L’Uomo Preistorico in Europa…. La fine dei Neanderthal.

 



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Indice
La scoperta del primo fossile di Neanderthal nella Valle di Neander.
Caratteristiche anatomiche dei Neanderthal.
Stazione archeologica di Cro-Magnon (Les Eyzies-de- Tayac – Francia).
La storia dei Neanderthal e la loro presenza.
Kebara (Israele) – Dorothy Anne Elisabeth Garrod (archeologa).
Neanderthal: la capacità toracica  e l’osso ioide potevano permettere di esprimere un linguaggio articolato?
Sierra de Atapuerca (Spagna)
-        L’Homo antecessor;
-        La Gran Dolina – I reperti fossili – L’Homo antecessor era una cannibale;
-        Sima del Elefante – I reperti fossili – Tanzania, Gola di Olduvai, “Il ragazzo di Tanzania”;
-        El Portolan –  I graffiti;
-        Galeria del Silex: I graffiti – il “Santuario” – I reperti fossili;
-        Sima de Los Huesos: I reperti fossili – Lago di Turkana (Kenia, scheletro KNM-WT-15000 – Kamova Kimeu (uno dei più importanti ricercatori di fossili umani); Mary Douglas Leakey (archeologa).
La solidarietà nella Preistoria.
Un bambino/a affetto da sindrome Down visse fino all’età di sei anni grazie all’assistenza del gruppo.
L’origine e l’evoluzione del linguaggio.
Requisiti di protezione e gestione della Sierra de Atapuerca.
Etiopia: L’Ardipithecus ramides – Il cranio di Ardi si collega con l’evoluzione umana.
Italia
-        Cà Belvedere (Forlì – Cesena) di Monte Poggiolo;
-        “L’uomo di Saccopastore” – Roma;
-        Grotta Guattari – San Felice Circeo (Latina);
-        Il cranio di Ceprano (Frosinone);
-        L’Uomo di Altamura (Bari).
Grotta di Shanidar (Iraq).
L’incontro tra i Neanderthal e l’Homo sapiens (Cro-Magnon).
La tecnologia dei Neanderthal.
I Neanderthal seppellivano i loro morti dentro le grotte.
I Neanderthal abbandonarono i loro siti che furono occupati dai Cro-Magnon;
-        Grotta di Fiumane (Verona) con frammenti murali di pitture;
-        “L’uomo-leone” di Hohlenstein-Stadej;
-        Le figure sciamaniche di Trois-Ferres (Francia);
-        Grotta del Genovese (Levanzo – Sicilia).
L’Estinzione dei Neanderthal (varie ipotesi).
L’evento di Laschamp (inversione del campo magnetico terrestre).
Una ricerca tedesca citò anche l’eruzione dei Campi Flegrei.
La Dieta dei Neanderthal.
L’evoluzione del cervello.

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Circa 200.000 anni fa, molti storici stimarono in 350.000 anni fa, in Europa erano presenti i primi Neanderthal. Il Neanderthal deve il suo nome alla località in cui furono rinvenuti i primi suoi resti, la valle del Neander, vicino Dusseldorf in Germania.


Una litografia della grotta nella valle di Neander di autore sconosciuto.

All’interno della grotta Feldhof nell’Hönnetal

Schizzo in sezione del geologo Charles Lyell della Kleine Feldhofer Grotte.
King e molti altri studiosi seguirono la valutazione di Lyell sull’antichità dei resti, nonostante le circostanze del loro recupero.


La valle di Neander è una stretta gola della Germania, posta poco distante dalla
confluenza del fiume Düssel con il Reno, nella Renania Settentrionale-Vestfalia a Est di Düsseldorf. In questa località nel 1856 nella Grotta di Feldhofer, durante lo svuotamento di un banco argilloso, furono rinvenuti tra i detriti da Johan Carl Fuhlrott una calotta cranica e alcune ossa lunghe con caratteristiche morfologiche arcaiche e specifiche, tra cui:  fronte bassa e sfuggente, rilievi sopracciliari molto pronunciati, il cranio allungato. Dopo innumerevoli discussioni scientifiche e grazie anche al rinvenimento di altri resti umani anatomicamente analoghi, venne riconosciuta l'antichità del reperto divenuto celebre come uomo di Neanderthal.

Il 4 febbraio 1857 a Bonn fu annunciata
La scoperta dell’uomo di Neanderthal
I suoi resti entrarono subito nell’immaginario collettivo come l’espressione di un uomo brutale, cavernicolo. Invece, come vedremo,  sia gli uomini che le donne sapevano dipingere, andavano a caccia insieme, provavano la pietà e la solidarietà.
Era uno dei più antichi fossili umani mai rinvenuti.

Nell’estate (agosto) del 1856, nella valle del Neander degli operai, che stavano lavorando in una cava, fecero esplodere alcune piccole grotte.  Tra i detriti dell’esplosione furono rinvenute alcune ossa.
Il proprietario della cava portò i reperti ossei a Johann Carl Fuhlrott, un insegnante di scienze della zona.
 Il Fuhlrott pensò che quelle ossa fossero di un orso e decise di tenerle per le sue lezioni didattiche.
Successivamente riesaminò i reperti e si accorse come le ossa fossero di un uomo, un uomo del passato. Osservando il teschio, rimase colpito dalla grandezza delle arcate ossee  (sopraorbitali) sopra le cavità oculari.
Il professore si fece delle domande a cui diede delle risposte. Un uomo del passato?  Sì.. Restava una domanda alla quale non era facile dare una risposta: quanto antico? A quale epoca risaliva?
Le sue conoscenze scientifiche gli impedirono di andare oltre, decise quindi di rivolgersi al prof. di anatomia Hermann Schaaffhausen, dell’Università di Bonn.
Il professore  diede ragione a Fuhlrott. I due decisero di pubblicare degli articoli nei quali diedero una nuova versione del passato,  una visione rivoluzionaria che avrebbe suscitato polemiche. Presentarono il più antico ominide mai ritrovato:
l’uomo di Neanderthal.
L’annuncio della scoperta fu dato solo il 4 febbraio 1857 da parte del prof. Herman Schaaffhausen, amico e mentore di Fuhlrott.
La comunità scientifica non diede importanza alla notizia eppure il prof. Schaaffhausen era un grande studioso di anatomia e di paleontologia umana, tanto da insegnare all’Università di Bonn.
Già allora, come adesso, c’era il monopolio della cultura da parte di professori, enti, ordini…..in particolare gli ordini dove certe acquisizioni sono legate  a requisiti economici (quelli ormai non mancano mai)…. anni di servizio ( la vita ormai è ridotta a dei freddi numeri)… ad un freddo modello….. senza mettere in risalto la libera creatività di chi si propone…. E poi ci sono quei mali che hanno da sempre hanno caratterizzato la società… invidia,… orgoglio di mantenere la propria posizione…ecc.. Vi posso assicurare che ho vissuto questa esperienza… chiedendo un semplice patentino… mi è stato chiesto di scrivere una lettera all’ordine… ho scritto la lettera e dopo un mese ho telefonato per chiedere lo status della richiesta. La risposta? Ma lei doveva mandare un modulo…. Non trovavano la mia email che alla fine fu recuperata. Mi sento dire, sempre per telefono.. non ha i requisiti….. Strano modo di giudicare chi come me (pensionato da circa 5 anni) scrive libri, pur riconoscendo i propri limiti, per il piacere di fare conoscere al mondo gli aspetti della mia Terra e della verità delle cose. E tutto questo senza alcuna pubblicità nelle mie pagine. Ogni pagina è un attimo della mia vita che dedico alla società e senza alcun scopo economico. Imparate…… e abbandonate l’invidia, le prevaricazioni  e le regole fredde che vi allontanano della realtà…. Ogni caso esaminato è unico, non si può generalizzare…
Solo dopo diversi anni la comunità scientifica mostrò interesse nei confronti dell’uomo di Neanderthal in seguito alla pubblicazione di due importanti libri: “L’origine della specie” di Charles Darwin e “Celtic and Antediluvian Antiquities”  del geologo Boucher De Perthes che aveva ipotizzato l’esistenza di un uomo antico, in seguito al ritrovamento di asce in selce.
Boucher De Perthes scoprì negli strati  più antichi del terrazzo di Menchecourt-lès-Abbeville (deposito alluvionale della Somme ) utensili di selce insieme a ossa di grandi mammiferi estinti , che datò al Pleistocene (periodo compreso tra 2,58 milioni e 11.700 anni prima del presente ). 

Selce bifacciale
Stadio: Acheuleano (da 500.000 Ma a 300.000 anni prima della nostra era)
Località: Menchecourt-les-Abbeville , Somme , Francia.
Ex collezione di Jacques Boucher de Perthes, da lui poi offerta a Edouard Lartet .
Nota autografa di Boucher de Perthes e Lartet.
Questo pezzo fu esposto all'Esposizione Universale del 1867.
Ma il mondo scientifico ancora non condivideva in pieno le affermazioni del prof. Schaaffhausen e attribuirono le ossa rinvenute a deformazioni naturali come rachitismo, traumi, artrite, e malattie di altra natura … questa la tesi dei prof…. Adolf Bernhard Mayer e Rudolf Virchow…..!!!!!!!!!
Nel 1864 il geologo irlandese William King respinse le idee antievoluzionistiche e attribuì i reperti della valle di Neander ad una specie arcaica di Homo: l’Homo Neanderthalensis.
Nel corso del tempo furono numerosi i nuovi ritrovamenti soprattutto in Jugoslavia, Francia, Croazia, Moravia (parte occidentale della Repubblica Ceca) che sciolsero ogni dubbio circa l’attribuzione a una diversa specie di uomo.
Gli scheletri quasi integri ritrovati nei siti di La Chapelle-aux-Saint, Le Moustier e La Ferrassie consentirono i primi studi approfonditi.
I reperti ossei rinvenuti permisero agli antropologi di delineare le caratteristiche anatomiche del Neanderthal:
- Statura media di un uomo adulto intorno al 1,60 m;
- Capacità cranica di 1288 cc nelle donne e 1575 cc nei maschi;
- Parte occipitale del cranio allungata posteriormente e caratterizzata da una prominenza denominata “chignon”;

- Volta cranica bassa e fronte sfuggente;
- Arcate sopraorbitali molto sviluppate;
- Faccia molto grande e leggermente prognata;
- Fosse nasali molto ampie;
- Mento assente;
- Gabbia toracica ampia;
- Bacino largo e lungo:
- Braccia robuste e gambe massicce con femori arcuati, adatte a camminare per grandi distanze.


I Neanderthal erano molto muscolosi e questa caratteristica, presente anche nei bambini, dimostrerebbe come fosse una caratteristica della specie, non una  conseguenza di uno stile di vita molto attivo.
L’anatomia delle mani dimostrerebbe una grande forza, presa e abilità nel manipolare. Crearono diversi strumenti ma non avevano conoscenze cognitive e fisiche sviluppate e quindi i loro strumenti rimasero invariati per migliaia di anni. Al Neanderthal sarebbe attribuita la facies culturale del Musteriano.
Rispetto ai loro antenati seppellivano i morti in fosse, non si sa se accompagnati da cibo e strumenti, e praticavano spesso la conservazione dei crani.
Raggiunsero la loro massima diffusione in Europa ed in Italia, circa 80.000 – 40.000 anni fa, per poi estinguersi circa 30.000 anni fa.
Fu la competizione con l’Homo Sapiens, accettando il termine di competizione, a determinarne l’estinzione?
Oppure fu la conseguenza di forti oscillazioni climatiche avvenute tra 55.000 e 30.000 anni fa e che determinarono una modificazione dell’habitat con una scarsa disponibilità di prede?
Queste oscillazioni climatiche furono superate dall’Homo sapiens perché più evoluto?
I Neanderthal  ci lasciarono arnesi in pietra e scheletri che, una volta analizzati e studiati, permisero di ricostruire il loro modo di vivere e le ansie legate all’arrivo, nei loro territori, dell’Homo Sapiens.
L’Homo sapiens più evoluto che portò la nascita dei primi villaggi stabili e di società organizzate.
I Neanderthal erano dei cacciatori e raccoglitori e circa 35.000 anni fa furono colpiti da un evento per loro traumatico. Si trovarono dinnanzi all’Homo Sapiens  proveniente dall’Africa che, da migliaia di anni, era lanciato alla conquista, alla ricerca sempre di nuovi territori.
Si trovarono di fronte due specie diverse di ominidi, espressione di una continua evoluzione, e l’uomo di Neanderthal scomparve.
Come mai una scomparsa così repentina?
La stazione archeologica di Cro-Magnon presso Les Eyzies-de Tayac  Sireuil in Dordogna  (nel Sud-ovest della Francia) restituì importanti  testimonianze sul periodo.
Questo fu uno dei luoghi in cui vissero i Neanderthal.

In quel periodo la regione della Dordogna e l’Europa erano dei luoghi freddi ed inospitali.


A circa 1500 km a Nord un grande fronte di ghiaccio racchiudeva l’Europa settentrionale con temperature che scendevano anche -25 gradi.
Un ambiente che dava rifugio a bisonti e daini. I Neanderthal vivevano in grotte calcaree poste nelle vallate ed erano una specie umana che si era adatta la freddo e alla vita in questo ambiente così difficile. Una vita difficile ma i gruppi erano ben organizzati e animati da rapporti molto forti legati all’obiettivo di sopravvivenza.
Il loro impatto sull’ambiente fu pressocché  nullo.
Per  protezione dal freddo usarono le pelli degli animali cacciati.
Le donne separavano la pelle dal grasso e dai tendini con l’aiuto di un affilato raschiatoio di selce, per poi usare i denti per ammorbidirla  (per questo motivo, soprattutto gli scheletri delle donne, presentavano i denti consumati fino alla radice).
La particolare conformazione del volto, molto prominente, consentiva una ripartizione uniforme dello sforzo su tutto il cranio.
Nelle grotte abitate dai Neanderthal furono rinvenuti sul terreno resti ossei degli animali uccisi, scheletri  dei Neanderthal sepolti dai propri compagni, strumenti di pietra. Reperti che con il passare del tempo si fossilizzarono diventando delle importanti testimonianze da studiare per gli archeologi.
Grazie allo studio dei reperti fossili, la visione dei Neanderthal subì dei radicali cambiamenti. Per molto tempo l’immaginario collettivo li considerava dall’aspetto scimmiesco e brutale.
In realtà erano degli individui forti, intelligenti e altamente specializzati. L’esame dei reperti fossili delle feci indicarono anche la loro alimentazione. La struttura del denti diede una visione del modo di pulire le pelli degli animali per creare abiti  ed anche le loro ossa deformate o fratturate consentirono di affermare come la loro vita fosse ricca di infortuni, malattie ad anche violenze spesso mortali.
Sempre nell’immaginario collettivo, molto diffusa fu la visione dei Neanderthal presenti in tutto il pianeta. In realtà la verità fu molto diversa.
La tundra polare a Nord, le distese di mare e deserto a Sud, restrinsero per loro le aree abitabili all’Europa e all’Asia Occidentale. Nel loro maggiore periodo di espansione si calcolò come in questo territorio siano vissuti non più di 100.000  individui della specie Neanderthal.
Una stima  codificata dai reperti archeologici.


I censimenti dei ritrovamenti ossei delimitarono un territorio che si estendeva a Sud fino in Italia e Israele; a Est i Uzbekistan, Iraq e Ucraina; a Nord in Polonia, Germania ed anche Galles; ad Ovest in Portogallo.
La zona Sud-occidentale della Francia,( la Dordogna) era quella più densamente popolata. Si calcola come in questa zona siano vissuti almeno 3.000 individui di Neanderthal.
La caccia era la loro fonte di sostentamento.
 Una caccia difficile che richiedeva lunghi spostamenti. Spesso i cacciatori si fermavano in luoghi di fortuna accedendo dei fuochi durante la notte per proteggersi dal freddo e dai pericoli  degli animali selvatici (leopardi, lupi, leoni delle caverne ed orsi).
Oltre ad essere dei predatori spesso potevano diventare delle prede  da parte degli animali feroci.
Il fuoco era conosciuto al genere umano da oltre mezzo milione di anni e la loro abilità nel crearlo fu di fondamentale importanza per la loro sopravvivenza nel continente gelido.
La caccia non era facile perché la preda spesso doveva essere seguita e i Neanderthal avevano delle armi che non erano concepite per essere lanciate da lontano ma da distanza ravvicinata, quasi con un contatto diretto. Per ottenere questo era necessario accerchiare la preda.
Non usavano giavellotti, lance, archi e frecce, ancora non erano stati inventanti, e questo tipo di caccia richiedeva un grande sforzo fisico.
Il Neanderthal, grazie alla sua evoluzione, raggiunse una configurazione fisica molto forte.
Vivere vicino ai ghiacciai determinò i tratti della specie che viveva in questa regione della Francia.
Questo aspetto, relazione tra clima e configurazione fisica, fu molto importante.
L’anatomia dei Neanderthal presentava delle ossa veramente dalle dimensioni ragguardevoli.
Erano abituati a condurre una vita molto intensa all’aperto ricca di corse, combattimenti con le prede. La loro muscolatura era molto robusta, bassi, tarchiati e muscolosi.
Le articolazioni dei gomiti delle ginocchia erano molto ampie  così come quelle delle gambe molto spesse e persino arcuate per permettere una maggiore funzionalità dei muscoli.
Confrontando le ossa della gamba di un Neanderthal con quelle di un uomo moderno si noterebbe subito come non solo era più spessa ed arcuata ma anche più corta.

I Neanderthal erano di statura bassa, alti circa 1,65, tarchiati e con gli arti corti. Questo riduceva la superfice della pelle e quini una minore dispersione di calore corporeo. Questo era un aspetto importante  se collegato all’ambiente in cui vivevano, un clima freddo dell’Europa di 35.000 anni fa.
Un aspetto corporeo importante, analizzando i teschi rinvenuti, era la particolare conformazione del naso. Un naso che presentava un’apertura nasale piuttosto grande, questo perché il loro naso era costituito da più mucose e capillari in modo da poter riscaldare, inumidire l’aria gelida e secca che si respirava e per non danneggiare i delicati tessuti interni.


Gli scienziati effettuarono delle simulazioni sul passaggio dell’aria nelle cavità nasali e i risultati di queste analisi furono molto importanti.
Si dimostrò come il cranio moderno fosse più efficace nel riscaldare l’aria che entrava dal naso mentre quello dei Neanderthal era più adatto ai climi freddi e secchi e a un dispendio energetico che poteva toccare anche le 4.480 kcal x giorno, cioè il doppio di un uomo adulto moderno.
Come già accennato i passaggi nasali dei Neanderthal erano più ampi del 29% rispetto a quelli dell’Homo sapiens. Quindi consentivano la circolazione di un volume di aria maggiore a ritmi più sostenuti (questi ominidi correvano tanto). Si coprivano in modo meno efficiente rispetto all’uomo moderno ed affrontavano climi molto rigidi, è facile quindi immaginare che avessero bisogno di narici molto grandi.
Un aspetto certamente non piacevole ma efficace.
Quest aspetti erano il frutto di un esaltante capolavoro di adattamento evolutivo e furono rilevati proprio grazie ai rinvenimenti archeologici di crani e di ossa fossili.
Il loro fabbisogno alimentare era costituito in gran parte da una dieta carnivora. Un Neanderthal doveva in media consumare fino a circa  4000 calorie al giorno, un fabbisogno che aumentava a 7000 calorie in inverno, quasi tre volte del fabbisogno di calorie  ai nostri giorni.
Nel macellare la preda si servivano di una selce ben affilata.
Ai nostri giorni la carne nella dieta rappresenta circa il 12% del cibo ma per il Neanderthal non era così. Come nelle specie carnivore probabilmente nel loro stomaco erano presenti degli enzimi che  gli permettevano di consumare grandi quantità di carne cruda ed anche cotta. Il fuoco scompone le molecole dei grassi e delle proteine rendendoli più rapidamente assimilabili dall’organismo e nello stesso tempo uccideva i batteri e i parassiti spesso presenti negli animali.  Un aspetto importante da rilevare sarebbe legato all’aspetto  di come i Neanderthal si nutrissero spesso di carogne di animali morti per vecchiaia o per altri motivi (mammut, daini, ecc). In questo caso il fuoco per la cottura delle carni era decisamente importante.
Nel gruppo  vigeva una gerarchia e spesso gli uomini cercavano di rapire le donne di altri gruppi. Il rapimento era purtroppo un’azione molto diffusa.
Il sottile filo conduttore di questa terribile azione era legata alla ricerca, in termini scientifici, di nuovi geni per il proprio gruppo ovvero di garantire la sopravvivenza della specie senza qualche tipo di interazione con altri gruppi.
Ogni gruppo, almeno in questa parte della Francia, viveva isolato senza alcun contatto con  le altre comunità.
Rapire una donna adulta di un’altra tribù consentiva al clan la possibilità di raddoppiare le opportunità di riproduzione e quindi le probabilità di sopravvivenza.
Gli storici, anche se non tutti furono concordi, affermarono  che i nuclei dei Neanderthal fossero di tipo patriarcale e cioè organizzati intorno a padri e fratelli.
Forse le donne non vivevano a lungo nel loro clan dove erano nate ma passavano da un clan all’altro .
Per vivere così a lungo, la specie dei Neanderthal deve aver per forza  adottato lo scambio delle donne. Gli scambi dovevano essere volontari ma in una società chiusa, come era quella dei Neanderthal, probabilmente alcuni contatti dovevano essere forzati e violenti quindi come un sequestro di persona.
In base ai rinvenimenti archeologici e alle dimensioni delle caverne si affermò come i clan erano costituiti in media da 25 membri ma spesso erano costituiti da otto membri.
Un numero piccolo di individui, forse per non incidere sulle scarse risorse ambientali, ma troppo piccolo per garantire la sopravvivenza della specie senza alcuna interazione con altri gruppi.
Le donne entrate nel clan, dovevano vivere una situazione psichica non facile.
Le donne mature del clan vedevano nei nuovi ingressi delle minacce alla loro posizione nell’interno del gruppo. Erano spinte dal dovere imporre immediatamente la loro autorità e probabilmente per le giovani donne, immesse in una nuova realtà, questa doveva essere un’esperienza traumatica.
Una realtà nuova caratterizzata da nuovi odori, figure, abiti e anche linguaggio.
Per molto tempo gli scienziati furono concordi nell’affermare come i Neanderthal non avessero un loro linguaggio vero e proprio e  che la loro comunicazione  fosse affidata a dei richiami primitivi e a dei gesti. In realtà osservando i loro crani, la bocca, il palato e la mandibola avevano una conformazione diversa dalla nostra e quindi impossibile che potessero esprimere un linguaggio.
Ma nel 1983  un cranio trovato nella grotta di Kebara, in Israele, consentì di mutare radicalmente questa tesi.
Kebara -  Israele

La grotta di Kebara si trova sul lato occidentale del Monte Carmelo, distante circa una decina di chilometri da Cesarea e ad una altitudine di 50 m s.l.m.
Il sito fu scoperto intorno al 1930 da Dorothy Garrod e Francis Turville – Petre che riuscirono a riportare alla luce gli strati del Paleolitico Superiore.
(Dorothy Anne Elizabeth Garrod

Nel 1951 Moshe Stekelis (nato in Russia nel 1888) e la sua equipe continuarono gli scavi nella grotta e nel corso di quindici anni di lavoro riuscirono a rintracciare gli stati del Paleolitico Medio e i resti di un bambino neandertaliano che fu chiamato Kebara 1.
Durante un’altra campagna di scavi, iniziata nel 1982, furono fatti altri rinvenimenti.
Fu trovata la sepoltura di un uomo risalente a circa 60.000 anni fa. Fu soprannominato Kebara2 /Moshe ed era privo del cranio, della gamba e del piede destro.
Lo scheletro fu privato di queste parti anatomiche probabilmente per scopi cultuali.
Le ossa furono analizzate ed appartenevano ad un uomo piuttosto robusto, alto 170 cm e con un'età compresa tra 25 e 35 anni. Le sue dimensioni furono confrontate con quelle dei ritrovamenti della grotta di Amud (Israele) appartenenti ad un adulto di 180 cm (il neandertaliano più alto), della grotta di Tabun (Israele), e con quelle dei neandertaliani ritrovati nella grotta di Shanidar (Iraq).
Il Neanderthal presentava una gabbia toracica dalle dimensioni simili a quelle dell’uomo moderno ma dalla forma diversa.
La scoperta fu sensazionale perché si era di fronte ad un reperto risalente a ben 60.000 anni fa.
La configurazione della gabbia toracica indicò come la respirazione diaframmatica, più profonda e rilassata di quella toracica, avesse una grande importanza nei Neanderthal rispetto a quella che ha per noi. Cioè facevano una grande affidamento sul movimento del diaframma.
Questa tesi fu espressa da un gruppo internazionale di scienziati che pubblicarono le loro ricerche sulla rivista scientifica “Nature Communications”.
I ricercatori provenivano dalle Università di Spagna, Israele, Stati Uniti tra cui l’Università di Washington.
Gli studi analizzarono in maniera molto approfondita la gabbia toracica e la colonna vertebrale soprattutto nella sua parte superiore.
Gli scienziati usando le scansioni TAC riuscirono a creare un modello 3D del torace.
Il risultato fu sorprendente perché si ricavò un’immagine che era lontana dall’immaginario collettivo che ritraeva il Neanderthal come un individuo tozzo e curvato in avanti.
Kebara2 aveva, rispetto all’uomo moderno, una maggiore capacità polmonare ed una colonna vertebrale più dritta.
Uno dei ricercatori, il prof. Asier Gomez Olivencia, (Ricercatore Ramón y Cajal. EHU /UPV) dell’Università dei Paesi Baschi, affermò come
La forma del torace sarebbe la base per capire come i Neanderthal si muovessero
nel loro ambiente e come respirassero nel loro equilibrio vitale.
La ricercatrice Patricia Kramer, (Antropologia biologica, evoluzione, paleontologia umana, primati non umani), direttrice del Dipartimento di Antropologia dell'UW, affermò come
Fosse possibile comprendere come i Neanderthal fossero riusciti a sopravvivere con le
risorse a loro disposizione, come, nonostante e importanti differenze fisiche con i Sapiens,
i loro adattamenti aprono la strada al nostro percorso evolutivo.
Si dai primi rinvenimenti di scheletri di Neanderthal, gli scienziati si erano sempre interrogati sulla reale forma e dimensione della cassa toracica collegata alle loro condizioni difficili di vita.
Lo studio si era basato solo sull’analisi di reperti costituiti da costole e clavicole. Già l’esame di questi reperti fece nascere negli scienziati l’opinione di come i Neanderthal avessero una morfologia diversa da quella dell’uomo moderno. Questa tesi fu poi abbandonata e fu accettata quella che indicava come le due specie avessero un torace identico.
Il Neanderthal era apparso in Europa e nell’Asia centrale circa 400.000 anni fa per poi estinguersi circa 40.000 anni fa. Lo scheletro di Kebara2 che età aveva?
Furono eseguite due diverse forme di datazione del terreno circostante: la termoluminescenza e la risonanza dello spin dell’elettrone. I risultati riportarono un periodo cronologico compreso tra 59.000 64.000 anni fa.
Le scansioni TAC sullo scheletro riguardarono vertebre, costole ed ossa pelviche.
Con un programma in 3D, adoperato per scopi scientifici, furono inoltre scandite ogni singola vertebra e tutti i frammenti delle costole. Il tutto per essere poi rimontato in 3D.
Fu poi adoperata una tecnica, denominata morfometrica, che consentiva di confrontare le immagini delle ossa di Neanderthal con le scansioni mediche delle ossa degli individui moderni.
I risultati furono i seguenti:
- Le costole si collegavano alla colonna vertebrale in una singolare direzione verso l’interno;
- Questo aspetto costringeva la cavità toracica verso l’esterno;
- Questo consentiva alla colonna vertebrale di inclinarsi leggermente all’indietro, con una piccola parte della curva lombare simile alla struttura scheletrica moderna.
In poche parole, la colonna vertebrale si trova più all’interno del torace. In termini pratici questo consentiva una maggiore stabilità. Altro aspetto era che essendo il torace più largo nella sua parte inferiore e la stessa forma della gabbia toracica, suggerirono l’esistenza di un diaframma più grande e quindi una maggiore capacità polmonare.
L’ampio torace inferiore del Neanderthal e la direzione orizzontale delle costole dimostrarono come la respirazione dipendeva dal diaframma mentre l’uomo moderno per respirare si affida sia al diaframma che all’espansione della gabbia toracica.
Lo scheletro Neanderthal “Kebara 2
Analizzato da:  Trueba/Madrid Scientific Films) Been e colleghi che sottoposero
a scansione tomografica tutte le ossa toraciche di "Kebara 2"


Fu confermata la datazione dello scheletro risalente a circa 60.000 anni fa e il reperto presentava la colonna vertebrale e il torace completo. Uno dei pochi reperti con questi aspetti anatomici integri.
Ricostruirono con un software 3D il suo scheletro e identificarono i punti di ancoraggio della muscolatura diaframmatica, particolarmente ampi e robusti,.
La dimensione toracica complessiva era praticamente uguale a quella dell’uomo moderno ma era più ampia nel suo segmento inferiore.
Gli scienziati riuscirono a dimostrare come i meccanismi respiratori, legati ai movimenti del diaframma, avrebbero potuto aumentare la capacità polmonare dei Neanderthal in misura maggiore rispetto all’uomo di oggi.
Gli scienziati conclusero come
Questo meccanismo potrebbe aver avuto anche riflessi sulla biochimica respiratoria ed ematologica, con meccanismi adattativi analoghi a quelli che si osservano anche oggi nelle popolazioni andine e tibetane, nelle quali il numero o le dimensioni dei globuli rossi - e il loro contenuto in emoglobina - differisce, su base genetica, da quello degli altri esseri umani.
Altro reperto interessante fu la mandibola che, assieme alla presenza dell’osso iode, fu il primo reperto di questo tipo ritrovato per un Neanderthal. Reperti significativi per le tesi scientifiche che svilupparono.

Questi tre piccoli ossi costituiscono l’osso ioide. Un osso che si trova proprio in gola, sotto la lingua, a cui si agganciano alcuni dei muscoli più importanti per palare, per muovere la lingua..

Dato che lo ioide  era praticamente identico al nostro, sarebbe la prova più convincente di come in realtà i Neanderthal fossero in grado di articolare un linguaggio parlato.
Il linguaggio era meno articolato e complesso rispetto al nostro ma il dato importante sarebbe quello legato all’aspetto di come i Neanderthal avessero una propria lingua ben articolata.


Dal punto di vista ambientale importante fu la localizzazione di una zona specifica per il
raggruppamento degli scarti e la presenza di residui di focolari al centro della grotta di Kebara. Un
aspetto inusuale nella vita sociale dei Neanderthal. Gli strati superficiali della grotta rilevarono degli
aspetti inquietanti.
Strati datati tra i 12.000 – 10.000 anni fa e appartenenti alla facies “natufiana”, una cultura
Mesolitica che si diffuse sulle coste orientali del Mar Mediterraneo nella regione del Levante e che
fece da precursore all’introduzione del Neolitico. Fu caratterizzata dallo sviluppo dell’agricoltura e
dalle prime coltivazioni di cereali. Nello strato superficiale fu rinvenuta una fossa comune che
conteneva gli scheletri di undici bambini e sei adulti.
Tutti gli scheletri evidenziavano tracce di violenza. In un caso erano presenti delle schegge di pietra
conficcate nella colonna vertebrale. Una morte atroce perché sicuramente l’uomo non riuscì a
sopravvivere alla lesione mortale.
Il Neanderthal non era nato in Europa, era il risultato di una lunga evoluzione iniziata milioni di
anni prima in Africa e in ambienti molto caldi. Le sue origini risalivano quindi all’Africa dove fu
rinvenuto il più antico reperto del genere umano.
Un reperto che avrebbe 4 milioni e mezzo di anni. Fu rinvenuto in Etiopia e denominato
Ardipithecus ramidus, un reperto costituito da pochi denti ed ossa delicate, forse bipede e che si
stabilizzava sugli alberi.
Da allora l’evoluzione fece il suo corso naturale fine ad arrivare ai resti di Lucy vissuta circa 3
milioni e mezzo di anni fa.
Si trattava di individui scimmieschi, con un volto primitivo e coperti da un folto pelo.
Da questo momento si hanno tutta una serie di individui, vere e proprie nicchie di evoluzione, con
varie forme di ominidi spesso molto diversi tra loro.
Nacque in questo modo il genere “homo” e uno di questi fu l’Homo erectus che uscì dal suo
territorio africano per diffondersi nel mondo e arrivando anche in Europa.
Il Neanderthal e l’Homo sapiens sarebbero un’evoluzione dell’Homo erectus?
La ricerca è molto complessa.
Sembra che due ondate di diffusione umana siano avvenute tra:
- Il tardo Pleistocene Inferiore (circa 1,2 milioni di anni fa);
- Dopo l’inizio del Pleistocene Medio (fra 780.000 e 135.000 anni fa),
La prima ondata sarebbe testimoniata dal ritrovamento nel territorio spagnolo, della specie
Homo antecessor
Spagna.. Sierra de Atapuerca     


Atapuerca è un piccolo paese di appena 200 abitanti, nella provincia di Burgos. Un paesino di montagna (900 m s.l.m.) posto nel Nord della Spagna lungo il tracciato del “Cammino di Santiago” tra Madrid e Bilbao.
Atapuerca – Chiesa di San Martin


L’Ostello dei pellegrini di Olmos de Atapuerca, un accogliente ostello posto a circa 3 km dal sentiero di Santiago. Un centro destinato solo ai pellegrini.


Etimologia del termine “Atapuerca”.
-        “ata”, termine basco che significa “porta”;
-        “pkr”, termine indoeuropeo con il duplice significato di “valle” e “maiale selvatico”.
-        “ingresso primaverile della valle” – “ingresso della valle dei xabalinos, dei maiali”.
(dopo la permanenza invernale lungo le coste temperate dei Paesi Baschi).
La Sierra de Atapuerca è una formazione carsica posta a Sud-Ovest del villaggio di Atapuerca.


I Monti Atapuerca sono quindi una catena carsica di media altitudine costituita da piccole colline pedemontane ( 1.080m) sul livello del mare e occupano una superficie di 284.119 ettari. Si trovano nell’angolo Nord-orientale del bacino del fiume Deuro, a Sud-Est dei Monti Cantabrici che attraversano la Spagna settentrionale e si estendono lungo il corridoio di Bureba, un passo di montagna che collega la Valle del fiume Ebro con il Mare Mediterraneo e il bacino del Duero. Il passo di montagna faceva parte di una strada di montagna costruita dai Romani e parte del percorso di pellegrinaggio di Santiago.


Si suppone che questa posizione sia stata un fattore determinante per il successo e la durata della permanenza degli ominidi nella zona di Sierra de Atapuerca.
La catena montuosa è ancora oggi al centro di importanti ricerche archeologiche per i suoi depositi fossili e utensili in pietra attribuiti ai primi residenti ominidi conosciuti nell’Europa occidentale.
Una presenza che risale al Paleolitico inferiore per l’insediamento di comunità di Homo erectus, Homo antecessor, Homo heidelbergnsis e Homo di Neanderthal. Uno degli ominidi risalirebbe a circa 1,2 milioni  - 630.000 anni fa.
La storia di questo importante sito archeologico è ricca di fascino sin dalla sua scoperta.
Sembra che il suo rinvenimento fosse predestinato per dare voce agli ominidi vissuti migliaia e migliaia di anni fa.
Alla fine del XIX secolo, con la spinta della rivoluzione industriale, gli altiforni della Vizcaya (Biscaglia), Baracaldo e Sestao erano i maggiori centri,  richiedevano grandi quantità di ferro e carbone. Nella Sierra de la Demanda erano presenti miniere di ferro e carbone. Per trasportare i minerali, in modo rapido ed efficace, si decise di collegare la Biscaglia alla Sierra de la Domanda con la ferrovia.


Non era previsto nel progetto che la ferrovia attraversasse Sierra de Atapuerca ma, all’ultimo momento, si decise di deviare il percorso fino ad Atuaperca. Non si capì il motivo, d’altra parte la Sierra de Atapuerca era l’unica catena montuosa della zona.
Per la costruzione della ferrovia mineraria, che per ironia della sorte non vide mai un treno, fu realizzata la trincea che riportò alla luce gli importanti sedimenti di fossili e reperti.




La trincea della ferrovia e i giacimenti sedimentari di fossili e reperti:
1.     Gran Dolina;
2.     Galeria;
3.     Sima del Elefante

I siti della Sierra de Atapuerca acquisirono una grandissima importanza scientifica nel 1992 quando furono rinvenuti dei fossili antichi a Sima de Los Huesos (Abisso delle Ossa). Nel 1994 furono rinvenuti dei resti umani risalenti a 900.000 anni fa. Reperti che definirono una nuova specie di ominide: l’Homo antecessor.


Questa sarebbe una brevissima sintesi del sito che nel 2000 fu dichiarato Patrimonio dell’Unesco.
Nei siti di Sierra de Atapuerca furono rinvenuti resti fossili di ben cinque diverse specie di ominidi e le prove della loro presenza:
- Homo sp. , ancora da definire e risalente a 1.300.000 anni fa;
- Homo antcessor (850.000 anni fa);
- Homo preneanderthalensis (500.000 anni fa);
- Homo neanderthalensis (50.000 anni fa);



Nella Sierra de Atapuerca, in milioni di anni, l’erosione delle falde acquifere creò un complesso sistema carsico. Molti di queste cavità si aprirono al mondo esterno e gradatamente riempite di sedimenti. Questo processo diede origine ai siti preistorici della Sierra de Atapuerca.

