Palermo – La Magione e i Cavalieri Teutonici….Il “Recinto “ della Magione: Il Conservatorio delle “Male Maritate” – Il Collegio di S. Maria della Sapienza, La chiesa dei santi Euno e Giuliano, i Seggettieri






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  1.      La Palermo Araba – Le strutture Ospedaliere – L’arrivo dei Normanni – L’Ospedale di San Teodoro;
   2.      I Centri Assistenziali nella Palermo Medievale;
   3.       Ruggero II d’Altavilla fonda un Ospedale per Lebbrosi – La Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi;  
   4.      La Magione (Basilica della SS. Trinità del Cancelliere) -  Il fondatore, Matteo D’Aiello da Salerno – I Cistercensi a Palermo;
   5.     La Magione e i suoi Tempi Storici – Costanza d’Altavilla e la profezia – Tancredi, re di Sicilia – La moglie Sibilla di Medania (Acerra) – A Messina, Riccardo Cuor di Leone e Filippo II Augusto – L’incontro con l’abate Gioacchino da Fiore – Lo scontro tra Tancredi e Riccardo Cuor di Leone – Enrico VI nel Regno Normanno – Enrico VI lascia la moglie Costanza a Salerno per farla curare dai medici della “Schola Salernitana” -  Costanza viene catturata e portata a Palermo – Morte di Tancredi e di suo figlio Ruggero III (forse avvelenato) – Sibilla di Medania  a Caltabellotta – Enrico Vi entra a Palermo, le stragi – La fine di Sibilla  e dei suoi figli tra cui il piccolo Guglielmo III – I tesori della reggia di Palermo trafugati da Enrico VI – L’incendio della Cattedrale di Catania voluto da Enrico VI… centinaia di morti tra i fedeli – Morte a Messina di Enrico VI, forse avvelenato dalla moglie Costanza
   6.      I Cavalieri Teutonici e la loro origine; Gerusalemme e S. G. Acri;
   7.      Enrico VI cede la Magione ai Cavalieri Teutonici  che mantennero il possesso fino al 1492 –
   8.      Architettura della Magione
Il Chiostro con la vera da pozzo (iscrizione ebraica) – Oratorio di Santa Cecilia – Descrizione della Basilica – Oratorio del SS Crocifisso;
   9.      Collegio “S. Maria della Sapienza” ..in abbandono – Collegio collegato all’idea di Evangelizzazione del cardinale P.M. Corradini;
Collegio della Vitrera o Conservatorio delle “Male Maritate” – Momenti di vita del Collegio – Il prete Don Paolo Riggio Saladino e la sua opera nel recupero delle povere donne – I Racconti del tempo
La Chiesa dei Santi Euno e Giuliano – la Chiesa dei Seggettieri e perché scelsero i due santi come protettori – I moti del 1647 – Il principe del cassero non pagò i seggettieri – La rivolta e le persecuzioni – i Seggettieri nel tessuto sociale di Palermo – La via delle “Sedie Volanti” – La Statua del Genio di Palermo –

Altre Commende dell’Ordine Teutonico
Palermo – La Chiesa e il Lebbrosario di San Giovanni del Lebbrosi


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       1.       La Palermo Araba
Dall’831 Palermo diventò la sede dell’Emiro. Una città favorita a Siracusa che aveva il primato, nel periodo bizantino, di guida della Sicilia. Palermo, grazie agli emiri kalbiti, subì uno sviluppo molto dinamico con la presenza di quartieri extra moenia.
Lo sviluppo dovette riguardare anche le strutture ospedaliere e che si  collegavano alla tradizione dei grandi ospedali arabi (“bimaristan”) che erano fondati, con intenti caricatevoli, dai sultani d’Egitto.

Fachada del edificio histórico del hospital de Bimaristan del al-Muayyad,
distrito de Darb Al Labana, El Cairo viejo, Egipto.

Il termine “bimaristan” deriva dal persiano بیمارستان, (bīmārestān), ospedale.
Il termine ”bimar” significa “malato” mentre “stan” “luogo o posto”,
quindi il “luogo dei malati”.
Furono creati con questo termine nella Persia sasanide (dinastia dei Sasanidi)
nel III secolo e si diffusero in tutta l’area del mondo arabo-islamico.
Nel X – XIII secolo la medicina araba veniva pratica anche su malati psichici e i
bimaristan erano costruiti in modo da offrire un ambiente tranquillo allietato da
fontane, rivoli d’acqua che aiutavano a rilassare i pazienti  offrendo un po’ di conforto.
Spesso i bimaristan erano delle opere notevoli con magnifiche architetture.
Venivano costruiti da potenti signori e offerti alla popolazione.
Funzionavano anche come luogo d’istruzione per futuri medici.
Il mondo islamico ebbe il merito di aver trasmesso al mondo occidentale
le antiche conoscenze della scienza medica greca, persiana e indiana.

Bimaristan di Aleppo

Nella città di Palermo, con l’arrivo dei Normanni nel 1071, si sovrappose a questi ospedali  un fitto reticolo di chiese e monasteri secondo quello che era il principio di cristianizzazione dei sovrani normanni. Molti di questi monasteri davano assistenza ai malati.
Il più antico ospedale di Palermo sarebbe quello di San Teodoro che fu menzionato da Gregorio Magno in una sua lettera del 601 in cui si davano indicazioni circa la ricostruzione di uno xenodochium (ospedale), cioè di una casa d’accoglienza per forestieri, sui resti di quello di San Teodoro. San Teodoro fu fondato da un diacono di nome Pietro che era amministratore locale dei beni della Chiesa. Un origine del VI secolo in cui San Teodoro era un ricovero per pellegrini e con lo xenodochium si sarebbe trasformato in ospedale. Distrutto dagli arabi sarebbe rinato con i Normanni con una nuova configurazione: il monastero delle Vergini, con una chiesa dedicata a S. Teodoro, affidata in un primo tempo alle monache basiliane e poi alle benedettine e di cui oggi rimangono pochi resti.

Palermo – resti della chiesa di San Teodoro
Piazzetta delle Vergini


I ruderi della Chiesa di San Teodoro sono visibili nella Piazzetta delle Vergini. La chiesa fu infatti colpita dal devastante bombardamento della seconda guerra mondiale. Rimase il Monastero delle Vergini che fu successivamente abbandonato.


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2.      I Centri Assistenziali nella Palermo Medievale

Lo storico Henrzi Bresc nel suo studio sulla Palermo religiosa tra il XII ed il XV secolo, calcolò che attorno al 1431 erano presenti nella città circa 34 centri assistenziali.
L’anno 1431 era importante nello studio perché proprio in quell’anno si avviò la fondazione di un grande e novo ospedale cittadino.
I 34 enti assistenziali erano così distribuiti:
-          10 nel Cassero;
-          9 nel Seracaldio;
-          5 alla Kalsa;
-          2 alla Conceria;
-          1 all’Albergheria;
-          7 fuori le mura.
Erano anche presenti due fondazioni gerosolimitane:
-          S. Giovanni alla Guilla (Rocco Pirri citò un ospedale dedicato a S. Giovanni Battista risalente al periodo normanno e di cui non si conosceva l’anno esatto di fondazione, affidato alle cure dei gerosolimitani ed ubicato presso la Chiesa di S. Agata alla Guilla);
-          La Magione
Si tratterebbe di ospedali o ricoveri destinati ad ammalati e lebbrosi.
Gli edifici ospedalieri che sorsero nel centro storico di Palermo tra il XII ed il XV secolo  erano riconducibili a diverse tipologie:
-          Ospedali sorti per iniziativa di ordini religiosi e confraternite;
-          Per volontà regia;
-          Per beneficenza privata e devozione;
-          Ospedali delle nazioni, dei gruppi presenti a Palermo per ragioni militari, commerciali e politiche;
-          Ospedali degli organi cavallereschi;
-          Ospedali sorti per iniziativa vescovile;
-          Ospedali di origine incerta.

Lo storico Rocco Pirri, storiografo regio e abate netino vissuto tra il XVI e il XVII secolo, elencò quindici ospedali sorti dentro e fuori le mura in un periodo che andava dall’XI secolo alla metà del XIV secolo:
-          S. Giovanni Battista:
-          Santa Maria dei Teutonici;
Sede dell’”ordo hospitalis Sanctae Mariae theutonicorum Jerusalem” altrimenti noto come Ospedale di Santa Maria dei Teutonici o Ospedale della Santissima Trinità di Gerusalemme” cioè la struttura che fu fondata dal Cancelliere Matteo d’Ajello da Salerno nel 1160. Un ospedale destinato, forse in origine, ai pellegrini e gestito prima dai Cistercensi e successivamente dai Cavalieri Teutonici.

-          Tutti i Santi;
L’Ospedale sembra che sia stato fondato dal cancelliere Matteo d’Ajello nel 1661. Si trovava lungo la strada che scendeva verso il fiume Papireto, nei pressi di San Giovanni la Guilla.
-          S. Maria La Nuova;
-          San Dionigi;

Antonio Mongitore, storico e canonico della Cattedrale di Palermo (1663-1743) divise invece gli ospedali tra antichi e nuovi.
Gli antichi erano quindici:
-          S. Giovanni Battista,
-          SS. Trinità, Ognissanti,
-          S. Maria La Nuova,
-          S. Dionigi,
-          S. Maria de Recomendatis,
-          S. Maria la Mazara,
-          S. Teodoro de Occisis,
-          S. Agata de Petra,
-          S. Giovanni dei Lebbrosi,
-          S. Giovanni a Castellammare,
-          S. Oliva,
-          S. Maria la Misericordia,
-          S. Cita,
-          S. Quaranta Martiri;
gli ospedali nuovi erano nove:
-          della Cattedrale,
-          di S. Leonardo,
-          di S. Bartolomeo,
-          di S. Giovanni dei Tartari,
-          di S. Antonio,
-          di S. Spirito,
-          della Pinta,
-          di S. Pietro la Bagnara,
-          dell'Arcivescovato

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3.       Ruggero II d’Altavilla fonda un Ospedale per Lebbrosi – San Giovanni dei Lebbrosi -
Ruggero II d’Altavilla nel 1130, avviò un programma di riordino sociale e religioso che coinvolse sia il centro che l’area extra moenia di Palermo (nei secoli XI – XII).
Fuori le mura e vicino al fiume Oreto fu fondato un ospedale, del quale non resta traccia, con annessa chiesa, S. Giovanni dei Lebbrosi, dedicato all’accoglienza dei lebbrosi. La società medievale provava nei confronti dei lebbrosi un atteggiamento piuttosto confuso perché misto di solidarietà e repulsione.
La prima cura che la società medievale rivolse nei confronti di persone colpite da patologie particolari fu l’isolamento. Il Mongitore nei suoi scritti si riferì in modo particolare ai lebbrosi e “mentecaptorum” che furono isolati per cercare di ridurre al minimo il rischio di contagi. Nella società era presente un orrore atavico legato alla deformità e mostruosità che la malattia provocava. Una  malattia che veniva considerata espressione esteriore del peccato.
Il lebbroso era considerato il frutto del concepimento, da parte dei genitori, avvenuto durante uno dei periodi in cui la copulazione era vietata come ad esempio la Quaresima.
Le origini del lebbrosario palermitano sono incerte e sembra superata la tesi che attribuirebbe la costruzione del complesso a Roberto il Guiscardo e a Ruggero I d’Altavilla nel 1071.
I due fratelli si sarebbero accampati per l’assedio della città in mano agli arabi, sulla sponda destra del fiume Oreto e avrebbero costruito la Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi.
San Giovanni  Battista (Dei Lebbrosi ) - La chiesa costruita 1071




Il lebbrosario, invece, sarebbe stato costruito da Ruggero II (1130 – 1154) alla prima metà del XII secolo vicino alla Chiesa costruita dal padre.
Una tradizione, che non presenta precisi riscontri storici, vorrebbe il lebbrosario costruito sempre da Ruggero II ma in memoria del fratello Goffredo che era malato di “morbus elephantinus” e che morì, secondo il cronista normanno Goffredo Malaterra, di lebbra.
Un’altra tradizione lega la fondazione del lebbrosario, sempre da parte di Ruggero II, all’insalubrità del luogo colpito dai miasmi del fiume Oreto.
Successivamente il decadimento del lebbrosario diventò così grave che Federico II di Svevia nel febbraio 1219 decise di concedere chiesa ed ospedale all’Ordine dei Cavalieri Teutonici della Magione.
I Teutonici  mantennero il possesso della Chiesa e dell’ospedale sino alla fine del XV secolo.
Altro intervento importante da parte di Federico III d’Aragona che diede mandato ai gabelloti delle tonnare Siciliane di fornire gli otto tonni l’anno dovuti all’Ospedale di San Giovanni “Infectorum” di Palermo.
Il sostentamento alimentare di San Giovanni fu quindi a carico della Magione dei Teutonici.

Prima di descrivere la Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi è opportuno soffermarsi sulla Magione e sull’Ordine dei Cavalieri Teutonici.
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4      La Magione (Basilica della “SS Trinità del Cancelliere”) – Il fondatore: Matteo d’Aiello da Salerno  - Filiazione dell’Abbazia dello “Spirito Santo del Vespro” – I Cistercensi a Palermo


La Basilica della “SS Trinità del Cancelliere” è conosciuta come “Basilica La Magione”. Si tratta di una delle più antiche chiese di Palermo, posta nel quartiere della Kalsa, di fonte all’omonima piazza.
Una storiografia, ormai consolidata, cita la fondazione della chiesa ad opera di Matteo d’Ajello  (“Matheus comes de Agello Cancellarius”) detto anche “da Salerno”.
Il d’Ajello fu un protagonista importante nella vita politica degli Altavilla sin dal 1150.
La sua presenza nella corte normanna  era ben radicata già nel 1156 quando fu scelto dal cancelliere del Regno, Maione da Bari, per la stesura del concordato di pace di Benevento con papa Adriano IV.
A parte due brevi interruzioni, legati a due momenti particolarmente drammatici della corte palermitana (l’attentato mortale contro Maione di Bari nel 1160 e la rivolta contro l’arcivescovo  e cancelliere del Regno di Sicilia, Stefano di Perche, nel 1168), il d’Aiello fu per quasi mezzo secolo nel gruppo dei più stretti consiglieri degli ultimi tre sovrani di casa Altavilla: Guglielmo I (Il Malo), Guglielmo II (Il Buono) e Tancredi (1189 – 1194).

