San Leucio (Caserta) - Viaggio nei territori delle Abbazie di Regio Patronato - Prima parte : Da San Leucio a Pozzovetere

 


 





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Indice
1.      I Monasteri decaduti in base alla Soppressione dei beni ecclesiastici.
2.      La Real Fagianeria di Sarzano – Piana di Monte Verna – Palazzo “Boschetto”
3.      Badia di Santa Croce di Cajazzo – Il Conte Landolfo di Capua –
Chiesa di S. Maria a Marciano;
4.      Dalla Badia di Santa Croce di Cajazzo al Monastero di Ruviano –
5.      Da Ruviano al Lago di Alvignanello -  Il “temibile” pesce Siluro –
6.      Dal Lago di Avignano al Convento di S. Maria degli Angeli.
7.      Da Santa Maria degli Angeli a Limatola – Il castello di Limatola – L’idra del console che fu trovata nel castello  - La fontana Margherita de Tucziaco - Le Lavandaie di Limatola (Video) - Il Giardino segreto di Lina Senese (Video) - Il Borgo di Limatola (Video) -  I Mercatini di Natale nel Castello di Limatola (Video).
8.      Limatola – Briancano – Santuario di S. Egidio
9.      Limatola – Giardoni di Limatola
10.  Giardino di Limatola – Pozzovetere – Gli antichi acquedotti di Pozzovetere (Video)
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1.      I Monasteri decaduti in base alla soppressione dei beni ecclesiastici.
I monasteri che diventarono beni dell’Amministrazione di San Leucio erano legati alla soppressione dei beni ecclesiastici che iniziò nel primo periodo borbonico con Carlo III di Borbone. Il sovrano nel 1751 aveva iniziato la costruzione di un grande edificio, l’Albergo dei Poveri,per eliminare la grave piaga dell’accattonaggio. Per finanziare l’opera soppresse alcuni monasteri della Congregazione Colloriana.
Una congregazione monastica che era stata fondata dal Ven. Bernardo di Rogliano (prov. di Cosenza) nel XVI secolo e papa Pio V la uniformò alla regola di S. Agostino. La congregazione si sviluppò in Calabria, Basilicata ed altre regioni meridionali per poi iniziare una irrefrenabile decadenza a partire dal XVIII secolo  e alla fine, della stesso secolo, era ormai scomparsa.
Nel 1783 la Calabria fu scossa da un terribile terremoto  e per fare fronte alla drammatica situazione  furono soppressi alcuni enti ecclesiastici che costituirono la “Cassa Sacra”.
Sempre nel XVIII secolo passarono allo Stato beni ed archivi di vari enti considerati “benefici di regio patronato”.
Nel corso del stesso secolo, non senza lunghe controversie giurisdizionali, i beni di alcune abbazie ed altri enti di antica fondazione reale normanna, angioina ed aragonese, furono rivendicati dalla corona o dichiarati di regia collazione,
Alcuni di questi conventi erano in decadenza ed i loro beni furono assegnati ad altre istituzioni, spesso promosse dallo Stato.
La prima soppressione fu quella riguardante la Compagnia di Gesù con gli editti d’espulsione del 31 ottobre e del 3 novembre 1767. Furono i Borboni a decidere l’abolizione della compagnia e nel 1768 dovettero lasciare il Regno e Malta cinque anni prima dell’intervento di papa Clemente XIV che il data 21 luglio 1773 soppresse ufficialmente la Compagnia di Gesù.  C’è anche da dire, per una maggiore chiarezza, che papa Pio VII col breve 30 luglio 1804, munito del regio exequatur del 2 agosto 1804, approvò l’esistenza della Compagnia di Gesù nel Regno,  ben 10 anni prima sulle generale ricostituzione avvenuta solo il 7 agosto 1814. Infatti un decreto del 2 luglio 1806, emesso da Giuseppe Bonaparte, aveva abolito il breve  di papa Pio VII sull’esistenza dei Gesuiti che erano quindi ritornati a Napoli.
Con Garibaldi nel 1860 la Compagnia subì una nuova soppressione.
Il periodo della rivoluzione francese e quello successivo napoleonico furono caratterizzati da un passaggio di importanti archivi dagli Enti ecclesiastici, conventi allo Stato.
Nel primo periodo quello rivoluzionario o giacobino del 1799 si attuò la distruzione di gran parte degli Archivi degli Enti ecclesiastici ...
Sulle nostre province meridionali si abbattè la procella del 1799 che
sconvolse con le vecchie istituzioni anche gli archivi e le biblioteche...
i monasteri furono invasi come covi di nemici e manomessi senza
scrupolo da turbe pervase da fanatismo... che si accanirono contro le
odiate carte racchiudenti diritti e privilegi secolari dei quali
credevano di cancellare finanche il ricordo...
Lo scempio fu grande e irreparabile; sì che negli inventari compilati
all’epoca della soppressione francese e che in gran parte tuttora si conservano,
spesso è detto che quel poco materiale che si elencava era quel
tanto che era rimasto dopo le vicende del 1799”.
A Napoli, dopo la proclamazione della Repubblica, le soppressioni degli enti ecclesiastici furono attuate con procedura più razionale in applicazione ad un decreto emanato dal governo repubblicano che ebbe però una vita alquanto breve, di soli 6 mesi.
Caduta la repubblica e con il ritorno sul trono di Ferdinando I, furono colpite durante la reazione borbonica tutte quelle case religiose che avevano appoggiato il movimento giacobino.
Con i decreti del 19 e 20 luglio 1799 furono soppressi sette monasteri napoletani molto antichi, importanti e ricchi: Monteoliveto, S. Severino, S. Giovanni a Carbonara, S. Pietro ad Aram, S. Gaudioso e San Martino.
I loro beni furono assegnati ad enti pubblici e in parte al risarcimento dei danni subiti dai cittadini napoletani dal governo repubblicano.
Tra le vittime anche il Monastero dei Santi Severino e Sossio che fu però ricostruito nel 1804 e che diventò Archivio di stato nella successiva soppressione napoleonica.
Durante il decennio francese (1806 – 1815) prima da Giuseppe Bonaparte e dopo da Gioacchino Murat, fu attuato progressivamente un piano organico di soppressione.
La legge del 13 febbraio 1897 riguardò gli ordini monastici di S. Benedetto e S. Bernardo con le loro filiazioni (Cassinesi, Verginiani, Olivetani, Certosini, Camaldolesi, Cistercensi e Bernardoni).
L’anno successivo con il decreto del 2 gennaio 1808 subirono una sorte simile anche dodici monasteri femminili e il decreto del 7 agosto 1809 (n. 448) interessò tutti gli ordini e le congregazioni religiose del Regno che possedevano beni: in totale 210. Altro decreto nel 1810 che colpì altri conventi che erano stati esclusi dalle precedenti soppressioni.
Per questo motivo alcuni conventi diventarono di Regio Patronato e alcuni diventarono beni dell’Amministrazione Reale di San Leucio.

2  . Real Fagianeria di Sarzano –

Piana di Monte Verna


San Leucio – Real Faginaeria
Percorso pianeggiante


L’area dei Monti Tifati, detta “Tifanina” sin dall’antichità, era  caratterizzata da insediamenti religiosi legati al culto di Diana, divinità dei boschi che ricoprivano un vasto territorio.  Un territorio attestato dalla Tavola Peutingeriana del IV secolo d.C.

Nel Medioevo gli antichi templi furono sostituiti dalle abbazie tra cui quelle di Sant’Angelo in Formis e di San Pietro ad Montes che favorirono gli insediamenti umani con la nascita di piccoli centri urbani pedemontani. Esisteva una strada pedemontana che collegava i siti collinari all’importante centro di Casa Hirta, ovvero Caserta Vecchia, ed altre vie secondarie che collegavano Morrone  con Limatola, sull’importante fiume Volturno, e con Caiazzo passando per il vallone  Civicorno, Marmorella e Tifata. Questa via  si poteva considerare “veloce” perché permetteva di raggiungere la piana di Caiazzo e quindi le valli Telesina e Alifana.

I Siti Reali dei Borbone erano vicini al fiume Volturno  e si spingevano fino ai confini del Regno “Terra di Lavoro”. In questi Siti Reali era compresa la “Reale Caccia “di Caiazzo la cui gestione era affidata all’Intendente di Caserta (Lorenzo Maria Neroni ?).
Nel suo rapporto del 4 ottobre 1768, indirizzato all’Amministratore Generale dei “Reali Siti” dei “Domini di qua del Faro” scrisse..
«a Caiazzo oltre il gran numero di caprij escorrono in quelle selve più di cento cinghiali pascolandosi delle semenze di castagni, delle castagne e fargne, assicurando i periti esservi molto frutta di fargna e ghianda, ma non così di cerro del quale è rimasto poco».
(Fargna, Quercia comune)
Nel 1765 Antonio Pinzano, dirigente la Reale Caccia di Caiazzo, faceva ascendere il numero degli animali selvatici del sito a 835 unità sparse nei tre grandi boschi di Selva Nova, Selva Spinosa e Monte Grande.

Lorenzo Giustiniani, nel suo “Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli – 1797”, nella voce dedicata alla Piana di Cajazzo riportò l’esistenza di un
bel casino, e boschetto della Real Faggianeria, ove veggonsi ancora i ruderi di antichi bagni. Fra la Piana e la Faggianeria vi è una chiesetta opera de’ mezzi tempi. Il territorio di questo casale fa ottimi grani, granone, legumi, vino, ed olio.
La descrizione faceva riferimento alla presenza di strutture idriche simili a quelle riscontrabili in tutta la piana a Sud del centro moderno di Piana del Monte Verna e datate all’epoca romana per la tecnica costruttiva.
Il canonico Carlo Celano (Napoli, 1625 – Napoli, 1693) nel suo “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della Città di Napoli” riportò:
In non molta distanza da Caserta, e propriamente nelle pianure dell’antica città di Cajazzo, risiede la real Faggianeria, come osservammo nel parlare della regal Villa di Capodimonte. Cajazzo per dire qualche cosa di lei, fu un’antica città de’ Sanniti […] ed era in sommo splendore. […] Abbassat’i Sanniti da’ Romani, divenne di loro colonia , ed indi acquistò l’onore di Municipio giusta lo stile politico di quella repubblica. […] Si ammirano in Cajazzo parecchi vestigi della sua passata grandezza.
[…] Ne’ piani intanto, che si estendono all’interno di quella Città, il Re ha situata la sua regal Faggianeria per aver conosciuti questi luoghi assai atti e proprj alla moltiplicazione, e buon governo di questi animali, che per aver vicina questa Caccia alla regal Villa di Caserta, da cui non è che poche miglia distante. Quivi ha costrutto delle belle fabbriche così per ciò, che riguarda la buona cura di questa delicatissima specie di caccia, che per abitazione di tutt’i Custodi, che in numero non scarso vi mantiene
Con il passare dei secoli i collegamenti si fecero più intensi grazie a nuove vie di comunicazione e i villaggi, i centri, le colline, i laghi videro il sorgere di luoghi di svago per la caccia.
L’incisione del Pacichelli Giovan Battista (1641,1702), risalente al 1700, raffigurava Caserta con il suo territorio contraddistinto da piccoli insediamenti urbani e da edifici isolati.

I Monti a Nord di Caserta hanno come vetta principale  Torre Lupara ed erano classificati come terreni sassosi mentre più a valle erano presenti oliveti e frutteti. Si notano i muri di recinzione del Belvedere (San Leucio) e del Convento dei Cappuccini. Le vie di comunicazione tra i diversi centri erano abbastanza ampie e la strada di collegamento con Morrone s’inerpicava tra le colline di San Leucio e Montebriano.
Nella seconda età del XVIII secolo si realizzarono delle grandi opere che modificarono ulteriormente il territorio. Nella Piana del Rizzi-Zannoni fece la sua apparizione la Reggia, l’acquedotto Carolino e le grandi tenute denominate “Cacce Reali”.


Nella planimetria il territorio di San Leucio era circondato da un muro di recinzione eretto nel 1773 che presentava quattro ingressi: del Quercione verso Briano, dell’Arco lungo la strada per Morrone, del Cappuccio lungo il Tifata e del Gradillo verso l’omonima pianta del Volturno. Dal 1775 in poi, fu riorganizzato l’intero sistema di collegamenti, e furono realizzate strade che portavano a Caiazzo e a Morrone. Al borgo della Vaccheria si accedeva tramite una strada che proveniva dal cancello del Cappuccio, posto lungo la Caserta Caiazzo e da qui un sentiero a tornanti conduceva al Casino vecchio, al cancello del Gradillo ed alla scafa di Caiazzo. La Carta Topografica delle Reali Cacce di Terra di Lavoro e loro adiacenze, disegnata da Rizzi Zanoni nel 1784 e rimasta manoscritta, dà immediata percezione delle aree destinate alla caccia reale (Torcino e Mastrati, Mondragone, Riserva di Carditello, Demani di Calvi, Reali Fagianerie, Montegrande, Boscarello, Selva Nuova, Caccia della Spinosa,Cerquacupa, Longano, Bosco di Calabri cito, Bosco di S. Arcangelo). Punti di eccellenza in un’area molto vasta, tra i quali si svilupparono successivamente i siti reali di Carditello e San Leucio.


Le realtà della Fagianeria di Piana di Monte Verna s’inseriva  in questo quadro strutturale e le considerazioni dell’economista Ludovico Bianchini, nella “Storia economica del Regno di Napoli”, farebbero capire la strategia di recupero, costruzione e valorizzazione del territorio in area campana.
Territori che prima furono trasformati in riserve di caccia e successivamente in siti reali abbelliti con casini e residenze reali, con il conseguente sviluppo di infrastrutture, che collegavano tra loro i vari siti, e dell’importante bonifica della pianura.  
Nella vita di corte lo spazio dedicato alle cacce ed ai passatempi all’aperto occupavano un tempo importante. A Caserta e a Napoli la famiglia reale trascorreva solo brevi periodi dell’anno, il resto era diviso nei luoghi più cari ai sovrani  perché ricchi di selvaggina. L’architettura dei fabbricati, realizzati nei siti borbonici, avevano il carattere di luoghi di produzione o di fabbricati di rappresentanza delle singole fabbriche. Inoltre le nuove fabbriche s’inserivano nel territorio e nel paesaggio facendo convivere la funzione residenziale e quella produttiva.
Il sito di caccia della Fagianeria di Piana di Monte Verna risaliva al 1753, così come riscontrabile dalle affermazioni dell’architetto Vanvitelli. Il re Carlo III di Borbone porto lo stesso architetto a prendere visione della reale Fagianeria di Capodimonte, per visionare i metodi  dell’allevamento dei fagiani e prendere l’ispirazione per le fabbriche che dovevano essere costruite nella Piana di Caiazzo. Il Vanvitelli nella lettera al fratello Urbano del 01/05/1753 scrisse:
”La fagianeria è assai diversa di quello che credessi mentre sono vari cancerielli…una unità ed ogni una di un giardinetto in cambio di 15 moggi o 30 o larghi moggi 15…questo serve per raggruppare “.
Pertanto i siti reali erano delle aziende agricole moderne in cui il sovrano illuminato investiva nelle trasformazioni agrarie necessarie per uno sfruttamento ideale del territorio, coniugando il bello e l’utile secondo i dettami illuministici del Settecento. La Palazzina Borbonica, fulcro della tenuta della Fagianeria, sicuramente costruita su disegno del Vanvitelli , ha un linguaggio misurato ed essenziale, informato sui principi di funzionalità che si basavano su una razionale e geometrica distribuzione degli spazi e con un uso limitato degli elementi decorativi. Si tratta di un edificio di forma rettangolare con muratura in tufo e solaio del piano terra a volte complesse lunettate. Il solaio al piano nobile ha controsoffittature dipinte con motivi floreali e cacciagione. L’esterno ha un porticato a due archi con terrazzo sovrastante, ha cornici di stucco lineari e presenta comignoli in muratura intonacata.


La Fagianeria
(Artista Pietro Fabris
(Napoli 1740 – Napoli, 1792

Dipinto opera di Pietro Fabris
A destra e a sinistra chiudono la scena due rupi. Al centro Ferdinando I di Borbone
su un cavallo bianco. È circondato dal suo seguito a cavallo e da uomini che legano a
dei bastoni la selvaggina (cinghiali e cervi) per trasportarla.
Pittura; tela a olio - Datazione   1773 circa – Misure (260 x 157) cm
Collocazione – Reggia di Caserta- Appartamento dell’800, II retrostanza



Fagianeria Borbonica di Capodimonte

Abbiamo visto come i Borboni cambiarono lo scenario di molte zone agricole della Terra di Lavoro  e questo favorì un sensibile sviluppo economico e culturale del Medio Volturno.
Il fiume Volturno che, per ironia della sorte, diventò l’emblema di una perdita del Regno.
Carlo III di Borbone iniziò la costruzione della nuova Reggia di Caserta per un uso più razionale del territorio e una migliore distribuzione della popolazione che da secoli si concentrava soprattutto a Napoli.
I Borbone prestarono quindi una grande attenzione al territorio del Medio Volturno attraverso la realizzazione di reali cacce collegate fra loro e facilmente raggiungibili da Caserta attraverso il miglioramento della rete viaria. Una nota presente nel Libro dei Battezzati di Piana di Monte Verna riportava...

"Oggi 31 gennaio 1753 è passato re Carlo Borbone, che Iddio guardi, e la città di Caiazzo alla caccia della Spinosa, ed ha mostrato non piccolo gradimento della strada maestosa, che si è fatta dalla Scafa di Cesarano fino a detto bosco della Spinosa, con la fatica di cinque mesi di questa povera gente della Piana, Caiazza e S. Giovanni e Paolo, quale strada si è valutata ducati cinquemila" (cit.d.Giulio Antonio Santabarbara).

Tra le riserve del Medio Volturno, le più frequentate furono le “reali fagianerie”, con l’elegante palazzina vanvitelliana, a Piana di Monte Verna; la “reale caccia di Monte Grande”, a ridosso del Monte Maggiore, nei territori di Caiazzo, Castel di Sasso e Piana di Monte Verna; la “reale caccia della Spinosa”, che si estendeva nei territori di Alvignano e Ruviano; la “reale caccia di Selvanova”, nei territori di Caiazzo e Castel Campagnano.
La Fagianeria, a Piana di Monte Verna deve il suo nome all’allevamento di fagiani che vi si praticava facendo arrivare gli allevatori dall’Ungheria e ciò che vi rimane a memoria è proprio la cosiddetta Palazzina Borbonica, che fu progettata dal Vanvitelli su commissione di re Carlo di Borbone.
Nel corso del XVIII secolo la moda del “Grand Tour” portò gli artisti a raffigurare le principali città, le antiche vestigia, i monumenti e i paesaggi più pittoreschi della penisola: luoghi che deliziavano i forestieri non digiuni di storia e letteratura antica. In Italia Meridionale questo fenomeno vide nei viaggiatori e nella casa reale borbonica i principali committenti: l'obiettivo era quello di celebrare la prosperità e la bellezza del territorio, le recenti scoperte archeologiche e le peculiarità naturali con uno spirito scientifico prettamente illuminista. 
La Reale Fagianieria era collegata dal punto di vista operativo al “Palazzo Boschetto”, una Villa Suburbana  sconosciuta a tanti ma dal grande valore artistico.