Gran Dolina
Scheda tecnica
Posizione: Trincea ferroviaria, catena montuosa di Atapuerca
Antichità: 1 milione di anni – 250.000 anni
Materie prime o tipologia di utensili:
- Modo 1 (Olduvaiano),
- Modo evoluto 1,
- Modo acheuleano 2,
- transizione dall'Acheuleano al Musteriano.
Selce del Neogenico, selce del Cretaceo, quarzite, arenaria e quarzo.
Resti umani: 170 resti umani appartenenti ad un numero minimo di 11 individui di Homo antecessor .
La Gran Dolina è una dolina carsica ovvero una valle chiusa (depressione circolare del terreno) ubicata, come la Sima dell’Elefante, nei pressi della città di Atapuerca.
È uno dei siti archeologici più importanti d’Europa per il gran numero di reperti fossili che vi furono trovati.




La dolina, nel corso del tempo, fu ricoperta da una successione di sedimenti nei quali si accumularono i numerosi resti fossili. Solo verso la fine del XX secolo, grazie alla costruzione di una trincea  per la linea ferroviaria, fu scoperta questa importante sequenza geologica costituita da diversi strati sedimentari che furono successivamente studiati nella disposizione stratigrafica.
 Negli anni 1970-1980 avvennero i primi ritrovamenti e il luogo fu definito “Trinchera Dolina” con la sigla “TD” mentre per la Sima del Elefante, rinvenuta a poca distanza, la sigla era “TE”.
Gli strati della Gran Dolina furono classificati da TD1 (lo strato inferiore e più antico) al TD11 (lo strato superiore e quindi più recente).
Per eseguire le indagini archeologiche nei vari strati fu installata una grande e complessa impalcatura di sostegno.
Yacimientos Sierra de Atapuerca - Gran Dolina


La Dolina presenta una eccezionale stratigrafia con oltre 25 metri di sedimenti.
Sedimenti che presentano una documentazione archeologica ed antropologica che racchiude un arco cronologico compreso tra un milione e 250.000 di anni fa.
Importane lo strato TD6 contenente i fossili di Home antecessor e i resti delle sue occupazioni e il livello TD10 con i resti di varie fasi di frequentazione della grotta da parte di comunità pre-neandertaliane che presentavano anche resti di caccia ai bisonti e degli accampamenti organizzati.
Gli scavi iniziarono nei primi anni ’80 e continuano ancora oggi.
Le prime tracce di presenza umana si trovarono nel livello TD4 con utensili di pietra e un ricco repertorio di fossili animali.




Nel livello stratigrafico TD6 fu recuperato il primo esempio in Europa di un accampamento, un gruppo di cacciatori-raccoglitori che utilizzavano il sito come habitat temporaneo. i reperti di fossili rinvenuti mise in risalto la presenza di un gran numero di ungulati (cervo, stambecco, ecc,), carnivori, uccelli, rettili e roditori. Agli archeologi si presentò un modello di caccia ben chiaro. Gli animali uccisi venivano portati nella grotta per essere macellati. Furono rinvenuti anche degli utensili in pietra che, rispetto ai livelli precedenti, presentavano per la prima volta una maggiore lavorazione anche elaborata.
Nel livello TD6 un ricco insieme di reperti fossili scoperti nel 1994. Un rinvenimento eccezionale per diversi motivi:
- erano i fossi umani più antichi d’Europa, datati a circa 850.000 anni fa;
- mostravano delle caratteristiche anatomiche che portarono gli archeologi ad individuare una nuova specie umana: Homo antecessor;
- nei reperti fossili gli archeologi evidenziarono un aspetto inquietante. Si trovarono in presenza del più antico caso di cannibalismo di tutta la preistoria, forse legato ad un evento di competizione all’interno del gruppo.
1985. Grande Dolina. 
Foto: MNCN

Sezione di TD6 che mostra i confini degli strati stratigrafici principali.

Sopra il livello stratigrafico TD6, i livelli TD7 e TD8 presentarono un ricco repertorio di fossili animali ma scarse prove della presenza umana.
Il livello TD10 presentava una datazione tra 450.000 e 250.000 anni fa con resti faunistici e litici legate ad occupazioni con aspetti molto diversi.
I livelli più antichi presentano i reperti litici della facies “acheuleana” come i caratteristici bifacciali, coltelli dentati e molto appuntiti, raschiatoi. La presenza umana sarebbe sporadica e non continua, legata ad un sito come appoggio temporaneo per la caccia.
(L’acheuleano è  una cultura caratterizzata da manufatti litici a forma di mandorla e lavorati su due lati in modo simmetrico. Bifacciali o amigdale.)
Bifacciale
Nel livello TD10.2 fu rinvenuto un “letto di ossa di bisonte”. Questi reperti furono studiati e furono considerati come il più antico caso di caccia comunitaria. La caccia al bisonte era stagionale e richiedeva la collaborazione di tutti gli esponenti del clan anche per le sue modalità di esecuzione.
Qui gli animali uccisi venivano lavorati e le carni divise per essere trasportate in altri habitat.
L’ultimo livello di occupazione umana della Gran Dolina sarebbe il livello TD10.1 con ancora gli aspetti di accampamento dove venivano lavorate le  carcasse, in particolare, di cervi. Gli aspetti di vita furono legati al Paleolitico medio iniziale.
I livelli superiori evidenziarono una diminuzione dell’uso della grotta con occupazioni saltuarie. Alla fine furono rinvenuti  dei livelli sterili che sigillarono la cavità fino alla sua scoperta.
Di fronte alla Gran Dolina fu riaperto il sito detto Penal che fu oggetto d’indagine nei primi anni Novanta con lo scavo di due pozzi di prova perpendicolari. Nell’indagine furono rinvenuti circa 60 reperti costituiti da resti di fauna e d’industria litica.
Secondo gli archeologi i livelli stratigrafici del sito Penal corrisponderebbero ai livelli inferiori della Gran Dolina è cioè ai livelli TD4, TD5 e TD6, proprio in quei livelli dove furono rinvenuti i resti dell’Homo antecessor. Gli scavi continuano ancora oggi e tra l’altro fu rinvenuta una pietra di quarzite scolpita che confermerebbe quindi la presenza umana nel sito Penal.
I fossili rinvenuti dimostrarono anche il tipo di alimentazione dell’Homo antecessor.
La rivista “Current Anthropology” affrontò un problema inquietante ..
L'Homo Antecessor si cibava di bambini e carne umana.


Current Anthropology è una rivista accademica di antropologia, sottoposta a
revisione partitaria pubblicata dalla University of Chigao Press per la
Wenner – Gren Foundation for Anthropological Reserch.
Fondata nel 1959 dall’antropologo Sol Tax.
Nella ricerca venne specificato come il cannibalismo era un processo al quale il villaggio o clan ricorreva quando il cibo scarseggiava.
Le ricerche nel sito di Sierra de Atapuerca rilevarono come la dieta dell’Homo antecessor, datato da 1,2 milioni e 800.000 anni fa, includeva anche carne umana.
I segni di taglio rinvenuti sulle ossa eseguiti con della pietra grezza sarebbero le prove più evidenti di cannibalismo. L’esame fu eseguito sui reperti fossili umani rinvenuti nella Gran Dolina.
Ovviamente non era l’unica cosa che mangiavano come dimostrano i reperti fossili di animali rinvenuti (bisonti, cervo, ecc.).
I ricercatori individuarono ben 11 resti di bambini ed adolescenti che furono probabilmente massacrati. Le ossa venivano schiacciate o tagliate per estrarre il midollo nutriente. Anche il cervello, secondo i ricercatori, veniva ingerito.
Secondo il paleontologo Josè Maria Bermùdez de Castro, co-autore della ricerca, i segni che furono rinvenuti alla base dei teschi indicherebbero l’orribile fine dei giovani. Giovane che veniva prima decapitato. La scopo era quello di ottenere un più facile accesso al cranio con l’obiettivo di tagliare e rimuoverne il contenuto.
L’antropofagia aveva una sua duplice funzione:
- nutrizionale;
- di difesa.
Di difesa perché si mantenevano sotto controllo le popolazioni dei clan confinanti.
Questa orribile pratica fu effettuata per migliaia di anni dato che si trattava di un processo a cui ricorreva il villaggio o clan quando scarseggiava il cibo.
L’altra evidenza legata al rinvenimento di resti umani e di animali senza alcuna distinzione, fu la prova per i ricercatori di come il cannibalismo non fosse legato ad alcun rituale di natura cultuale.
Il cannibalismo era considerato l’ultima forma per procurarsi il cibo.
Probabilmente le vittime non erano individui del clan ma esponenti di gruppi rivali che occupavano lo stesso territorio. Il clan infatti non aveva alcun contatto culturale con quelli circostanti, ognuno viveva in un mondo contraddistinto dalla loro aerea di pertinenza. Invadere la propria area era sinonimo di pericolo di sopravvivenza perché dovevano competere per il cibo.
I bambini, in questa visione storica, erano i bersagli più facili perché incapaci di difendersi.

Trace di incisioni e morsi umani sulle ossa di Homo sapiens.
Spagna – Coves de Santa Maria

Durante gli scavi del 1994 nel livello TD6 furono rinvenuti i resti di un cranio risalente a circa 900.000 anni fa.

Sequenza superiore dell'unità litostratigrafica TD6 della grotta Gran Dolina in riempimento (Matuyama Chron), che comprende il ‘‘set archeostratigrafico Aurora’’


Taglio verticale del sito Gran Dolina, che indica la posizione dei livelli TD7, TD6 e TD5. L'impalcatura è posizionata nella cavità lasciata dal pozzo di prova realizzato tra il 1993 e il 1999.
Il cranio apparteneva a un giovane di circa 10 – 11 anni che fu soprannominato il “nino della Gran Dolina” e fu classificato come appartenente ad una nuova specie di homini,  l’Homo antecessor.
Successivamente furono rinvenuti i resti di altri sei individui.
Si sviluppò subito un accesso dibattito scientifico perché  era implicito il tema sull’evoluzione umana nel continente europeo.
Infatti i resti mostravano delle somiglianze con l’Homo heidelbergensis, antenato dell’Homo di Neanderthal.
Somiglianze  legate alla fronte ed ai denti ma l’uomo della Gran Dolina mostrava anche delle caratteristiche alquanto moderne, come i lineamenti del viso che erano vicini a quelli dell’Homo sapiens. In definitiva l’individuo della Gran Dolina  doveva essere un antenato comune sia all’Homo Sapiens che all’Homo  Heidelbergensis. Una posizione che in passato era attribuita solo a quest’ultimo.

Resti dell’Homo Antecessor della Gran Dolina.
(Inventariati come reperti: ATD6-15 e ATD6-69)
ATD: Atapuerca Trinchera Dolina
Una scoperta importante degli scienziati spagnoli fu legata all’evidenza di come l’Homo antecessor praticasse il cannibalismo. Questa tesi fu evidenziata grazie all’esame dei reperti ossei.
Molte ossa presentavano delle marchiature ben evidenti legate a pratiche di macellazione eseguite con utensili di pietra. Alcuni colpi indicavano come l’osso fosse stato spaccato a metà con l’obiettivo di estrarne il midollo. Un tipo di frattura sull’osso che non sembrava collegata ad un rituale ma diretta ad un azione che aveva come obiettivo di procurarsi il cibo.

( A ) Localizzazione della Sierra de Atapuerca.
( B ) Localizzazione del sito Gran Dolina situato in una trincea ferroviaria (“Trinchera”).
( C ) Modello 3D del sito Gran Dolina nel 2012.
Le aree marroni indicano le unità stratigrafiche.
Le aree grigie sono la parete e il soffitto della grotta.
Le superfici di scavo nel 2012 sono state contrassegnate con la lettera S.
Superficie di scavo S1 – TD10. Superficie di scavo S2 – TD5.
Superficie di scavo S3 – TD4.
Il sito di “Torreón” e lo scavo della fossa di prova sono situati in TD6.
( D ) Unità stratigrafiche (TD1 a TD11) e facies sedimentarie del sito Gran Dolina.
Mappa creata da ArcGis 10.1 utilizzando i dati di elevazione del dataset ad accesso libero SRTM90 Modello 3D di 1C creato dal software 3DReshaper.

Resti di piedi del livello TD6 del Pleistocene inferiore della Gran Dolina, Atapuerca (Spagna).

Nei livelli inferiori furono trovati dei reperti di industria litica che furono datati a circa 1,5 milioni di anni fa (Ma) (la più antica industria litica d’Europa).
Nel campo di scavi del 1994 – 1995 furono quindi rinvenuti il teschio parziale di un giovane individuo (ATD6-69) e un frammento mandibolare, sempre di un giovane individuo (ATD6-15), insieme ad una serie di denti dello stesso individuo.
Gli scavi permisero il rinvenimento di ben 90 fossili umani e 268 manufatti litici di selce, arenaria, calcare e quarzo. Furono classificati come facies Modo 1. Furono anche rinvenuti migliaia di resti di animali vertebrati di piccoli e grandi dimensioni.
I reperti fossili umani costituivano tutti l’olotipo della specie Homo Antecessor.
Un nuovo scavo, sempre nello strato TD6, effettuato tra il 2003 ed il 2007 e vicino alla fossa di prova degli anni ’90, consentì di allargare l’area d’indagine a circa 13 mq.
Furono trovati altri resti dell’Homo Antecessor, circa 150 resti fossili, appartenenti a circa 11 individui (otto giovani e tre adulti).
Tra questi reperti una metà mandibolare sinistra quasi completa, ATD6-96, di una donna adulta e un frammento di metà mandibolare sinistra, ATD6-113, di un uomo adulto.
Il rinvenimento di questi frammenti modificò in parte le precedenti conclusioni sulle relazioni filogenetiche di Homo Antecessor e suggerì come questa specie rappresentava un  lignaggio europeo più antico e probabilmente estinto. Un lignaggio diverso da quelli africani e più vicino agli ominidi asiatici come quelli di Zhoukoudian.
Di grande interesse fu il rinvenimento di due omeri, ATD6-121 di un giovane e ATD6-148  di un adulto. I due reperti mostravano anche caratteristiche dell’Homo di Neanderthal in particolare nell’epifisi distale (il complesso articolare più vicino alla mano).
Il proseguo degli scavi fornì nuovi affioramenti nei livelli TD6 e TD7 che non erano stati indagati nel 1994.
Strato TD7 adiacente allo strato TD6.
I resti dell’Homo Antecessor furono scoperti in associazione stratigrafica con una tipologia paleolitica molto primitiva detta Olduvaiano (o Modo 1 del Paleolitico inferiore).
 Il suo insediamento nel continente europeo potrebbe aver subito una drastica interruzione intorno a 600.000 anni fa a seguito di marcati e diffusi cambiamenti climatici, in particolare la glaciazione che prende il nome tecnico di «stadio isotopico 16» perché dedotta dalla variazione del rapporto di isotopi dell’ossigeno in sedimenti marini.
Successivamente si trovarono segni di una nuova espansione in Europa ad opera di forme umane diverse dal punto di vista della morfologia scheletrica con chiari segni encefalizzazione.
Questi nuovi individui furono attribuiti alla specie
Homo  heidelbergensis,
esponenti della fase culturale dell’Acheuleano (Paleolitico Inferiore “Modo 2”).
Gli individui di questa seconda ondata provenivano da un altro sito della Sierra de Atapuerca, ovvero Sima de Huesos” (Pozzo delle Ossa). Qui furono scoperti dei fossili scomposti ma ben conservati di una trentina di individui, datati fra i 600.000 e i 300.000 anni fa.
…………………

Sima del Elefante



Posizione: trincea ferroviaria, catena  montuosa di Atapuerca.
Datazione: 1.400.000 – 250.000 (anni fa).
Cronologia strumenti: Modo 1 o Oldowan – Modo 3 o Musteriano.
Tipo di occupazione: Accumuli fossili in posizione secondaria.
Descrizione: è un sito sedimentario spesso quasi 20 metri. I livelli inferiori TE6 – TE14 corrispondono al Pleistocene inferiore (oltre 780.000 anni), mentre i livelli superiori (TE18-19) corrispondono al Pleistocene medio superiore (circa 250.000 anni). Questa differenza cronologica si riflette nel materiale archeo-paleontologico recuperato in ciascuna di queste fasi.
Nei livelli superiori furono recuperati pezzi litici risalenti ad una fase di transizione dal Modo 2 al Modo 3 e che sarebbero indicativi dell'inizio del Paleolitico medio, insieme a resti di taxa tipici del Pleistocene medio come Ursus deningeri , Equus ferus o Stephanorinus cf. emitoeco. 
Nei livelli inferiori furono rinvenuti frammenti litici del Modo 1 e di taxa animali tipici del Pleistocene inferiore come Ursus dolinensis , Pannonictis cf. nestii , Equus altidens o Stephanorinus etruscus .
Nei livelli inferiori del sito, precisamente nei livelli 9 e 7, furono rinvenuti diversi resti umani attribuiti a Homo sp.(ancora da classificare).
I primi reperti nella Sima dell’Elefante risalirebbero al 1984 quando furono rinvenuti due reperti litici sul pendio ai piedi del sito. Uno di questi reperti era una punta. Gli scavi sistematici iniziarono nel 1996. Ben 27 anni di scavi soprattutto sui livelli inferiori della discarica. Dal 1996 al 2006 gli scavi interessarono i livelli che andavano dal TE4 al TE9  con il recupero di resti dell’industria della selce e pochi resti di animali destinati all’alimentazioni degli ominidi. Sin dalle prime campagne di scavi si mise in risalto come la presenza dell’avifauna era un aspetto caratteristico del sito.
La grande diversità di specie, i numerosi resti e la buona conservazione, resero la Sima dell’Elefante un sito ideale per lo studio degli uccelli nel Pleistocene inferiore.
Nel 2007 nel livello TE9C fu recuperata una mascella umana e nella campagna di scavi del 2008 una falange. Resti che furono attribuiti all’Homo sp. e risalenti a più di un m milione di anni fa. Si trattava dei primi resti umani nell’Europa occidentale.
La Sima dell’Elefante si trovava sulla trincea ferroviaria e nel 2011 furono scoperte le traversine della ferrovia che non entrò mai in funzione.
Nel livello TE7, a circa 18 metri dal soffitto della galleria oltre ai resti di fossili di animali furono recuperati una pietra di quarzo e una costola  con segni di taglio. Nel 2022 fu rinvenuto una parte del volto di un  ominide la cui datazione potrebbe risalire a circa un milione e trecentomila anni fa. 

Elephant Pit 2023. 
Foto: Susana Santamaría / Fondazione Atapuerca

Nei prossimi anni, il lavoro a Sima del Elefante si concentrerà sullo scavo dei livelli basali del sito (livelli 7 e 6) per apprendere dai reperti archeo-paleontologici chi erano gli ominidi di circa 1,5 milioni di anni fa e come vivevano, nonché in quale ecosistema vivevano.
Nel prossimo futuro, dopo aver completato gli scavi dei livelli inferiori, inizieranno i lavori di ampliamento dei livelli superiori del sito per scoprire di più sui Neanderthal che vivevano nelle vicinanze della grotta.
Senza dubbio, il sito di Sima del Elefante ha ancora molto da offrire allo studio dell'evoluzione umana a livello globale.


Sierra de Atapuerca-Cueva del Elefante-012

La Sima dell’Elefante (“sima” in lingua spagnola significa “voragine”) è una voragine scavata nell’arenaria cretacica da un antico fiume sotterraneo nella Cueva Mayor della Sierra de Atapuerca.
Nella cavità furono scoperti i più antichi fossili umani europei, datati a più di 1,2 milioni di anni fa.
Nel corso del Pleistocene, compreso fra 2,58 milioni di anni fa e 11.700 anni fa, ci fu il crollo di un pozzo alla sommità della voragine. Questo crollo diede origine ad un forte accumulo di sedimenti che funzionarono come copertura dei sedimenti inferiori.
Il rinvenimento di questa voragine, così importante dal punto di vista archeologico e naturalistico perché parte del sistema carsico della Sierra de Atuaperca, fu fortuito. Durante i lavori per la costruzione di una galleria ferroviaria, eseguiti nel corso del XIX secolo, furono rinvenuti questi depositi. Gli studi degli archeologici permisero di rilevare la loro stratigrafia.
Le ricerche geologiche e paleontologiche iniziarono nel 1992 e procedono ancora oggi.
Un patrimonio geologico e paleontologico immenso. Nell’esame degli strati furono rinvenuti ossa di erbivori che erano state sagomate e un centinaio di utensili in pietra scheggiata o del tipo Olduvaiano (facies culturale del Paleolitico Inferiore caratterizzato dalla creazione di strumenti in pietra).
I fossili umani che furono rinvenuti misero in risalto la presenza dell’Homo in Europa al tempo del Calabriano (uno dei quattro piani in cui è diviso il Pleistocene, una delle due epoche del Quaternario), e datato tra 1,80 e o,774 milioni di anni fa (Ma).
Dello stesso periodo sono importanti i siti di:
- Orce nel Sud -est della Spagna;
- Pirro Nord (Apricena – Foggia) in Italia;
- Kozamikain Bulgaria
Nel sito fu anche rinvenuta una falange fossile che evidenziò l’evoluzione della mano nel corso del tempo. I resti di fauna e gli stessi utensili litici ritrovati diedero delle importanti informazioni sulla vita di questi antichi uomini preistorici.
La cavità aveva un’altezza di 18 metri e vi si rifugiavano gli uccelli. Per gli animali terrestri che vi si avventuravano diventava una trappola. Questo determinò un accumulo di resti ossi che fornirono importanti dati sulla fauna, sul clima e facilitarono le datazione dei reperti.
I sedimenti si trovano anche dall'altra parte della trincea ferroviaria che divise in due parti il sito.

Sequenza stratigrafica della Sima del Elefante o Trinchera del Elefante (TE).
Solamente negli strati da TE15 a TE17 non furono trovate ossa fossili.
Utensili litici furono trovati principalmente nello strato TE9 (più uno in TE8)
assieme a una mandibola, un dente e una falange.
Nel 1996 fu effettuato un sondaggio sotto il livello inferiore TE7. Questo sondaggio permise di visualizzare una precisa stratigrafia evidenziando come il fondo della cavità si trovasse almeno 3,5 m al di sotto dei sedimenti.
Gli Spagnoli mostrarono sempre un grande interesse e attenzione verso l’archeologia. Con attenzione scavarono un pozzo fino alla profondità di 8 metri.
Si ottenne una stratigrafia che venne divisa in 21 livelli, sette dei quali si trovavano al di sotto del livello del terreno. Questi livelli furono classificati da T8 a T21.
Nel 2001 venne scoperto un molare che venne inizialmente attribuito ad un rinoceronte. Dopo studi approfonditi fu ritenuto come appartenente ad un elefante. Questo diede la denominazione alla cavità. Il successivo rinvenimento di un astragalo, sempre appartenente ad un elefante, fece mantenere la denominazione della voragine.
La datazione di questi livelli non fu semplice per diversi motivi:
- L’inclinazione soprattutto dei livelli più bassi dei sedimenti;
- La miscelazione degli strati precedenti a causa dei diversi periodi di riempimento.
La datazione venne sempre continuamente aggiornata.

In un articolo (risalente al 2005) dell’importante rivista scientifica “Scienze Direct” ….
Le età per i sedimenti e i fossili sono scarsamente vincolate. L'assenza di materiale vulcanico e speleotemi impedisce l'applicazione di tecniche di datazione assoluta. Lo scopo di questo rapporto è di rettificare questa situazione determinando la polarità magnetica del riempimento sedimentario del sito della grotta e quindi vincolare l'età degli strumenti litici.
Gli studi, le attente analisi, permisero di ottenere delle datazioni molto coerenti tra loro:
- Solo l’ultima inversione del campo magnetico terrestre, l'inversione di Brunhes-Matuyama, fu rilevata tra gli strati TE16 e TE17, il che permise di datare gli strati inferiori tra 1,78 e 0,78 milioni di anni. (La Terra ha un proprio campo magnetico definito campo geomagnetico che, secondo gli studi finora svolti, è presente da circa 3,5 miliardi di anni. L'inversione di Brunhes-Matuyama fu un evento geologico verificatosi circa 780.000 anni fa. Cioè il campo magnetico terrestre subì l’ultima inversione della polarità in ordine di tempo. Parlando di campo magnetico si riconoscono, quindi, due periodi ugualmente stabili: quello a polarità cosiddetta “normale”, quando le linee di forza del campo magnetico escono dall’emisfero australe ed entrano da quello boreale, e quello a polarità inversa. Attualmente siamo in un’epoca a polarità “normale”. Il processo Brunhes-Matuyama potrebbe aver richiesto alcune migliaia di anni, con una durata apparente compresa tra 1.200 e 10.000 anni, il che lo classificherebbe come escursione geomagnetica, con una variabilità funzione della latitudine o causata da effetti locali dovuti ad anomalie magnetiche derivanti da effetti non dipolo-dipendenti del campo magnetico terrestre.



- 
La microfauna del livello TE9 fu datata con una certa precisione, 1,4 milioni di anni fa, grazie anche al confronto con le specie note del Nord Italia;
- Il metodo di datazione più efficace fu la datazione con gli isotopi cosmogenici dei radionuclidi Al e Be in un prelievo di quarzo. Un prelievo nel livello TE9b, 40 cm al di sopra della mandibola del livello TE9c, aveva un'età di 1,22 milioni di anni.
Si ritiene quindi che i sedimenti del livello TE9c e di quelli inferiori abbiamo un’età di almeno 1,22 milioni di anni (Ma).
Negli strati da TE8 a TE14 furono trovati di 80 oggetti litici, concentrati in particolare nel livello TE9.
Oggetti dalla tipologia semplice, in selce o arenaria, tutte materie disponibili a circa 2 km di distanza.


Questi utensili erano i più antichi d’Europa.
Nei livelli superiori, in particolare nel livello TE19, furono trovati oggetti litici più recenti, facies Acheuleano ( in questa cultura i manufatti litici  avevano una particolare forma a mandorla e lavorati in modo quasi simmetrico in entrambi i lato. Per questo motivo il reperto si dice bifacciale). Un tipo di lavorazione che su associata all’Homo Heidelbergensis e di transizione con il Musteriano (Facies del Paleolitico Medio, in cui venivano usati attrezzi in prevalenza di selce e associati all’Homo Neanderthalensis – 300.000/30.000 anni fa). 
I materiali utilizzati erano costituiti da selce, quarzite ed arenaria prelevati a circa 3 km di distanza.

Oggetti bifacciali

L’assenza di reperti nei livelli intermedi da TE15 a TE17, dimostrava la mancanza di industrie litiche e quindi la presenza dell’Homo in questo sito.
Furono identificate le ossa di un gran numero di animali:
- Ursus dolinensis, una specie che fu scoperta nella vicina Gran Dolina;
- L’orso di Deninger, antenato dell’orso delle caverne, di cui fu trovato un cranio completo;
- Macaco;
- Canidi;
- Lince d’Issoire
- Mammut;
- Volpe;
- Donnola;
- Bisonte;
- Cavallo;
- Cervo;
- Megalocero;
- Giaguaro europeo;
- Iena macchiata;
- Vari tipi di rinoceronte, lagomorfi e roditori.
Non si poté con certezza classificare i fossili di felini, ippopotamo e proboscidati.
Negli strati TE14 e inferiori furono trovati oltre 10.000 frammenti ossei e resti di uccelli marini e un osso di anatra. Probabilmente vicino la voragine era presente un vasto lago nel Pleistocene Inferiore.
Il livello TE9 conteneva una vasta diversità di specie, tra cui anche resti di carnivori (cane, lince, giaguaro e orso) ed anche di erbivori (mammut, bisonte, rinoceronte, cavallo, cervo) le cui ossa presentavano numerose fratture fresche che, associate alle impronte di denti, indicavano di essere stato oggetto di preda.
Le impronte dei morsi non sempre erano presenti, a volte presentavano delle striature e segno di percussione.
I livelli da TE15 a TE17 segnavano una discontinuità in quanto privi di frammenti ossei.
I livelli TE18 e TE19, più recenti, contenevano resi di animali del Pleistocene Medio: elefante, rinoceronte, cervo, cavallo, megalocero, bisonte, volpe, orso di Deninger, iena. La datazione di questi strati simile al livello TD10 della Gran Dolina.
Questi livelli permisero di visualizzare l’ambiente circostante costituito da una foresta umida circondata da vaste pianure secche, con un clima identico a quello odierno. Infatti la presenza di ossa di cavallo nel livello TE19, indicava l’esistenza di vaste pianure.
Negli strati TE20 e TE21, livelli superiori, erano privi di reperti fossili e rappresentavano lo stato di otturazione della cavità.
I resti della fauna presente nello strato TE mostravano una maggiore presenza di animali erbivori, in particolare di bisonti e gli Homo lasciarono le loro impronte sulle ossa degli animali.
Le fratture per accedere al midollo e le striature presenti nelle ossa lunghe per strappare la carne, così come su una mandibola e su una vertebra, erano espressioni tipiche dell’attività umana legata alla macellazione dell’animale.
L’assenza di scheletri completi di animali, potrebbe indicare come il consumo della carne sia avvenuto all’esterno della grotta e non al suo interno.




Importanti i Reperti Fossili Umani.
Mandibola ATE9-1

La mandibola umana ATE9-1 della Sima del Elefante, datata a 1,22 milioni di anni fa,
esposta al Museo dell'Evoluzione Umana di Burgos.
La mandibola fu scoperta negli scavi del 2007 nello strato TE9c.
Una mandibola in ottimo stato di conservazione con ben sette denti.
Il suo ottimo stato di conservazione consenti di rilevare la presenza di una ipercementosi che indicava un notevole stato di sofferenza per l’individuo.
(L'ipercementosi si riferisce all'ispessimento anomalo del cemento, il tessuto calcificato che ricopre la radice del dente. Questa condizione può colpire uno o più denti).
Fu datata a 1,22 milioni di anni fa ed è il fossile umano più antico in Europa.

Il punto dello strato TE9 dove fu rinvenuta la mandibola.

Falange ATE9-2

Durante gli scavi nel 2008, sempre nello strato TE9c fu rinvenuta una falange posta a circa 2 metri dal punto in cui fu trovata la mandibola. Facendo riferimento allo sviluppo delle ossa degli uomini moderni, fu identificata come la falange prossimale del mignolo destro di un individuo di circa 16 anni.

Falange umana rinvenuta nel 2008 nella Sima del Elefante, ad Atapuerca (Burgos).
FOTO: IPHES.
Lo studio della mano nel corso dell’evoluzione del genere Homo potrebbe fornire informazioni utili sulla trasformazione culturale e anatomica dell’uomo nel corso del tempo.
Sarebbe importante rilevare come siano molto rari i reperti delle ossa della mano nei registri fossili e questo non permetterebbe di affermare quando la mano prese la sua forma attuale.
Nella rivista scientifica “Journal Human Evolution” fu pubblicato un articolo della Commissione Scientifica “Atapuerca Research Team” basato sulla falange, risalente a 1,3 milioni di anni fa, che fu rinvenuta nel 2008 nella Sima dell’Elefante.
Gli studi dimostrerebbero come la morfologia della mano umana era già ben definita in quei tempi.
Il reperto indicato come (ATE9-2) era costituito dalla prima falange prossimale del quinto dito della mano sinistra di un individuo adulto. Un reperto individuato nello stesso livello (TE9) dove fu rinvenuta la mascella. Entrambi i reperti erano di un ominide vecchio di 1,2 – 1,3 milioni di anni, il più antico ominide d’Europa.
Nello studio i ricercatori misero in risalto come la morfologia di questa falange, confrontata con due campioni di esseri umani moderni,  non presentava differenze né nei confronti degli esseri umani moderni e nemmeno nei confronti dei Neanderthal.
Il ricercatore Carlos Lorenzo affermò come
la falange, e quindi la mano, è cambiata poco nella sua morfologia da 1,3 milioni di anni fa a oggi
Le uniche differenze osservate riguardano la robustezza del fossile, qualcosa che condivide con i Neanderthal e gli ominidi di Sima de los Huesos. Questa robustezza, o larghezza dell'articolazione distale, sembra essere un carattere primitivo già riscontrato in altre parti scheletriche e negli ominidi più antichi.
Ciò conferma il fatto che la specie Homo sapiens si differenzia dalle altre specie fossili per la sua grazia corporea.
Fino alla comparsa di questa falange, non esisteva alcuna documentazione fossile del genere Homo per questo elemento anatomico più antico dei Neanderthal e degli ominidi della Sima de los Huesos. Erano  rimasti solo dei resti delle falangi prossimali del quinto dito dell'Australopithecus e alcuni resti frammentari di cui non si conosce l’appartenenza  al genere Homo o Australopithecus.
Le falangi dell'Australopithecus sono curve, un fatto che alcuni ricercatori hanno collegato alla loro difficoltà o impossibilità nel realizzare e utilizzare utensili in pietra… Il fossile di Elephant Pit è dritto come gli esseri umani moderni….. Tuttavia il modo di realizzare gli utensili è cambiato molto rispetto a 1,3 milioni di anni fa. (Carlos Lorenzo).
Questa evidenza portarono i ricercatori a concludere che le falangi (e quindi la mano) degli ominidi presentavano già almeno 1,3 milioni di anni fa tutte le caratteristiche morfologiche per realizzare utensili in pietra molto avanzati.
(Carlos Lorenzo, ricercatore presso l'IPHES (Istituto Catalano di Paleoecologia Umana ed Evoluzione Sociale) e l'URV (Universitat Rovira i Virgili de Tarragona), che ha guidato il lavoro insieme ad Adrián Pablos, ricercatore post-dottorato presso l'Università di Burgos (UBU) e il Centro Nazionale per la Ricerca sull'Evoluzione Umana (CENIEH), in collaborazione con altri scienziati di queste istituzioni e del Centro Congiunto per l'Evoluzione Umana e il Comportamento UCM-ISCIII. Per l'IPHES-URV, oltre a Lorenzo, gli autori sono Rosa Huguet, Josep Vallverdú ed Eudald Carbonell).

Diverse viste dell'osso della falange prossimale del mignolo di una specie non identificata di ominide nota come OH 86.
(M. Dominguez-Rodrigo)


Secondo gli scienziati, un minuscolo osso del mignolo di un antenato dell'uomo vissuto più di 1,84 milioni di anni fa nell'Africa orientale sarebbe il più antico osso della mano "moderna" mai rinvenuto. (Articolo nella rivista scientifica “Nature Communications”).
Un osso così piccolo come il mignolo riporterebbe indietro nel tempo dimostrando un passaggio fondamentale nell'evoluzione dei nostri antenati, da cacciatori-raccoglitori che si arrampicavano sugli alberi a cacciatori che maneggiavano utensili.
Perché tanta importanza ad un osso così piccolo?
L’analisi dell’osso suggerirebbe anche l’esistenza di una creatura più grande e più simile all’uomo
rispetto ad altre note che vissero nello stesso periodo nella stessa regione.
La regione sarebbe la Tanzania , uno dei luoghi più importanti nell’origine umana.
La mano è una delle caratteristiche anatomiche più importanti che contraddistingue l'uomo e persino un frammento di 3,6 centimetri, risalente a due milioni di anni fa, potrebbe rivelare molti aspetti importanti  sulla corporatura e sul comportamento dell’ominide.
Tanzania, gola di Olduvai, il luogo dove fu trovato il mignolo che fu datato due milioni di anni fa.






Il ritrovamento  della falange di un mignolo, trovato nella gola di Olduvai, fece avanzare l’ipotesi di come due milioni di anni fa nella regione fosse presente, accanto all’Australopithecus bolsei e all’Homo abilis, che avevano mani più primitive, un  altro antenato della specie umana.
Fu indicato con la sigla OH86 (Olduvai Hominin 86)
Sarebbe il più antico degli ominidi, scoperti fino adesso, ad avere una mano simile a quella degli esseri umani moderni e adatta a produrre anche sofisticati strumenti di pietra.
Un fossile piò antico di quello della Sima del Elefante di Atapuerca dato che aveva una base cronologica tra i 2 e gli 1,8 milioni di anni fa.
Questo aspetto destò stupore negli scienziati perché OH86 aveva una mano più moderna di quella di altri  ominidi recenti. Il reperto era una falange prossimale, cioè quella più vicina al palmo della mano e la gola di Olduvai, confermò ancora una volta, la sua importanza come uno dei  siti più importanti in Africa per i rinvenimenti di ominidi fossili.

La falange di OH 86 confrontata con una mano moderna. (Cortesia Jason Heaton)

Le capacità manuali dell’Homo sapiens erano legate ad alcune caratteristiche morfologiche come quello di avere un pollice lungo rispetto alle altre dita. Questo consentiva una maggiore precisione nella manualità e di aprire le mani completamente grazie ad:
- Articolazioni robuste;
- Ipertrofia dei muscoli del pollice.
Cosa permettevano questi aspetti?
Permettevano una presa polpastrello-polpastrello che univa forza e precisione in modo perfetto e senza confronti con gli altri ominidi.
Le conclusioni di questa ricerca scientifica furono eccezionali.
Infatti in origine era opinione condivisa che l’evoluzione della mano, intesa come una configurazione morfologica adatta alla creazione e all’uso, in modo efficiente, degli strumenti di pietra, fosse avvenuta non prima di 1,6 – 1,4 milioni di anni fa. D’altra parte molti reperti litici risalivano anche a 2,6 – 3,3 milioni di anni fa.
Questi reperti erano piuttosto rozzi e frammentari, potevano essere creati anche da una mano non perfettamente moderna, e servivano probabilmente per frantumare le ossa per ricavarne il midollo del quale gli ominidi si cibavano.
Ma qual era la differenza tra la mano di OH 86 e quella di A. bolsei e di H. habilis ed anche di altri ominidi di specie più recenti?
La differenza era la curvatura della falange che era assente nella mano di OH 86 ed era molto accentuata in A. bolsei e nell’H. habilis perché legata ad un adattamento alla vita arboricola.
OH 86 non viveva sugli alberi ma costantemente al suolo.


