
Nel corredo funerario una “cuffia” formata da denti forati di cervo che era posta sul cranio, una collana, un braccialetto ed una cavigliera costituiti ciascuno da un dente forato di cervo e una conchiglia di Cypraea.
Furono rinvenuti anche diversi strumenti litici. Questi rinvenimenti trovarono una similitudine  con le sepolture dei Balzi Rossi e con quella del fanciullo di Arene Candide entrambe il Liguria.

Rilievo della sepoltura del giovane di Paglicci (Pa12) e la localizzazione degli arredi funebri.
Disegno del prof. Palma di Cesnola, 1988.

Rilievo della sepoltura del giovane di Paglicci (Pa12) e la localizzazione
degli oggetti di corredo funebre. Le aree con tratteggio sono le placche di ocra rossa.
(F. Mezzena e A. Palma di Cesnola, 1989 – 90).
Dopo 17 anni (nel 1988 – 89) durante degli scavi, sempre coordinati da Arturo Palma di Cesnola, fu rinvenuto il corpo di una giovane donna morta all’età di circa 25 anni.
Il suo scheletro era molto robusto e presentava anch’essa un’altezza elevata rispetto alla donna attuale. Anche lei apparteneva ai Cro-Magnon ed era sepolta in una profonda fossa e disposta in posizione supina distesa.
I Cro-Magnon aveva una concezione della sepoltura legata probabilmente ad  un pensiero simbolico.
La testa della donna era infatti inserita in una nicchia scavata orizzontalmente e il cranio inclinato verso sinistra. Gli avambracci erano convergenti verso l’asse mediano del corpo e le mani poste sul pube, l’una vicina all’altra. Una posizione delle mani che richiamava quella delle due statuine di Parabita.

Le due statuette di Parabita (Lecce)
Ricavate su un osso di bue o cavallo e datate tra 14.000 e 12.000 anni fa.

La statuina più grande

La statuina più piccola

L’ingresso della grotta di Parabita
(ph. E. Vacca, 2006).
Molte ossa delle gambe erano fuori posto forse un franamento del terreno.

La sepoltura della donna di Paglicci (Pa25) trovata nell’atrio della grotta.
A.    Palma di Cesnola, 1988.
La sepoltura presentava una particolarità, un aspetto che lasciò spazio a diverse ipotesi.
Lo scheletro era posizionato in modo tale da lasciare uno spazio vuoto alla destra del femore. Uno spazio per un tratto parallelo al corpo. La funzione di questo spazio?
Forse per la deposizione di un corredo funerario molto voluminoso .. oppure di un neonato .. di cui non furono trovate tracce. La madre morì durante il parto e il bambino sopravvisse ?
Anche questo corpo era ricoperto di ocra rossa che era però maggiormente concentrata in corrispondenza del cranio, del bacino e dei piedi.
Un aspetto nuovo era l’aggiunta all’ocra rossa di uno strato calcareo di sostanza bianca che è chiamata “latte di monte”, cioè l’acqua di percolazione della grotta.

Il cranio della donna di Paglicci (Pa25) con il diadema di sette denti forati di cervi,
su una calotta dipinta con ocra rossa.
Stranamente il corredo funerario della donna era piuttosto semplice rispetto a quello del fanciullo. Un diadema, posto sul capo in corrispondenza della sutura coronale, costituto da sette denti di cervo. I setti denti presentavano la radice forata rivolta in avanti. Anche questa sepoltura era accompagnata da strumenti litici anche se pochi rispetto a quelli che contraddistinguevano la sepoltura del fanciullo.
Lo studio dei reperti ossei permise di stabilire come il fanciullo Cro-Magno non era autoctono ma  di origine africane mentre la  donna sarebbe stata una delle madri evolutive dei Cro-Magnon che colonizzarono successivamente l’Europa.
Il Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente  e l’Unità di Ricerca di Preistoria e Antropologia dell’Università di Siena rinvennero negli strati paleolitici della Grotta di Paglicci e della grotta Romanelli a Castro (Lecce) i resti di un cane risalenti a 14.000 – 20.000 anni fa. Erano i resti dei più antichi cani domestici vissuti in Italia. I risultati della ricerca furono pubblicati nella rivista scientifica “Scientific Reports”.


Il prof. Francesco Boschin,  archeozoologo dell’Università di Siena e coordinatore della ricerca, ..
“Questa scoperta è di particolare interesse in quanto i cani più antichi, riconosciuti con certezza dagli studiosi di preistoria, provenivano fino a ora da contesti dell’Europa centrale e occidentale datati a circa 16mila anni fa. I resti pugliesi rappresentano quindi, a oggi, gli individui più antichi scoperti nell’area mediterranea ma potrebbero rappresentare anche le prime testimonianze in assoluto del processo che ha portato alla comparsa del cane, il primo animale domestico.
La domesticazione del cane si farebbe risalire all’ultimo massimo glaciale. Un periodo caratterizzato da una forte crisi ambientale dove le comunità e molti popolazioni animali cercarono rifugio in alcune regioni come le penisole dell’Europa meridionale (Italia peninsulare, Iberia, Balcani), l’area franco-cantabrica e il bacino dei Carpazi.
“In questo periodo di forte crisi il lupo, un predatore sociale per certi versi affine all’uomo, potrebbe aver individuato un nuovo modo per garantirsi la sopravvivenza: adattarsi a sfruttare gli avanzi delle prede dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, frequentandone le periferie degli accampamenti. Ciò avrebbe favorito il contatto sempre più stretto tra uomini e lupi e tra questi ultimi la sopravvivenza degli individui meno aggressivi. La selezione di animali sempre più docili avrebbe poi innescato il processo di domesticazione e la comparsa dei primi cani.
È ancora difficile capire se la Puglia possa essere stata un centro di domesticazione. I dati genetici di uno dei cani provenienti da Grotta Paglicci, datato a 14mila fa, ne mettono in risalto la somiglianza con un individuo di epoca comparabile proveniente dal sito di Bonn-Oberkassel in Germania. I due cani potrebbero quindi essersi originati da una popolazione comune, più antica, poi diffusasi in varie parti d’Europa. All’epoca il nostro continente era caratterizzato da una forte frammentazione culturale ma il rinvenimento di due cani geneticamente affini, uno in Italia meridionale e l’altro in Germania, significa che nonostante le differenze culturali il cane può aver rappresentato un importante elemento di contatto tra le comunità di cacciatori-raccoglitori dell’epoca.
Lo studio fu svolto dall’Università di Siena in collaborazione con l’Università di Firenze, il Centro Fermi di Roma, l’International Centre for Theoretical Physics di Trieste, l’Università di Bordeaux, il Museo nazionale preistorico etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, l’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana “Aleandri”, l’Istituto nazionale di Fisica nucleare – sezione di Firenze, il Musée de l’Homme di Parigi, Elettra Sincrotrone di Trieste e la Soprintendenza archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Barletta-Andria-Trani e Foggia.
Nella grotta furono anche rinvenuti un pestello da macinazione con residui di grani di amido. L’analisi dei grani permise di rilevare come i Cro-Magnon di Grotta Paglicci raccoglievano i chicchi delle graminacee selvatiche  e preferivano quelli d’avena, forse della varietà “bardato”.
I ricercatori affermarono in merito a questo ritrovamento che
 Il fatto che i residui derivino da chicchi di graminacee e non da tuberi e radici, dà molte informazioni sullo stile di vita di quelle popolazioni che, nonostante fossero cacciatori-raccoglitori, avevano iniziato ad utilizzare tecniche per la manipolazione delle risorse vegetali, infatti dai grani ottenevano la farina di avena, risalente a circa 32.000 anni fa.

Pestello e granulo di amido trovati all’interno della grotta di Paglicci.
Il rinvenimento di un pestello implica l’esistenza di una mortaio come pietra per triturare i semi delle graminacee. Il pestello si presenta ben modellato alla perfezione e questo per l’uso continuato a cui fu sottoposto. I  semi una volta essiccati al sole e triturati, come veniva cotta la farina? Veniva mescolata con l’acqua e successivamente come si operava data la mancanza di scodelle?
Ancora oggi alcune tribù del deserto cuociono sottili forme di pane su pietre ben levigate e preventivamente arroventate.
Nella grotta di Paglicci i Cro-Magnon probabilmente operavano nello stesso modo.
Gli archeologici fecero degli studi sui  granduli d’aveva che furono trovati nella grotta.
 Quei chicchi erano stati sottoposti ad un trattamento termico artificiale prima di essere macinati. Evidentemente l’azione del sole non bastava o, bastando, richiedeva troppo tempo. Per cui, una volta essiccata alla meglio all’aperto, quell’aveva veniva riscaldata. Ma come, avvicinandola volta per volta al fuoco? Un sistema inaffidabile, potendo prendere fuoco facilmente. Meglio invece mescolarla a ghiaia bollente e rigirarla con bastoni. Ancora le pietre insomma. Pietre con cui scacciare intrusi, macinare fiori e ricavarne colori, graffiare una parete rocciosa e disegnarvi cose, ostruire di notte l’ingresso di una caverna, modellare punte di frecce, raschiatoi, lame di ascia… 
La Grotta di Paglicci è come uno scrigno di gran valore per i suoi reperti e le manifestazioni d’arte che custodisce. In una saletta interna sono presenti delle pitture parietali che comprendono due cavalli di cui uno rappresentato in verticale.


L’altro cavallo, più grande, è rappresentato di profilo.


I cavalli sono raffigurati secondo uno stile franco-cantabrica e cioè in una posizione statica, molto voluminosi e rigonfi tanto da sembrare delle cavalle gravide e disegnate con un colore rosso molto intenso.
Sono raffigurate delle mani sia in negativo (spruzzando il colore sulla mano ferma sulla parete) o in positivo (la mano spalmata di colore viene pressata sulla parete).
Sono presenti almeno cinque mani riconoscibili.


Altri reperti rinvenuti:
- Frammento di tibia di un mammifero sul quale è raffigurato uno stambecco di profilo (datato 22.000 anni fa);
- In un frammento osseo (bacino di un cavallo) furono incise, su entrambe le facce, delle figure zoomorfe. Da una parte è graffita una scena di caccia. Una scena molto viva e ricca. Un cavallo in corsa affiancato da due cervi sui quali sono scagliati un gran numero di dardi.

Sulla faccia opposta è raffigurata la testa di un bue dalle grandi corna protese in avanti sul quale si sovrappongono in parte la testa di un altro bue e il profilo di un cerbiatto.

Furono rinvenuti altri reperti con raffigurazioni zoomorfe incise su ciottoli, lastre calcaree che si sono staccate dal soffitto della grotta, e su ossa degli animali cacciati.
- un ciottolo di colore giallo ocra, con dimensioni di (6,3 x 5,3 x1,4) cm, presenta ben due incisioni su una faccia. La più antica presenta una serie di linee che sono disposte lungo tutta la superficie e sembrano delineare la figura di un uccello con il becco (la figura non è di facile interpretazione) e con piumaggio. Il ciottolo, sempre su questa faccia, fu inciso con la raffigurazione di un probabile toro. È visto di profilo, dal lato sinistro, con occhio, naso e bocca ben delineati. Vicino alla corna è inciso un segno a V. Il significato di questa incisione è oscuro, si potrebbe ipotizzare come il simbolo di una freccia o di una ferita. Sul lato opposto del ciottolo è raffigurata la testa di un bovide, vista nel suo lato destro, forse una femmina ma la figura è rovinata. I lineamenti sembrano piuttosto delicati rispetto alla figura del bovide raffigurata nel lato opposto. Forse l’artista volle raffigurare nello stesso ciottolo un bovide di entrambi i sessi.

a.      la raffigurazione dell’uccello (?);
b.     la raffigurazione del bovide (maschio);
c.      c. la raffigurazione del bovide (femmina).
- Su un blocco calcareo è ben rappresentato il profilo di un uccello forse appartenente al genere Alca. Forse un’Alca impennis, un uccello estinto e raffigurato con sorprendente realismo per i particolari del becco, la livrea nuziale estiva. Le rappresentazioni di questo uccello sono molto rare nell’arte paleolitica che dimostra la presenza del volatile lungo le coste pugliesi. Infatti un altro disegno dello stesso uccello fu rinvenuto nella grotta Romanelli.


Alca impennis
Alcuni ciottoli presentano dei motivi geometrici e schematici indecifrabili. Alcuni segni potrebbero essere interpretai come raffigurazioni molto schematizzate della figura femminile, riconoscibile soprattutto attraverso la caratteristica espansione delle natiche e delle gambe secondo lo stile Gonnersdorf (figure femminili molto stilizzate).

Ricerca curata dalla dott.ssa  Elvira Visciola
https://www.preistoriainitalia.it/

La Dama di Caviglione




La Grotta del Caviglione, detta anche Grotte du Cavillon, è una grotta posta sulla costa ligure nei pressi di Grimaldi di Ventimiglia (Imperia).
Per grotta a frattura s’intende quella grotta le cui rocce si spaccano creando degli spazi vuoti.  Spazi che, con il passare del tempo, si possono allargare grazie alle infiltrazioni d’acqua che percola attraverso le fratture o per i movimenti  della terra.
La Grotta del Caviglione fa parte dell’importante complesso di ritrovamenti paleolitici dei Balzi Rossi cioè della suggestiva formazione rocciosa dal colore rossastro posta nelle immediate vicinanze del confine con la Francia.
Il complesso dei Balzi Rossi è costituito da grotte e ripari: Grotta dei Fanciulli, Riparo Lorenzi, Grotta di Florestano, Grotta del Caviglione, Barma Grande, Baousso da Torre e Grotta del Principe. 