Palazzo al Boschetto

Il Palazzo fu costruito dagli Acquaviva, Principi di Caserta che detennero il principato dal  1509 al 1634 quando  passò ai Borbone.
La progettazione e costruzione dell’edificio fu affidata da Andrea Matteo IV d’Acquaviva d’Aragona all’architetto toscano Giovanni Antonio Dosio all’inizio del XVII secolo. Il giovane principe, ultimo esponente cadetto della famiglia, fece dello Stato di Caserta una ricca corte principesca. Ai primi decenni del 1660 sarebbero da collocare le ristrutturazioni del loro palazzo residenziale (oggi sede della Prefettura e della Questura) e in parte il palazzo Belvedere di San Leucio.
Il termine “Boschetto” è legata alla sua posizione nel “Bosco Vecchio” inglobato nel Parco della Reggia e secondo i visitatori dell’1700 era una dimora che
Aveva un aspetto più intimo e riservato, era più una villa che un palazzo
La villa si trova sulla via Passionisti e l’architettura rimanda ad una villa romana per il suo giardino ricco di fontane, statue, ninfei ed anche un labirinto per divertire e dilettare gli ospiti.
Presenta una caratteristica ed originale pianta trapezoidale. Una pianta collegata alla costellazione d’Ercole. Una divinità alla quale era dedicata  una stanza della villa ed anche la contrada  nel quale sorge l’edificio.
Le sale interne presentano delle bellissime volte affrescate che  mi fanno rivivere immagini di una bellissima villa a Barriera del Bosco (Catania) con volte affrescate con disegni quasi simili... il salottino alla francese con scene di Versallies con dame e cavalieri e carrozze tra giardini... il salone grande.. il soggiorno con bellissimi riquadri a girare il vasto ambiente con rappresentazioni di animali ed altro... la stanza da letto con i  una bellissima dea con abito bianco svolazzante che tiene in mano la luna e attorno le stelle.... una villa che fu affrescata dagli stessi artisti che lavorarono al Teatro Massimo Bellini (secondo il mio modesto parere  riuscirono nella villa ad esprimere la loro grande arte.. ricordo il volto di un cane che sporgeva da un riquadro,, sembrava vivo ed  era un pointer... una bellissima aragosta,  ceste di frutta, ecc..).... la villa andò distrutta per fare un casermone in cemento..  una villa che era stata costruita se non ricordo male nel 1920 circa... non so  ma i fabbricati con età superiore a cinquant’anni per essere demoliti o ristrutturati non devono avere il benestare della Sovrintendenza ? In quella villa ho passato momenti bellissimi della mia vita,,, ricordo le danze che si svolgevano nel grande salone  per il capodanno dove ci si riuniva tutti.. almeno 50 persone.. e la bussola che separava il salone dal soggiorno dove nel vetro opaco erano impresse, con lettere stilizzate, le iniziali del caro padrone di casa. Purtroppo non ho le foto della villa ..non avrei mai pensato che avrebbe fatto questa fine... pazienza....
Riparlando della villa del Boschetto, l’edificio presenta tre ingressi. Dall’ingresso principale si accede alla sala denominata “Giuditta ed Oloferme” con un vestibolo che presenta degli archi decorati; seguono poi altre sale interne che prendono i nomi dai temi rappresentati sulle volte: la sala di Ercole del Paradiso Terrestre e quella della Giustizia. Gli affreschi furono realizzati di diversi artisti noti. Alcuni sono stati attribuiti alla bottega del pittore Belisario Corenzio, altri al pennello del fiammingo Agostino Pussè e al fiorentino Camillo Spallucci.



Sala di Giuditta e Oloferne


Sala del Paradiso Terrestre.



Sala di Susanna o dei Vecchioni – Affresco della Giustizia
Si tratta della più antica raffigurazione della Giustizia esistente in provincia di Caserta

L’edificio, di proprietà del Demanio Militare (secondo le fonti riportate su internet), è in grave pericolo. Precedente, come epoca di costruzione, alla Reggia Borbonica sembra che sia stato dimenticato, d’altra parte essendo d’uso governativo (Ministero della Difesa) è chiuso al pubblico. Il primo piano, da come riportano alcuni siti internet, è occupato da alcune famiglie di militari e quindi è al sicuro. I problemi invece persistono nelle stanze vuote al piano terra che conservano gli affreschi. Affreschi che furono restaurati dalla Sovrintendenza negli anni ’80 per essere poi abbandonati. Con la morte del principe Andrea Matteo IV d’Acquaviva (1634) il palazzo, grazie ad un matrimonio, passò ai duchi Caetani di Sermoneta e l’ultimo principe di Caserta Michelangelo Caetani, a causa dei debiti, fu costretto a svendere il principato a Carlo III di Borbone. Con l’inizio della costruzione della Reggia anche l’architetto Luigi Vanvitelli vi soggiornò per alcuni anni e successivamente fu addetto ad abitazione dei canettieri ( dipendenti che badavano ai cani da caccia del sovrano) e degli addetti, “ responsabili o massimi funzionari” della fagianeria. A metà dell’800 fu trasformato in fabbrica di panni di lana e stamperia di tessuti di cotone e dopo l’unità d’itala, come abbiamo visto, passò al Demanio Militare. Alcuni istituti si occuparono della salvaguardia dell’edificio dichiarando pubblicamente  lo stato di degrado  ma a quanto sembra la situazione non è cambiata.

Convento dei Passionisti posto vicino al Palazzo Boschetto

Convento dei Passionisti

Palazzo Boschetto



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3. Badia  di  Santa CroceCajazzo




Antonio Sancio, intendente della Provincia di Napoli durante il periodo borbonico, morì nel 1845, riferì di..
Aver travagliato molto per ottenere le notizie opportune (sulla Badia), ma infelicemente tutto è rimasto inutile, spezialmente perche la pessima organizzazione del generale archivio di Napoli ha ridotto tutto a monopolio, e senza appagare le esorbitanti pretenzioni di quell’Ufficiale, ch’è denominato D. Camillo De Rosa, è impossibile di ottener cosa alcuna.
Per quanto si congettura, questa badia era un antico Monasterio di Padri Benedettini messo sulla sommità di un aspro monte nel tenimento di Cajazzo.
Si osservano ancora i ruderi di tal Monistero, il quale nulla aver dovea di celebrità, poiche la sua esistenza non si trova mentovata in alcuno degli antichi scrittori.
Io feci personalmente delle perquisizioni nell’Archivio di Montecassino, e neppur trovai il nome di questo Monistero.
È da supporsi che abitato il medesimo da pochi monaci, fosse stato abbandonato per l’asprezza del sito, e per le tante altre cagioni, che operarono nel secolo posteriore al decimoquarto la decadenza de’ Monasteri de’ Benedettimi.
Ridotta in conseguenza l’azienda di questo abbandonato luogo a semplice Badia,  fu  conferita a coloro che più sapevano meritare i favori della Corte di Roma,
venne posteriormente aggregata alle altre Badie di regio patronato, e nel 1749 era posseduta da Monsignor  Longhi.
Col progresso di tempo i Monaci Cassinesi di S. Lorenzo di Aversa allegando che la Badia medesima era un loro Priorato, ne domandarono la reintegra.
Fecesi una lunga lite con colui che la  possedeva,  ma finalmente una sentenza emessa nel 1791, fu deferita al Monistero di Aversa.
Qual Tribunale abbia pronunziato questa sentenza, se la Curia del cappellano maggiore, ovvero il sacro Consiglio, non si è potuto ancor conoscere, nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Aversa, ove conservavasi qualche carta relativa al Monistero di S. Lorenzo, si è ritrovato un foglio da cui desumesi qualche notizia imperfetta, che può mandurre al rinvenimento del processo, ca cui può rilevarsi l’indole e la natura della Badia o Priorato.
Rimetto dunque a colui che mi succederà il completare queste notizie, dappoiche ho fatto abbastanza per rinvenire que’ pochi dettagli, che ho espresso.
Soggiungo che malgrado le diligenze più esatte negli Archivj di questa Reale Amministrazione, non mi è riuscito di essere a giorno dell’epoca in cui la Badia fu  annessata all’Amministrazione di San Leucio.
Pare che ciò fosse avvenuto nel tempo della occupazione militare (francese).



I ruderi del Monastero di Caiazzo


Per narrare la storia del “Monasterium Sancte Crucis”    è necessario fare riferimento ad alcuni documenti risalenti ad un periodo compreso tra l’ultimo quarto del X e gli inizi del XII secolo. I documenti sono delle antiche scritture dei monaci di Santa Croce che facevano parte dell’archivio del monastero prima che venisse trasferito nel Monastero di Montecassino all’inizio del XVI secolo.  L’archivio di Montecassino fu a sua volta distrutto da un devastante incendio da cui si salvarono otto documenti, contenuti nel “Regii Neapolitani Archivi Monumenta” che riguardavano il monastero di Santa Croce.
Nel terzo volume dei “Regii Neapolitani” sono riportati due antichi documenti che recano la data di fondazione del monastero di Caiazzo ed anche il nome del suo fondatore.
Il primo documento reca la data del 982 e si tratta di un atto di donazione con il quale il Conte Landolfo donava al Monastero la Chiesa di San Marco in Ceparano, edificata dallo stesso conte, ed alcuni territori di sua proprietà.


Ceparano, oggi Cesarano, sarebbe una frazione di Caiazzo nei pressi del Monte Mesorinolo)

Cesarano (Ceparano ) Chiesa di San Rufo Martire (diacono della Chiesa di Capua , martirizzato il 27 agosto nella persecuzione ordinata dall'imperatore Diocleziano nell'anno 303)
I dati delle indagini di superficie fanno ipotizzare la presenza di una necropoli di V-VI sec. d.C. (che insiste su un precedente nucleo sepolcrale del VI-V a.C.).
Il villaggio di Cesarano è molto antico avendo avuto origine da un insediamento romano attribuito dagli storici alla famiglia dei Cesari.
L’edificio odierno, sarebbe il frutto di una ricostruzione inquadrabile nel XV secolo e delle successive campagne di restauro del XX secolo.
La bolla di consacrazione episcopale del 979 del vescovo Stefano elencava, tra le chiese dell’antica Diocesi di Caiazzo, anche quella di «Sancus Rufus in Cesaranu» e la concessione del conte Landone, della chiesa di S. Marco, risale al 982 e che era stata costruita dallo stesso conte. La Chiesa di San Rufo non sarebbe quindi l’antico edificio di San Marco, una chiesa di cui probabilmente si sono perdute le tracce.
Nel documento il Conte Landolfo..
“Bolo…ut… siant pro anima mea offertum in Monasterio Sancte Crucis sito in vertice montis qui dicitur Berine in finibus Caiatiense, ubi dominus Dardanus Abbas preest, integra ipsa Ecclesia mea vocabulo S. Marci que constructa est in dictis finibus Caiatiae loco ubi dicitur Cesaranu cum integre ipse terre mee quante in nomine meo parates habeo in predicto loco Cesaranu. Insìmul et integra ipsa terra mea quem in nomine meo parate habeo in loco ubi dicitur Cristianisi “
 
Voglio che sia donata, per l’anima mia, al Monastero di Santa Croce, sito sulla vetta del Monte Verna, nel territorio Caiatino, a cui presiede il Signor Abate Dardano (primo abate del monastero di Santa Croce), la mia chiesa di San Marco, costruita nei predetti confini di Caiazzo, in contrada Cesarano , con tutti quei territori di mia proprietà esistenti nella medesima contrada di Cesarano .

Il “Landolfus” concedeva  anche i terreni di sua proprietà esistenti nel luogo detto “Cristianisi”. (Nella Nota N. 1  è riportato l’Atto del Conte Landolfo con il testo originario in latino e la relativa traduzione).
Cristianisi sarebbe un antico villaggio, andato distrutto, presso la piana di Caiazzo, dove si trovava l’antica chiesa di Santa Maria a Marciano che fu ricostruita nel 1330.


Chiesa di Santa Maria Marciano ( Piana di Monte Verna)


La chiesa attuale risale agli anni ’30 del XIV secolo e sorge nello stesso luogo dell’antico edificio di culto che fu menzionato l’1 novembre del 979 e intitolato a Santa Maria a Marciano. Allo stesso anno risale la bolla con la quale Gerberto, arcivescovo metropolita di Capua, nominava Stefano Menicillo vescovo della Diocesi di Caiazzo, ed elencava tutte le chiese presenti nel territorio caiatino.
La chiesa è un vero gioiello d’arte….. uno scrigno di bellissimi affreschi.
Il piccolo tempio, dall’aspetto esterno molto semplice, presenta al suo interno degli spettacolari dipinti murali che rappresentano immagini di Santi e Vescovi. Immagini che sono quasi nascosti nello spazio ristretto della cappellina e datati  al Trecento italiano. Testimonianze della rivoluzione artistica apportata dagli Angioini nel loro Regno quando chiamarono in città i più grandi artisti del tempo, fra
cui Giotto, presente a Napoli dal 1328 al 1334.
Questi artisti erano chiamati “a giorno” perché “al passo” con quelle che erano le tendenze artistiche più in voga nel momento. I dipinti realizzati recano una datazione del 1334 indicata nell’iscrizione che qualifica il ciclo pittorico. Un ciclo pittorico voluto da un certo Giovanni Cammarrio ed arricchito nel tempo da interventi pittorici successivi. Il giardino della chiesa fu utilizzato come cimitero dei colerosi e dalle indagini archeologiche sembrerebbe come la chiesa sorga su una villa romana appartenuta ad una nobile famiglia romana. Tra gli affreschi la più antica raffigurazione di Stefano Menecillo (935 -1923), patrono di Caiazzo.  












San Sebastiano





Venuto poscia da Caiazzo il ch. Monsignor Gennaro Aspreno Galante, volle in mia compagnia osservare i medesimi dipinti.
(Gennaro Aspreno Galante, (Napoli, 28 giugno 1843; San Giorgio a Cremano, 11 giugno 1923), presbitero, docente e storico)
Pulitili ben bene, e con l’aiuto di un cereo acceso, potemmo assicurarci essere del utto erronea la prima lezione di Tomas Apostolus. Invece a’ due lati della testa d’una Santa coronata e on in mano una lucerna leggesi chiaramente S. Lucia, e a’ due lati della testa del vescovo leggesi S. Stef. cioè Stefanus. Lo scambio della parola Lucia la in Tomas avvenne dal perché la L è quasi consumata, e la C è molto chiusa da sembrare a prima vista  una O; poscia la S. di S. Stef. fu presa per la finale della parola precedente, e quindi fu letto erroneamente Tomas per Lucia. E qui osservo che la cappella di S. Tommaso, fatta  costruire dal vescovo de Pascasio, era in tutt’altro sito, come ho rilevato nella visita fatta dall’illustre vescovo Fabio Mirto nel 1566. Accertata la vera lezione, Monsignor Galante giudicò gli affreschi molto pregiati, soprattutto per la S. Lucia, giacchè s’incontrava per la prima volta in una immagine di detta Santa con in mano la lucerna, lo che spiega perché i pittori posteriori l’abbiano sempre dipinta con due occhi sorretti dalla palma della mano. Il S. Stefanus poi fu vescovo di Caiazzo dal 1° novembre 979 al 20 ottobre 1023, ed ora è il principale Protettore della nostra diocesi. È dipinto con barba bionda e con mitra molto bassa, proprio come ne’ primi tempi angioini. Se la S. Lucia è molto pregiata per l’archeologia cristiana, giusta il giudizio di Monsignor Galante, è del pari pregiato per noi il S. Stefanus, giacchè è il dipinto più antico che rimane di quell’illustre e santo prelato.

In merito alla datazione della Chiesa...

A 28 novembre 1199, non sappiamo se per tremuoto ovvero per altra
causa, cadde la chiesa cattedrale di Caiazzo, leggendosi nell’antico
necrologio sotto quel giorno:
In vigilia adentus domini ceciait episcopium calatinum, 1199
Rifatta in seguito, fu terminata nel 1276; essendo
Vescovo di Caiazzo Andrea de Ducenta, come rilevasi da una
iscrizione in versi leonini, che un giorno in essa vedevasi, e che
è riportata dall’Ughelli (Italia sacra, ediz. Del Coleti, Vol. VI, col.448).
Principia nel modo seguente
Mille ducentenis cum sexto septuay[c]nis
Hoc opus expletur, a praecedente jubetur
Ed abbellita poscia con pitture ed ornati, fu consacrata a 22 luglio 1284
dal Cardinale Gerardo  vescovo della Sabica e Legato Apostolico, essendo
vescovo di Modena;  lo che ritrovasi da una lunga iscrizione che un
tempo vedevasi nel prospetto della nominata chiesa, del pari riportata
dall’’Ughelli e dal nostro Melchiori (Descritione dell’antichissima città di
Caiazzo, pag. 45), e che principia
M.  CCLXXXIIII. Sedente Martino IIII
Pont. Max
Il Conte Landolfo, fondatore del Monastero della Santa Croce, era figlio di Pandolfo Capodiferro, principe di Capua, Benevento e Salerno e marchese di Spoleto e Camerino. Un uomo decisamente potente per quei tempi, siamo intorno al 950 dato che morì a marzo del 981.
Dal padre fu preposto al Principato di Benevento e nel 981 per successione ottenne anche il principato di Capua assumendo così il duplice titolo di Principe di Capua e Benevento.
Continuò l’opera caritatevole intrapresa dal padre nei confronti della Chiesa cattolica con concessioni e privilegi concessi a diverse chiese  (Montecassino, ecc.).
Al fratello Pandolfo era invece toccato per successione il principato di Salerno ma aveva un carattere completamente diverso sia dal padre che dal fratello Landolfo. Fu infatti inviso dal popolo e quindi privato del potere da Musone, duca di Amalfi. Landolfo fu invece molto stimato dalle popolazioni anche fuori del suo regno.
Era molto legato, da una profonda e sincera amicizia, ad Ottone I di Sassonia (re dei Franchi Orientali dal 936, re d’Italia dal 951 e Imperatore del Sacro Romano Impero) a tal punto da intervenire, come alleato, in una guerra contro le popolazioni greche dell’Italia meridionale. L’esercito germanico subì ripetute e gravi sconfitte che fecero desistere l’imperatore dall’impresa di conquista.
In quei tragici eventi sembra che il Landolfo sia stato ucciso e questa fonte si basava sull’autorevole testimonianza dell’autore della “Cronaca Cassinese – libro 2°, capitolo IX” (Leone Marsicano Ostiense, monaco del Monastero di Montecassino) che riportava l’anno 982 in merito alla morte del conte e cioè lo stesso anno di fondazione del Monastero di Santa Croce.
Il Conte Landolfo e la moglie Sighelgarda fecero queste donazioni  per..
“… pro securitate atque defensione predicti Monasterii et de eiusque Abbatibus et Rectoribus ad faciendum omnia quae eorum placuerit…”
 
…per la sicurezza e difesa del predetto Monastero e dei suoi Abati e rettori, perché ne facciano quell’uso che ad essi sembrerà più opportuno…

Il secondo documento, datato 985, riportava una bolla del Vescovo Stefano Menecillo di Caiazzo la quale, parlando della Chiesa di Santa Maria a Marciano con l’annesso Monastero dichiarava...
“ …quem Landulfus amore Dei et redemptione anime sue a novo fundamine solidavit ad laudem Domini nostri Jesus Christi vocabulo Sancte Crucis edificare fecit et monasterium inde construxit…”
 
che Landolfo per amore verso dio e per la salvezza dell’anima sua, costruì dalle fondamenta e chiamo Santa Croce, in lode e gloria di N.S. Gesù Cristo; edificò poi anche il Monastero

In base alla bolla il monastero di Santa Croce sarebbe stato edificato dal Conte Landolfo.
Infatti  nella celebre bolla di Gerberto (Arcivescovo di Capua, nello stesso anno in cui fu nominato Stefano Menecillo Vescovo di Caiazzo nel 979) venivano elencate le chiese appartenenti alla Diocesi di Caiazzo e nell’elenco non figurava il Monastero.
Questa mancanza spiegherebbe come il Monastero fu costruito in un tempo, piuttosto breve, tra il 979 ed il 982.
Il Landolfo, già Principe di Benevento, successe al padre della Contea di Capua nel 981 ed è quindi probabile che in quest’anno fu costruito l’edificio, altrimenti sarebbe stato citato nella bolla del vescovo Gilberto.
Una volta costruito l’edificio, il conte ne ebbe una grande cura anche attraverso delle cospicue donazioni. Donazioni che permettevano ai monaci di vivere con proprie rendite e, facendosi scudo della propria autorità civile, volle renderli indipendenti da qualsiasi giurisdizione vescovile.
Una decisione legata alla politica autoritaria di Ottone I e che si contrapponeva alle disposizioni dei Sacri Canoni.
Il vescovo Stefano di Caiazzo, nella successiva bolla del 985, ricordò le prescrizioni che vietavano a chiunque di costruire Oratori senza il permesso speciale dell’Ordinario Diocesano e rilevava che quelli già costruiti dipendevano “tutti” dalla Diocesi del territorio in cui sorgevano.
Nella stessa bolla il Vescovo affermava, con l’obiettivo di non inimicarsi una famiglia così importante nel tessuto sociale e religioso come quella del Landolfo, ad istanza dell’Arcidiacono e con il consenso del clero.. che
« Ut…Ecclesia Sancte Crucis sit absolute livera amodo et deinceps ab omni condizione episcopalis dominationis»
…che la Chiesa di Santa Croce, sia del tutto libera, al presente e per l’avvenire, da ogni giurisdizione vescovile.