(Cortesia Manuel Domínguez-Rodrigo)
La falange prossimale di OH 86 ripresa da diverse angolazioni.
In base ai rapporti antropometrici sembra che OH 86 avesse anche una corporatura più grande di quella degli altri ominidi suoi contemporanei. Certo sarebbe importante sapere anche il tipo di rapporto  sociale tra OH  86 e i suoi contemporanei.
Comunque non tutti i paleoantropologi  furono concordi nell’accettare questa differenza tra OH 86 e i suoi contemporanei.
 Mentre alcuni, tra cui Jean Jacques Hublin, direttore del Max Planck Institut per l’antropologia evoluzionistica, ritenne plausibile l’esistenza di una nuova specie con una corporatura più robusta dell’H. habilis, altri si dichiararono scettici in merito.
La forma delle mani degli ominidi rifletteva il loro stadio evolutivo ed era, al tempo stesso, il motore importante di vita sociale.
La nostra mano si è evoluta per consentirci una varietà di prese e una potenza di presa sufficiente a consentirci la più ampia gamma di manipolazioni osservata in qualsiasi primate.
È questa capacità di manipolazione che ha interagito con il nostro cervello per sviluppare la nostra intelligenza, principalmente attraverso l'invenzione e l'uso di strumenti.
Una mano moderna nel passato ci direbbe quando gli esseri umani sono diventati completamente terrestri e quando e con quale efficienza i nostri antenati hanno utilizzato gli strumenti.
Secondo gli scienziati questa transizione avvenne in due fasi principali.
Circa sei milioni di anni fa tutti i membri del genere Homo iniziarono a camminare su due gambe e la loro mano sviluppò un pollice più lungo.
Ma le dita rimasero curve perché gli alberi continuarono ad essere il loro habitat.
Questo aspetto, la doppia “locomozione”, rimase la norma per altri quattro milioni di anni.
Nella seconda fase, gli ominidi abbandonarono gli alberi, e le loro dita cominciarono a raddrizzarsi aprendo la strada alla creazione e all’uso di utensili.
Le mani sono state liberate dalla locomozione sugli alberi in modo che potessero specializzarsi strettamente nella manipolazione…… È qui che la nostra scoperta colma una lacuna.
(Dominguez-Rodrigo).
Infatti i primi utensili risalirebbero a circa 2,6 milioni di anni fa.
Le prove archeologiche rinvenute nella gola di Olduvai dimostrerebbero quindi delle dimensioni importanti di OH 86.
OH 86 mostrerebbe dei tratti distinti indicatori di una appartenenza ad un gruppo umano differente (forse sarebbe l’antenato dell’Homo erectus asiatico?).
I primi antenati trasportavano le carcasse degli animali di grandi dimensioni a volte pesanti centinaia di chili.
Ho sempre avuto difficoltà a capire come l'Homo habilis , alto appena più di un metro, riuscisse a cacciare in modo efficiente animali così grandi.
Alcuni scienziati affermarono come gli uomini del Pleistocene Inferiore ( 2,588 Ma – 781.000) anni fa non cacciavano direttamente le prede ma si cibavano delle carogne lasciate dai carnivori.
Il livello TE9c della Sima del Elefante  evidenziò l’uso della caccia per procurarsi il cibo anche se l’uso delle carogne era sicuramente presente nelle comunità.
La mandibola rinvenuta nella Sima de Elefante non si riuscì a delineare la sua appartenza.
Non fu attribuita all’Homo antecessor, infatti presentava alcuni tratti in comune con i primi esponenti del genere Homo in Africa e con l’Homo georgicus di Dmanissi.
L’Homo georgicus sarebbe il nome attribuito ad una specie di Homo che fu rinvenuto a Dmansi in Georgia nel 1999 – 2001. Furono rinvenuti un cranio, una mandibola ed uno scheletro parziale.
I fossili furono datati a circa 1,8 milioni di anni fa (Ma) e la comunità scientifica li attribuì ad una nuova specie di ominide, intermedia tra l’Homo abilis e l’Homo erectus e forse imparentato con l’Homo ergaster.
Il cranio aveva una capacità di 600 – 680 cc  (circa la metà dell’ Homo sapiens) e  l’altezza dell’ominide di circa 1,54 m. Fu classificato come il più piccolo e primitivo fra gli ominidi trovati fuori dall’Africa.
Il dimorfismo sessuale nell’Homo georgicus era piuttosto accentuato rilevando tratti primitivi che erano meno accentuati nelle altre specie europee evolute come l’Homo antecessor, l’Homo heidelbergensis e Homo neanderthal, con i maschi molto più grandi delle femmine.
Lo scheletro postcraniale  evidenziò come l’ominide camminava eretto ma la morfologia delle braccia indicava come fossero capaci anche di arrampicarsi sugli alberi.
Vicino alle sue ossa furono rinvenute dei reperti in pietra che venivano adoperati dall’ominide per cacciare, uccidere gli animali e scuoiarli.
Fu avanzata anche l’ipotesi di come l’Homo georgicus fosse il primo ominide a stabilirsi in Europa circa 900.000 anni fa e cioé prima dell’Homo erectus (una ipotesi tutta ancora da dimostrare).



Nella Sima del Elefante furono rinvenuti anche numerosi reperti di fauna.


Cranio completo di un grande mustelide (cfr Pannonictis sp.)
proveniente dall'unità TE9 (Pleistocene inferiore).
(un Mustelide come la martora?)

Scaglie di selce del Cretaceo
dai livelli più bassi del sito di Sima del Elefante (Atapuerca)
durante la stagione di campo 2003.
Sulla base dei dati archeologici, paleontologici e geologici del sito si posero le basi sullo studio dei primi ominidi che abitarono l’Europa occidentale; sulle loro capacità di avere abilità attive di caccia o di spazzino; se le loro strategie di sussistenza ebbero successo; di come si presentavano l'ambiente e gli habitat in cui si stabilirono questi gruppi di ominidi.
Sulla base dei reperti si potrebbe concludere come i primi esseri umani si trovarono nella penisola iberica circa 1,2 milioni di anni fa. Utilizzarono le grotte della Sierra de Atapuerca come rifugi, forse solo nei periodi di caccia. Le cavità erano circondate da una foresta mediterranea, con fiumi, stagni ed offrivano quindi una discreta cacciagione.
Habitat vari come evidenziarono i reperti fossili di pesci, uccelli, rettili, mammiferi grandi e piccoli.

………………………………

A circa 300 m a Sud-Est dalla Sima dell’Elefante,  si trova l’ingresso della “Cueva Maior”, una grande sala  denominata “El Portalon”.  


Nella Cueva Mayor l’archeologo Jesus Carballo nel 1910 trovò un affresco, dipinto in rosso, che
raffigurava il profilo sinistro della testa di un cavallo. Definì questo affresco come appartenente al
periodo Paleolitico. Questo ritrovamento portò l’archeologo José Maria Apellàniz, nel 1973 – 1983,
ad effettuare una serie di scavi nel “Portalon”. Scavi fortunati perché riportarono alla luce un
importante sito dell’età del Bronzo.
La galleria fu nominata “Galeria del Silex” (Galleria di selce) (detta anche "Galleria Flint") e
presentava delle manifestazioni
grafiche eccezionali oltre all’insieme archeologico. Fu possibile, grazie a questi ritrovamenti,
ricostruire alcune pratiche di sepoltura e i comportamenti rituali di questa comunità dell’età del
Bronzo che viveva in questo territorio.






Foto di Ortega (2008)

Questo rinvenimento esula dalla ricerca del Paleolitico ma desidera integrare il grande aspetto
archeologico della Sierra de Atapuerca che merita di essere citato.
Alcune figure furono disegnate a carboncino, una rara forma di arte rupestre post-paleolitica.
Queste incisioni nella galleria del Silex furono anche datate  e i risultati furono eccezionali: 3.530+/-
110 anni a.C e 3.670 +/- 40 anni a.C.
Furono quindi considerate come una  delle prime manifestazioni  d’arte rupestre post-paleolitica
nell’Europa occidentale.
La galleria è costituita da un lungo corridoio sinuoso lungo ben 920 metri che appartiene al livello
superiore del complesso carsico Cueva Mayor-Cueva del Silo, che fu scoperto dagli speleologi nel
1972. L'ingresso attuale sostituisce quello originale che fu sigillato in un momento successivo all'età
del Bronzo.
Grazie a ciò, la documentazione archeologica e paleoantropologica delle ultime attività umane
svolte nella galleria, furono trovate in situ sulla superficie e mostrano, ancora oggi, un eccellente
stato di conservazione. La Galleria fu chiusa immediatamente dopo la scoperta dell'arte per
preservarla e per evitare la manipolazione dei materiali trovati sul pavimento, evitando così
qualsiasi alterazione o contaminazione in questa eccezionale camera carsica.
Le ricerche archeologiche svolte negli anni ’70 – ’80  portarono al rinvenimento dei seguenti reperti:
-        litici: 10 pietre martello, un minimo di 80 noduli di selce estratti da una cava di selce situata alla fine della galleria, 7 lame, 6 schegge, 3 punte fogliate - 2 delle quali con gambo centrale, 1 elemento di falce e 1 segmento circolare,
-        ossei lavorati: 6 oggetti, principalmente elementi appuntiti;
-        faunistici domestici: resti di 11 individui di Ovis aries e Capra hircus , 3 Sus scrofa , 1 Bos taurus , Sus domesticus e Canis familliaris ; e insieme di fauna selvatica: 5 Lepus capensis , 4 Oryctolagus conniculus e 1 Cervus elaphus , Sus scrofa , Ursus arctos , Vulpes vulpes e Felis silvestris;
-        resti scheletrici umani: almeno 25 individui (8 adulti, 5 giovani e 12 neonati);
-        9 circoli di pietre;
-        3 fosse di stoccaggio o silos;
-        una grande struttura costruita con frammenti di argilla e speleotemi per l'accumulo di acqua, associata a un'area di filtrazione e gocciolamento;

-        un grande insieme di ceramiche che mostravano forme e decorazioni che riflettevano un'occupazione interrotta della galleria che andava dal Neolitico alla tarda età del Bronzo.



Disegno antropomorfo a forma di croce.



Motivo a griglia dipinto di nero (G.E.E



Panel XXII-XXIV of the Galería del Sílex (G.E.E.).

In merito all’aspetto iconografico della galleria, costituito da pitture nere e rosse,  sono
presenti ben 53 pannelli diversi.
Le raffigurazioni sono costituite da forme lineari e geometriche di varia forma:
reticoli semplici ed altri con appendici laterali;
-        griglie;
-        segni semplici;
-        punti che formano delle file;
-        segni a forma di albero;
-        segni a forma di pettine e a forma di tetto;
-        segni a zig zag e ondulati.

Cosa rappresentavano questi disegni? Probabilmente delle forme astratte estetiche,
antropomorfe o anche rappresentazioni schematiche umane o di animali.
Un aspetto che destò molta curiosità negli archeologi fu la strana distribuzione dei reperti
litici e faunistici negli ambienti .
Infatti lo studio delle ceramiche rilevò anche una dispersione spaziale. I frammenti dei
singoli vasi furono trovati in diversi punti della grotta.
La rottura dei vasi e la loro dispersione era voluta dalla comunità.
La stessa distribuzione dei resti umani in piccoli gruppi sarebbe legata ad una deposizione
secondaria. La prova di tale deposizione sarebbe legata alla presenza di scheletri incompleti.
Uno dei crani mostrava delle raschiature legate alla sua manipolazione prima della
deposizione finale all’interno della galleria.
Queste pratiche sarebbero legate al mondo funerario (natura collettiva delle sepolture e
elementi rituali legati alle ceramiche e all’arte) e il luogo di culto era proprio la galleria,
forse un santuario.
La domanda sarebbe quindi:
la Galleria del Silex un luogo di culto (Santuario) o semplicemente una necropoli?




La mappa della Galleria del Silex
(detta anche Galleria Flint)
Evidenzia le posizioni della Prima Sala – Settori AD –
Sima – Sima B –
I punti neri, dei settori A e B, evidenziano i luoghi dove furono rinvenuti dei resti umani.
Da notare il grande spazio tra i resti umani nei settori A e B e
quelli rinvenuti nella Sima A e nella Sima B.
Disegno: Apellàniz e Domingo (1987).

La ricercatrice, dott.ssa Ana Isabel Ortega, del CENIEH di Burgos (Cento National De
Investigation Sobre La Evoluciòn Humana) sottolineò l’importanza della Galleria del Silex
(Flint) nel 40mo anniversario della sua scoperta.

La Dott.ssa Ana Isabel Ortega
Ricercatrice del Cenieh e membro del gruppo Speleologico Edelweiss

La Serra de Atapuerca era il centro di una regione e la Galleria Flint era la sua cattedrale

 Nel novembre 1972, i membri del Gruppo Speleologico Edelweiss fecero una scoperta
incredibile. A Est del Portal da Caverna Maior, nel livello superiore del Carso della Serra
de Atapuerca, noto da secoli come sito archeologico, è stato osservato che tra alcune crepe
scorreva una corrente, segno che poteva esserci una cavità sottostante. Dopo alcuni giorni,
il25 novembre, riuscirono a rimuovere le pietre che coprivano l’entrata, e trovarono “pieno
di oggetti, come frammenti di ceramica e resti umani, lungo una galleria che in linea retta
ha 900 metri di lunghezza, e che raggiunge i 1.200 metri di sviluppo contando il suo piano
inferiore. 
L’isolamento favorì la conservazione dei resti archeologici e umani in situ , in uno stato di
conservazione eccezionale. L’Amministrazione della Provincia di Burgos, con le relazioni
favorevoli di Basilio Osaba, direttore del Museo di Burgos, e Martín Almagro, commissario
generale degli Scavi Archeologici, effettuò la datazione immediata della cavità,
promuovendone la conservazione.
Le ricerche condotte dal professor José María Apellániz, dell’Università di Deusto, negli
anni ‘70 e ‘80, con la collaborazione dei membri dei Gruppi Speleologici Edelweiss, in
particolare José Luís Uribarri e Salvador Domingo, rilevarono che si trattava di un luogo
destinato a essere un santuario, con manifestazioni artistiche, funerarie e simboliche, dal
Neolitico all’Età del Bronzo. Furono  rinvenute anche incisioni e dipinti: 400 motivi
distribuiti in 53 pannelli con temi geometrici e raffigurazioni umane e animali. 
Tra i materiali archeologici spicca il corredo ceramico, con resti di 293 vasi e recipienti, di
ampia varietà tipologica, datati anch’essi dal Neolitico al Bronzo recente, relativi al mondo
funerario e ai suoi rituali. In questo senso, la ricercatrice affermò l’utilizzo di tutta la
Galleria, “dalla cavità più nascosta agli spazi più ampi”. 
Aggiunse come furono identificati i resti di 29 individui e l’effettuazione di una esplorazione
preistorica.
La Galleria fu esplorata, come se ci trovassimo in una cava, e furono trovati reperti di selce
dalla qualità eccezionale. In alcune zone fu necessario ampliare alcuni spazi per accedere ai
noduli di selce che si trovavano in luoghi più remoti.
 L’importante ricercatrice affermò come la galleria del Silex fosse una Cattedrale
presitorica.
 Abbiamo fatto un paragone che rappresentava una scoperta…… un dolmen è un
monumento sepolcrale utilizzato diacronicamente, cioè utilizzato nel tempo. La Galleria
Flint rappresenta la stessa cosa, ma non è un momento artificiale, non è stata costruita
dall’uomo, ed è l’uso di uno spazio dal carattere religioso o sepolcrale per un uso
diacronico,
dal Neolitico alla fine dell’età del bronzo.
Pertanto, la Serra de Atapuerca “rappresenta il centro di una regione, il centro nevralgico
di tutto il territorio e la Galleria Flint, la sua cattedrale”. “Allo stesso modo in cui abbiamo
ora la Cattedrale di Burgos, perché all’epoca in cui fu costruita la città era molto
importante e ha questo riflesso nelle sue manifestazioni artistiche, il santuario della Galeria
do Sílex rappresenta la cattedrale del momento…..
Attualmente la ricerca nella Galleria Flint si concentra sulla scoperta del clima durante i
due speleotemi, in particolare in queste fasi del Neolitico e dell’Età del Bronzo, i periodi in
cui la Galleria Flint è stata maggiormente utilizzata. D’altro canto, questi speleotemi sono
caratterizzati dal fatto che “la loro crescita non è sempre stata pari ai cambiamenti del
clima e dell’occupazione umana”. Le particelle di carbonio dei falò, con le quali sono stati
eseguiti rituali lungo la Galleria, sono state catturate nelle speleotemi. Studiandoli si può
capire il momento di maggiore occupazione della Galleria. Stiamo anche conducendo uno
studio sulla distribuzione spaziale per verificare se le attività umane siano maggiormente
concentrate in un’area della galleria o in un’altra.

Vaso a forma di idolo.
Galleria Silex nella Grotta principale.


Nella Grotta del Silex furono recuperati i resti di cinque individui nella Sima A e nella Sima
B.
In particolare, due resti furono individuati sul fondo della Sima A mentre gli altri tre resti
furono trovati vicino ad una sporgenza  all’inizio della Sima B.
Il recupero di ceramica, trovata nel settore D e datata al periodo Neolitico antico,  fecero
datare i resti umani allo stesso periodo.

Pianta (sopra) e profilo (sotto) del Settore D dove si trovano Sima A e Sima B
che mostrano la posizione dei resti umani recuperati.
1: Individuo 1 (I-1); 2: Individuo 2 (I-2); 3: Individuo 3 (I-3); 4: Individuo 4 (I-4);
 5: Individuo 5 (I-5).
Notare la posizione dei resti degli individui I-1, I-2 e I-3 in Sima B su un piccolo promontorio.

I resti umani nella Sima B furono recuperati nel 1983 e furono trovati vicino ad una
sporgenza nella parte superiore del pozzo. Secondo la tesi del prof. Galera la
posizione dei corpi fu deliberata.
I resti appartenevano a tre individui diversi:
-        una donna adulta (1);
-        un uomo adulto (2);
-        giovane individuo (3). 
(1)   I resti del corpo della donna era costituiti da frammenti cranici e numerose ossa della mano e del piede. I denti mascellari destri mostravano del tartaro e una certa perdita del supporto alveolare. Il calcagno presentava delle osteofiti alla base (dove sono inseriti i flessori delle dita e l’adduttore del pollice), mostrando l’esistenza di una infiammazione del tendine di Achille. Una lesione molto frequente nelle persone che percorrono grandi distanze su superfici molto irregolari. Presentava delle lesioni traumatiche nel femore destro e nella rotula sinistra che non erano guarite. Interessante il reperto del frammento iliaco che mostra come la cresta iliaca non fosse completamente fusa al resto dell’osso pelvico.

Frammento iliaco (CMS-1001.40) attribuito all'individuo 1.

Da notare la cresta iliaca completamente fusa.

(2)   L’individuo adulto presentava pochi frammenti ossei tra cui una parte della
mandibola destra, un piccolo frammento di un corpo mandibolare sinistro e diversi
frammenti di entrambi i rami mandibolari. I denti della mandibola presentano
molteplici cavità cervicali, calcoli dentali e significativo riassorbimento alveolare.
(3)   I resti umani costituiti da un morale sinistro, dall’estremità distale di una diafisi
omerale sinistra e l’epifisi distale di un omero destro, per le loro dimensioni
suggerirono l’appartenenza di questi resti ad un giovane.
I resti umani nella Sima A furono recuperati nel 1979.  Uno scheletro (4) in
connessione anatomica apparteneva ad un uomo adulto ed era privo di baino ed arti
inferiori mentre il secondo (5) non presentava una connessione anatomia e fu
rinvenuto vicino all’orlo del baratro. Forse appartenevano ad un maschio giovane.
 (4)  Presentava un cranio completo così come parte dello scheletro postcranico ad
eccezione del bacino e degli arti inferiori. Importante fu il rinvenimento di questo
corpo in connessione anatomica e rivolto verso il basso. I denti mostravano
abbandonati calcoli dentali e altre malformazioni.
(5) i  resti di questo individuo si trovavano accanto ad una delle pareti della fossa ed
a una certa distanza dallo scheletro (4). Il cranio era completo, numerose ossa dello
scheletro post cranico e  diverse ossa della mano e del piede. Le epifisi delle ossa
lunghe, metacarpi, metatarsi e falangi non erano ancora fuse con le corrispondenti
diafisi. I denti superiori e quelli inferiori mostravano del tartaro. Dall’esame dei resti
si concluse che doveva essere un giovane tra 12 – 15 anni.
La datazione al radiocarbonio, effettuata in laboratori diversi e i resti dell’individuo
(3) non furono esaminati a causa dei piccoli frammenti rinvenuti, evidenziò i seguenti
risultati:
- la donna (1),  l’individuo adulto (2) e l’individuo (5) risalivano al Neolitico antico;
- l’individuo (4) era invece più tardo di oltre tre millenni e risaliva all’inizio dell’età
del Bronzo.

Gli affreschi del Portalòn all’ingresso della Cueva mostravano  una continuità di
vita con quelli della galleria del Sifex.
Il Portalòn era un luogo abitativo e la galleria del Sifex  dimostrerebbe un altro grado
di organizzazione e gestione dello spazio carsico da parte della comunità nell’età del
Bronzo.  Uno spazio abitativo che era  presente anche sul pendio esterno della Cueva
Maior.

Ingresso attuale alla Cueva Mayor.

Nel 1976 un giovane ricercatore stava cercando per la sua tesi dei resti fossili di orso.
Fu informato dal Gruppo Speleologico Edelwis, del Consiglio provinciale di Burgos,
che in una piccola grotta ubicata ai piedi di un abisso, dislivello di circa 13 metri e a
circa 700 m dal Portalòn, c’era un sito chiamato “Sima de Los Huesos”. 
In questo sito erano presenti molti resti ossei di orsi.
Malgrado le difficoltà nel raggiungere il sito, il giovane avviò una campagna di scavi
naturalmente con l’aiuto di quattro esperti speleologi.
I risultati furono eccezionali.  I ricercatori trovarono centinaia di frammenti di orsi. 
Sima de los Huesos. Il cranio completo di un orso di Deninger.
Burgos – Museo dell’Evoluzione Umana


Ma le sorprese non finirono. I ricercatori trovarono una mascella umana completa.
Una scoperta eccezionale grazie anche al grande aiuto fornito dagli speleologici.

Sima de lo Huesos
Mandibola (AT-1)
La prima mandibola recuperata  nella Sima de lo Huesos.

L’importante reperto fu consegnato al prof. Emiliano Aguirre, profondo conoscitore
dell’evoluzione umana.
Naturalmente tutti si resero contro della grande importanza del rilevamento. Lo
studio della mandibola dimostrò come la morfologia del reperto fosse ancora più
primitiva di quella dell’Homo di Neanderthal.
La tesi fu chiara: l’orso di Deningeri si era estinto alla fine del Pleistocene medio e la
mandibola doveva essere datata nello stesso periodo. I rinvenimenti continuarono …

Furono trovati altri frammenti umani di varie parti anatomiche dell’Homo:
mandibole, crani, tibie, omero e molti denti. In totale ci si trovò dinnanzi a ben 20
reperti recuperati.
Questi risultati fecero da traino per una campagna di scavo sistematica per la ricerca
di altri reperti.
Naturalmente c’erano delle difficolta topografiche da superare legate ai luoghi da
indagare. Gli scavi dovevano essere eseguiti sul fondo di un profondo abisso alla fine
di una galleria, vicino all’ingresso e con stretti passaggi non facili da valicare.
Un altro aspetto preoccupante era legato  all’atmosfera del sito che era molto
rarefatta per l’elevato contenuto di anidride carbonica. Stranamente il sito mostrava
segni di frequentazione. Gente che, a rischio della propria vita, si era avventurata in
quel sito alla spregiudicata ricerca di denti di orsi per esporli come…. trofei.
Fu necessario rimuovere una grande quantità di detriti, sedimenti e blocchi di calcare.
Infatti i livelli superiori del sito erano stati più volte rimescolati e fu necessario
quindi asportarli prima di raggiungere i livelli originari, cioè quelli che non erano
stati manomessi.
I ricercatori si trovarono dinnanzi a grandi difficolta per l’esecuzione degli scavi e
quindi furono costretti a fermare le operazioni per ricevere adeguate risorse materiali
ed umane.  Una condizione essenziale per intraprendere gli scavi in modo
sistematico.
Solo nel 1983 furono effettuati dei saggi di scavo per verificare la presenza di reperti
fossili negli stati indisturbati.
I saggi diedero dei risultati positivi perché furono trovati una falange e tre denti
umani. Questi fortunati rinvenimenti, affermarono ancora una volta l’importanza
archeologica del sito.
Iniziarono quindi gli scavi sistematici.

Nel 1984 inizio l’affascinante viaggio di ricerca.. una ricerca ricca di difficoltà che
solo l’amore per la conoscenza  permise di superare.
Furono installate tutte le attrezzature necessarie compresa l’illuminazione elettrica.
Fu rimosso il materiale superficiale che ricopriva il suolo originario. Il materiale
veniva caricato su zaini e trasportato, non senza difficoltà, al Portalòn.  Dal Portalòn
il materiale veniva portato nel vicino fiume Arlanzòn dove veniva lavato e setacciato
per la ricerca di frammenti ossei umani. La campagna di scavo fu molto lunga…. ben
sette anni (dal 1984 al 1990)… furono estratti dal sito una enorme quantità di
sedimenti, circa 12 tonnellate, e blocchi calcarei.. ma furono rinvenuti 228 fossili
umani. Questi 228 fossili si dovrebbero sommare a quelli rinvenuti nel 1976, 161
fossili, per un totale di 389 fossili umani.
Un numero eccezionale di reperti…  forse il sito in Europa con il maggior numero di
reperti. Rinvenimenti costituiti da piccoli frammenti ma c’erano degli elementi
interessati costituiti da falangi e denti.
Denti recuperati dalla Sima de los Huesos

Il numero di denti permise di dare una prima parziale visione della comunità del
tempo che doveva essere costituita da almeno 20 individui.
Un discorso a parte meritava il rinvenimento delle falangi.
Le falangi dei piedi e delle mani erano dei reperti molto fragili e fu strano il loro
rinvenimento.
Nella Sima de lo Huesos furono recuperate ben 60 falangi e il loro recupero propose
delle ipotesi affascinanti.
Gli scheletri dovevano essere completi. I ricercatori si proposero quindi unadomanda:
come mai si erano conservate delle ossa così fragili mentre ossa più
resistenti, anche per la loro grossezza, erano andati perduti?
Colpa degli scavi clandestini?
Decisero quindi di indagare anche in quelle parti del sito i cui strati si presentavano
intatti, non manipolati.
Naturalmente queste informazioni provengono dalla letteratura esistente sugli scavi.
Negli scavi del 1984 una piccola area, posta in un angolo della Sima de lo Huesos,
era stata ripulita dai sedimenti sconvolti e fu denominata “Area A”.

Questo settore fu indagato in modo sistematico e un livello restituì quattro fossili  tra
cui un importante frammento di mandibola.
Questi rinvenimenti fecero nascere nei ricercatori la speranza che gran parte del sito
originale fosse ancora intatto.
Quest’area fu scavata nel 1985 e negli anni 1989 e 1990, con il rinvenimento di 100
fossili umani.
Nel 1990 gli archeologi erano convinti di come l’Area A fosse ormai priva di reperti
fossili e che nel resto della Sima de lo Huesos non si trovassero quindi più reperti.
Nella ricerca archeologica bisogna perseverare e non abbandonare mai gli obbiettivi
della ricerca.
Erano gli ultimi giorni della campagna di scavo, erano stati rimossi gli ultimi resti di
sedimenti  manomessi e si era bonificato il sito.
In questa operazione di bonifica furono trovate sei fossili umani ma non erano
“semplici” frammenti.
Erano sei fossili umani più completi di qualsiasi altro reperto recuperato fino a quel
momento. Reperti recuperati in un altro angolo della Sima de lo Huesos che fu
denominata Area B.
Cosa significava questa nuova scoperta?
Il giacimento di fossili umani era molto più ampio e non si limitata alla sola Area A.

Diagramma della pianta (disegno principale) e sezione (nell'inserto) del sito di Sima de los Huesos.
Le aree scavate sono mostrate in colori diversi.

Molti dei piccoli frammenti, circa un centinaio, appartenevano al cranio. I ricercatori 
cercarono di ricostruire i crani in modo da renderli, in parte, completi.
Un lavoro complicato e molto meticoloso per diversi motivi:
-        i frammenti molti piccoli e numerosi;
-        erano presenti i resti di almeno 20 crani.


Ana Gracia durante il processo di ricostruzione dei crani della Sima de los Huesos a partire da centinaia di piccoli frammenti.

Alla fine furono assemblati tre crani che furono denominati “cranio 1 – 2 – 3”.
Un pezzo ricostruito diede una visione  sorprendente. Si trattava di una parte dello
scheletro facciale, la regione dello zigomo sinistro, formato da circa 20 frammenti
che furono separati nel momento dello scavo.
Fu dato un nome all’uomo identificato attraverso la ricostruzione di questo reperto:
Lazzaro.

Parte delle ossa mascellari e mascellari sinistre etichettate AT-404
Questo frammento di zigomo fu ricostruito da più di 20 piccoli frammenti recuperati indipendentemente tra  centinaia di piccoli frammenti ossei recuperati nello scavo.
Fu soprannominato dai ricercatori Lazzaro.

L’età di questi reperti?
Furono trovati in sedimenti alterati e per questo motivo non fu possibile determinare
la stratigrafia originale del sito che avrebbe aiutato nella determinazione cronologica
dei reperti.
Fu eseguita una comparazione sulla morfologia dei reperti con quella di altri fossili
provenienti dai diversi siti della zona (la Gran Dolina o la Sima del Elefante).
Fu quindi stabilità un’età minima dei fossili di 250.000 anni fa e un’età massima
non superiore a 450.000 anni.
Nel 1991 nuova campagna di scavi con nuovi ricercatori.
Fu condotto un nuovo scavo, di un quarto di metro quadro, al centro della Sima de lo
Huesos.
Furono all’inizio trovati solo dei resti fossili di orso e alla fine una diafisi omerale.
Gli scavi continuarono e furono trovati 112 nuovi fossili umani di dimensioni e di
stato di conservazione migliori e superiori a quelli rinvenuti nei livelli disturbati.
Fu raggiunto il livello originale e fu scoperto un giacimento ricchissimo. 

Fig. 1. Colonna stratigrafica di sintesi rappresentante le 12 Unità Litostratigrafiche (LU) riconosciute nel sito. I fossili umani si trovano nell'Unità LU-6 (Argille Rosse) la cui datazione è stata stabilita a 430.000 anni utilizzando diverse tecniche: Serie dell'Uranio, Termoluminescenza, Paleomagnetismo, Risonanza di Spin Elettronico e biostratigrafia. Nella foto potete vedere alcuni frammenti dell'osso frontale e parietale appartenenti al cranio 17 durante il suo scavo nel 2009 (Foto di Javier Trueba/ Madrid Scientific



Negli scavi del 1992 apparve dal sedimento il un bordo del toto sopraorbitario di un osso
frontale. I ricercatori pensarono di trovarsi in presenza di un frammento dell’osso
frontale. Man mano che delicatamente scavavano, l’osso diventava sempre più
grande. Alla fine fu grande la meraviglia. Non si trattava di un frammento ma di
cranio umano quasi completo.

Ignacio Martínez scava il Cranio 4 nel 1992.
Questo cranio fu soprannominato Agamennone dai ricercatori

Cranio 4 di Sima de los Huesos

Al cranio fu dato il nome scientifico “Cranio 4” ma appellato Agamennone.
Una scoperta scientifica di grande importanza perché in Europa erano stati rinvenuti
solo tre crani:
-    La calvaria di  Swanscombe in Inghilterra;
-      il cranio di Petralona in Grecia;
-      il cranio di Steinheim in Germania. 
Lo scavo del cranio si presentava sempre più difficile per liberarlo dai sedimenti.
Nel procedere apparivano nuovi e completi fossili umani:
-        una mandibola;
-        grandi frammenti di ossa lunghe;
-        resti di coxale;
-        denti;
-        un secondo cranio disarticolato e fratturato, ma con frammenti ancora attaccati. 

Vista dell'Area B della Sima de los Huesos durante gli scavi nella stagione
di scavo del 1992.
Il cranio 4 (a) e il cranio 5 (b) circondati da decine di fossili umani.
I ricercatori provarono una grande felicità nei ritrovamenti.
Il nuovo cranio fu chiamato “Cranio 5” ed era più completo del “cranio 4”.
Fu soprannominato Miguelòn in onore del ciclista spagnolo Miguel Indurain (soprannominato
anche Miguelón ), vincitore di cinque Tour de France e due Giri d'Italia dal 1991 al 1995.
Furono recuperati anche la sua mascella e tutte le vertebre cervicali.
Si trattava forse del cranio meglio conservato al mondo.
Vista laterale del Cranio 5 con la sua mandibola e tutte le sue vertebre cervicali.
Fu soprannominato dai ricercatori come Miguelón .
Nello studio di questi crani si attenzionò la loro capacità cranica, in una popolazione del Pleistocene
Medio.
I reperti europei mostravano una piccola capacità cranica, circa 1100 cc mentre altri arrivano a 1300
cc. Una grande differenza legata ad un dimorfismo sessuale nella stessa popolazione oppure a un
valore filogenetico?
Il cranio di Miguelon aveva una capacità cranica di 1125 cc mentre quello di Agamennone di 1390
cc.
Secondo gli studiosi la diversa capacità cranica era legata al dimorfismo sessuale.
Un aspetto che dovrebbe fare riflettere fu legato alla superficie di scavo che consentì il rinvenimento
di questi eccezionali reperti, appena un metro quadro.
In un’area così piccola furono rinvenuti ben 200 fossili umani.
Un altro primato per questo sito archeologico della Spagna: la più grande accumulazione di fossili
umani mai scoperta dal Pleistocene medio europeo.
Tra i piccoli reperti c’erano i frammenti di un altro cranio che fu ricomposto in laboratorio.
Apparteneva ad un individuo di circa 12 anni di età al momento della sua morte.
Anche a questo cranio fu dato una denominazione scientifica, “Cranio 6” e un nome, Ruy (un
grande eroe di Burgos della Riconquista,  Rodrigo Díaz de Vivar, meglio noto come El Cid
Campeador come era popolarmente conosciuto da bambino).
Vista frontale del Cranio 6,  soprannominato Ruy.

Durante gli scavi del 1994 furono rinvenuti i frammenti di un osso sacro pelvico (Pelvis 1).  I
frammenti furono ricomposti in laboratorio e fu ricostituito un bacino umano quasi completo che fu
chiamato “Elvis”.

Pelvis 1 di Sima de los Huesos. Fu soprannominato dai ricercatori Elvis .
Un fossile importante per l’intervallo di tempo di circa tre milioni di anni, tra il bacino di Lucy e
quello di un Homo Neanderthal.
Il rinvenimento del bacino di Elvis ebbe effetti straordinari sulla comunità scientifica che cambiò la
propria opinione sull’evoluzione umana.
L’idea sull’evoluzione umana, accettata dalla comunità scientifica, era basata sulla ricostruzione del
bacino frammentario dello scheletro KNM-WT-15000.
Prima di procedere nella ricerca sarebbe importante identificare lo scheletro KNM-WT-15000.
Fu ritrovato presso il Lago di Turkana in Kenya.



Kamoya Kimeu fu uno dei più grandi ricercatori di fossili umani ed animali.
Nacque nel 1938 nella contea di Makueni, un’area rurale del Kenya meridionale.
Suo padre Kimeu Mbalu, la madre era Philomena Mwelu, era un pastore di capre.
Kamoya frequentò una scuola missionaria per sei anni e lasciò gli studi
quando fu abbastanza grande per essere in grado di pascolare le capre.
La sua lingua era il kikamba ma sapeva parlare anche in inglese e swahili.
Grazie alle sue conoscenze linguistiche, iniziò a lavorare in paleoantropologia come
operaio di Louis Leakey e Mary Douglas Leakey negli anni ’50.

Mary Douglas Leakey

Nel 1963 Kamoya si unì alle spedizioni archeologiche e paleoantropologhe guidate da Richard Leakey, figlio di Mary e Louis .
Dedicò la propria vita alla ricerca di fossili.
Quando fu contatto da Louis Leakey per unirsi alla sua spedizione come lavoratore
sul campo a Olduvai nel 1960, Kamoya Kimeu era timoroso
Louis gli spiegò il tipo di lavoro…
Scavare per trovare ossa… scavare tombe.
Kimeu in un’intervista ricordò quel momento..
Allora non sapevo delle ossa di ominidi, che esistessero cose del genere.
Pensavo che saremmo andati per scavare delle tombe di persone morte.
Nella sua tribù Kamba, toccare i morti, come in molte altre tribù, era considerata
una grave violazione. Forse all’inizio fu timoroso ma con il tempo diventò un
leggendario cacciatore di fossili.
Il rinvenimento più importante fu quello dello scheletro del “Giovane di Turkana”.
Nel 1984 Richard Leakey e Alan Walker stavano conducendo delle ricerche
nel lago Turkana. Kamoya stava camminando lungo un pendio di rocce nere
accanto al fiume Nariokotome in secca. Notò un pezzo di osso scuro.
Come l’abbia trovato non lo saprò mai…  disse Walker.
Kimeu telefonò via radio a Richard per informarlo della sua scoperta,
forse un Homo erectus. Richard giunse subito sul posto e confermò la classificazione
di Kimu…
il primo scheletro di Homo Erectus e quello più completo da tempi di Lucy.
Ricevette tante onorificenze e mori, per insufficienza renale, il 20 luglio 2022 a Nairobi.
Credeva che la sua età fosse di circa 84 anni….