Planimetria delle Grotte di Grimaldi (Balzi Rossi)
(ph. L. Malpieri ed altri, 1968)
In queste grotte fu rinvenuta la presenza umana, anche con sepolture del Paleolitico inferiore, da 350.000 a 300.000 anni fa, e del Paleolitico Superiore ( da 35.000 a 10.000 anni fa).
Una frequentazione attestata anche nel Paleolitico Medio con l’Homo neanderthal, il Cro-Magnon e un tipo specifico che fu denominato “Uomo di Grimaldi).
Uno dei siti più importanti d’Europa perché vi furono rinvenute ben dodici sepolture di cui due doppie ed una tripla. Sepolture con annessi corredi funerari costituiti da quindici statuine fittili (Veneri del Paleolitico), figure di arte parietale, strumenti di industria litica e reperti fossili di fauna.


Vecchio edificio del Museo Preistorico dei Balzi Rossi sotto la roccia in cui, in alcune cavità, sono stati trovati scheletri appartenenti alla cosiddetta "Civiltà Grimaldiana".
Foto: Luigiandrea Luppino © Fonte

Le grotte dei Balzi Rossi, visitabili entrando nel Museo Preistorico dei Balzi Rossi.
Foto: Luigiandrea Luppino © Fonte
Il colore rosso della roccia è legato alla presenza di minerali ferrosi che con il tempo
si sono ossidati dando luogo alla spettacolare colorazione.
La grotta è un importante sito paleolitico con reperti risalenti alla cultura musteriana del Paleolitico medio oltre ad una sepoltura gravettiana e ad incisioni rupestri.

I Balzi Rossi con i siti di: Grotta di Florestano, Riparo Mochi, Grotticella Blanc-Cardini,
Grotta del Caviglione e Riparo Bombrini.
La grotta, posta ad una quota di 16 m s.l.m., è distante dal mare circa 70 metri. È profonda 19 metri ed altra fra i 15 – 16 metri, con un ingresso largo circa 9 metri.
In epoca imperiale romana accanto alla grotta passava la Via Julia Augusta.
Nel 1870 durante la costruzione della linea ferroviaria Marsiglia – Ventimiglia furono asportate ampie parti del detrito antistante la grotta.
Il nome della grotta “Caviglione” era legato, secondo la testimonianza risalente al 1887 del presbitero francese Emilie Riviere, alla presenza di un pezzo di legno, a forma di cono e lungo 2 m, posizionato sulla sommità della grotta nelle fessure superiori delle pareti laterali della grotta.
Gli scavi nella grotta iniziarono nel 1858 condotti da Francois Forel. La grotta si presentava piena di sedimenti. L’archeologo asportò 1,5 metri di terreno ricco di humus, pietre e massi. Asportato il sedimento superiore furono rinvenuti i primi resti fossili di cavalli, cinghiali, cervi e camosci oltre a manufatti in selce. Tra i manufatti c’erano delle punte di freccia e di lancia lunghe da 8 a 9 cm. Lo strato successivo non presentava reperti.
La grotta fu quindi indagata da vari archeologi e naturalisti ma solo nel 1871 la grotta fu oggetto di un nuovo scavo eseguito da John Traherne Moggridge, Stanislas Bonfils e Olivier Costa de Beauregard. Sui risultati di questi scavi si hanno pochi riferimenti e poche testimonianze legati a strati epigravettiani. Molti reperti andarono perduti.

Lama Levallois (sinistra) e punta dello strato musteriano II (Foyer II) risalenti a circa 70.000 anni fa

Nel dicembre 1871 e il febbraio 1874 il famoso preistorico francese Emile Rivière eseguì delle campagne di scavi. Nel 1871 era iniziata la costruzione della linea ferroviaria (Marsiglia – Ventimiglia). Fu scavata una profonda trincea nell’area prospiciente la grotta e il Rivière rinvenne nel pendio, grazie a questi lavori, un gran numero di reperti ossei e di strumenti in pietra. Questi rinvenimenti furono la base per indagare il sito con uno scavo sistematico.
Il Riviére acquistò i reperti e chiese alle autorità francesi il permesso per condurre degli scavi.
Nacque un cavillo giuridico sulla proprietà della grotta e di tutto il complesso.
In seguito al Trattato di Torino del 1860, stipulato dopo la seconda Guerra d’Indipendenza, il territorio era stato dichiarato di proprietà italiana. Le autorità italiane protestarono e alla fine il Riviére ottenne il permesso di scavo dalle autorità italiane (Governo Giovanni Lanza – Destra Storica).
Il ricercatore non si limitò nell’acquisizione del permesso di scavo ed acquistò la Barma Grande, il Baousso da Torre e la grotta del Principe. Riuscì ad ottenere dagli abitanti del posto i diritti esclusivi per lo sfruttamento della grotta dei Fanciulli, del Riparo Lorenzi, della grotta di Florestano e anche della grotta del Caviglione. Gli scavi iniziarono nelle varie grotte e continuarono fino al 1875(?).
Operò lo scavo dall’ingresso fino al fondo della grotta. In sezioni alte ben 25 metri, asportò una sequenza di strati spessi 7 m che, oltre ad una sepoltura gravettiana di circa 24.000 anni fa, contenevano resti di attività umana risalenti anche ai periodi aurignaziano (40.000 – 31.000) anni fa e musteriano (120.000 – 40.000) anni fa.  Il ricercatore fermò gli scavi quando raggiunse la roccia esposta.
La sepoltura gravettiana fu scoperta il 26 marzo 1872 e lo scheletro fu subito nominato come
Uomo di Mentone.
In realtà si trattava della sepoltura di una donna che fu denominata
Dame du Cavillon.
La notizia dell’importante rinvenimento suscitò  grande scalpore perché si trattava
Del fossile umano più completo attribuito al Paleolitico.
Stranamente si suscitarono delle polemiche e delle forti contestazioni in merito all’età della sepoltura. Infatti molti “scienziati” misero in dubbio la collocazione dello scheletro al Paleolitico.
Il Rivière continuò gli scavi fino al febbraio 1874, scavando il deposito per uno spessore di circa 7 m.
Nel 1895 ripresero gli scavi nella grotta e proseguirono fino al 1902.
Il fondo della grotta, rilevato nel febbraio 1874, si rilevò uno strato compatto di pietra di crollo. Sotto questo strato il Rivière e l’archeologo Léonce de Villeneuve scoprirono altri livelli di epoca musteriana con tre grandi focolari.
Gli scavi furono patrocinati dal principe Alberto I di Monaco e con l’assistenza di Emile Cartailhac, René Verneau e Marcelin Boule, la grotta fu svuotata completamente. Furono rinvenuti raschiatoi musteriani, lame e punte Levallois, resti di cervi  oltre a pochi reperti ossei di  cavalli e stambecchi.
Questi ultimi strati furono datati tra 71.000 e 57.000 anni fa.
Nel 1971 G. Vicino identificò inoltre la presenza di incisioni, tra cui quella che raffigura un cavallo selvatico visto di profilo, databile al Gravettiano

Il Rinvenimento della Dama di Caviglione.
La scoperta dello scheletro della dama avvenne il 26 marzo 1872. Emile Riviére trovò ad una profondità di 6,55 m l’osso di un piede e solo dopo  otto giorni recuperò lo scheletro completamente conservato che fu recuperato in blocchi. Nelle grotte dei Balzi Rossi alla fine furono recuperati 13 scheletri del Paleolitico ma la Dama di Caviglione era il primo.
Era stata sepolta lungo la parete orientale della grotta, ad una distanza di 7 m dall’ingresso.
La salma fu posizionata in posizione laterale sinistra con le gambe piegate e le mani vicino al viso, due punte di freccia di selce ed un grosso osso, forato ad una estremità posto sul petto, come se facesse parte di una collana.
La testa era rivolta a Sud mentre il viso ad Ovest.
(L'espressione "la testa rivolta a sud, il viso a ovest" è una descrizione di come un cadavere poteva essere posizionato nelle tombe egiziane antiche. In particolare, nella cultura pre-dinastica e nella cultura di Naqada, si riteneva che il defunto fosse deposto nella tomba in posizione contratta, con il corpo orientato a sud e il viso volto verso ovest. Questa posizione, che sembra imitare la posizione del sonno, era un elemento importante nel rito funerario egiziano). 


Skelett der Dame von Caviglione in Fundlage (Abguss)
Presentava un copricapo composto da più di 300 conchiglie marine perforati, denti di cervo e sopra  la fronte era infilato un grosso perno in osso. Altre conchiglie si travano in prossimità della tibia, probabilmente perché facevano parte di un braccialetto decorativo posto sulle gambe. 


Il suo corpo presentava tracce di ocra rossa così come il terreno e il corredo funerario costituito da ossa di cavalli.
Sotto l’articolazione del ginocchio sinistro si trovavano delle conchiglie perforate, probabilmente indossate come ornamenti per le gambe.
Riviére prese in considerazione le circostanze del ritrovamento, le dimensioni e la robusta struttura ossea dello scheletro ed ipotizzò che fosse
Un uomo delle caverne con catene di gusci di lumava e denti avvolti intorno al collo..
….. morto nel sonno.
Lo stesso archeologo lo chiamò
L'Homme de Menton
per la vicinanza alla cittadina francese.
 Nell’aprile, sempre nel 1872, lo scheletro fu trasferito al Jardin des Plantes del “Muséum national d'histoire naturelle” di Parigi  (insieme alla porzione di terreno su cui giaceva il corpo con tracce di pietre carbonizzate) e ripetutamente esaminato per i successivi 30 anni.  Uno scheletro sempre avvolto dal dubbio degli esperti che lo ritenevano pertinente ad una sepoltura risalente al Paleolitico superiore.
Lo scheletro a partire dal 1988 fu sottoposto ad analisi e scansioni che determinarono, con una probabilità dell’80 – 96%, la sua appartenenza al sesso femminile.
Era alta circa 1,70 (altri siti riportano un’altezza di 1,90 m.), una misura tipica per le popolazioni europee del Paleolitico superiore, pesava circa 70 kg, morì all’età di circa 37 anni e aveva avuto almeno un figlio.
L’ossatura presentava una frattura vicino al polso.
Per determinare l’età della sepoltura furono esaminati diversi gusci di chiocciola (Tritia neritea, Linnaeus 1758), presenti nella sua cuffia, con il metodo del radiocarbonio.
L’intervallo di tempo della sua sepoltura risultò compreso tra 22.450 e 26.660 anni fa. La donna fu quindi sepolta nel periodo gravettiano risalente a circa 24.000 anni fa, caratterizzato da un clima freddo e secco tipico della fase finale della glaciazione Wurm.
In merito alle 300 conchiglie forate legate insieme per formare un cuffia, secondo altri studio sarebbero della specie Ciclope neritrea, un mollusco marino delle spiagge sabbiose. Sui bordi della cuffia era presente una frangia di denti rossi di cervo (Cervus elaphus).
La donna doveva avere una sua importanza nella comunità forse perché sciamana e quindi la sua sepoltura fu legata ad una cerimonia o rituale.

La sepoltura della Dama di Mentone, ritrovata da Emile Rivière il 26 marzo 1872
nella Grotta del Caviglione.
L’illustrazione è stata ricavata da una fotografia eseguita al momento della scoperta
(ph. V. Formicola ed altri, 2015)




Nel 1874 trovò nel Baousso da Torre tre sepolture:
- Un adolescente sepolto in maniera insolita, a faccia in giù. Il motivo di questa sepoltura insolita e rara? L'archeologo Reynolds suggerì come la sepoltura a faccia in giù, secondo il pensiero simbolico, doveva impedire ai morti di "risorgere", poiché scavando sarebbero solo finiti più in profondità;
- Due individui adulti.
Le sepolture presentavano i relativi corredi funerari, simili a quelli rinvenuti nella Grotta del Caviglione, e sepolti ad una profondità di circa 3,79 – 3,90 m dal suolo originario della grotta.
Due di queste sepolture si trovano nel Musée Lorrain di Nancy e l’altra è nel Museo Nazionale delle antichità di Saint-Germain-en-Laye, presso Parigi.
Nel 1874 un altro importante rinvenimento. Due sepolture infantili nella Grotta che fu denominata dei Fanciulli. Furono trovati ad una profondità di circa 2,70 m. i due fanciulli erano posti l’uno accanto all’altro,, in posizione supina e con numerose conchiglie disposte attorno all’anca. Forse facevano parte di un’antica veste. Furono effettuate delle analisi sulle dentature dei due fanciulli e fu accertata un’età tra i 2 – 3 anni. (Reperti esposti al Musée des Antiquites Nationales di Saint Germain-en-Laye).

Le due sepolture infantili nella Grotta dei Fanciulli.
Nel 1880 un imprenditore locale, un certo Francesco Abbo, riuscì ad acquistare   le grotte della Barma Grande e del Baousso da Torre sottraendole al Riviére. Il nuovo proprietario non aveva alcun interesse per l’archeologia. Il suo obiettivo era quello di prelevare della terra dalla grotta  Barma Grande per usarla come fertilizzante per un suo vigneto.
Questa incresciosa situazione giunse al principe Alberto I di Monaco che si mise in contatto con il sig. Abbo per un accordo su scavi preventivi.

Alberto I di Monaco non fu un archeologo professionista, ma  un appassionato del campo e un importante sostenitore della ricerca scientifica. Il suo interesse per l'archeologia, in particolare per la 
preistoria, lo portò a fondare il Museo di Antropologia preistorica a Monaco.
Gli scavi iniziarono nel 1882 con una rigorosa documentazione stratigrafica ma i rapporti con il proprietario della grotta costrinsero il Principe a fermare momentaneamente le ricerche.
Fu grazie all’intervento di un commerciante di Marsiglia, Louis-Alexandre Jullien, che gli scavi ripresero nella Barma Grande con risultati eccellenti.
Con la collaborazione di Bonfils, nel dicembre 1883 vennero trovate le prime due statuine dei Balzi Rossi:
- “la dama con il gozzo”, scoperta il 18 dicembre 1883.