La denominazione di abbazia del “Cancelliere” ha fatto spostare, di circa mezzo secolo, la data di fondazione della Magione allontanandola dall’anno 1150.

L’anno 1150 fu infatti proposto come anno della fondazione dallo storico  Tommaso Fazello nel suo “De Rebus siculis decaded dues” del 1558.
In un documento del 1194 Riccardo, figlio di Matteo d’Ajello, ricorda “Monastero Sancte Trinitatis Panormi, quod Dominuns Cancellarius pie recordationis pater nostre infra moenia eiusdem Civitatis iuxta portam Thermarum de ordine Cisterciense construxit”.
Nel documento di Riccardo c’è un preciso riferimento topografico e storico..”portam Thermarum” (Porta Termini) la cui presenza è attestata dal 1171 e non lascia dubbi sulla identificazione del complesso cistercense.
La porta, purtroppo distrutta nel 1852, era posta  allo sbocco di un’importante via che collegava la zona dei mercati urbani con la strada costiera per Termini Imerese e con il fertile territorio a sud di Palermo. (Si trovava circa a metà dell’attuale via Lincon).
Un tratto delle mura di porta Termini delimitavano il “viridarium magnum” del monastero annesso alla Chiesa della SS Trinità.
A completamento dei lavori la chiesa ed il monastero occupavano un ampio settore urbano, entro le mura della città (“infra moenia in civitate panormi”) con un edilizia che ai tempi era molto rada. Infatti la Magione era circondata da un grande giardino, il viridiarium magnum,  un ampia estensione di terreno così vasta che, nei periodi di carestia, veniva piantata a grano per sfamare la popolazione. Un attività che si collega in maniera chiara all’Ordine Cistercense i cui monaci avevano sempre un occhio di riguardo verso le attività agricole.
Ritornando alla Magione e alla sua estensione territoriale, in un atto del 1289 è riportata la concessione a Perri de Nicosia  del vasto giardino “de solo viridari magni…. Siti in quartiero Halcie a duabus partibus cuius sunt menia de civitate et ab altera parte est dictum quarterium et si qui alii sunt confines”.
Nel 1171 l’Abbazia della SS. Trinità,  monastero e Chiesa, quest’ultima forse non ancora ultimata, erano presenti nel territorio.
Resta di chiarire se l’Ordine Cistercense era già nel 1171 presente a Palermo. Un aspetto che potrebbe fare nascere altre considerazioni.
Nel 1173 la regina Margherita di Navarra e di Sicilia, moglie di Ruggero II morto il 26 febbraio 1154, finanziò il vescovo di Palermo Gualtiero Offamilio nella costruzione di un tempio, Santo Spirito, che doveva essere affidato ai monaci cistercensi.
La posa della prima pietra fu nel 1173 e nel tabulario dell’Ordine Cistercense si riporta che la fondazione della chiesa avvenne il 23 giugno 1172.
Nel 1178 la fondazione del monastero con il riconoscimento da parte del sovrano Guglielmo II (“Il Buono”) della concessione all’Ordine Cistercense dell’Abbazia di Sambucina (Filiazione dell’Abbazia Madre di Clairvaux o, secondo altre fonti, filiazione dell’Abbazia di Casamari, anch’essa filiazione dell’Abbazia Madre di Clairvaux).
Sia Guglielmo II che la regina madre Margherita di Navarra fecero delle cospicue donazioni all’Abbazia di Santo Spirito con i feudi di Altopiano, Baucina, Raisivito, Catuso e Randino. 
La consacrazione della chiesa avvenne nel 1179 come riporta un’iscrizione presente nel presbiterio.
La Chiesa prese il nome di “Santo Spirito del Vespro” perché il 30 marzo 1282, martedì di Pasqua,  proprio davanti alla chiesa iniziò la sommossa popolare dei Palermitani (il “Vespro Siciliano “ contro gli Angioini
Nel 1232 il Capitolo Generale Cistercense decise  che “Madre di Spirito Santo divenisse Casamari, visto che l’abate di Sambucina non compiva le visite regolari prescritte dalla Regola dell’Ordine”. ( Il Monastero fu distrutto nel 1782 su ordine del vicerè Domenico Caracciolo per creare….. un cimitero   che fu chiamato Sant’Orsola dal nome dei frati che fino allora avevano occupato l’edificio…).

Palermo – Abbazia di “Santo Spirito del Vespro”

Secondo il tabulario dell’Ordine Cistercense  il Monastero “SS Trinità della Magione”  fu  fondato nel 1150 ad opera di Matteo d’Ajello e terminato dal figlio Nicola d’Ajello, arcivescovo di Salerno dal 1181 al 1220.
Dato che le fonti citano l’esistenza del Monastero già nel 1171 è probabile che il complesso era concesso ai Benedettini o a qualche altro ordine. Infatti, sempre nel tabulario dell’Ordine Cistercense, il Monastero della Magione era considerato come una filiazione del Monastero Cistercense dello “Spirito Santo” e quindi di Sambucina solo dal novembre del 1192 quando fu nominato il suo abate. ( Il Documento di Riccardo D’Aiello, sopracitato, è infatti del 1194).

Palermo – La Magione

Fu l’ultima delle chiese edificate dalla dinastia normanna degli Altavilla .
Re Tancredi vi fece seppellire il figlio primogenito Ruggero e lo stesso re ordinò di essere sepolto nella Basilica.

La storia della Basilica della Magione si collega alla storia della Sicilia perché l’ordine Cistercense ne tenne il possesso solo per cinque anni cioè fino al 1197 quando furono cacciati da Enrico VI.
Una pagina di storia lunga ma interessante per gli attori che si alternano nelle vicende ricche di intrighi, sequestri e atrocità.


5     La Magione e i suoi tempi storici… 5 anni di conflitti e stragi
Guglielmo II “Il Buono” d’Altavilla, sovrano di Sicilia, morì il 16 novembre 1189 all’età di 36 anni, dopo 24 anni di regno. Si apriva nel regno di Sicilia una aspra contesa per la successione al trono.
Il sovrano aveva indicato come erede al trono la zia Costanza d’Altavilla (sorella del padre Guglielmo I e figlia di Ruggero II d’Altavilla e di Beatrice Rethel).
Lo stesso sovrano aveva obbligato i cavalieri a giurarle fedeltà malgrado il matrimonio con Enrico VI di Germania (Hohenstaufen), figlio di Federico Barbarossa. (Alcuni baroni di Puglia non giurarono fedeltà a causa della loro avversione alla signoria normanna).
Costanza era figlia legittima di Ruggero II d’Altavilla e di Beatrice di Rethel ed era quindi zia di Tancredi. Il padre, Ruggero III di Puglia era fratello di Costanza.
Il matrimonio di Costanza con Enrico VI  era stato voluto e concluso dal vescovo di Palermo Gualtieri Offamail e nessuno a corte considerava di buon auspicio quell’unione avendo la visione di una Sicilia sotto lo scettro tedesco.

Matrimonio tra Costanza d’Altavilla ed Enrico VI

“Quando  nel 1154 nacque Costanza, il re Ruggero II fece venire a Palermo dalla
Calabria l’abate Gioacchino da Fiore, con il carisma della preveggenza, per sapere da lui
cosa ne sarebbe stato dei suoi figli.
L’abate scrutando nel futuro, disse che se Costanza si fosse sposata, un fuoco
avrebbe incendiato e distrutto il Regno.
Il re sconvolto dalle parole dell’abate, non sapeva cosa fare.
Qualcuno dei suoi consiglieri gli suggerì d’avvelenare la piccola Costanza, ma
Tancredi, suo figlio, gli disse che era un’empietà fare morire così un’innocente e
gli consigliò di costringerla a monacarsi.
 Una favola  raccontata da Tommaso Fazello nella sua “Storia di Sicilia” del 1558.
In realtà quando Costanza nacque da Beatrice di Reithel, il sovrano
Ruggero II era già morto da qualche mese.  Di Costanza non si sa molto
se non il suo matrimonio con Enrico VI e la nascita del grande Federico II di Svevia.
Per il resto Dante la colloca nel Paradiso come “anima costretta a lasciare il voto
monacale per un matrimonio politico” (un matrimonio voluto dal vescovo di
Palermo) e la descrive con dei versi stupendi:

Quest' è la luce de la gran Costanza
che dal secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza.
(Dante Alighieri- Paradiso - canto terzo - vv  118-120)

In realtà non si hanno riferimenti o documenti sulla sua entrata in un convento.
  Quando si sposò aveva circa trent’anni e certamente, se fosse stata una
donna libera, non avrebbe raggiunto quell’età da nubile. La sua appartenenza al
nobile casato degli Altavilla, la sua posizione politica come erede al trono,  le avrebbero
fatto contrarre qualche matrimonio  ben prima. Lo stesso intervento del vescovo
sembra svelare ogni dubbio. La sua uscita dal convento era legata ad
una discendenza senza eredi.
Tancredi pur essendo figlio illegittimo di Ruggero III di Puglia e di Emma dei conti di Lecce (figlia di Accardo II) era pur sempre l’ultimo esponente della casa Normanna ed era apprezzato per le sue capacità militari, la sua intelligenza ed anche per l’amore delle arti. Fu eletto re di Sicilia dal Parlamento Siciliano nel novembre del 1189 e papa Clemente III riconobbe ed approvò, suo malgrado, l’elezione.
Sempre nel 1189 Tancredi aveva sposato Sibilla di Medania (o di Acerra).

Il Re Tancredi
Miniatura dal Liber ad honorem Augusti

Sibilla di Medania

I monaci cistercensi naturalmente  erano favorevoli a Tancredi  esponente di quella casata Normanna che aveva favorito l’espansione dell’ordine nel Regno di Sicilia (Calabria… Puglia.. Sicilia) secondo i rapporti benevoli che alla fine s’erano instaurati tra Ruggero II e Bernard di Clairvaux.

 Ma la situazione politica nel Regno non era ormai da tempo delle più tranquille.
Nel 1190, nel loro viaggio verso la Terra Santa, si fermarono nel porto di Messina due flotte imperiali al comando rispettivamente di: Riccardo  Cuor di Leone, re d’Inghilterra; e di Filippo II Augusto, re di Francia.
Una sosta legata a condizioni meteo particolarmente sfavorevoli alla navigazione ma in realtà altri motivi  si celavano in quella sosta che a prima vista potrebbe sembrare normale data la posizione strategica del porto di Messina.
I due sovrani, stranamente alleati malgrado un rapporto ambiguo, incontrarono l’abate Gioacchino da Fiore,   assiduo frequentatore dell’Abbazia Cistercense di Sambucina, a cui chiesero una profezia sulla nuova crociata da loro intrapresa.
In realtà fu Riccardo Cuor di Leone a volere l’abate a corte per chiedergli  la profezia.
Gioacchino da Fiore, da grande teologo, fu sprezzante e senza mezzi termini perché descrisse le reali motivazioni della guerra e biasimò i due sovrani alleati.  Li inchiodò nei loro limiti e l’invitò a non portare la guerra in Terra Santa anche se benedetta dal Papa.
Riccardo Cuor di Leone non accettò le parole dell’abate e lo minacciò di morte.  Nell’incontro si stava per configurare un’accusa ben precisa d’eresia e di una possibile morte sul rogo da parte dell’abate.
La vendetta del sovrano inglese fu invece molto sottile ed anche astuta. Una volta che l’abate lasciò la corte, Riccardo manipolò la realtà dei fatti e dispose che venisse redatto un verbale sull’incontro avuto con l’abate naturalmente con frasi e spiegazioni rispondenti alle sue esigenze. Un semplice modo per uscire vincitore dall’incontro, giustificare l’impresa che si accingeva a compiere e soprattutto senza commettere delitti o azioni che avrebbero potuto offuscare la sua immagine.

Riccardo Cuor di Leone

Riccardo Cuor di Leone

Gioacchino da Fiore  ( a destra)  e San Francesco di Paola

Durante la sosta a Messina  i tre sovrani (Riccardo Cuor di Leone, Filippo II Augusto e Tancredi) ebbero dei rapporti molto tesi che sfociarono in veri e propri scontri armati.
Giovanna d’Inghilterra, moglie del defunto sovrano di Sicilia Guglielmo II (Il Buono), era la sorella di Riccardo di Cuor di Leone, ed era stata rinchiusa da Tancredi nel castello della Zisa di Palermo senza che le fosse stata restituita la dote.
Riccardo pretese non solo la liberazione della sorella, ormai da più d’un anno rinchiusa in prigione, ma anche la restituzione della legittima dote.

Palermo – Castello della Zisa




Il sovrano Siciliano liberò Giovanna  ma restituì solo una parte della dote provocando l’ira di Riccardo che occupò Messina facendo anche costruire una torre di legno che fu detta “Mata Grifon” (“Ammazza Greci”)…

“Mata Grifon” perché si contrapponeva al Monastero Basiliano
del SS Salvatore in Lingua Phari .