Kamoya Kimeu (a destra), collaboratore di Richard Leakey (a sinistra) per due decenni,
mentre scoprano, in un altro rinvenimento, le ossa facciali di un fossile di Homo erectus sotto un albero spinoso sulla sponda occidentale del lago Turkana in Kenya.
Foto di David L. Brill 1985, National Geographic Society, dall'archivio della Leakey Foundation


Nome scientifico dello scheletro: KNM-WT-15000
Soprannome: Turkana Boy (Il Ragazzo di Turkana)
Luogo di Rinvenimento: Nariokotome, Lago di Turkana Occidentale.
Data del rinvenimento: 1984
Rinvenuto da Kamoya Kimeu
Data dello scheletro: 1,6 milioni di anni fa
Specie: Homo Erectus
La scoperta dello scheletro fu importante per la comunità scientifica perché fornì informazioni sulle
dimensioni del corpo, la forma ed anche i tassi di crescita dell’Homo Erectus. Lo scheletro  non era
completo dato che mancavano soprattutto mani e piedi. L’analisi del bacino permise di concludere
che era un maschio.
Presentava i suoi secondi molari mentre non erano ancora fuoriusciti i terzi cioè i denti del giudizio.
Questo aspetto indicò subito che non era un adulto.
I suoi denti furono analizzati e la loro struttura macroscopica permise di indentificare la sua età: 8 –
9 anni. Era alto circa 1,60 m e pesava 48 kg quando morì.
La sua capacità cranica era di 880 cc e nell’età adulta avrebbe raggiunto una capacità  massima di
circa 909 cc (l’uomo moderno ha una capacità cranica di circa 1350 cc).
Gli esami permisero di stabilire come le sue vertebre erano malate. La malattia aveva determinato
una leggera curvatura e probabilmente  aveva dei movimenti lenti. Una malattia (scoliosi) che 
potrebbe avere influito sulla sua morte.
Fu anche avanzata l’ipotesi di una setticemia causata dall’infezione di un dente morale o anche a
causa di un incidente.
Malgrado la disabilità che ostacolava i suoi movimenti, il suo corpo mostrava delle lunghe gambe e
delle spalle strette. Un aspetto tipico degli individui che vivono in ambienti caldi e secchi, quindi
con una copertura pelifera del corpo anche se ridotta.
Fu avanzata anche l’ipotesi di un aspetto simile all’uomo attuale, anche se il suo cervello era
equiparabile a quello di un bambino di circa un anno.
Il suo aspetto presentava una leggera curvatura in avanti, l’arco sopraciliare pronunciato e l’assenza
di mento. Aspetti che lo distinguevano dall’uomo moderno.
Nello studio del cranio destò molta attenzione una concavità per un sufficiente sviluppo dell’Area di
Broca.

L'area di Broca è la regione di corteccia cerebrale nota per avere un ruolo chiave nella produzione e comprensione del linguaggio. 

L’osservazione dei fori delle vertebre toraciche, molti piccole rispetto a quelle dell’uomo moderno,
dimostrerebbero  l’assenza d’innervazione delle strutture e  quindi l’incapacità di esprimere un
linguaggio simile a quello dell’uomo moderno.
Probabilmente era in grado di articolare solo dei suoni.
In merito alla tassonomia e alla filogenia, fu prima classificato come Hono Erectus ma
successivamente questa classificazione fu mutata in Homo Ergaster.
Sulla base della ricostruzione del bacino frammentario dello scheletro KNM-WT-15000, alcuni
autori proposero come  l'Homo erectus / ergaster avesse lo stesso modello di corpo con tronco
stretto dell'H . sapiens. Questa era un'idea che sembrava molto accurata, data la latitudine
tropicale in cui l'H. erectus / ergaster ebbe origine e visse. Quindi, il biotipo dal corpo snello,
adattato a perdere calore facilmente, sarebbe il modello primitivo all'interno del genere Homo,
mentre i corpi larghi e gli arti più corti dei Neanderthal sarebbero apparsi più tardi nell'evoluzione
umana, come adattamento per trattenere il calore nei freddi ambienti europei. Fino alla scoperta
di Elvis , non c'erano dati sufficienti di un'altra specie umana con cui testare queste idee. Le
dimensioni di Elvis erano molto più grandi di quelle dei maschi dell'H. sapiens, specialmente nella
loro larghezza trasversale (da un lato all'altro della vita). Questi dati implicavano che il corpo
dell'individuo a cui apparteneva Elvis fosse considerevolmente più largo di quello dei maschi umani
odierni. Pertanto, la popolazione della Sima de los Huesos condivideva con i Neanderthal la
presenza di un corpo più largo di quello dell'umanità odierna. Pertanto, i risultati degli studi
condotti sui fossili della Sima de los Huesos mostrarono che gli antenati dei Neanderthal avevano
già un corpo largo. Questa nuova visione implicava che, contrariamente a quanto si pensava, il
morfotipo primitivo nel genere Homo era il corpo largo, che era presente in H. erectus/ergaster,
nella popolazione della Sima de los Huesos e in H. neanderthalensis. Il corpo stretto di H.
sapiens sarebbe una peculiarità sviluppata esclusivamente dalla nostra specie.

Fino al 1997 furono recuperati nella Sima de los Huesos un gran numero di reperti scheletrici
soprattutto di arti. L’inventario era ricco di denti, mascelle e crani ma relativamente povero nel resto
delle ossa dello scheletro. Dopo ben 13 campagne di scavo furono recuperati oltre 1000 reperti
fossili  postcranici corrispondenti a tutte le regioni dello scheletro, dalle ossa più fragili come le
falangi a quelle più resistenti come gli omeri e i femori.
L’inventario dimostrava  come tutte le ossa dello scheletro erano rappresentate in modo
proporzionale. Cosa significava questo aspetto?
La risposta  fu quella che gli  scheletri che si accumularono nella Sima erano integri, completi e non
trasportati da un altro luogo.
Tutte le regioni dello scheletro umano sono rappresentate nella collezione di fossili umani
di Sima de los Huesos.
A sinistra, le ossa dello stesso piede.
A destra, uno scheletro composto da fossili di individui diversi delle stesse dimensioni e
dello stesso stadio di sviluppo.
Lo studio dei reperti fossili umani permise di visualizzare l’altezza e le proporzioni corporee degli
individui.
L’altezza era simile a quella degli uomini moderni ma il tronco era molto più ampio e quindi
avevano un peso corporeo maggiore.
 Fu studiata anche la differente fisonomia corporea tra uomini e donne. Erano misure differenti ma
simili a quelle dell’uomo moderno.
L’uomo della Sima de los Huesos era alto circa 1,70 m con un peso di circa 90kg mentre la donna
era alta circa 1,60m con un peso corporeo di circa 75 kg.
 Durante gli scavi del 1999 fu rinvenuto il cranio di un orso della specie Ursu Deningeri.
 ( I ricercatori lo nominarono Isidro, il nome dell’orso che appare nello stemma della città di
Madrid).
Un dato stupefacente fu che durante le campagne di scavo furono rinvenuti i resti di più di 200
esemplari della specie. Come mai tanti resti? I ricercatori cercarono di dare delle risposte:
-        Cadute accidentali nel corso di secoli. La Sima de los Huesos era quindi una trappola mortale per questi animali? Gli animali svernavano nell’adiacente Sala de los Ciclopes;
-        I fossili degli orsi erano presenti sia vicino ai resti umani, mescolati tra loro, sia nello strato superiore dove non erano presenti fossili umani;
-        Alcune ossa umane presentavano segni dei morsi degli orsi. Ossa umane che erano presenti nello strato al momento della loro caduta.
Vista laterale di un cranio di Ursus deningeri dalla Sima de los Huesos.
Fu soprannominato dai ricercatori come Isidro .

Nuria García scava un cranio di Ursus deningeri nella Sima de los Huesos.

Nel 1998 fu rinvenuto l’unico pezzo di industria litica che fu trovato nel sito.
Era un bifacciale scolpito in quarzite rossa. Assumeva il colore del cuore quando veniva bagnato in
acqua. Da dove proveniva il reperto?
Era un tipo di roccia non presente nella Sierra de Atuaperca e non erano noti utensili scolpiti  con
questo minerale. Nei siti vicini alla Trincea della Ferrovia furono trovati centinaia di reperti litici
contemporanei alla datazione della Sima de los Huesos (Livello 10 della Grand Dolina). Gli studi
non permisero di stabilire se il reperto fu utilizzato dato che la sua superficie si mostrava alterata
cancellando ogni traccia di un suo possibile utilizzo.
Probabilmente il bifacciale era  forse legato ad un’offerta cultuale. Questo aspetto sarebbe
sorprendente perché sarebbe  un atto simbolico di devozione, forse il più antico conosciuto. I
ricercatori chiamarono il reperto “Excalibur”  ovvero come la magica spada di Re Artù.

AsAscia a mano scoperta nel 1998 nello stesso livello dei fossili umani della Sima de los Huesos.

L'ascia a mano di Sima de los Huesos. È stata soprannominata dai ricercatori Excalibur .
Il XX secolo si concluse con un grande riconoscimento per la Spagna, per gli studiosi, i ricercatori,
gli archeologi spagnoli.
La Sierra de Atapuerca fu inserita, il 30 novembre 2000, tra i siti dell’UNESCO
Patrimonio dell’Umanità in considerazione del “suo eccezionale valore universale”.
Le grotte della Sierra de Atapuerca contengono una ricca documentazione fossile dei primi esseri
umani in Europa, da quasi un milione di anni fa fino all'era volgare. Rappresentano una riserva
eccezionale di dati, il cui studio scientifico fornisce informazioni inestimabili sull'aspetto e lo stile
di vita di questi remoti antenati umani.
Un grande riconoscimento per la Spagna sempre attenta nelle sue risorse storiche ed ambientali.
Questo riconoscimento non fece fermare le indagini archeologiche nel sito ma diede nuovi impulsi
per continuare la decennale ricerca. C’erano ancora tanti fossili da recuperare, da indagare e nuove
importanti e stupefacenti scoperte si profilavano all’orizzonte.
Gli scavi archeologici spesso pongono gli archeologi davanti a ritrovamenti che suscitano
sensazioni di pietà, di tristezza. L’archeologo nelle sue scoperte riesce a rivivere in sé gli attimi
di vita di coloro che sono scomparsi nel silenzio da tanto e tanto tempo.
L’archeologo cerca il limite oltre il quale non c’è più nulla. Va indietro, indietro perché non
può fare a  meno di sapere della sua origine.
Spesso si abbandona alla fantasia che è una componente del mistero, ma cerca con
l’intelligenza e con i sentimenti una narrazione. Va alla ricerca delle origini dove il mistero è
un soffio d’aria che colpisce, accarezza ma può fare anche male.
Negli scavi dei primi anni del XX secolo si verificò un rinvenimento di grande importanza che
mise in risalto la conoscenza dell’evoluzione di uno degli aspetti più importanti nella vita di
ogni individuo: la solidarietà con le persone vulnerabili.
Negli scavi del 2001 fu rinvenuto un cranio completo. Era dal 1994 che non si verificava un simile
rinvenimento. Era il “Cranio 14” e il suo recupero fu molto difficile.
Presentava le ossa fratturate ma tenute ancora insieme dal sedimento. Era molto fragile, un
movimento brusco l’avrebbe potuto rovinare. Si trovava addossato ad una parte e questo rendeva il
suo recupero ancora più difficile.
Ignacio Martínez mentre scava il Cranio 14 nella Sima de los Huesos nel 2001.
I ricercatori alla fine riuscirono a recuperarlo e fu subito inviato in laboratorio dove fu pulito e
ricostruito perché fratturato in una decina di piccoli frammenti.
Frammenti cranici del Cranio 14.
Una volta ricomposto fu studiato. Era di una ragazza preadolescente ed aveva un qualcosa di strano
nella sua forma.
Aveva la fronte dritta anziché sfuggente. La fronte dritta era una caratteristica dell’uomo moderno e
non degli antichi individui della Sima de los Huesos.
Cranio 14 di Sima de los Huesos. È stato soprannominato dai ricercatori Benjamina .
Nessuno dei crani recuperati negli scavi aveva la fronte dritta.
Il cranio venne studiato con più attenzione e si notò che aveva:
-        La volta cranica  gravemente deformata;
-        La base cranica gravemente deformata;
-        Il cranio non rispettava la simmetria bilaterale tipica di tutti i vertebrati.
Il cranio avrebbe rilevò una triste realtà che commosse gli archeologi.
La sfortunata ragazza aveva subito un trauma causato da un colpo o da una sua cattiva postura
mente era nel grembo materno.
Il quadro patologico della ragazza diventò chiaro.
A causa del colpo o della cattiva postura, una delle sue suture craniche, la sutura lambdoidea
sinistra, si era fusa prima ancora che nascesse. Il cervello continuò a crescere, ma il cranio non
riuscì a crescere in modo armonioso e si deformò. La deformazione del cranio influenzò
gravemente anche il viso della bambina e molto probabilmente causò alla bambina ritardi nelle
capacità psicomotorie. Ma nonostante il diverso aspetto che le avrebbe conferito il suo viso
deforme e le sue limitazioni fisiche e psicologiche, la bambina non solo non fu respinta dal
gruppo, ma ricevette anche le cure e l'affetto necessari per sopravvivere fino all'età di 10 o 12
anni, come altri bambini i cui resti compaiono nella Sima de los Huesos.
Questa straordinaria storia, che costituisce la più antica prova certa di cure per bambini con
disabilità, spinse i ricercatori a soprannominarla Benjamina , che, in ebraico ( Binyāmîn),
significa “Lei della destra”, in riferimento alla figlia prediletta, la più amata. Questo nome è un
omaggio all’amore dei genitori per i loro figli disabili.
Dal 2001 gli scavi continuarono per altri 10 anni sempre arricchiti dal rinvenimento di altri
frammenti cranici.

Frammenti cranici in situ nella Sima de los Huesos.

Questi rinvenimenti permisero la ricostruzione di ben 20 crani di individui.
Tra questi quattro erano completi:
-        Cranio 9, di un adolescente precoce;
-        Cranio 15, di un individuo anziano;
-        Cranio 16, di un adolescente tardivo;
-        Cranio 17, di un giovane adulto.

Crani scoperti nella Sima de los Huesos fino al 2012.
Fila superiore, da sinistra a destra:
Cranio 11, Cranio 15, Cranio 4, Cranio 14, Cranio 6, Cranio 9, Cranio 17 e Cranio 5.
Fila inferiore, da sinistra a destra:
Cranio 1, Cranio 8, Cranio 2, Cranio 7, Cranio 10, Cranio 12, Cranio 13 e Cranio 3.
I risultati delle ricerche permisero di datare il sito tra  430.000 e 300.000 anni fa (attraverso l’uso di
tecniche radiometriche).
Come mai i corpi di 29 individui si trovarono in quel luogo?
La risposta non fu facile. Secondo alcuni ricercatori sarebbero state le acque o il fango a trascinarli
in quel sito mentre per altri furono i leoni di cui si trovarono i fossili.
Le ipotesi non convinsero gli studiosi perché si proposero altre motivazioni e cioè:
-        L’accumulo di cadaveri potrebbe aver avuto un'origine fortuita dovuta a una serie di incidenti
che hanno coinvolto individui che vagavano nella grotta;
-         Furono altri esseri umani a trasportare deliberatamente i corpi in quel luogo.
La seconda ipotesi fu studiata dai ricercatori ed era molto affasciante perché la Sima de los Huesos
sarebbe stato nella storia il primo luogo di accumulo intenzionale di cadaveri.
Si continuò a scavate e venne rinvenuto il Cranio 17.
Cranio 17 di Sima de los Huesos in cui sono visibili le due lesioni penetranti nell'osso frontale.

Il cranio presentava un doppio trauma penetrante al lato sinistro del suo frontale.
Gli archeologi rimasero sorpresi perché i perimetri di entrambe le lesioni avevano la 
stessa forma e lunghezza, il che implicava che erano state prodotte dall'impatto dello stesso
oggetto e con una forza simile. Questa doppia lesione traumatica non avrebbe potuto
verificarsi una volta che il corpo era nel sito, né durante la caduta del corpo nel baratro poiché
non era possibile colpire accidentalmente la testa due volte con lo stesso oggetto e con la stessa
forza. Quindi, le lesioni si sarebbero verificate prima che il corpo cadesse nel baratro e, poiché
si trattava di due lesioni mortali, era inevitabile concludere che l'individuo era morto prima
che il suo corpo cadesse nel baratro. Questa interpretazione escludeva la possibilità di
incidenti casuali come origine dell'accumulo e confermava l'ipotesi dell'accumulo intenzionale
di cadaveri.
L’eccellente stato di conservazione dei fossili e anche le favorevoli condizioni fisiche e chimiche del
luogo, spinsero i ricercatori a cercare se nei fossili fossero presenti tracce di DNA.
Fu effettuato un test sui fossili di orso che erano presenti nello stesso livello dei fossili umani.
Questo aspetto era importante perché garantiva la stessa età e le stesse condizioni di conservazione.
Si riuscì a recuperare e a sequenziare dei frammenti rappresentativi di DNA mitocondriale di alcuni
esemplari di Orso Deningeri.
Il successo spinse i ricercatori ad effettuare dei test sui resti umani e nel 2014 fu possibile
sequenziare il DNA mitocondriale.
Il confronto con gli altri fossili di Neanderthal e i Densova, di cui erano conosciuti i genomi, diede
dei risultati eccezionali e sorprendenti.
Dal punto di vita anatomico i Neanderthal e i fossili di Sima de los Huesos, mostravano una grande
affinità filogenetica soprattutto nella morfologia della mandibola e della dentatura.
Una grande somiglianza rispetto a quella esistente tra i Neanderthal e i Denisova.
L’aspetto del DNA mitocondriale dei fossili di Sima de los Huesos, mostrava invece una grande
somiglianza con i Denisova piuttosto che con i Neanderthal.
Come mai questa difformità fra dati anatomici e dati genetici?
Erano quindi necessari altri accertamenti e si decise di ottenere delle sequenze di DNA nucleare. Un
analisi tecnicamente più difficile rispetto alla ricerca del DNA mitocondriale..
Nel 2015 furono effettuate nuove analisi con DNA nucleare, ottenute da sequenze di DNA nucleare
da due fossili di Sima de los Huesos appartenenti a due individui diversi.
I risultati furono capovolti. I risultati con il DNA nucleare coincidevano con  gli studi anatomici e
cioè gli individui di Sima de los Huesos avevano una maggiore affinità genetica con i Neanderthal
rispetto ai Desinoviani.

Un altro aspetto che i ricercatori affrontarono era capire l’origine e l’evoluzione del
linguaggio.
Lo studio del linguaggio fu affrontato dalla paleoantropologia studiando l’anatomia del basicranio e
dell’osso ioide per cercare di ricostruire le capacità fonetiche delle specie umane primitive
attraverso i loro resti fossili.
La comunità scientifica non era favorevole nel concedere a queste strutture anatomiche l’importanza
per produrre suoni negli uomini del passato.
C’era un altro aspetto importante da affrontare nello studio.
La base del cranio era una parte anatomica molto fragile. La maggior parte dei crani rinvenuti ne
erano privi e solo un osso ioide di un Neanderthal era noto dalla comunità scientifica.
Mancava l’unicità di studio, cioè studiare la base del cranio e l’osso ioide nello stesso individuo.
La Sima de los Huesos venne in aiuto nell’affrontare il dibattito scientifico.
Il cranio 5, quello denominato Miguelòn, presentava la base del cranio perfettamente conservata e
due ossa ioidee molto complete.
Ancora una volta la Sima de los Huesos aveva un primato mondiale: l’unici reperto al mondo in cui
la base del cranio e le ossa ioidee erano integre e appartenenti allo stesso individuo.
Malgrado gli studi approfonditi, i ricercatori non riuscirono a raggiungere dei risultati finali sulle
capacità fonetiche delle specie umane fossili basandosi sullo studio di queste regioni anatomiche.
Decisero quindi di cambiare procedimento cercando di capire le capacità fonetiche degli individui
primitivi studiando l’udito.
Gli uomini differiscono dai primati nell’anatomia della laringe. Una diversità che ci consente di
comunicare, di parlare ma lo facciamo anche nell’anatomia e nella fisiologia dell’orecchio.
L’udito dell’uomo è adattato ai suoni del linguaggio per la sua grande sensibilità.
Le orecchie degli scimpanzè sono invece sintonizzate su altri suoni. Suoni che usano per
comunicare nella foresta tra di loro.
Quindi nel modello uditivo di una specie fossile, si potrebbero trovare degli aspetti importanti per
capire l’efficienza e la complessità dei suoi sistemi di comunicazione orale e determinare se fosse
più simile a quello degli scimpanzè o a quello dell’uomo moderno.
Ma come affrontare lo studio di un modello uditivo di un individuo vissuto 450.000 anni fa?
I ricercatori avevano trovato tra i fossili almeno 30 ossa dell’orecchio medio ed anche le ossa
temporali, circa dodici, di diversi individui.
Attualmente, ci sono modelli biofisici che simulano con assoluta fedeltà il processo di filtraggio
acustico che avviene nel nostro orecchio esterno e medio. Questo filtraggio acustico è responsabile
delle differenze uditive tra gli scimpanzé e gli esseri umani moderni. Quindi, conoscendo il modello
di filtraggio acustico delle persone di Sima de los Huesos, possiamo determinare se il loro udito era
più simile a quello degli scimpanzé o a quello della nostra specie e, quindi, determinare l'efficienza
e la complessità del loro sistema. Per applicare il modello biofisico che ricostruisce il filtraggio
acustico, è necessario avere valori di più di una dozzina di variabili anatomiche, sia degli ossicini
dell'orecchio che delle cavità dell'orecchio esterno e medio.
Per procedere, le ossa temporali di nove esemplari della Sima de los Huesos furono scansionate
tomograficamente e furono costruiti modelli tridimensionali misurabili al computer, da centinaia di
immagini tomografiche ad alta risoluzione. Una volta ottenute le misurazioni e introdotte nel
modello, i risultati indicarono che le capacità uditive e, quindi, comunicative degli umani della Sima
de los Huesos erano più simili a quelle della nostra specie che a quelle degli scimpanzé. Questo
risultato indicava come quegli umani erano in grado di utilizzare la maggior parte dei suoni vocalici
e consonantici che gli umani attuali utilizzano per la loro comunicazione orale.
Per la Spagna un grande primato: quattro decenni di scavi sistematici alla Sima de los Huesos e la
più grande collezione di reperti fossili umani del pianeta.
Che dire? La Spagna è la nazione di un altro pianeta, sempre attenta all’ambiente ed alla sua
valorizzazione.
I ricercatori, con grande amore e passione, fornirono notizie sull’evoluzione umana. Ma la cosa più
eclatante, a dimostrazione del grande interesse che la Spagna riserva al suo patrimonio storico, 
sarebbe il ritorno dei ricercatori sul luogo dato  che più del 50% di fossili si trovavano ancora nel
sito e dovevano essere recuperati.
 
Requisiti di protezione e gestione
La zona archeologica di Atapuerca è stata registrata come Bien de Interés Cultural (Bene di
interesse culturale) nel 1991, la massima protezione legale a livello nazionale. Questa area è posta
sotto la responsabilità della Junta de Castilla y León, tramite la Direzione generale del patrimonio
culturale. I comuni di Atapuerca e Ibeas de Juarros hanno una funzione di supervisione delle
proprietà private situate in questa area.
La Sierra di Atapuerca è stata registrata anche come “Area Culturale” ( Espacio Cultural ) nel
2010. Questa protezione si basa sulla Legge del Patrimonio Culturale di Castilla y León e si
applica a quei beni che sono stati già dichiarati Bien de Interés Cultural e che, per i loro speciali
valori naturali e culturali, richiedono un'attenzione preferenziale nella loro gestione e promozione.
Nel 2002, la Junta de Castilla y León ha approvato le Linee guida per l'uso e la gestione della
proprietà che includevano misure specifiche per la salvaguardia, la conservazione, la ricerca e la
promozione dei siti. Sebbene esista un programma permanente di ricerca archeo-paleontologica dal
1978, qualsiasi intervento o progetto sulla proprietà, inclusa l'indagine archeologica, richiede la
previa autorizzazione amministrativa della Commissione per il patrimonio culturale di Castilla y
León, secondo le attuali Leggi sul patrimonio culturale.
Per la gestione adeguata dell'Espacio Cultural , è stato elaborato un Piano con la partecipazione
delle comunità locali, del team di ricerca archeo-paleontologica e la valutazione di esperti. Il Piano
di Gestione è una tabella di marcia che stabilisce tutti i principi e le caratteristiche che le
amministrazioni pubbliche, a livello nazionale, regionale e locale, devono tenere in considerazione
per adattare le proprie politiche alla conservazione del Valore Universale Eccezionale del bene, che
deve prevalere su altre considerazioni.
In linea con la protezione come “Area Culturale”, nel 2009 la Junta de Castilla y León ha anche
istituito il “Sistema Atapuerca, Cultura dell'Evoluzione” e il Museo dell'Evoluzione Umana, come
sistema integrato di gestione e cooperazione tra i centri relativi ai siti archeologici. Il Museo è
l'istituzione chiave del sistema in cui vengono conservati e studiati i materiali e i risultati della
ricerca archeologica. È anche pensato per essere la piattaforma per controllare le visite al sito. Per
organizzare queste visite, il governo regionale ha costruito due centri di accoglienza per i visitatori
nei comuni di Ibeas de Juarros e Atapuerca.

Alla luce di quanto esposto si potrebbe affermare come il Neanderthal sia nato in Europa.
In realtà sarebbe il risultato di una lunghissima evoluzione cominciata milioni di anni fa in Africa e
in ambienti molto caldi. Proprio in Africa sarebbe quindi nato il genere umano ed uno dei più antichi
reperti ha un’età di circa 4 milioni e mezzo di anni. Fu rinvenuto in Etiopia e nominato
Ardipithecus ramidus

Cranio di Ardipithecus ramidus 
Immagine: Fran Dorey


Luogo di rinvenimento: Aramis (Asa Koma), valle del medio Ausac, Afar in Etiopia.



Data di rinvenimento – Archeologi: 1992 – 1993: Tim White, Berhane Asfaw e Gen Suwa
Lo scheletro apparteneva ad una donna che fu soprannominata “Ardi”. Il suo peso fu stimato in 50
kg ed era alta circa 120 cm.
Età del reperto: 4,4 – 4,2 milioni di anni fa.
Etimologia: Nella lingua locale Afar "Ardi" significa "terra" o "pavimento" e "pithecus" è il greco
latinizzato per "scimmia". Il nome "ramid" significa "radice"  sempre nella lingua Afar.
Nella lingua Afar  il termine “Ardi” suggeriva come la donna vivesse a terra e quindi non
arboricolo.
Uno scheletro parziale trovato nel 1994, composto da circa 125 pezzi, descritto e pubblicato nel
2009. Era lo scheletro più antico conosciuto di un antenato umano. 
Tutto iniziò nel novembre 1994 quando furono dissotterrati due pezzi di osso del palmo di una
mano di un ominide nella polverosa regione del Medio Awash in Etiopia.  Gli scavi continuarono e
nel giro di poche settimane, furono trovati più di 100 frammenti ossei. Un’attività di ricerca e
ricostruzione che durò ben 15 anni e che sarebbe culminata solo nel 2009 con la rivelazione di uno
scheletro, datato  4,4 milioni di anni fa, considerato un probabile antenato umano e noto
come Ardipithecus ramidus (abbreviato Ar. ramidus ).
Gli studi furono pubblicati in un numero speciale di “Science” (2 ottobre /2009 – 11 articoli di 47
autori di 10 paesi). I ricercatori rilevarono come Ardi, uno scheletro costituito da 125 pezzi e
classificato come Ara-VP-6/500 era
1,2 milioni di anni più vecchio della celebre Lucy
( Australopithecus afarensis ) e di gran lunga il più antico mai trovato.
Tim White dell'Università della California, Berkeley, uno dei leader del team di ricerca Middle
Awash affermò: 
Per comprendere la biologia, le parti che vuoi davvero sono il cranio e i denti, il bacino, gli arti, le
mani e i piedi. E li abbiamo tutti.
Le ossa di Ardi erano sane.
Parte della comunità scientifica non accettò questa visione.
I miseri resti di Ardi erano stati calpestati e spinti nel fango da ippopotami ed altri animali erbivori.
Le ossa erano malridotte ma si conservarono e l’erosione del fiume le riportò alla luce. Erano in
condizioni di grande fragilità e gli archeologi, consapevoli del grave rischio di perdere quei preziosi
reperti, capirono come quelle ossa non potevano essere recuperate in situ.
Decisero di rimuovere interi blocchi di pietra e terra contenenti i reperti con attorno i sedimenti
pietrosi.
Furono portati in un laboratorio (Muso Nazionale dell’Etiopia) di Adis Abeba e, con un ago guidato
sotto un microscopio, le ossa vennero liberate, dopo un meticoloso lavoro di diversi anni, dalla
matrice pietrosa. Alla fine del lavoro risultarono 125 parti di uno scheletro, incluse ossa dei piedi e
quasi per completo le mani.
Le ossa furono quindi analizzate e ricostruite utilizzando la tomografia microcomputerizzata o le
scansioni TC.
La completezza dei resti di Ardi, così come gli oltre 150.000 fossili di piante e animali raccolti dai
sedimenti circostanti dello stesso periodo, offrirono ai ricercatori una quantità di informazioni senza
precedenti su uno dei nostri primi potenziali antenati. Lo scheletro consentì agli scienziati di
confrontare direttamente l’Ardipithecus con il genere di Lucy, Australopithecus , il suo probabile
discendente.
Forse uno degli aspetti più importanti sarebbe legato al fatto che lo scheletro di Ardi fornì degli
indizi su come potrebbe essere stato l'ultimo antenato comune condiviso da umani e scimpanzé
prima che le loro linee divergessero circa 7 milioni di anni fa.
Ardi sarebbe quindi la discendente più antica e meglio documentata di quell'antenato comune.
Tim White…
Ma nonostante sia così vicina alla divisione… la cosa sorprendente è che assomiglia poco agli
scimpanzé, i nostri parenti primati viventi più prossimi.
Le ossa dell'elusivo antenato comune non sono state ancora trovate, ma gli scienziati, lavorando
sulle prove disponibili, in particolare sulle analisi dell'Australopiteco e delle scimmie antropomorfe
africane moderne,  immaginano come il trisnonno assomigliasse molto a una scimmia che
camminava sulle nocche e si dondolava sugli alberi.
White..
Ardi non è simile a uno scimpanzé…  il che significa che probabilmente non lo era neanche l'ultimo
antenato comune.
L’antropologo della Kent State University Claude Owen Lovejoy (membro del team Middle (medio)
Awash)
Questo scheletro capovolge la nostra comprensione dell'evoluzione umana
È chiaro che gli umani non sono semplicemente una leggera modifica degli scimpanzé, nonostante
la loro somiglianza genomica.
In base all'anatomia di Ardi, sembra che gli scimpanzé possano essersi evoluti più degli umani, nel
senso scientifico di essere cambiati di più negli ultimi 7 milioni di anni circa. Ciò non significa che
Ardi fosse più simile a un umano che a uno scimpanzé. White la descrive come un "interessante
mosaico" con alcune caratteristiche unicamente umane: il bipedismo, per esempio. Ardi era alta 47
pollici (120 cm) e pesava circa 110 libbre (50 kg), il che la rendeva circa il doppio di Lucy. La
struttura della parte superiore del bacino, delle ossa delle gambe e dei piedi di Ardi indica che
camminava eretta sul terreno, pur mantenendo la capacità di arrampicarsi. Il suo piede aveva un
alluce opponibile per afferrare i rami degli alberi, ma non aveva la flessibilità che le scimmie usano
per afferrare e scalare tronchi e viticci ("I piedi dei gorilla e degli scimpanzé sono quasi come
mani", dice Lovejoy), né aveva l'arco che permetteva all'Australopithecus e all'Homo di camminare
senza barcollare da un lato all'altro. Ardi aveva una mano abile, più manovrabile di quella di uno
scimpanzé, che la rendeva più abile nell'afferrare le cose da terra e nel trasportare oggetti mentre
camminava su due gambe. Le ossa del polso, della mano e delle spalle mostrano che non
camminava sulle nocche e non passava molto tempo appesa o dondolandosi come una scimmia
sugli alberi. Piuttosto, si muoveva lungo i rami usando un metodo primitivo di camminare sulle
palme tipico delle scimmie estinte.
Il paleoantropologo della Penn State Alan Walker…..
Ardi è una bella creatura darwiniana ……….Ha caratteristiche intermedie tra l'ultimo antenato
comune e gli australopitechi.
Gli scienziati studiarono non solo i fossili di Ardi, ma anche altri 110 resti che furono rinvenuti nelle
ricerche e che appartenevano ad almeno 35 individui di Ar. ramidus. Combinando quelle ossa con le
migliaia di fossili di piante e animali del sito, riuscirono ad avere una chiara visione dell'habitat in
cui Ardi vagava circa 200.000 generazioni fa. Era un bosco erboso con macchie di foresta più fitta e
sorgenti di acqua dolce. Le scimmie colobo cinguettavano tra gli alberi, mentre babbuini, elefanti,
antilopi dalle corna a spirale e iene vagavano sul terreno. Toporagni, lepri, istrici e piccoli carnivori
si muovevano furtivamente nel sottobosco. C'era un assortimento di pipistrelli e almeno 29 specie di
uccelli, tra cui pavoni, colombe, inseparabili, rondoni e gufi. Sepolti nei sedimenti etiopi c'erano
semi di bagolaro, legno di palma fossilizzato e tracce di polline di alberi di fico, dei cui frutti senza
dubbio si nutriva l'onnivoro Ar. ramidus .
Questo tableau demolì un aspetto di quella che era stata la saggezza evolutiva convenzionale. I
paleoantropologi un tempo pensavano che ciò che aveva spinto i nostri antenati a camminare su due
gambe fosse stato un cambiamento climatico che aveva trasformato la foresta africana in savana. In
un simile ambiente, secondo il ragionamento, i primati eretti avrebbero avuto un vantaggio rispetto
a chi camminava sulle nocche perché riuscivano a vedere oltre l'erba alta per trovare cibo ed evitare
i predatori. Il fatto che la specie di Lucy a volte vivesse in un ambiente più boscoso iniziò a minare
questa teoria. Il fatto che Ardi camminasse eretta in un ambiente simile, molte centinaia di migliaia
di anni prima, rese chiaro che ci doveva essere un'altra ragione.
Nessuno sapeva quale fosse questa ragione, ma una teoria sul comportamento sociale di Ardi
potrebbe fornire un indizio. Lovejoy pensava che l’Ar. ramidus avesse un sistema sociale che non si
riscontrava in nessun altro primate, fatta eccezione per gli umani. Tra i gorilla e gli scimpanzé, i
maschi combattono ferocemente tra loro per ottenere l'attenzione delle femmine. Ma tra gli
Ardipithecus , afferma Lovejoy, i maschi potrebbero aver abbandonato tale competizione, optando
invece per un legame di coppia con le femmine e restare insieme per allevare la prole (anche se non
necessariamente in modo monogamo o per tutta la vita). La prova di questa esistenza armoniosa
deriva, guarda caso, dai denti dell'Ardipithecus : i suoi canini sono relativamente tozzi rispetto alle
zanne superiori affilate e simili a pugnali che gli scimpanzé e i gorilla maschi usano per combattere.
"Il canino maschile", afferma Lovejoy, "non è più sporgente o affilato. Non è più un'arma".
Ciò suggerisce che le femmine si accoppiassero preferibilmente con maschi con zanne più piccole.
Affinché le femmine avessero così tanto potere, sostiene Lovejoy, Ar. ramidus deve aver sviluppato
un sistema sociale in cui i maschi erano cooperativi. I maschi probabilmente aiutavano le femmine e
la loro prole, cercando e condividendo il cibo, ad esempio, un cambiamento nel comportamento che
potrebbe aiutare a spiegare perché è emersa la bipedalità. Dopotutto, trasportare il cibo è difficile
nei boschi, se non riesci a liberare gli arti anteriori camminando eretto.
Ci sono degli aspetti anatomici che lasciano riflettere.
Una prima osservazione sarebbe legata all’alluce di Ardi che è grande ed è in diagonale rispetto
all’asse del piede con la particolarità che presenta un piccolo osso con un tendine, con l’effetto che
l’alluce è più rigido che nelle scimmie. Tale osso non lo si trova negli scimpanzé nei gorilla e negli
australopiteci. Un altro aspetto sarebbe legato alle articolazioni dei polsi e delle dita di Ardi che
sono notevolmente flessibili, mentre ciò non è per gli scimpanzé e i gorilla.
I canini superiori e inferiori sono più pronunciati rispetto a quelli degli Australopiteci, ma meno
pronunciati rispetti agli scimpanzé e ai gorilla.
L’alluce serviva per afferrare i rami degli alberi e conferiva un equilibrio quando Ardi usava il
bipedismo a terra. La flessibilità dei polsi e delle dita dava la possibilità di procedere con i palmi,
come un quadrumane, ma non sulle nocche. Il bacino di Ardi nella sua parte superiore indica che
poteva avere un andamento bipede, mentre la parte inferiore del bacino aveva la struttura di una
scimmia con l’inserzione di forti muscoli posteriori idonei agli spostamenti sugli alberi.
Ardi