È una statuina piatta, con un piccolo spessore (dimensioni : 4,5x1,4x0,8)cm e con un peso di 4 grammi. Fu realizzata utilizzando un corno di cervide e manca di alcune parti. Anticamente fu incollata in corrispondenza della vita perché rotta in due parti.
Presenta la testa molto rovinata e nel collo è presente una piccola protuberanza o nodo da cui il nome. Un nodo che potrebbe essere l’origine di un pendaglio. I seni ed il ventre hanno un aspetto conico con le punte rivolte verso il basso. Nella parte bassa del ventre, al centro del triangolo pubico, è presente una fessura longitudinale che rappresenta la vulva tra due grandi labbra. Il retro della statuina presenta le natiche, raffigurate con due masse piriformi, mentre le gambe mancano al di sopra delle ginocchia. Fu trovata ad una profondità di 3 – 4 metri in uno strato che fu datato a circa 14.000 anni fa.
- La statuina in steatite gialla. Fu rinvenuta il 23 dicembre 1883 sempre nella grotta Barma Grande. Una statuina femminile in steatite traslucida giallo-marrone e conosciuta anche come la “Venere di Grimaldi”. La sua datazione è di circa 20.000 anni fa.
Presenta dei seni penduli che si poggiano sul ventre. Ventre e natiche prominenti e pube e vulva ben marcati. Le braccia mancano e le gambe sono interrotte all’altezza delle ginocchia. Capovolgendo la statuina, la parte inferiore presenta due buchi a sezione conica, uno per ogni arto mancante che sono andati perduti. La testa è ovale e non presenta i lineamenti del volto e porta un copricapo che si sviluppa lungo la schiena come una appendice triangolare. Per alcuni storici il copricapo sarebbe una folta chioma di capelli. Nella statuina sono presenti tracce di ocra sono presenti intorno al collo, ai seni, al pube e tra le gambe. Le dimensioni della statuette: Altezza, 4,8 cm – larghezza: 2,1 cm – spessore: 1,3 cm . ha un peso di 15 grammi. Presenta tracce di usura ma nel complesso il suo stato di conservazione è ottimo. Pur essendo stata trovata in territorio italiano è di proprietà del Musée des Antiquites Nationales di Saint Germain-en-Laye. Nel 1895 circa fu proposta in vendita a Salomon Reinach, allora direttore del Musée des Antiquités Nationales di Saint-Germain-en-Laye. L’acquisto fu concluso nel 1896 insieme ad altri oggetti provenienti dalla stessa grotta.

I tempi erano decisamente diversi dai nostri e il rinvenimento di due statuine femminili con le loro nudità suscitò molto clamore. Jullien decise di nascondere il rinvenimento. L’occultamento delle due statuine era anche legato ad un altro aspetto. Le due statuine presentavano la superficie perfettamente levigate e quindi riferibili al neolitico e ciò avrebbe messo in discussione tutte le ricerche e la datazione dei ritrovamenti. Nel febbraio 1884 fu scoperta un’altra sepoltura. Era lo scheletro di un uomo adulto ed in buono stato di conservazione, cosparso di ocra rossa e con un corredo funerario costituito da lame di selce.
Il Jullien ebbe un forte litigio con colluttazione con il proprietario della grotta (il sig. Abbo). Lo scheletro fu distrutto e fu anche revocata la licenza di scavo. Alcuni resti dello scheletro, per lo più frammenti, finirono al Peabody Museum della Harvard University a Cambridge negli USA. Il cranio e parte del femore furono esposti nel Museo di Mentone.
Nel febbraio 1892, sempre nella Barma Grande, ad una profondità di circa 11 metri dal piano della grotta, fu rinvenuta una triplice sepoltura.
Erano tre scheletri, risalenti a circa 20.000 anni fa:
- un maschio adulto alto 1.90 con possente robustezza scheletrica;
- due ragazze, probabilmente sorelle deposte con il padre o altro stretto parente, ordinatamente deposti affiancati nella stessa fossa, cosparsi di ocra rossa con un ricco corredo di conchiglie marine, denti di cervo, pendagli in osso lavorato e lame di selce.
In campo archeologico il ritrovamento di questa sepoltura fu molto importante. Si era in presenza di una sepolture triplice del Paleolitico. Una sepoltura molto rara infatti un altro esempio, unici nel mondo, sarebbe presente nella Repubblica Ceca.

La triplice sepoltura della Barma Grande con il ricco corredo funebre

Nel 1894 furono rinvenute due sepolture di maschi adulti. Le sepolture erano a poca distanza l’una dall’altra e a circa 6,40 metri di profondità. Uno dei due scheletri poggiava su un focolare. Questo particolare aspetto della sepoltura fece avanzare l’ipotesi su una probabile combustione del cadavere. In realtà il focolare era molto più antico della sepoltura.
Questi importanti ritrovamenti suscitarono un ulteriore interesse da parte del Principe Alberto di Monaco che, spinto sempre dal suo grande interesse per la ricerca, acquistò la grotta che prese il suo nome.
Acquisita la proprietà, avviò dal 1895 al 1902 una intensa attività di ricerca archeologica con una equipe molto specializzata composta dal canonico L. De Villenueve e da Pierre Marcellin Boule.
Gli scavi interessarono la Grotta del Principe e successivamente la Grotta dei Fanciulli. Di scarso rilievo furono gli scavi nella Grotta del Caviglione e nel Riparo Lorenzi.
Nella Grotta dei Fanciulli furono rinvenute diverse sepolture. Negli strati superiori contigui a quelli dove furono rinvenuti i due fanciulli, venne alla luce la sepoltura di una donna, sepolta in posizione supina, in cattivo stato di conservazione.
Nei livelli inferiori emersero delle sepolture:
- un maschio adulto, di alta statura e dalla conformazione ossea robusta, deposto con le mani sul petto;
- una sepoltura doppia detta dei “Negroidi” con:
a. una donna anziana con un braccialetto di conchiglie marine;
b. un fanciullo di 15 – 17 anni con un copricapo costituito da quattro file di conchiglie marine.
I due corpi erano in posizione rannicchiata con la testa protetta da una serie di pietre disposte a cassetta; presentavano caratteristiche differenti rispetto alle altre sepolture trovate ai Balzi Rossi, ad esempio una minore statura (1.59 la donna ed 1.56 il ragazzo) ed una differente morfologia del cranio (più simile alle razze negroidi), tanto che si parlò di un nuovo tipo umano detto razza Grimaldi. Gli studi confermarono come i due corpi furono sepolti in epoche diverse e attribuibili al gravettiano. Le osservazioni sulle sepolture di questo periodo e la presenza dei corredi funebri, dell’ocra rossa e degli ornamenti dimostrarono finalmente l’esistenza di veri e propri riti funebri nel Paleolitico Superiore (Cro-Magnon).

La sepoltura doppia detta dei Negroidi nella Grotta dei Fanciulli.
(ph. V. Formicola ed altri, 2015).
Il Principe Alberto I di Monaco, da grande esponente nel mondo della cultura, nel 1902 creò  nel Principato di Monaco il  Musée d’Anthropologie Préhistorique  dove espose i reperti rinvenuti nei Balzi Rossi. Nel 1898 il mecenate inglese Thomas Hanbury aveva creato il Museum Praehistoricum presso l’area archeologica dei Balzi Rossi dove furono esposti una parte dei reperti rinvenuti sempre nelle varie attività di scavo.
Il Museum Praehistoricum in una foto del 1910 di Henri-Marc Ami (ph. M. Mussi ed altri, 2008)
Nella Grotta del Principe fu rinvenuto il bacino di una donna, tipo  Heidelbergensis,  risalente a circa 250.000 anni fa quini del Paleolitico Inferiore. Il reperto fu inserito nell’area museale dei Balzi Rossi.
Gli scavi in quest’area iniziarono nel 1895 e il principe con gli archeologi si resero conto di come la grotta non fosse integra e scavata in modo clandestino da Jullien negli anni tra il 1892 ed il 1895.
Il Jullien in questi scavi clandestini trovò un tesoro di inestimabile valore costituito da ben 13 statuine cioè le Veneri del Paleolitico che rappresentavano
La Madre Terra
I Jullien portò le statuine in Canada (partì con la moglie in un viaggio senza ritorno …) diventando protagonista di un vero e proprio furto.
A sinistra:  Louis Alexandre Jullien (antiquario marsigliese).
A destra: Stanislas Bonfils, storico locale.
I due ricercatori iniziarono le attività di ricerca nel 1883.
Ma fu il Jullien a trovare le Veneri con degli scavi clandestini nascondendo
il prezioso ed importante rinvenimento.
Nel 1894 un magistrato collezionista di arte preistorica, Edouard Piette, trovò a Brassempouy una Venere datata al Paleolitico Superiore.

Brassempouy è un piccolo comune francese, di 316 abitanti, posto nel dipartimento delle Landes nella regione della Nuova Aquitania.
Vicino al villaggio ci sono due grotte distanti 100 m l’una dall’altra
- Galerie des Hyènes (la Galleria delle iene). All’interno della grotta furono rinvenuti molti resti di iena delle caverne;
- la Grotte du Pape (la Grotta del Papa), dal nome di una fattoria posta nelle vicinanze.

Nella Grotte du Pape fu trovata dal Piette la famosa Venere che fi denominata
La Venere di Brassempouy –
La Signora di Brassempouy  o
Signora con il Cappuccio
Un frammento di statuetta in avorio raffigurante un volto umano.
Nella stessa grotta furono rinvenute altre  otto figure umane considerate incompleti.
Il rinvenimento della statuetta e la sua datazione al Gravettiano (Paleolitico Superiore) destò molte perplessità negli scienziati.
A Brassempouy si scatenò una vera e propria caccia al tesoro con il ritrovamento di due statuine d’avorio note come “Ebauche” (Bozza ?) e “Poire” (Pera).
Questi ritrovamenti confermarono l’esistenza di queste statuine risalenti proprio al periodo Gravettiano.

Venere di Brassempouy



La piccola testa fu scolpita in avorio di mammut.
Presenta le seguenti dimensioni: alta 3,65 cm; profonda 2,2 cm e larga 1,9 cm.
Il suo viso è triangolare; fronte, naso e sopracciglia furono scolpite in rilievo; la bocca è assente.
Sul lato destro del volto è presente una fessura verticale legata alla struttura interna dell’avorio.
Sulla testa presenta una serie di incisioni a scacchiera formata da due serie di solchi superficiali ad ogni angolo retto gli uni tra gli altri. Questo disegno fu interpretato come una “parrucca”, un cappuccio o semplicemente la rappresentazione dei capelli.
L’archeologo Paul Bahn affermò come
Non è possibile attribuire un sesso alla figura………
Ancora oggi la statuetta è chiamata signora o donna.
La sua datazione è del Gravettiano finale e cioè a circa 28.000 – 22.000 anni fa mentre altri la collocano verso 20.000 anni fa.
Malgrado lo scetticismo di qualche archeologo, la comunità scientifica considera la figura come
il volto inciso più vetusto della storia dell’arte.
Oggi noi siamo ormai abituati a vedere l’arte secondo schemi ben precisi eppure i tratti della Signora di Brassempouy,  leggiadri e armoniosi rispetto alle Dame a lei contemporanee, sono di difficile esegesi perché scolpiti a grandi linee.
Le sculture delle figure femminili, comunemente denominate “Veneri” dagli esperti delle civiltà protostoriche, presentavano eccessi e sproporzioni nelle forme e spesso erano mancanti del viso, mentre la figura di Brassempouy presenta un volto trigono mancante dell’incisione della bocca, mostra un portamento fiero (altero), un collo lungo e slanciato, e sul capo l’artista ha inciso un disegno quadrettato che porta a pensare ad una particolare acconciatura o ad un tipico copricapo dell’epoca. Le “Veneri” erano considerate talismani di feracità: quali amuleti di fecondità, mediante un elemento di sostegno, venivano sistemate nel terreno come rituale propiziatorio.
La statuetta suscitò tanto polemiche e vide un forte dibattito nella comunità scientifica, non considerando l’epoca in cui fu scolpita e il pensiero simbolico di chi la creò.
L’antropologo americano Randall White osservò (in una sua ricerca pubblicata sulla rivista “Journal of Archaeological Method and Theory”), che
Le figurine emersero dal suolo in un contesto sociopolitico e intellettuale coloniale e quasi ossessionato dalle questioni di razza.
L’archeologo White osservò come lo stile fosse realistico ma le proporzioni della testa, secondo la sua critica, non corrispondevano a nessuna popolazione attuale o passata.
L’espressione artistica fu quindi colpita da una  questione razziale tralasciando quella che era la sua vera espressione artistica e cioè
L’esaltazione della femminilità e della fertilita…
Ovvero..
L’esaltazione del mondo femminile.
La figura è quasi contemporanea con altre figure come quelle di  Lespugue, Dolní Věstonice e Willendorf,  ma si distingue  per l'elevato realismo della rappresentazione.
La Signora di Brassempouy è conservata presso il Musée d'Archéologie Nationale di Saint-Germain-en-Laye, vicino a Parigi. Poiché l'avorio è molto sensibile ai fattori esterni quali la temperatura, l'umidità e la luce, il reperto non fa parte della mostra permanente del museo. È quindi  esposto in  mostre temporanee.
Alla fine nella Grotte du Pape di Brassempouy furono recuperate, compresa la dama” ben 8 figurine femminili in avorio di mammut. Presentavano un’altezza variabile tra 9,4 – 3,6 cm esposte nel Museo di Archeologia Nazionale di Saint-Germain en Laye (Francia). Tutte datate al Paleolitico Superiore, cultura Gravettiana (25.000 anni fa circa).