La città subì un grave saccheggio da parte degli inglesi e lo stesso ammiraglio della flotta Siciliana, Margaritone, non riuscì ad arrivare il tempo per evitare o comunque contenere l’azione devastatrice degli occupanti. Molte case vennero anche incendiate tra cui quella..”magnifica..” dello stesso ammiraglio.
Era la primavera del 1191 e Tancredi, malgrado il suo arrivo nella città con le truppe, preferì l’accordo consegnando a Giovanna altre 20.000 once d’oro ed indennizzando Riccardo con  altre 20.000 once d’oro…… Un indennizzo in cambio dell’alleanza contro Enrico VI, marito di sua zia Costanza e legittima erede, come abbiamo visto, di Guglielmo II Il Buono.
Nell’accordo era anche previsto il matrimonio tra una delle figlie di Tancredi e  il nipote di Riccardo Cuor di Leone, Arturo I di  Bretagna, in quell’occasione nominato suo erede.
Riccardo  ebbe anche il tempo di ripudiare la fidanzata ufficiale Adele (di Francia)  che ritornò dal fratellastro Filippo II Augusto con il quale avrebbe proseguito la Crociata. Filippo anche se adirato, partì il 30 marzo 1191 verso la Terra Santa.
Il sovrano Inglese era così libero di poter sposare  il suo grande amore, Berengaria di Navarra, che giunse a Messina assieme alla madre del sovrano, Eleonora d’ Aquitania.
Matrimonio che si svolgerà a Limassol (Cipro) perché Riccardo partì da Messina verso la metà d’aprile del 1191 portando con sé in Terra Santa sia la sorella Giovanna che Berengaria.

I problemi per Tancredi ed il regno di Sicilia non erano svaniti. Il 10 giugno 1190 moriva nel castello di Selifke (Turchia)  l’imperatore Federico I Hohenstaufen (Federico Barbarossa)  e nel 1191 Enrico VI successe al trono del padre.

Selifke (Turchia)  



Enrico VI decise subito di riconquistare il Regno di Sicilia (rivendicazioni sul regno legittime dato che aveva sposato Costanza, l’erede al trono) e trovò un appoggio nella flotta delle Repubbliche di Pisa e di Genova oltre all’appoggio economico di molte città lombarde.  S’avviò quindi verso Roma dove papa Clemente III doveva incoronarlo.
Mentre era in viaggio, verso la fine di marzo del 1191, il pontefice morì e sul soglio pontificio fu nominato l’ottantacinquenne Celestino III. Il papa indugiò a prendere l’ordinazione per impedire il conferimento ad Enrico VI della corona imperiale. Ma successe un imprevisto. Gli abitanti della città di Tusculo chiesero aiuto ad Enrico VI ed avevano già ricevuto una guarnigione di soldati tedeschi nella loro città. Un avvenimento che aveva destato scalpore tra i romani. I romani fecero sapere ad Enrico VI che si sarebbero opposti alla sua incoronazione se non avesse ritirato la guarnigione. Pronta la risposta del sovrano con la promessa di consegnare Tuscolo nelle mani del papa, dal quale i Romani l’avrebbero ricevuta, ma solo dopo la sua incoronazione. Celestino fu quindi costretto a prendere l’ordinazione il 14 aprile e il 15 dello stesso mese a San Pietro incoronò Enrico VI e la moglie Costanza d’Altavilla.
Il 17 aprile, come promesso, Enrico VI consegnò la città di Tuscolo al papa e questi ai romani che diedero sfogo ad una atroce vendetta…”fecero scempio degli abitanti, i cui pochi superstiti trovarono asilo a Frascati e nei luoghi vicini”.
Nel maggio 1191 Enrico VI entrava nel Regno Normanno mentre le flotte delle Repubbliche marinare di Genova e Pisa partirono per fronteggiare l’armata siciliana comandata da  Margaritone. L’inizio fu una serie di successi  per l’esercito tedesco:
-          Rocca d’Arce, difesa da Matteo Borrello fu espugnata e data alle fiamme;
-          Sorella, Atino e Colle S. Germano, Teano, Capua, Aversa si arresero senza nessuna resistenza;
-          L’abate Roffredo di Montecassino e i conti di Molise, Fondi e di Caserta si sottomisero all’imperatore tedesco e si unirono a lui.
-          Napoli fu difesa validamente dal Conte Riccardo d’Acerra (cognato del Re Tancredi). Durante l’assedio la città di Salerno aprì le porte ad Enrico VI e nella città lasciò la moglie  Costanza per la sua malferma salute affinchè fosse curata dai famosi medici della città. Lo stesso re riprese quindi l’assedio a Napoli. La città si difese ad oltranza ed anche la flotta pisana fu costretta a rifugiarsi a Castellammare. Enrico VI, con la sua ostinazione, perse nell’assedio i migliori combattenti, tra cui alcuni personaggi importanti come l’arcivescovo di Colonia e il duca Ottone di Boemia. Lo stesso imperatore fu colpito da una malattia e quindi costretto a levare l’assedio e a rifugiarsi a San Germano. Anche la flotta genovese, giunta in ritardo, fu costretta dagli attacchi della flotta siciliana a rifugiarsi a Civitavecchia.
Enrico VI lasciò un presidio a Capua e in qualche altra città per partire da San Germano e ritornare in patria, in Germania, dove era scoppiata una rivolta della casa Guelfa.
Nel suo ritorno in Germani portò con sé l’abate di Montecassino.
I Normanni riconquistarono subito i territori, tranne Montecassino che rimase fedele ad Enrico Vi ed il papa per la questione lanciò l’interdetto contro il monastero.
I Salernitani, per farsi perdonare dall’aver aperto le porte all’imperatore tedesco, fecero prigioniera l’imperatrice Costanza che, dopo alcuni giorni trascorsi nel carcere del castello, fu condotta a Palermo.
Salerno – Castello Arechi
Gli eventi sembravano favorevoli a Tancredi che pretese da Enrico VI un accordo di tregua.
Costanza venne nel frattempo trasferita a Palermo e tenuta sotto il controllo della regina Sibilla, moglie di Tancredi.
Le cronache citano i rapporti tra le due regine..” Costanza che pranzava con Sibilla e dormiva nella sua camera da letto”.
La stessa Sibillia si oppose con decisione “a che Tancredi onorasse Costanza credendo che ciò avrebbe riconosciuto la rivendicazione di quest’ultima. Trovando che la popolazione locale nutriva simpatia con Costanza con cui essa una volta aveva litigato, suggerì a Tancredi che la mettesse a morte, ma Tancredi, preoccupandosi che ciò avrebbe danneggiato la sua popolarità e ritenendo che Costanza, viva, in mano sua, costituisse un’opportunità per costringere Enrico ad un armistizio, non era d’accordo”.
Sibilla, su suggerimento di Tancredi,  si rivolse al cancelliere Matteo d’Ajello sul luogo dove imprigionare Costanza. Il cancelliere scrisse una lettera per convincere Tancredi ad imprigionare  Costanza nel Castel dell’Ovo a Napoli ..”un luogo sicuro circondato dall’acqua”.

Napoli – Castel dell’Ovo


Nell’estate del 1192 Tancredi, anche a seguito della pressione di papa Celestino III, fu costretto a mandare Costanza a Roma. Una mossa azzardata che aveva alla base il riconoscimento al titolo di Re di Sicilia da parte dello stesso papa. Durante il viaggio la scorta fu attaccata dai soldati tedeschi e la regina Costanza fu liberata.
Secondo altri storici Costanza, che fu in ogni caso trattata con grande riguardo da Tancredi, per pressione del papa fu lasciata libera e ritornò dal marito con ricchissimi doni.
Un atto di grande cortesia, ammesso che quest’ultima versione sia veritiera, che non ebbe l’adeguata gratitudine perché la guerra riprese con grande vigore.
Nell’Italia meridionale arrivarono le milizie comandate dall’abate Roffredo di Montecassino e dal Conte Bertoldo. Bertoldo,  per il numero esiguo delle sue milizie, non attaccò l’esercito di Tancredi ed arretrò nel Molise. Durante l’assalto ad un castello una sassata lo colpì in testa. Svanì ancora una volta l’attacco tedesco e papa Celestino III per riconoscenza nei confronti di Tancredi lo investì del titolo di re della Puglia e di Sicilia. Il sovrano Normanno tornò quindi a Palermo.
La vita purtroppo è contraddistinta da alti e bassi, da momenti fortunati e meno, e si preparava a manifestarsi davanti a Tancredi con tutta la sua crudeltà.
Sul finire del 1193 (24 dicembre – Palermo) Tancredi perdeva il suo figlio maggiore Ruggero III, che era stato dal padre associato al Regno ed aveva preso in sposa la bella e giovane Irene Angela (Irene Angelo) , figlia dell’Imperatore Isacco II Angelo di Costantinopoli. Tancredi nominò alla successione il secondogenito Guglielmo III, ancora fanciullo, e non riuscì a sopportare a lungo il suo dolore al punto di ammalarsi. Morì di dolore pochi mesi dopo nella sua Palermo il 20 febbraio 1194 lasciando la tutela del figlio alla moglie , la regina Sibilla di Acerra.




Enrico VI si ripresentò in Italia nel giugno del 1194 con un poderoso esercito, aveva bisogno di una flotta e stipulò con la Repubblica Marinara di Genova un accordo per l’invio in Sicilia di una poderosa flotta.
Si recò a Pisa ed anche qui stipulò con la repubblica Marinara un accordo per la concessione di dodici galee che si dovevano unire alla flotta genovese comandata dal podestà Uberto D’Olevano.
Nella sua discesa l’imperatore non trovò particolari resistenze ed anche la città di Napoli di arrese senza combattere.
Salerno si difese strenuamente per paura di rappresaglie per la consegna di Costanza a Tancredi. Alla fine si arrese e venne saccheggiata dalle truppe tedesche che massacrarono gli abitanti. Tutti i domini Normanni erano ormai in potere dei tedeschi ed Enrico nella sua marcia verso sud giunse a Messina nello stesso momento in cui giunsero le flotte pisane e genovesi.
La città dello Stretto non oppose resistenza ed Enrico VI in premio concesse alla cittadinanza molti privilegi e la giurisdizione del territorio tra Patti e Lentini.
L’imperatore attaccò quindi Catania che era difesa da un eroico presidio musulmano. L’esercito tedesco, comandato da Marcovaldo, trovò una certa resistenza ma alla fine la città fu costretta ad arrendersi subendo lo stesso destino della città di Salerno… saccheggiata, i notabili del luogo catturati e legati come buoi…
Marcovaldo lascò a Catania una guarnigione per fare ritorno  a Messina .. portandosi l’arcivescovo (Leone IV ?) e molti cittadini autorevoli di Catania..
La stessa sorte subì Siracusa attaccata dalla flotta genovese. La Sicilia orientale era ormai in potere di Enrico VI  e restava da conquistare la capitale Palermo.
La regina Sibilla aveva lasciato Palermo per rifugiarsi nel munito castello di Caltabellotta con il piccolo re Guglielmo III, le tre figlie, la nuova Irene (vedova di Ruggero III), l’arcivescovo di Salerno (Niccolò D’Aiello), l’ammiraglio Margaritone e tutti i baroni che erano rimasti fedeli alla casa Normanna.
Niccolò d’Aiello aveva completato la costruzione della Magione che era stata iniziata dal padre Matteo d’Aiello.
Enrico VI giunse a Palermo nel mese di novembre del 1194 e la città aprì le porte senza combattere.
“Un gesto che i Palermitani si dovettero amaramente pentire, ma del resto non avrebbero mai potuto resistere alla numerosa soldataglia che l’avrebbe conquistata comunque  e, guardando alla fine di Salerno, Catania e Siracusa, anche Palermo non sarebbe stata risparmiata dalla distruzione dei nuovi barbari”.
I siciliani non avevano molta simpatia per Tancredi e speravano in un provvidenziale ritorno di Costanza, figlia del grande Ruggero II ed ora moglie di Enrico VI.  Ma quando il tedesco cominciò a colpire gli avversari con le repressioni, si accorsero ben presto che Costanza non era più la figlia dell’amato Ruggero II, bensì un’imperatrice plagiata dal sovrano germanico. Conquistata Palermo… tutto il reame Normanno era in potere di Enrico VI.
Il successo non era ancora completo….. mancava il piccolo re Guglielmo III ma non era un impresa facile espugnare il castello di Caltabellotta, un presidio ben fornito di viveri e con una cinta di poderose fortificazioni.
Per paura che proprio da Caltabellotta potessero partire delle possibili ribellioni contro il suo potere decise di ricorrere all’inganno.
Fece sapere alla regina Sibilla che se avesse deposto le armi e la corona,  le avrebbe restituito al figlio Guglielmo la paterna contea di Lecce e gli avrebbe concesso anche il principato di Taranto.

Castello di Caltabellotta



Caltabellotta 

La regina prestò fede alle parole di Enrico VI e si recò con il figlio a Palermo dove fece atto di sottomissione e depose la corona.
Enrico radunò il parlamento, ricevette la corona dall’arcivescovo Bartolomeo Offamil, fratello del precedente vescovo Gualtiero. La notte di Natale del 1194, Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, fu incoronato re di Sicilia.


Durante la cerimonia in un angolo, c’erano Sibilla con il piccolo Guglielmo a cui il sovrano offrì le contee di Lecce e Taranto. Ma dopo tre giorni, con la scusa di un complotto inesistente,  fece arrestare il piccolo sovrano insieme alla madre e ad altri nobili.
Un atto ignobile, indegno, vista la giovane età  del sovrano e la mancanza di un difensore da parte di Sibilla, che provocò un senso di ribellione in alcuni nobili.