Venne quindi confermato il patronato a Landonulfo, fratello  di Landolfo che nel frattempo era morto, principe di Capua e concedendo anche ai suoi successori, il privilegio di nominare gli abati. Lo stesso vescovo dichiarava altresì di:
-          non aver egli diritto alcuno di riscuotere imposte dai Frati,
-          non poterli scomunicare od ammonire nei casi previsti dai Sacri Canoni.
Non si hanno riferimenti in merito alla vita del Monastero dopo la sua fondazione, dato che i documenti furono distrutti dall’incendio dell’Archivio nel Monastero di Montecassino dove erano stati conservati gli antichi documenti del cenobio di Santa Croce. Data però la protezione della nobile famiglia e la ricca dotazione di territori, la vita nel cenobio doveva essere agiata ed arricchita da forti spunti culturali come la formazione di un archivio con importanti manoscritti.
I tempi cambiano e il momento storico era contraddistinto da una serie di lotte che vedevano i grandi feudatari in forte contrasto con la Chiesa di Roma.
 
Nel 1087 , era passato oltre un secolo dalla fondazione del Monastero, Riccardo, 2°  principe di Capua, con un atto pubblico donò il Monastero di Santa Croce,
in  perpetuo a Guarino, Abate del Monastero di San Lorenzo di Aversa”
Riccardo  era figlio primogenito del principe Normanno di Capua Giordano I e della longobarda Gaitelgrima di Salerno, ex moglie del padre di Giordano, Riccardo I.
Il Giordano aveva quindi sposato la sua matrigna e  Riccardo II quando pubblicò l’atto di donazione del monastero di Santa Croce , aveva solo otto anni circa (essendo nato tra la fine del 1079 e l’inizio del 1080) e fu probabilmente un atto eseguito su pressione dei suoi ministri  dietro sottili giochi di potere e di corte.
Un passaggio avvenuto con i Normanni, subentrati nella dominazione ai Longobardi, molto fedeli al culto di San Benedetto.
Naturalmente Costantino, nuovo vescovo di Caiazzo, non accettò questo passaggio e in virtù della propria autorità e delle vigenti disposizioni dei Sacri Canoni, s’impossessò con la violenza del Monastero di Santa Croce.
Un monastero che godeva del privilegio d’indipendenza dal Diritto Vescovile ma che sorgeva in ogni caso nella Diocesi di Caiazzo e quindi soggetto alla sua giurisdizione.
L’abate Guarino non reagì, forse per un senso di rispetto all’autorità vescovile, ma in ogni caso non era disposto a perdere quella donazione legata ad un autorità politica della regione e che aveva una sua validità legale.
Si limitò a fare un ricorso alla Santa Sede richiamando un antico decreto del 5 luglio 595 con il quale il papa Gregorio I
provvedeva alla libertà dei Monasteri, con l’interdire a chiunque di usurparne i beni; ingiungendo in modo speciale ai Vescovi di non ingerirsi nelle elezioni degli Abati; di non celebrare pubblici uffici nelle chiese monastiche, né ordinare monaci senza il permesso dell’ Abate
Decretum Synodi beati Gregari Papae
Un decreto legato ad un personaggio importante della Chiesa Romana come papa Gregorio I e la Santa Sede non ritenne opportuno schierarsi contro quella norma e quindi pronunciarsi contro  la richiesta dell’abate Guarino.
Nel Palazzo Arcivescovile di Salerno  il processo vide la presenza, oltre a quella del papa Pasquale II, dei cardinali: Oddone, vescovo di Ostia; Brunone di Segni; Alberto di Piacenza; Teuzone, Roberto di Parigi che era diacono del Laterano. Erano presenti anche i prelati: Roffredo, Arcivescovo di Benevento; Alfano, Arcivescovo di Salerno; Ruggero, Vescovo di Cava e gli abati, Pietro di Cava, e Madelmo di Santa Sofia di Benevento.
Il 25 settembre 1100 la Santa Sede 
obbligò il Vescovo di Caiazzo a cedere immediatamente, il Monastero usurpato contro le vigenti disposizioni ecclesiastiche.
L’ordine pontificio fu eseguito...
“Caiazanus Episcopus ante praesentiam Domini Papae Ecclesiam Sanctae Crucis cum omnibus suis Beati Laurentii Monasterio refutavit et redditit”.
Il Vescovo di Caiazzo, colpito ingiustamente, alla presenza del papa (Pasquale II – Raniero Ranieri), di alcuni Cardinali,  di Alfano Arcivescovo di Salerno, di Alfredo Arcivescovo di Benevento e di altri esponenti della Curia Pontificia, rinunziò al monastero.
Nell’atto pubblico, sembra che sia stato stipulato nel 1106 (?), il vescovo di Caiazzo si riserva un piccolo territorio posto nei confini di Caiazzo, detto “Camula”..”con gli stessi diritti con cui appartenne al predetto Monastero”.
(Camula era forse il territorio in cui si trovava la Chiesa di S. Maria a Marciano)
Nell’atto s’imponeva all’abate Guarino di 
versare nelle mani del vescovo del tempo, nel giorno dell’Assunzione della Vergine, un’oncia doro puro, per atto di giustizia, poiché il predetto Monastero di Santa Croce appartenne un tempo alla mensa vescovile di Caiazzo”.
Una strana figura quella dell’abate Guarino perchè alla morte di Costantino, avvenuta nel 1105, pretese dal nuovo vescovo di Caiazzo, Pietro, una conferma del giuramento del suo predecessore, ricordando di essere avvenuta alla presenza del Papa, sul Monastero di Santa Croce.
Pietro, suo malgrado e in considerazione del desiderio di non vedere il suo nuovo incarico alle prese con un grave problema di dominio, accettò la richiesta dell’abate Guarino, dopo aver avuto anche l’assenso del Capitolo, del Clero e del Conte Roberto, e con un po' d’ironia disse:
“ inhumanum si (illius) iustae petizioni non acquiesceret”.
…inumano non acconsentire alla sua giusta richiesta…
"Poiché ci hai chiesto (insieme ai tuoi venerandi monaci e tutto il personale del suddetto cenobio di S.Lorenzo martire a cui presiedi con l'aiuto di Dio, concediamo il Monastero di S.Croce, posto nella diocesi di Caiazzo sul Monte Verna, finora posseduto da noi. Sarebbe stato inumano se non avessimo acconsentito alla richiesta. Con la presente lettera, con l'assenso di tutti i canonici e di tutti i nostri chierici e con la volontà del nostro Roberto, concediamo, diamo e confermiamo a te e ai tuoi successori".

Aversa – Chiesa e Monastero di San Lorenzo


Monastero di Aversa

Il monastero di San Lorenzo di “a’ Versa” era sotto l’Ordine Benedettino. I monasteri dell’ordine erano contraddistinti da un intensa attività culturale e civilizzatrice specie nell’italia meridionale dal IV secolo in poi.
Per la verità non si hanno molti riferimenti sul periodo in cui il Monastero di Santa Croce fu sottoposto l’Ordine Benedettino. Si ha solo una notizia frammentaria contenuta in un antico manoscritto, di autore ignoto e conservato presso la biblioteca del Museo di Piedimonte d’Alife (Piedimonte Matese) in cui si legge:
“Nei tempi posteriori, lasciato detto Monastero dai Cassinesi, i Vescovi pro tempore, l’hanno conceduto in Abbazia, ossia beneficio semplice. Ma pochi anni or sono, i Cassinesi di Aversa, se lo hanno di nuovo ripigliato ”.

I monaci benedettini abbandonarono il monastero e probabilmente durante il periodo di Federico II di Svevia. I frati dovevano sottoporsi all’autorità sovrana dell’Imperatore e decisero quindi di abbandonare il monastero così come gli altri cenobi  presenti nella regione e questo dopo quasi due secoli dal loro insediamento.
Nel 1390, siamo molto distanti dall’era Federiciana,  il Vescovo di Cajazzo, Mons. Ottavio Mirto Frangipane citò il Monastero “in Monte Vernae” in una sua vita pastorale al fine di
Verificare la cura dei parrocchiani di Villa Santa Croce
Con l’avvento degli angioini di Carlo I d’Angiò, i Benedettini ripreso il possesso del monastero così come gran parte dei nobili che avevano perduto, sotto l’impero di Federico II, il possesso dei loro beni.
I frati ripreso quindi la loro opera culturale e religiosa.
 Sulla struttura della badia o monastero, ai tempi dei Benedettini, non rimane nulla se non i bellissimi affreschi della Chiesa di Santa Maria a Marciano che era sotto le loro dipendenze come bene del Monastero.
Nella chiesa di San Nicola, a Villa Santa Croce, ai lati dell’altare sono presenti due bellissimi bassorilievi in marmo che facevano parte dell’ornamento della Chiesa del Monastero di Santa Croce.
Un bassorilievo raffigura il Cristo sulla Croce ed il secondo Santa Scolastica,  sorella di San Benedetto.
Nella Cattedrale di Caiazzo sono conservati numerosi libri corali della Schola Cantorum dell’Ordine Benedettino provenienti dall’antico monastero.
Naturalmente la presenza dei frati Benedettini  nel territorio favorì  la nascita di piccoli villaggi ai piedi del Monte Verna e lontani dai maggiori centri abitati. Si trattava in particolari di villaggi di pastori che probabilmente dipendevano dal Monastero da cui avevano avuto le terre e che alla fine diedero sviluppo ad una attività agricola e pastorizia. I terreni, soprattutto quelli sul Monte Verna e nelle sue adiacenze, non erano dei migliori e gli abitanti dei villaggi, assieme agli stessi monaci, cominciarono a dissodare vari appezzamenti con un azione di bonifica che permise l’impianto di oliveti e la messa a coltura di cereali.
I monaci rappresentavo per il territorio un forte punto d’aggregazione non solo religiosa ma anche sociale. D’altra parte fino al 1620 l’unica chiesa presenta a Villa Santa Croce era quella del Monastero e la Domenica ed i giorni festivi, gli abitanti dei villaggi si recavano sulla montagna per ascoltare le messe officiate dai monaci.
Questa consuetudine durò fino al 1531 quando l’ultimo monaco del monastero, appartenente all’Abbazia di San Lorenzo di Aversa, lasciò definitivamente il luogo.
Il monastero mantenne  un monaco se nel 1532 era presente come Abbate Paolo Prisco  Arcidiacono e nel 1555 era presente suo nipote Tarquinio Prisco.
Nel 1558 il monastero fu concesso da Paolo IV a Don Stefano Marzio e nel 1673 l’abate era Corso de’ Corsi di Firenze.
Dal registro dei morti della Parrocchia di San Pietro, risulta che don Guido oppure Guidone Foschi, morto il 15 giugno 1721 di anni 63, era stato Vicario Generale e Abate di Montis Vernae.
Nel 1721 il Monastero era di libera collazione (Conferimento degli ordini sacri o di un beneficio ecclesiastico), ed era posseduto da Francesco Maria Falconio avvocato romano e nipote di Monsignor Falconio, Vescovo di Caiazzo.
Da un manoscritto di Carlo Marocco:

“Franciscus Maria Falconius Civ. Ducalis vige Bullarum expeditarum Calatiae die 18 Iunij, in possessionem praedictae Abbaziae immisimus fuit die 3 Iulii 1721”
… Francesco Maria Falconio cittadino ducale in vigore delle bolle spedite a Caiazzo il 18 Giugno 1721, fu immesso il giorno 3 Luglio 1721 in possesso dell’Abbazia di Santa Croce.

Con l’avvento del Rev. Prisco, si chiuse la serie degli Abati. Dopo la vendita della maggior parte dei beni, effettuata dall’Abate Perrone, la vita del monastero volse al tramonto.
I Benedettini di Aversa, elessero per l’ultima volta un Abate cioè Paolucci, poi persero l’interesse per la Badia divenuta per loro ormai un peso.
Subentrarono i Vescovi di Caiazzo, che cercarono ancora per pochi anni di sostenere le sorti del Monastero, fino ad abbandonarlo anch’essi definitivamente, forse perché situato in una zona impervia.
Oggi come detto del Monastero non vi sono altro che due mura alte, quelle della Chiesa, ed i ruderi di una cisterna colma di pietre e calcinacci. Ultimo epilogo di questo sito, lo ebbe nel 1973, allorquando alcuni archeologi dell’Università di Napoli fecero degli scavi per sondare il terreno intorno alle mura di cinta del Monastero. Vennero alla luce numerosi pezzi di ceramica, il pavimento della Chiesa e alcuni gradini della scala di accesso al Monastero sul lato sud del Monte.




Gli Abati del Monastero

Anno

 Abate

Note

982

Dardano

 Epoca di fondazione e nominato dal Conte Landolfo

1097 – 1109

Guarino

 Abate del Monastero di San Lorenzo di Aversa

1449

Galasso

 Priore e Rettore di S. Croce

Il Venerabile Galasso concedeva  ad enfiteusi al barone Bartolomeo Varrone di Caiazzo alcuni beni di pertinenza del Monastero. Il contratto fu stipulato il 19 ottobre 1449 presso il Notaio Matteo Murone.
Da un Codice Membranaceo ( Inventario di tutti i beni, mobili ed immobilidi proprietà del Monastero di San Lorenzo di Aversa) del 1549 è riportato sotto la segnatura X-AA-1:

“ Idem asseruit  dictum Monasterium ( idest Sancti Laurenti) habuisse et habere sub eius grancia beneficium Sancte Crucis de Caiacia collatum per distum Monasterium Reverendo Clerico Stephano Marsio qui tenetur comparere in festo Sancti Laurenti et solvere quolibet anno pro recognitione dicti beneficii carlenòs vigiati octo”
 
Lo stesso
 (testimone) asserisce che il predetto Monastero di san Lorenzo, ebbe ed ha tuttora, sotto la sua dipendenza il beneficio di Santa Croce di Caiazzo, conferito da parte di detto Monastero, al reverendo Chierico Stefano Marzio, il quale è obbligato ad intervenire alla festa di San Lorenzo ed a pagare, ogni anno, per il riconoscimento del predetto beneficio, la somma di 28 Carlini…

Anno

Abate

Note

1551

Giovanni Paolo Prisco

Secondo notizie tramandate da un anonimo.

Il Prisco era un Arcidiacono e si dimise nel 1555

1555

1 giugno

Orazio Marzio

Reverendo, procuratore di Tarquinio Prisco, zio di Giovanni Paolo. Il Rev. Marzio prese possesso del Monastero il 14 giugno 1558 quando ottenne il Regio Exequatur che fu rogato dal Notaio Giovanni Lamperio da Caiazzo.


(Regio Exequatur era una procedura  con cui l'autorità statale si riservava il diritto di approvare i provvedimenti della Chiesa e in particolare il conferimento dei benefici ecclesiastici vacanti).
L’abate Orazio Marzio rilevò, in un atto del 2 Novembre 1569, di aver ricevuto dal reverendo Chierico Tarquinio Prisco, tramite l’Arcidiacono  Caiatino (di Caiazzo) Giovan Luigi prisco, 38 ducati in compenso delle spese processuali a cui era stato condannato in una causa da lui sostenuta l’anno precedente dinnanzi al Reverendo Uditore della camera Apostolica, in qualità di rappresentante della Chiesa di Santa Croce,  La causa era terminata il 20 Agosto 1568 con la condanna dell’Abate alle spese.

Non si sa per quale motivo l’Abate sostenne questa causa e nemmeno perché sia stato compensato delle spese processuali. Somme che ricevette dalla prima dignità del Capitolo Cattedrale Probabilmente, come sostiene l’autore dell’interessante ricerca, l’architetto De Francesco, l’Abate difese qualche privilegio usurpato del Monastero. Un privilegio oltraggiato o messo in discussione da persone che seppero ben difendere le proprie ragioni in giudizio davanti alla Camera Apostolica.  II 12 Luglio 1571, lo stesso Abate Orazio Marzio erogò – con Atto pubblico presso il Notaio Lamperio la somma di ducati 25 di oro dalle rendite di detta Abazia, in favore di D. Francesco Vigesio di Milano perchè potesse ottenere l’ assoluzione dalla censura in cui era incorso.

Anno

Abate

Note

1587

Evangelista Pallotta

Rev.mo, datario del Pontefice Sisto V e che aveva ottenuto anche l’investitura per Santa Lucia da Flaminio Mirto. Il Pallotta fu presto richiamato a Roma per coprire delle importanti cariche e con atto pubblico, dello stesso anno e rogato presso il Notaio Cesare Manselli, si nominava Francesco Aurificio, procuratore di entrambe le Chiese, fino al momento della nomina del nuovo abate, D. Carlo d’Elia.

1587

Francesco Aurificio

 

 

Carlo D’Elia

D’Elia fu accusato di omicidio nel 1601 e fu quindi privato della carica e sostituito con Bolla Pontificia del 12 Agosto 1601 (Clemente VIII – Ippolito Aldobrandini) dal reverendo d. Andrea Posidonio di Maddaloni

 

Andrea Posidonio

Entrò in possesso dei beni di Santa Croce e di Santa Lucia solo il 25 Aprile 1603. Aspettò l’emanazione dell’Exequatur che non poteva essere emesso se prima l’ autorità giudiziaria non avesse, con relativa sentenza, stabilita la responsabilità del D’Elia dall’accusa di omicidio.