Improvvisamente riapparve sulla scena archeologica il Jullien che da Montreal rese nota l’esistenza delle quindici statuine che aveva recuperato nella Barma Grande e nella Grotta del Principe. Il suo obiettivo non era quello di restituire le statuine al territorio da cui, in modo ignobile le aveva sottratte, ma di trovare un acquirente.
Propose la vendita della “Venere gialla” (in steatite traslucida tra giallo e marrone e denominata “Statuina di Grimaldi”) (già trattata nella ricerca) a Salomon Reinach, allora direttore del Museé des Antiquités Nationales di Saint-Germain-en-Laye. Il Direttore del Museo acquisì la “Venere gialla” insieme ad altri oggetti provenienti dalla Barma Grande che entrarono subito a far parte della collezione del museo.
Edouard Piette venne a conoscenza dell’esistenza delle preziose Veneri e anche lui acquistò dal Jullien, in due diverse contrattazioni, sin dal 1896 ben sei statuine:
- La Losanga.


Detta anche “Venere romboidale” per la sua particolare forma simmetrica. Presenta le anche allargate, la testa ed i piedi terminano a punta. Questo conferisce alla figura la forma di una losanga. La testa è priva di dettagli, sembra avere una sorta di cappuccio dalla forma ovoidale, e termina a punta sia nella parte superiore che nel mento. Una piccola scanalatura evidenzia il contorno dei capelli. I seni sono appiattiti, forma ovoidale, e separati tra di loro. le braccia sono mancanti e la traccia della loro presenza è segnata da una piccola curva in corrispondenza della spalla. Il ventre è voluminoso e prominente, al di sotto il triangolo pubico presenta al suo centro una vulva aperta verticalmente; lo stesso segno è evidente nella parte posteriore, al di sotto delle natiche piatte, tra le due gambe che terminano infine in maniera affusolata al di sopra della posizione dei piedi. Le sue dimensioni massime (6,2x2,4x1,7)cm e un peso di circa 18 grammi. È stata realizzata in steatite verde oliva scuro e ritrovata da Jullien nella Grotta del Principe. Le sue condizioni sono ottime.

- Il Pulcinella


La statuina di Pulcinella
(Disegni di M. Mussi. Ph Mussi ed altri, 2004).

Una figura femminile con testa e gambe appuntite, in steatite verde color oliva scuro. Le dimensioni (6,1x1,1x 2,0)cm e con il peso di 9 grammi. Fu trovata nella Grotta del Principe nel 1892 – 1895 da Jullien. Il suo nome è legato alla particolare forma del capo, stretto ed ovale che termina con una punta aguzza tirata all’indietro, forse a rappresentare una capigliatura, mentre il mento ha un profilo triangolare sporgente in avanti. Gli arti superiori non sono rappresentati ma un volume ne fa presagire la presenza, come se le mani fossero giunte al di sotto del seno voluminoso; il ventre è molto accentuato e prominente, come quello di una donna partoriente, con un taglio orizzontale ad indicare l’ombelico. Il pube triangolare ha un’incisione al centro a rappresentare una vulva; al di sotto l’incisione prosegue a dividere le gambe, mentre sul lato posteriore i glutei sono particolarmente prominenti con un’incisione verticale che prosegue negli arti inferiori.

-    L’Ermafrodita

L’Ermafrodita
(Disegni di M. Mussi, ph. Mussi ed altri, 2004).


È una statuina femminile appiattita mancante di testa e degli arti inferiori dal ginocchio in giù. I seni piatti sono divisi tra loro da un solco evidente, il ventre circolare è poco sporgente ed occupa una posizione anomala, all’altezza dello stomaco. Sotto il ventre ci sono tre rilievi difficilmente interpretabili, ossia due masse allungate a rappresentare probabilmente le mani ed al centro un elemento interpretato come fallo, motivo per cui Edouard Piette diede il nome di Ermafrodita. Una recente interpretazione invece attribuisce questo dettaglio al momento del parto, l’elemento al centro sarebbe la testa di un bambino che emerge mentre le linee incise rappresenterebbero i capelli. A sostegno di questa tesi, nella Dama ocrata (tra i reperti ritrovati in Canada) i capelli sono raffigurati con la stessa tecnica. Sul retro, nella parte bassa, è rappresentato un indumento o un ornamento a copertura delle natiche. Ritrovata da Jullien nella Grotta del Principe, ha le dimensioni massime di (5,1x1,7x1,1) cm con il peso di 11 grammi. È datata al 25.000 a.C.; e realizzata in steatite verde olivastro. Lo stato di conservazione è mediocre, oltre alle parti mancanti (testa e metà degli arti inferiori), presenta varie fratture i più punti, con parti di materiale mancante.

- Dama con il gozzo (già descritta);
- la Testa Negroide


La Testa Negroide
(Disegni M. Mussi, ph. Mussi ed altri, 2004)

È una testa parzialmente antropomorfa con una fronte sfuggente ed una cuffia quadrettata sul capo creata da profonde incisioni a formare un fitto reticolo, motivo che ricorda le cuffie del gravettiano (dama di Brassempouy o quella di Laussel). Il volto è bombato privo di naso, con orbite profonde, zigomi marcati, bocca resa con incisioni e mento prominente. La base è levigata, motivo che fa pensare fosse una testa isolata già nel Paleolitico. Ritrovata da Jullien nella Grotta del Principe, ha le dimensioni massime (2,5x1,4x2,4) cm., con un peso di circa 13 grammi. Realizzata in steatite opaca color verde scuro si presenta in condizioni discrete, con alcune fratture nella parte superiore della testa, probabilmente causate da uno sfaldamento. Ha subito un intervento di restauro con incollaggio di più pezzi ad opera dello studioso di preistoria e collezionista di arte paleolitica Edouard Piette, che l’acquistò con altre 6 statuine che poi furono da lui donate al Musée des Antiquités Nationales di Saint-Germain-en-Laye.

- L’Innominata (che fu acquistata da Edouard Piette nel 1902)


L’Innominata
(Disegni M. Mussi, ph. Mussi ed altri, 2004)
È detta l’ “Innominata” poiché è l’unica statuina femminile tra i reperti dei Balzi Rossi a non essere stata presentata nella relazione del 1902 di Edouard Piette, forse perché acquisita al Patrimonio del Museo dopo la stesura del lavoro. Ha testa ovale con i tratti abbozzati, infatti sono appena evidenti le orbite degli occhi ed il contorno del naso. I seni sono pendenti verso il basso, separati tra loro e con il resto del torace con profonde incisioni. La parte inferiore del corpo è mancante pertanto non si conosce la forma delle gambe. Ritrovata da Jullien nella Grotta del Principe, ha dimensioni massime di(3,8x1,2x1,4) cm e il peso di circa 8 grammi. Realizzata in steatite opaca color verde scuro, molto meno levigata rispetto alle altre statuine dello stesso materiale, presenta anche diverse concrezioni ferrose. Lo stato di conservazione è mediocre, sia per le parti mancanti che per le fratture in diversi punti oltre a diverse incrostazioni. La statuina è datata al 25.000 a.C.

Malgrado l’acquisizione delle statuine per il Museo, il Piette non espose i reperti. Solo nel 1902 si limitò a dare un comunicato alla stampa nel quale citava le statuine
più piccole e meno ben scolpite….. rispetto a quelle di Brassempouy,
Pubblicò le foto solo di due statuine: la Testa Negroide e il Pulcinella. Nell’articolo fece anche delle osservazioni di tipo razzista che avevano come base gli aspetti coloniali del tempo.
Altre figure s’interessarono alle statuine tra cui l’Abate Henry Edouard Prosper Breuil ( famoso archeologo, antropologo e geologo) che incaricò  un suo confratello, l’Abate Dupaigne che dimorava a Montreal, di avere notizie in merito.
L’Abate Henry Edouard Prosper Breuil

L’abate riuscì ad ottenere nel 1915 un disegno schematico di due delle statuine, quelle denominate il Busto e il Giano, notizie da lui pubblicate solo nel 1930.
Sulle statuine scese il silenzio e solo dopo mezzo secolo tornarono alla ribalta per merito del Jullien sempre al centro della disonesta vicenda.
Jullien cercò di vendere le altre statuine ma gli eventi della prima guerra mondale fermarono il suo losco proposito.
Nel 1928 l sig. Jullien morì e una delle sue figlie (Laurence), che nel frattempo s’era trasferita negli Stati Uniti, donò nel 1944 al Peabody Museum dell’Università di Harvard:
- la “statuina con il collo perforato” o “Giano”;
- circa 380 strumenti in pietra ritrovati dal padre negli scavi alla Barma Grande.

La Statuina detta “con il collo perforato” o “Giano”.
(ph. Donsmap.com)


La statuetta “Giano” secondo la foto e gli schizzi forniti dall’Abate Dupaigne
all’Abate Breuil ,
(ph. Da Mussi ed altri, 2004).
La statuina di Giano faceva parte delle 15 statuine trovate durante gli scavi al complesso dei Balzi Rossi, ad un passo dal confine francese, alla Barma Grande a circa 6 metri di profondità, in uno strato contenente focolari e strumenti intagliati tipici del primo epigravettiano, datati al 17.000 a.C. Fu denominata “Giano” perché il suo volto, con occhi e bocca scolpiti, è rappresentato su entrambi i lati della statuina appiattita. Sul capo sono evidenti una serie di incisioni discontinue a rappresentare un cappuccio o l’acconciatura dei capelli. Scolpita su un frammento di steatite opaca di colore verde scuro, ha il seno di forma ovale, con pancia prominente, natiche appiattite ed una piccola vulva aperta scolpita; le ginocchia ed i piedi sono completamente assenti. Tra il seno ed il collo è presente un foro realizzato prima della modellazione dei seni, probabilmente perché è stato utilizzato come ciondolo. Sono evidenti tracce di materiale rossastro, probabilmente ocra, soprattutto all’interno del solco tra le gambe.

Altre cinque statuine rimasero nell’oblio fino al 1987 quando le nipoti di Jullien decisero di vendere ad un antiquario di Montreal un baule che conteneva anche cinque statuine della grotta Barma Grande.
Nel novembre, sempre del 1987, le statuine vennero acquistate da uno scultore di Montreal, tale Pierre Bolduc, per 225 dollari.
( Al netto dell’inflazione 225 dollari del 1987 equivalgono a 643 dollari del 2025.
643 dollari nel 2025 equivalgono a 570 Euro………)
Dopo alcuni anni, nel 1993 Bolduc le portò alla Mc Gill University di Montreal per la valutazione ed analisi.  Ottenne  la conferma che le 5 statuine erano effettivamente la parte mancante della collezione Jullien da tempo perduta. Dietro insistenza di Bolduc, le nipoti di Jullien, Lucie e Laurence Jullien-Lavigne, ritrovarono le ultime due statuine, il Busto e la Bicefala.
Le 15 statuine alla fine tornarono in luce dopo vicende tristi certamente non legate al concetto di valore storico e culturale.
Sottratte dal territorio italiano, trafugate da chi sotto le false sembianze di ricercatore ed archeologo aveva condotto degli scavi, portate a Montreal  dallo scopritore in un viaggio compiuto con la moglie, diventate merce di lucro   superando il concetto di cultura, la lunga discussione sulla loro autenticità… gli antichi Cro-Magnon  autori di queste espressioni d’arte non avrebbero mai potuto immaginare una vicenda con simili aspetti lontani dal mondo di concepire la loro vita e gli obiettivi che quelle statuine avevano nel loro pensiero simbolico.
Le sette statuine canadesi furono esposte al pubblico solo una volta, nel 1995  al Canadian Museum of Civilization di Hull in Quebec, per la mostra dal titolo “Madri del tempo”, curata dall’archeologo Jacques Cinq-Mars, con la collaborazione dell’archeologa italiana Margherita Mussi.

- La Statuina Doppia detta anche “La Bella e la Bestia”. Anch’essa ritrovata nella Grotta del Principe, è scolpita su un frammento di serpentino giallo-verdastro lucidato a specchio, alto 47 mm., spesso 23 mm. e largo nel punto del seno 10 mm. Il peso è di circa 12 grammi. Sono rappresentati due corpi, schiena contro schiena, disposti simmetricamente ad arco con uno spazio vuoto tra le teste, a suggerirne l’uso come pendaglio. Un corpo ha le caratteristiche delle “Veneri” Paleolitiche con gambe affusolate e separate da un solco mentre l’altro è stato identificato come il corpo di un animale. Mancano del tutto i dettagli degli arti superiori e sul capo del corpo femminile sono riportate sottili incisioni a rappresentare i capelli o il copricapo, mentre i lineamenti del volto sono stati volutamente rimossi mediante cesellatura; un piccolo ovale sotto al collo sta ad indicare un probabile ornamento (collana). I seni pendono verso il basso, una piccola depressione sta ad indicare l’ombelico ed il triangolo pubico è reso nel dettaglio con un’incisione verticale a rappresentare la vulva. Il corpo dell’animale ha invece il capo dettagliato con muso lungo, bocca grande e orecchie triangolari, mentre il corpo è stilizzato tanto che l’identificazione è di difficile definizione. Probabilmente potrebbe essere un canide (volpe o lupo) o un mustelide (martora o tasso) ma di sicuro un piccolo animale carnivoro. Anche questa statuina è datata al Paleolitico Superiore. Presenta uno stato di conservazione ottimale, eccetto per un frammento che si è staccato anticamente dal lato del seno sinistro, forse durante la lavorazione.
La “Statuina Doppia” detta anche “La Bella e la Bestia”.
(ph. Donsmaps.com).

La Statuina Doppia
(Disegni di P. Boulduc, ph.Mussi ed altri, 2004).