Il tutto era un piano ben studiato  da Enrico Vi perché riuscì a catturare i nobili più audaci e li imprigionò per ben due anni.
Nel 1197 – 97 scoppiò un insurrezione generale ed il sovrano ordinò delle sanguinose repressioni con esecuzioni in massa, accecò molti nobili che vi avevano preso parte e dopo aver fatto uscire i nobili dalle prigioni, dove erano stati rinchiusi per ben due anni, li fece accecare… “strappando gli occhi anche a loro”.
“Le carceri di Palermo si riempirono di prigionieri appartenenti alle più cospicue famiglie del regno; processi sommari furono istruiti a carico di baroni, vescovi e dignitari della corte normanna, e i carnefici ebbero un gran da fare, impiccando, scorticando, bruciando, accecando, mutilando orribilmente i condannati”.
Il piccolo Guglielmo, questa è una delle tante versioni, fu accecato e castrato; i figli del protonotaro Matteo D’Aiello (Riccardo e Niccolò, che era arcivescovo di Salerno) furono anch’essi privati della vista. Dei baroni e dei prelati che avevano portato Tancredi al trono, solo l’ammiraglio Margaritone si salvò grazie alla sua perizia militare che poteva tornare utile al sovrano. Il Margaritone ottenne infatti il  principato di Taranto con il titolo di duca di Durazzo.
Alla donne fu riservata una sorte “migliore”. Irene Angela affascinò il duca di Svevia che la prese in moglie.
La regina Sibilla con le  figlie (Albiria o Maria Albina; Costanza; Medania o Cecilia (?) e Valdrade) furono incarcerate in un monastero in Alsazia. (Dopo la morte di Enrico VI a Messina nel 1197 furono liberate e si sposarono: Albiria, contessa di Lecce, con Gualteri  III di Brienne, con Jacopo di Tricarico e con il conte Tegrimo  Guidi; Costanza con Pietro Ziani, doge di Venezia e Valdrade con Jacopo Tiepolo, doge di Venezia).

Il tedesco sfogò la sua rabbia anche con i morti… ordinò che i  cadaveri di Tancredi e del Figlio Ruggero III fossero dissepolti “per togliere loro solo le corone”.
“Del giovane re Guglielmo III, ultimo normanno della casata, non si seppe più nulla…”
Alcune fonti citano che sia stato mandato in Germania dove morì mentre altre fonti citano una sua mutilazione (accecato) da parte di Enrico VI e altre ancora, forse la meno plausibile, rinchiuso in un convento.
Anche i suoi  alleati, i Genovesi ed i Pisani, furono oggetto dei suoi soprusi.  Le due repubbliche Marinare richiesero il mantenimento degli accordi che prevedevano anche la dotazioni di feudi ed ingenti somme di denaro. La risposta di Enrico VI alle richieste del podestà e dell’arcivescovo di Genova ”di adempiere ai patti stipulati prima della spedizione, oltre il rifiuto si ebbero lo schermo perché Enrico VI rispose che se volevano un reale dovevano conquistarselo… ed indicò loro quello d’Aragona 8come se fosse suo) che lo avrebbe concesso come feudo a Genova !!!!!”
Stessa risposta anche ai rappresentanti della Repubblica di Pisa che non reclamarono forse per paura di essere incolpati di congiura ed essere quindi arrestati.
Nel frattempo Costanza passando  da Jesi “nella marca d’Ancona dava alla luce un figlio cui era posto il nome di Federico”.
Nella direzione del regno Enrico VI mise al suo fianco fidati consiglieri tra cui Corrado di Urslingem, duca di Spoleto.
Spogliò la Reggia di Palermo trafugando i suoi tesori che inviò in Germania..”ed erano tanti che per il trasporto furono impiegati centocinquanta muli.. nel maggio del 1195 ripassò lo Stretto…portandosi dietro la maledizioni dei Siciliani, che, inorriditi dalle sue crudeltà, gli attribuirono il nome di Ciclope…. Era Signore della Monarchia degli Altavilla… padrone della casa longobarda…. Era arbitro di tutta la penisola … il potere temporale del pontefice era ridotto a nulla.. grandi feudo imperiali a sud….ecc..”
I disegni del giovane  imperatore erano giganteschi. Ritornato in Germania, portandosi una folta schiera di nobili prigionieri normanni e su una lunga colonna di muli gli immensi tesori sottratti alla povera Sicilia, osò tentare qualcosa che nessuno dei suoi predecessori avevano mai tentato di fare…”rendere con pubblico atto ereditario  nella propria casa Sveva lo sovrana dignità”. Questo atto avrebbe unito all’Impero il Regno Siciliano, esteso anche alla linea femminile il diritto ereditario dei feudi imperiali, e rinunciato ad ogni diritto del fisco sui beni della chiesa.
L’opposizione tedesca alla casa Sveva si faceva sempre più sentire ed Enrico VI fu costretto a rinviare l’attuazione del progetto e nella dieta di Worms del 30 novembre 1195 si raggiunse solo l’accordo che per via di elezione fosse assicurata la corona a suo figlio Federico, allora aveva solo un anno, il quale fu proclamato re dei Romani ed ebbe dai grandi vassalli il giuramento di fedeltà.
L’impero  era minacciato dalla folle politica ottusa e disgregatrice dell’imperatore e le città cominciarono a sollevarsi.
In Sicilia dove la crudeltà dell’imperatore e il suo tradimento all’amata casa normanna, la ferocia e la licenza d’agire delle soldatesche germaniche, avevano creato un odio  molto radicato nei confronti dell’imperatore.  Fu ordita una congiura per rovesciare il trono. Enrico VI aveva preparato un esercito per una spedizione in Terra Santa ma fu costretto, a causa della situazione in Sicilia,  a dirigere una parte delle truppe verso il Meridionale.
Napoli e Capua furono assediate e il Conte di Acerra, caduto nelle mani dei tedeschi mentre travestito cercava la fuga, fu trascinato per le vie prima attaccato alla coda di un cavallo e poi impiccato e molti nobili pugliesi furono messi a morte.
Catania si difese grazie ai suoi cittadini ma fu espugnata dal gran maniscalco Marcovaldo.

Molti cittadini  furono passati alle armi ed anche quelli che si erano rifugiati nel tempio di Sant’Agata non ebbero scampo. La chiesa fu incendiata e i cristiani che vi si trovavano, perirono tra le fiamme… le vittime… tantissime ed anche le cifre tacciano.
A Palermo furono ripetute le atrocità di qualche anno prima e Margaritone e un certo Conte Riccardo furono accecati. I palermitani avevano nominato come re dei ribelli un certo Giordano che fu catturato dalle truppe imperiali. Gli fu calcato sul capo una corona di ferro rivestita di chiodi… molti personaggi autorevoli furono bruciati vivi o impiccati.
La ferocia dell’imperatore non riuscì ad intimorire i Siciliani che pieni d’orgoglio reagirono ancora con maggiore forza alle crudeltà tedesche. Il castellano di Castrogiovanni issò il vessillo delle rivolta sfidando la collera di Enrico VI che con parte del suo esercito corse ad assediarlo. I suoi sforzi di conquista furono vani e forse fatali per Enrico VI.
Il re, forse stanco per gli sforzi bellici, fu colpito da una malattia e si ritirò a Messina dove si erano concentrati numerosi crociati.
Qui cessò di vivere nella notte  fra il 28 ed il 29 settembre del 1197 all’età di 32 anni.
Una morte misteriosa dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua fredda.. forse una congestione o .. avvelenato per ordine della moglie Costanza forse intimorita dalla azione del marito e  in preda ad un ravvedimento legato alla sua nobile appartenenza al casato degli Altavilla così lontani nei loro comportamenti militari da quelle tristi immagini di violenza tedesca … Una donna con un bambino di appena 3 anni a cui doveva dare l’esempio di vita e quello del padre Enrico… ancora giovane… e quindi in grado di accompagnare la crescita del fanciullo non era il più adatto….

Tancredi seguito dai figli Ruggero e Guglielmo III
Dal “Liber ad Honorem Augusti”

Sibilla e i presunti cospiratori contro Enrico VI

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6.     I Cavalieri Teutonici
Un altro tassello di questa pagina di storia e di architettura è legato alla presenza dei Cavalieri Teutonici la cui origine non è molto chiara.




L’Ordine di Santa Maria dei Tedeschi (“Ordo Sanctae Mariae Teutonicorum” oppure “Ordo Teutonicus”) (“Feutsche Ritterorden” o “Deutsche Orden”)  ha delle origini incerte. I  cristiani europei sin dagli inizi del Medioevo avevano l’abitudine di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Un viaggio o per via mare, dai porti del Sud Italia o via terra  attraversando tutta l’Europa sino a Costantinopoli e proseguendo attraverso l’Asia Minore e la Siria.
Le vie erano pericolose ed i pellegrini spesso arrivano in condizioni fisiche e sanitarie molto precarie a causa del clima, delle condizioni igieniche, delle epidemie e anche degli assalti dei predoni. I pellegrini tedeschi preferivano intraprendere per la Terra Santa la via terrestre.  Un viaggio lunghissimo, dal centro della Germania per giungere a Gerusalemme sono circa 3.685 km che a piedi si percorrono in 700 ore, considerando tappe giornaliere di circa 25 km si percorreva in 147 giorni in circa 5 mesi senza considerare i giorni di riposo.
I pellegrini arrivano quindi in condizioni di stress psichico-fisico e affrontavano l’altro grave problema legato alla lingua.
C’era quindi la necessità di creare un’istituzione caritativa che si occupasse dei pellegrini e che mosse i primi passi prendendo il nome di “Fratelli dell’Ospedale di Santa Maria di Gerusalemme”.



Si narra che fu un mercante tedesco, stabilitosi con la moglie a Gerusalemme verso la fine dell’XI secolo, che durante la crociata del 1099 accolse nella sua dimora un cavaliere tedesco gravemente ferito durante la conquista di Gerusalemme. Il milite fu curato e riacquistò la salute. In seguito i due coniugi si misero a disposizione dei connazionali, che giungevano malati o feriti, e procedendo per piccoli passi, con l’approvazione del patriarca di Gerusalemme, l’opera caritativa intrapresa si trasformò in un vero e proprio “hospitalia” per l’accoglienza dei pellegrini tedeschi.
La coppia lasciò i propri beni in eredità all’ospedale, in cui prestavano servizio dei frati, prendendo il nome di “Ospedale di Santa Maria dei Tedeschi di Gerusalemme”.
Il nuovo ospedale fu  sottoposto all’autorità degli ospitalieri di San Giovanni pur mantenendo sempre un priore tedesco. L’esistenza dell’ospedale è confermata da Jacques de Vitry nella sua “Historia Orientalis” e la data del 1118 fu considerata come la data di fondazione dell’istituzione ospedaliera. Verso la fine del XII secolo è comunque  confermata l’esistenza dell’ospedale  con ospizio destinato all’alloggio ed alla cura dei pellegrini tedeschi e gestito da un priore tedesco e posto sotto la tutela dell’ordine degli Ospitalieri di San Giovanni. Nell’Ospedale  era presente un foresteria ed una cappella dedicata alla Vergine Maria.
Nei primi anni i fratelli dell’Ospedale erano pochi rispetto agli ospitalieri di San Giovanni ed ai templari e la loro storia in quei tempi non è ben nota anche se continuarono la loro azione di assistenza specialmente dopo la seconda crociata del 1147. Crociata che fece aumentare il flusso dei pellegrini tedeschi per Gerusalemme.
La conquista della città nel 1187 da parte di Saladino li costrinse ad abbandonare la città, l’ospedale fu distrutto, e a rifugiarsi in qualche luogo sconosciuto.

Con la caduta della città fu indetta la terza crociata e l’uno settembre 1189 55 navi che trasportavano i cavalieri crociati tedeschi attaccarono Acri, importante città portuale, che era sotto assedio di Saladino dall’agosto 1189.
Nella città fu creato un ospedale da campo, “utilizzando una delle vele di una nave”, grazie ad alcuni mercanti tedeschi al seguito di Adolf von Holstein,  con la concessione del re di Gerusalemme, Guido di Lusignano, di poter edificare un ospedale all’interno della città una volta conquistata.
È probabile che in questo ospedale campo prestassero la loro opera assistenziale alcuni fratelli dell’antico ospedale di Santa Maria di Gerusalemme dato che, dopo la presa della città avvenuta nel luglio 1191, l’ospedale si trasferì in un palazzo entro le mura e riprese l’antico nome di “Ospedale di Santa Maria dei Tedeschi di Gerusalemme”.
Le fonti riportano anche come l’ospedale fu lasciato, una volta conquistata la città, a dei frati tedeschi che acquistarono dei terreni e un edificio, costituendo l’ordine  dei “fratres domus hospitalis sanctae Mariae Teutonicorum in Jerusalem”.
In realtà il papa Clemente III il 6 febbraio 1191 aveva concesso all’ordine la sua approvazione e la protezione.
La regola seguita dagli appartenenti all’ordine era quella dei “cavalieri Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme”. Il 21 dicembre del 1196 furono confermati all’Ordine i possedimenti del tempo e futuri.
C’è una differenza fondamentale tra i Cavalieri teutonici e gli altri ordini che sorsero al tempo delle crociate. Gli altri ordini avevano una visione universale, abbracciavano figure provenienti anche da paesi diversi, mentre i teutonici era vincolati ad una precisa idea d’identità nazionale circoscritta alla “Vaterland” cioè la madre patria germanica.
I  papi s’interessano subito all’Ordine  costituito e il primo fu, come abbiamo visto, papa Clemente III (1187 – 1191)  che assicurò ai cavalieri l’approvazione ecclesiastica. Celestino III (1191 – 1198) conferì all’ordine la regola monastica di Sant’Agostino ed Innocenzo III (1198 – 1216) ne ratificò la costituzione ponendoli sotto la protezione della Vergine.
Con questi riconoscimenti i Cavalieri teutonici avevano l’avallo sia dell’Impero che del Papato
Nell’Ordine la rigida regola che vietava l’accesso a chiunque non fosse aristocratico e di lingua tedesca. Importante il ruolo riservato alle donne che erano presenti ed attive nella loro assistenza ai feriti ed agli ammalti.
Per lo stretto rapporto d’intesa che ebbero con l’imperatore Federico II di Svevia, rappresentato nell’Ordine Teutonico da maestri di sua fiducia, i cavalieri teutonici acquisirono un esteso potere in Puglia ed in Sicilia. Ma il loro grande sogno era rivolto al Nord dell’Europa dove all’inizio del XIII secolo intrapresero azioni di conquista dei territori senza però tralasciare la Terrasanta.
Si scontrarono in i danesi, i lituani, con i polacchi , con i russi ed anche i mongoli, e  nelle loro conquiste posero le base per la nascita della Prussia moderna.
Durante  l’impero di Enrico VI l’ospedale ricevette molte donazioni fondiarie tanto che spinsero i cavalieri a richiedere un riconoscimento ufficiale della propria indipendenza.
Come abbiamo visto da Papa Clemente III a Papa Innocenzo III l’Ordine ricevette un suo ufficiale riconoscimento sottoponendolo alla regola degli ospitalieri per quanto riguardava l’assistenza ed imponendo la regola dei Templari (per l’azione militare) dai cui si distinguevano per il mantello bianco e la croce nera rispetto a quella  rossa portata dai Templari. In quel periodo l’ordine aveva già cinque sedi in Terra Santa ed era in espansione anche nell’Italia meridionale, a Barletta e in Sicilia.