Lo scheletro di Lucy


Lucy
Gli scienziati, anche  sul comportamento sociale dell’ Ardipithecus, furono molto perplessi e
affermarono che sarebbero stati necessari altri rinvenimenti e discussioni.  
Il problema principale sarebbe legato al fatto che alcune parti dello scheletro di Ardi furono 
rinvenute in “mille pezzi” e avrebbero richiesto un’ampia ricostituzione digitale.
I ricercatori di Ardi basarono le loro tesi non su un singolo osso del piede o su un dente ma su un
gran numero di reperti che costituivano lo scheletro della giovane.
In merito il dott. White affermò come
Quando abbiamo iniziato il nostro lavoro [nel Middle Awash] il registro fossile umano risaliva a
circa 3,7 milioni di anni fa….. Ora gli scienziati hanno una miniera di informazioni da un'epoca
circa 700.000 anni più vicina all'alba della discendenza umana. Questo non è solo uno scheletro….
Siamo stati in grado di mettere insieme una fantastica istantanea ad alta risoluzione di un periodo
che era vuoto".
Naturalmente la ricerca continuò e non mancarono le pubblicazioni per esprimere delle critiche alle
teorie esposte dai ricercatori dell’Ardipithecus ramidus.
L’Ardipithecus ramidus (Ardi) venne trovato nello stesso sito, la depressione di Afar, in cui fu
recuperata la famosa Lucy (Australopithecus afarensis) datata a 3,2 milioni di anni fa.
Il dott. Tim White, come esposto, vide una linea evolutiva che partiva da Ardi e continuava con
Lucy fino all’uomo moderno.
Disegno di Ardi (J.H. Matternes)
Alcuni scienziati sollevarono dei dubbi su questa teoria secondo la quale Ardi fosse un’antenata
dell’uomo. I loro dubbi furono espressi anche nei confronti dell’habitat di Ardi e cioè  se viveva nei
boschi, come affermarono i ricercatori, oppure nella prateria.
L’importanza dell’ambiente era connesso alle  implicazioni per le teorie riguardo al tipo di ambiente
che favorì la prima evoluzione umana.
Sempre sulla rivista “Science” venne pubblicata una ricerca del dott. Esteban Sarmiento,
dell’Human Evolution Foundation in East Brunswick (New Jersey),  che prese in esame le
caratteristiche anatomiche e molecolari, concludendo come Ardi non faccia parte della linea
evolutiva che portò agli esseri umani.
Alcuni suoi resti scheletrici, come il polso e la mascella, suggeriscono piuttosto che sia antecedente alla separazione degli uomini dalle scimmie antropomorfe africane.
Il dott. Sarmiento sostenne come le caratteristiche
dell’Ardipithecus ramidus non siano esclusive degli ominidi, e considerando pure
che rispetto a loro è di molto antecedente, allora l’Ardipiteco non è un ominide,
non c’entra con la nostra linea evolutiva.
Ardi quindi è un antenato degli scimpanzé, non dell’uomo
 Il dott. White non accettò questa tesi e affermò come
Le prove dicono chiaramente che l’Ardipithecus possedeva caratteristiche proprie solo dei più tardi
ominidi… e dagli esseri umani”.
In caso contrario, se cioè fosse un antenato degli scimpanzé, certe caratteristiche quali denti,
bacino e cranio si sarebbero dovuti evolvere “all’indietro”, ritornando a tratti più primitivi simili a
quelli delle scimmie antropomorfe. “Un’inversione evolutiva molto improbabile”.
Altri due scienziati riferirono come fosse ancora troppo presto per poter affermare quale sia stata la
linea evolutiva di Ardi.
Will Harcourt-Smith, ricercatore all’American Museum of Natural History e membro del
dipartimento di antropologia al Lehman College di New York
Fino a quando non c’è una descrizione più completa dello scheletro, bisogna essere cauti
nell’interpretare le analisi iniziali in un modo o in un altro.
Il dott. Harcourt-Smith fu però contrario alla tesi del dott.  Sarmieno secondo la quale
Ardi è probabilmente troppo vecchio per appartenere alla linea evolutiva dell’uomo.
Il dott. Rick Potts, capo del programma sulle origini umane al Natural History Museum della
Smithsonian Institution (Washington, Stati Uniti), fece notare come
Ardi è conosciuto principalmente per solo un sito. E che visse in un periodo di evoluzioni
vagamente conosciuto nel quale ci potrebbero essere stati “un sacco di esperimenti”. “Penso che
sia semplicemente troppo presto per dire esattamente dove stia in relazione al punto di diramazione
degli esseri umani dalle altre scimmie antropomorfe africane.
 La seconda critica riguardava l’ambiente in cui visse Ardi.
I ricercatori che riportarono alla luce la giovane Ardi citarono il suo ambiente come ricco di boschi e
questo contraddiceva la teoria che vedeva i primi antenati umani iniziare a camminare i  posizione
eretta perché abitavano pianure erbose e savane.
Il geochimico Thure Cerling dell’Università dell’Utah  ed altri scienziati affermarono  come 4,5
milioni di anni fa l’ambiente, in cui visse Ardi, era una savana con al massimo il 25% dell’area
coperta da boschi.
Il dott. White replicò riconoscendo come
l’ambiente includesse praterie,
ma sostenendo che
Ardi preferì vivere nelle zone boschive.
Per esempio, lo scheletro mostra adattamenti per l’arrampicamento – e “[non si arrampicava
certo] sull’erba”, . E gli animali trovati insieme ai suoi resti sono principalmente creature dei
boschi, come alcune scimmie mangia-foglie.
Il dott. Potts condivise le teoria del dott. White riguardo all’ambiente ma  chiarì, ancora un volta che
Si trattava solo di un sito.
Non è abbastanza per trarre delle valide conclusioni sull’evoluzione umana.
Nel mondo scientifico si fece sempre più vivo il dibattito sulle origini dell’uomo e, in particolare,
come l’Ardipithecus ramidus fosse coinvolto nell’evoluzione umana.
Il cranio di Ardi si collega con l’evoluzione umana
Certo Ardi era una figura insolita. Possedeva un piccolo cervello e un alluce adatto a salire sugli
alberi, aveva dei denti canini simili a quelli dell’uomo e la parte superiore del bacino adatta a
camminare su terra come un bipede.
La comunità scientifica si pose due domande:
-        Ardi, vissuta 4,4 milioni di anni fa era una scimmia antropomorfa con alcune caratteristiche umane rimaste da un antenato comune? Un antenato comune che sarebbe l’anello mancante nella evoluzione e vissuto tra i 6 e i 8 milioni di anni fa o forse 13 milioni di anni fa;
-        Ardi faceva parte della linea evolutiva umana che conserva ancora molti segni degli antenati che salivano sugli alberi?
Furono necessari ben 15 anni per recuperare le fragili ossa di Ardi.
Il paleoantropologo William Kimbel, specializzato nell'evoluzione degli ominidi del Pleistocene in
Africa, confermò la tesi del dott. White.
Il dott. Kimbel era a capo di un team che aveva ritrovato i primi teschi conosciuti di di
Australopithecus nel sito di Hadar, casa di “Lucy”.
Lo studio della base del cranio di Ardi rivela similitudini con gli uomini moderni.

Il dott. Kimbel..
Data la dimensione molto piccola del cranio di Ardi, la similitudine della sua base craniale con
quella umana è sorprendente.
Questa parte del cranio è importante per la storia evolutiva data la sua complessità anatomica e
l’associazione con cervello, postura e masticazione. Negli esseri umani, le strutture che collegano
la colonna vertebrale al cranio sono più avanzate rispetto alle scimmie antropomorfe, dove la base
è più corta e le aperture su ogni lato per il passaggio dei vasi sanguigni e dei nervi sono più
ampiamente separate. Queste differenze di forma modificano il modo in cui le ossa si dispongono
sulla base del cranio, dunque è piuttosto semplice distinguere anche dei frammenti ossei.
Un lavoro precedente di Kimbel aveva dimostrato che queste peculiarità erano presenti anche nei
crani di Australopithecus 3.4 milioni di anni fa. La nuova ricerca collega queste caratteristiche anche
agli uomini moderni, ipotizzando una linea evolutiva Ardipithecus – Australopithecus – Homo.
La ricerca del prof. Kimbel venne pubblicata nella rivista scientifica “PNAS” nel 2014 con il titolo
Ardipithecus ramidus e l'evoluzione della base cranica umana
L'ominoide africano del Pliocene inferiore Ardipithecus ramidus è stato diagnosticato come avente
una relazione filogenetica unica con il clade Australopithecus + Homo basata su denti canini non
affilati, una base cranica accorciata e caratteri postcranici correlati alla bipedalità facoltativa.
Tuttavia, i tratti pelvici e pedali che indicano una sostanziale arborealità hanno sollevato
argomentazioni secondo cui questo taxon potrebbe invece essere un esempio di evoluzione parallela
di tratti simili a quelli umani tra le scimmie antropomorfe all'epoca della scissione scimpanzé
umano. Qui abbiamo studiato la morfologia basicraniale di Ar. ramidus per ulteriori indizi sulla
sua posizione filogenetica con riferimento alle scimmie antropomorfe africane, agli umani
e all'Australopithecus . Oltre a un foro occipitale relativamente anteriore, gli umani differiscono
dalle scimmie antropomorfe nello spostamento laterale dei forami carotidei, nell'abbreviazione
mediolaterale del timpanico laterale e in un elemento basioccipitale trapezoidale accorciato. Questi
tratti riflettono un relativo allargamento del basicranio centrale, una condizione derivata associata
a cambiamenti nella forma timpanica e all'estensione del suo contatto con la rocca petrosa. 
Ar. ramidus condivide con Australopithecus ciascuna di queste modifiche simili a quelle umane.
Abbiamo utilizzato la morfologia preservata di ARA-VP 1/500 per stimare la lunghezza del
basicranio mancante, basandoci su relazioni proporzionali coerenti in scimmie antropomorfe e
umani. È stato confermato che Ar. ramidus ha un basicranio relativamente corto, come
in Australopithecus e Homo. La riorganizzazione della base cranica centrale è tra i primi marcatori
morfologici del clade Ardipithecus + Australopithecus + Homo .
La larghezza relativa del bicarotide, che esprime l'estensione mediolaterale del basicranio centrale,
separa, senza sovrapposizione di campioni, la base stretta delle grandi scimmie dalla base ampia
degli esseri umani moderni. Nei campioni di grandi scimmie la larghezza del bicarotide costituisce
(in media) il 35-39% della larghezza del basicranio esterno, mentre nel nostro campione di esseri
umani moderni la larghezza del bicarotide costituisce circa il 49% della larghezza del basicranio
esterno. Il nostro campione di nove crani di Australopithecus , con un valore medio del 43,6%, è
intermedio, sovrapponendo le estremità sia delle distribuzioni di scimmie che di esseri umani ( i
test t di Student sono significativi per tutti i confronti tra scimmie e umani, Australopithecus e umani
e Australopithecus e scimmie). All'interno del campione di Australopithecus , le specie
"robuste" Australopithecus boisei e Australopithecus robustus tendono ad avere le distanze
bicarotidee maggiori, come precedentemente riscontrato da Dean e Wood.
 La larghezza della base cranica esterna di ARA-VP 1/500 (110 mm) si avvicina al valore medio per
il nostro campione di femmine di scimpanzé, tuttavia il suo valore di larghezza bicarotide relativa
(45,7%) rientra nella parte superiore dell'intervallo di Australopithecus e appena all'interno
dell'intervallo del nostro campione umano moderno.
Pertanto,con Australopithecus , Ar . ramidus mostra un allargamento relativo del centro della base
cranica, una condizione altrimenti documentata solo negli umani moderni tra gli ominoidei
esistenti.
Ardipithecus ramidus e l'evoluzione della base cranica umana | PNAS
Vista basale del cranio di Ar. ramidus ARA-VP 1/500. La linea tratteggiata indica la linea mediana. cf, foramecarotideo; ba , basion , il punto della linea mediana sul margine anteriore del forame magno. A grandezzanaturale, la distanza tra i centri dei forami carotidei è di 50,3 cm.

Anatomia della relazione timpanico/petroso Pan , Homo e Australopithecus : ( A ) scimpanzé, ( B ) uomo moderno,( C ) Australopithecus africanus (Sts 5), ( D ) Australopithcus robustus (DNH 7).

An

Anatomia del rapporto timpanico/petroso: esemplare di Ardipithecus ramidus ARA-VP 1/500, immagine invertita per facilitare il confronto con la figura precedente. Si noti che la punta del processo di Eustachio è scurita dall'abrasione dell'osso superficiale.
Nel 2005 gli scienziati dell’Università dell’Indiana di Bloomingon e di altre sette istituzioni
riportarono alla lice dei fossili scheletrici di un antenato umano vissuto circa 4,5 milioni di anni fa.
La scoperta, aiuterà gli scienziati nello studiare l’evoluzione dei primitivi ominidi simili a
scimpanzè in forma più umane.

La mascella inferiore dell’ominide.
I fossili furono rinvenuti nell’area di Gona (As Duma) nell’Etiopia settentrionale, uno dei due siti in
cui furono rinvenuti resti fossili di Ardipithecus ramidus .
Il paleontologo dell’IUB Sileshi Semawe, direttore del Gona Palaeoanthropological Research Project
e ricercatore scientifico dello Stone Age Institute, e  i suoi collaboratori, graie alle ricerche
delinearono in modo di vivere di questi antenati…
vivevano in spazi ristretti con una schiera di antilopi, rinoceronti, scimmie, giraffe e ippopotami in
un'Etiopia settentrionale che era molto più umida di oggi. Le ricostruzioni ambientali suggeriscono
un mosaico di habitat, dai boschi alle praterie. La ricerca continua a Gona per determinare quali
habitat preferisse A. ramidus .
Abbiamo ora più di 30 fossili di almeno nove individui datati tra 4,3 e 4,5 milioni di anni fa",
i reperti rinvenuti:
parti di una mascella superiore e due inferiori, con denti ancora intatti, diversi denti sciolti, parte di
un osso dell'alluce e ossa delle dita intatte. Gli scienziati ritengono che i fossili appartengano a
nove individui della specie A. ramidus .
Per la datazione furono adoperati isotopi di argon di materiali vulcanici trovati nelle vicinanze dei
fossili per stimarne l'età.
Negli 11 anni trascorsi dalla denominazione di A. ramidus da parte dell'antropologo Tim White
dell'Università della California a Berkeley e dei suoi colleghi, furono trovati solo una manciata di
fossili della specie, e solo in due siti: Middle Awash e Gona, entrambi in Etiopia. Altri fossili di età
leggermente più antica erano noti in Kenya e Ciad.
Gli antropologi impegnati nella ricerca in Etiopia affermarono come
L’Ardipithecus sia il primo genere di ominidi, ovvero antenati umani vissuti subito dopo una
scissione con la linea che aveva prodotto gli scimpanzé moderni.
Nonostante i milioni di anni che ci separano, gli esseri umani moderni hanno alcune cose in
comune con A. ramidus . I fossili di Gona e di altri luoghi suggeriscono che l'antico ominide
camminava su due piedi e aveva canini superiori a forma di diamante, non quelli a forma di "v" che
gli scimpanzé usano per masticare. Esteriormente, tuttavia, A. ramidus sembrerebbe molto più
simile a uno scimpanzé che a un essere umano.
Gona si è rivelato un sito di scavi produttivo. In un articolo di copertina di Nature (23 gennaio1997),
Semaw e colleghi segnalarono i più antichi utensili in pietra conosciuti usati dagli esseri umani
ancestrali. I manufatti di Gona hanno dimostrarono come già 2,5 milioni di anni fa gli ominidi erano
straordinariamente abili nella fabbricazione di utensili.
L’Ardipithecus ramidus era dunque un bipede che tornava regolarmente sugli alberi e l’evoluzione
da allora proseguì dando origine agli australopitechi. Un genere di grande successo del quale faceva
parte la celebre “Lucy” vissuta circa 3,5 milioni di anni fa.
Erano ancora individui scimmieschi con il volto primitivo e coperti di pelo.

A questo punto ci troviamo di fronte a  chiari cespugli di evoluzione con numerose forme di ominidi
a volte molti diversi.
Alcuni di questi ominidi, circa due milioni e mezzo di anni fa, svilupparono un cervello più grosso e
cominciarono a realizzare i primi strumenti di pietra. Diventarono dei cacciatori ed anche
raccoglitori.
Era nato il genere Homo ed uno di questi, l’Homo erectus, uscì dall’Africa per diffondersi nel
mondo arrivando per la prima volta anche in Europa.







Uno dei primi insediamenti in Italia fu quello di  Cà Belvedere (Forlì – Cesena) di Monte
Poggiolo.
I primi ad arrivare in Europa fu probabilmente l’Homo erectus e le forme che nascono in Africa
sono già decisamente molto simili a noi. Il primo insediamento italiano probabilmente è quello di
Cà Belvedere (Forlì – Cesena) di Monte Poggiolo.
L’età  sarebbe di oltre un milione di anni ed è uno dei più antichi in assoluto per quello che riguarda
l’Europa.
Giunti in Europa, erano degli uomini a tutti gli effetti ed erano in grado di
rapportarsi con l’ambiente.
Erano in grado di cacciare, di raccogliere erbe e
di tramandare di generazione in generazione le loro conoscenze.
Alla base del Monte Poggiolo, in località Cà Belvedere, furono trovati nel 1983 migliaia di reperti
litici. Reperti risalenti ad oltre 800.000 anni fa e considerati di grande importanza per la conoscenza
del Paleolitico e della presenza dell’Homo erectus in Italia.
Nel sito sembra che non siano stati trovati fossili umani.  Resta  l’importanza del sito come luogo
dove gli ominidi realizzarono i loro manufatti, lasciando le schegge e, in qualche caso, anche lo
stesso manufatto forse perché non ben realizzato per il suo uso.
Molti reperti presentavano tracce del loro uso per scuoiare, tagliare carne, ecc. Un tempo questo
luogo era una spiaggia dell’Adriatico preistorico.
Reperti litici di Monte Poggiolo
Schegge, n. 1 – 7;
Bulini: n. 9 – 10;
Grattatoi, n. 8, 11 -13.
Un reperto molto importante fu  rinvenuto vicino Roma durante la costruzione di una strada.
Un reperto che confermerebbe la presenza dell’uomo in Europa intorno al milione d’anni fa.
Il cranio di un uomo importante per capire l’evoluzione umana.
Fu chiamato l’”Uomo di Saccopastore” (Saccopastore 1) e si trattava di un cranio che fu rinvenuto
nel 1929 nella cava di ghiaia di Sacco Pastore a Roma che allora era di proprietà del duca Mario
Graziali. Nella stessa località nel 1935, i paleontologi Alberto Carlo Blanc e Henry Breuil
rinvennero un altro cranio alla profondità di circa tre metri.

Il reperto fu consegnato all’antropologo Giuseppe Sergi che lo classificò come un Homo
Neanderthal.
Solo nel 1941, dopo 12 anni di studio, il cranio fu attribuito ad una donna di circa quarant’anni.
Il cranio mancava della mandibola e di entrambi gli archi zigomatici.
I danni al reperto furono causati, al momento del rinvenimento, da parte degli operai della cava. La
regione sopraorbitale era gravemente danneggiata, alcune corone dentarie  rotte (e perse), due fori
erano stati prodotti nella porzione frontoparietale della volta. La cavità endocranica era ancora
parzialmente riempita con matrice di pietra e la capacità cranica fu stimata in 1.174 cc.
Le caratteristiche primitive: assenza di fronte, arcate sopraorbitarie molto prominenti, dimensioni
della calotta cranica ridotte, il naso molto sviluppato,  furono ritenute dal prof. Sergi come
pertinenti  ad un pre-neandertaliano.
La donna, in base agli strati geologici del sito ed ai reperti fossili della fauna che le erano vicini, era
vissuta in un periodo interglaciale caratterizzato da un clima caldo umido. Questo clima favorì la
presenza nella campagna laziale di elefanti, rinoceronti, ippopotami. In merito alla flora erano
presenti boschi di querceto misto e una specie di olmo che oggi è presente in Asia e nell’isola di
Creta.  Un paesaggio molto diverso da quello attuale. Erano presenti all’orizzonte gli edifici
vulcanici laziali che in quel periodo erano in attività oltre ad una serie di bacini lacustri di varie
dimensioni.
L’età del cranio della donna?
Il cranio fu trovato in un sedimento alluvionale riferito all’ultimo periodo interglaciale e fu quindi
cronologicamente datato tra 130.000 – 100.000 anni fa.
Nella stessa località nel luglio 1935, gli antropologi tra cui l’abate Henri Breuil, professore
dell’Istituto di Paleontologia Umana di Parigi, ed Alberto Carlo Blanc, un giovane antropologo
italiano, videro affiorare dalle pareti della cava un altro reperto. Il reperto era molto incompleto ma
le caratteristiche permisero di classificarlo  come il primo. Venne chiamato “Saccopastore 2”  ed
apparteneva ad un uomo di circa 25-30 anni, con la stessa datazione cronologica di
“Saccopastore1”.
Il cranio "Saccopastore 2"
Il cranio era privo dell’intera volta, di parte della base e delle aree fronto orbitarie sinistre. La
capacità cranica fu stimata tra 1280 e 1300 ml. La morfologia dei due crani era praticamente
identica mostrando aspetti descritti nei Neanderthal europei.
Negli strati fossili furono rinvenuti strumenti su scheggia appuntiti, ritoccati da ambo i lati, che
venivano usati come una specie di ascia a mano per uccidere animali. Altre punte era più piccole e
costituivano i raschiatoi, adoperati per tagliare la carne e per pulire e lavorare le pelli.
Il Professor Sergio Sergi (il primo da sinistra) assieme ad altri studiosi dell’epoca nella cava di ghiaia di Saccopastore, accanto all’affioramento dove egli rinvenne nel 1929 il primo di due crani, indicato in figura come Saccopastore I 
(da Geositi del Territorio di Roma)

Punta Musteriana (in alto)
Nucleo discoidale (al centro)
Raschiatoio doppio (in basso a sinistra).
Scheggia Levallois (in basso a destra)

La grotta Guattari si apre a circa un centinaio di metri dalla costa tirrenica, sul fianco orientale del
promontorio del Circeo, a San Felice Circeo.
Il 24 febbraio 1939 alcuni operai  furono incaricati di estrarre delle pietre calcaree alla base della
collina del Morrone. Durante i lavori di scasso fu individuato l’ingresso della grotta che era nascosto
da un’antica frana.
In fondo alla grotta, in un antro che fu nominato “Antro dell’Uomo”, in corrispondenza di  un
cerchio di pietre, il proprietario della grotta rinvenne un cranio.
Il cranio  fu nominato “Guattari 1”. Era in buone condizioni  e attribuito all’Homo neanderthal.
Sulla superficie furono rinvenute anche due mandibole che vennero denominate “Guattari 2” e
“Guattari 3”.
Il cranio si presentava completo tranne per la perdita di alcune porzioni ossee pertinenti all’area
orbitale destra e a parte del margine del forame occipitale cioè il punto in cui il cranio s’inserisce
con la colonna vertebrale.
Furono subito condotti degli scavi sotto la direzione del prof. Alberto Carlo Blanc e Luigi Cardini.


Nel 2019 nel corso di ricerche da parte della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per
le province di Frosinone e Latina in collaborazione con l’Università degli studi di Roma Tor
Vergata, furono rinvenute le ossa di 9 individui sempre neandertaliani. Nella grotta Guattari furono
così rinvenuti 11 individui. Degli ultimi ritrovamenti, otto individui risalivano ad un periodo
compreso tra i 50.000 e i 68.000 anni fa, mentre il più antico risaliva ad un periodo compreso tra
100.000 e 90.000 anni fa.
Oltre a questi fossili umani furono rinvenuti anche numerosi fossili animali di elefanti, rinoceronti e
cervi.
Il cranio fu attentamente studiato dal prof. Blanc. Nel suo studio si accorse della presenza nel
reperto di alcune ferite è in particolare di un allargamento del forame occipitale.
Giunse alla conclusione come questa operazione di allargamento fu causata dai suoi compagni per
estrarre il cervello e mangiarlo probabilmente per scopi rituali. Secondo la sua versione la conferma
di queste ipotesi era avvallata dal rinvenimento del cranio dentro una corona di pietre.
La sua tesi fu a lungo discussa dalla comunità scientifica anche se era comprovato come  all’epoca
si praticasse il cannibalismo come fu evidenziato in alcuni reperti fossili umani della Sierra de
Atuapuerca.
Nel 1989, durante un convegno, gli studiosi sottolinearono come i segni presenti sul cranio  non
fossero legati all’intervento dei compagni per allargare il cranio ed estrarre il cervello ma fossero i
segni dei denti della iena probabilmente la iena delle caverne.



La grotta Guattari, circa 50.000 anni fa, fu quindi la tana di una o più iene delle caverne. Sul sito
furono rinvenuti numerose ossa fossili residui dei suoi pasti.
Gli studiosi portarono sul tema gli studi degli zoologi in Africa sul comportamento delle iene che
erano solito portare nelle loro tane le ossa e le carni delle carogne degli animali.
Questi animali solo soliti mordere la carne alle ossa senza spezzarle, cosa che avrebbero fatto i
compagni del defunto se avessero voluto mangiare il contenuto del cranio.
L’ipotesi del cannibalismo, almeno su questo reperto, fu quindi smentita.
Il convegno mise in risalto altri aspetti sul sito di grotta Guattari nella quale furono studiati i diversi
livelli di stratificazione:
-        Da 100.000 ad 80.000 anni fa (in corrispondenza del livello 7) la grotta era sommersa dal mare;
-        75.000 anni fa (livello 5) nel periodo dell’ultima glaciazione di Wurm, il mare cominciò a
ritirarsi e la grotta, ormai libera, fu occupata dall’Homo Neanderthal;
-        55.000 anni fa (livello 1): la presenza dei cacciatori neandertaliani diminuì progressivamente,
probabilmente a seguito della parziale occlusione dell'ingresso della grotta a causa di una frana;
-        50.000 anni fa la grotta era ormai disabitata e diventò la tana delle iene delle caverne.
-         Successivamente un'altra frana ostruì, questa volta completamente, l'ingresso della grotta, che
rimane così inviolata per cinquantamila anni, fino al 1939, quando viene di nuovo portata alla luce.


L’immigrazione dell’Homo erectus che arrivò in Europa
Testimonianze indirette sulla presenza dell’Homo in Europa risalirebbero a circa un milione di anni
fa e sarebbero molto convincenti.
Per trovare  uno dei primi fossili umani bisogna aspettare a circa 800.000 anni fa.
Questo è il cranio umano di un adulto, uno dei più  antichi d’Europa rinvenuto nelle  campagne di
Ceprano, fuori Roma nel basso Lazio, negli anni ’20.
E’ un fossile importante per la comprensione sull’evoluzione umana.
Questo cranio è di un Neanderthal trovato negli anni ’20 a Roma.

Questo è un fossile rinvenuto nel Nord Africa (in basso a sinistra).

In alto: Cranio di Ceprano
In primo piano: a destra il cranio di Neanderthal (Roma), a sinistra il cranio del Nord Africa.
I due Neanderthal (Ceprano e Roma) e il reperto africano hanno la stessa antichità ma quello del
Nord Africa non è un Neanderthal ma è già un uomo moderno, un Homo sapiens.
Il reperto di Ceprano ha l’antichità giusta e le caratteristiche appropriate per rappresentare la
divergenza tra Homo sapiens e Neanderthal (le due linee evolutive) cioè quella che in Europa ha
portato all’uomo di Neanderthal e quello che in Africa ha portato all’uomo moderno. Questo molto
tempo prima che i due (Homo sapiens) e Neanderthal s’incontrassero di nuovo.
Giorgio Manzi -  Paleoantropologo dell’Università La Sapienza di Roma

Il Cranio di Ceprano (Frosinone)

Il reperto venne scoperto il 13 marzo 1994 dall’archeologo Italo Bidditu. Un archeologo che nel
1960 fu distaccato per cinque anni presso l’Istituto Italiano di Paleontologia Umana di Roma.
Collaborò anche con l’archeologo Luigi Bernabò Brea con il quale fece  delle ricerche  presso la
grotta Corruggi (Pachino, Ragusa) e scavi nel deposito presso il riparo sottoroccia Sperlinga di San
Basilio (Novara di Sicilia, Messina). Il sito “Sperlinga di San Basilio” che era stato scoperto nel
1942 da Domenico Ryolo di Maria.
Il reperto venne scoperto durante delle ricognizioni di superficie lungo il tracciato di una strada in
costruzione nei pressi di Ceprano (contrada Campogrande) nella bassa valle del fiume Sacco.
 Era da ben 25 anni che il prof. Bittiddu era impegnato nell’area per delle ricerche. Aveva trovato
numerosi  manufatti litici e ossa fossili di animali presso il colle Avrarone.
Si decise di costruire la superstrada Pofi – Ceprano che attraversava la contrada Campogrande. 
Probabilmente durante gli spostamenti meccanici di materia, il cranio fu frantumato in più parti e
solo le piogge di febbraio e marzo del 1994 fecero apparire il primo frammento del cranio dalla
sezione di argilla in cui era sepolto.
Si  riuscì a recuperare gli oltre 50 frammenti del cranio, rinvenuti sempre all’interno dello strato
d’argilla e alla base della sezione stratigrafica. 
Strato d argilla che giaceva al di sotto di sabbie vulcanoclastiche. Proprio per la posizione in cui
venne rinvenuto, il cranio fu battezzato dal prof. Bittiddu con il nome di “Argil”.
Il cranio presentava dei danni a carico dell’osso fontale e la perdita della faccia. Il reperto  sarebbe
quindi limitato al solo neurocranio o, secondo la terminologia paleontologia, calvario.
Il reperto fu ricomposto con un lavoro che durò ben cinque anni, dal 1994 al 1999. Un lavoro
meticoloso dell’equipe del prof. Antonio Ascenzi, allora presidente dell’Istituto di Paleontologia
Umana, perfezionato dallo specialista sudafricano Ron J. Clarke dell’Università del Witwatersrand 
Johannesburg)  ed infine revisionato dalla paleoantropologa Marie Antoinette de Lumley ( Insitute
de Paleontologie Humaine di Parigi)  e da Francesco Mallegni dell’Università di Pisa. (Reperto che
è custodito presso il Servizio di Antropologia della Soprintendenza per i Beni Archeologici del
Lazio).
Vista laterale del cranio dell’uomo di Ceprano.
Il cranio presenta una capacità di 1180 – 1200 cc confrontabile con quelle più  recenti di Homo
erectus di Zhoukoudian (datate 0,2 – 0,5 Ma-milioni di anni fa).
Il reperto presenta dei caratteri delle forme più antiche del Pleistocene medio asiatico e cioè
dell’Homo erectus.
Si distingue però dall’Homo erectus per i mastoidi e le creste sopramastoidee massicce, la volta
cranica medio-lunga, la larghezza cranica massima verso la parte bassa del cranio stesso e
coincidente con la larghezza biauricolare, il toro occipitale considerevole e sviluppato nella stessa
misura in tutte le sue parti ed il solco sopratorale presente e sviluppato. 

Il principale carattere distintivo è però il toro orbitario che presenta un accenno di separazione dei
rilievi sopraciliari da quello che sarà nell'uomo moderno il trigono sopraorbitario. Questa
caratteristica era comune ad un gruppo di ominidi subsahariani che si pensa rappresentino la linea
evolutiva che porterà ad Homo sapiens.

I reperti del genere Homo del Pleistocene medio sono da sempre oggetto di un vivace dibattito sulle
varie interpretazioni sistematiche. Il dibattitto in particolare riguarda lo status dell’Homo erectus
perché a questa specie erano stati assegnati tutti i reperti africani, asiatici ed anche europei databili
da 1,7 a 0,4 milioni di anni fa.
I reperti sono numerosi e la questione dibattuta se assegnarli ad una sola specie (Homo erectus)
(reperti che spesso mostrano una grande variabilità morfologica) o frazionarli in più entità.
La letteratura scientifica considera oggi come all’Homo erectus debbano essere assegnati i reperti
fossili umani provenienti dall’Asia orientale. I reperti africani  sarebbero assegnati all’Homo
ergaster.
Il reperto di Ceprano fu contraddistinto dalla letteratura scientifica come Homo cepranensis.
La denominazione, come ad indicare una specie del genere Homo, è legata alla morfologia del
reperto che è sorprendente per le analisi dei caratteri facciali. Caratteri  che hanno dimostrato come
il cranio di Argil non è  assimilabile all’Homo erectus né alle forme successive che si ritrovano in
Africa ed in Europa e parzialmente in Asia e che vengono da alcuni scienziati riunite nella specie
Homo heidelbergensis.
La calotta cranica, come si ricava dai numerosi studi paleoantropologici effettuati in questi ultimi
anni, ha infatti caratteri della specie Homo heidelbergensis.
Lo storico Grahame Clarke legò il cranio di Ceprano alla grande variabilità dell’Homo erectus e lo
associò al controverso cranio indicato come OH9 e rinvenuto da louis Leakey nel 1960 ad Oluduvai.
La datazione del reperto?
Non esisterebbero delle datazioni assolute. Le datazioni relative basate sul quadro geo-stratigrafico e
paleontologico  regionali lo collocherebbero tra 0,9 e 0,8 milioni di anni fa. Negli anni 2000 furono
eseguite delle analisi magneto-stratigrafiche sui sedimenti lacustri e fluviali recuperati in carotaggi
effettuati nel luogo di rinvenimento del cranio. Questi rilievi fornirono una datazione relativa
differente ponendo il reperto in un’età compresa fra 0,5 e 0,35 Ma.
In definitiva Argil, pur dimostrando un età di 400.000 anni circa, presenta  delle morfologie arcaiche
che sono associate ad altre più evolute.
Questo ritrovamento a Ceprano dimostrò come l’arrivo e lo spostamento dei gruppi umani,
originariamente dalla patria comune Africa, per quello di cui si è a conoscenza, avveniva attraverso
l’esplorazione di nicchie ecologiche che si espandevano in una Europa allora senza confini, con i
soli limiti rappresentati dalle periodiche variazioni climatiche in rapporto alle naturali barriere
geografiche.
Dalla stazione eretta alla produzione della tecnologia litica, all’impulso della coscienza,
l’evoluzione umana è segnata da tappe che lungo il suo viaggio tracciano la rotta di un cammino
tortuoso e a volte anche frammentato. Argil e il ricco contesto archeologico, rappresentato da decine
di manufatti litici alcuni con simmetria bilaterale e fine tecnica di scheggiatura, sono la
testimonianza di come l’uomo abbia dovuto adattarsi alle risorse ambientali e
climatiche restituendoci un passato meno distante e oscuro.
Il cranio dell’Homo di Ceprano (Argil).
Un dibattito importante sarebbe legato al rapporto esistente tra l’Homo cepranensis e i reperti coevi
secondo la datazione classica di 0,9  - 0,8 Ma.
Il collegamento sarebbe con la Sierra de Atapuerca ed precisamente con la Gran Dolina di
Atapuerca. Come abbiamo visto nel 1994 nella Gran Dolina furono rinvenuti 80 frammenti fossili
umani in gran parte riferibili ad individui giovani ed in fase di crescita.  Per questi reperti fu
proposto  il termine di Homo antecessor.
Esiste un legame tra l’Homo cepranensis  di Ceprano e l’Homo antecessor di Atapuerca?
Secondo l’antropologo e paleontologo  Giorgio Manzi i reperti italiani e quello italiano
apparterebbero alla stessa specie anche se sarebbero necessari ulteriori confronti diretti.
L’uomo di Ceprano avrebbe quindi la sua importanza nella linea filogenetica evolutiva del genere
Homo.

L’Uomo di Altamura
L’Uomo di Altamura fu scoperto il 7 ottobre 1993 all’interno della grotta di Lamalunga nei pressi di
Altamura  (Bari).
Il rinvenimento ad opera di alcuni soci del Club Alpino di Bari che furono che furono inviati dal
Centro Altamurano Ricerche Speleologiche (CARS) per indagare la grotta.
La grotta era stata già scoperta nel 1989 e resa accessibile grazie a degli interventi di allargamento
dell’entrata eseguiti nel 1991.



È una grotta carsica posta nelle Murge alte in un contesto morfologico costituito da lame, da doline a
pozzo e dalla dolina di crollo, denominata Pulo di Altamura. Un paesaggio caratterizzato da aride
pietraie e da una totale assenza di vegetazione.
(Le lame sono dei solchi erosivi poco profondi, caratteristi del paesaggio pugliese. Convogliano le
acque meteoriche dall’altipiano della Murgia verso il punto di chiusura del bacino idrografico cui
appartengono).
 Gli elementi geologici della zona sono noti come Calcare di Altamura (Cretaceo medio superiore).



Lama del Garagnone, Alta Murgia



Pulo di Altamura


Lama coltivata a frumento.

Planimetria della grotta di Lamalunga
La mattina del 7 ottobre 1993, sette speleologi del CARS scesero nuovamente nella grotta e furono
raggiunti, a metà mattinata, dai soci del Gruppo Speleologico Vespertilio C.A.I. di Bari, per
effettuare alcune riprese.
Durante tali operazioni, tre speleologici intrapresero un difficile percorso in uno dei due cunicoli
della diramazione est, caratterizzato da molti resti faunistici, in fondo al quale, in quella che fu poi
soprannominata abside, scoprirono il giacimento osseo con un cranio umano.
L’uomo preistorico precipitò 150 mila anni fa in un pozzo naturale, dove morì di stenti. Le gocce di
calcare negli anni lo ricoprirono proteggendolo e fino ai giorni nostri.  
I resti umani furono trovati  alla fine di un'angusta galleria della grotta, nell'angolo di una piccola
cavità situata tra il pavimento e la parete di fondo e costituita da una potente cortina stalattitica. Le
parti dello scheletro erano distribuite su un'area allungata e ristretta e ricoperte da un rivestimento
calcareo che in parte assumeva l'aspetto di formazioni coralliformi. Il cranio appariva rovesciato e
parzialmente inclinato a sinistra, dove era ben visibile buona parte della faccia, le orbite e parte del
cranio neurale.  


a) Localizzazione geografica della Grotta di Lamalunga nell'Italia meridionale;
b) Ortofoto con sovrapposta la mappa della grotta; il rettangolo blu indica la posizione del ramo settentrionale riportato in c);
c) rilievo tridimensionale del ramo settentrionale con alcuni dei punti di riferimento
riportati nel testo, identificati da numeri da nord a sud:
1 – Abside dell'uomo;
2 – vestibolo;
3 – Corridoio degli animali;
4 – Sala della iena;
5 – ingresso attuale.
Elaborazioni di Sat Survey (www.satsurvey.com), modificate da CB.