- La Bicefala
E una piccola figura femminile con due teste unite tra loro da un foro arcuato che ne permette il probabile uso come ciondolo. Le teste sono ovoidali ma non vi è alcun segno a definire i tratti del viso, solo alcune incisioni rappresentano probabilmente i capelli. Il busto è stretto, senza arti superiori, con due seni conici prominenti, un foro segna l’ombelico mentre la vulva è indicata da una incisione verticale. Gli arti inferiori, piuttosto compatti, sono separati da una profonda incisione in entrambi i lati; la parte posteriore è segnata da una incisione verticale ad indicare probabilmente la colonna vertebrale e culmina con una incisione orizzontale in corrispondenza dei glutei. E’ la più piccola delle statuine dell’intera collezione, delle dimensioni di (2,7x1,2x0,8) cm, con un peso di poco meno di 2 grammi. Realizzata in steatite giallo-verdastra traslucida conserva tracce di ocra rossa visibili nelle incisioni. Trovata nella Grotta del Principe e le sue condizioni di conservazione sono buone, anche se è presente una frattura recente, probabilmente causata durante lo scavo e poi ricomposta.
La Statuina Bicefala
(ph. Cohen, 2003)

La Statuina Bicefala
(Disegni di P. Bolduc, ph. Mussi ed altri, 2004)

- La Statuina in Avorio Marrone, dett anche “Abrachiale”.
Il termine “Abrachiale” è legato alla totale mancanza degli arti superiori. È una figura femminile con testa cilindrica e volto bombato senza tratti distintivi del viso o dei capelli. a nuca ed il collo sono definiti da un profondo solco che divide la testa dalle spalle. I seni sono emisferici divisi tra loro mentre il ventre prominente presenta un solco allungato a rappresentare l’ombelico; il pube non è segnato come altre statuine ritrovate in loco, ma presenta una profonda scanalatura ad U con al centro una increspatura nel punto dove dovrebbero esserci le piccole labbra. Le natiche prosperose fanno da contraltare al ventre, le cosce nella parte anteriore sono divise da un solco mentre nella parte posteriore sono compatte. Le gambe sono rotte all’altezza del ginocchio ma una particolare conformazione della gamba sinistra lascia presagire che in origine un foro di forma allungata dividesse le gambe e forse i piedi. La statuina ha le dimensioni massime di (6,8x2,0x2,3) cm, con un peso di circa 20 grammi. Eseguita in avorio marrone parzialmente fossilizzato, con un leggero velo di ocra rossa. Fu trovata, sempre da Jullien in una data sconosciuta, a circa 3 metri di profondità nel Jardin Abbo, un vigneto terrazzato situato ad ovest della Barma Grande. Lo stato di conservazione è mediocre, la faccia ed il seno sono stati incollati anticamente, probabilmente dallo stesso scopritore Jullien, così come altri evidenti fratture antiche sono sparse lungo il corpo e rammendate in maniera non sempre consona.
La Abrachiale o Statuina in Avorio Marrone
(disegni di P. Bolduc, ph. Mussi ed altri, 2004)

- Il Busto.
Statuina probabilmente femminile, rappresentata solo dal viso fino all’altezza del torace. Il volto è quasi piatto con i tratti degli occhi, naso e bocca indicati da piccole incisioni, il capo circolare è delimitato da un contorno che lascia presagire una capigliatura o un copricapo mentre la parte superiore è appiattita. Le spalle sono mancanti ed il torace è rappresentato da un seno appiattito, l’altro si è fratturato anticamente. Tracce di lavorazione hanno fatto ipotizzare che il busto faccia parte di una statuina completa di addome e gambe, con un foro tra i seni, successivamente rotti ed infine aggiustato nella parte superiore che è arrivata sino a noi. Nella parte posteriore è presente un’etichetta manoscritta, probabilmente posizionata da Jullien, con l’indicazione “Barma Grande, Mentone – Cavalieri”, indicazione preziosa per ricostruire alcuni aspetti delle ricerche dello stesso Jullien. Sembrerebbe che il Sig. Cavalieri fosse l’operaio di Jullien, autore dello scavo alla Barma Grande per conto dello stesso. Il suo stato di conservazione è discreto, anche se ampie parti della superficie si sono sfaldate a causa della fragilità e morbidezza del materiale con cui è realizzata. Nel 1928 Henry Breuil pubblicò alcune foto della statuina ed alcuni schizzi realizzati dall’Abate Dupaigne, che all’epoca viveva in Canada, attribuendo erroneamente il ritrovamento nelle Grotte del Principe, ma l’etichetta scritta per mano di Jullien e la presenza di sedimenti di sabbia grigia ritrovata sulle superfici della statuina fugano ogni dubbio sull’attribuzione allo scavo nella Barma Grande. Delle dimensioni massime di (2,9x1,7x0,9) cm., con un peso di circa 8 grammi. Realizzata in clorite verde bluastra.

Il “Busto”.
(Disegni e foto di P. Bolduc, ph Mussi ed altri, 2004).

- La Dama Ocrata
È una statuina femminile a tutto tondo, con una voluminosa capigliatura ad incorniciare il volto che termina in due punte dietro le spalle, a rappresentare probabili trecce; incisioni diffuse lasciano intendere la presenza di capelli ondulati. Il viso bombato è completamente carente di tratti distintivi; i seni sono piccoli e piatti, divisi tra loro da un foro passante, probabilmente perché usata come ciondolo. Le braccia sono modellate solo nella parte superiore, fino all’altezza delle mani e scorrono lateralmente alle spalle. Il ventre è piatto ma più in aggetto rispetto ai seni; al di sotto alcuni solchi individuano il triangolo pubico (la vulva non è rappresentata) da cui parte un’incisione verticale a segnare le cosce, quest’ultime fratturate all’altezza del ginocchio. Le natiche sono molto sporgenti. Le dimensioni massime sono (7,5x1,8x2,2) cm., con un peso di 20 grammi. Realizzata in avorio seguendo l’asse longitudinale della zanna non fossilizzata. Le sue condizioni sono molto precarie, sia per la delicatezza del materiale che per il processo di esfoliazione di cui è interessata gran parte della superficie. Ci sono ampie zone colorate di rosso per la presenza di uno spesso strato d’ocra che ha dato origine al nome della statuina. Ritrovata nella Grotta del Principe è datata al 18.000 a.C.
La Dama Ocrata
(ph.Cohen, 2003)

La Dama Ocrata
(Disegni di P. Bolduc, ph. Mussi ed altri, 2004).

- La Monaca, detta anche la “Statuina Piatta”.
Il termine “Statuina Piatta” è legato alla creazione ed incisione su un ciottolo piatto. E’ una statuina femminile la cui forma ricorda il profilo di una monaca. Il volto è senza tratti, evidenziato da alcune linee a rappresentare i capelli o il copricapo; il busto è avvolto da un mantello in cui si fondono anche le braccia mentre i seni, l’ombelico ed il pube sono indicati da piccole incisioni. Il retro del ciottolo presenta leggere incisioni, come se fosse rappresentato un altro viso. Al di sotto del collo c’è un foro, probabilmente perché usato come ciondolo. Delle dimensioni massime di (4,4x2,8x0,9) cm., con un peso di 14 grammi. Realizzata in clorite di colore verde molto scuro e ritrovata all’interno della Barma Grande. Il suo stato di conservazione è ottimo.

La Monaca
(Disegni di P. Bolduc, ph. Mussi ed altri, 2004)

- La Maschera.
Da alcuni critici non è considerata una statuina.
È un piccolo ciottolo circolare piatto, modellato con alcuni fori passanti a rappresentare occhi a mandorla e bocca, decorato sul bordo di un lato con incisioni a raggiera. Tra occhi e bocca una leggera curvatura indica il naso, ulteriormente evidente per i due buchi che rappresentano le narici. Sopra gli occhi, nella parte centrale della fronte vi è un quarto foro non passante, con il fondo piatto (forse perché conteneva qualcosa andata perduta), circondato da incisioni a raggiera forse ad indicare la capigliatura. Il lato posteriore non è rifinito come la faccia anteriore ma sono presenti i fori passanti che quindi individuano anch’essi un volto. La rappresentazione è quella di un volto con aspetto minaccioso e crudele, quasi a rappresentare una figura immaginaria che non ha eguali nei reperti del Paleolitico europeo. Trovata da Jullien durante gli scavi alla Barma Grande, ha dimensioni massime di (1,9x2,3x0,5) cm., con un peso di circa 3 grammi. Realizzata da un ciottolo di steatite bicolore, dal verde scuro al giallastro. Lo stato di conservazione è ottimo.
La Maschera
(Disegni di P. Bolduc, ph. Mussi ed altri, 2004)

Nella seconda guerra mondiale la zona dei Balzi Rossi fu bombardata con gravi danni alla zona archeologica. Fu colpito nei bombardamenti anche il Museo, ricostruito nel 1953. I reperti furono salvati grazie all’intervento di un famoso paleontologo, Luigi Cardini.
La zona fu sempre indagata, anche nel dopoguerra. Nel 1971, vicino al Riparo Mochi, furono rinvenute le prime tracce di incisioni parietali risalenti al Paleolitico. Fu quindi avviata un indagine in tutte le grotte per constatare l’esistenza o meno di graffiti parietali posti nella quota originaria.
Fu l’archeologo Vincenzo Vicino a scoprire delle incisioni rupestri nelle grotte dei Balzi Rossi (Grotta dei Fanciulli, Grotta di FlorestanoGrotticella Blanc-Cardini e, nel 1976, anche nella Barma Grande .
Si trovavano spesso attorno a buchi e depressioni e in due casi probabilmente rappresentavano una vulva e un fallo . Nella Grotta del Caviglione, sulla parete ovest, a 10 m dal pavimento della grotta e 7 m dietro l'ingresso, fu trovata un'incisione che raffigurava un cavallo senza criniera che guardava verso il basso, la cui statura ricorda quella di un cavallo di Przewalski o di Camargue. Un’immagine larga circa 40 cm, alta 20 cm con numerose tacche verticali profonde che la attraversano. Si trova ad un'altezza di circa 1,5-1,7 m rispetto al piano pavimentale della grotta del Gravettiano medio, proprio di fronte alla tomba della del Donna del Caviglione . Tuttavia, non vi è alcuna prova di un collegamento diretto tra il luogo della sepoltura e l'incisione.
L’esame del graffito rilevò come due linee verticali furono disegnate prima del graffito del cavallo.
Questo aspetto dal punto di vista archeologico è molto importante.
Dimostra come i segni lineari hanno avuto una loro espressione in tutto il Paleolitico Inferiore mentre il  graffito del cavallo sarebbe da collocare alla facies gravettiana e cioè a circa 25.000 anni fa (Cro-Magnon) e quindi contemporaneo alle statuirne rinvenute nella Barma Grande.
Sulla parete opposta della grotta, più o meno alla stessa altezza, si trovano due depositi ocra puntiformi, numerose tacche lineari e raffigurazioni di una figura femminile stilizzata , due cavalli e la parte anteriore di un mammut.
Le incisioni presentano un cattivo stato di conservazione a causa degli agenti atmosferici e causa delle forti vibrazioni causate dal passaggio dei treni.
Altre incisioni furono rinvenute nel riparo Blanc-Cardini.



Il testo , la descrizione e le immagini delle Veneri del Paleolitico sono tratti dall’interessante sito:
Preistoria in Italia
https://www.preistoriainitalia.it/
Le schede sono curate, con grandi aspetti culturali, dalla Dott.ssa Elvira Visciola


Il Principe di Arene Candide
La Caverna delle Arene Cannide è un importante sito archeologico in grotta posto nel comune di Finali Ligure in provincia di Savona.
Il termine è legata ad una duna costiera di sabbia (arena) bianca (candida) che era presente ai piedi della falesie che costituivano il lato occidentale del promontorio della Caprazoppa. In questo sito si apriva la grotta fino ai primi anni del Novecento.




Ora la caverna è ubicata sul margine superiore del ciglio ovest della ex- cava Ghigliazza, circa 90 m sul livello del mare, verso il quale presenta tre grandi aperture che la rendono, oggi come nel passato, relativamente illuminata ed asciutta. 

La cavità si presenta di forma allungata in senso Est-Ovest con apertura divisa in due da un enorme masso oggi saldato alla volta da concrezioni stalagmitiche.
Il varco principale immette nella Sala Issel, alla cui destra, attualmente all'altezza di 5-6 metri di altezza, si apre il Ramo Gandolfi, ricco di concrezioni e stalagmiti.
Questo ramo, con varie diramazioni, verso il fondo si affaccia su una finestra a strapiombo sulla sottostante cava.
Dalla Sala Morelli, a cui si accede per un restringimento delle pareti ed un abbassamento della volta dalla Sala Issel, per uno stretto cunicolo, che si apre a livello del terreno, ci si immette in una serie successiva di complessi cunicoli, a sinistra verso la Sala Solari, ingombra di massi e verso destra in un labirinto di passaggi che si sviluppano a monte della Sala Issel e ad un livello più basso.
Sviluppo totale: 667 m.
La caverna era localmente chiamata come Grotta dei Frati o “Armassa” e prese il suo nome attuale solo nel giugno 1864  in coincidenza degli scavi eseguiti da Arturo Issel.
Questa caverna prima del 1862 era conosciuta nel paese sotto il nome di Armassa. Dopo quel tempo venne denominata la Grotta dei Frati, perché il giorno 28 febbraio 1862 due padri domenicani del convento di Finalborgo, [...] con un sacerdote e due borghesi [...], desiderosi di vederla nei suoi più nascosti penetrali vi si smarrirono e certamente ci sarebbero periti se i loro correligionari, aiutati da coraggiosi cittadini di Finalborgo non fossero corsi a trarli da quel labirinto" Morelli 1890, p. 273.
 
Furono gli scavi di Luigi Bernabò Brea e di Luigi Cardini a dare una celebrità internazionale alla caverna.
Degli scavi eseguiti da Issel nel 1864 non restarono documenti e il materiale rinvenuto andò perduto. L’Issel trovò delle ossa umane sparse ad una certa profondità e al di sopra di alcuni focolari.
Ossa di colore biancastro a causa dell’azione del fuoco e con incisioni e scalfiture provocate da animali predatori.
- La prima tomba fu scoperta nel 1874, ad una profondità di circa 1,60 metri. Furono poi scoperte altre 8 sepolture:
a. 4 tombe di uomini adulti;
b. Una donna adulta;
c. Tre bambini ed un uomo adulto in età molto avanzata.
I rari documenti citarono come gli scheletri avessero un cranio dolicocefalo (più stretto e lungo del normale).solo per 4 di queste sepolture si constatò una posizione rannicchiata sul fianco sinistro mentre per le altre i dati furono frammentari. Nella sepoltura dei bambini il corredo funerario era assente mentre le sepolture degli adulti mostravano circa 2 oggetti per tomba (punte in osso, asce in pietra verde, schegge di selce, conchiglie forate, ossa di animali, vasetto con resti di pasto carbonizzato (in un solo caso) e ocra rossa in pezzetti frantumati. Nella tomba femminile l’ocra rossa era sparsa sul fondo della sepoltura.