(A titolo di cronaca c’è da dire che nel 1300 l’ordine aveva circa 300 commende diffuse in Terra Santa, Cipro, Grecia, Italia, Sicilia, Spagna, Paesi Bassi, area Baltica,,ecc.)

Castello di Malbork (Polonia) – fu Costruito dai Cavalieri Teutonici

Castello di Prata Sannita – Presidiato dai Cavalieri Teutonici

Castello di Bran - Transilvania

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7.    Enrico VI assegna la Magione ai Cavalieri Teutonici
Nel 1197 Enrico VI, incoronato tre anni prima re di Sicilia, decise di levare il monastero ai Cistercensi, forse puniti per aver appoggiato il suo rivale Tancredi, e lo affidò ai Cavalieri Teutonici, di cui egli stesso faceva parte. Questi ultimi ne fecero un ospedale del loro Ordine, mutando il nome della chiesa in quello di Santa Maria della Magione, che significava appunto ospizio.
Altri storici farebbero derivare il termine “Magione” da “Mansio”, il nome del precettore dell’ordine che risiedeva nell’attigua Abbazia.
Nel 1216 presso le strutture furono ospitati i Domenicani che costruirono la Cappella della Madonna del Rosario.
Nel 1220, in seguito alle polemiche ancora esistenti tra Cistercensi e Cavalieri Teutonici, papa Onorio III confermò il trapasso del monastero e i monaci bianchi dovettero abbandonare ogni speranza di ritornare nella loro abbazia.
I Cavalieri Teutonici grazie  alla loro attività ed alle donazioni, aumentarono il prestigio dell’Abbazia.
Il 4 aprile 1463 si svolse una solenne consacrazione presieduta da Simone Beccadelli di Bologna
I Cavalieri Teutonici mantennero il possesso della Magione fino al 1492 quando fu eretta  in Commenda (data in affidamento) e governata per quasi due secoli da abati commendatari.
Primo abate Commendatore fu il cardinale Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI.
La Magione cominciò a subire diverse manomissioni che culminarono, durante il XIX secolo, nella aggiunta di un duplice loggiato neoclassico alla facciata.  
Nel 1782 l’edificio fu posto sotto il patronato dei re borbonici e il 30 maggio 1787, Ferdinando III di Borbone aggregò la Magione all’Ordine Costantiniano di San Giorgio.
Restaurata prima della seconda guerra mondiale, fu danneggiata dai bombardamenti e infine restaurata dall’architetto Guiotto. A sinistra dell’edificio restano ancora visibili alcune parti del monastero e del chiostro.

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8.     Architettura

Le ricerche archeologiche hanno riportato alla luce dei reperti di età araba e normanna che hanno suggerito l’ipotesi di una struttura preesistente alla nuova basilica.
L’antico complesso sarebbe sorto al confine della cittadella fatimida che era chiamata “al – Halisah” (cioè “l’Eletta” ovvero il termine moderno “Kalsa”) ed era la sede emirale e il centro amministrativo e militare arabo.  Una cittadella fondata da Halil Ibn Ishaq che nel 937 giunse in Sicilia per reprimere una rivolta scoppiata contro il governo musulmano.
La chiesa, realizzata da maestranze e da artisti di origini islamiche, e fu costruita probabilmente inglobando una struttura religiosa preesistente (moschea). Rappresenta uno degli ultimi prodotti dell’architettura medievale siciliana d’impronta fatimita ( che fu una dinastia musulmana sciita che si impose tra il X e il XII secolo in alcune regioni mediterranee, tra cui la Sicilia) e mostra in chiave ridotta, lo stesso schema iconografico delle cattedrali di Palermo e Monreale.
La notizia più antica dell’Abbazia risale al 1191, cioè un diploma in lingua greca nel quale si registra la vendita per 50 tarì, fatta all’abate della Santa Trinità  del Cancelliere, di una casa a Palermo, presso il panificio di corte.
Importanti documenti per cercare di capire l’originaria planimetria della Magione  sono:
-          Una pianta generale del complesso, datata 1791, e conservata presso l’Archivio di Stato di Palermo;
-          Una planimetria d’inizio del Novecento;
-          La planimetria attuale del complesso.
I confronti  permetterebbero di rilevare  la complessità dell’edificio per gli interventi che si sono susseguiti. Interventi di restauro eseguiti tra il 1800 ed il 1815 che diedero all’edifico un aspetto neoclassico; restauri condotti verso la fine del XIX secolo (ultimi decenni) mirati al ripristino delle originarie linee arabo-normanne ad opera dell’architetto Giuseppe Patricolo; altri restauri nel 1920  e dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Nei  restauri del 1920 furono cancellati gli interventi che furono effettuati, senza alcuni criterio, tra il 1800 ed il 1815, che avevano portato alla creazione di un loggiato su tutta la facciata. Manufatto che fu appunto demolito durante il restauro condotto nel 1920 da Francesco Valenti.  

Restauri post-bellici mirati al presunto recupero di un “immagine originale” , quella della fabbrica Normanna, vennero condotti da Mario Guidotto, Soprintendente a Palermo dal 1942 al 1949.
Dell’antico edificio Cistercense, l’ultima costruzione religiosa normanna e filiazione dell’abbazia palermitana di Santo Spirito,  rimane l’impianto basilicale a tre navate divise da tre arcate a sesto acute su colonne, munite di pulvino, elemento architettonico di natura bizantina, collocato tra il capitello e l’imposta dell’arco, la cui funzione è quella di garantire la distribuzione dei carichi.
Ha una caratteristica forma a tronco di piramide rovesciata, posto tra il capitello e l’imposta dell’arco, e permette di concentrare le tensioni generate dai carichi soprastanti verso la colonna posta al di sotto del capitello.




Il chiostro, da sempre il nucleo centrale dell’organizzazione monastica, secondo l’architettura cistercense doveva appoggiarsi sul lato meridionale della chiesa mentre nella Magione si trova sul lato settentrionale della chiesa.











Uno dei capitelli presenti sulle colonne del chiostro


Del chiostro originario, databile alla fine del XII secolo, restano le corsie nord occidentali e sud-orientali, anche se quest’ultima fu quasi completamente ricostruita tra il 1951 ed il 1954. Le parti mancanti furono ricostruite copiando le colonne  superstiti.



“Simile al maggiore esempio del Duomo di Monreale del quale riprende l’ordine delle arcate ogivali a doppia  ghiera, con archivolto e costola all’intradosso, su colonne binate con capitelli di buona fattura, il chiostro della Magione se ne distacca per dimensione e ricchezza decorativa”.
La vera da pozzo, che si trova al centro del chiostro, è il risultato di un riutilizzo di materiale del XIV secolo proveniente da una tomba che presentava un'iscrizione ebraica.



Chiostro – La vera da pozzo – si notano le doppie ghiere sugli archi del chiostro

Questa vera ha una sua storia perché fu portata ne chiostro della Magione solo nel 1943. La vera è quella parte visibile del pozzo che si eleva al di sopra della superficie del terreno.



Il bordo, costituito da marmo bianco e collocato al di sopra di una struttura di mattoni, presenta delle iscrizioni in lingua ebraica. Si trattava di una pietra sepolcrale del 1353 che era stata posta sulla tomba di un giovane ebreo palermitano di nome Daniele.
L’iscrizione recita:
Nella sua arca giace ancor vegeto Daniele, figlio di Rabbi Saadia. La sua anima sia custodita nello scrigno della vita. Su di lui il bene e il riposo dell’anima. Il suo riposo sia nella gloria.

È logico chiedersi come mai una tomba ebraica diventò il bordo di una vera  di un monastero.

Gli Ebrei furono cacciati dalla Sicilia nel 1492 e i cimiteri ebraici di Palermo, posti nei terreni limitrofi alla Porta Termini, furono abbandonati.
Probabilmente molti elementi architettonici che adornavano queste tombe furono utilizzati per abbellire palazzi, chiese e monumenti cittadini. Il cimitero ebraico fu d’altra parte sconvolto nel 1537 dalla costruzione di un nuovo fossato esterno alla città.
L’elemento architettonico giunse alla Magione dove le monache decisero di utilizzarlo come pezzo di pregio della loro vera di pozzo e probabilmente non si accorsero nemmeno della presenza dell’iscrizione. Ancora oggi sono visibili i solchi creati dal continuo passaggio della corda, al quale era legato il secchio, sul marmo.
La vera, opportunamente coperta, da quello che mi risulta, è spesso usata come altare per cerimonie nuziali. E chissà, come ha scritto uno studioso, se il giovane ebreo Daniele sia contento del nuovo utilizzo romantico di parte della sua tomba.







Al periodo teutonico risalgono gli ambienti annessi alla chiesa e costituiti dal refettorio, la cappella del 1463(consacrata il 4 aprile del 1463) dedicata al santo militare San Giorgio e le stanze del Commendatore.
In un ambiente allungato, un tempo utilizzato come battistero, si trova l’Oratorio di Santa Cecilia. Sulla parete di destra è presente un affresco della Crocifissione. Un Cristo sofferente con San Giovanni e la Madonna ai cui piedi è presente un personaggio inginocchiato e raffigurato di profilo. Si tratterebbe di Leonard von Mederstorsen, procuratore dell’Ordine nel 1458 e ritenuto da alcuni storici  il committente dell’opera.  Al Von Mederstorsen si deve la sistemazione dell’antico refettorio dove doveva essere collocato il prezioso affresco.



Palermo – Magione – Santa Cecilia all’organo
(Santa Cecilia patrona dei musicisti e dei cantanti)
Opera di Giacomo Lo Verde (Trapani, ? – Palermo, XVII secolo)



Palermo – Magione – Oratorio di Santa Cecilia
“La Crocifissione” con Maria e Giovanni Evangelista
(si nota il Cavaliere Teutonico inginocchiato)

Dipinto del 1512

Palermo – Magione -  Oratorio di Santa Cecilia

Nell’Oratorio è presente una bifora con iscrizione in arabo.

Descrizione della Basilica

La Facciata



La bellissima facciata è caratterizzata da tre portali a sesto acuto strombati e incorniciati da bugne (i due portali laterali sono di dimensioni minori). Nel secondo ordine sono presenti cinque monofore di cui le tre centrali sono chiuse. Il frontone è caratterizzato da tre monofore  di cui quella centrale, di dimensione più grande rispetto alle altre due, è posta in asse con il portale principale.
Il motivo delle monofore con ghiere si ripete anche nei prospetti laterali e nelle absidi. L’abside centrale è disegnata da archi intrecciati ben sporgenti mentre le due absidi minori, caratterizzate da slanciati archi a sesto acuto, sono appena accennati.

Prospetto laterale

Magione – Le Absidi



L’INTERNO

Sul soppalco ligneo, posto sopra l’ingresso, si trova un maestoso organo.





La chiesa nel suo interno presenta un esempio di stile arabo-normanno con le finestre ogivale incassate e il motivo delle arcate intrecciate che è riprodotto anche nell’abside.
Otto colonne, sei archi e vari livelli di pavimento conducono nel presbiterio.
La copertura lignea, quasi del tutto rifatta, della navata centrale, più alta ed ariosa, sicuramente prima era policroma, dato il rinvenimento di travi istoriate con figure di animali e formule augurali in arabo, durante i restauri ottocenteschi.



Lungo la navata centrale alcune tombe dei Cavalieri Teutonici del  ‘400. (Altre lastre tombali, se non ricordo male, furono spostate nel chiostro).





Un dipinto su tavola, proveniente dalla Magione, è conservato presso il Museo Diocesano.