Resti faunistici, tra cui il cranio di un cervide in primo piano, con concrezioni coralloidi a popcorn.
Foto di CB.
La sera del 7 ottobre le riprese furono visionate nelle sede del CARS alla presenza di tre antropologi
dell’Università di Bari.
I tre antropologi si resero subito conto dell’importanza del rinvenimento e avvisarono la
Soprintendenza Archeologica di Bari. L’antropologo Eligio Vacca fu accompagnato nella grotta per
prendere visione del reperto confermando l’eccezionalità del rinvenimento.
I resti erano di un uomo adulto alto 1,60/1,65 m che rimase intrappolato nella grotta cadendo da una
buca sovrastante la grotta. Un buco forse originato dal cedimento di una parte della volta della stessa
grotta.
Una caduta risalente a circa 180.000 – 130.000 anni fa. il suo corpo rimase inglobato nelle stalattiti e
stalagmiti che vi si svilupparono attorno fino ad inglobarlo e a permettete la sua perfetta
conservazione nel tempo.
In una prima ipotesi l’Uomo di Altamura fu considerato un pre-neandertaliano  e successivo
all’Homo erectus. In base a questa ipotesi la sua datazione prevedeva un intervallo cronologico tra
400.000 e 100.000 anni fa, con valori più probabili fra 250.000 e 150.000 anni fa.
Questi primi studi, condotti preservando il reperto nel suo sito di ritrovamento, evitando in modo
assoluto la rimozione di frammenti ossei o di connesse concrezioni calcaree, permisero di
riconoscere con certezza i tipici caratteri neandertaliani (morfologia delle orbite e degli ispessimenti
ossei sopraorbitari, assenza di fossa canina e presenza di uno spigolo ben evidente
sull'osso mascellare, ispessimento dell'osso occipitale, caratteristica della apofisi mastoide, esistenza
di uno spazio retromolare e andamento del margine superiore della branca ascendente
della mandibola). Alcune caratteristiche del reperto associavano caratteri tipici dell’ Homo sapiens,
tra i quali, in particolare, la convessità della squama dell'osso occipitale.
Gli ultimi studi, eseguiti analizzando in laboratorio reperti di facile rimozione, indicarono una
datazione meno incerta ma non in contraddizione con la prima ipotesi.
Le analisi sugli strati di calcite depositatisi attorno al reperto, effettuate nel 2015, determinarono con
certezza come lo scheletro fosse riferibile a un Neanderthal e risalente a un periodo fra i 128.000 e i
187.000 anni fa.
Un rinvenimento unico al mondo non solo per l’integrità dello scheletro ma anche per la
spettacolarità  naturalistica dell’intero complesso  di giacitura.
Un complesso rappresentato dalle ossa avvolte in un ambiente carsico che le ha concrezionate,
saldate le une alle altre, fissandole come a sfidare il tempo e racchiuse come in uno scrigno antico
geloso custode di memorie e attimi di vita antichi.
 I primi risultati di un certo rilievo furono ottenuti grazie all'analisi del DNA mitocondriale.
Sull'Uomo di Altamura fu condotto uno studio su una sequenza parziale di DNA antico. Le
conclusioni di questo studio, secondo David Caramelli,
sono compatibili con le attuali ricerche paleoantropologiche e dimostrano come le popolazioni
Neandertaliane potessero essere suddivise in almeno tre gruppi secondo la loro distribuzione
geografica: Europa occidentale, Europa Meridionale ed Asia occidentale…. L'Uomo di Altamura si
colloca nella "variabilità genetica dell'Europa meridionale" con le sequenze del DNA simili ad altri
reperti trovati in Spagna (El Sidron) e in Croazia.
Nel 2025 venne effettuato un nuovo esame su di un frammento osseo della spalla.
Fu esaminato, con datazione uranio-torio, lo strato di calcite attorno al reperto. I risultati
visualizzarono una datazione fra i 128.000 ed i 187.000 anni fa.
Furono effettuati degli studi cronologici su dei resti faunistici della grotta di Lamalunga. Analisi
effettuate con il metodo del Th-230/U-234 che misero in evidenza come i reperti presentavano
un’età di deposizione tra 45.000 e 17.000 anni fa, con un massimo di frequenza tra 45.000 e 30.000
anni fa.
I reperti fossili degli animali si trovavano nelle sale adiacenti a quella dove fu rinvenuto l’Uomo di
Altamura.
L’età dei reperti fu accertata dall’età di concrezionamento della calcite  sottostante e sovrastante agli
stessi reperti ossei.
Nella sala dove fu rinvenuto l’Uomo di Altamura (antiabside dell’Uomo) non fu osservata alcuna
concrezione sottostante o in relazione con l’Uomo. Erano presenti dei concrezionamenti sul corpo
dell’Uomo soprattutto in corrispondenza del cranio. Concrezionamenti che non furono esaminati per
non alterare il reperto.
Fu datato l’inizio di concrezionamento degli speleotemi della sala dell'Uomo, attorno a 170.000
(studio eseguito su una stalattite caduta) e il termine dello stesso che si verificò 17.000 anni dal
presente (età della calcite cavoliforme che ricopre uniformemente tutti gli speleotemi della sala
dell'Uomo e le arcate sopraccigliari dell'uomo stesso). L'unico resto faunistico analizzato nella sala
dell'uomo si depositò prima di 36.000 anni fa (età di una concrezione sovrastante una vertebra di
daino).
 I risultati dell’analisi paleogenetica registrarono la presenza di DNA endogeno, anche se altamente
frammentato. Questi dati genetici permettono, fra l'altro, di considerare lo scheletro di Altamura
come il più antico Neanderthal da cui siano state estratte porzioni di materiale genetico (mtDNA) e
dunque un ottimo candidato per analisi genomiche di grande interesse.
(Il DNA endogeno è il DNA prodotto internamente all'organismo, a differenza del DNA esogeno,
che proviene dall'esterno. Il DNA endogeno è quindi quello che appartiene alla cellula stessa, che si
trova nel nucleo, nei mitocondri, o in altre parti della cellula. È quindi il DNA che normalmente si
trova nel corpo e codifica le informazioni genetiche per la costruzione e il funzionamento
dell’organismo. mentre il DNA esogeno può essere introdotto dall'esterno attraverso infezioni,
manipolazioni genetiche, o altri processi). 
Più volte si aprì un dibattito sull’opportunità della rimozione del cranio che però vide  divisi i vari
soggetti coinvolti nella decisione.
Risale al novembre 2010 un progetto, denominato “AltaCRANIUM”, per la rimozione del cranio,
completo di documentazione e proposta operativa. Secondo il relativo studio di fattibilità, elaborato
dopo accurati sopralluoghi, si evidenzierebbe come il cranio e anche la mandibola siano tra i resti
meno inglobati nelle concrezioni calcaree, liberi da aderenze con la matrice stalattitica. La rimozione
temporanea dei reperti indicati, effettuata con tecniche di chirurgia laparoscopica, apparve ai
redattori del progetto perfettamente possibile ed estremamente produttiva dal punto di vista
scientifico.
Fu ricostruito al computer il probabile aspetto dell’Uomo di Altamura.


Il pozzo di accesso a cupola della Grotta di Lamalunga vicino ad Altamura in Puglia, Italia.

……………………………………


Nel clan dei Neanderthal era presente una forte gerarchia e le persone più deboli erano gli anziani e
bambini che erano immersi in un ambiente difficile, ricco di pericoli.
Soprattutto per i bambini l’infanzia era un periodo difficile e i reperti  fossili rinvenuti ne sarebbero
una prova.
Infatti la metà dei  reperti fossili dei Neanderthal sarebbe costituita da bambini con età inferiore agli
11 anni.
I bambini Neanderthal a cinque anni avevano un cervello che aveva una grandezza pari a quella di
un adulto dei nostri giorni. I bambini presentavano delle capacità fisiche sviluppate e questo perché
vivevano in un ambiente dove di doveva crescere in fretta per non morire.
A 43 anni gli uomini del clan era già anziani, l’ambiente accelerava l’invecchiamento.
I corpi rinvenuti presentavano spesso delle ferite e le mani e parti del corpo erano colpiti da terribili
artriti.
Quattro Neanderthal su cinque non raggiungevano i quarant’anni d’età.
Nel 1957  nella grotta di Shanidar (Iraq) ci fu un rinvenimento che mise in evidenza come
difficile e pericolosa fosse il loro vivere quotidiano anche se con la solidarietà del gruppo.
Grotta di Shanidar (Iraq).

Shanidar, il neanderthaliano sopravvissuto grazie agli amici
Aveva problemi all'udito, era claudicante e senza avambraccio
La grotta di Shanidar (Saneder  in curdo) è ubicata ai piedi dei monti Zagros, nel Kurdistan
iracheno. Il sito archeologico venne scoperto e studiato nel 1957 e 1961 da Ralph Solecki e dai suoi
collaboratori della Columbia University. Negli scavi fu rinvenuto il primo scheletro di Neanderthal
adulto in Iraq e risalente al Paleolitico Medio (80.000 anni fa).
Gli scavi proseguirono nel tempo e furono rinvenuti altri nove scheletri di Neanderthal di varie età e
stato di conservazione.
Negli scavi gli archeologici si accorsero di un nuovo aspetto presente nei riti funebri del
Neanderthal:
seppellivano i loro compagni con dei fiori.
Probabilmente in questo gesto funebre ci fu l’espressione di una mano femminile neanderteliana.
Nella storia non si parla mai, neanche con piccoli cenni, della donna preistorica in generale e della
sua importante funzione nei clan.
Purtroppo di questi reperti fossili umani  ci sarebbero solo dei calchi perché gli originali andarono
perduti in Iraq. I reperti furono classificati con il nome di Sanidar e quelli più importanti erano il
Sanidar I e IV.
Sanidar I  era il reperto più importante. Un uomo anziano di 45 – 50 anni che fu soprannominato
dagli scopritori come “Nandy”.
Per un uomo Neanderthal questa età era considerevole perché raramente veniva raggiunta per le
condizioni ambientali e per il tenore di vita condotto.
I suoi reperti fossili mostravano gravissime deformità legate a gravi patologie e a ferite e traumi..
Altri quattro scheletri mostravano le stesse patologie.
Il cranio di Sanidar I mostra sulla parte frontale sinistra una cicatrice  che fu invisibile ad un primo
esame.
Un forte colpo forse causato da una caduta, un incidente nel lavoro (taglio di un albero) o inferto
con un legno durante un litigio, che gli causò una frattura nell’orbita sinistra tale da renderlo
parzialmente o totalmente cieco dall’occhio  sinistro.
Il cranio con la cicatrice


Lo sfortunato Sanidar o Nandy subì anche una distorsione del braccio destro, con fratture che gli
causarono la perdita dell’avambraccio e della mano. Con queste nuove fratture l’origine delle sue
patologie sarebbero legate ad una rovinosa e terribile caduta. Dei traumi rimasero le cicatrici e
questo dimostrò come i suoi compagni si presero cura dell’uomo dimostrando un principio di antica
solidarietà.
Un dolore artritico molto forte. L’osso del braccio (l’omero destro) aveva subito delle fratture
multiple molto gravi. Era paralizzato e inutilizzabile ed aveva delle dimensioni molto ridotte rispetto
al normale. 
I Neanderthal si occupavano dei loro anziani e dei loro malati, che diventavano oggetto di premure
dell'intero gruppo. 
L’uomo, malgrado l’aiuto dei suoi compagni, soffriva moltissimo  a cause di artriti i cui segni
sarebbero evidenti sulle caviglie e dalle protuberanze  sulle rotule.




Shanidar II era un maschio adulto, probabilmente morto per una caduta poiché presentava fratture
multiple sulle ossa dello scheletro e del cranio. Esistevano prove evidenti come questo individuo
ricevette una sepoltura rituale tramite l'impilamento di alcune pietre lavorate nella sua tomba.

……………………………….
La Dott.ssa Lucrezia Parpaglioni (laureata in Media Comunicazione digitale e Giornalismo presso
l'Università Sapienza di Roma)  pubblicò nel 2024 una interessante ricerca dal titolo:
Un bambino di Neanderthal che potrebbe aver avuto la sindrome di Down è
sopravvissuto fino all’età di 6 anni.
La ricerca si basava su uno studio, pubblicato sulla rivista “Science Advances”, in merito al
rinvenimento di frammenti ossei dell’orecchio di un bambino Neanderthal che presentava delle
malformazioni che erano compatibili con la sindrome di Down. Il bambino visse fino all’età di sei
anni.
Una bellissima immagine di vita che dà luce al modo di essere dei Neanderthal.
Il sito è la grotta di Cova Negra, nei pressi di Valencia, nella Spagna orientale.





Ingresso della grotta nel 1928


In seguito al riordino dei reperti fossili rinvenuti nella grotta, gli archeologici trovarono un
frammento di osso temporale. L’osso temporale, nominato inizialmente con la sigla CN-46700, fu
sottoposto a tomografia computerizzata.  Una tecnica di analisi (non invasiva) che permette di
realizzare precisi modelli 3D dei campioni di analizzare senza compromettere l’integrità del reperto.
Gli studiosi confermarono l’appartenenza dell’osso temporale ad un Neanderthal. Gli scavi nella
Cova Negra avevano infatti dimostrato la loro presenza nell’area.
Gli studiosi nell’analizzare il prezioso reperto stabilirono la sua appartenenza ad un bambino/a di
circa 6 anni (non fu possibile determinare il sesso) che presentava malformazioni congenite
compatibili con quelle causate dalla sindrome di Down.
Era la più antica attestazione di questa sindrome in un individuo appartenente al genere Homo.
La presenza della sindrome di Down era stata attestata cinque volte ed in individui vissuti tra il 3.629
e il 400 a.C..  in tutti i casi noti il bambino era deceduto entro i primi sedici mesi d’età.
Il bambino/a di Cova Negra visse fino ai 6 anni d’età (in un periodo compreso fra i 273.000 e i
146.000 anni fa) in una società di ben 200.000 anni fa  e questo deve fare riflettere.
I ricercatori dell’Università di Alcalà, dell’ Università di Valencia e dei centri di studio di Madrid e
Burgos nominarono il reperto con il nome di “Tina”.
Nel bambino/a  la sindrome,  per le malformazioni provocate nella parte interna dell’orecchio,
provocava gravi deficit uditivi e vertigini invalidanti.

Sono state rilevate le malformazioni congenite come la displasia del canale semicircolare laterale
(LSC) e segni di complicanze dell’otite che questa bambina potrebbe aver avuto durante il suo infanzia, come la presenza di una fistola labirintica. Tutte queste alterazioni potrebbero aver portato a un grave deficit nell’udito e vertigini invalidanti.


Il fatto che il bambino/a sia vissuto fino a sei anni d’età ha una grande rilevanza nella percezione
della società neandertaliana. Per quanto fino ad oggi la presenza di un sentimento di altruismo e di
interesse nei confronti dei propri simili fosse attestato fra i Neanderthal, ciò era dimostrabile
solamente fra individui adulti. Chi poteva, in qualche modo, contribuire ai bisogni del gruppo umano
veniva perciò curato e mantenuto in vita.
Quanto messo in evidenza dal team di ricerca spagnolo fa emergere come, almeno in questo caso, un
bambino molto probabilmente non autosufficiente (le malformazioni presenti probabilmente lo
resero sordo oltre alle frequenti vertigini) sia riuscito a sopravvivere per alcuni anni grazie alle cure
di un gruppo sociale che agì in maniera continuativa. Considerando che fino agli anni '40 del secolo
scorso l'aspettativa di vita media per un individuo affetto da sindrome di Down era di appena 12
anni, quella della Cova Negra fu una scoperta straordinaria, che ci parla di umanità e affetto fra i
nostri parenti più prossimi vissuti 200.000 anni fa.
Non si conoscevano prima casi di individui che aveva ricevuto aiuto anche senza poter ricambiare
il favore, il che dimostrerebbe l’esistenza di un vero altruismo tra i Neanderthal
(Mercedes Conde, prima autrice della ricerca).
L’assistenza al bambino era legata ad un senso di compassione, di solidarietà e non di reciprocità.
La reciprocità si basava su un patto d’interesse personale con il malto che poteva, una volta guarito,
ricambiare l’assistenza ricevuta.
I bambini preistorici con malattie congenite o ferite, la cui sopravvivenza fino all’età adulta era nel
migliore dei casi incerta, non potevano contare sulla reciprocità. La durata della loro vita può
rivelare il modo in cui le rispettive comunità ominide percepivano l’assistenza.
La madre del bambino avrebbe faticato a fornire assistenza e a tenere contemporaneamente il passo
con le sfide quotidiane di una vita di foraggiamento nel Paleolitico.
Questo suggerisce come l’assistenza del gruppo e la genitorialità collaborativa si verificavano
insieme nei Neanderthal e che entrambi i comportamenti prosociali facevano parte di un più ampio
adattamento sociale.
..........................

I Neanderthal erano riusciti ad avere il controllo sull’ambiente ma la loro posizione  nel territorio
era ormai cambiata perché una nuova specie umana si presentò all’orizzonte e, per la prima volta
nella loro storia di vita, si troveranno di fronte ad una nuova specie umana.



Una specie umana con tratti anatomici diversi: più alto e slanciato, naso meno voluminoso, fronte
alta e con tratti non scimmieschi.
Ma era soprattutto una specie con una intelligenza diversa, più profonda.
Ma da dove giungevano e come si stavano adattando ad un ambiente così freddo?
Probabilmente non erano adatti a vivere in un ambiente così freddo ma con la loro intelligenza
avevano escogitato nuovi modi di vivere e modi di pensare che gli permettevano di superare anche
le difficoltà ambientali.
Erano gli Homo sapiens, uomini moderni, antichi cugini dei Neanderthal.
Più di un milione e mezzo di anni una specie di ominide, l’Homo erectus/ergaster, era immigrato
dall’Africa per entrare in Asia ed Estremo Oriente per poi giungere con dei discendenti anche in
Europa.
Le barriere naturali come deserti, mare e montagne separarono le varie popolazioni nei vari
continenti. Una separazione che consentì un evoluzione autonoma e nell’Europa del freddo si
svilupparono  i Neanderthal con forti adattamenti al clima freddo.
Nel frattempo nell’Africa si era presentata una nuova specie umana adatta ai climi caldi, l’Homo
sapiens, che già 100.000 anni fa si era diffusa nel Medio oriente.
45.000 anni fa il clima si fece più mite e si presentò la via di penetrazione verso l’Europa. Nel giro
di 10.000 anni i sapiens arrivarono in Europa centrale ed in Italia e nel Sud della Francia dove
l’Homo sapiens fu denominato con il termine di Cro-Magnon.
I primi gruppi cercarono dei territori da colonizzare e le fertili valli della Francia meridionale erano
tra i luoghi migliori per fondare i loro villaggi.
Ma questo territorio era anche la roccaforte dei Neanderthal.
Gli Homo Sapiens vivevano in gruppi ed erano animati da contatti intimi molto forti ed importanti
per la loro vita quotidiana ed avevano una spiccata forma di comunicazione.
Questi forti legami emotivi diedero al clan una forte coesione che garantiva l’autosufficienza e la
sopravvivenza del gruppo.
Certo ci sarà stato un breve attimo in cui per la prima volta un Neanderthal ed un Homo sapiens si
saranno trovati l’uno di fronte all’altro.
Forse il Neanderthal che aveva vissuto per millenni in completo isolamento avrà guardato sbigottito
quell’essere umano che si mostrava ai suoi occhi.
Un essere umano diverso non solo nell’aspetto fisico ma anche dal modo di vestirsi con collane di
conchiglie e denti di cervo.
Quel Neanderthal non avrebbe mai pensato che con quell’incontro sarebbe stato testimone
dell’apertura di una nuova pagina di storia. 
Per la prima volta nella sua vita il Neanderthal avrebbe dovuto affrontare forse un problema più
grande di lui… non si trattava di fronteggiare il freddo, la ricerca del cibo, il difendersi dalle bestie
feroci o il cercare di catturare una donna per garantire la sopravvivenza del gruppo, ma il dover
fronteggiare un altro uomo di cui non conosceva nulla.
Quel forte adattamento al clima, la condivisione nel gruppo per la caccia non erano più sufficienti
per la loro sopravvivenza e quindi  si dimostrarono inadeguati nell’affrontare il cambiamento che
era in atto.
La vulnerabilità dei Neanderthal fu forse legata  all’isolamento perenne in cui vissero i singoli
gruppi. Le loro povere capacità linguistiche, accompagnate all’isolamento, non favorirono le
relazioni tra i vari gruppi sparsi nel territorio. Ogni gruppo si era sempre considerato autosufficiente
nella sua sopravvivenza ed ora questa nuova situazione impedì di vedere la reale minaccia che si
stava presentando.
Era possibile una pacifica convivenza?
Lo straniero aveva un aspetto fisico e un modo di comportarsi completamenti diversi.
È quindi molto difficile capire la reazione del Neanderthal dato che viveva in un modo isolato ed è
probabile che quell’incontro si sia verificato più volte in quel periodo.
Ma  visualizzare quei momenti non è facile anche se i reperti archeologici sembrino dare qualche
importante indizio.
 Nel Dipartimento della Dordogna, vicino al piccolo centro di Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil, di 861
abitanti, sono presenti numerose testimonianze di civiltà preistoriche come nei siti di:



Nel sottoroccia di Cro-Magnon furono rinvenuti dei resti fossili di una variante preistorica
dell’Homo sapiens che dal luogo prese il nome di Cro-Magnon.
Nel piccolo centro di Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil è presente un importante Museo Nazionale della
Preistoria.



Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil 
Nell’800 alcuni operai, durante la costruzione di una strada, fecero un importante scoperta.
Trovarono uno scheletro sotto un riparo, una rientranza naturale rocciosa posta sotto la scarpata, che
gli abitanti del luogo chiamavano Cro-Magnon cioè “grande dirupo”.






Furono subito eseguiti degli scavi e furono rinvenuti ben cinque corpi, sepolti in questo luogo circa
32.000 anni fa. Uno di questi scheletri era di un uomo maturo e si notò subito la sua differenza
craniale rispetto al Neanderthal perché aveva una fronte ampia ed alta, delle orbite più strette e un
naso fine.
Un’anatomia differente da quella del Neandertthal caratterizzata da un cranio piatto e schiacciato, da
una cavità nasale ampia e da orbite più larghe.

Questa prima analisi sui reperti dimostrò un elemento importante.
I Cro-Magno avevano, rispetto ai Neanderfthal, un’arma importante: un cervello più sviluppato, un
cervello che aveva un diversa “struttura” interna, cioè la presenza di diversi collegamenti tra i
neuroni della corteccia cerebrale e questo determinava la nascita nel formulare nuovi modi di
pensare e di agire.
I Cro-Magnon cucivano i loro abiti, dipingevano il proprio corpo e creavano  anche dei monili.
Questi erano solo alcuni degli aspetti che dimostravano la tecnologia dei nuovi arrivati rispetto a
quella arcaica dei Neanderthal.
Con il passar del tempo i domini territoriali dei Neanderthal si restrinsero e la caccia si fece sempre
più difficile anche per i Neanderthal.
L’alimentazione era un aspetto importante anche nella visione delle nuove nascite.
Per la donna Neanderthal il parto, in considerazione anche dei tempi, era un momento molto
delicato.
I neonati Neanderthal erano più sviluppati rispetto a quelli di oggi e le donne presentavano dei
bacini più grandi, adatti ad ospitarli nella gravidanza. Avevano un condotto uterino più largo,
rispetto alle donne di oggi, e nonostante ciò, gli spasmi dovuti al parto dovevano essere molto
dolorosi e violenti.
Le difficoltà di vita per il neonato erano immense soprattutto per le nascite durante l’inverno.
Le madri allattavano il neonato per circa tanto tempo ed  avevano bisogno di almeno 1000 calorie al
giorno  in più per produrre latte per il piccolo.
Quindi nel periodo  invernale e con la caccia precaria anche la vita del neonato  era in pericolo e
questi aspetti erano per il clan un peso difficile da sostenere. L’unità del gruppo improvvisamente
veniva  a mancare perché non sarebbe più presente  il desiderio di continuare la stirpe.
Un dato drammatico che emerse dai ritrovamenti dei Neanderthal  sarebbe legato alla mortalità
infantile. 

Questo è lo scheletro di un bambino Neanderthal di circa 3 anni, vissuto circa 50.000 anni fa e
trovato in questo sito della Dordogna.
Presentava un volto prominente, una mascella larga e massiccia, senza un mento, e dalle costole,
dalla clavicola lunghissima s’intuisce che aveva già un torace molto ampio, potente e muscoloso. 



Nessuno riuscì a stabilire di cosa sia morto.
Ma un dato drammatico emerse dai ritrovamenti analoghi…. ed era che
circa la metà dei bambini Nenaderthal non riusciva a raggiungere l’adolescenza.
Infatti la maggioranza dei reperti fossili dei Neanderthal sarebbero attributi a resti scheletrici di
bambini, dei loro crani, molti dei quali ancora senza denti emersi dalle gengive. Denti che si
vedevano ancora inclusi nell’osso con lo smalto che indicava gravi carenze alimentari.
Neonati morti per fame.. la fame era una delle cause della loro morte.
Piccoli scheletri di bambini furono trovati in buche poco profonde e questo aspetto di sepoltura
potrebbe indicare una probabile e primitiva forma di rito.
Un’ipotesi di cui non si è sicuri.
Nel 1983 in Israele furono trovate i resti di due neonati rinvenuti fra i rifiuti delle carcasse degli
animali macellati. Questo avanzerebbe un’agghiacciante ipotesi e cioè la scarsa considerazione che
si aveva sulle loro vite.
L’infanticidio veniva forse praticato dai Neanderthal  sia per un controllo delle nascite sia per
garantire la sopravvivenza del gruppo in periodi difficili dovuti alla scarsità di cibo?
Nei gruppi dl Neanderthal la tecnica di fabbricazione degli utensili veniva tramandata di
generazione in generazione.
L’aspetto che colpisce sarebbe legato alla differenza esistente ad esempio tra gli utensili
neanderteliani creati nella Francia Sud-occidentale e quelli di altri gruppi presenti in Europa.
Questo dimostrerebbe la mancanza di rapporti tra i vari clan che fu sempre un gravissimo handicap
per la loro sopravvivenza.
La vita isolata che conducevano i vari gruppi impedì la possibilità di scambiarsi nuove idee e nuove
tecniche.
Praticamente l’interazione fra i vari gruppi era inesistente e in 250.000 anni gli arnesi dei
Neanderthal non subirono alcuna modificazione.
Per la caccia usavano delle lance di legno, la cui punta veniva resa più forte ed irrobustita alla
fiamma. Una tecnica vecchia di mezzo milione di anni prima della comparsa del Neanderthal..
Un’operazione che in genere veniva eseguita dalla donna.


L’uomo, usando della resina, fissava la punta affilata di una selce ben scheggiata alla punta della
lancia per poi fissarla usando dei tendini di animali.
Un’arma sofisticata capace di entrare nella pelle più dura ma aveva un grande difetto: era troppo
pesante.
Doveva quindi essere scagliata sull’animale da distanza ravvicinata.
Una tecnica antichissima ma non nuova perché esiste da circa 500.000 anni ancora prima della
comparsa del Neanderthal.
Sono passati 35.000 anni e dove un tempo vivevano i Neanderthal oggi si trova un museo che
conserva la più importante collezione di reperti di Neanderthal e di Cro-Magnon di tutta la Francia.

Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil 


Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil - Museo 

Ci sono migliaia di strumenti in pietra realizzati dai Neanderthal e qualcuno potrebbe essere
paragonato ai nostri oggetti quotidiani.
Un esempio  sarebbe legato al nostro coltello che ha un manico rispondente al principio fisico della
leva per fare pressione sul punto di taglio. 




La loro tecnologia chiamata musteriano consisteva in sei soli tipi di strumenti:
-        Piccole asce a mano a forma di goccia concepite per stare meglio nel palmo della mano;
-        Strumenti multiuso, dei piccoli coltelli preistorici, con i quali potevano segare la legna,
spezzare le ossa e fare dei buchi;
-        I raschiatoi, molto taglienti che da un lato venivano usati per raschiare la carne dalle ossa
oppure per ammorbidire le pellicce da indossare. Ne sono stati trovati tantissimi visto il
clima gelido che dovevano affrontare.
-        Le punte triangolari usate come coltelli oppure fissati in cima ad assi di legno per farne
delle lance.

Utensili dei Neanderthal



Il vero capolavoro artistico dei Neanderthal furono le punte e le valute delle schegge
taglienti, di forma triangolare. Alcuni avevano i bordi così taglienti da risultare cinque volte
più taglienti di un odierno bisturi dei chirurgi. Furono dette punte di Valois.
 
Gli archeologi cercarono di risolvere un mistero. I Neanderthal crearono degli strumenti,
sempre uguali, per migliaia i anni e poi all’improvviso, in Italia ed in altri siti, gli strumenti
cambiarono completamente circa 35.000 anni fa. Avvenne una trasformazione radicale nella
creazione di questi strumenti e oltre alla pietra si cominciarono ad usare le corna dei cervi ed
anche i denti delle prede.
Vennero creati anche oggetti decorativi come monili.
Gli archeologi videro in questo un mutamento nel pensiero dei Neanderthal ma questo
processo evolutivo coincise con l’arrivo dei Cro-Magnon.
Il Neanderthal si limitò a copiare le tecniche dei Cro-Magnon senza però riuscire a percepire
il reale significato delle cose, degli oggetti, dei segni e dei simboli.

Utensili dei Cro-Magnon
Gli strumenti della preistoria riflettevano il cervello e le capacità di chi li creava.
Bisognava saper scegliere la pietra che doveva avere una certa durezza e sperare che
all’interno non fossero presenti  delle disomogeneità. Anche una piccola venatura di calcare
potrebbe fare saltare il lavoro. È un procedimento fatto di tecnica e precisione. Si percuoteva
con un ciottolo ma per gli spessori sottili e le piccole scheggiature si usava un corno di cervo
o un pezzo di legno duro e compatto.
Quello che sorprende di più è vedere come da una stessa pietra ominidi sempre più evoluti
abbiano ottenuto un margine tagliente sempre più lungo. 

A sinistra, un bifacciale arcaico, risalente a circa 300.000 anni fa.
A destra un bifacciale più recente risalente a circa 120.000 anni fa
La differenza tra i due reperti è notevole.
In quello arcaico il margine utile è legato solo alla sua parte terminale mentre,
in quello più recente, coincide con tutto il perimetro del reperto.

L’uomo di Neanderthal, nel suo processo mentale, decise di non produrre più pietre con una
forma appuntita e tagliente, scartando quindi le schegge residui della lavorazione, ma di
creare invece delle schegge sottili, utili per diversi usi. Schegge ricavate da un sasso di selce
ben lavorato.
Ma fu l'uomo sapiens che raggiunse la maggiore efficienza sbucciando la pietra per ottenere
una serie di schegge sottilissime simili a lame molto taglienti e adatte a vari usi.
 
In alcune parti d’Europa le due specie sembra che abbiano convissuto in modo pacifico per
molte generazioni ma nella Francia Sud-occidentale il passaggio dagli insediamenti di
Neandertal a quelli del Cro-Magnon sembra che sia avvenuto in modo molto rapido e
soprattutto traumatico.
Questa parte della Francia, ricca di fertili territori, rappresentava un valido motivo per
scontrarsi.
I ritrovamenti archeologici, almeno in questa parte della Francia, non consentono di
affermare con certezza se gli incontri fra i due gruppi finirono con lo scontro fisico per la
conquista del territorio.
Anche nella preistoria, come oggi, esisteva la violenza.
Alcuni ritrovamenti archeologici confermerebbero questo aspetto violento.
Nel 1953 nella grotta di Shanidar in Iraq furono scoperti i resti di alcuni neanderthal che
risalivano a circa 50.000 anni fa.

Era uno dei gruppi di Neanderthal più orientali della specie e tra le  tante ossa  rinvenute
c’era anche una costola dall’apparenza normale ma un esame più attento rivelò una storia
eccezionale.


C'era una piccola protuberanza sul suo bordo cioè la cicatrice di un profondo taglio.
 La punta di un’arma di pietra era penetrata tra l'ottava e la nona costola incidendo l'osso e forando il
polmone. La vittima era stata pugnalata o forse colpita con una lancia e nonostante la gravissima
ferita il Neanderthal non morì. L’accrescimento osseo attorno al taglio rivelò come la ferita si sia
rimarginata. La ferita era guarita e questo dimostrava due aspetti:
-        che le sue difese immunitarie erano eccezionali fortissime;
-        che il gruppo si prese cura di lui.
I membri del clan avevano delle ampie conoscenze sulle proprietà curative delle piante.
Lo sfagno veniva usato per disinfettare la ferita mentre le foglie di consolida maggiore favorirono la
crescita dell'osso.
Consolida maggiore
Uno dei problemi più importanti per l’uomo preistorico era quello di  individuare quale piante
erano commestibili e quali velenose. Per questo si osservavano gli animali e talvolta si
somministrava loro le piante di cui si voleva vedere l’effetto.
In questa “ricerca” delle proprietà vegetali delle piante le donne ricoprivano un ruolo importante.
Mentre l’uomo si occupava della caccia, le donne erano dedite alla raccolta di frutti ed erbe
spontanei. Furono anche le prime a coltivare i semi dando poi avvio all’agricoltura. Questa loro
attività faceva sì che nelle comunità nascesse e si affermasse la figura della “donna di medicina”
che, di solito anziana, sopravvissuta a molti parti, ricopriva il ruolo di sciamana.
Il fatto che per due milioni e mezzo di anni il mondo sia andato avanti con questa divisione dei
compiti, è anche all’origine delle differenti abilità e propensioni tra il cervello maschile e quello
femminile. Ancor oggi le donne possiedono dei recettori nueronali che consentono loro di
distinguere meglio i colori e di individuare con più attenzione dettagli che all’uomo solitamente
sfuggono.
Tra l’altro, quasi sempre l’attività di raccolta dei vegetali doveva essere condotta insieme ad altre
incombenze, riguardanti la cura dei bambini e dell’abitazione, ecco perché si parla della famosa
capacità “multitasking” della donna. Viceversa, il maschio grazie alla caccia, ha sviluppato una
particolare capacità di concentrazione che gli consente di focalizzare tutta la propria attenzione su
un solo obiettivo, escludendo tutto il resto, come poteva essere richiesto all’epoca, dalla ricerca di
un odore, di una traccia della fuga di un animale.
Queste donne di medicina arcaiche osservando il comportamento degli animali avevano compreso
come alcune erbe avessero un potere medicinale come la Consolida maggiore, nome che le fu dato
di Plinio il Vecchio, per la cicatrizzazione delle  ferite.
Ancora oggi queste pianta viene usata per le sue proprietà nella guarigione delle ferite e sembra che
stimoli la formazione del callo osseo in caso di fratture. Sembra che il sollievo e la guarigione siano
dati da una sostanza chiamata allantoina, usata, in sintesi chimica, anche dall’industria farmaceutica
per gli stessi scopi. Le altre piante adoperate erano il luppolo per le sue proprietà antidolorifiche e
per chi soffriva di artrosi e anche l’aglio selvatico. La parassitosi intestinale in epoca arcaica era una
delle case di maggiore deperimento e morte dei bambini che, sempre a contatto con il terreno
facilmente ingerivano uova di ossiuri e altri vermi. 
L’aglio selvatico
Un altro rimedio usato nelle comunità preistoriche era il papavero, i cui semi venivano impiegati per
facilitare il sonno.
Vi era poi tutta una serie di foglie e muschi applicati come bendaggi, spesso in associazione con
delle muffe particolari dall’azione antibiotica. Per quanto solo alla fine dell’800 il medico molisano
Vincenzo Tiberio studiò e dimostrò  il potere antibiotico delle muffe, anticipando di 35 anni le
scoperte di Fleming sulla penicillina. Nella medicina popolare quest’uso fu costante per centinaia di
migliaia di anni.

I Neanderthal seppellivano i loro morti dentro le loro caverne, probabilmente per preservare i
corpi dei defunti dagli animali carnivori e anche per un senso di pietà per il compagno con il quale
avevano trascorso attimi di vita. Non avevano il concetto dell’aldilà ma sicuramente un senso di
umanità.
I neanderthal furono i primi a seppellire i loro defunti perché per milioni di anni  gli uomini
preistorici abbandonavano sul terreno i cadaveri.
In Israele fu rinvenuta una sepoltura dove un Neanderthal fu sepolto in una buca poco profonda. 
Il cranio era stato asportato e il defunto aveva la mano sinistra sullo stomaco mentre il braccio
destro era ripiegato sul torace.  Forse   era l’espressione di un rituale ma questa sepoltura, quasi
sacrale era indice di rispetto ed umanità. Questo tipo di disposizione sviluppò un ampio dibattito tra
gli studiosi.
Spesso nelle sepolture furono trovati anche resti di animali. I Neanderthal seppellivano i loro defunti
nella grotta e i resti degli animali erano sparsi sul  pavimento della grotta.
Per alcuni studiosi la sepoltura dei Neanderthal era un modo semplice di liberarsi dei corpi.
Non si può essere a conoscenza del tipo di sentimenti che provavano i Neanderthal ma comunque la
morte di un loro compagno, con cui avevano condiviso tanti attimi di vita, doveva essere un
episodio traumatico e seppellire il defunto nella grotta dove vivevano doveva essere un principio,
forse allo stato larvale, di rispetto.
I Neanderthal abbandonarono molto siti, come avvenne in Francia, e i Cro-Magnon presero
possesso delle loro dimore. 