Il reverendo Don Pietro Perrando riportò alla luce 3 sepolture:
- un lattante;
- un bambino di 7-8 anni con una lesione ante-mortem sul cranio;
- un anziano sepolto con le braccia incrociate sul petto ed ocra rossa sulla fronte.
Anton Giulio Barrili nel 1874 rinvenne una sepoltura femminile di età imprecisata ma vicina all’adolescenza, con il corpo adagiato sul fianco destro, le braccia conserte sul petto, il cranio appoggiato su un ciottolo ed il corredo costituito da conchiglie forate, denti di animali, cocci di ceramica ed un frammento di testa di mazza in giadeite.
Alfred John Wall nel 1884 riportò alla luce altre 5 tombe, ma di queste non si hanno notizie.
Il reverendo Nicolò Angelo Andrea Morelli durante gli scavi dal 1885 al 1888 rinvenne altre due sepolture protette da grandi lastre in pietra e svariati frammenti ossei dello scheletro post-craniale di 7 bambini; anche di questi corpi restano solo i resoconti di Issel.
L’1 maggio 1942 durante gli scavi diretti dal grande archeologo Luigi Bernabò Brea, con l’assistenza degli archeologi Virginia Chiappella e Luigi Cardini, nel pieno degli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale, venne alla luce la tomba del “Principe delle Arene Candide”.


Luigi Bernabò Brea con la moglie Chiara Chighizola e Ginetta Chiappella
davanti alla Caverna delle Arene Candide, 1942


La sepoltura fu rinvenuta sotto il focolare (n.5) ad una profondità di circa 6,70 metri.
Era il corpo di un giovane di circa 15 anni d’età, robusto ed alto circa 1,70 m.,  braccia molto robuste e gambe allenate da sforzi continui e prolungati. Le analisi fatte sulle sue ossa dimostrò che mangiava molta carne di animali selvatici, ma anche pesci e molluschi
Fu sepolto dopo una morte violenta probabilmente causata da un orso durante una battuta di caccia. Il corpo del ragazzo presentava un colpo inferto alla mandibola ed alla spalla sinistra che infatti furono asportate.
Il suo corpo fu datato a 26.300 a.C.
Il Principe/Principessa di Arene Candide

Fu sepolto con molti onori. Il suo letto di posa era costituito da ocra rossa e conteneva un corredo funerario costituito da un copricapo formato da centinaia di conchiglie perforate e canini di cervo, pendenti in avorio di mammut, 4 bastoni traforati in palco d’alce, tre dei quali decorati con sottili striature ed una lama di selce di 23 cm. tenuta nella mano destra. La funzione dei 4 bastoni rimane ancora oggi incerta: per lungo tempo sono stati definiti bastoni di comando o indicatori di status sociale, mentre oggi si suppone servissero come strumenti per raddrizzare, con l’aiuto del fuoco, le ossa lunga degli animali impiegate per la caccia.

Principe/Principessa delle Arene Candide rinvenuto nello strato 28

Le sepolture individuate dal Morelli (ph. A. Del Lucchese, 1997).

Principe o Principessa delle Arene Candide.

A sinistra: alcuni ciottoli ritrovati nella Grotta e detti “biscottini”;
a destra: un pestello per la frantumazione dell’ocra.

La tomba (n. X) di un bambino
(ph. Di Bernabò Brea, 1956)

La sepoltura (n. IX), a cista di lastre di pietra, di una donna adulta anziana.
Le foto sono tratte dall’Archivio del Ministero della Cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV. 

Il rinvenimento della sepoltura del principe/principessa fu importante per vari motivi:
- L’eccellente stato di conservazione dello scheletro;
- La sua collocazione stratigrafica;
- Il corredo funerario.
Fornì importanti dati archeologici, paletnologici ed antropologici.
Sui reperti non fu effettata l’analisi del DNA ma solo una diagnosi del sesso, che per uno scheletro di adolescente non garantisce una corretta attribuzione.
Pertanto non si potrebbe affermare con certezza che fosse un individuo maschile.
Se fosse di sesso maschile sarebbe il primo uomo ad essere sepolto con un corredo tipico di sepolture femminili, come il copricapo fatto di conchiglie e l’ocra rossa sparsa sul piano di deposizione della sepoltura.
La caverna fu successivamente usata come luogo di inumazione e di successiva manipolazione intenzionale delle sepolture. Sepolture datate nel 10.870 – 10.470 a.C. e nel 10.080 – 9.230 a.C.
Furono anche rinvenuti nell’area della necropoli alcuni ciottoli con tracce d’uso e di ocra rossa di cui due presentano sulla superficie linee parallele.
Furono collocati nel Mesolitico pirenaico e cioè in un periodo di transizione tra il Paleolitico e il Neolitico, caratterizzato da cambiamenti ambientali e culturali nella regione dei Pirenei.
Negli strati più recenti, tra il 24 ed il 20, emersero altre 13 sepolture, datate tra il 5395-5125 ed il 4983-4783 a.C.
https://www.preistoriainitalia.it/scheda/sepolture-della-caverna-delle-arene-candide-finale-ligure-sv/ 
scheda è stata curata da Elvira Visciola con la supervisione di Elisa Bianchi, Conservatrice del Museo Archeologico del Finale

Anche la Sicilia ricorda la sua importante figura femminile della Preistoria
Acquedolci, provincia di Messina, nella grotta di San Teodoro venne trovato nel 1937 uno scheletro accanto ad altri sei.




La grotta si apre ad una quota di 144 m s.l.m. e uno sperone di roccia la divide da un’altra rientranza che prese il nome di “riparo Maria. Entrambe le cavità sono scavate nel calcare di Pizzo Castellaro, facente parte del Monte San Fratello.
La grotta ha circa 60 metri di sviluppo ed è larga circa 20 metri mentre l’altezza varia da 10 metri, vicino all’ingresso, per raggiungere i 20 metri nella parte centrale.


Sul pavimento della grotta sono presenti dei grossi blocchi calcarei caduti dalla volta nella sua parte terminale. Questi massi formano un grande accumulo e una leggenda narra che dietro questi grossi blocchi vi sia un cunicolo che conduce al paese di San Fratello. La leggenda cita anche l’esistenza di un muro che chiudeva l’ingresso del cunicolo per difesa degli antichi abitanti dalle incursioni dei  Saraceni. In base al nome della grotta,  si narra come la grotta sia stata abitata da San Teodoro e che gli abitanti  del vicino paese vi costruirono un santuario che era protetto da quel muro. La grotta fu poi adibita ad ovile e durante la seconda guerra mondiale fu usata come rifugio.
Nel 1859 fu scoperta dal proprietario del feudo Francesco Anca, barone di Mangaliviti  che iniziò i primi scavi che portarono alla luce dei resti fossili di mammiferi fra i quali dei carnivori.
Con la collaborazione dello studioso francese Eduard Lartet, l’Acca delineò la fauna presente nella grotta.
L’Acca continuò gli scavi portando alla luce due strati stratigrafici ben distinti:
-        Nello strato inferiore rinvenne un deposito fossile di mammiferi estinti;
-        In quello superiore dei resti di fauna per l’alimentazione della comunità ivi esistente e duna grande  quantità di armi in pietra. In base a questo rinvenimento l’Acca affermò come la grotta fosse una stazione permanente..
...La disposizione, la profondità, l’ampiezza, la inflessione, ed i luoghi reconditi di questa grotta potrebbero farla ritenere come una vera stazione umana permanente, dando il locale l’agiatezza
di stare al coverto dagli agenti atmosferici, ed apprestando l’agevolezza di procurarsi il vitto colla caccia nei soprastanti boschi, e colla pesca nel prossimo mare; oltreché avrebbero avuto una sorgiva di fresche, abbondanti e dolci acque a piè della collina;
donde la contrada tolse il nome di Acque dolci.
I reperti rinvenuti dal barone di Mangalaviti sono esposti presso il Museo Geologico “G.G.Gemmellaro” (Palermo) grazie ad una donazione risalente al 1886.
Alla fine dell’ 800 ci furono degli studi sulla fauna fossile da parte del marchese Antonio De Gregorio e di Gaetano Giorgio Gemmellaro.
Nel 1928 – 1929 la grotta fu al centro di ricerche da parte del direttore del Museo de l’Homme di Parigi, Raimond Vaufrey. Ricerche sulla stratigrafia e sulla fauna fossile oltre ad una correzione di quota di circa 30 m maggiore rispetto a quella reale.
Raimondo Fabiani, direttore dell’Istituto e Museo di Geologia dell’Università di Palermo, nel 1939 effettuò un saggio di scavi nella grotta.
In questi scavi furono rinvenuti i primi fossili umani (classificati da Giuseppina Tricomi nel 1938) e nel 1941 Carlo Maviglia diede la notizia del rinvenimento di altri fossili umani.
Fossili umani che erano pertinenti a quattro individui e che tre erano giovani d’età in base alla loro dentatura.
I ricercatori cercarono di delineare a quali facies del Paleolitico attribuire le sepolture rinvenute.
I reperti fossili umani rinvenuti erano le prime ed uniche sepolture del Paleolitico rinvenute in Sicilia.
In merito agli utensili rinvenuti erano in quarzite, un minerale presente nella zona.
Nel 1983 l’Università di Messina in una campagna di scavi trovò, sul “talus” antistante la  grotta, un deposito di fossili di ippopotamo. Si portò avanti l’idea nella creazione di un Museo all’aperto.
(Il termine "talus antistante la grotta" si riferisce a un pendio di detriti rocciosi che si trova di fronte all'ingresso di una grotta. Questi detriti sono generalmente il risultato di processi erosivi che hanno portato alla disgregazione e al trasporto di rocce dalla parete della grotta o dalla zona circostante).
Le sepolture della grotta di San Teodoro fornirono importanti elementi per delineare il periodo del Paleolitico Superiore in Sicilia.
In totale furono rinvenute sette sepolture, tre donne e quattro uomini.
Le analisi permisero di accertare come gli scheletri fossero pertinenti ad individui adulti e di corporatura robusta. I denti centrali presentavano una certa usura legata all’utilizzo non per scopi alimentari (terza mano).
Gli scheletri più completi permisero di stabilire la loro statura, in media di 1,64 m.
La forma del cranio era dolicomorfa (lungo, stretto ed alto) e presentava delle mandibole robuste.
Il sito evidenziò una lunga occupazione preistorica e probabilmente  non sarebbe presente una relazione temporale tra  gli individui rinvenuti.
L’archeologo Paolo Graziosi, uno dei massimi studiosi ed esperti mondiali di arte preistorica europea ed africana, lasciò delle relazioni molto importanti in merito al rinvenimento delle sepolture..
Il cadavere veniva deposto  in una fossa poco profonda, scavata nel suolo vergine della caverna, oppure in parte, nei lembi di focolare che incominciavano a costituirsi sul deposito di base sterile o nei suoi avvallamenti.
Il cadavere era collocato lungo disteso, supino, oppure sul fianco sinistro senza un orientamento preciso.. le braccia lungo i fianchi… il corpo era circondato, a quanto sembra intenzionalmente di ossa di animali, di ciottoletti ed è probabile che fosse anche ornato con collane di denti di animali..
La salma era appena ricoperta da un leggero strato di terra, e al di sopra della fossa richiusa, veniva sparsa dell’ocra a costituire uno straterello di circa 5 cm di spessore uniforme e continuo che si estendeva ininterrotto su tutte le sepolture, ma dal quale qualcuna delle inumazioni non era ricoperta che parzialmente… (relazione del 1947).
La paleontologa Prof.ssa Maria Laura Leone in un’intervista affermò come
 le sepolture del Paleolitico superiore presentano molte caratteristiche comuni, come la scelta delle grotte per inumare i defunti, il rituale di sepoltura in sé, e gli ornamenti personali con cui era adornato il corpo. Un elemento essenziale che caratterizza la spiritualità e il simbolismo funerario è il grande uso dell’ocra rossa: si è constatato infatti che la persona defunta poteva essere distesa su un intero letto di ocra o anche esserne cosparsa completamente; in altri casi l’ocra era usata solo su alcune parti del corpo, di preferenza la testa, oppure si potevano aggiungere al corredo funerario dei ciottoli dipinti con questa sostanza. In numerosi casi, il capo era stato sicuramente macchiato di rosso: il colore dell’ocra, ricordando il sangue, simboleggiava la forza vivificatrice. Nel Paleolitico superiore l’ocra rossa, derivata dall’ossido di ferro, detto anche ematite naturale, era oggetto di commercio, e come la selce e le conchiglie era preziosa e per questo molto ricercata e importata da distanze considerevoli.