1619

(Giovanni Battista ?)

Pallotta

Cardinale

1620

 

Giovan Domenico Paolucci di Pesaro

Reverendo nominato il 6 ottobre 1620 direttamente dall’abate di san Lorenzo, D. Alessandro Castrovillari

1627

Marco Aurelio

Nominato il  5 febbraio 1627

1630

 Francesco Mambrino

Reverendo eletto il 30 agosto 1630 3 rimasto in carica fino al 1650

1654

Carlo Perrone

Il 24 Dicembre 1654, come risulta da strumento per il Notaio Nicola Severino, il Rev.do D. Carlo Perrone, napoletano, Abate di S. Croce, col permesso anche del Vescovo di Caiazzo, Mons. Francesco Perrone, forse suo fratello, vende tutti i beni appartenenti alla Badia al Mons. Marcello Anania, Vescovo di Sutri e Nepi, con il consenso del Pontefice Inno­cenzo X .

1673

Carlo De Corsi

Era di Firenze e fu eletto il 19 giugno 1673. Secondo la testimonianza di Nicola Marocco fu nominato anche Abate della Chiesa di Santa Maria del Roseto, nell’antica Diocesi di Telese (Cerreto Sannita). Sembra che sia vissuto fino al 1702.

1702

Corso De Corsi

Anche lui di Firenze e forse parente del precedente abate. Rimase in carica solo un anno

1703

Guido Fusco

Il 13 aprile 1703 era già stato nominato abate del monastero direttamente da Mons. Maiorano, Vescovo di Caiazzo. Morì il 15 giugno 1727

1727

Francesco Maria Falcone

Nominato il 28 giugno 1727. Era di Città Ducale (Prov. di L’Aquila) e fu nominato con Bolla da parte del Vescovo di Caiazzo. Entrò in possesso del Monastero il 3 luglio 1731. Non si sa per quale motivo questa consegna fu ritardata di quasi quattro anni. Il suo governo fu di breve durata,,

1732

Giovanni Paolo Prisco

Arcidiacono della Cattedrale di Caiazzo, fu eletto il 17 maggio 1732 con il titolo di Abate e Rettore come da atto del notaio Novelli.

Fine    

Degli    

Abati


 Dai documenti non risulterebbero altri abati. Il Monastero doveva essere ormai in decadenza e gran parte dei suoi beni erano già stati messi in vendita dall’abate Perrone nel 1654, ben 78 anni prima. Eppure l’abate del monastero di Aversa nominò come abate di Santa Croce un certo Paolucci ma fu solo l’ultimo anelito di vita dato che i monaci Benedettini del Monastero di San Lorenzo non s’interessarono più dell’antica e prestigiosa Badia di Santa Croce.
I Vescovi di Caiazzo, da sempre legati con amore al loro territorio, cercarono di riportare in vita l’antico Monastero. Un tentativo durato solo pochi anni perché ancora loro alla fine abbandonarono l’antico sito.  Una decisione presa per diversi motivi  e legata alla lontananza del sito dal centro abitato, alla mancanza di mezzi di sostentamento e anche ad una precarietà delle strutture murarie.
Il monastero abbandonato fu subito ambita preda dei pastori di Villa Santa Croce che senza alcun rispetto completarono l’opera di distruzione dimenticando l’antico passato in cui gli stessi monaci diedero un grande aiuto allo sviluppo agricolo e zootecnico nel territorio aiutando, con grande umiltà, chi si era stanziato ai piedi del Monte Verna.

Lo sforzo di fare bene a chi ci ama e si sforza di farci bene, si chiama Riconoscenza o Gratitudine; e perciò è manifesto che gli uomini sono molto più preparati alla vendetta che a ricambiare un beneficio.
(Ethica di Baruch Spinoza)

La memoria è  labile nel  ricordare i  benefici 

ma tenace nel ricordare  i  torti.

(Seneca)

I monaci Benedettini di Santa Croce fecero affrescare le pareti della chiesa di Santa Maria a Marciano che era una loro dipendenza.  Probabilmente anche la Chiesa del Monastero di Santa Croce, posto in un luogo sperduto come la cima del Monte Verna, doveva avere degli affreschi altrettanto pregevoli.
Affreschi che agli inizi del XX secolo furono portati alla luce da una serie di scavi effettuati nel sottosuolo della chiesa, per ordine del cav De Angelis, allora sindaco del Comune di Piana di Caiazzo ed oggi Piana di Monte Verna. Affreschi che andarono perduti.... furono distrutti dall’ignoranza dei pastori che temevano la chiusura di quei terreni dove portavano a pascolare i loro animali...
Un opera vandalica in grande stile dato che non solo gli affreschi furono distrutti ma addirittura venne ricoperti gli stessi scavi con pietre.
(Una descrizione fatta dal Parroco don Innocenzo Barbiero)



In un luogo simile, caratterizzato da un senso di misticismo non poteva mancare un antica leggenda che, come tutte le leggende, trova spesso un collegamento con la storia. È narrata, per ironia della sorte, a Villa Santa Croce dov’è tramandata da padre in figlio.

La  Leggenda......

“Un giorno, quando Villa S. Croce ancora non esisteva e vi erano solo dei casolari sparsi di pastori sul colle Morrone, un monaco scese dal monte Verna a questuare. 
Sulla soglia della casa di un pastore, trovò una madre che con grande semplicità stava pettinando una figlia. La famiglia era numerosa. Il religioso, dopo aver ricevuto l'elemosina, chiese alla donna anche un capello della fanciulla, che era solita portare delle lunghe trecce. 
La padrona rimase quasi scandalizzata della strana richiesta e, rincasando con le ragazze, disse al monaco di attendere un pò; affacciandosi ancora, invece di dare al questuante un capello della ragazza, gli mise in mano un pelo sfilato da un setaccio (crivello, vaglio). 
Il monaco ringraziò la donna e proseguì il suo cammino. 
Di notte, quando tutti nella casa del pastore dormivano saporitamente, il setaccio si staccò dal muro ove era appeso grazie ad un chiodo e rotolò sul pavimento. Il marito della donna, svegliandosi di soprassalto, si alzò, accese il lume e rimise il setaccio al suo posto per  poi ritornare a letto.
Si addormentò ma l'utensile cadde di nuovo. Il padrone si alzò e lo appese alla parete. Messosi a letto, per la terza volta il setaccio cadde dal muro e rotolò verso la porta di casa.
Intanto anche la donna si era svegliata e, sentendo l'accaduto dal marito, si ricordò della visita avuta dal monaco il giorno prima e ne parlò al marito. Il pastore, svegliò i figli più grandi, prese scure e bastoni, aprì la porta di casa e insieme ad essi, seguendo il setaccio che rotolava davanti a loro, salì al monastero di S. Croce. 
Giunti al monastero, il setaccio picchiò violentemente alla porta del monastero svegliando il monaco portinaio. Questi corse dal padre Priore dicendo: "mo' se ritira donnan Zuoccolo". Il superiore ordinò di aprire; ma quale non fu la meraviglia del picuozzo nell'aprire la porta del monastero, invece di donnan Zuoccolo, si fecero avanti il setaccio e gli assassini. 
Il primo a cadere sotto i colpi degli omicidi fu il povero monaco portinaio, poi furono massacrati tutti gli altri abitanti del monastero. 
Arrivata la notizia all'autorità ecclesiastica, il vescovo di Caiazzo maledisse quella terra che aveva dato ospitalità ai malfattori. 
Alcuni anni dopo, dei pastori, in un campo presso la fontana del Bosco, ove allora erano delle pozzanghere in cui solevano abbeverare i loro greggi, trovarono che una pianta di meloni aveva un frutto di eccezionale grandezza. I pastori, meravigliati, lo colsero e pensano di farne dono al Vescovo. Il prelato accettò il regalo e disse: "sia benedetta quella terra che ti ha prodotto" e cosi fu tolta la maledizione comminata alcuni anni prima.
 


La Struttura





La chiesa del monastero di Santa Croce fu costruita sul banco roccioso opportunamente modellato ed era ad unica navata con un transetto terminante in tre absidi di cui quello centrale era di dimensioni maggiori. Non presentava suddivisioni interne, come si nota dall’assenza di colonne, e con una misura di 20 m in lunghezza e circa 4,60 m in larghezza.
Un presbiterio che non era un transetto dato che il vano centrale, posto in corrispondenza dell’altare maggiore, era separato dai bracci nord e sud nati dal prolungamento dei muri della navata centrale. La chiesa doveva dare, in quei tempi, la percezione ai fedeli di un unico grande ambiente che presentava un rialzo in prossimità dell’altare.
 Perchè questa netta separazione ?
In realtà il transetto era legato alla presenza di tre vani ipogei, comunicanti tra di loro, e che si sviluppavano in corrispondenza degli ambienti superiori del presbiterio.
In particolare la copertura del vano ipogeico centrale aveva determinato la necessita di sollevare il pavimento dell’altare rispetto a quello della navata.
Questi ambienti ipogeici erano in comunicazione con l’interno della chiesa mediante sette gradini posti  nel braccio destro del transetto.
Da questo vano si passava a quello centrale, con pittura muraria, e quindi a quello di sinistra che corrispondeva al braccio sinistro superiore.
Quest’ultimo ambiente comunicava, a sua volta, con quelli meridionali attigui all’edificio di culto.
Ambienti che dovevano avere una loro importante funzione rituale come si potrebbe notare osservando l’ambiente centrale dove ancora si notano dei piccoli frammenti di pittura murale sulla pareti di fondo.
L’esame archeologico della navata  ha permesso di mettere in risalto l’esistenza di un vespaio di pietrisco e al di sopra un sottile strato preparatorio per la messa in opera del pavimento che probabilmente doveva essere in terracotta come si evince da quale piccola porzione.
L’interno doveva essere caratterizzato da un ricco rivestimento pittorico che purtroppo è andato perduto e abbiamo visto come... grazie all’opera dei pastori...
Sono visibili solo dei piccoli e irriconoscibili lacerti pittorici.
L’alzato consisteva in una spessa muratura a sacco (circa 108 cm) conservata per circa 4 metri di altezza e formata da due cortine in blocchi calcarei con faccia vista poco sbozzata e posti in opera con poca malta grigia che riempieva i giunti i connessione.
I giunti di connessione venivano regolarizzati grazie all’inserzione di piccoli frammenti di laterizio mentre il riempimento tra i due paramenti era costituito da pietre calcaree miste a pietrisco e ad una malta polverosa di colore giallo chiaro.
La spessore piuttosto considerevole della muratura potrebbe fare avanzare l’ipotesi dell’esistenza di una copertura piuttosto complessa e pesante. Una copertura costituita  da un sistema di volte di cui rimangono, in alcuni tratti delle mura, delle mensole a cuneo che sporgono da entrambi i paramenti interni dell’aula (ne sono state riconosciute due per ogni lato e di cui due sole poste in reciproca corrispondenza). Si tratterebbe quindi di una copertura con quattro campate. Lo spessore dei muri perimetrali ‘ consistente rispetto a quello del muro di facciata (50 cm circa), in cui risulta poco leggibile un ingresso, e a quello delle absidi di circa 70 cm.
 
Come già accennato l’ipogeo  dell’abside maggiore, in corrispondenza del soprastante altare, conserva tracce di una pittura murale costituito da una grande pannello rettangolare.
Un pannello racchiuso da cornici in rosso campite di blu nella parte inferiore. A destra s’intravede il profilo di una figura con una tunica rossa e un mantello di colore verde chiaro, posta di profilo su di un podio ligneo.




Nella parte sinistra in basso del pannello affrescato, inserita all’interno delle due bande in rosso campitedi blu, si riconosce un epigrafe dipinta in bianco, inerente forse alla committenza dell’edificio.




Le bande rosse sono spesse 4 cm, il campo blu 7 cm mentre le lettere, a caratteri capitali, hanno un’altezza di 5 – 7 cm
Difficile la lettura del testo che inizia con una croce perlata con un braccio di circa 4 cm e braccio orizzontale di 3 cm.
Alla destra della Croce... ego ia/ceo?/ (...) in ius (b)umilis a(...)
Il gruppo di lettere (...)in ius è sormontato da due ordini di puntini bianchi che, secondo lo studioso autore della ricerca, potrebbero essere collegati all’affresco superiore.
Gli scavi archeologici dimostrarono come l’edificio descritto non corrisponda a quanto menzionato nelle fonti altomedievali. Le indagini del 2014 hanno evidenziato come l’edificio, ad unica navata, transetto e tre absidi, abbia in realtà sostituito un edificio preesistente i cui resti furono messi in evidenza lungo la navata maggiore.

Resti dell’abside altomedievale lungo la navata della chiesa di età normanna.

Questi resti sono costituiti da un abside allestita sul banco di roccia naturale e realizzata in conci 
calcarei sbozzati, malta chiara e camicia interna in conci tufacei in gran parte asportati, ma 
localizzabili grazie all’impronta lasciata sul legante.
Un lavoro molto accurato che indica una committenza elevata che aveva forse reso possibile
l’impianto di un cantiere con maestranze per la lavorazione della pietra molto specializzati.
Furono demolite per la costruzione della fabbrica successiva cioè quella ad una navata e transetto. 
L’abside rinvenuta sarebbe l’aula di culto del “monasterium” altomedievale ovvero quell’antico 
complesso eretto  dal conte Landolfo nel X secolo.
In base ai rinvenimenti si potrebbero ipotizzare per l’antico edificio una sua minore dimensione 
rispetto a quella attuale e che terminante con un abside di dimensioni ridotte rispetto all’ampiezza 
complessiva della navata. Il rinvenimento al di sotto della quota pavimentale dell’edificio maggiore 
e in corrispondenza dell’ingresso laterale nord, di un concio calcareo con un lacerto d’intonaco 
dipinto potrebbe fare avanzare due ipotesi:
-          la fabbrica altomedievale venne probabilmente smontata e i conci furono riutilizzati per l’impianto successivo;
-          l’edificio altomedievale si caratterizzava anch’esso per un rivestimento pittorico interno.
La campagna di scavo del 2015 portò inoltre alla luce altri resti della chiesa altomedievale che 
furono riutilizzati come fondazione del muro perimetrale sud del nuovo edificio, oltre che un 
piccolo brandello della pavimentazione nei pressi dell’abside.
La chiesa  quindi non corrisponde all’impianto altomedievale ma fu probabilmente una 
ricostruzione legata all’età normanna e legata al possesso dei monaci benedettini di San Lorenzo 
d’Aversa. Lo schema triabsidato con transetto è infatti una caratteristica architettonica che si rileva 
in molti edifici presenti nella Campania settentrionale.


Nei pressi della chiesa,  nel versante settentrionale, a circa 5,70 m, sono visibili i resti di un grande invaso sub-circolare scavato nella roccia e foderato da una muratura costituita da conci di medie e piccole dimensioni. È impenetrabile e data la sua grandeza si tratterebbe di una grande cisterna. Allora a uausa della presenza di una folta vegetazione e anche della sua precaria staticità, non fu possibile datare questo manufatto.
Nelle adiacenze occidentali della chiesa normanna è emersa una strutura dalla pianta circolare e realizzata con frammenti di mattoni e dolia, blocchetti di tufo e bozze calcaree. Sul fondo in tegole allestito su un massetto in pietrisco è stato riconosciuto un sottile strato di malta che ne rende plausibile l’impiego come vasca per la mescola del legante. La forma circolare, la lacuna centrale che indicherrebbe la presenza di una bocca di accesso e la sezione a calotta (appena percettibile) sembrerebbe richiamare al profilo di una fornace, benchè non siano state riconosciute tracce di bruciato o deposito con scarti di lavorazione nelle immediate vicinanze.
Forse non è da escludersi un originario uso come fornace cui fece seguito un impiego come vasca per la miscela della malta.
Le indagini del 2015 a sud della chiesa hanno rilevato in parte alcuni ambienti di diverse dimensioni che sono direttamente collegati alla chiesa. Fra essi, certamente in fase con l’ impianto dell’XI – XII secolo, si distingue un vano a pianta rettangolare (vano a, 4,90 x 6,35) (N) con mura spesse circa 80 cm che presenta due aperture che lo collegano ad altri piccoli disimpegi a nord ed ad ovest e, sulla fronte est, un varco di dimensioni maggiori con soglia, aperto verso l’esterno.
Lo scavo di questa struttura, nonché l’esame dei reperti provenienti da esso, tuttavia in corso, rende prematuro formulare ipotesi circa la funzione svolta da questo ambiente.
Al contrario è forse interpretabile come deposito per le derrate il piccolo vano di 3,10 x 2,45 m (A1) ad ovest dell’ambiente A e ad esso contiguo, il cui scavo ha restituito numerosi contenitori anforici impiegati appunto per la conservazione dei cibi e dei liquidi. 
L’insediamento di Monte Croce ha pure restituito alcune inumazioni per un ammontare complessivo di ben sette tombe (nelle indagini del 2013 – 2015) alcune con sepolture multiple, tutte prive di corredo e posizionate in prevalenza su ogni versante esterno alla chiesa, ad esclusione di quello meridionale. Una sola deposizione, caratterizzata da almeno due inumazioni e priva anch’essa di corredo, è emersa all’interno della navata della chiesa di etò normanna.
Tre fosse sono state rinvenute a nord dell’aula di culto e si caratterizzano per la cassa in muratura.

Necropoli a Nord della Chiesa Normanna

In due casi, quelli meglio preservati e altresì composti da più deposizioni, fu rinvenuta anche la copertura in grossi conci tufacei lavorati.
Altre due sepolture sono emerse all’interno di un ambiente costruito in appoggio alla chiesa, all’esterno delle absidi, disposte a prima vista senza alcuna coerenza. Queste due inumazioni (tutte singole) erano chiuse verosimilmente da tegole in laterizio in ragione di frammenti trovati sui bordi delle casse.  Priva di corredo e di copertura un’ultima giacitura singola è stata individuata nei pressi della facciata principale della chiesa.
Gli inumati erano disposti in posizione supina, talvolta con gli arti superiori flessi all’altezza del bacino.
Dal gruppo delle deposizioni si distingue quella emersa all’interno della navata della chiesa. La fossa è stata realizzata direttamente al banco di roccia calcarea e pone qualche problema interpretativo in ragione della sua posizione e dell’assenza di nessi fisici con la pavimentazione dell’edificio di età normanna (la deposizione è coeva o successiva all’edificio di culto ?) senza escludere che essa poteva essere pertinente alla chiesa altomedievale posizionandosi forse all’esterna di essa ?
Le inumazioni nel settore nord della chiesa, abbastanza coerenti tra di loro, potrebbero fare riferimento a forma di organizzazione dello spazio funerario da parte del monastero.
L’evidente disomogeneità o casualità delle desposizioni delle altre fosse nei dintorni dell’edificio di culto potrebbero invece essere indicative del gradiale abbandono del sito secondo una dinamica che avrebbe comportato dapprima la dismissione degli annessi del monastero a cui corrisponderebbe perà ancora un saltuario impiego della chiesa.
La chiesa di età normanna poteva accogliere circa un centinaio di persone, un numero che forse potrebbe includeva non solo la locale comunità.
Dai documenti appare evidente lo scontro per la cura delle anime tra il potere comitale e quello vescovile per l’accuulo di forti patrimoni fondiari.
 