Abbandonarono le loro grotte per spostarsi verso Ovest…..
per loro non ci sarà un ritorno…
La conquista dei siti dei Neanderthal avvenne in gran parte dell’Europa ed anche in Italia.
Nel bellissimo Parco Regionale della Lessinia , non distante da Verona, da molto tempo gli
archeologici stanno studiando gli strati della grotta di Fumane, considerato uno dei siti più
importanti d’Italia.
La Lessinia, o Monti Lessini, è un altopiano posto nella provincia di Verna e in parte
nelle province di Vicenza e Trento.
Una parte del territorio lessinico costituisce il Parco naturale regionale della Lessinia.
Un Parco che presenta numerosi luoghi simbolo come:
le cascate di Molina, il ponte naturale in roccia di Veja, numerose foreste,
la valle delle Sfingi e Covolo di Camposilvano, i basalto colonnari, ecc.




Ponte naturale di Veja



La Valle delle Sfingi è una suggestiva conca, incorniciata da pascoli e faggete,
caratterizzata dalla presenza di numerose sculture d’erosione selettiva
su rocce calcaree dalla tipica forma a fungo o a parallelepipedo.

Importante nel Parco è la grotta di Fumane posta nell’omonima valle.  Uno straordinario scrigno in
cui è rinchiusa la storia evolutiva dell’uomo. I reperti che vi furono rinvenuti erano costituiti da
manufatti in selce, resti fossili di mammiferi, focolari, accumuli di rifiuti ed anche dipinti su pietra.
Tutti reperti che documentarono la frequentazione della grotta da parte dell’Uomo di Neanderthal e
dei primi uomini moderni (Cro-Magnon/Homo sapiens).

Gli studi condotti nella grotta durano da tanto tempo ed è  un sito importante perché permetterebbe
di capire il passaggio dai Neanderthal ai Cro-Magnon o Homo sapiens.
Vengono studiati gli strati della grotta che presenta un accumulo di ben 10 metri di sedimenti che
coprono  80.000 anni.

Gli strati più bassi, tra 80.000 e 35.000 anni fa, erano quelli occupati dai Neanderthal e poi
all’improvviso intorno ai 34.000 anni si presentò ai ricercatori uno strato sterile.
Al suo interno non fu trovato nulla e immediatamente sopra furono trovati gli strumenti dei Cro
Magnon ovvero degli uomini moderni.

In quel piccolo strato sterile era concentrato un pezzo importante sull’evoluzione dell’uomo ovvero 
la drammatica estinzione dell'uomo di Neanderthal e l'invasione Cro-Magnon.


Negli scavi gli archeologi si resero del diverso modo di vita tra Neandertaliani e i  Cro-
Magnon.
 I primi ammassavano alla rinfusa i propri resti, accendevano fuochi ovunque, lavoravano la selce in
un altro punto, dormendo in un altro settore della grotta.
I Cro-Magnon erano invece in  grado di organizzare meglio i propri spazi, il proprio habitat. 
Negli strati dei Cro-Magnon furono trovati  strumenti che non erano presenti nei livelli
neandertaliani. Furono trovate delle punte di zagaglia ( lama in pietra, osso o corno) ed anche delle 
conchiglie marine forate utilizzate per farne delle collane.

Conchiglie forate
Erano due mondi totalmente differenti.
Fisicamente i Cro-Magnon non erano meno adatti alla vita nel clima freddo ma avevano sviluppato
utensili che permettevano loro di vivere dove volevano.
Fiocine per uccidere il pesce nei periodi in cui le prede terrestri scarseggiavano,  aghi d’osso per
cucire gli abiti ma lo strumento più potente era il  linguaggio.



Un Cro-Magnon cuce il suo abito
A differenza dell'uomo di Neanderthal la lingua  dei Cro-Magnon era più ricca e complessa.
Era la base fondamentale  per lo sviluppo  dell'arte della cultura che permetteva agli individui di
formare gruppi sociali molto più larghi, di formare alleanze nei momenti di bisogno.
I Cro-Magon  dimostrarono anche qualcosa che i  Neanderthal forse non possedevano: l’arte
rupestre che era presente nella grotta di Fumane.
Alcuni frammenti della volta della grotta di Fumane, crollati già in preistoria forse a causa del gelo,
furono trovati nei sedimenti.
Questi frammenti roccia, conservati nel Museo di Storia Naturale di Verona, avevano delle tracce di
ocra. La loro età supera i 33.000 anni e quindi si tratterebbe di alcune delle più antiche pitture di
uomo moderno mai scoperte fino ad oggi.
Cosa rappresenterebbero questi disegni?
L’abisso del tempo ci separa da queste primitive raffigurazioni dato che si tratterebbe di tratti
stilizzati spesso difficili da interpretare.
Oltre alle conchiglie, il ritrovamento eccezionale fu costituito da frammenti di roccia, con pittura in
ocra rossa.
I frammenti di roccia si staccarono dalla volta della grotta nel periodo aurignaziano (47.000 –
35.000 anni fa) e rimasero sul piano di calpestio  dell’epoca.
Ad epoca aurignaziana furono datate molte decorazioni parietali di grotte dell’area franco
cantabrica, queste ultime spesso utilizzate come grotte-santuario piuttosto che come abitazione, così
come fu evidente a Fumane.
Si tratta di cinque frammenti di roccia che furono rinvenuti in diversi punti della grotta.
Le dimensioni dei reperti variano da 10 ai 30 cm e presentano delle raffigurazioni in ocra rossa.
I disegni? Alcuni  presentano dei motivi schematici, altri motivi naturalistici (animali e vegetali) ed
una figura antropomorfa che fu definita “particolare”.
I frammenti, nella loro caduta dalla volta, sono fratturate in alcuni punti  e quindi i disegni non
sarebbero interi. Un aspetto tutto particolare fu che questi reperti furono trovati tutti capovolti alla
base del livello archeologico.
Questi aspetti dimostrarono come i frammenti si staccarono dalla volta o dalle pareti (che erano
quindi decorate) per effetto crioclastico durante l’occupazione aurignaziana del sito.
All’interno della grotta l’uso dell’ocra fu attestato in più punti.
Infatti furono rinvenuti circa 50 blocchetti di ocra rossa e gialla, oltre a due aree la cui superfice era
interamente ricoperta, una nella parte interna e l’altra nell’ingresso, corrispondenti ad una datazione
di circa 41.000 anni fa.
Successive  indagini permisero di affermare come l’ocra sia stata prelevata dalle cave poste ad una
distanza tra i 5 ed i 20 chilometri dalla grotta. Probabilmente l’età delle decorazioni delle rocce
sarebbe contemporanea ai depositi di ocra ritrovati.
Le pitture di Fumane sarebbero le più antiche forme di arte parietale europea.
1.     Il primo frammento (30x10x7)cm, raffigura un animale, un quadrupede, con un lungo collo ed
un corpo snello. Sarebbe probabilmente un mustelide o un felide. Mancano alcune parti (la coda, la
quarta zampa) per la rottura del reperto. Fu trovato sotto l’arco d’ingresso della grotta;
2.     Il secondo frammento, il più importante, fu rinvenuto all’entrata di una galleria secondaria,
vicino alla parete di fondo della camera principale a sinistra. Presentava le seguenti dimensioni
(21x11x8) cm e raffigura una figura umana stilizzata. Un corpo umano a sviluppo lineare, braccia
orizzontali e con le gambe divaricate. Sul capo triangolare, interpretato come una maschera,  vi
sono  due grandi corna; all’altezza dell’ombelico vi sono due piccole prominenze laterali; dal
braccio destro si nota qualcosa che pende, forse un animale o  un oggetto rituale.  L’interpretazione
di questa figura umana è ancora oggi in discussione. Si tratterebbe di una figura sciamanica. 
Raffigurazioni simili, trovate in diversi siti,  furono espresse nell’arte risalente al periodo
aurignaziano:
-        La statuetta in avorio dell’uomo-leone di Hohlenstein-Stadei;




La statuetta, una delle più antiche opere d’arte figurativa, fu trovata in una grotta
sita nella rupe di Hohlenstein, sul bordo meridionale della Lonetal (valle del Lone) ),
 nel Giura Svevo (una catena montuosa nel Baden-Wurttemberg) in Germania.


L’artista ricavò la statuetta da una zanna di mammut.
La testa leonina non presenta la criniera e questo aspetto fu spiegato dagli zoologi.
I leoni acquisirono la criniera soltanto nella fase più recente della loro evoluzione.
Infatti anche i leoni, raffigurati nelle grotte di Lascaux, sono privi di criniera.
Altra spiegazione sulla raffigurazione  sarebbe quella di una figura femminile cioè di una leonessa.
Sulla parte anteriore delle braccia e delle zampe sono visibili delle incisioni
Orizzontali che potrebbero rappresentare dei tatuaggi.
Gli arti superiori somigliamo molto a delle zampe animali piuttosto che a braccia,
mentre gli arti inferiori sembrano umani. Infatti, al posto delle zampe la statuetta
presenta dei piedi. Dopo questa descrizione, la statuetta si potrebbe dividere,
in modo schematico, in due parti: la parte superiore con la testa, il petto e gli arti superiori
sarebbe quella di un leone/leonessa mentre, a partire dal ventre e sino ai piedi
l’aspetto sarebbe quello di un essere umano. Il sesso è difficile da determinarsi.
La datazione? Nel punto esatto in cui venne recuperata la preziosa statuetta,
furono trovate numerose schegge di avorio che si adattavano perfettamente al reperto.
La datazione delle ossa, trovate accanto a queste schegge, diede una datazione di
35.000 – 41.000 anni. L’aspetto affascinante della ricerca, permise di trovare
nella grotta anche degli splendidi pendenti scolpiti in avorio di mammut e
denti perforati di animali risalenti al periodo e facies culturale dell’Aurignaziano.
Nella grotta fu rinvenuto la diafisi di un femore destro (lunga circa 25 cm).
Il reperto fu rinvenuto in uno strato associato a manufatti della facies musteriana del
Paleolitico medio. Era l’unico fossile umano, rinvenuto in un contesto musteriano, di
tutta la regione del Giura svevo. Si cercò di datare il reperto e la datazione molecolare diede come risultato un’età di 124.000 anni. Nel 2017  gli archeologi sequenziarono il reperto con
il genoma mtDNA completo del femore. Il risultati confermarono all’appartenenza del
femore ad un Neanderthal. L’analisi diede anche un altro importante risultato.
Gli archeologi stimarono che il mtDNA del Neanderthal di Hohlenstein-Stadel, si
sarebbe discostato da altri gruppi di Neanderthal circa 270.000 anni fa.
Il sito fu abbandonato dai Neanderthal e riabitato dai Cro-Magnon.
Le autorità tedesche chiesero l’iscrizione del sito, nel 2017, all’Unesco come
Patrimonio dell’Umanità
Grotte e arte dell'era glaciale nel Giura Svevo.
Sembra che ancora oggi la richiesta non sia stata esaminata o approvata.



……………………………..

-        Le figure sciamaniche con corna dipinte nella grotta des Trois-Ferres in Francia;




………………………

-        Nella grotta del Genovese nell’isola di  Levanzo in Sicilia.



Grotta Cala dei Genovesi (Levanzo –  Favignana - Isole Egadi)
Figura dipinta in ocra.
………………………..
1.     Il terzo frammento fu rinvenuto vicino  al secondo reperto. Presentava delle dimensioni di (20x17x12)cm e, in merito alla raffigurazione (forse un animale) non fu possibile interpretarla con chiarezza a causa del reperto che è mancante di alcune parti.
2.     Si tratta del reperto più grande (35x20x8) cm. Fu trovato nei pressi dell’ingresso di una galleria, quella più a sinistra. La raffigurazione è costituita da un motivo circolare dal quale si diramano tre tratti da un lato ed un altro tratto più lungo, quasi ovale, dalla parte opposta. L’interpretazione non fu facile. Forse si tratterebbe di una figura umana
3.     Il quinto reperto fu trovato vicino al reperto precedente. Presentava le dimensioni (14x7x5) cm e forse sarebbe la figura di un animale (il repertò è mancante di alcune pezzi).






Planimetria della grotta di Fumane in periodo Aurignaziano
(i numeri romani indicano i punti in cui furono trovati i frammenti di roccia dipinti)





Frammento di roccia con raffigurazione forse di un mustolide o un felide.

Il disegno sarebbe la figura di uno sciamano

Frammento di roccia con la figura di un animale?

Quarto frammento – un motivo circolare di difficile interpretazione (forse una figura umana)




Quinto frammento – La rappresentazione di un animale?










Un altro sito in Italia che fu abitato dai Neanderthal e dai primi Homo sapiens (Cro-Magnon) è
quello di Grotta del Cavallo. In questo sito fu probabile che le due specie di Homo si siano
incontrate fra 47.000 e 40.000 anni fa.  Anche in questo sito non ci sarebbero testimonianze
archeologiche che le due specie abbiano convissuto.

Grotta del Cavallo
La grotta del Cavallo è una grotta costiera, di natura calcarea, posta nel comune di Nardò e lungo la
osta salentina. Nella zona sono presenti altre grotte naturali ubicate nella baia di Uluzo. Baia che si
trova all’interno del Parco Regionale di Porto Selvaggio. Il nome della grotta fa riferimento al gran
numero di resti fossili di asinidi (Equus hydruntinus, specie estinta).
La grotta si trova a circa 15 m sul livello del mare attuale. L'entrata è di forma arrotondata,
(larghezza, 5m – altezza, 2,5 m), orientata verso il mare. Ha dimensioni modeste dovute alla
formazione per scorrimento di corsi d'acqua ipogei.

Sulla stessa baia si aprono altre due grotte indagate da archeologi, denominate Grotta di Uluzzo (o
Uluzzo B) e Grotta Cosma (Uluzzo C).
Durante degli scavi eseguiti nel 1964 furono rinvenuti due denti molati decidui in una serie
stratigrafica di circa 7 metri con più livelli di età paleolitica. I reperti rivenuti furono datati
nell’facies Uluzziana (34.000 – 31000) anni fa e cioè una cultura di transizione tra il Paleolitico
medio e il Paleolitico superiore. (il termine deriva dall’area della scoperta).
I reperti furono all’inizio attribuiti all’Homo di Neanderthal. Il riferimento era legato al
ritrovamento di strumenti di pietra e ornamenti realizzati con conchiglie tipici delle culture
neandertaliane, tant'è che la cultura uluzziana fu creduta una delle ultime espressioni dell'Homo
neanderthalensis.
Gli scavi furono sospesi e la grotta fu oggetto di atti di vandalismo ed anche di scavi clandestini.
Sono negli anni ’70 il prof. Arturo Palma di Cesnola  riavviò le indagini sistematiche in
collaborazione con la locale Soprintendenza ai Beni Archeologici.
Nei suoi saggi stratigrafici il prof. Palma di Cesnola individuò una spiaggia fossile risalente a circa
150.000 anni fa sulla quale s’impostava una sequenza stratigrafica del Musteriano, cioè il complesso
culturale dell’Homo neanderthal e destinato a diventare il punto di riferimento per il Paleolitico
medio (150.000 – 40.000 anni fa) della Puglia.
La seconda unità crono-culturale era rappresentata dall’Uluzziano, una facies nuova per quei tempi,
scoperta per la prima volta proprio a Grotta del Cavallo, che Cesnola denominò appunto sulla base
del toponimo della Baia di Uluzzo.
Nel 2011 un gruppo di ricercatori guidati da Stefano Benazzi del dipartimento
di antropologia dell'università di Vienna, pubblicò un articolo per la rivista Nature in cui affermò
come
i denti rinvenuti nella grotta del Cavallo non appartenessero ad un Homo neanderthalensis, bensì
ad uno dei primi esemplari di Homo sapiens vissuto tra i 43000 e i 41000 anni a.C.[9]. Quindi
secondo Benazzi questi risultati indicano che la cultura uluzziana non va attribuita ai Neanderthal
bensì a umani moderni.
Il dibattito è ancora oggi è aperto.

I Cro-Magnon, con i loro modelli di struttura sociale e di cultura, ebbero un impatto sull’ambiente
che i Neanderthal non riuscirono a contrastare.
Nel maggiore periodo di sviluppo dei Neanderthal si stimò che circa 50.000 anni fa vivessero in
questa regione della Francia almeno 100.000 neandertaliani.
La diffusione dell’uomo moderno dall’Africa e dall’Asia fu inarrestabile e i gruppi di Cro-Magnon,
anche costituiti da un centinaio di individui, riuscirono a colonizzare i migliori territori europei
assumendo il monopolio delle risorse ambientali.
I neandertaliani furono cacciati dalle loro vallate e, almeno quelli che sopravvissero, si stabilirono
sugli inospitali altopiani della Croazia e della Crimea o ad Ovest verso le coste montuose d’Italia,
Portogallo e Spagna.
35.000 anni fa la loro popolazione era ormai scesa a poche migliaia di individui.
Per evitare lo scontro con i Cro-Magno si spinsero in territori per loro ignoti ed anche inospitali.
Nei gruppi quei rapporti umani che un tempo li univano saldamente cominciarono a sfaldarsi.
Le qualità dei Neanderthal  erano state: la forza, l’unità e l’autosufficienza.
Qualità che avevano garantito la sopravvivenza della loro specie attraverso le varie ere glaciali, ma
di fronte alla competizione con uomini di cui non sapevano nulla, questi punta di forza si
trasformarono in debolezze che contribuirono a determinare il destino finale della specie.
Una fine non dovuta quindi ad un genocidio o ad un evento catastrofico naturale, ma legata a
qualcosa di meno drammatico.
I Neanderthal pagarono il loro isolamento volontario dagli altri gruppi consimili e non riuscirono
quindi a competere con una specie che aveva migliori strategie per la sopravvivenza.
La loro sorte poteva essere evitata, infatti gli studiosi affermarono che con appena un tasso di
natalità superiore solo del 2%, l’uomo di Neanderthal avrebbe potuto evitare l’estinzione.
Neanderthal e Cro-Magnon erano due specie distinte ma era sempre degli esseri umani spinti da
desideri e passioni. Probabilmente molti Cro-Magnon e Neanderthal si accoppiarono generando  un
figlio/a.
Sulla questione s’instaurò un acceso dibattito per cercare di capire se nel nostro sangue sia presente
un antichissimo sangue di Neanderthal. Gli esami dei reperti fossili umani sembrano aver dato una
risposta  a questo difficile quesito. Ci sarebbero uomini di Neanderthal tra i nostri antenati?
Sembrerebbe di no.
Recenti studi misero a confronto frammenti di DNA estratto da resti fossili di Neanderthal con
frammenti analoghi appartenenti a uomini moderni.
Le differenze sarebbero risultate molto profonde da escludere che fra i nostri geni vi siano tracce di
DNA ereditato dai Neanderthal.
Eppure Neanderthal e Cro-Magnon  coabitarono alcune regioni e sarebbe quindi logico pensare a
degli accoppiamenti fra i due gruppi.
Alcuni storici affermarono come Cro-Magnon  e Neanderthal fossero troppo diversi per dare alla
luce dei bambini perfettamente sani e in grado a loro volta di avere dei figli.
Appartenendo a due specie diverse avrebbero dato alla luce dei figli sterili.
Non tutti gli scienziati erano concordi con  questa tesi affermando come i loro discendenti siano stati
presenti in Europa per molto tempo.
Circa 28.000 – 30.000 anni gli ultimi Neanderthal, nelle zone remote della Spagna meridionale,
dell’Italia centrale e della Croazia morirono. Lasciarono il pianeta alla nuova specie, l’Homo
sapiens.
Il Neanderthal era riuscito a sopravvivere per ben 250.000 anni riuscendo a contrastare il più forte
clima rigido che il mondo abbia mai conosciuto.
L’uomo moderno lo ha sostituito da meno di 30.000 anni ed è ancora all’inizio del suo viaggio
perché dovrà dimostrare la capacità di resistenza e sopravvivenza.
Dovrà essere in gradi di dimostrare tutto questo anche  se, considerando gli sviluppi attuali, sembra
incapace di superare la prova perché si sta autodistruggendo.

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Nel Maggio 2019 il CNR (Centro Nazionale Ricerche) rese pubblica la sua interessante ricerca dal
titolo:
Svelata la causa dell'estinzione dei Neanderthal e di altri mammiferi
Quarantamila anni fa durante l’Evento di Laschamp, il campo magnetico terrestre subì un
improvviso crollo (circa il 25% del valore attuale) con il conseguente aumento di radiazioni ultra-
violette (UVR), i cui effetti selezionarono i nostri antenati Cro-Magnon (Homo sapiens) a scapito
dei neanderthaliani.
Questo evento determinò una variazione genetica di una proteina sensibile ai raggi UV, il recettore
arilico (AhR) e ciò fu determinante nella selezione. Il breve intervallo di tempo (circa 2000 anni) fu
sufficiente nel  porre fine ai Neanderthal e sviluppare i nostri antenati Sapiens.
L’interessante studio fu condotto dal Cnr-Ismar e dall’Università della Florida e pubblicato
su Reviews of Geophysics.
 L’Evento di Laschamp.
Volcaniques de LaschamP
L’escursione di Laschamp fu un breve periodo di inversione del campo magnetico terrestre.
Questa escursione avvenne 41.000 (+/- 2.000) anni fa cioè nel Pleistocene Superiore, durante
l’ultima era glaciale (Wurm).
La prova di questo evento si ebbe alla fine degli anni 1960 quando furono effettuati degli studi
magnetostratigrafici sui flussi di lava di Laschamp e Olby (nel distretto di Clermont-Ferrand).

L'evento di Laschamp nelle lave della Chaîne des Puys:
in nero le colate il cui paleomagnetismo indica una direzione del campo terrestre opposta a quella attuale, in grigio quelle che indicano una direzione intermedia.
Nelle lave furono rilevate le prove di un’inversione magnetica in quell’epoca (41. 000 +/-2.000)anni
fa. Gli studi successivi al 1960 permisero  di evidenziare  le tracce dell’escursione magnetica negli
archivi geologici ( rocce vulcaniche, carotaggi di sedimenti marini e di ghiacci polari, negli anelli
degli alberi, ecc.) di diversi siti del pianeta.
L’inversione del campo magnetico durò circa 440 anni con un periodo di transizione, a partire dal
campo normale, di circa 250 anni.
L’intensità magnetica del campo invertito era inferiore del 75% rispetto a quella del campo normale,
mentre nella fase di transizione era scesa ad un valore pari soltanto al 5% dell’intensità attuale.
L’inversione magnetica causò l’esposizione della Terra ad una grande quantità di radiazioni con il
conseguente aumento di produzione di radionuclidi cosmogenici, tra cui il berillio-10 e il carbonio
-14.
Questa escursione, secondo studi del 2019, avrebbe portato all’estinzione di diversi mammiferi e
dell’uomo di Neanderthal.
Questo periodo fu definito come escursione geomagnetica perché la sua durata fu inferiore a 30.000
anni. Nella letteratura fu anche classificato come evento perchè, rispetto a quando accade nelle
escursioni, esso colpì l’intero globo terrestre. Infatti la diminuzione del campo magnetico fu
osservata in diverse parti del globo. Nelle escursioni la variazione dell’orientamento dei poli 
sarebbe al massimo di 45 gradi, nel caso dell’evento di Laschamp ci fu un inversione completa dei
poli.
L’escursione di Laschamp fu  infatti ricordata nella storia geologica del pianeta come una delle
poche escursioni conosciute che interessarono tutto il globo.
I ricercatori geologi dell’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di
Bologna (Cnr-Ismar) e dell’Università della Florida (Gainesville), combinarono le datazioni sulla
scomparsa dei Neanderthal, dai principali siti paleolitici, con l’evento di Laschamp (41.030  -
39.260) anni fa.
Nel team di ricerca erano presenti due famosi paleomagnetisti: Luigi Vigliotti e jim Channell che
identificarono  nell’evento di Lashamp, una delle principali escursioni del campo magnetico
terrestre, avvenuta 41.000 anni fa (41.000 +/- 600 anni), come il fattore che probabilmente
determinò l’estinzione dei Neanderthal.
Nella ricerca si evidenziò come il campo magnetico funzioni da schermo protettivo contro i raggi
UV provenienti dal cosmo. Questa caduta di protezione diede alla radiazioni UV la capacità di
selezionare in modo irreversibile  i Cro-Magnon a danno dei Neanderthal. Questo a causa di una
variante genetica di una proteina nota come recettore arilico (AhR), sensibile agli UV.
Questo fu fatale ai Neanderthal nel breve intervallo di tempo (circa 2000 anni) di minima intensità
del campo magnetico.
Il prof. Luigi Vigliotti del Cnr-Ismar….
Neanderthal e Sapiens hanno convissuto, incrociandosi, per alcune migliaia di anni, come
dimostrano le ‘impronte’ lasciate nel nostro DNA e i tratti somatici di alcuni individui
contemporanei … La loro estinzione è stata oggetto di numerose ipotesi, incluso l’istinto ‘fratricida’
dei nostri antenati. Nel 2016 un gruppo di biologi molecolari ha scoperto l’esistenza di una piccola
variante genetica Ala-381 nel recettore arilico dei Neanderthal rispetto al Val-381 dei Sapiens (e
dei fossili Cro-Magnon), che fu interpretata come un vantaggio nell’assorbimento delle tossine
prodotte dal fumo legato allo stile di vita trogloditico. Il recettore arilico è infatti fondamentale nel
regolare l’effetto tossico della diossina. La coincidenza con i tempi dell’estinzione dei Neanderthal
suggerisce che invece fu lo stress ossidativo prodotto dalla mancanza dello schermo fornito dal
campo magnetico terrestre rispetto ai raggi UV ad essere responsabile della loro scomparsa.
Molti organismi acquatici e terrestri hanno sviluppato strategie per limitare i danni che i raggi UV -
in aggiunta ai loro effetti positivi nella sintesi della vitamina D e nel contrastare virus, batteri e
parassiti - possono procurare alla struttura del DNA.  Non è un caso, secondo il nostro studio, che
la fine del Laschamp segni l’uscita di scena dei Neanderthal e l’espansione dei Cro-Magnon, cioè
dell’uomo moderno…. Il Laschamp non fu per altro fatale solo ai neanderthaliani. Nello stesso
intervallo di tempo in Australia si estinsero 14 generi di mammiferi, soprattutto di grossa taglia,
come dimostra la drastica diminuzione nei sedimenti delle tracce di ‘sporormiella’, un fungo
coprofilo che vive sullo sterco di grandi animali erbivori, proprio in corrispondenza del minimo di
intensità del campo magnetico terrestre. Un altro minimo osservato circa 13 mila anni fa portò alla
scomparsa di 35 generi di grandi mammiferi in Europa e soprattutto in Nord America intorno a
questo intervallo di tempo, quasi in un ‘istante’ geologico. Questi due focolai di estinzione
dipendono dalla diminuzione dell'ozono stratosferico durante gli episodi di bassa intensità di
campo magnetico e dal ruolo della radiazione ultravioletta ben più che dal comportamento da parte
dell'uomo o dal cambiamento delle condizioni climatiche.
La ricerca analizzò anche le relazioni tra l’intensità del campo magnetico e l’evoluzione umana
negli ultimi 200 mila anni, l’intervallo di tempo che vide lo sviluppo dell’Homo sapiens.
Abbiamo integrato tutti i dati fossili esistenti con le datazioni delle ramificazioni principali
dell’evoluzione umana in base all’analisi del DNA mitocondriale e del Cromosoma-Y. Nonostante la
scarsità dei materiali fossili e i margini di errore delle metodologie utilizzate per ricostruire l’età
delle ramificazioni dei vari aplogruppi (gruppi con lo stesso profilo genetico) umani, abbiamo
trovato interessanti relazioni…. La datazione a circa 190 mila anni fa dei resti fossili del più antico
Sapiens conosciuto (Omo Kibish, trovato in Etiopia) e del Mithocondrial Eve, il nostro più recente
antenato comune su base matriarcale, coincide con un altro momento di assenza del campo
magnetico terrestre noto come Iceland Basin Excursion. L’evoluzione umana ha poi avuto vari
sviluppi concentrati tra 100 e 125 mila anni fa, nell’ultimo interglaciale, che hanno fatto
considerare il clima uno dei fattori che hanno guidato l’evoluzione. Anche in questo caso però
registriamo un altro minimo del campo magnetico terrestre: l’evento di Blake (125-100 mila anni
fa). Con il procedere delle conoscenze sulla ricostruzione del campo magnetico, del suo ruolo nel
modulare i raggi UV e di quello dell’AhR rispetto agli effetti di queste radiazioni, e quando saranno
disponibili più accurate datazioni di nuovi reperti fossili e miglioramenti nella filogenesi umana, si
chiarirà meglio il ruolo che l’intensità del campo magnetico gioca nell’evoluzione di tutti i
mammiferi e forse non solo.

Altre ricerche sul cambio del magnetismo terrestre.
Nell’ottobre 2012 fu pubblicata una ricerca  del centro
Helmholtz Associazione dei Centri di Ricerca Tedeschi
dal titolo:
Un'inversione estremamente breve del campo geomagnetico,
la variabilità climatica e un super vulcano
La mappa che i ricercatori pubblicarono è drammatica perché evidenzia un aspetto nel
territorio italiano legato ai Campi Flegrei……

L'inversione di polarità è stato un evento globale.
© Dr. habil. Norbert R. Nowaczyk / GFZ
Traduzioni delle legende:
1.     Italia: una mega-eruzione nei Campi Flegrei devasta tutto il Sud-Est Europa;
2.     Eurasia Nord America: frequenti rapidi raffreddamenti e segnali di allerta durante la lunga glaciazione influenzano l'ambiente;
3.     Mar Nero: i sedimenti sulla dorsale Archangelsky a 60° registrano un'inversione completa del campo magnetico terrestre, l'eruzione del campo Plegreano (Campi Flegrei) e tutti gli eventi di rapido raffreddamento e riscaldamento dell'ultima glaciazione;
4.   In tutto il mondo: Al 41.100 anni B.P. (prima del presente) le bussole puntano verso sud.


Le ricerche furono effettuate dal GFZ German Research Centre for Geosciences sui carotaggi di
sedimenti del Mar Nero. Studi che confermarono il periodo di 41.000 anni fa con l’inversione di
polarità terrestre.
In quel periodo, durante l’ultima era glaciale, una bussola sul Mar Nero avrebbe puntato a Sud
invece che a Nord. I dati ottenuti, insieme ai dati aggiuntivi di altri studi effettuato nel Nord
Atlantico, nel Sud Pacifico e nelle Hawaii, dimostrarono come l’evento fu globale.
La ricerca venne pubblicata nella rivista scientifica “Earth and Planetary Science Letters”.
I  ricercatori furono sorpresi dalla velocità dell’inversione del campo geomagnetico…
La geometria del campo di polarità invertita, con linee di campo che puntano nella direzione
opposta rispetto alla configurazione odierna, è durata solo circa 440 anni ed è stata associata a
un'intensità di campo che era solo un quarto del campo odierno, (Norbert Nowaczyk). "
I veri e propri cambiamenti di polarità sono durati solo 250 anni. In termini di scale temporali
geologiche, è molto veloce.
Durante questo periodo, il campo era ancora più debole, con solo il 5% dell'intensità di campo
odierna. Di conseguenza, la Terra ha quasi completamente perso il suo scudo protettivo contro i
raggi cosmici duri, portando a un'esposizione alle radiazioni significativamente aumentata .
Ciò è documentato dai picchi di berillio radioattivo (10Be) nei carotaggi di ghiaccio di quel
periodo, recuperati dalla calotta glaciale della Groenlandia . Il 10Be, così come il carbonio
radioattivo (14C), è causato dalla collisione di protoni ad alta energia provenienti dallo spazio con
gli atomi dell'atmosfera.

Polarità normale e inversa della Terra.
© Dr. habil. Norbert R. Nowaczyk / GFZ

L'inversione di polarità riscontrata con la magnetizzazione dei sedimenti del Mar Nero era nota già
da 45 anni. Fu  scoperta per la prima volta dopo l'analisi della magnetizzazione di diversi flussi di
lava nei pressi del villaggio di Laschamp vicino a Clermont-Ferrand nel Massiccio Centrale, che
differivano significativamente dall'attuale direzione del campo geomagnetico . Da allora, questa
caratteristica geomagnetica era nota come "evento di Laschamp". Tuttavia, i dati del Massiccio
Centrale rappresentarono solo alcune letture puntuali del campo geomagnetico durante l'ultima era
glaciale, mentre i nuovi dati del Mar Nero fornirono un'immagine completa della variabilità del
campo geomagnetico ad alta risoluzione temporale.
Oltre a fornire prove di un'inversione del campo geomagnetico 41.000 anni fa, i geologi di
Potsdam scoprirono numerosi bruschi cambiamenti climatici durante l'ultima era glaciale nei
carotaggi analizzati del Mar Nero, come era già noto dai carotaggi di ghiaccio della
Groenlandia. Questa analisi consentì una sincronizzazione ad alta precisione dei due record di
dati del Mar Nero e della Groenlandia. La più grande eruzione vulcanica nell'emisfero
settentrionale negli ultimi 100.000 anni, vale a dire l'eruzione del supervulcano 39.400 anni fa
nell'area degli odierni Campi Flegrei vicino a Napoli, Italia, era anche documentata
all'interno dei sedimenti studiati del Mar Nero. Le ceneri di questa eruzione, durante la quale
furono espulsi circa 350 chilometri cubi di roccia e lava, furono distribuite su tutto il
Mediterraneo orientale e fino alla Russia centrale. Questi tre scenari estremi, ovvero
un'inversione breve e rapida del campo magnetico terrestre, la variabilità climatica a
breve termine dell'ultima era glaciale e l'eruzione vulcanica in Italia, furono studiati per la
prima volta in un unico archivio geologico e disposti in preciso ordine cronologico.
Ulteriori informazioni: Nowaczyk, NR; Arz, HW; Frank, U.; Kind, J.; Plessen, B. (2012): "Dinamica dell'escursione geomagnetica di Laschamp dai sedimenti del Mar Nero" Earth and Planetary Science Letters, 351-352, 54-69. doi:10.1016/j.epsl.2012.06.050
Informazioni sulla rivista: Earth and Planetary Science Letters
Fornito da Helmholtz Association of German Research Centres

L’eruzione di 39.000 anni fa nei Campi Flegrei fu una delle concause che determinarono
l’estinzione dei Neanderthal?
Ma quale fu lo scenario di questa eruzione
I Campi Flegrei sono un'area vulcanica in Campania che comprende circa 40 centri vulcanici. Si
estendono per circa 450 kmq, dall'isola di Procida a buona parte della città di Napoli. 

Un’interessante cartina dell’INGV

ka - unità di tempo uguale a mille anni (kiloannum)
Carta geologica schematica dei Campi Flegrei (modificata da Isaia et al., 2019)

Quella di 39.000 anni fa (circa) fu  una violentissima eruzione.
La rivista scientifica Geophysical Research Letters rilevò come l’eruzione della caldera dei Campi
Flegrei fu così devastante da influenzare in modo significativo i processi demografici delle 
popolazioni del Mediterraneo e in particolare nelle zone centrali ed occidentali.
In queste zone erano presenti sia i Neanderthal che i Cro-Magnon.
L’esplosione del vulcano avrebbe coperto molte regioni di ceneri vulcaniche e per via del materiale
eruttato, l’evento stesso viene conosciuto come ignimbrite Campana. L’ignimbrite è una roccia
piroclastica generata dallo stesso flusso piroclastico cioè un flusso bifasico di particelle solide e
successivamente disperse in una fase gassosa.
Gli studiosi sono riusciti a stimare l’enorme quantità di materiale disperso dall’eruzione.
L’eruzione avrebbe sparpagliato tra i 250 – 300 kmc di cenere su un’area estesa di circa 3,7 milioni
di kmq.

Un dato che dovrebbe essere attenzionato perché questo volume rappresenta da 2 a 3 volte la
quantità di cenere che era stata precedentemente ipotizzata.
Una grandissima quantità di cenere e per evidenziare questo aspetto basta fare il confronto con
l’eruzione del Vesuvio che eruttò appena 10 kmc di cenere.
In tempi recenti un altro esempio sarebbe legato all’eruzione del Tambora che nel 1815 erutto circa
100 kmc di cenere.
L’eruzione si verificò in diverse fasi:
1.     Eruzione freatomagmatica cioè un’eruzione prodotta dalle interazioni fra acqua calda e magma.
L’acqua a contatto con il magma diventa vapore. Il vapore subito fa aumentare la pressione che, a
sua volta, fa aumentare l’esplosività;
2.     Subito dopo seguì una seconda fase detta pliniana nella quale s’innalzò una colonna eruttiva che
oscillò, per circa 20 ore, tra 20 -38 km d’altezza;
3.     Questa mostruosa colonna eruttiva, ad un certo punto collassa. Questo collossamento determinò
la formazione di grandi correnti piroclastiche chiamate “nubi ardenti”. Queste correnti piroclastiche
avevano uno spessore di circa 1,5 km e una velocità, che fu stimata, di 220 m/s pari a 792 km/h.
Questa fase di flussi piroclastici durò circa sette ore. Vennero immessi ben 67 kmc di magma (il
Vesuvio nella distruttiva eruzione del 79 d.C. emise circa 6 – 8 kmc di magma),
I flussi piroclastici raggiunsero Roccamorfina a Nord; verso Sud, attraverso il golfo di Napoli,
raggiunse la penisola sorrentina e verso interno, lungo la piana, superando le modeste colline.
I flussi piroclastici arrivarono ad oltre 80 km dai Campi Flegrei.
Dopo circa sei ore la corrente piroclastica cominciò ad indebolirsi e a ritirarsi invadendo aree
sempre più ristrette.
La camera magmatica emise tanto magma da svuotarsi e questo causò un enorme collasso dell’area
tanto da formare una grande depressione, una grande caldera.
Le ceneri dell’eruzioni furono rinvenuti nei sedimenti del Mar Nero e studi recenti dimostrarono
come una così ampia deposizione di ceneri fu legata all’azione dei venti.
Si calcolò come nell’atmosfera fossero distribuiti ben 450 milioni di kg di anidride solforosa. La
presenza dell’anidride solforosa nell’atmosfera avrebbe determinato una diminuzione della
temperatura di circa 2gradi per quasi tre anni.
La presenza di questi cloruri di zolfo nell’atmosfera causarono anche delle piogge acide che
permisero alla cenere colma di fluoro di entrare nel ciclo vegetale causando effetti dannosi all’uomo
nei denti e negli organi. Degli studi al radiocarbonio avrebbero visualizzato come i Neanderthal si
sarebbero estinti circa 10.000 anni primo rispetto a quanto ipotizzato. In quel periodo la specie era
già in forte diminuzione se non al limite dell’estinzione e l’eruzione sembra che abbia inferto il
colpo mortale. Questa sarebbe un’altra tesi sulla scomparsa dei Neanderthal. Certo sono ipotesi,
forse la realtà sulla scomparsa dei Neanderthal non si saprà mai, ma le enormi quantità di cenere che
colpì l’Europa, l’Asia e parte ella Russia, impedì, come affermano gli storici, ai raggi del sole di
colpire la terra per anni con il conseguente abbassamento delle temperature.
Le piogge acide diedero anche il loro contributo rendendo i terreni aridi con gravi danni alla flora ed
alla fauna.