Il Dipinto “Abramo e i Tre Angeli” raffigurati con il committente
(tres vidit et unum adoravit”) ‘ una tempera su tavola, opera del
Maestro delle Incoronazioni”.
Un pittore palermitano vissuto tra la fine del XIV  e l’inizio del
XV secolo, che presenta influssi artistici pisano-senesi.
(Oggetto : Tavola  dipinta cuspidata
Tecnica: Tempera su tavola – Datazione: Fine XIV – inizi XV secolo
Misure:  (106 x 63 x 3 )cm



Le corone con parti terminali a forma di giglio erano realizzate alla fine
del Trecento da orafi spagnoli. Infatti tra gli oggetti provenienti da
Valencia e Barcellona vi erano quelli che nel 1393 la regina
Maria di Sicilia diede in pegno a Martino Russo e Simone di Lerda
per un prestito..”coronam argenti in quo sunt flores undezim facti
ad modum florum liri”
Gli artisti del tempo adornavano i diademi dei loro Santi non
solo dovevano tenere presente la moda del tempo ma anche
conoscere il valore simbolico delle gemme e dei fiori disegnandoli
secondo un preciso significato.

Navata Destra
-          La Pietà. Una scultura marmorea del 1953 opera dell’artista Archimede Campini. In questa cappella era documentata un’opera che fu commissionata ad Antonello Gagini nel 1513 e realizzata dal figlio Vincenzo.  Una scultura realizzata con una mistura di stucco con basamento in marmo. L’opera fu distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e di essa rimangono solo dei frammenti;
-          Acquasantiere del XVI secolo;
-          “Cristo Benedicente”, opera della bottega del Gagini; 

Cristo Benedicente


-          Trittico in marmo bianco. Le figure rappresentano la Santa Vergine con il Bambino e Santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata simbolo del suo martirio. Vi sono anche due santi, probabilmente San Nicola e San Bernard da Clairvaux o San Domenico, che sono posti ai lati.
In alto è presente la raffigurazione dell’Annunciazione con Dio, Maria e l’arcangelo Gabriele. In basso, a chiudere il trittico, la Crocifissione.
Cristo in Croce affiancato da Apostoli e Santi. Questo bellissimo trittico era posto in origine dietro l’altare maggiore e costituiva la primitiva Cappella del Rosario che fu costruita dai Domenicani nel 1216.


-          Cappella di Santo Stefano, un altare documentato (nel 1315 ?) con quadro di Santo Stefano Protomartire.

NAVATA SINISTRA

-          Croce in pietra raffigurante l’emblema dei Cavalieri Teutonici (XV secolo)

Croce in pietra dell’Ordine Teutonico

-          Sarcofago, monumento funebre di Francesco Perdicaro, Maestro Razionale del Regno. Fu realizzato da Vincenzo Gagini e reca la data del “9 dicembre 1567”. Secondo le volontà del Perdicaro vi fu tumulata anche la salma della moglie Eleonora. Perdicaro Francesco fu “Maestro Razionale del Real Patrimonio” nel 1566 e subentrò a Luigi Beccadelli “di Bologna da Palermo”, in carica dal 1564.



-          Madonna con il Bambino, statua marmorea della bottega del Gagini (XVI secolo)


-          Un Portale  rinascimentale, che introduce alla sacrestia, opera di Francesco Laurana



PRESBITERIO

Nell’abside a destra si trovano uno stupendo tabernacolo, opera della Scuola del Gagini, datato 1528 e una Madonna dipinta su lavagna risalente al ‘500.



Nell’abside a sinistra, una Madonna lignea policroma posta su una base di marmo del ‘500 con S. Domenico e Santa Caterina.
Nell’abside centrale il poderoso altare in pietra decorato a rilievo. Il cappellone dell’abside è decorato da 16 colonnette marmoree e nel catino  e posto il dipinto della Vergine Incoronata.



Al centro della navata un Crocifisso sospeso del XII secolo



Nel portico del chiostro un portale rinascimentale e lungo le mura dello stesso portico è presente un affresco rinascimentale della Madonna delle Grazie.
Il portale barocco presente le statue della Fede e della Carità e sul timpano è incastonato un medaglione con la Croce Costantiniana



Affresco Rinascimentale
Madonna delle Grazie
Nel Chiostro



L’Oratorio di Santa Cecilia costituisce l’accesso al settecentesco Oratorio del Santissimo Crocifisso.
La Congregazione del Santissimo Crocifisso, dedita all’assistenza degli ammalati e ad attività di carità ebbe in dotazione tra il 1766 ed il 1786, dal cardinale Antonio Branciforte Colonna la concessione di un locale ricavato nell’originario refettorio della Magione.
C’erano dei bellissimi affreschi che con il tempo si sono deteriorati.




Presenta una fascia decorata in stucco  che raccorda le pareti con la volta a botte e sopra l’altare una raffigurazione dello Spirito Santo con cherubini disposti a raggera.
Sul cornicione si trovano invece due putti,


Lungo le pareti sono presenti degli elementi ovali a stucco, all’interno dei quali, erano affrescate scene bibliche ormai scomparse…

Sull’altare un affresco del 1472 raffigurante Gesù Crocifisso ritratto con la Vergine Maria e San Giovanni Evangelista, che da recenti restauri ha svelato un ulteriore frammento d’affresco d’epoca anteriore.
Il Crocifisso posto sull’altare risale al XVII secolo  mentre sotto la mensa è presente la teca contenente  il Cristo Morto.
Un Cuore di Gesù, posto dalla parte opposta all’altare, domina l’aula e vicino si trova una statua in gesso che rappresenta i pellegrini che preso la Magione trovavano accoglienza e conforto.
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Facevano parte del recinto sacro:

9.    Collegio “S. Maria della Sapienza” per le ragazze povere
-          Il Collegio di Santa Maria della Sapienza sorto nel 1740, un’istituzione nata per accogliere, educare ed istruire le ragazze povere del rione (Kalsa). Ospitò le Suore di Madre Teresa di Calcutta.
“Si conosce sotto il titolo di “Collegio di Maria della Sapienza” o del P.D. Ignazio Capizzi, perché questo sacerdote gran servo di Dio ne fu quasi il fondatore, quantunque prima gli avesse dato principio il Sacerdote D. Gaetano Lo Piccolo.
Ritornando nella strada della Vetraja, su la fine di essa alla destra è la fabbrica di bocce, di bicchieri, caraffe, fiaschi, ed altri vasi di vetro per gli usi domestici. A questo luogo succedono i  MAGAZZINI DEL SENATO ALLO SPASIMO…”
Chiesa e Collegio di Santa Maria della Sapienza in Piazza  Magione … un triste abbandono….


Fu quindi don Gaetano Lo Piccolo a fondare nel 1741 il Collegio di “Maria della Sapienza” per le fanciulle del quartiere Kalsa. All’inizio la sede era in via Butera presso l’Oratorio di Gesù e Maria (oggi mi sembra sconsacrati), successivamente presso la chiesa della Savona e nel 1754 nell’attuale luogo di Piazza Magione.
Nel 1761 il collegio passò a don Ignazio Capizzi che ultimò la chiesa e il collegio. Per questo motivo è considerato come cofondatore.
Una chiesa molto semplice. Ha una facciata con loggia superiore e all’interno la navata è preceduta dal coro.  Oltre al presbiterio vi sono due cappelle. Venne benedetta nell’aprile del 1850 dal cardinale don Ferdinando Pignatelli. Il complesso si salvò miracolosamente dai terribile bombardamenti del  1943 che devastarono Palermo.

Fu abbandonato dalle suore  collegine anche perché era prevista la demolizione della struttura, non attuata, in previsione di un piano regolatore.
Le suore si trasferirono nella nuova sede di via Castellana portando  anche le opere d’arte e le suppellettili. Venne utilizzata per alcuni anni dalle suore di Madre Teresa di Calcutta e da anni è ormai in abbandono. Nella chiesa sull’altare maggiore era rimasto un grande Crocifisso del XIX secolo  non so se ancora presente.
Nella Piazza della Magione..… ."Le demolizioni che risultavano ancora non completate nel 1968, si arenarono poco dopo di fronte al Convento della Sapienza (oggi al centro della “piazza”, tanto che propriamente si dovrebbe dire “Piazza della Sapienza”) in prossimità del quale si interruppe la realizzazione del tratto stradale pavimentato a sanpietrini che fino alla fine degli anni novanta rimase ad indicare, sui luoghi, il tracciato previsto della via del Porto."




Il Collegio con la chiesa

Sul prospetto orientale del Collegio si trova un’edicola votiva con la raffigurazione di Santa Rosalia.


Edicola con Santa Rosalia


Questi collegi erano nati grazie all’idea di evangelizzazione del cardinale Pietro Marcellino Corradini (Sezze, 2 giugno 1658 – Roma, 8 febbraio 1743) perchè le donne erano al centro della sua idea sia come soggetti da educare sia come educatrici.
Grazie al loro ruolo di madri, operavano all’interno delle famiglie ed erano quindi in grado di plasmare gli animi dei fanciulli.
In quei tempi, siamo nel XVII – XVIII secolo, c’era la consuetudine di trascurare le donne e di lasciarle all’ignoranza. Questo le spingeva, notava il cardinale ed arcivescovo Marcellino Corradini, alla prostituzione o a divenire presto ragazze madri. La donna non doveva essere abbandonata a se stessa ma curata, protetta, educata ai sani principi della fede, all’onestà dei costumi ed ai lavori femminile, per essere in grado di essere libera di trovare un lavoro.  Quindi donne non emarginate dalla comunità ma inserite in essa come fattore di crescita morale ed economica della stessa comunità. Un aspetto che la società si ostinava a non comprendere.
Le collegine, in quanto madri della grande famiglia che era lo società, dovevano uscire dai collegi o istituti e recuperare tutte quelle ragazze  in pericolo per aiutarle, educarle.

Un agire che richiedeva un grande impegno e quindi le collegine dovevano essere  in possesso di una grande fede e motivazione nel loro agire. La figura della collegina era quindi l’incarnazione perfetta della donna impegnata socialmente.
La funzione delle collegine era anche spirituale perché la formazione e la guida dell’individuo andava al di là del senso strettamente umano. S’invitava ad intervenire in un senso quasi mistico come educazione all’unione ed alla comunione con Dio secondo il fine ultimo che deve essere l’uomo che a Dio tende, in lui trasformandosi.
C’è da dire che questo misticismo del Corradini diventò un elemento che caratterizzò la fondazione di molto collegi. Gli istituti più antichi furono infatti legati ad apparizioni, a miracoli e a parole profetiche esclamate da persone in odore di santità. Si sviluppò quindi un idea interpretativa in cui Dio stesso richiedeva alla comunità di creare un collegio di Maria, strumento principe per redimere la povera gente. La popolazione del paese si ricomponeva davanti alla realizzazione dell’opera in cui il clero assumeva un ruolo di stimolo vero maggiori traguardi nella realizzazione della parola di Dio e per il raggiungimento della salvezza collettiva. Tutto soffuso da un profondo misticismo.
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-          Il Collegio della Vitrera, del 1592, detto anche Conservatorio di Santa Maria Maggiore o delle “Male Maritate alla Vetraia”.

Circa l’anno 1592 il Senato Palermitano in riguardo di D. Maria Pimentelli Contessa di Olivares, Viceregina, che ne fece le istanze, determinò fondare un Conservatorio per quelle donne del basso popolo, che per un infelice maritaggio potevano correre qualche rischio, come anche per quelle, che a causa della loro cattiva condotta meritassero correzione. A questo fine destinò once cento all’anno per lo acquisto di una casa, ed elesse de’ Deputati per soprantendere alla fondazione.  Pigliarono questi a censo un tenimento di case con giardino rimpetto il monistero di Montevergini  posseduto da D. Vincenzo Calvello, e vi fondarono il conservatorio colla chiesa. Nel 1606 dovendosi riformare il monistero di Montevergini, dall’Arcivescovo D. Diego Aiedo di concerto col Senato si levarono via dal Conservatorio queste donne, e vi si fecero passare le educande, che erano nel detto monastero, mettendovisi la clausura a 16 Luglio del detto anno.   Per le donne poi “male maritate” fu fondato l’attuale nella contrada della Vetraja sotto lo stesso titolo dell’antico di S. Maria Maggiore. Sta questo conservatorio sotto l’immediata giurisdizione del Senato, eleggendone egli i Deputati, de’ quali uno suol essere ecclesiastico graduato, e l’altro un nobile. Vi è una piccolissima chiesa, e parlatorio, e dentro de’ cameroni per abitarvi quelle povere donne, che o volontariamente vi si ritirano, o che vi sono rinserrate per castigo dai Magistrati.
Nel 1754 soffrì un incendio, per lo quale si consumarono quasi tutte le fabbriche, indi fu rifatto, e si appose in memoria la iscrizione, che si legge sulla porta del parlatorio.
Non molto distante da questo luogo ed in quella strada, che dritto conduce alla Magione, è il Collegio di Maria alla Magione della Sapienza…..”.
Il Conservatorio continuò la sua importante funzione sociale fino a quanto nel 1823 fu distrutto dal terremoto e non “fu più rialzata”.

Ma dove si trovava esattamente il Conservatorio delle “male maritate” ?
I punti fondamentali sono la vicinanza al Collegio di Santa Maria della Sapienza, la Contrada “Vetraja” e l’indicazione “lungo la strada che dritto conduce alla Magione”.
Potrei anche sbagliarmi ma penso che il Conservatorio si doveva trovare alla fine dell’attuale via Vetreria, all’angolo con la Via della Pace e quindi vicino alla Chiesa dello Spasimo. Vicino alla Chiesa dello Spasimo c’era anche l’antica “Casa dei pezzenti” che fu eretta verso il 1605.

Il Conservatorio delle “male maritate”  doveva trovarsi all’angolo tra via Vetreria e Via della Pace. Con la lettera “A” dovrebbe essere l’antica fabbrica di bocce, di bicchieri, caraffe, fiaschi, ed altri vasi di vetro per gli usi domestici. A questo luogo succedono i  MAGAZZINI DEL SENATO ALLO SPASIMO…”(posti a Sud di “A”)

L’antica fabbrica di bocce, bicchieri, ecc. (?)