Individuo N. 1: "Thea" (Scheletro quasi completo, mancano una mano e alcune costole, rinvenuto nel 1937).
Lo scheletro riposava coricato sul fianco sinistro, disteso parallelamente all'asse della caverna, con la faccia rivolta verso la parete opposta ed i piedi tesi verso l'apertura. Lo strato d'ocra correva sopra lo scheletro, e subito sopra l'ocra vi era prima uno straterello con rari carboni e selci, quindi cm. 80 di deposito costituito da ossa spaccate, selci quarziti e carboni. Poscia altri 40 centimetri di terriccio sterile, formante l'attuale piano della caverna (Carlo Maviglia, 1941)
 
. ...dodici elementi di collana costituiti da dodici canini di cervo elafo perforati, trovati insieme ai resti dell'inumato e probabilmente facenti parte del suo corredo funebre (Paolo Graziosi, 1947)
In questo caso, se i canini di cervo “costituissero realmente una collana, si tratterebbe dell’unico soggetto femminile in possesso di denti animali attestato nella penisola italiana” (Gazzoni, 2010, p. 123). Una volta ultimata la deposizione, questa era ricoperta da un leggero strato di terra e cosparsa di ocra rossa.
Una donna di circa 30 anni, alta 165 cm, vissuta tra 14 mila e 11 mila anni fa.
Le fu dato il nome di Thea, dal  latino Theodora) per collegarlo a quello della grotta.
Lo studio dello scheletro evidenziò la presenza di ossa integre e prive di logorii. Questo aspetto dimostrava come la donna in vita non fu sottoposta a particolari carichi di lavoro. Un altro aspetto degno di nota fu lo stato della sua dentatura quasi perfetta rispetto alle dentature degli altri individui rinvenuti nella grotta.
L’aspetto delle ossa e della dentatura sarebbero una chiara manifestazione di come la donna ricoprì un ruolo importante nella comunità o clan. Difficile ammette  l’ipotesi di appartenenza ad un elevato ceto sociale, in una comunità di 11.000 anni fa,  ma piuttosto quella di una sciamana o sacerdotessa ed anche di guida della comunità. La donna ebbe due parti e la sua morte fu legata a complicanze sorte proprio nel suo secondo parto.
Il suo teschio fu adoperato, con sofisticate tecniche che andavano dalla TAC sui reperti ossei al calco in gesso), dagli antropologi e studiosi dell’evoluzione del Museo Gemmellaro di Palermo., per la ricostruzione del volto della donna.
I suoi lineamenti erano marcati con il viso oblungo e la mandibola sporgente.

Scheletro di Thea
(ph. Museo Geologico Gemmellaro – Palermo)


Ricostruzione 3D del volto di Thea
(ph. Museo Geologico Gemmellaro – Palermo).

Elementi di collana costituiti da denti canini perforati di cervo
(ph. Paolo Graziosi, 1947).
Thea e gli altri sei individui (in totale cinque crani e due scheletri eccezionalmente completi) appartenevano ai Cro-Magnon o Homo sapiens.
Sezione dei depositi della Grotta San Teodoro.
(ph. Paolo Graziosi, 1947)
Stratigrafia del Deposito della Grotta di San Teodoro (Disegno di Carlo Maviglia, 1941?).
A.    Strato di terriccio sterile, con ciottolate a spigoli vivi caduti dalla volta della caverna.
B.    Strato culturale comprendente quasi esclusivamente ossa spaccate, avanzi di pasti. Grossa pietra di focolare di quarzite. Fauna: Equus Hydruntinus, Cervus, Bos, Sus.
C.    Strato di terriccio sabbioso contenente gli scheletri umani. Nella parte inferiore contiene: Elephias antiquus, Hiaena crocuta, Cervus – Assenza assoluta di industria litica.
G. Fondo della caverna dove si è arrestato lo scavo. Esso è costituito dallo stesso 
terriccio sabbioso dello strato C.
1. Scheletro (Thea) trovato durante l’assaggio del 1937.
2. Cranio trovato nel 1938. (individuo n.2).
3. Cranio trovato nel 1940
4. Scheletro che trovasi ancora in situ e del quale sporge l’iliaco destro.

Planimetria della grotta con l’ubicazione dei resti scheletrici.
L’area punteggiata segna  la zona esplorata durante gli scavi del 1942.
L’area con punteggiatura più fitta segna il deposito ancora in posto
e la zona bianca è quella scavata prima del 1942.
(ph. Paolo Graziozi, 1947).

Individuo N. 2
Presenta solo il teschio.
Fu rinvenuto da Carlo Maviglia nel 1938.
Si trovava a poca distanza dallo scheletro n. 1 (Thea), ad un livello leggermente più alto, ma sempre sotto l’ocra.. il cranio riposava in posizione supina… con la calotta cranica volta verso l’ingresso della grotta, ed i piedi verso l’interno, in linea leggermente diagonale. Le condizioni di conservazione non erano buone, purtuttavia si poté raccogliere quasi tutto il cranio…. Il resto dello scheletro, che avrebbe dovuto trovarsi, se si fosse eseguito subito lo scavo, fu malauguratamente disperso, dallo scavo clandestino fatto da qualche ignoto cercatore di fossili o di tesori. (Carlo Maviglia, 1941).
 
Individuo N. 3
È rappresentato dal cranio, dall’epistrofeo, dall’atlante, qualche altra vertebra, una scapola, una testa dell’omero, una clavicola, alcune falangi della mano destra ed altre della sinistra.
I resti furono recuperati da Carlo Maviglia nel marzo del 1940.
La posizione del questo non è del tutto chiara, mentre il mascellare inferiore si presentava verticalmente con la mandibola intatta, quello superiore con le altri parti del cranio si trovava schiacciato e rovesciato sulla destra… aderenti al mento si trovavano alcune falangi della mano sinistra come se questa avesse coperto la bocca, mentre altre della mano destra erano poste un poco più in basso. (Carlo Maviglia, 1941).
 
Individuo N. 4
Fu scoperto da Carlo Maviglia nel 1940 e la campagna di scavi fu effettuata solo nel 1942 dallo stesso Maviglia e da Paolo Graziosi ma già..
Il deposito era stato visitato da precedenti frugatori che avevano asportato tutta la parte toracica fino al bacino (Graziosi, 1947)…la salma era inumata normalmente all’asse della caverna e quindi della vecchia trincea, coi piedi rivolti ad est, cioè verso la parete della grotta. Quando iniziammo lo scavo le ossa dell’anca affioravano nella sezione; trovammo quindi il bacino, gli arti inferori al completo, l’avambraccio destro con l’estremità distale dell’omero…. Del braccio sinistro rimanevano solo alcune ossa della mano, le quali giacevano al di sotto dell’osso iliaco come se il cadavere fosse stato inumato con la sinistra posta al di sotto della regione glutea…. Presso il femore sinistro all’altezza della mano, trovammo l’estremità di un ramo di corno di cervo e qua e la qualche altro frammento di ossa dello stesso animale… Essi davano l’impressione di essere stati deposti intenzionalmente accanto al cadavere (Graziosi, 1947).
 
Individuo N. 5
Scoperto nel 1942 da Paolo Graziosi e Carlo Maviglia
È costituito dal cranio mancante di buona parte della faccia, gli omeri frammentari e qualche vertebra frammentaria…..per quanto riguarda il cranio isolato, e le poche ossa frammentarie ad esso pertinenti dello strato B, vale a dire di un livello più alto di quello delle altre inumazioni, non sono in grado di stabilire con sicurezza se si trattasse di ossa inumate o soltanto abbandonate nel focolare…. È certo però che non ci fu possibile di notare tracce sicure di sepoltura… Essi giacevano in pieno focolare, mescolati alle numerose altre ossa di animali ed alle abbondanti selci lavorate, e in stato di conservazione assai precario (Graziosi, 1947).
 
Individuo N. 6
Recuperato da Carlo Maviglia tra il 1942 ed il 1947.
Si tratta di un cranio femminile di età inferiore a 25 anni e custodito….. presso l’Istituto di Paleontologia Umana di Firenze.
 
Individuo N. 7
Recuperato da Carlo Maviglia si trova presso il Museo di Storia Naturale di Milano.
È un reperto frammentario costituito da porzione del cranio e della mandibola.
I reperti appartengono ad un individuo di sesso maschile con un’età stimata fra 25 – 30 anni con le caratteristiche morfologiche e morfometriche simile a quelle degli altri individui.
Le tracce di ocra sulla porzione frontale e sulla mandibola indicano un rito di inumazione.

Gli artefici che fecero rivivere Thea.. la Principessa di Acquedolci




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La Gender Archaelogy – L’Archeologia di Genere
Con Gender Archaeology si intende un modo di fare ricerca archeologica scevra da pregiudizi e stereotipi sul ruolo delle donne nell’antichità. Sotto la definizione di Gender Archaeology ricadono dunque tutti quegli studi che tendono a rileggere studi e ricerche fatte in passato e a riconoscere figure femminili laddove tradizionalmente si riteneva fossero maschili. Sarebbe riduttivo e soprattutto errato definirla una branca femminista dell’archeologia. Piuttosto è lo studio delle società del passato e delle relazioni sociali e familiari tra uomini e donne, con la prospettiva di non parlare soltanto di “uomini”, ma di “uomini e di donne” con pari valore e pari dignità. E poi ci sono le situazioni in cui sepolture, corredi, contesti, interpretati sulle prime come maschili, in seguito a studi successivi, anche casuali, magari, oppure aiutati da tecnologie scientifiche, vengono riconosciuti come femminili.
Molti non sanno dell’esistenza della gender archaeology (archeologia di genere) che nacque nel 1984 durante la seconda ondata del movimento femminista.
Furono Margaret  Conkey e Janet D. Spector, considerate nella comunità archeologica anglosassone come le prime ad applicare gli studi di genere al mondo dell’archeologia.


Lo sviluppo dell’archeologia di genere fu legata alla critica portata avanti dagli studiose femministe sulla visione del mondo con una realtà percepita e costituita solo attraverso lo sguardo degli uomini (androcentrismo).
Proposero la visione della storia basata su principi di uguaglianza di genere dove rendere visibile il ruolo della donna.
Nel campo archeologico la figura della donna era stata sempre posta in secondo piano:
- Nei Musei;
- Nella formulazione delle varie tesi storiche ed archeologiche
- All’interno della stessa professione dell’archeologo.
La storia era esclusivamente vista come storia di uomini, cancellando la figura femminile e presentandola in maniera totalmente passiva.
Quindi l’obiettivo della gender archaeology è quello di rivalutare i ruoli di uomini e donne nelle società antiche e in particolare partendo dallo studio della cultura materiale delle donne.
Tra uomini e donne esistono delle differenze naturali legati al sesso biologico, ma non vi è nulla di naturale circa il genere e cioè il tipo di relazioni che si instaurano tra di loro, indipendentemente dal sesso, in termini di processi culturali, sociali.
Il genere non è quindi solo una classificazione legata al sesso o alla biologia dell’individuo me è anche un costrutto sociale, un processo storico/sociale, un concetto analitico.
Per utilizzare in maniera obbiettiva questo strumento si dovrebbe distinguere tra:
- Ruolo di genere: attività differenziali nelle istituzioni sociali, economiche, politiche e religiose;
- identità di genere : il sentimento di un individuo (o di un gruppo) sul proprio genere;
- ideologia di genere : il significato dei generi nei contesti sociali e culturali (genere come simbolo).
Questo determina la visione di un’archeologia che esplori lo sviluppo nel tempo dei ruoli di donne e uomini alla ricerca di un equilibrio tra i generi.
Sebbene sia auspicabile il contrario, non è necessariamente detto che attraverso la ricerca e lo studio di genere le donne preistoriche ne escano “eguali” alla controparte maschile, ma almeno condivideranno insieme il palco dell’analisi, prendendo più di una volta il posto degli uomini.
Molti archeologi criticarono l’archeologia di genere definendola espressione di femminismo estremo.
Paul Bahn…
il carro [dell’archeologia di genere] non dovrebbe essere autorizzato a rotolare troppo.
Malgrado il parere contrario di molti archeologici la gender archaelogy continua ancora oggi a rivedere il ruolo delle donne nelle società antiche.  A partire dagli anni Novanta tutte le più importanti riviste specialistiche nord americane di archeologia avevano pubblicato almeno un articolo che si focalizzasse sull’archeologia di genere.
Un altro aspetto importante della  gender archaelogy era quello di dare voce, all’interno della scienza archeologica, a molte archeologhe le cui ricerche erano state, nel volgere degli anni, silenziate e nascoste da altre figure maschili.
La storia dell’archeologia con la sua esclusione della figura femminile e delle politiche di genere [prima degli anni Settanta] è stata prodotta attraverso meccanismi di selezione e oblio […] con la sistematica cancellazione dei contributi e della partecipazione delle donne all’interno della disciplina. (Sørensen, 2005).
Innegabile è la presenza femminile in ambito accademico sin dagli albori della scienza, ma non per questo la situazione poteva dirsi equa. In Europa così come in America era ricorrente la pratica di “dividersi il lavoro” all’interno del mondo accademico. Le archeologhe avevano facilmente molto più accesso a posti nei musei e talvolta per lavori manageriali; le posizioni accademiche di prestigio erano quasi sempre riservate agli uomini. Gli studi stereotipicamente femminili (su manifatture tessili, gioielli e vasi) venivano ignorati quasi del tutto dai colleghi uomini e si lasciava che fossero le donne ad occuparsene.
L’archeologia, così come molti altri studi classici, ha portato avanti i significati tradizionali di mascolinità e femminilità: le capacità di uomini e donne, le loro relazioni e il loro ruolo nelle società risultano poco oggettivi ed inclusivi sul tema del genere. Inoltre, dato che spesso agli archeologi mancano strutture per concettualizzare e studiare i ruoli di uomini e donne nelle società antiche, si è finiti automaticamente per definire come “naturale” la struttura sociale a noi contemporanea, associandola anche a quelle più arcaiche. Di conseguenza, l’uomo e la mascolinità sono diventati sinonimo di forza, coraggio e lavoro, mentre la donna e la femminilità di debolezza, passività e dipendenza.
La presenza delle figure femminili all’interno dei musei archeologici è, anche in questo caso, sempre ristretta a loro ruolo di madri e mogli. 
Malgrado l’archeologia di genere si sta affermando come una sottodisciplina scientifica in crescita, è ancora sottovalutata.
I ricercatori dell’Istituto di “Archeologia del Vicino Oriente”, presso la  Freie Universität di Berlino non solo pubblicano, ma tengono anche corsi di archeologia di genere. Questa attività vanta una lunga tradizione a Berlino grazie alla Prof.ssa Susan Pollock e al Prof. Reinhard Bernbeck.