Altre testimonianze geologiche dell’inversione del campo magnetico terrestre
Anche nel continente australiano, il carotaggio di un sedimento risalente a 41.000 anni fa fornì la
testimonianza dell’”Escursione di Laschamps” che provocò delle bellissime aurore polari anche a
latitudini temperate.
Gli aborigeni della Tasmania vissero questa esperienza e chissà con quale stato d’animo.
Le indagini furono effettuate nel lago subalpino di Selina (Australia)


Le ricerche  sugli effetti dell’escursione nel territorio australiano erano state scarse e non si avevano
quindi dati sulle modifiche apportate al clima e alla vita. C’erano stati degli studi risalenti al 1980
circa ma non conclusi.
La ricercatrice Agathe Lisé Provonost, della School of Earth Sciences dell’Università di Melbourne, 
nel 2010 in collaborazione con altri studiosi…
È il primo studio di questo tipo in Australia dopo quelli pionieristici degli anni ’80……
Solo due laghi nel nord-est dell’Australia avevano fornito in precedenza dei dati
“a vettore completo”, in cui sia le direzioni che le intensità del campo
magnetico terrestre del passato siano presenti negli stessi carotaggi.
La ricerca fu pubblicata nella rivista scientifica “Quaternary Geochronology”..
Fu effettuata una perforazione di 5.5 metri sul fondo del lago Selina che consentì di condurre una
serie di indagini radiometriche, geomagnetiche e climatiche che arrivano a circa 270mila anni fa.
In mezzo agli strati del carotaggio, uno dei più interessanti è senz’altro quello relativo a circa
41mila anni fa, quando il campo magnetico terrestre si invertì, dando origine ad aurore boreali
transitorie anche a latitudini temperate come le nostre e come quelle del continente australiano.
IL lago Selina presenta una superficie di circa 20 ettari ( 800 metri di lunghezza x 350 metri di
larghezza) ed è l’espressione del tipico lago sub-alpino nato dallo scioglimento dei  ghiacci
dell’ultima glaciazione.
Un lago che presenta nei suoi sedimenti degli aspetti geologici molto importanti.
Le particelle magnetiche vengono erose dalle rocce e finiscono nel lago per via del vento o dei corsi
d’acqua, depositandosi sul fondo …. Queste particelle agiscono come dei minuscoli aghi di bussola,
allineandosi con il campo magnetico terrestre. Man mano che si accumulano e vengono sepolte, si
bloccano in posizione, lasciando una traccia del campo magnetico terrestre. Più andiamo a fondo
con i carotaggi, più torniamo indietro nel tempo.
Il carotaggio fornì informazioni dettagliate riguardanti clima, vegetazione e paleomagnetismo
dell’area. Informazioni con le quali i ricercatori tentarono di datare accuratamente i vari strati
trovando prove dei cambiamenti dell’ecosistema avvenuti 43 mila anni fa, quando arrivarono
gli aborigeni della Tasmania a occupare e gestire quelle terre.

Sugli Aborigeni della Tasmania ci sarebbe un paradosso storico che, ancora
nel 2023, non era stato corretto.
Nel 1982, un’agenzia dell’Unesco dichiarò “estinti” gli aborigeni della Tasmania.
Nel 2023 l’UNESCO riconobbe il proprio errore e fu costretta ad aggiornare i suoi documenti tecnici. Per gli aborigeni si tratterebbe di retorica razzista nei loro confronti.
L’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), l’organizzazione responsabile della “lista rossa” delle specie animali e vegetali a rischio di estinzione, rimosse un documento ritenuto “offensivo” nei confronti degli aborigeni della Tasmania, stato insulare dell’Australia.
Per oltre 40 anni, infatti, la Iucn – che è un organo consultivo dell’Unesco per i beni naturali iscritti nella lista del patrimonio mondiale – aveva sostenuto pubblicamente che i popoli aborigeni della Tasmania fossero estinti. L’affermazione inaccurata, pronunciata in occasione della nomina della Tasmania a Patrimonio mondiale della wilderness nel 1982, recitava che “i tasmaniani sono ora una razza estinta di esseri umani”.  La dichiarazione fu quindi rimossa, poiché ritenuta non vera, dopo una serie di pressioni.
Gli aborigeni della Tasmania esistono da 35mila anni e non si sono mai estinti.
Negare l’esistenza di qualcuno è la cosa peggiore che tu possa fare a una classe di persone, in particolare verso una classe di persone che è sopravvissuta a un genocidio”, 
commenta Rebecca Digney, manager di Alct,
denunciando la “retorica razzista” delle istituzioni occidentali.
Inoltre, la richiesta di correzione non è così recente.
Intervistata dal Guardian, la ministra australiana dell’ambiente Tanya Plibersek
spiegò di aver chiesto all’Onu di correggere le sue affermazioni in un incontro avvenuto a Parigi già a maggio dell’anno in corso ma che l’agenzia si  rifiutò di farlo.
Lo Iucn ha smentito questa affermazione, dicendo che non aveva ricevuto alcuna richiesta e di aver rimosso l’informazione in oggetto non appena l’articolo del Guardian fu pubblicato.
La popolazione degli aborigeni della Tasmania subì una forte diminuzione a causa delle
epidemie portate dagli europei e dei conflitti con i coloni inglesi (anche per il
comportamento degli inglesi con le loro violenze, stupri, rapimenti, ecc.).
Nel 1828 scoppiò la Guerra Nera e vene introdotta la legge marziale nei confronti  degli
aborigeni. Fu istituita la famosa “linea nera” e gli aborigeni dovevano essere muniti
di particolari lasciapassare per raggiungere i  loro villaggi nel caso  di passaggio
tra gli insediamenti europei. Furono introdotte delle taglie per gli aborigeni che
erano sprovvisti di lasciapassare (5 sterline dell’epoca pari
a circa 850 euro attuali per gli adulti e 2 sterline per i giovani). Questo determinò
l’istituzione di ronde inglesi che diedero vita a forti cacce all’uomo che si
concludevano con eccidi come quello del Massacro di  Capo Grim.
Alcuni storici  stimarono la popolazione degli aborigeni in 15.000 individui  ma
nel corso del XVIII – XIX secolo subì una fortissima riduzione.
I primi esseri umani giunsero in Tasmania circa 40.000 anni fa (i manufatti più antichi ritrovati sull'isola furono rinvenuti nelle caverne di Warreen e risalivano a 34.000 anni fa.
I reperti rinvenuti durante degli scavi nei pressi di Brighton sembrerebbero essere ancora anteriori a 34.000 anni fa, rendendo di fatto i primi aborigeni tasmaniani la popolazione umana più meridionale del Pleistocene. Una penetrazione nell’isola attraverso l'istmo che allora congiungeva l'isola al resto dell'Australia durante l'ultima era glaciale. Tale istmo scomparve circa 8000 anni fa a seguito dell'innalzamento del livello del mare, che portò alla formazione dello stretto di Bass che lasciò isolate le popolazioni della Tasmania dal resto
delle popolazioni aborigene australiane.


L'isolamento totale in cui gli aborigeni tasmaniani vissero per millenni (dovuto anche al fatto che né loro, né gli aborigeni australiani svilupparono forme di navigazione, che avrebbero consentito contatti fra le due popolazioni) fece sì che molte delle nuove scoperte fatte nell'entroterra australiano rimanessero sconosciute agli abitanti dell'isola, rimasti infatti piuttosto "primitivi" rispetto alla maggior parte dei popoli indigeni della Terra. Ad esempio, essi ignoravano del tutto l'utilizzo di attrezzi in osso o uncini, così come il cucito, il boomerang, o le tecniche di accensione del fuoco. Quest'ultimo veniva ricavato a partire dagli incendi naturali, e portato di comunità in comunità da uomini appositamente delegati. Gli aborigeni della Tasmania, inoltre, non costruivano capanne o similari (sebbene attualmente si sia propensi a credere che di tanto in tanto venissero costruite capanne di frasche per proteggersi dal freddo o dalla pioggia), preferendo vivere in grotte.
A partire dagli anni '60 del XVIII secolo, gli aborigeni tasmaniani (ed in particolare gli appartenenti alla tribù di Oyster Bay), per i loro caratteri primitivi, richiamarono l'attenzione della comunità scientifica e diventarono oggetto di studi di fisica antropologica e paleoantropologia. Molti scheletri di aborigeni, o parti di essi (ad esempio i crani erano assai richiesti), vennero venduti agli istituti di tutto il mondo per effettuare studi di antropometria.
La pratica di asportare parti del corpo alle salme era molto criticata dagli aborigeni, che consideravano la pratica irrispettosa nei confronti dei morti e soprattutto perché nella cultura australiana aborigena era credenza comune che l'anima del defunto possa riposare in pace solo qualora questi venga sepolto nella sua terra natia. Tuttavia successivamente, a partire dal 2005 circa, molti musei e collezionisti restituirono i resti ricevuti negli anni passati. Il British Museum restituì nel 2007 i resti di alcuni aborigeni ai loro discendenti.

I ricercatori che effettuarono gli studi nel lago Selina affermarono come i primissimi abitanti
dell’isola possano aver assistito ad aurore polari – aurore australi, in questo caso – come quelle che
oggi vediamo ai poli.

Durante l’escursione geomagnetica, la forza del campo magnetico terrestre è quasi svanita. Questo comporta un forte aumento delle particelle cosmiche e solari che bombardano il nostro pianeta perché il campo magnetico normalmente agisce come uno scudo…… Non sappiamo quando avverrà la prossima escursione geomagnetica, ma se dovesse avvenire oggi, i satelliti sarebbero resi inutilizzabili, le app di navigazione per smartphone andrebbero in tilt e ci sarebbero gravi interruzioni nelle reti di distribuzione dell’energia.
Gli studiosi cercheranno di andare ancora più indietro nel tempo per
studiare il clima della Tasmania. Analizzeranno i sedimenti vetrosi del
Cratere Darwin, risalenti all’impatto con un meteorite avvenuto circa 816.000 anni fa.


Nuova Zelanda …. Ngawha

Durante dei lavori edili gli operai trovarono i resti fossilizzati di un grande albero Kauri che era
rimasto sepolto per ben 42.000 anni. A differenza della maggior parte dei resti fossili, questo albero
grazie anche alle sue grande dimensioni, si era mantenuto intatto mostrando i suoi anelli di crescita,
documenti importanti per la registrazione delle condizioni atmosferiche del passato.
L’antico albero di kauri, dissotterrato durante l’espansione dell’impianto geotermico a Ngāwhā,
misurava 65 piedi (19,82 m)  di lunghezza e 8 piedi (2,44 m) di diametro ed era perfettamente
conservato.

Gli scienziati capirono subito di trovarsi in presenza di un importante rinvenimento.
Analizzando gli isotopi di carbonio negli anelli del fusto dell’albero, furono in grado di ricostruire il
momento del cambiamento del campo magnetico terrestre noto come “escursione di Laschamps”
che permisero alle pericolose radiazioni di colpire il pianeta.
I ricercatori negli alberi secolari misurarono e datarono il picco nei livelli di radiocarbonico
atmosferico causato dal collasso del campo magnetico terrestre.
Come già  affermato, con l’indebolimento del campo magnetico terrestre, i livelli di radiazione
cosmica aumentarono notevolmente.
Ciò determinò gravissimi cambiamenti climatici, l’indebolimento dello strato di ozono e il pianeta
fu esposto ad un aumento di esposizione ai pericolosi raggi ultravioletti (UV).
Senza la barriera protettiva della magnetosfera la vita sul pianeta diventò difficile perché
l’esposizione alle radiazioni era molto forte.
I ricercatori affermarono come gli esseri viventi furono costretti a trovare riparo sottoterra. Questo,
secondo la loro ipotesi, coinciderebbe con il notevole sviluppo dell’arte rupestre in quel periodo
perché le popolazioni umane trascorrevano più tempo in spasi bui e chiusi.
Il prof. Alan Coopr, uno dei ricercatori, affermò come..
Riteniamo che i bruschi aumenti dei livelli di UV, in particolare durante le eruzioni solari,
renderebbero improvvisamente le grotte dei rifugi molto preziosi….. Il comune motivo dell'arte
rupestre delle impronte di mani in ocra rossa potrebbe indicare che veniva utilizzato come
protezione solare, una tecnica utilizzata ancora oggi da alcuni gruppi.
Con lo strato di ozono indebolito , l'esposizione alle radiazioni nocive sarebbe stata molto più
elevata, portando a mutazioni genetiche, problemi di salute e un aumento dello stress ambientale.
Se i Neanderthal erano già in difficoltà a causa della competizione con i primi Homo sapiens ,
un'improvvisa catastrofe ambientale avrebbe potuto dare il colpo di grazia.
Il futuro? Si potrebbe verificare un’altra inversione magnetica?
Alcuni studiosi rilevarono come il campo magnetico terrestre si stia indebolendo.
Negli ultimi 170 anni avrebbe perso circa il 9% della sua forza ed il polo magnetico Nord si sta
spostando molto rapidamente.
Un segnale che un’altra escursione geomagnetica sia vicina?
Il problema è: quando avverrà? Potrebbero passare anche migliaia di anni…naturalmente tutta la
comunità scientifica non è concorde con queste visioni preoccupanti. 

Il campo magnetico terrestre viene prodotto nella parte centrale del pianeta (il nucleo appunto, o
"the core" in inglese) in cui è situato una sorta di pallone centrale di ferro intorno al quale troviamo
uno strato di ferro liquido che possiede fluidi in continuo movimento. Le conseguenze di un
processo di inversione sarebbero sconvolgenti per la vita come la conosciamo oggi. Al di là di
aurore boreali a latitudini geografiche molto più basse, avremmo anche un aumento di radiazioni
solari.
Il prof. Angelo De Santis, responsabile della ricerca sul geomagnetismo all'Istituto nazionale di
Geofisica e di Vulcanologia,
la possibilità di una inversione di polarità magnetica è una questione non nuova nel mondo
scientifico, che ha ripreso piede alla luce del prossimo programma spaziale denominato "Swarm" il
quale prevede la messa in orbita nel 2009 da parte dell'Agenzia spaziale europea (Esa) di tre
satelliti scientifici posti a due quote diverse per garantire un salto di qualità negli studi
geomagnetici. La questione più importante è l'aumento di velocità di un processo che, in assenza di
un rafforzamento del campo, richiederebbe decine di migliaia di anni e che invece nella, dinamica
attuale, potrebbe portare a una inversione di polarità in mille-duemila anni.
Le ragioni del verificarsi di questo fenomeno "prosegue De Santis, tra l'altro collaboratore dell'Esa
nel programma "Swarm" e autore di numerosi articoli su riviste scientifiche, tra cui proprio una
sull'inversione del campo geomagnetico - possono dipendere da una molteplicità di fattori. E le
supposizioni fatte dagli studiosi nel corso degli anni vanno dal cambio delle condizioni strutturali
tra il nucleo e il mantello della terra, a un'inversione connaturata al sistema.
Personalmente ritengo che i meccanismi di rafforzamento e diminuzione del campo magnetico siano
dovuti ai moti turbolenti nella parte fluida metallica del nucleo terrestre e che l'energia che
alimenta tali moti possa essere dovuta, oltre alla rotazione terrestre, al processo di accrescimento
del nucleo interno solido a spese di quello fluido più esterno con produzione di "calore latente" che
alimenterebbe quindi nuovi flussi di campo magnetico prodotti dalla terra. Sostanzialmente tali
processi vengono chiamati di "dinamo terrestre autoeccitata.
L'impatto di questo fenomeno porterebbe alla diminuzione della capacità di schermatura del nostro
pianeta al vento solare. L'arrivo di un maggior numero di cariche elettriche in atmosfera
produrrebbe, in particolare, la distruzione dello strato di ozono e la penetrazione di radiazioni
ultraviolette che aumenterebbero i casi di malattie tumorali e leucemiche nella popolazione. Ma
avrebbe anche altri effetti per esempio sugli animali che utilizzano proprio il campo magnetico per
il loro orientamento, come tartarughe, balene, uccelli migratori e tantissime altre specie". da Il
Velino.it

Lo spostamento dei poli magnetici della Terra non causa il cambiamento climatico
Alcuni scienziati spiegarono l’infondatezza delle affermazioni che assocerebbero lo spostamento dei
poli magnetici della Terra al riscaldamento globale. Ma cosa significano realmente questi
cambiamenti geomagnetici?


L’immagine raffigura la magnetosfera, cioè le linee di forza magnetica che circondano il pianeta.
Secondo  gli studi il campo magnetico sarebbe generato dai movimenti del nucleo fuso della Terra e
protegge il pianeta dai raggi del Sole.
Tuttavia, secondo alcune scienziati, anche con un cambiamento del campo magnetico non si
avrebbero effetti sul clima.
Gli scienziati affermarono come le forze interne che creano il campo magnetico della Terra possono
cambiare e che l’intensità del campo stesso oscilla nel tempo. Questo può portare a graduali
cambiamenti nell’intensità e nell’ubicazione dei poli nord e sud magnetici terrestri, e addirittura alla
loro inversione, quando si verifica che i due poli si scambino tra di loro. 
Il tema della discussione scientifica sarebbe legato  in particolare alla eventuale connessione tra 
magnetismo terrestre e le condizioni climatiche, estinzioni o disastri.
Secondo alcuni scienziati questa connessione non avrebbe alcun fondamento.
Gavin Schmidt, climatologo e direttore del Goddard Institute for Space Studies (Istituto Goddard
per gli studi spaziali) della NASA a New York..
Non ci sono meccanismi credibili che possano supportarlo…. Non abbiamo escluso a priori gli
effetti dei cambiamenti magnetici sul clima, abbiamo preso in esame il loro potenziale impatto, ma
questo è risultato essere inesistente.
La denominazione “polo nord” indica tre punti diversi sulla Terra:
-        il vero Nord;
-        il Nord geomagnetico;
-        il Nord magnetico. 
Il cosiddetto vero nord è una posizione fissa sul globo, che corrisponde al polo nord geografico.
Invece il polo nord geomagnetico, attualmente ubicato nei pressi di Ellesmere Island, in Canada,
non è un punto fisso, bensì rappresenta il punto a nord dove termina l’asse della magnetosfera della
Terra, e nel tempo si sposta. Il nord magnetico è il punto sulla superficie terrestre in cui le linee di
forza del campo magnetico risultano esattamente perpendicolari al suolo ed è il luogo dove puntano
le bussole. 
Da quando l’esploratore artico James Clark Ross lo localizzò per la prima volta nel 1831, il polo
nord magnetico della Terra si è spostato di quasi 966 km in direzione Nord Nord-ovest, e la sua
velocità di spostamento è aumentata da circa 16 a quasi 55 km all’anno, come ha spiegato Alan Buis
in un blog del 2021 per Ask NASA Climate.
Questi cambiamenti possono avere un impatto su satelliti e sistemi di navigazione basati sulla
tecnologia magnetica (cellulari, navi, linee aeree commerciali), ma non ci sono evidenze sul fatto
che influenzino il clima terrestre.
Le escursioni geomagnetiche sono variazioni rilevanti ma di breve durata nell’intensità del campo
magnetico che possono durare da qualche secolo a migliaia di anni, secondo la NASA. L’ultima
escursione notevole è avvenuta circa 41.500 anni fa ed è nota come escursione di Laschamps.
Durante questo evento, il campo magnetico della Terra si è rapidamente indebolito e i poli si sono
invertiti, per poi scambiarsi nuovamente 500 anni dopo. 
Uno studio del 2021 collegò l’escursione di Laschamps a sconvolgimenti climatici, eventi di
estinzione e addirittura a cambiamenti nel comportamento umano. Gli scienziati ipotizzarono che, in
un periodo in cui il campo magnetico della Terra era più debole del normale, le più forti radiazioni
solari e cosmiche abbiano potuto penetrare l’atmosfera terrestre, alterando i livelli di ozono e
causando cambiamenti nel clima del pianeta ed eventi di estinzione. 
Schmidt tuttavia definì lo studio speculativo, nella migliore delle ipotesi.
Quali sono le prove di cambiamenti climatici avvenuti 42.000 anni fa che sarebbero associati alle
estinzioni? Le carote di ghiaccio non mostrano nulla di simile. Sappiamo che l’ultima era glaciale è
stata caratterizzata da un’elevata variabilità del clima, di cui è stata rilevata la tempistica, e questa
non è allineata alle escursioni magnetiche.
Negli ultimi 70.000 anni si sono verificate tre escursioni principali: l’evento del Mar di Norvegia
Groenlandia, avvenuto circa 64.000 anni fa, l’evento di Laschamps tra i 42.000 e i 41.000 anni fa e
l’evento di Mono Lake, risalente a circa 34.500 anni fa. 
non ci sono prove del fatto che il clima terrestre sia stato significativamente influenzato dalle ultime
tre escursioni del campo magnetico, né da altri eventi di questo tipo avvenuti almeno negli ultimi
2,8 milioni di anni.
E l’inversione dei poli? 
Durante un evento di inversione, i poli magnetici che si trovano a nord e a sud del pianeta si
scambiano di posizione. Questo avviene in media ogni 300.000 anni circa, ma secondo
la NASA l’ultima inversione è avvenuta circa 780.000 anni fa. Nella storia geologica della Terra, le
inversioni di polarità sono relativamente comuni: sono state 183 negli ultimi 83 milioni di anni.
Quando si verifica un cambio di polarità, in sostanza la forza del campo magnetico diminuisce, ma
senza lasciare il pianeta completamente indifeso: la magnetosfera coopera con l’atmosfera terrestre
nel deviare la maggior parte dell’energia spaziale dannosa, prima che questa raggiunga la superficie
terrestre. Alcuni scienziati ipotizzarono che le inversioni e la relativa diminuzione di forza del
campo magnetico potrebbero portare a cambiamenti climatici globali ed estinzioni, ma i dati attuali
non supportano tali teorie. 
Nei dati paleoclimatici non ci sono evidenze che colleghino i cambiamenti magnetici al clima, in
occasione di grandi inversioni o quasi inversioni magnetiche”, afferma Schmidt, “non ci sono
variazioni climatiche, né estinzioni di massa corrispondenti.
Kirk Johnson, che fa parte della dirigenza del Museo nazionale di Storia naturale dello Smithsonian
Institution, dedicò gran parte della propria carriera allo studio dell’estinzione dei dinosauri.
Analizzando i documenti fossili e le cronologie relativi all’evento di estinzione risalente al periodo
di confine tra Cretaceo e Paleogene, Johnson individuò un’inversione magnetica avvenuta circa 66,3
milioni di anni fa.
Johnson sottolineò, inoltre, che i campioni di sedimento oceanico profondo rilevarono un
cambiamento climatico significativo intorno a 66,3 milioni di anni fa. Ma questo periodo
coincise anche con un ampio fenomeno vulcanico in India, chiamato vulcanismo del Deccan, che
produsse alcuni dei più lunghi flussi di lava al mondo.
Abbiamo sempre attribuito quella transizione all’anidride carbonica rilasciata dal vulcanismo del
Deccan e all’aumento dei gas a effetto serra….. C’è una concomitanza di fenomeni: il cambiamento
del campo magnetico, il vulcanismo del Deccan e il riscaldamento del clima. Questo è un esempio
di cambiamento climatico fortuito…..
il fatto che ci sia una correlazione non significa che ci sia una causalità.

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La Dieta dei Neanderthal
La loro dieta era più varia e ricca di quanto si pensasse. Non si cibavano solo di carne ma
consumavano anche vegetali, noci e cereali.
I ricercatori di 41 istituzioni di 13 Paesi, guidati dagli scienziati del Max Planck Institute for the
Science of Human History”,  svolsero delle ricerche sulla placca batterica presente sui denti
dell’Homo Neanderthal e dell’Homo sapiens vissuti negli ultimi 100.000 anni.
La loro ricerca non si limitò alle due specie di Homo ma coinvolse anche gli scimpanzè, gorilla e
scimmie urlatrici che furono studiati per un confronto.
La placca batterica - che per la precipitazione di minerali si trasforma poi in tartaro - è una
pellicola di microbi tenacemente agganciata ai denti. Questi batteri si nutrono degli zuccheri
presenti in quello che mangiamo. I ricercatori identificarono miliardi di frammenti di DNA
batterico, ciò che rimaneva di quelle antiche comunità di microrganismi, lavorando sul tartaro
prelevato da 124 individui, tra uomini e altri primati. Ricostruirono il microbioma orale di un
Neanderthal vissuto 100mila anni fa, nella grotta di Pešturina in Serbia. Il più antico microbioma
orale  finora ricostruito.
Dal punto di vista scientifico per microbiota s’intende la popolazione di microrganismi presenti in
un ambiente mentre il termine microbioma indica l’insieme del patrimonio genetico dei
microrganismi.
La ricerca fu pubblicata sulla rivista scientifica “PNAS” e il prof. Marco Peresani, docente di
“Ecologia e Culture del Paleolitico” dell’Università di Ferrara,  rilevò che…
il microbioma orale dei sapiens arcaici e dei Neanderthal era molto simile ….
……. tra i reperti esaminati ci sono anche denti da latte persi da bambini Neanderthal, provenienti
da due siti in Veneto in cui stiamo conducendo studi:
la Grotta de Nadale e la Grotta di Fumane.
In particolare, in entrambi i casi - sapiens e Neanderthal - erano presenti particolari
 batteri (del genere Streptococcus) in grado di legarsi all'amilasi,
un enzima della saliva che permette di liberare zuccheri da cibi ricchi di amido.
La presenza di questi batteri nei Neanderthal (batteri che non erano presenti negli scimpanzé)
dimostrò il consumo, da parte dei Neanderthal, di cibi ricchi di amido. Questo sarebbe un aspetto
importante visto che l’agricoltura venne introdotta circa 10.000 anni fa. Il consumo di questi cibi
era notevole tanto da contraddistinguere la composizione del microbiota orale.
Questo studio conferma che i Neanderthal avevano una dieta più variata di quanto si pensasse:
oltre alla carne, mangiavano anche vegetali. Probabilmente molti tuberi, ricchi di amido. Questi
cibi fornivano loro gli zuccheri necessari allo sviluppo di un grande cervello.


Tartaro fossile su un antico dente umano, usato nello studio: da reperti di questo
genere è stato possibile ricostruire la popolazione di batteri presente
nel cavo orale di Neanderthal e Homo sapiens. 
© Werner Siemens Foundation, Felix Wey

La ricerca evidenziò come gli  antichi sapiens presenti nell'Europa dell'Era glaciale condividevano
alcuni ceppi batterici con i Neanderthal.
Forse è un ulteriore segno degli incroci tra le due specie.
I ceppi condivisi con i Neanderthal sparirono a partire da 14.000 anni fa,
quando ormai i cugini erano estinti da tempo (sparirono circa 40.000 anni fa) e
in Europa s’era verificato un ricambio nella popolazione umana. 
I Neanderthal cucinavano i pasti con erbe, noci e cereali.
Fu scoperto un antico braciere sul quale il Neanderthal cucinava i cibi. Uno dei più antichi ”forni”.
Nei loro pasti aggiungevano condimenti vegetali (semi, cereali, noci ed erbe selvatiche) per renderli
più saporiti.
Non mangiavano solo per accumulare calorie e coprire la fame ma anche per il piacere e il gusto di
farlo.
Nella grotta di Shanidar, già citata nella ricerca, furono rinvenuti i resti carbonizzati di cibo
consumato circa 70.000 anni fa. Qui i Neanderthal si riunivano attorno ai focolari, discutevano e
consumavano i loro pasti.
Furono rinvenuti diversi focolari.

La grotta in cui furono trovati i resti di cibo.
Credit Università di Liverpool

I rinvenimenti ad opera di un team di ricercatori dell’Università “John Moores” di Liverpool in
collaborazione con i colleghi del Dipartimento di Archeologia, Antichità ed Egittologia
dell'Università di Liverpool, della School of Natural and Built Environment della Queen's
University Belfast, della Birkbeck University di Londra e del Dipartimento di Archeologia
dell'Università di Cambridge.
I ricercatori, coordinati dal professor Chris Hunt, docente presso il Research Centre in Evolutionary
Anthropology and Palaeoecology dell'ateneo di Liverpool, giunsero a queste conclusioni  dopo aver
analizzato i resti di cibo in un focolare trovato innanzi alla grotta di Shanidar. Dalle analisi condotte
– anche attraverso la microscopia elettronica – emersero frammenti di gusci di noci, semi di piante
selvatiche, lenticchie e senape selvatica, che molto probabilmente erano usati per insaporire le
pietanze. Questa scoperta cancellò l’immagine dell'uomo preistorico intento a mangiare carne cruda
e a rosicchiare le ossa degli animali catturati.

Analisi al microscopio dei resti del cibo.
Università di Liverpool.

I ricercatori britannici ricrearono un pasto utilizzando tutti gli ingredienti trovati nel focolare, dopo
averli pestati come facevano i Neanderthal – senza rimuovere lo strato esterno dei semi – e li
cucinarono. Ottennero una sorta di focaccia preistorica dal sapore di “nocciolato”. Un piatto
delizioso anche se un po' amaro.
Il vecchio stereotipo è che i Neanderthal fossero meno intelligenti degli umani moderni e che
avessero una dieta prevalentemente a base di carne. I nostri risultati sono la prima vera indicazione
della cucina complessa – e quindi della cultura del cibo – tra i Neanderthal e anche tra i primi
uomini moderni, molto prima dell'agricoltura. I focolari di Shanidar erano la loro cucina e i
campioni che abbiamo rinvenuto intorno a loro indicano che queste persone sapevano come
lavorare e cucinare non solo la carne, ma anche estrarre un gustoso nutrimento da cereali selvatici,
noci e semi.

L’evoluzione del Cervello
Alcune di queste nicchie di ominidi, circa 2 milioni di anni fa, svilupparono un cervello più grande.

Un cervello capace di analizzare e materializzare determinati stimoli. Gli ominidi iniziarono a
realizzare i primi strumenti in pietra e diventarono cacciatori.
Ma quale fu e come avvenne questo accrescimento del cervello?
Il prof. Martino Ruggieri, Ordinario di Pediatria e Direttore della Scuola di Specializzazione in
Pediatria presso l’Università di Catania, all’ultimo Congresso Italiano di Pediatria, eseguì una
lettura magistrale sulle tappe che caratterizzarono l’evoluzione della nostra specie e in particolare
del cervello del bambino.

Articolo pubblicato su Pediatria numero 6 – 2022, pag. 21
Circa 3 milioni e 300.000 anni fa un bambino di circa due-tre anni d’età, appartenente alla specie
del nostro antenato più antico, Australopithecus afarensis (un Ominino pre-umano), aveva un
volume cerebrale di circa 275-340 cm3 .
Dopo circa  2 milioni di anni, le forme umane arcaiche di Homo e poi, più in là nel tempo, quelle di
Homo sapiens presentavano un volume encefalico, alla stessa età, di circa 900 cm3. Come si è
giunti a ciò? L’evoluzione, la crescita e la riorganizzazione del cervello e, specificamente, di alcune
delle sue aree cerebrali (encefalizzazione), hanno fatto sì che, dalle scimmie arcaiche e
dall’australopiteco, potessero giungere sino alla nostra specie di Homo sapiens sapiens e alle sue
raffinate capacità motorie, sensitive, di linguaggio, di pensiero e sociali.
“I cervelli dei nostri primi antenati erano molto più elementari….  mostrando un elegante
esperimento recentemente condotto su organoidi cerebrali (mini-cervelli) modificati con geni di
uomo arcaico vs. moderno – “erano semplici, più rotondeggianti, con un più ampio lobo occipitale
e maggiore estensione delle regioni olfattive frontali”.
Il lento processo di evoluzione ha poi plasmato e riorganizzato le aree cerebrali così come le
conosciamo oggi: aumentando le dimensioni di ciò che serviva di più alla nostra specie (es., aree
visuo-spaziali parietali; di linguaggio temporali; e di pensiero/astrazione frontali) a scapito di ciò
che progressivamente serviva di meno (es., aree visive occipitali e sensitive olfattive). Una delle
domande più importanti per la scienza che studia l’encefalo nell’evoluzione, la paleoneurobiologia,
è se il cervello nella linea evolutiva umana si sia prima accresciuto e poi riorganizzato o viceversa,
oppure se ciò sia avvenuto contemporaneamente. La risposta più attuale sembra essere che
l’encefalizzazione sia avvenuta a fasi contemporanee di crescita e riorganizzazione secondo un
meccanismo a mosaico. Il volume cerebrale è cresciuto e, mentre cresceva, i rapporti tra alcune
aree cerebrali, cambiavano: l’area parietale si è progressivamente spostata più posteriormente
(formando aree associative miste visive e spaziali più utili per le nuove capacità bipedi, di
approvvigionamento del cibo e di manualità), guadagnando spazio a sfavore del lobo occipitale.
Similmente, i lobi temporale e frontale si sono espansi in senso latero-laterale e si sono arrotondati,
guadagnando nuove potenzialità per le funzioni di linguaggio, cognizione sociale, pensiero astratto,
pianificazione a lungo termine, manualità-lateralità e funzioni esecutive complesse (es., attenzione e
apprendimento). Con le forme umane arcaiche di Homo erectus (circa 1,5 milioni di anni fa) il
cervello comincia chiaramente a crescere di dimensioni, ma anche a modificare i rapporti tra le
aree cerebrali.
Cambiamenti simili sono avvenuti anche a livello cellulare e molecolare: l’uomo, che è “neotenico”
(ossia, è capace di conservare a lungo le funzioni della vita giovanile), continua a organizzare la
corteccia cerebrale e mielinizzare le fibre degli assoni sino all’età di 25 anni, con conseguente
guadagno temporale nei processi di memorizzazione e apprendimento e di elaborazione delle
informazioni, dipendendo però maggiormente e più a lungo dalle cure parentali. Allo stesso tempo,
compaiono, in sequenza temporale, differenti assetti recettoriali sinaptici nelle varie epoche di
sviluppo del bambino: il neonato/lattante è più ricco di neuroni eccitatori (glutamatergici) – “è un
cervello più veloce” ha continuato Ruggieri “è molto sensibile, risponde prontamente, mette in atto
riflessi che compaiono e scompaiono nel tempo”. Il bambino/adolescente, invece, esprime più
neuroni inibitori (GABAergici) e modulatori (dopaminergici e/o serotoninergici): attraverso questi
apprende meglio, collega e memorizza – “siamo di fronte a un cervello più sofisticato”.
“Il graduale cambiamento morfologico e recettoriale, nell’arco evolutivo della vita di un bambino,
rispecchia il cambiamento subito dall’encefalo nell’intero arco della linea evolutiva umana” – ha
proseguito Ruggieri – “e mentre l’encefalo embrio-fetale si sviluppa, cresce e si allunga, in senso
antero-posteriore, latero-laterale e dorso-ventrale, queste ‘modifiche’ contribuiscono a fare variare
i rapporti e le connessioni tra le varie aree cerebrali”. Così come, dal cervello del bambino, più
semplice (eccitatorio) si passa a quello più raffinato (inibitorio/modulatorio) dell’adolescente
adulto, similmente dal cervello dei nostri antenati più arcaici, man mano, si è giunti al cervello di
Homo e delle sue specie più evolute. Tale complesso processo di organizzazione cerebrale, nella
linea evolutiva umana, dura più a lungo, come si diceva prima “perché la natura e l’evoluzione ci
hanno dato una finestra temporale più ampia per maturare” ha commentato Ruggieri, “così da
dare tempo all’ambiente e alle sue stimolazioni di agire su di noi e influenzarci”.

Dediti alla condivisione e alla comunità, i neandertaliani quasi non avevano bisogno di espandersi, data la loro bassa demografia. Sopravvivere era sufficiente. Ma allora, visto che il perseguimento della crescita ad ogni costo mette gli eredi della fratria tra Neandertal e Sapiens, cioè noi, sull'orlo del fallimento ecologico e demografico, non sarà arrivato il momento di ispirarsi a quei lontani antenati che sono sopravvissuti senza crescita né distruzione per centinaia di migliaia di anni?



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Altri File..Preistoria

La Luce delle Donne Preistoriche: Delia, la Donna di Ostuni….Thea, la Principessa di Acquedolci… Enciclopedia delle Donne – Capitolo XXI.

https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2025/06/la-luce-delle-donne-preistoriche-delia.html


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La Donna Preistorica…. Mai citata nei libri di storia.
Enciclopedia delle Donne – Capitolo XX


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I Neanderthal erano artisti…pittori, incisori, creavano monili….

https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2025/06/i-neanderthal-erano-artistipittori.html

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MONTE PELLEGRINO (R.N.O.) - Palermo - "Il Promontorio più bello al mondo.." -