La posizione di questo monastero, dominante da nord la media valle dl Volturno ed è in contatto con il centro di Caiazzo, da est, potrebbe suggerisce una funzione di avamposto verso il versante meridionale. Probabilmente il Conte Landolfo IV utilizzò il monastero come marcatore territoriale per il confine nord-occidentale  della sua contea.
In assenza di esplici riferimenti a percorsi devozionali e la sua lontananza dalla viabilità antica, dal punto di vista topografico, potrebbero spiegare l’interesse comitale per questo insediamento che venne chiamato Santa Croce come ad indicare un segno di confine di un territorio.
 Il monastero non sembra incidere , tranne che localmente, su un vasto territorio, sia per il luogo che per la sua scarsa consistenza. Le sue dotazioni fondiarie, a differenza di altri cenobi, non auentarono nel tempo anche se la sua rendita continuò a fare gola alla mensa vescovile che cercò di unire a se il cenobio fin dal XII secolo.




La  Badia di Santa Croce di Cajazzo e i suoi terreni

Trasferiti alla Reale Amministrazione di San  Leucio durante l’Occupazione  Militare Francese

San Leucio -- il Sogno del re Ferdinando I di Borbone - La prima colonia socialista dell'era moderna - Seconda Parte : Gli Aspetti Agrari
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2021/03/san-leucio-il-sogno-del-re-ferdinando-i.html





Dipendenze della Badia di Santa Croce passate alla Reale Amministrazione di San Leucio

...... La “Montagna” (parte di Monte Verna) della Badia di Santa Croce passata alla Reale Amministrazione di Sn Leucio.

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4. Dalla Badia di Santa Croce di  Caiazzo al 

Monastero di  Ruviano







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5. Da Raviano  al Lago di Alvignano

Percorso pianeggiante




Lungo le rive del fiume Volturno, in particolare nel tratto compreso  fra i comuni di Amorosi, Castel Campagnano e nella frazione Alvignanello di Ruviano, non è  difficile notare la presenza di importanti avvisi, affissi nelle vicinanze del corso d’acqua da parte del Settore Agricoltura, Foreste, Caccia e Pesca della Provincia di Caserta. Avvisi riguardanti la presenza in quel tratto del fiume Volturno di esemplari di uno dei più grandi predatori di acqua dolce: il temibile pesce siluro.
” A seguito di segnalazione della presenza di avannotti di Pesce Siluro nel fiume Volturno si avvisano i pescatori, in caso di cattura di questa specie, di qualsiasi taglia, a non rimettere in acqua i pesci, al fine di salvaguardare le altre specie autoctone, facili preda del pesce siluro.”
“Nel caso di cattura di questo pesce e’ indispensabile fotografare i pesci e darne immediata segnalazione, anche perché e’ molto somigliante al più  piccolo pesce gatto. La segnalazione del pesce siluro ha messo in allarme il settore specifico della Provincia, forse in maniera eccessiva, per via di alcune leggende metropolitane che accompagnano il più grande pesce d’acqua dolce che vive in Italia. La sua lunghezza da adulto, superiore ai due metri, con esemplari che hanno raggiunto quasi i tre metri e i due quintali di peso. Un pesce dipinto come un mangiatore di tutto quello che gli capita nei paraggi, uomini compresi. In effetti, proprio perché mangiano un po’ di tutto è meglio evitarli, anche perché le loro carni non sono fra le più prelibate.
 
Il siluro (Silurus glanis) è un grosso pesce predatore arrivato dal Danubio alle acque lombarde negli anni ’70 e soprattutto ‘80. È uno tra i maggiori predatori delle acque interne ma paradossalmente in bocca non ha nemmeno un dente, bensì solamente delle gengive e due grosse ventose che servono ad agguantare gli altri pesci o addirittura uccelli in superficie. È noto il caso di un siluro pescato nel lago di Endine nel cui stomaco c’era persino una femmina di germano reale.


ll siluro è un pesce che sta colonizzando in maniera consistente tutte le acque dolci lombarde, soprattutto perché è un pesce con pochissime esigenze ecologiche. Non necessita infatti di acqua particolarmente pulita, ama molto la fanghiglia e il canneto, nel quale rimane nascosto a riposare durante le ore diurne, mentre nelle ore crepuscolari e durante la notte esce a caccia di altri pesci o uccelli. Inoltre è particolarmente versatile e si adatta alle prede più facilmente disponibili nell’ambiente in cui vive, arrivando a mangiare in un giorno quasi un terzo o un quarto del proprio peso (non a caso sono stati pescati pesci siluro della lunghezza di 1,80/1,90 m).
Una delle preoccupazioni da parte degli esperti è che il siluro con la sua voracità stia pian piano soppiantando le altre specie ittiche originarie dei nostri territori. Da qui la scelta di molte pubbliche amministrazioni, Provincia e Regione in primis, di contenere drasticamente la presenza di questa specie, un’ospite sgradito.
Ma come è arrivato il siluro nelle nostre acque? Di fatto, in maniera del tutto accidentale. Infatti, i piccoli di siluro venivano venduti come esca viva per pescare altri predatori come il luccio e il persico reale. Ma capitava che il pescatore al termine della giornata liberasse le esche in acqua e fra queste anche le larve di siluro. Oppure è arrivato anche per colpa dei ripopolamenti di pesci provenienti dal bacino del Po (carpe, tinche, cavedani), pescati e liberati come subadulti nei nostri laghi.
All’interno di queste masse di pesci liberati nei laghi erano mescolati anche piccoli siluri che poi si sono ritrovati in una ambiente evidentemente molto favorevole e si sono moltiplicati. Il siluro è un pesce che viene pescato a scopo di contenimento con ogni mezzo, anche con l’elettropesca, tecnica con la quale si fanno venire a galla questi grossi pesci dopo averli storditi con la corrente elettrica, e con la pesca subacquea.
La carne è apprezzata in zona danubiana, la sua area d’origine, dove tra l’altro la presenza del siluro si è molto rarefatta. Capita, dunque, di registrare spedizioni nel Po e nell’Adda di ungheresi e rumeni che lo pescano e poi lo rivendono nella loro regione, dove è ritenuto una prelibatezza. Si può dire insomma che il siluro faccia parte della globalizzazione che sta investendo anche la fauna ittica.


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6. Lago di Avigliano  - 

Convento di Santa Maria degli Angeli






L`Eremo di Santa Maria degli Angeli si trova nel territorio di Alvignanello (frazione di Riviano) ed è volgarmente denominato convento. Fu eretto dalla famiglia Monforte a cavallo dei secoli XV° e XVI°.
 Il Lunedì in Albis vi si svolge una processione nell'occasione della pasquetta. Con l'andare degli anni l’eremo subì una fase di progressivo abbandono subendone le conseguenze sotto forma di  decadimento della struttura senza tralasciare i furti continui.
Una struttura molto cara alla comunità locale e grazie all’ambizioso progetto di Achille della Porta e Maria Grasso (Società Achimar) originari di Squille, frazione della vicina  Castel Campagnano, si è riusciti a ridare vita al luogo che richiama alla preghiera e al raccoglimento.
I due professionisti sono riusciti a creare un luogo preposto all’accoglienza e all’ospitalità religiosa.
Ad una prima osservazione lo si accosta ad un edificio barocco, anche se non ha l’abbondanza dei fregi tipici di tale corrente artistica come: il prospetto frontale, la scala di accesso tagliata prospetticamente e i vari stucchi presenti sia all’interno che all’esterno.
La struttura si articola su due livelli:
– il piano terra con la Chiesa e i vari ambienti come la cucina e il refettorio;
– il piano superiore ove vi sono le camere, una cella, per un numero complessivo di 10 posti letto e i 3 servizi igienici in comune.
La comunicazione tra i due piani è resa possibile da una scala a chiocciola di legno.
C’è anche un’entrata posteriore dall’esterno che porta direttamente al piano superiore grazie ad un ponticello sorretto da un arco in muratura. Da tale ingresso ci si trova in un locale coperto a volta. Dopo un lungo corridoio si accede ad un salone con affreschi decorativi nella parte alta delle pareti e illuminato da quattro finestroni da cui si può ammirare tutta la Valle Telesina, il Monte Matese e il Monte Taburno. Tale salone è adatto per effettuare incontri, convegni e meeting con circa 40 posti a sedere.
La Biblioteca, dedicata al Beato Gennaro Maria Sarnelli è stata fondata nel 2006; ha un patrimonio libraio di circa 3000 volumi consultabili in loco, in orari da concordare.
L'esterno è costituito da un cortile con annesso giardino immerso nella natura rupestre e confinante con un secolare uliveto. L’atmosfera elegante e raffinata del complesso conduce l’ospite nel tempo e fuori dal tempo, immergendolo nella pace e serenità della campagna lontano dal caos cittadino.
Un grande esempio di valorizzazione del territorio. L’Eremo fu  riaperto nel 2017 grazie non solo alla volontà ed all’amore dei due professionisti ma anche grazie alla Diocesi di Alife – Caiazzo che ha giustamente creduto nel progetto concedendo la struttura per essere ristrutturata e per essere adibita ad ospitalità religiosa e a soggiorni ricchi di esperienze autentiche, spirituali ed emozionanti.
 È da rilevare non solo il lavoro dei due professionisti ma anche il sostegno di amici che hanno prestato il loro cuore e lavoro all’importante iniziativa impedendo la distruzione dell’edificio.




L’eremo – oggi Casa di ospitalità religiosa / Ostello – è dotato di un buon numero di servizi: 4 camere da letto, per un totale di 10 posti; una sala riunioni dotata di proiettore fino a 30 posti e altrettanti posti a sedere vi sono nella mensa.
Un’attrezzata cucina consente un accurato servizio di ristorazione dove ciò che conta è la genuinità dei prodotti locali impiegati.
Nell’ottica della gestione è importante l’aspetto legato alla valorizzazione dei prodotti tipici e delle antiche ricette culinarie del Medio -Alto Casertano dove la cucina  è stata da sempre contraddistinta da sapori, amori genuini della terra che era teatro di lavoro delle forti e coraggiose donne campane. Vengono quindi proposti la carne marchigiana, la mozzarella di bufala, i formaggi come il Pecorino del Matese e il Conciato Romano, l’olio tipico delle Colline Caiatine, i salumi del Sannio, e i vini come la Falanghina, l’Aglianico, Casavecchia, Coda di Volpe e il Pallagrello, e verdure e ortaggi di stagione, con tutto il loro carico di bontà e proprietà nutritive.


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7. Convento di Santa Maria degli Angeli – Limatola 

Il centro di Limatola, posto nella parte più occidentale della provincia di Benevento, presenta una popolazione di circa 4.000 abitanti.
Il suo nome deriva  secondo alcuni storici dal termine “limare”, spianare, indicando quindi una pianura. Un’altra versione, risalente a Varrone, riconduce il suo nome a “limata” (in latino “limatola”) cioè sabbia o luogo sabbioso. Una zona che era soggetta a frequenti allagamenti causati dal Volturno o dall’Isclero  che provocavano la deposizione nella pianura di limo.
Limatola fu abitata dagli Osco-Sanniti fin dall’Età del Ferro. Nel VI secolo a.C. vi si stabilirono gli Etruschi, come testimoniano i reperti archeologici ritrovati in località Cisterna. In seguito divenne città sannita, accrescendo la sua popolazione grazie alle genti provenienti dalla vicina Saticula, distrutta e successivamente frazionatosi in una serie di villaggi minori. La sua posizione l’ha resa fin dal principio un luogo importante e strategico per la vicinanza al Volturno e all’uscita da una valle facilmente controllabile.  Infatti dopo il 326 a.C. il paese fece parte di un sistema di fortificazioni di notevole valore strategico: ma durante l’impero romano diventò anche località amena e adatta al riposo in seguito alla costruzione di villa rustiche lungo le pendici dei boscosi monti Tifatini. Alcuni resti di questi ville sono stati ritrovati nelle frazioni Giardoni e Ave Gratia Plena e lungo la fascia collinare che va da Limatola a Biancano.

Nell’842 il conte Longobardo Landolfo di Caserta vi riportò un importante vittoria contro i Beneventani.
Al tempo dei Normanni entrò a fare parte della Contea di Caserta e  nel 1064 sembra
di pertinenza dell’Abbazia di Montecassino.
Le fonti storiche non sono molto concordi nel delineare le fasi storiche del centro in questo periodo.
Una fonte afferma come il centro sia stato un possedimento, sotto gli Angioni, dei chierici della chiesa di San Giacomo di Caserta.
Un documento fondamentale per ricostruire le vicende del castello è il diploma regio del 27/9/1277 con cui re Carlo I D’Angiò ne finanziò il restauro a favore di Margherita de Tucziaco. Tali interventi sono ancor oggi documentati nei tre vasti ambienti, divisi ciascuno in tre campate, coperti con volte a crociera ad archi ogivali, ubicati sui due livelli dell'edificio sul lato verso il fiume.
Un'altra fonde indica invece Limatola concessa, sempre dagli Angioini di Carlo d’Angiò ai Beaumont e nel XIV secolo possedimento prima dei Cantelmo e poi dei D’Artus (Nel 1316 il territorio di Limatola fu donato da Roberto d’Angiò a Guglielma Cantelmo, madre del suo figlio naturale Carlo d’Artus).
Nel 1420 il feudo fu concesso ai de la Rath, poi italianizzato in Della Ratta, 
che troveremo anche a Caserta e nel Feudo di Santa Maria Macerata.
 Nel 1457 il conte Giovanni della Ratta morì ed il figlio Francesco ebbe confermati i possedimenti e i titoli paterni nel 1458.  
I suddetti coniugi Caterina della Ratta († Napoli, 1511), Signora di Limatola, e Andrea Matteo III d’Acquaviva, duca di Atri, subito dopo il matrimonio, donarono nel 1509 il feudo di Limatola ai nipoti e coniugi Caterina della Ratta, figlia di Francesco III della Ratta († 1488), conte di Caserta e Francesco Gambacorta  († 1537), Signore di Duecento, Frasso, Melizzano e Vico.
Secondo una fonte nel 1579 il feudo di Limatola fu prima dei De Capua e successivamente del Mastelloni per passare nel 1610 ai pisani Gambacorta.
Il feudo di Limatola passò così in Casa Gambacorta che nel 1628 ottennero il titolo di duca.
Famiglia Gambacorta che, durante la rivoluzione di Masaniello, aprì le porte del castello alle famiglie di nobili rifugiati. Gambacorta Gaetano fu protagonista e progettista nel giugno del 1701, a Napoli, di una congiura ed usò il castello di Limatola  per nascondere le armi necessarie per la rivolta.
Nella famosa Bolla di Sennete del 1113, tanto importante dal punto di vista storico  per il territorio, tra le chiese parrocchiali delle varie diocesi elencate ci sarebbe la testimonianza di una chiesa dedicata a San Nicola “intra castellum” a testimonianza dell’esistenza  di una struttura militare anche se non di un vero e proprio castello.
Il castello fu infatti edificato in epoca normanna, dopo il 1160, quando la Contea di Caserta  fu caratterizzata da un forte processo di sviluppo feudale.
Il possesso dei Sanseverino di Lauro, potentissimi feudatari dell'unificato regno meridionale, consentì l'erezione di un grande edificio. Esso inglobò la torre longobarda e la vicina chiesa in una imponente pianta parallelepipeda, di cui oggi sopravvive gran parte del perimetro, ancora in ottimo stato di conservazione e pregevolissimo per l'alta qualità del paramento murario esterno in tufo squadrato a vista. La chiesa di S. Nicola, oggi cappella interna al palazzo, conserva l'antico portale romanico in pietra calcarea che immette in un insolito ambiente a due navate. A testimonianza dell’antico splendore restano tracce delle fastose macchine lignee e di stucco dei due altari. 

In una schematica ricostruzione dell'evoluzione del manufatto, possiamo datare all'epoca della presa di possesso dei Della Ratta (1420) l'innalzamento del recinto più esterno del complesso, collegato alle mura del borgo, a chiusura completa del colle sul quale è fondato il castello vero e proprio. La configurazione tipologica dell'ala posta sull'attuale accesso della corte superiore, della corte stessa impostata come patio rinascimentale napoletano, su cui affacciano semplici finestre quattrocentesche, furono dettate dall'esigenza di adeguare il castello alle funzione residenziali di un palazzo. I danni causati dal disastroso terremoto del 1456 furono motivo di ulteriori lavori di ripristino e di decorazione. La trasformazione fu completata in grande stile dai Gambacorta (1518), nuovi feudatari, che vollero lasciare memoria di ciò sulle lapidi collocate sull'ingresso alla corte inferiore e alla cappella. Nonostante le funzioni militari fossero notevolmente diminuite, nel corso del XVI secolo o al principio del XVII si realizzarono due veri e proprio bastioni, di cui quello verso il borgo dal lato del fiume ancora ben conservato; sulle fondamenta dell'altro, posto a guardia dell'ingresso al primo recinto, verso la fine del secolo fu realizzazione della foresteria. Il terremoto di Cerreto del 1688 fu occasione per avviare altri interventi ai quali forse si riferisce l’iscrizione 1696 nella corte bassa. A conclusione dei lavori, o poco dopo, furono commissionati importanti cicli figurativi, testimoniati dai bellissimi affreschi di ambito tardobarocco, ancora in gran parte leggibili al piano nobile e nella foresteria, sia a soggetti allegorici che tipicamente decorativi (quadrature prospettiche, grottesche etc.). I domini feudali successivi su Limatola dei Mastelloni e dei Lottieri d'Aquino, non furono né lunghi né significativi da apportare sostanziali modifiche al grande complesso. Quando nel 1816 i Canelli, di cui gli attuali proprietari sono gli eredi, lo acquistarono per compravendita dai Carafa. Il castello aveva già imboccato la malinconica strada delle manomissioni, delle superfetazioni, dei restauri arbitrari e infine dell'abbandono e del degrado totale, in cui oggi ci è giunto» (a c. di Pietro Di Lorenzo). NB. Attualmente (2014) il castello è di proprietà della famiglia Sgueglia che lo ha restaurato e reso funzionale ad attività ricettive e culturali.