Nel Conservatorio momenti di vita.. come quello drammatico del 29 agosto 1727 quando Palermo fu colpita da un forte temporale.
… nella Città di Palermo furono spaventevoli i Fulmini che s’udirono a 29. Agosto del 1727. Di quei che caddero si ha la certezza di tre per gli effetti che fecero.
Cadde uno nella spiaggia del Mare, e privò di vista un Pescatore in mezzo a molti. Altro nel Conservatorio di Santa Maria Maggiore, detto delle Male Maritate, e uccise una Giovane, senza lasciare altro segno nella sua persona, che poco sangue grondante da un occhio. Il terzo fu nel Monastero di San Carlo de’ Padri Casinesi….”

Nel Conservatorio prestò la sua opera un  don Paolo Riggio e Saladino, dei principi di Campofiorito, che fu appellato come “Grande Servo di Dio”.
Don Paolo Riggio e Saladino nacque il 25 gennaio 1660 ed era figlio di Luigi Riggio, 2°  principe di Campofiorito, e di Donna Francesca Saladino e Celestri, Baronessa di Valguarnera e di Radali.
Una vita vissuta nell’insegnare la Dottrina Cristiana ai fanciulli, nell’istruire gli adulti negli obblighi della divina legge…”si distendeva a varj Monasterj, per ajutare nel cammico della perfezione l’anime a Dio consagrate: ed in questo esercizio mostrava un distinto godimento, senza mai annojarsi nel travaglio…”.
Aveva diversi Monasteri nella sua parrocchia…”per confessare nel Monastero di san Vito era costretto a camminare oltre un miglio; e nulladimeno abbracciava più che volentieri la fatica, e ancorchò gli fosse più volte offerta comodità di carrozza, non volle mai accetarla”.
Il Conservatorio delle “Male Maritate”, era posto nella sua parrocchia..”perché ridotto di persone cadute nelle laidezze sensuali, o in pericolo di perdere col corpo anche l’anima, considerato dal Don Paolo, più bisognevole di caricativi soccorsi, era da lui proveduto non men nel temporale, che spirituale, sovvenendolo con larghe limosine”.
“Più volte la settimana vi predicava; nel tempo della Quaresima si partiva a piedi dalla Sua chiesa, fino al Convento de’ Padri cappuccini, in distanza di due miglia, per ottenere dal Guardiano di quel Convento un buon Predicatore per detto Conservatorio; e sortiva sempre, che impetrava il più fruttuoso Predicatore, molto giovevole al profitto di quelle anime…. Lo stesso faceva nella novena della Presentazione di Maria vergine”.
Cercava di portare sollievo e conforto “ di quelle ivi ristrette”.
“Una volta ad ore sette della notte accorse a dare il Viatico ad una di esse inferma; pregando poi il Custode di quel luogo a non ritenersi a chiamarlo nottempo, quante volte v’era necessità di consolar co’ sagramenti quelle povere anime”.
Lo stesso “Custode” rilevava come era ammirabile la sua carità..”esercitata a beneficio di quelle Donne; e che mentre esortava una di loro alla penitenza, volendo confermare con qualche sentenza quel che diceva, rivoltosi per sua umiltà allo stesso Custode, che era persona d’inferiore condizione, e privo affatto di lettere, disse: come m’insegna questo Signore”.
“S’adoperò non poco la carità di D. paolo in levar dalle sozzure de’ peccati molte Donne di perduta coscienza. Più volte fu osservato nottempo girar per le strade più scandalose della Città per visitar le case delle Meretrici, esortandole ad astenersi dall’offese di Dio, provedendole di buone limosine per non peccare.”
“ A questo fine di tratteneva sul tardi, nelle prime ore della notte nel piano della Marina, ove costumavano alcune Donne portarsi, per tirare nella loro diabolica rete gl’incauti giovani, e vivere con disonesto guadagno”.
Palermo – La Marina – Incisione del 1724




“Ma Don Paolo  con ferventi esortazioni; e col dono di larghe limosine, ritiravale da quell’impuro traffico: e alle volte non senza pericolo della vita”.
A causa di questa sua grande carità una volta mise in pericolo la sua vita.
“Ritrovandosi in questo piano (della Marina) una volta verso le ore due della notte per l’esercizio della sua carità, s’avvenne passare una truppa di birri, che chiaman Ronda, guidata dal Vicecapitano; e veduto Don paolo, credendo che fosse qualche malandrino, che ivi stesse per rubare quei, che passavano, fu da’ birri legato, e malmenato con sol con parole di sommo  dispregio, ma anche schiaffeggiato: e poi credendo d’aver fatto una buona preda, il portarono alla Vicaria, che è il pubblico carcere della Città”.

Palermo – Castello a Mare

Don Paolo sopporto le azioni degli spagnoli in silenzio, non svelando il suo nome e il suo operato.
Appena entrato nella Vicaria, al lume della lanterna fu da tanti riconosciuto: onde confusi per lo pessimo trattamento, gli chiesero perdono; e vollero accompagnarlo alla sua Chiesa, ove giunti furono da Don paolo pregati a non dir niente di quell’avvenimento; ringraziandoli d’averlo accompagnato”.
La mattina seguente con un suo cappellano mandò al Vicecapitano un ..”canestro di cose dolci, quattro capponi, sei galline, e due genovine (una moneta d’oro simile al fiorino)..”. A chi gli chiedeva il perché di quell’azione , rispose…” che ciò faceva in riconoscimento del favore ricevuto nell’averlo accompagnato…”.
In un altro avvenimento la sua vita fu in pericolo nell’agire ..”una notte per beneficio dell’anime, in un avvenimento, che ha molte circostanze prodigiose.”
“Presosi Don Paolo per compagno il Sacerdote  D. Fabrizio del Giudice, si portò alla casa d’una dissolutissima Donna, la cui porta era guardata da quattro sgherri ben armati. Disse D. Paolo a D. Fabrizio, che battesse alla porta: ma il sacerdote ricusò di farlo, temendo di quei sicarj; onde Egli intrepidamente la bussò con un piccolo Crocifisso, che avea sul petto; e a quel battimento ristettero immobili quei che la custodivano, senza potersi opporre: e ancorchè la battesse lentamente, nulladimeno risuonò un prodigioso rimbombo, come si fosse stata battuta a tutta forza da grossa pietra”.
“Aperta la porta salì animosamente le scale, e trovato ivi un giovane Cavaliere di gran nascita, cominciò a riprenderlo del peccato commesso. Niegò  la sua colpa il Cavaliere: ma  Don paolo ardendo di zelo, e quasi fuor di se, gli pose il Crocifisso sugli occhi, e con vangelica libertà gli disse:
Questo Cristo a me l’a detto, e tu hai ardimento di negarlo
in faccia di chi è la stessa verità, e che tutto conosce ?
Risentito il Cavaliere gravemente, stimandosi offeso per quel suo parlargli di Tu, mostrò il suo pregiudizio, col dirgli: avertisse bene con chi parlasse, e che parlava con un Cavaliere Titolato.
Don Paolo con zelo replicò:
Tu Cavaliere ?  Tu Cavaliere ?
Hai offeso il Re de’ regi, e vuoi chiamarti Cavaliere ?
Confusa a questi rimproveri la Donna, e tocca dagli stimoli della coscienza, uscì dalla camera, e genuflessa a’ suoi piedi, confessò pentita il suo peccato”.
“ Allora Don paolo con quell’impero, che gli comunicò lo stesso Iddio, presosi per la cintola il Cavaliere, e senza che egli avesse animo di resistere, portollo seco alla sua Chiesa; lasciando chiusa a chiave la porta della casa. Indi ritiratolo nella Cappella del SS Crocifisso, gli fece un ardente sermone; che non avrebbe terminato, se il Cavaliere entrato in se stesso, e ravveduto; non gli prometteva  una vera emendazion della vita; e di far seco una confessione generale.
Ma poiché era avanzata la notte, il Cavaliere gli chiese in grazia la chiave della casa di quella Donna dissoluta, per ripigliarsi il cappello, parrucca, e spadino ivi lasciati. Alla richiesta il Servo di Dio:
Eccoti la chiave.
Questa, avverti bene, è la chiave della porta dell’Inferno,
che aprirai a te stesso se torni a peccare.
Morrai di morte improvvisa, e i Demonj ti trascineranno all’eterne pene.

Ciò detto il Cavaliere partì, andò a ripigliarsi le sue robbe, e pochi giorni appresso collocò in  Conservatorio ( delle “Male Maritate”) la Donna, con assegnarle per il suo mantenimento tarì due al giorno.
Indi atterrito alle minacce di D. Paolo ritornò a’ suoi piedi, fece la promessa confession generale, corresse il tenor della sua vita, e si diede a vivere col santo timor di Dio”.
Una volta fu trovato gravemente ferito..”sopra un mucchio di pietre nella contrada de’ Lattarini”  probabilmente per aver cercato fi salvare qualche anima dalla strada.  Aiutò molte donne povere che avevano le case pignorate e subì anche tante rapine (paramenti sacri, somme di denaro da destinare alle elemosine. Ecc.)
La sua parrocchia, in base alle mie ricerche, doveva essere quella di San Nicola di Bari all’Albergheria.
Morì il 14 febbraio 1728…

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La Chiesa dei Santi Euno e Giuliano

Vicino alla Magione la Chiesa dei santi Euno e Giuliano, collocata lungo il lato Est della Piazza Magione


Una costruzione risalente alla seconda metà del XVII secolo costruita dalla Confraternita dei Seggettieri o “Vastasi di cinga” o “portantini” cioè i costruttori  o conduttori di portantine.
I lavori iniziarono nel 1651 e terminarono abbastanza rapidamente nel 1658. Con l’evolversi dei mezzi di trasporto la Confraternita perse gran parte della sua importanza a causa della scomparsa dei portantini e la chiesa cadde in rovina. Il colpo definitivo gli fu impresso durante i bombardamenti del 1943 quando fu colpita e subì gravissimi danni con il crollo anche del tetto.
Fino ai primi anni del 2000 era in completo abbandono e rovina, molte decorazioni furono trafugate. Grazie all’intervento del Comune l’edificio fu recuperato. I lavori iniziarono nel 2006 e terminarono nel 2017 con la riapertura al pubblico.
La facciata è quasi interamente occupata dal portale d’ingresso sopra il quale si trova un oculo rettangolare.

Il secondo ordine presenta un complesso fastigio superiore in pietra con un arco, oggi tamponato, che forse in origine concepito come campanile a vela o come nicchia. La loggetta campanaria, oggi tamponata, è decorata da volute e cippi recanti i simboli del martirio dei santi titolari della chiesa.
L’interno dell’aula è costituito da un’unica navata decorata con stucchi bianchi e decorati. Decoro che è stato attribuito alla bottega di Procopio Serpotta.  
Presenta due altari laterali che erano dedicati al Crocifisso e alla Madonna del Rosario mentre nell’altare maggiore si trovava una tela raffigurante i Santi titolari , opera del pittore Carlo d’Anselmo, andata perduta.

Sotto la navata si sviluppa una cripta, anch’essa di origine barocca che ha un particolare. La cripta ha uno sviluppo maggiore rispetto alla navata della chiesa dato che si estende per circa sei metri  sotto la piazza. Alle pareti si  trovano dei loculi verticali e loculi disposti su tre ordini. Un altro aspetto particolare fu il rinvenimento duranti i lavori di restauro del 2016 di una seconda cripta o ambiente ipogeo, sotto la cripta attuale. L’ambiente era pieno di ossa miste a fango. Fu svuotato e alla fine si rilevò come fosse un essiccatoio multiplo con un sistema di raccolta e smaltimento dei percolati.
La chiesa fu recuperata cercando di mantenere l’aspetto originario. In merito esiste una foto degli anni ’50. Dal piano terra della canonica fu ricostruita la scala di accesso alla cripta che è oggi visitabile.




I Seggettieri  fondarono la Confraternita dei Santi Euno e Giuliano nel 1649. C’è da chiedersi come mai i seggettieri scelsero questi due santi martiri d’Alessandria d’Egitto come loro protettori e ai quali costruirono la chiesa nel 1651.
La storia del loro martirio fu narrata in una lettera di S. Dionigi, vescovo d’Alessandria (morto nel 264 circa), nel quale si racconta le atrocità che furono compiute contro i cristiani nelle persecuzioni avvenute ad Alessandria d’Egitto ai tempi dell’imperatore romano Decio (200 – 251).
Giuliano era un cristiano, appartenente ad una famiglia facoltosa, e fu costretto ad apparire davanti al giudice in seguito ad una denuncia.
Era malato di podagra e fu trasportato davanti al giudice da due servitori cristiani.
Un servitore apostò subito, mentre l’altro, di nome Cronione, e soprannominato Euno, rimase con Giuliano saldo nella sua fede.
Furono quindi condannati a morte non solo per non avere rinegato la loro fede ma per non avere compiuto i riti prescritti nei confronti degli dei pagani. Furono quindi condannati al supplizio.. legati su cammelli e flagellati lungo la strada.
Sarebbero quindi stati gettati in un immenso rogo e, secondo alcune versioni, nella calce viva.
La figura di Euno deve aver ispirato i seggettieri perchè era un umile portantino come loro e lo presero come protettore.
Il martire s’era addossato sulle spalle il peso del padrone (Giuliano) sulle spalle cos’ come facevano i più miseri facchini palermitani che, per qualche  “spicciolo” o “piccola moneta”, si caricavano sulle spalle i passanti per attraversare i fiumi d’acqua che si formavano  in talune strade quando pioveva in maniera intensa.
La Congregazione fu fondata ad un anno di distanza dai gravi moti sociali che sconvolsero Palermo nel maggio del 1647 e che si prolungarono sino all’agosto del 1648.
Una sommossa popolare in una Sicilia profondamente colpita da una gravissima crisi economica ed aggravata dalla carestia. In quel periodo la città era rifugio di una folla di gente affamata proveniente dalle più disparate province dell’Isola.
Una vera e propria rivoluzione con episodi d’inaudita violenza che il vicerè Vincenzo de Guzman, marchese di Montalegre, non riuscì a fermare malgrado le sue succubi promesse.  