La Prof. Susan Pollock

L’archeologia di genere è importante perché consente:
-        rendere visibili i generi (emarginati);
-        studiare le molteplici sfaccettature del genere (inclusi, ma non limitati agli studi sulle donne) con un quadro teorico e metodologico;
-        aumentare la consapevolezza dei pregiudizi verso il genere (e le sue norme, ideologie, identità ecc.) che influenzano il lavoro dei ricercatori;
-        comprendere il genere come parte di un nesso di vari aspetti dell'identità;
-        utilizzare il genere (così come altri aspetti dell'identità) come strumento di decostruzione per studiare le società.
Quindi l’archeologia ha trascurato metà della storia.
Le tendenze cognitive e i pregiudizi spesso hanno interferito anche nel riconoscimento di chiari reperti femminili.
Un riconoscimento basato su uno schema mentale che gli archeologi proiettavano meccanicamente sui reperti che purtroppo non potevano parlare per esprimere la evidente realtà.
La letteratura archeologica presenta in merito tante testimonianze.
Il primo scheletro rinvenuto era di una donna, trovato a Gibilterra, eppure per tanto tempo fu considerato quello di un uomo.
Fra i tanti casi quello del sito archeologico di Birka.



Birka (Bjorko) è un sito archeologico in Svezia. Un sito importante perché snodo commerciale tra la Scandinavia, l’Europa centrale e l’Europa orientale.
È uno dei più importanti ed antichi insediamenti vichinghi per i suoi numerosi edifici e sepolture, risalente all’VIII secolo d.C.
Fu dichiarato nel 1993, con il sito di Hovgarden,  Patrimonio dell’Unesco.
Nel 1880 il tito fu al centro di una prima indagine archeologica e nel 1889 l’archeologo Hjialmar Stolpe portò alla luce una tomba. Una tomba importante per il suo ricco e prezioso corredo funerario. 


Proprio per la ricchezza del suo corredo funerario, lo scheletro fu subito identificato come quello di un guerriero e quindi attributo ad un maschio con la sigla Bj581.
Non furono analizzati attentamente i reperti ossei, le caratteristiche dello scheletro lasciarono molti dubbi nell’attribuzione del genere, ma fu solo considerata come indicatore del sesso  il corredo funerario.
Eppure nella storia vichinga era nota l’esistenza di gonne guerriere.
Ma qual era il corredo funerario?
Il suo corpo era vestito in seta intarsiata d’argento e il corredo apparteneva all’élite guerriera vichinga: scudo, frecce, asce, coltelli da battaglia e due cavalli che furono usati in battaglie.
Fu rinvenuto anche un tavolo da gioco con una serie completa di pezzi probabilmente impiegati per le strategie di guerra. Fin dai tempi del suo ritrovamento, proprio la presenza del gioco da tavola ha portato gli scienziati a ipotizzare che si trattasse di un ufficiale di alto rango, un comandante.




Un disegno di come poteva apparire la tomba quando il guerriero fu sepolto.
Disegno di: Þórhallur Þráinsson (CC BY).
Il corpo fu subito identificato per quello di un uomo malgrado due aspetti importanti che dovevano, in ogni caso, fare sorgere il dubbio e quindi identificare il sesso come “non identificato”:
- la presenza documentata nella società vichinga di donne guerriere:
- le dimensioni della mandibola e delle ossa pelviche.
Per oltre cento anni nessuno mise in dubbio l’appartenenza dello scheletro ad un vichingo di sesso
Solo nel 2014, la dott.ssa Anna Kjellstrom dell’Università di Stoccolma, fece delle analisi sui campioni di DNA dimostrando definitivamente come lo scheletro era di una donna.


In merito all’osteologia dello scheletro..
Lo scheletro era rappresentato da elementi ossei provenienti da tutte le regioni del corpo (S2). Conservato con Bj 581 c'era anche un femore appartenente a un'altra sepoltura che è stata esclusa. I risultati della stima di età e sesso, presentati a una conferenza nel 2014 (Kjellström, 2016 ), si basavano su metodi osteologici standard per indicatori morfologici (Buikstra & Ubelaker, 1994 ) (S2–S3). L'unione epifisaria era completa su tutte le ossa conservate e l'aspetto della superficie auricolare dell'osso dell'anca sinistra soddisfa i criteri morfologici per la fase 3 secondo i metodi di Lovejoy, Meindl, Mensforth e Pryzbeck ( 1985 ) e Meindl e Owen ( 1989 ). Inoltre, l'usura dentale dei molari inferiori era chiara ma moderata (stadio 2–4) (Brothwell, 1981 ). Nel complesso, ciò suggerisce che l'individuo avesse almeno 30 anni. La grande incisura ischiatica dell'osso iliaco era ampia e si presentava un ampio solco preauricolare. Questo, insieme alla mancanza di proiezione dell'eminenza mentoniera sulla mandibola, ha permesso di classificare l'individuo come di sesso femminile. Inoltre, le ossa lunghe sono sottili, snelle e gracili, il che fornisce ulteriore supporto indiretto alla valutazione. Non sono state osservate lesioni patologiche o traumatiche.
L’esame del Dna eseguito sulle ossa ritrovate  ha evidenziato come l'individuo in questione avesse un doppio cromosoma X e nessun cromosoma Y e che, quindi, si trattasse effettivamente di una donna.
La dott.ssa Mattias Jakobsson, dell’Università Uppsala, una delle ricercatrici che partecipò allo studio, affermò come
Questa è la prima conferma formale e genetica riguardante un guerriero vichingo femminile
La dott.ssa Cherlotte Hedenstierna Jonson, direttrice del progetto…
… Un personaggio con un ruolo importante….
Il set di giochi indica che si tratta di un ufficiale … qualcuno che ha lavorato con tattiche e strategia e avrebbe potuto condurre le truppe in battaglia. Quella che abbiamo studiato non era una valchiria dalle saghe, ma un vero leader militare.


Le teorie che nella sepoltura fossero presenti ossa appartenenti a una donna vennero accettate con riluttanza. Alcuni sostenevano che lo scheletro fosse stato confuso con un altro, che non fosse quello che si trovava nella tomba. Altri sostenevano che forse la donna nella tomba fosse una parente di un uomo ( o una concubina, un termine che non manca mai in diverse narrazioni) e che le armi fossero solo doni, che non aveva usato affatto.

Una donna non solo madre, domestica, conciatrice, raccoglitrice e cacciatrice di animali di piccola taglia e non solo.
Le ricostruzioni storiche base su stereotipi di genere, in cui la donna è vista come figura secondaria è un gravissimo errore.
Le stesse pitture rupestri sono state descritte come opera di uomini per tantissimo tempo nonostante le dimensioni di alcune delle mani stampate sulle pareti suggerissero anche una partecipazione femminile.
A Roma, ad esempio, il mestiere del gladiatore non era unicamente maschile, anche le donne combattevano nell’arena, hobby che non disdegnavano nemmeno matrone di rango più alto, come raffigurato anche in mosaici di alcune ville in Sicilia. Erano anche imprenditrici, soprattutto nell’ambito dell’edilizia: molte fabbriche di tegole e mattoni romane appartenevano a donne.
La storia dovrebbe essere obiettiva e quindi dare voce e giustizia anche alle donne venute prima di noi e che hanno vissuto con gli uomini.
Per indagare sull’archeologia di genere sarebbe necessario seguire diversi approcci:
1. Analisi della cultura materiale
a. Oggetti:
- oggetti: Analizzare oggetti, come gioielli, strumenti, stoviglie e vestiti, per identificare modelli di genere nelle loro forme, decorazioni, materiali e usi;
- Resti umani: Studiare i resti umani, come ossature e tessuti, per comprendere le differenze fisiche e comportamentali tra uomini e donne, e i loro ruoli sociali;
- Analizzare la disposizione degli edifici, la presenza di aree speciali, le pratiche funerarie e le iscrizioni per comprendere come le società antiche erano organizzate in base al genere.
2. Analisi delle fonti scritte:
a. Testi antichi: Esaminare i testi antichi, come lettere, documenti amministrativi e leggi, per comprendere come le donne e gli uomini venivano percepiti, come erano trattati e quali ruoli erano loro assegnati;
b. Fonti iconografiche: Analizzare le rappresentazioni di donne e uomini in pitture, sculture e incisioni, per comprendere le loro identità, ruoli e status sociali.
3. Utilizzo di approcci metodologici:
a. Approcci quantitativi: Utilizzare strumenti statistici per identificare modelli di genere ricorrenti nell'archeologia;
b. Approcci qualitativi: Analizzare le storie e le narrazioni per comprendere le esperienze di donne e uomini nel passato;
c. Approcci interdisciplinari: Integrare conoscenze provenienti dalla storia, dalla sociologia, dalla psicologia e da altre discipline per una comprensione più completa.
4. Considerazione delle prospettive:
a. Dei ricercatori: Considerare le proprie posizioni e i propri pregiudizi quando si analizzano i dati;
b. Dei gruppi sociali: Considerare le diverse esperienze delle donne e degli uomini nel passato, inclusi quelli di diversi gruppi sociali (etnici, religiosi, di classe, ecc.).

È certamente importante riflettere sul modo in cui noi stessi governiamo e pensiamo alle donne ed agli uomini, al loro ruolo nella storia.

Ricostruzione dei volti di tre donne ritrovate su territorio italiano vissute in un arco di tempo che va da 25mila fino a 23mila anni fa.
Da sinistra:
-        La Donna di Paglicci: nel Museo di Grotta Paglicci a Rignano Garganico (FG), Puglia, datazione: 23 mila anni fa;
-        La Donna di Caviglione:  (fino a poco tempo fa chiamata l’uomo di Mentone poi a seguito dell’esame del DNA attribuita ad un individuo di sesso femminile) al Museo Preistorico dei Balzi Rossi (IM), Liguria, datata 24mila anni fa;
-        La Donna di Ostuni:  chiamata Delia dal suo scopritore, nel Parco archeologico e naturalistico di Santa Maria D’Agnano, a pochi chilometri da Ostuni (LE), Puglia,
datata circa 25.000 anni.

La donna di Abri de Cap Blanc

Anche in Francia troviamo documentato uno stesso tipo di sepoltura; il cranio di una donna con tracce di “cuffia” realizzata con intreccio di conchiglie e ricoperta di ocra; la foto mostra la ricostruzione del volto di uno scheletro umano femminile rivenuto a Abri de Cap Blanc nel comune di Marquay a est di Les Eyzies, scoperto nel 1909; si tratta di un rifugio rupestre preistorico dell’era magdaleniana tra 17.000 e 12.000 anni fa, quindi più recente di quelli italiani; lo scheletro è stato riesumato alla base del muro del rifugio. Era sdraiato sul fianco sinistro in posizione fetale, una mano sul viso. Il corpo è stato posto sotto tre lastre di pietra: oggi è stato sostituito da una copia l’originale che si trova nel Field Museum di Chicago dal 1926. Il rifugio si caratterizza per la sua enorme scultura in bassorilievo raffigurante vari animali: bisonti, stambecchi, orsi, renne, altri animali a volte difficili da identificare e tantissimi cavalli.

Anche tante statuine, di cui molte dalla Francia. pare indossino lo stesso tipo di cuffia; il periodo è lo stesso delle sepolture.


Da sinistra:
La Signora di Amiens, ritrovata a Renancourt, nei pressi di Amiens, nel nord della Francia – Paleolitico superiore superiore (circa 23.000 anni).
La Signora di Willendorf, in Austria (23.000-19.000 anni);
La Signora di Brassempouy (27000 anni) chiamata appunto “dame a la capuche”.
Una peculiarità che stupisce di queste statuine è rappresentata proprio dalla griglia di sottili incisioni che ritroviamo e che sembrano rappresentare lo stesso tipo di copricapo intrecciato trovato nelle sepolture; possiamo dunque immaginare che un oggetto così fosse una sorta di simbolo e, soprattutto riferito alle statuine, un segno della Dea? Possiamo immaginare che chi indossava quella cuffia ricopriva il ruolo di sacerdotessa (o sacerdote) e che utilizzato per la sua sepoltura oggetto propiziatorio alla sua rinascita?
Ci domandiamo insomma se questa “cuffia” più che un semplice ornamento possa rappresentare l’origine di ciò che in tempi meno remoti è stato attribuito agli oggetti sacri, manufatti in grado di mettere in comunione un essere umano con il divino e diventare così protettore di tutta la comunità.
Maschere, cappelli, travestimenti diventano oggetti “magici”, simboli d’intercessione con “un altro mondo” e la loro origine si perde nella notte dei tempi; manufatti capaci di rendere chi li indossava dei mediatori grazie ai quali la comunità entrava in contatto con “la terra di sotto”. La persona era ciò che in tutte le culture viene definita sciamana, colei (o colui) capace di muoversi ed essere in contatto in spazi altrimenti inaccessibili.

La divinità primordiale fu femmina.
Una dea nata da sé stessa,
donatrice di vita, dispensatrice di morte e rigeneratrice.
Univa in sé la Vita e la Natura.
Il suo potere era nell’acqua e nella pietra, nei tumuli e nelle caverne.
Negli animali, uccelli, serpenti, pesci,
nelle colline, negli alberi e nei fiori.
Era lì da millenni, sempre segreta, poiché i nostri antenati avevano capito
il segreto della Terra, Terra vivente e Madre Terra.
Era La Madre terra a dettare le leggi,
non si poteva ingannare la Terra, bisognava rispettarla.
 
Ancora oggi in Lituania, i contadini e le contadine la mattina  baciano la Terra.

Altri File..Preistoria

La Donna Preistorica…. Ma citata nei libri di storia.
Enciclopedia delle Donne – Capitolo XX

 

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L’Uomo Preistorico in Europa…. La fine dei Neanderthal.

 

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