 I Gambacorta (Gambacorti) erano una nobile famiglia pisana dei
primi anni del XIII secolo, secondo  altre fonti di  origine tedesca,
dediti al commercio in particolare con il Regno di Napoli e la Sardegna.
Raggiunsero una forte posizione economica a tal punto da influenzare
la vita politica di Pisa. Furono infatti a capo della fazione dei Bargolini,
insieme agli Alliata ed ai Lafranchi, che sosteneva l’alleanza con Firenze.
Più volte tennero il potere della città di Pisa e nel 1369 Pietro Gambacorta,
a causa della congiura ordita da Iacopo d’Appiano, alleato con
Gian Galeazzo Visconti (entrambi antifiorentini), fu ucciso insieme ai suoi
due figli Benedetto e Lorenzo mentre il resto della
famiglia Gambacorta fu esiliata da Pisa.
Nel 1406 la città di Pisa cadde nelle mani di Firenze ed i Gambacorta furono
ricompensati dai fiorentini con la signoria di Bagno di Romagna che
mantennero fino  al 1453. Nel 1454 con Gherardo, i Gambacorta si trasferirono
a Napoli dove furono inseriti nel patriziato napoletano ricevendo in
concessione molti feudi: la signoria di Celenza che fu poi elevata a
marchesato; la contea di Macchia, il ducato di Limatola, il principato di
Atena e il marchesato di Brienza. Un ramo della famiglia Gambacorta nel XVI secolo si sarebbe trasferito in Sicilia, a Palermo e a Messina ottenendo il marchesato di
Motta d’Affermo e le baronie di Spataro e Recattivo (Petralia Sottana).
Gaetano Gambacorta (4° Principe di Macchia e 6° Marchese di Celenza, fu uno dei cospiratori della congiura contro  Filippo V di Spagna.
Dopo la morte del re di Spagna  Carlo II d’Asburgo (detto “Lo Stregato”), avvenuta
l’uno novembre 1700, alcuni baroni napoletani videro la possibilità di sciogliere
due secoli di dominazione spagnola. Per questo motivo si schierarono a favore di
Carlo, arciduca d’Austria, figlio di Leopoldo I. la sua salita al trono avrebbe reso indipendente il regno di Napoli come ai tempi dei mai dimenticati re  aragonesi.
Ci furono delle intense trattative con gli austriaci che alla fine promisero l’invio
di un forte contingente militare e la concessione di numerosi privilegi.
In Spagna nel frattempo era stato incoronato Filippo V, il 6
Novembre 1700, prendendo il titolo anche di Re Napoli e di Sicilia con il nome di
Filippo IV. Alcuni nobili napoletani:
Tiberio Carafa, principe di Chiusano;
Gaetano Gambacorta, principe di Maccia;
Giambattista di Capua, principe di Riccia;
Carlo de Sangro, principe di Sansevero
e altri baroni del Regno,
si riunirono, con la presenza di agenti segreti austriaci, a Napoli nel
palazzo del principe di Ricca per preparare il piano d’azione contro
 il governo vicereale.


Il piano prevedeva la presa di Castel Nuovo, l’uccisione del vicerè e l’arrivo
dell’armata austriaca.
Il Presidente della regia Camera, don Adriano Lanzina y Ulloa, venne a conoscenza del piano di rivolta e convocò con urgenza il Collaterale (Consiglio), fece rafforzare la vigilanza dei presidi militari e dei castelli e ordinò la cattura dei congiurati che dovevano essere quindi ben noti.
Per i rivoltosi il piano stava per fallire ed il Gambacorta

anticipò la rivolta e all’alba del 23 settembre 1701 furono prese d’assalto le botteghe degli armaioli, il tribunale della Vicaria, le carceri di
San Francesco e S. Maria Apparente, le stazioni di gabella.  Fu presa anche la Torre di San Lorenzo ove fu esposto un dipinto di Carlo d’Austria e s’innalzarono barricate in vari punti della città. Venne occupata piazza del Mercato, luogo ideale per incitare il popolo alla rivolta, ma fu proprio questa la parte lacunosa del piano. Sebbene il popolo fosse stanco di pagare numerose gabelle per finanziare le guerre degli spagnoli, simpatizzava più per il vicerè Luigi de la Cerda, duca di Medinaceli, che per il Gambacorta, la cui arringa sortì un flebile effetto e pochi lo seguirono.
Il vicerè era amante della cultura, amico di Giambattista Vico, appassionato di teatro e musica, governante severo in egual misura con gli appartenenti ai vari ceti sociali mentre il di Capua e il Gambacorta, differenti dai gentiluomini del loro tempo, avevano poche virtù e molti vizi.
Trattavano in malo modo i loro vassalli e non esitavano a far punire dai loro sgherri chiunque osasse solo contraddirli. Non molto tempo prima, il principe di Riccia fece uccidere un suo servitore per futili motivi e dovette nascondersi in un monastero per non essere arrestato su ordine dello stesso vicerè.
Il vicerè diede incarico ad Andrea d’Avalos, principe di Montesarichio, a Niccolò Perez-Navarrete, marchese della Terza, e ad altri nobili a lui fedeli tra i quali il Piccolomini, di sedare la rivolta
Restaino Cantelmo, duca di Popoli, impartì ì comandi militari e ben presto, i cannoni e il numero soverchiante dei fucili ebbero la meglio sulle improvvisate barricate.

La presa del Campanile di Santa Chiara non fu facile per la tenace resistenza del Carafa, così dicasi per la torre di San Lorenzo, ultimo baluardo.
Non arrivarono gli aiuti promessi dagli austriaci e i rivoltosi dovettero alla fine fuggire o arrendersi. Il principe Gambacorta si rifugiò all’estero e rese l’anima a Dio
a Vienna il 27 gennaio 1703.
Giuseppe Capece,  fratello del marchese di Rofrano, fu ucciso dagli archibugieri del vicerè e lasuatesta affissa a un torPer illustrare ai sovrani le sue idee Vanvitelli elaborò un disegno quotato in cui rappresentò il parco con le fontane e le sorgenti. Egli stesso lo descrisse in una sua lettera al fratello Urbano come 
un disegno della grandezza degl’altri, in cui rappresentai la veduta del Paese e procurai di farla con buon garbo. Indicai tre linee di colore rosso, le quali segnavano li piani delle sorgenti che fluiscono, una detta di Giove, alta palmi 39 dal condotto antico, l’altra detta di Fontanelle alta palmi 138, e contrassegnai con i numeri tutte le dimensioni principali, oltre le scale delle quali col compasso si può prendere la medesima misura

 (Lett. del 19 giugno 1751; Strazzullo, 1976).

Il disegno fu presentato nella reggia di Portici il 16 giugno 1751 e ottenne ampi consensi; l’architetto raccontò come i sovrani “vollero ritenere il disegno senza rendermelo

(Lett. del 19 giugno 1751; Strazzullo, 1976).

Da un’altra sua lettera al fratello Urbano si apprende che già a luglio del 1751 nello scavo

del traforo in località S. Elmo venne trovata l’acqua per cui

quelle terre, che non avevano mai veduta fluire l’acqua, ne esultano di allegrezza, anzi oggi 10 del mese, che è il giorno del Nome della Regina, a Caserta fanno fuochi di allegria per detto ritrovamento

(Lett.del 10 Luglio 1751; Strazzullo, 1976).rione del Castel Nuovo


La targa commemorativa della Rivolta di Macchia
Posta nel palazzo Marigliano dei principi di Ricca



Palazzo Marigliano, cortile interno


Macchia Valfortore (Campobasso), chiesa San Michele.
Un bellissimo altare commissionato dai coniugi Carlo Gambacorta e Faustina Caracciolo Rossi
Con l’estinzione  dei Gambacorta, nel 1734 il castello passò nuovamente ai Mastelloni e quindi ai Carafa presenti anche in numerosi castelli in Sicilia. L’ultimo proprietario del fortilizio fu l’arciprete Francesco Canelli.
Dal punto di vista militare, Limatola ricoprì un ruolo molto importante nella battaglia del Volturno del 1860. Fu proprio a Limatola che centinaia di garibaldini attraversarono il fiume per conquistare Caiazzo, per poi ripiegare precipitosamente, schiacciati dalle truppe borboniche, lasciando dietro di sé ben trecento compagni feriti. Allo stesso modo Limatola fu coinvolta in un’altra battaglia che si svolse su Volturno, nel 1943, tra tedeschi e forze alleate.
Notizie in merito alla popolazione c’è da dire che nel 1532 le famiglie erano 126 e arrivarono a 277 nel 1561 per poi diminuire a 112 dopo la peste del 1656.
Nel 1811 entrò a fare parte del circondario di Solopaca per poi passare a quello di Sant’Agata de’ Goti nel 1816. Dal 1861 con l’unità d’italia entrò a fare parte della provincia di Benevento.


In merito al  castello di Limatola non ci sarebbero prove documentali ed archeologiche sull’esistenza di un “castrum” nell’epoca sannitica anche se la zona era frequentata ed importante dal punto di vista strategico. I primi riferimenti  sul “Castrum Limatulae” risalirebbero al periodo  longobardo quando fu costruita una piccola torre di avvistamento per la difesa dei territori del neonato principato longobardo di Capua verso l’antica capitale Benevento e a vedetta contro le scorrerie delle truppe mercenarie arabe.
































Aurelia D’Este, moglie di Francesco Gambacorta




L’Ara del Console     trovata nel  Castello di  Limatola

Durante i lavori di ristrutturazione del castello fu trovata, incastonata in un muro, un’ara in  discreto stato di conservazione anche se danneggiata nel latro destro del coronamento epigrafico.  Il retro presentava alcune fenditure profonde.


Nelle due facce laterali erano raffigurate l’urceus e la patera umbilicata che rappresentavano gli strumenti che venivano impiegati per il sacrificio. Questo strumenti sacrificali  venivano sempre raffigurati nelle are perché adoperati durante i sacrifici. L’urceus, una brocca, che conteneva il liquido da versare e la patera, scodella bassa e larga, con la quale si versava lo stesso liquido sul sacrificio.
Sulla parte superiore del coronamento si trova il focus (focolare) incavato e delimitato, sui lati lunghi, da due pulvini.
Questi  pulvini  rappresenterebbero i due cuscini in stoffa,  serrati al centro ed alla estremità, da cui fuoriusciva un fiore. Tutti elementi che ornavano l’altare durante i riti.
La fiamma non si accendeva direttamente sulla pietra  ma su bracieri portatili.
Testo epigrafico:
D(is)  M(anibus)
T(ito) SEVERINIO  [VI]CTO[RI]
PROC(uratori)  PROV(inciae) C[I]LI[CI]
AE  ITEM  PER  CAMPA
NIAM  XX  HER (editatium)  ITEM
BITYNIAE  ORNATO
TRIBVS   MILITIIS
L(ucius)  SERGIVS  PAVLVS  AMICO
………………………….
Agli  Dei  Mani
A Tito  Severinio Vittore
procuratore  della provincia di Cilicia
e inoltre esattore per la Campa-
nia della  tassa sull’eredità
e parimenti insignito in Bitinia
dei tre comandi equestri
Lucio Sergio Paolo  all’amico
............................
Dall’epigrafe emergono  alcuni elementi importanti:

Palazzo Marigliano – scala a doppia rampa
Corte alta e balconata
Cantina del castello
Sala Garibaldi

1-      l’ordine delle cariche di Severinio è detto “inverso” perché inizia dall’ultima carica per giungere alla prima. In età imperiale un funzionario o cavaliere, dopo aver percorso alcune tappe della propria carriera, poteva entrare, grazie alla decisione dell’imperatore, nell’ordine senatoriale e assumere quindi incarichi riservati ai senatori;
2-      il nome di Severinio è al dativo perché il dedicante, autore dell’epigrafe, desiderava che la stessa epigrafe fosse una dedica al defunto. In genere le iscrizioni funerarie avevano l’obiettivo di narrare gli avvenimenti più importanti della vita del defunto;
3-      la sepoltura aveva un aspetto religioso e quindi inviolabile. Era posta sotto la tutela degli Dei Mani. Una “formula” riportata per esteso per quasi tutta la metà del I secolo d.C. o abbreviata in D.M. /D.M.S., a partire dalla seconda metà del I secolo d.C. fino a tutto il III secolo d.C.;
4-      il cognome Victor era abbastanza frequente nelle epigrafi ed era riportato tra i
veterani classiari in età imperiale;
5-      i tre comandi equestri consistevano  in queste cariche:  prefettura di una coorte; nel tribunato di una legione e nella prefettura di un reggimento della cavalleria;
6-      il defunto ricoprì il ruolo di procuratore della Cilicia, regione dell’Asia Minore Meridionale e bagnata dal Mediterraneo, che fu divisa da Augusto tra Siria e Galazia e riunificata successivamente da Vespasiano nel 72 d.C. per essere affidata a un legato pretoriano residente a Tarso.


 L’ara fu trovata in un muro del castello di Lamitola durante i lavori di recupero dell’importante castello.
La sua collocazione originaria non era però nel castello ma probabilmente a Capua.
Sembra che i Normanni, con la conquista della città nel 1076, iniziarono ad operare una sistematica distruzione degli antichi edifici esistenti. Uno degli edifici più importanti era l’Anfiteatro campano che era il più grande dell’Impero e secondo solo all’Anfiteatro Flavio di Roma cioè il Colosseo.
Doveva essere un edificio spettacolare con una pianta ellittica, con assi (170 x 140) m e l’arena di (72 x 46) m, alto 46 me con divisione in quattro piani di cui tre piani inferiori erano costituiti da 80 archi ciascuno, mentre il quarto piano era in muratura piena. Alle mensole dell’ultimo piano, grazie a delle robuste funi, veniva agganciato un grande “velarium” per proteggere dai forti raggi solari estivi gli oltre 40.000 spettatori assiepati nella cavea.  Sul numero degli spettatori, che l’edificio poteva contenere, alcuni storici indicarono il numero di 42.498 ed altri di ben 50.000 spettatori che assistevano alle varie gare divisi per sesso, età e classe sociale.

Grandiosa era la struttura interna, costituita da portici, dalle arcate
sovrapposte, dall’immensa cavea, dal podio, dalle tante scale e scalette per
accedere, per salire e scendere”



Nei sotterranei, rimasti intatti, si possono ammirare ben 76 archi in mattoni di colore rosso bruno che testimoniano la grande maestosità della struttura.


I materiali dell’anfiteatro  furono utilizzati come materiale da costruzione della nuova Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere).
Numerosi edifici furono costruiti adoperando le antiche “pietre”:  la Cattedrale, il campanile in stile longobardo, il castello dei principi normanni, il “castello  delle  pietre”, “Castrum lapidum o Castrum lapideum”.
Con le pietre di travertino tolte dalla facciata  dell’anfiteatro furono abbellite diverse chiese e numerosi palazzi. Molte strade furono addirittura lastricate con pietre dell’anfiteatro. La maggiore distruzione ha anche una sua collocazione temporale. Avvenne nel corso del XVI secolo, un epoca nelle quali gli abitanti delle varie contrade fecero a gara nel prelevare il materiale lapideo fino quasi alle fondamenta.
Il famoso archeologo Amedeo Maiuri (Veroli, 7 gennaio 1886 – Napoli, 7 aprile 1963) nelle sue ricerche riportò che:

.. si attuò in quel momento una vera e propria deliberata volontà di distruzione.
Le razzie continuarono con prelievi di protomi, stele, cippi funerari,
statue, capitelli, frammenti di colonne tolti non solo dall’anfiteatro, ma
anche da altri edifici e monumenti dell’antica Capua, per essere utilizzati
come elementi di ornamento dei palazzi nobiliari, o per servire da stipi
e portali, ornamenti per mensole e passaggi di cortili interni, in edifici, chiese e campanili, anche nei paesi vicini e soprattutto di Maddaloni, Calatia e
Casertavecchia”.

Fu proprio in quel periodo che l’ara funeraria di Severinio, posta su una delle strade principali di Capua, fu trasportata a Limatola per finire poi murata all’ingresso del castello.
Perché posta su una delle strade principali di Capua e non magari in una necropoli ?
Lo scopo del monumento funerario era quello di attirare l’attenzione del passante in modo da indurlo a leggere il nome del defunto o dei defunti. L’obiettivo era fare rivivere, anche se per piccoli attimi, la memoria di un individuo, in questo caso importante, impedendone l’oblio eterno.

La collocazione nel castello avvenne   probabilmente quando il duca Francesco Gambacorta decise di restaurare e ristrutturare il castello nel 1518 oppure potrebbe risalire al 1277 in occasione di un altro restauro che fu eseguito dalla duchessa di Limatola Margherita de Tucziaco con fondi ottenuti dal sovrano Carlo I d’Angiò di cui la principessa era cugina e alla quale lo stesso sovrano aveva concesso in dote il castello.

 
L’area fu  realizzata con  pietra locale da artigiani di Capua o dei dintorni adoperando la pietra del Monte Tifata così come per gli edifici.
Era una consuetudine del romani adoperare per la costruzione degli edifici, per la maggior parte dei casi, la pietra locale importando solo per parti nobili o decorative o per particolari parimenti architettonici roccia di altra provenienza anche distante.
Tra le stele funerarie conservate nel Museo Campano e sudiate da vari storici, molte sono eseguite con pietra del monte Tifata. Una di queste, indicata con il n. 14 è simile a quella di Severinio.
Presenta l’urceus nella faccia destra,  la patera in quella di sinistra, mente il retro è dritto. Reca un’iscrizione in onore di Terentius Charinus, originario di Capua e risalente al II secolo d.C.
C’e da dire che i duchi di Limatola amavano custodire all’interno del loro castello dei reperti archeologici. Furono infatti trovate numerose anfore onorarie che fino agli anni ’60 del secolo scorso erano custodite nel castello.
Così come la lapide (lastra in marmo bianco) di Lucius Pacideius Carpianus, cavaliere romano patrono di Caiatia, Allifae, e patrono curatore della città di Atina, nonché patrono di Teano Apulo, vissuto alla fine del II secolo d.C., la cui famiglia si era stabilita a Caiatia. La lapide fu rinvenuta nella chiesa di S. Tommaso a Limatola nei primi decenni del 1700 e fu trasportata dal duca Gambacorta nel suo castello e poi trasferita  nel Museo “Daniele” di Caserta. (Fu poi trasferita a Napoli).
Durante i lavori di ristrutturazione degli edifici capitava spesso che alcune epigrafi di spoglio venissero murate con la parte epigrafica rivolta all’interno della muratura o come nel caso della nostra ara funeraria di Severinio addirittura con l’iscrizione capovolta.
Il motivo.. non è facile spiegarlo... are con l’iscrizione capovolta e inserite nelle mura, furono trovate anche a Malta. Un caso ? Forse o anche  da interpretare come una beffa per  il senso della trascrizione..
 Lo scempio dei monumenti di Capua durò a lungo... fu solo nel XVIII secolo con Carlo III di Borbone che si pose fino alla distruzione. Il sovrano nel 1736 ordinò dei restauri di mantenimento e fece ripulire l’anfiteatro dai rottami, dal terreno che lo ricopriva e non solo.... fece abbattere delle casette che vi erano state costruite come risulta da alcune stampe del 1700. (Miele)
Altri lavori furono eseguiti successivamente da Francesco I il quale ordinò con Decreto Reale del 5 gennaio 1826 che
Si ponesse fine alle devastazioni e si procedesse allo scavo che fu
affidato all’architetto Pietro Bianchi.
Gli scavi non solo raggiunsero l’arena ma anche le grandi fabbriche sotterranee in cui fu riportata alla luce l’antica e stupenda architettura.
Con Decreto Reale del 14 dicembre 1819, l’Anfiteatro Campano fu dichiarato proprietà dello Stato che lo sottopose a tutela della Soprintendenza degli Scavi d’Antichità.
L’iscrizione sull’ara funeraria potrebbe essere datata alla fine del II secolo  o agli inizi del III secolo d.C., dato che nella seconda metà del III secolo d.C. non si ha alcuna citazione o testimonianza della “ XX hereditatum”.
I procuratores  XX hereditatium erano attivi sin dall’inizio della seconda metà del I secolo d.C.
Ma cos’era il titolo di “procuratores XX hereditatium” ?
Era un procuratore di rango equestre che si occupava della riscossione della tassa sull’eredità dei cittadini romani, gravante per 1/20  (5%) sul totale dei beni. Una riscossione fiscale che avveniva per conto dell’imperatore. La tassa fu introdotta da Augusto e all’inizio la riscossione avveniva  da parte di un libero e solo nel corso del I secolo d.C. fu affidata ad un cavaliere.
Svetonio riportò che Augusto, quando gli venivano lasciate parti di eredità, aveva l’abitudine di restituirle subito ai figli del defunto e nel caso di minorenni, quando avessero indossato la toga virile oppure nel giorno delle nozze, aggiungendo  spesso “qualcosa di suo”.
La carica riguardava la riscossione sull’eredità dei cittadini di tutto l’impero romano e quindi aveva la sua sede a Roma dove giungevano i contributi versati nelle singole province ed in Italia. Il “procuratores XX hereditatium” rendeva conto del suo operato solo all’imperatore e sotto la sua autorità aveva un “comitatus” di liberti e schiavi  che organizzavano l’ufficio dell’imposizione  indiretta (indiretta perché era indirizzata solo ai cittadini romani).
Le procuratele si dividevano in tre categorie di rango che erano collegate all’importanza della procuratela e quindi a valori crescenti dello stipendio percepito,  a cadenza annuale, dal titolare dell’ufficio.
I numeri romani indicano infatti il valore dello stipendio: LX (“sessagenario” = 60.000 sesterzi annui);  C (“centenario” = 100.000 sesterzi annui); CC (“ducenario” = 200.000 sesterzi annui)... nel nostro caso XX = 20.000 sesterzi annui). Lo stipendio fu introdotto da Augusto ma solo nell’età di Claudio si distinse in modo netto attraverso diversi parametri.
 