La rivolta sembrò fermarsi con l’abolizione delle tassazioni più odiose al popolo minuto ed alle maestranze e con l’impiccagione dei più facinorosi capipopolo: Vincenzo La Farina e Onofrio Ranieri.
Ma la rivolta si riaccese il 3 luglio 1647 quando dei “siggitteri”, per una questione di compenso con corrisposto da Gaetano Cesare, principe del Cassero e pretore della città di Palermo,   vennero alle mani coi suoi servitori.
I portantini, che Rocco Pirri definì in maniera non obiettiva pur essendo un abate, “della più infima plebe”, nella lite che seguì gridavano “voler dar fuoco a’ signori”.
I “siggittieri” furono rinchiusi nelle carceri della Vicaria per subire una forte punizione. Questo scatenò una nuova rivolta popolare da causare la fuga del vicerè su alcune galere ancorate al Molo.
Da qui la prese al potere da parte del capopopolo “battiloro” (batteva l’oro con un grosso martello per polverizzarlo) Giuseppe D’Alesi, il ferimento e la morte di Pietro Novelli, l’anarchia imposta dalle compagnie d’arti e di mestieri incapaci di governare unite, a cui seguì l’assassinio del D’Alesi e dei suoi soldati.
La morte del vicerè e l’insediamento alla presidenza del Regno del cardinale Teodoro  Trivulzio che, con pugno durissimo e risoluto, riuscì a reprimere la rivolta e le congiure successive. Furono arrestati i più facinorosi, ottenendo delle confessioni estorte con le torture… i colpevoli furono strozzati e i loro corpi esposti nudi e a testa in giù nelle forche poste ai Quattro Canti … e i loro quarti squartati ed esposti allo Sperone……

Il Cardinale Teodoro Trivulzio…. L’assassino
E il carnefice di tanti palermitani
Una pagina di storia … nascosta….


Questi i fatti avvenuti, narrati in breve, tra il 20 maggio 1647 e il 29 agosto 1648. Ma altre congiure vennero scoperte ancora fino al dicembre 1649.  L’azione di repressione fu continuata dal tribunale del Santo Offizio guidato dal 1647 dai famigerati Diego Garcia Trasmiera e Juan Lopez de Cisneros.
Le azioni giudiziarie dei due inquisitori erano rivolte in modo così proditorio nei confronti alcuni accusati, da giustificare il forte sospetto che sotto le accuse ufficiali di stregoneria ed eresia venissero camuffati dei reati politici.


Mentre si continuava a dare la caccia anche ai simpatizzanti dei ribelli, fu pubblicato il primo volume dell’opera del sacerdote don Agostino Inveges “Annali della felice città di Palermo prima sedia, corona del re, e capo del Regno di Sicilia”.
Un opera che esaltava la storia della città di Palermo  giustificando il suo ruolo di capitale del Regno contro le pretese dei messinesi che ne rivendicavano il titolo.
Le case patrizie erano tornate a curare i propri affari e il  loro patrimonio veniva salvaguardato obbligando le fanciulle al Convento e gli ultrageniti maschi alla carriera ecclesiastica dopo aver rinunciato alla propria quota legittima in favore del primogenito.
I matrimoni tra consanguinei servivano a riunire i patrimoni tra i vari rami del casato, come il caso di una povera ragazza, priva della parola e diciannovenne, sposta con lo zio cinquantenne. (Marianna Ucria costretta a sposare lo zio Pietro Ucria, di Campo Spagnolo, fratello della madre.


Ritratto di Mariannina Ucria
Palazzo Alliata di Villafranca


Fu in questo clima sociale che i “siggitteri”, considerati come “infima plebe”, vollero porsi aduna posizione sociale più elevata e capirono che il primo passo era quello di costituire un “Unione” simile a quella degli artigiani.
C’è un aspetto strano che a distanza di tempo non si è riusciti a svelare. Nei documenti conservati presso il Senato cittadino non risulta che i seggettieri palermitani abbiano mai costituito una vera e propria corporazione, maestranza o consolato.
Eppure nei capitoli della confraternita  si afferma che i lavoranti seggettieri e “bastasi” operanti in città erano circa cinquecento. Un numero consistente che rileva l’importanza della categoria nel settore lavorativo della città.
 Scelsero quindi di formare un unione di mestiere materializzata in una confraternita eleggendo come santi patroni, Euno e Giuliano.
Due santi sconosciuti tanto che  il nome di Euno venne spesso travisato in Arteo, anche nei capitoli di fondazione, e in Eunio, Unio, Junio o Julio.
La corretta pronunzia del nome di Sant’Euno fu suggerita, scrivendola a stampatello,  da Don Vicenzo Auria, accademico che pubblicò nel 1651, nell’anno in cui fu iniziata la costruzione della chiesa dedicata ai due Santi, un piccolo volume che illustrava la storia dei due martiri d’Alessandria d’Egitto.
La stesura del piccoli volumetto fu commissionata da “Gente devota” (i seggettieri) ..”Io essendo stato pregato da Gente devota a scrivere il presente martirio….”
Il l’Auria spiego nel suo libro che “Il primo che diede luce a’ seggiattieri di questa città fu il signor don Vincenzo la Farina e Vintimiglia nobile palermitano e baron d’Aspromonte di felice memoria, persona dottissima dell’historie sacre e curioso investigatore delle cose antiche”.
(Il La Farina, indicato dall’Auria non dovrebbe essere il La Farina che fu impiccato nei moti del 1647, ma un suo omonimo).
Con questo libro i seggettieri si prefiggevano di far conoscere alla città i loro santi martiri. L’autore concluse il suo scritto con una preghiera rivolta ai due martiri di:
“pregar e rimirar al quanto su questa città che prima è stata
ad abbracciar la vostra devozione per messo d’alcuni cittadini
ch’esercitano l’officio di seggiattiero”.
La società del tempo era divisa in caste ed i seggettieri sembravano al tempo occupare i gradini più bassi della società.
In merito alla storia dei due martiri, il l’Auria si allontana un po' dalla tradizione canonica.
Riportò che i due portanti del nobile Giuliano, erano infedeli idolatri e che uno dei due, Euno, si convertì ascoltando con quanta dottrina il patrizio (Giuliano) confutava le tesi del prefetto suo persecutore.
L’autore pose una grande attenzione nella conversione del “seggettiere” Euno per proseguire poi la narrazione, in modo particolareggiato, sul martirio subito dai due santi sul rogo, dove il corpo umano si consumava “ in quell’istessa guisa che l’oro si raffina nelle fiamme”.
L’effetto del rogo fu descritto in modo cos’ forte, raccapricciante, da convincersi ch’egli avesse probabilmente più volte assistito a simili spettacoli eseguiti per ordine del Tribunale del Sant’Uffizio.
Ad un certo punto il l’Auria si chiese il “perché fu concesso a Cronione bèver del calice della gloria d’Iddio”.
La risposta mette in luce il comune sentire di quel tempo…  anno 1651… quasi quattro secoli fa…
“Cronione Euno, benchè uno della plebe più infima e bassa ha chiarissimamente dimostrato che anche in tal gente, quando si fa degna del divino aiuto alberga la virtù della fortezza e della magnanimità non punto disuguale à quella d’un principe o d’un heroe…”…”per concludere hà voluto dimostrare il Signore che ogni sorte di persone di qualunque stato si sia  può guadagnare la salute dell’anima, quindi in quasi tutte le professioni veggiamo esservi stato un santo”.

Il martirio dei Santi Euno e Giuliano
(Tavola tratta da un testo del 1841)

Sempre sui seggettieri si narra che all’alba del 27 maggio 1860 la città era in agitazione per l’ingresso dei garibaldini e delle squadre di “picciotti” da Porta Termini.
Garibaldi giunse nella piazza della  Fieravecchia …”gli si  presentarono i facchini  di questa piazza, e caldamente pregarono perché fosse restituita la statua (del Genio di Palermo) nell’antico suo posto, ciò che il generale promise. Allora i facchini corsero allo Spasimo, ne trassero la statua, e nell’ebrezza dell’entusiasmo trionfalmente la trasportarono nella piazza suddetta”.
Una litografia dei fratelli Terzaghi (1862) tratta da una fotografia di Eugene Savaistre del 1860, mostra la piazza della Fieravecchia pochi giorni dopo la ritirata delle truppe regia dalla città.  L’ultimo contingente di truppe borboniche lasciò Palermo il 19 giugno 1860 e la foto è datata 26 giugno 1860.
Mostra la statua del Genio mancante del basamento e poggiata al suolo della piazza, circondata dai festoni di un teatrino effimero e dalle balate divelte dalle strade che servirono per allestire le barricate.


La statua fu prelevata dai magazzini della Chiesa dello Spasimo dove la polizia borbonica l’aveva fatta rinchiudere. Fu prelevata dai facchini, che avevano la loro posta in questa piazza,  e ricollocata al suo posto.

Piazza della Rivoluzione (Ex Fieravecchia) oggi
Con la statua del Genio di Palermo (scultura del XVI secolo)

Esistono altre raffigurazioni del Genio di Palermo posti in diversi punti della città.
Genio del Garaffo, detto  in Siciliano “Palermu lu granni”.
Una scultura realizzata da Pietro de Bonitate alla fine del XV secolo.
Si trova alla Vucciria, nella nicchia centrale dell’edicola realizzata
da Paolo Amato nel XVII secolo,
                        (Nella foto la differenza tra l’edicola nel 1969 e nel 2010).         


 In merito alla Confraternita dei Seggettieri c’è da dire che i cosiddetti “portantini o “Vastasi di cinga”  tra il XIII ed il XVIII secolo, trasportavano i passeggeri su seggiole provviste di aste e talvolta erano chiuse e coperte da baldacchini. Erano chiamate anche “Sedie Volanti” perché il “passeggero” era sopraelevato rispetto ai passanti.
 A Palermo esiste una via detta “Via Sedie Volanti” e un tempo denominata dei “Seggettieri” perché in questa strada sostavano i facchini che trasportavano le persone con grosse  sedie simili alla portantine. Sembra che in questa via fossero presenti delle botteghe che costruivano le portantine dandole anche a noleggio.




Via Sedie Volanti nel 1973




Sempre nella toponomastica di Palermo è inserita una “Via dei Seggettieri al Capo”  nei pressi di via Vittorio Emanuele, Via Matteo Bonello…
Così denominata in ricordo dei facchini che trasportavano le persone con grandi e robuste sedie, simili alle portantine.
I “seggettieri o vastasi da cinghia” erano appunto coloro che trasportavano (a nolo) le portantine ed abitavano nei vicoli del rione Capo. Era denominata “al Capo” per distinguerla dalle altre che si trovavano in altri Mandamenti.






Vicino alla chiesa il palazzo Naselli Spaccaforno prima dei restauri

La chiesa prima dei restauri

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La Magione non fu il solo complesso che fu consegnato ai teutonici nella città di Palermo. All’Ordine teutonico fu infatti concessa la preesistente chiesa dedicata a San Giovanni Battista detta successivamente “dei Lebbrosi” e posta nell’attuale Via Cappello, nella zona ovest della città.
Una chiesa che sarà descritta nella prossima ricerca.




Bibliografia:
Quando le sedie erano volanti. Storia della confraternita dei bastasi siggitteri e della chiesa dei Santi Giuliano ed Euno nella contrada della Vetriera a Palermo.
Libro del Prof. Carmelo Lo Curto (Gelius Loci Palermo, 2018)

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Altre Commende dell’Ordine Teutonico:

Palermo – La Chiesa e il Lebbrosario di San Giovanni del Lebbrosi

Prizzi (Palermo) – Castello della Margana


Commenti

  1. Egregio signore/a, visto che ha copiato vasti brani tratti dalla mia pubblicazione "Quando le sedie erano volanti" che ne direbbe se, per evitare una accusa di plagio, volesse indicare da dove sono tratte le notizie che pubblica sulla chiesa dei santi Euno e Giuliano? Carmelo Lo Curto

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Gentile Signor Lo Curto. come sta? M dispiace per il suo commento che ritengo legittimo. Il mio blog. come vede ha un solo obiettivo: quello di mostrare al pubblico gli aspetti della nostra amata Terra. Rispondo in maniera affermativa al suo rimprovero. . mi dica solo se il link era questo
      https://www.ibs.it/quando-sedie-erano-volanti-storia-libro-carmelo-lo-curto/e/9788894308419.. In ogni caso indicherò il testo del suo libro.
      La ringrazio per gli attimi che mi ha dedicato leggendo il mio messaggio.. Le porgo i più Cordiali saluti.. Antonio Barrasso.

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    3. Bibliografia
      Quando le sedie erano volanti. Storia della confraternita dei bastasi siggitteri e della chiesa dei Santi Giuliano ed Euno nella contrada della Vetriera a Palermo
      Autore: Prof. Carmelo Lo Curto (Genius Loci Palermo 2018)

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    4. Le indicazioni bibliografiche sono corrette, grazie. Mi vorrà scusare per l'appunto che le ho mosso, ma chi ha speso, come me, due anni del proprio tempo in ricerche d'archivio per poter pubblicare un volume come quello di cui sono autore, e che Lei ha attentamente letto, credo meriti di essere quanto meno citato come fonte di ciò che si pubblica sulla rete.

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