In base alle fonti sembra che questa carica abbia avuto inizio nel 58 d.C. (durante il regno di Nerone che era salito al potere il 13 ottobre 54). Secondo Tiberio il popolo in quel periodo si ribellò a causa dei soprusi dei “publicani” , spingendo Nerone ad abolire quasi tutti i “vectigalia.
Nerone si preoccupò anche di prendere dei provvedimenti per impedire agli appaltatori di abusare  delle leggi sulle tasse per vessare la popolazione.
Tacito affermò che

In quello stesso anno (58 d.C.) a causa delle frequenti lagnanze del
popolo che accisava la cupidigia dei publicani, Nerone fu incerto se
non fosse il caso di disporre l’abolizione di  tutti i tributi,
“cuncta vectigalia”, e di offrire un dono così gradito al genere umano.
Non di meno i senatori, non senza aver prima innalzato grandi lodi alla sua
generosa liberalità, frenarono il suo entusiasmo, ammonendolo che
l’impero sarebbe andato in rovina, se si fossero diminuiti i proventi sui quali
si reggeva lo stato... se sarebbe venuta come conseguenza la richiesta di
abolizione delle imposte dirette. Si doveva senz’altro frenare la
rapacità dei pubblicani perché tributi sopportati per tanti anni,
senza che suscitassero proteste, non diventassero odiosi a causa
di nuove vessazioni. Persuaso da tali argomenti, il principe prescrisse
che le norme per l’esazione di ciascuna tassa, segrete fino a quel momento,
fossero affisse all’albo e che le riscossioni trascurate, fossero
richieste non oltre il termine di un anno; che in Roma il pretore,
nelle province i proprietari o consoli istruissero i processi
contro i pubblicani, senza riguardo all’ordine di precedenza....”.

Il “publicano” era quindi chi prendeva in appalto le imposte, pagando allo stato una certa somma per il prodotto di una tassa che esigeva poi per mezzo dei suo uomini e per proprio conto. Erano quindi degli esattori del “publicum” che era sinonimo di “vectigal” ossia delle imposte. A Roma formavano una classe sociale molto potente e ricca e appartenevano in genere all’ordine equestre dato che non era decoroso l’ufficio per gli esponenti dell’ordine senatorio. Ricevevano dai consoli l’appalto delle imposte dirette per conto dello stato. Imposte sui terreni, sui pascoli (esatta dai  publicani pecnarii), sulla terra arata (esatta dai publicani aratores), la decima sul grano e cereali (publicani decumani) e diritti di dogana (vectigalia). Il publicano, che rilevava direttamente le imposte, per trarre profitto dal suo contratto stipulato con lo stato aveva il bisogno di non lasciare perdere nulla di ciò che gli era dovuto e questo aspetto lo rendeva decisamente antipopolare. Riuscivano ad accumulare ingenti ricchezze tanto da renderli personaggi di grande credito ed anche influente nella vita politica e sociale. La sua reputazione era quasi sempre ricca di avidità e di mancanza di scrupoli sia verso i subalterni che verso i contribuenti. Riuscirono spesso a creare delle corporazioni ed in alcuni casi anche delle società per azioni formando una potente aristocrazia del denaro.
Risale proprio al 58 d.C. la nomina di un procuratore di none T. Claudius Aug. Lib.  Saturninus proc. XX her. Provinciae Achaiae” mentre per la Campania uno dei primi procuratori  fu “procuratores XX her. Regionis Campania, Apuliae, Calabriae, L. Faesellius  Sabinianus” che operò nel periodo di governo di Antonio Pio (138 – 161  d.C.).
Severinio fu quindi uno dei primi procuratori della Campania.
 
L’invocazione  agli Dei Mani (“DIS  MANIBUS”) nel I secolo a.C,  e fino alla prima metà del I secolo d.C. era scritta per intero mentre a partire dalla seconda metà del I secolo d.C.  la dedica  si trova con la sigla D. M come nell’ara di Severinio.
L’ara quindi sarebbe collegabile  tra la prima metà del I secolo d.C. e fino al IV secolo.
Fino alla prima metà del I secolo a.C., l’alfabeto latino era costituito da 21 lettere.
Cicerone in “De natura deorum”…

Se si mettessero insieme in questo luogo un numero infinito di modelli delle 21 lettere
(A, B, C, D, E, F, G, H, I, K, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, V, X) d’oro
o di qualunque altro materiale e si gettassero a terra, sarebbe possibile
produrre gli Annali di Ennio, in modo leggibile (la Storia di Roma
dalle origini al 171 a.C.)

Questa seriazione rimase in vigore per molto tempo come dimostrarono anche i graffiti sui muri di Pompei. Fu Quintiliano (35 – 96 d.C.) che aggiunse alle parole di Cicerone come
                                                          La X è la nostra ultima lettera.
Grazie ai rapporti commerciali con la Grecia furono introdotte due nuove lettere: la Y  e la Z e nel 47/48 d.C. l’imperatore Claudio (41-54 d.C.) in qualità di censore introdusse nell’alfabeto latino tre nuove lettere che furono dette “lettere Claudiane”..
Tacito...
Introdusse (Claudio), poi, nell’alfabeto nuove lettere e cercò di
Diffonderle dicendo di aver saputo che neppure l’alfabeto greco era stato
Condotto a perfezione nel momento stesso in cui era stato creato.

Le tre lettere erano: un diagramma inverso, simile ad una lettere F capovolta e retroversa che indicava la V semivocalica, come nelle parole “vulvus, vivus”; un segno simile ad H priva della seconda asta, per indicare l’oscillazione di suono tra “i” ed “u” come in “optimus/optumus... maxumus/maximus” e che nelle iscrizioni sostituì la “y”;  un segno detto “antisgma” simile ad una C retroversa o ad una lettera S maiuscola dell’alfabeto greco detta “sigma lunato” per esprimere i suoni “bs” e “ps”.
L’uso di queste lettere, solo le prime due lettere erano presenti nelle epigrafi, non andò oltre la morte di Claudio avvenuta nel 54 d.C.
Nella epigrafe dell’ara di Limatola  è  presente la “y” che fu ripristinata dopo la morte di Claudio.
Non si conosce con certezza l’identità di Lucius  Sergius Paulus che potrebbe essere quel  Sergius Paulus proconsole romano a Cipro che, come risulta dagli Atti degli Apostoli, fu convertito da S. Paolo  nel 45 d.C.
Una tesi di grande importanza storica, non solo per datazione storica che sposterebbe di qualche secolo la collocazione del reperto alla seconda metà del I secolo d.C. ma anche per gli avvenimenti storici.
La prima nomina a procuratore avvenne, come abbiamo visto, nel 58 d.C. ed era T. Claudius Aug. Lib. Saturninus nella provincia di Acacia. Era un libertus di Nerone e la sua attività si svolse dopo Claudio.
La riscossione delle entrate statali nel territorio italico iniziò sulla base delle undici regioni istituite da Augusto. Di conseguenza la nomina di Severinio a procuratore per la Campania è compatibile con la seconda metà del I secolo d.C. anche perchè la sola Campania, data anche la sua elevata densità abitativa, formò una circoscrizione esattoriale a sé, cosa che non avvenne per alcuna altra regione d’Italia.
Il procuratore Lucius Sergius Paulus fu uno tra i primi cittadini romani convertiti da San Paolo in quanto la conversione avvenne nel 45 d.C. a circa cinque anni dall’inizio dell’attività missionaria dell’apostolo che partì nel 40 d.C.
Nell’autunno del 37 d.C. sulla via di Damasco, era avvenuta la repentina conversione di S. Paolo:

Io sono stato afferrato da Cristo Gesù,

 così il Santo, con un’espressione lapidaria ed efficace, narrò quel momento.
In quello stesso anno incontrò a Gerusalemme Pietro, che predicava Gesù da circa sette anni.

Dopo due settimane stimolanti trascorse con lui, Paolo lasciò Gerusalemme, tutto preso dal fervore.
Il Gesù al quale aveva consacrato la propria vita,  adesso era infinitamente più reale.
Paolo scomparve per circa tre anni. Fece una campagna missionaria in Siria e Cilicia ? No, perché non lasciò ne tracce e nemmeno testimonianze.
Riapparve intorno al 40 d.C. quando Barnaba lo reclutò per lavorare ad Antiochia sull’Oronte.
Dopo aver sistemato la comunità di Anmtiochia, Barnaba andò a Tarso per reclutare Paolo.
Barnaba di Cipro era un ellenista giudeo che si era convertito al Cristianesimo. Fu lui che fece da intermediario per il primo incontro tra San Paolo e gli Apostoli a Gerusalemme. Dopo il primo viaggio fatto insieme, Barnaba lasciò Paolo e continuò il suo viaggio apostolico. Visitò una seconda volta Cipro, dove morì , dopo molto tempo, lapidato.
La presenza di San  Paolo ad Antiochia era importante tra i credenti. Una città colpita da guerre  ed avere nella comunità una figura come Sam Paolo, era un incoraggiamento tra i credenti per verificare la forza della grazia promessa nel Vangelo. Antiochia diventò la base di San Paolo per la sua missione nel decennio successivo.
I viaggi apostolici di Paolo presero l’avvio proprio da Antiochia, la splendida città dalle cupole d’oro dove per la prima vota ai credenti venne dato l’appellativo di cristiani. I dottori, i profeti della Chiesa inviarono Barnaba e Paolo in missione a Cipro.
Con la collaborazione di Marco, i due evangelizzarono Salamina. A Salamina annunziavano la parola di Dio nelle Sinagoghe dei Giudei ed avevano Giovanni come aiutante. Attraversata tutta l’isola, raggiunsero Pafo, dove trovarono un mago e falso profeta giudeo, di nome Bar-Jesus che era al seguito del proconsole Sergio Paolo. Il proconsole fece chiamare a sé  Barnaba e Paolo (a quanto sembra era anche chiamato Saulo) perché desiderava ascoltare la parola di Dio.
Ma il mago Bar-Jesus (Elimas) fece una forte opposizione cercando di distogliere il proconsole dall’ascolto della voce della Fede.
Allora Paolo adirato, volse gli occhi verso il falso profeta e lo fissò dicendogli:
O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo,
nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore ?
ecco la mano del Signore è sopra di te, sarai cieco e per un certo tempo non
vedrai il solo”.
Improvvisamente l’uomo diventò cieco e chiese aiuto per essere guidato nel suo cammino.
Il  proconsole romano vedendo il miracolo credette di colpo alla dottrina del Signore e fu quindi molto affascinato dal “Kerigma” (cioè il  primo annunzio del Vangelo di Paolo) a tal punto da convertirsi.
Paolo aveva una grande conoscenza della lingua latina e a Pafo il paganesimo era contraddistinto dalla presenza di numerosi templi tra cui quello famosissimo dedicato a Venere (Afrotide) di cui parlarono molto storici:
Tacito: ..”Il tempio di Venere Pafio celebre sia presso gli abitanti del luogo che tra i forestieri”
Omero....”Andò a Cipro Afrotide che ama il sorriso/  a Pafo. Dove ella ha un tempio e un altare odoroso”
Virgilio “E poi venere volò altissima a Pafo e lieta rivide /la reggia sua; là il tempio e cent’are per lei ? fumano incenso sabeo odorano fresche ghirlande”.
Sergius Paulus e Severinius, procuratore della Cilicia, certamente s’incontrarono, perché dall’isola di Cipro si poteva facilmente raggiungere la Cilicia attraverso un tratto di mare di circa 80 km.
Nel 58 a.C. Cipro fu annessa a Roma e fu aggiunta alla provincia di Cilicia e tale rimase fino a quando con Augusto fu ceduta al Senato.
Con questa cessione diventò una provincia senatoria minore e tale rimase fino alle riforme di Diocleziano (284 – 305). 
Diocleziano modificò l’ordinamento provinciale creando numerose nuove provincie. Nelle province di frontiera separò il potere militare, affidato ai “duces” da quello civile che venne affidato ai “praesides” equestri che avevano poteri giudiziari, finanziari ed esecutivi. L’obiettivo di questa riforma era quello di impedire il crearsi di grandi unità amministrative e militari che nel passato avevano favorito il nascere di usurpazioni di potere. Raggruppò le province in dodici unità, “diocesi”, ciascuna diretta da un “Vicarius” equestre che era un vice dei prefetti del pretorio. La riforma era anche fiscale perché prevedeva due tipi d’imposta: la “capitatio” basata sulla capacità produttiva degli individui e la “iugatio”, un imposta fondiaria calcolata su di una determinata estensione di terreno ("iugum”).




Limatola – Fontana MARGHERITA DE TUCZIACO
Alla Duchessa Margherita de Tucziaco è dedicata la fontana posta lungo la via San Pietro che conduce dal borgo al centro di Limatola.
Era cugina del sovrano Carlo d’Angiò ed aveva cinque fratelli che furono chiamati, dallo stesso sovrano, a ricoprire cariche importanti nel Regno.
Margherita era una sua prediletta e per ricompensarla della sua fedeltà e benevolenza, gli concesse come dote il castello di Limatola. Castello che la stessa Margherita fece restaurare nel 1277 e, sapendo come il cugino fosse meticoloso, scelse i migliori scalpellini di Napoli  per operare i restauri. Scalpellini che, in caso di errori o di lavori mal eseguiti, erano soggetti a pensanti punizioni.





La fontana è legata all’iniziativa presentata dall’Associazione Culturale “Tiemo bel’ e ‘na ‘vot”  (“tempi belli di una volta”)   che presentò la candidatura di uno specifico elemento culturale della tradizione limatolese alla Regione Campania per essere inserito nell’Inventario del Patrimonio Culturale Immateriale.  L’elemento culturale è rappresentato dalla tradizione delle lavandaie, una espressione che è molto sentita dalla comunità limatolese.Era l’antica pratica di lavaggio degli indumenti presso la fontane di Limatola per quanto riguarda l’antica fontana Margherita de Tuczano e presso quella di Biancano. La pratica di andare a lavare i panni nelle fontane del paese era un motivo di socializzazione per le donne del paese. Un modo per sentirsi parte della comunità ed un motivo di lavoro, di scambio, di dialogo ed anche di divertimento. In questi momenti le donne s’accompagnavano nel lavoro con i loro canti popolari come quello della “culata”. Una tradizione che è ancora presente a Limatola soprattutto nei mesi estivi dato che le donne anziane continuano ad avere ossequio per l’antica tradizione andando a lavare i panni alla fontana. Questo approccio favorisce l’inserimento dei giovani che sarebbero quindi testimoni responsabili di una trasmissione del carattere alla generazione futura.

Video

https://www.ntr24.tv/wp-content/uploads/2019/08/Limatola_investe_in_storia_e_tra_la_fontana_De_Tucziaco_web.mp4

Il Borgo di Limatola

Il bellissimo video dell’Assessore alla Cultura, Massimiliano Marotta

https://www.facebook.com/watch/?v=3311781075504391

Giardino Segreto di Lina Senese
Un luogo magico… meraviglioso…Un luogo unico nella sua bellezza… Un posto che non è noto a tutti ma che quando viene scoperto e vissuto lascia senza parole (Massimiliano Marotta)

https://m.facebook.com/watch/?v=302003314186107&_rdr

Limatola…. I Mercatini di  Natale al Castello




Varcato l’ingresso del castello s’entra in un ambiente da favola con un percorso di casette che espongono prodotti artigianali e gastronomici. È uno degli avvenimenti più importanti d’Europa. Ogni anno gli organizzatori dei Mercatini di Natale scelgono un tema diverso con cui addobbare il castello e le bancarelle o casette. Nel 2019 fu scelto come tema, dell’importante e suggestiva manifestazione, “l’Artigianato Italiano in Europa”. Un’affascinante viaggio attraverso i più importanti e famosi mercatini di Natale Europei.

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8. Limatola  - Briancano

Santuario  di  Sant’Eligio


Dal centro di  Limatola, attraverso la Via San Biagio e la Sp 119, si raggiunge la frazione Briancano . Prima di lasciare Limatola, sulla destra si prende una stradella per raggiungere il fiume Volturno in Contrada Scarfa. Qui c’era un antico attraversamento del fiume con la chiatta.



Dalle immagini sulla sponda opposta del fiume Volturno si notano tre laghi nati per lo straripamento del fiume. Lungo il territorio  di Limatola s’incontrano diversi laghi che costeggiano sempre il fiume di cui uno è indicato con il nome di “Lago Nocelle” (posto rispetto agli altri sulla sponda sinistra del fiume). Sembra che abbia addirittura un profondità di circa 25 metri ed ha occupato un’antica cava.



Lago Nocelle

La vita dei laghi dipende in buona parte da quella dei fiumi che in essi si immettono. Se un fiume è inquinato, risentirà di quello steso inquinamento anche il lago di cui il fiume è affluente. Ma non solo. Se un ad un lago vengono a mancare gli apporti di acqua da parte dei fiumi, quel lago è destinato alla scomparsa. È il caso del lago Aral (Asia centrale), un tempo il quarto lago del mondo, oggi ridotto a circa il 40% delle sue dimensioni originarie in seguito al dirottamento per scopi irrigui dei due suoi principali affluenti. Anche i laghi di dimensioni minori rivestono una notevole importanza in campo ecologico. Le superfici di acqua dolce (piccoli laghi e stagni) costituiscono delle vere e proprie oasi per la fauna selvatica, rappresentando siti ottimali per la sosta degli uccelli di passo, riserve di acqua per la fauna stanziale e habitat ideali per anfibi, pesci ed uccelli acquatici.  Spesso si tendono a considerare i fiumi come sistemi statici, in cui gli equilibri raggiunti sembrano immutabili. In realtà i fiumi sono sistemi estremamente dinamici, in cui sia la struttura morfologica che la composizione naturale subiscono evoluzioni lente ma costanti. Pensando al fiume è bene non fare riferimento soltanto al letto in cui scorre il flusso di acqua, ma a tutta quella parte di territorio circostante che vive proprio in relazione al fiume. In un contesto naturale, in cui le interazioni umane sono limitate, la struttura del fiume è fatta in modo tale da interagire con gli ambienti circostanti. La conformazione degli argini, le caratteristiche delle zone di esondazione (cioè quelle aree in cui, in casi di piena, il fiume straripa e sommerge con le sue acque), la stessa vegetazione ripariale (cioè quella che cresce sulle rive) sono fatte in maniera tale da vivere in sintonia con il fiume e dal trarne i maggiori benefici in termini ecologici. Anche un esondazione, spesso tragica se arriva a coinvolgere costruzioni umane, in natura può essere benefica.
Solo per fare un esempio, lungo il corso dei fiumi si possono sviluppare delle aree umide ai fianchi dell'alveo, in zone in cui giungono solamente le piene con meandri morti. Queste zone rappresentano una garanzia di stabilità e purezza delle acque in quanto la vegetazione ripariale consolida i versanti e il letto del fiume e la presenza di una consistente copertura vegetale contribuisce alla purezza delle acque del fiume attraverso i fenomeni di fitodepurazione naturale.
I sempre più frequenti episodi di alluvioni ed allagamenti hanno spinto le amministrazioni verso interventi di gestione del fiume, al fine di limitare l'erosione degli alvei e le esondazioni. Tra gli interventi di difesa delle sponde, uno dei più comuni è quello di incanalare il percorso del fiume con blocchi di cemento (primate), trasformando gli argini in terrapieni di terra e ghiaia sopraelevati sul piano di campagna e distanti anche centinaia di metri dagli alvei di morbida del fiume. In questa maniera il fiume viene letteralmente snaturato, la vita degli argini, potenzialmente ricca e vivace, sostituita da pochi arbusti e dalle ancor meno specie in grado di adattarsi a questo nuovo habitat. La perdita della vegetazione originaria, inoltre, limita la capacità autodepurativa del fiume e aumenta i fenomeni di erosione. Sono impedite le canalizzazioni secondarie e grandi portate sono fatte passare in alvei strettissimi; la nuova struttura degli argini perde completamente la sua capacità naturale di limitare l'espansione delle acque di piena.

La storia di Biancano è arricchita da testimonianze archeologiche come la presenza di fattorie romane, e dalla tradizione che citò un accampamento di soldati cartaginesi guidati da Annibale in  marcia per soccorrere i campani contro i Romani. Questo accampamento sarebbe stato individuato a Sud-Ovest del santuario di  Sant’Eligio, in un area pianeggiante circondata da un piccolo ruscello proveniente dai Monti Tifanini.
Le chiese più antiche di Biancano (Ss. Cosma, Damiano e Pancrazio e S. Angelo), citate nella bolla di Senne (1113), scomparvero rispettivamente dopo il 1310 e dopo il 1640. Nel corso del XIV secolo esistette una chiesa intitolata a Santa Maria de Fossato.
La  fondazione del Santuario sarebbe da collocare alla fine del Trecento, quando le truppe francesi, acquartierate a Caserta e a Maddaloni, si rifugiarono a Biancano per sfuggire alla fame e alla peste. Qui fraternizzarono con la popolazione locale e  comunicarono la devozione al santo, vissuto nel VII secolo. I biancanesi vollero testimoniare la loro reverenza innalzando nel 1388 un piccolo tempio a navata unica sovrastata da una cupola.
Sulla navata si aprono alcune finestre. Tra la navata e il presbiterio vi è un arco sorretto da pilastri, su uno dei quali è un affresco di ignoto autore raffigurante San Benedetto. Sul fondo dell’abside è un trittico che reca da destra a sinistra San Francesco, Sant’Eligio e Santa Caterina  (della Scuola di Giotto ?). All’esterno, a destra della chiesa si eleva il campanile in muratura di tufo.

Lungo la Via Selciato, che circoscrive la collina, si trovano gli altarini della Via Crucis.
Nel vedere le immagini ci su rende conto di come la zona fu colpita anni fa da un devastante incendio.







Il Santuario prima della ristrutturazione

La chiesa nuova di S. Eligio fu eretta tra il 1941 e il 1943 da mons. Salvatore Carrese (parroco di Biancano dal 1941 al 1952).



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La Fontana di Biancano




Antiche superstizioni locali, fino alla metà del Novecento,  erano legate all’antica fontana di Biancano. La superstizione era legata all’apparizione della “Pantasima”, spirito demoniaco col capo di donna e i piedi di capra. Ancora più a lungo è sopravvissuta la credenza secondo la quale i defunti si riunirebbero di notte nelle chiese del paese ad ascoltare la messa.

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9. Limatola  - Giardoni di  Limatola


Frazione di Limatola presenta circa un centinaio di abitanti. Importante è la chiesa rurale di Sant’Antonio nota anche come Chiesa delle Monache perché sita in Via delle Monache.
Oggi appare alquanto trascurata, ma non per questo ha perso la sua bellezza artistica e il suo valore. Sorge in aperta campagna; molti anni fa era una chiesa rurale alquanto isolata ma costituiva un luogo di culto molto significativo per tutti i contadini della zona. Con il passare degli anni, fu sostituita dalla nuova Chiesa di San Tommaso (di recente costruzione) e man mano la sua frequentazione scese sempre più. Oggi, necessita di alcuni lavori di ristrutturazione e di restauro affinché non si deteriori ulteriormente e, soprattutto, affinché possa essere restituita alla cittadinanza quale luogo di culto, ma anche di incontro per iniziative di promozione culturale, di tipo ricreativo, artistico. Questo luogo, per anni dimenticato, è oggi ampiamente attenzionato dall’Associazione Culturale “Team Art” di Limatola (BN).









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10. Giardoni  - Pozzovetere



Le origini di Pozzovetere non sono ben note. Le fonti citano un centro abitato nel 438 d.C. in merito ad una fonte posta sulle alture di Caserta vecchia. Una fonte sul Monte Giove le cui acque furono incanalate attraverso Casola per raggiungere San Pietro ad Montes.
Il nome del centro deriverebbe dal latino “puteus-vetere” cioè “pozzo” o “fosso” o, ancora “depressione” dove si raccoglieva l’acqua. Probabilmente nel luogo esisteva quindi un pozzo necessario per le risorse idriche della comunità purtroppo, anche per la mancanza di scavi archeologici, non si è fatta particolarmente luce su questo aspetto anche se in realtà sono state fatte delle ricerche con la scoperta di importanti opere di canalizzazione. La zona essendo ricca di sorgenti presenta una serie di pozzi. Essendo vicino al centro di Caserta antica, ne seguì le vicende storiche ed economiche.
Nel 1479 fu feudo di Francesco Della Ratta, conte di Caserta ed un documento di quell’epoca riportava la restituzione al’ vescovo di Caserta, Giovanni De Leonibus, dei casali di Puccianello e di Pozzovetere.
Nel 1638  il consigliere del conte, Capocellatra, effettuò una ricognizione del territorio, e delimitò i confini di Pozzovetere, che in linea di massima corrispondevano a quelli attuali.

Chiesa di San Giovanni Battista

Della chiesa di Pozzovetere si hanno già notizie certe nell'anno 1113, come riportato dalla bolla di
Sennete, con la quale venivano confermate l'esistenza e la sussistenza della chiesa. La 
parrocchia,attraversò vicende alterne. Nel 1479 Il piccolo centro presenta  delle costruzioni 
plurisecolari:
-          La Congrega, nata con un decreto regio di Ferdinando I di Borbone del 1776;
-          Palazzo Veccia. Sul portale d’ingresso è riportata la data del 1788. L’edificio presenta la tipologia della corte romana con la funzione del portone-ancrone-cortile-orto o giardino – campagna.
 Un interessante ricerca fu fatta dal gruppo Speleologico campano in merito ad una serie di 
canalizzazioni che furono realizzate tra il 1750 ed il 1755, quindi da Ferdinando I Borbone, per  
fornire  l’acqua necessaria per  la costruzione della Reggia di Caserta ed anche per altri usi. Si  
tratta dell’acquedotto storicamente conosciuto come “Giove-Fontanelle” e che includeva anche il 
ramo detto di “S. Elmo”. Le indagini del gruppo speleologico riquadrano un tratto dell’acquedotto 
compreso tra Casola e Pozzovetere per uno sviluppo di circa 4 km e con una posizione altimetrica 
compresa tra i 300 ed i 400 m s.l.m. Le sorgenti che alimentavano l’acquedotto erano quelle di 
Giove, Fontanelle, Le Creste e altre sorgenti minori.
In merito all’indagine c’è da dire che l’acquedotto passa in zone dalla diversa tipologia agricola 
variando dal bosco al terreno ad uso agricolo e questo ha determinato una difficolta 
nell’individuare i punti d’accesso all’ acquedotto.
Lo sviluppo dell’acquedotto risultava spesso difficoltoso a causa di frane che nel corso dei secoli si 
sono verificate lungo il suo percorso.
Il territorio compreso tra le dorsali di Casertavecchia ad ovest e di Durazzano ad Est, con le Valli di 
Maddaloni e l’area pedemontana in cui sorgono Maddaloni e Caserta, sin dall’antichità  fu oggetto 
di studio e di ricerca di risorse idriche. 


Prima della realizzazione dell’Acquedotto Carolino, in epoca borbonica e progettato dall’architetto
Lugi Vanvitelli, c’erano presenti nel territorio
-          l’Aqua Giulia, di epoca romana e quelli più recenti che costituivano una rete idrica minore;
-          l’acqua antica, un acquedotto risalente agli inizi del XVII secolo,
-          l’ “acqua piccola”, costituita dall’acqua di S. Elmo e dall’acquedotto Giove – Fontanelle , che
nella parte intermedia inglobava  una parte dell’acquedotto di S. Elmo.
Questi acquedotti, sebbene di portata limitata, fornivano le risorse idriche necessarie per la 
costruzione della Reggia prima dell’ultimazione dell’acquedotto Carolino.
L’Acquedotto Carolino compie un percorso di oltre 40 km partendo dalle sorgenti del Fizzo, alle 
falde del monte Taburno e riforniva la Reggia,  i Giardini Inglesi con le relative fontane e i loro 
giochi d’acqua ed anche Caserta e Napoli.
Successivamente  l’acquedotto, con una diramazione giunse anche nel Real Sito di S. Leucio per 
fare muovere le ruote degli opifici.



Santuario sul Monte Taburno



GLI  ANTICHI  ACQUEDOTTI

La descrizione degli acquedotti borbonici, con le relative immagini fotografiche, è stata tratta da
due importanti pubblicazioni…
Primi risultati esplorativi sull'acquedotto Giove-Fontanelle e S. Elmo tra le
frazioni di Pozzovetere e Casola, Caserta.
Autori:
Sossio Del Prete – Società Speleologia Italiana
Massimilla Alfredo
Cozzolino Luca
Luca Fanna – Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti


L'acquedotto Giove-Fontanelle (Caserta - Campania)

Autori:
Sossio Del Prete – Società Speleologia Italiana
Massimilla Alfredo
Cozzolino Luca
Luca Fanna – Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti




http://www.speleo.it/site/index.php

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Il re Carlo III di Borbone acquistò da Michelangelo Caetani di Sermoneta lo “Stato di Caserta” con
 l’obiettivo di edificarvi una nuova reggia con parco per fare di Caserta la futura capitale del Regno.
Lo spostamento della capitale nell’entroterra aveva delle motivazioni  di sicurezza. Si volevano
 scongiurare le minacce provenienti dal mare come quella dell’agosto 1742 quando la flotta
 britannica bloccò il porto di Napoli. Gli inglesi volevano ottenere la neutralità del governo
 borbonico nella guerra di successione austriaca.
La scelta di Caserta non fu casuale. Era vicina a Napoli, ai territori di caccia ed l’indebitamento del
 principe Caetani permise al re di concludere un affare decisamente vantaggioso.
Il sovrano cercò di assumere per le progettazioni l’architetto Nicola Salvi che però era gravemente
 ammalto. Alla fine la scelta cadde sull’architetto Luigi Vanvitelli che presentò i disegni del
 progetto al sovrano il 22 maggio 1751.
Durante l’incontro la regina Maria Amalia chiese all’architetto di estendere il progetto all’intera
 città di Caserta  
“perché chi vi avrà da fabricare vi fabrichi con buona direzzione, né più alto né più basso, ma tutto con ordine” (Lett. del 22 maggio 1751; Strazzullo, 1976),
Si posero quindi le basi per un “piano regolatore” e i disegni definitivi furono presentato il 22 novembre del 1751 in una mostra e successivamente pubblicati dalla Stamperia Reale per essere diffusi nelle corti europee come propaganda della grandezza politica e sociale del Regno di Napoli.
(Disegni originali della Carta di Dintorni di Napoli alla scala  1:20000 eseguiti nell’ufficio
 topografico dell’ex Regno di Napoli, 1836-1840, Foglio 18 N°9, Istituto Geografico Militare,
 Nuovo archivio, armadio 93 cartella 74, documento 8).
I lavori iniziarono con la cerimonia della posa della prima pietra celebrata il 20 gennaio 1752,
 giorno del genetliaco del re Carlo.
Una simile attività edilizia e la creazione del bellissimo parco Reale, con numerose fontane e giochi
 d’acqua, richiedevano un fabbisogno idrico non indifferente. In quei tempi esisteva un solo
 acquedotto che era stato costruito agli inizi del XVII secolo dal principi Acquaviva ed era noto
 come “l’acqua antica di Caserta”. Un acquedotto alimentato da una piccola sorgente posta nel
 vallone di Casolla in un luogo che era conosciuto nella tradizione locale come la “fontana di
 Caserta”.
Esso forniva l’acqua al palazzo del principe con annesso parco, oggi bosco vecchio, e ad una
 fontana, rappresentata nella veduta contenuta ne Il Regno di Napoli in prospettiva (Pacichelli,
 1703), al centro della piazza antistante il palazzo, sede del mercato e nucleo centrale del
Villaggio Torre, cuore dello Stato di Caserta.


Le maestranze borboniche sin dal settembre del 1750  furono impegnate al ripristino di tale 
condotta e nello scavo di un nuovo traforo alla ricerca di acqua sul monte di Casertavecchia, in
 località S. Elmo, nell’attuale frazione di Casola.
L’acqua antica, tuttavia, aveva una portata limitata ed era posta troppo in basso rispetto al Monte
Briano, da dove avrebbe dovuto originarsi la grande cascata.
L’acqua di S. Elmo, invece, seppur sita a quota sufficiente, non prometteva la quantità d’acqua
 necessaria e fu necessario ricercare altre sorgenti. Vanvitelli stesso, già durante l’elaborazione dei
 progetti definitivi, ebbe particolare cura nella ricerca, rinvenendo nei monti di Giove e Le   
 Creste, nell’attuale frazione di Pozzovetere, le due sorgenti omonime e le due di Fontanelle. Alcune
 di queste sorgenti erano note sin da tempi antichissimi e rinomate per la qualità delle loro acqu
 (Esperti, 1773). Eseguite le livellazioni topografiche i primi di giugno del 1751, assieme ai suoi
collaboratori Francesco Collecini e Marcello Fonton, Vanvitelli scrisse al fratello Urbano che
per la condottura di quest’acqua si dovrà spendere della polvere per far saltare sassi vivi, anzi selci, il che sarà un poco faticoso, ma tutto si fa massimamente quando un Monarca vuole 
(Lett. del 12 giugno 1751; Strazzullo, 1976), alludendo alla necessità di scavare dei trafori in roccia.

Per illustrare ai sovrani le sue idee Vanvitelli elaborò un disegno quotato in cui rappresentò il
 parco con le fontane e le sorgenti. Egli stesso lo descrisse in una sua lettera al fratello Urbano
 come
 “un disegno della grandezza degl’altri, in cui rappresentai la veduta del Paese e procurai
di farla con buon garbo. Indicai tre linee di colore rosso, le quali segnavano li piani delle
 sorgenti che fluiscono, una detta di Giove, alta palmi 39 dal condotto antico, l’altra detta di
 Fontanelle alta palmi 138, e contrassegnai con i numeri tutte le dimensioni principali, oltre le
 scale delle quali col compasso si può prendere la medesima misura
 (Lett. del 19 giugno 1751; Strazzullo, 1976).
Il disegno fu presentato nella reggia di Portici il 16 giugno 1751 e ottenne ampi consensi;
 l’architetto raccontò come i sovrani 
vollero ritenere il disegno senza rendermelo
(Lett. del 19 giugno 1751; Strazzullo, 1976).
Da un’altra sua lettera al fratello Urbano si apprende che già a luglio del 1751 nello scavo
del traforo in località S. Elmo venne trovata l’acqua per cui
quelle terre, che non avevano mai veduta fluire l’acqua, ne esultano di allegrezza, anzi oggi 10 del mese, che è il giorno del Nome della Regina, a Caserta fanno fuochi di allegria per detto ritrovamento
(Lett.del 10 Luglio 1751; Strazzullo, 1976)

Queste acque furono condotte nei pressi del cantiere con un acquedotto, detto poi acqua di S. Elmo, 
costituito da un canale fuori terra costruito nei due anni successivi e confluente in quello dell’acqua
 antica. Le sorgenti collinari rinvenute, tuttavia, non potevano garantire la portata d’acqua adeguata
 alle necessità del progetto del parco ma
stillicidi di vene capillari, sufficienti per riempire pozzi, ma non già scorrere rivi, come esigerebberole fonti del Giardino Reale
(Lett. del 12 giugno1751; Strazzullo, 1976).
Pertanto la ricerca di nuove sorgenti continuò incessantemente, spingendosi sempre più lontano, 
finché nel novembre del 1751 Vanvitelli effettuò alcuni sopralluoghi alle falde del Monte Taburno,
 nell’allora tenimento del duca di Airola, e nei territori limitrofi, dove ritrovò diverse sorgenti, le
stesse che un tempo alimentavano l’acquedotto romano de l’acqua Giulia.
Nei mesi successivi furono effettuati altri sopralluoghi ed eseguite le livellazioni topografiche
necessarie per valutare la fattibilità dell’opera, così che ad inizio maggio del 1752 Vanvitelli espose
ai sovrani l’idea di convogliare quell’acqua a Caserta attraverso un maestoso acquedotto:

questa conduttura d’acqua farà la felicità di quel luogo, non solo per li giardini ma per tutti li motivi
(Lett. del 2 maggio 1752, Strazzullo, 1976).
Ricevuta l’approvazione iniziò la progettazione di quello che sarebbe divenuto l’acquedotto
Carolino, presentandone un disegno preliminare a fine giugno.
L’acquedotto
nasce 15 miglia lontano onde almeno 24 dovrà girare per monti, averà da passare una valle vicino matalona nella quale vi sarà bisogno inalzare almeno 200 palmi di acquedotto, in piccolo tratto però
(Lett. del 2 maggio 1752, Strazzullo, 1976).
I lavori per l’acquedotto Carolino, iniziati nel maggio del 1753, vennero distinti da quelli di
 captazione e conduzione delle sorgenti collinari riferendosi ad essi rispettivamente come 
acqua grande” e “acqua piccola”.
I lavori per condurre le sorgenti collinari iniziarono nel gennaio del 1753 a partire dalle sorgenti di
 Fontanelle e furono eseguiti in parte da operai ed artigiani del posto, regolarmente retribuiti, e in
 parte dai forzati, cioè detenuti condannati al lavoro punitivo. Per lo scavo dei due trafori in roccia
 parteciparono anche alcune compagnie di minatori, giunte appositamente a Caserta.
I lavori durarono due anni e per impiegare temporaneamente queste acque
per averne abondanza nella estate alla fabrica del Palazzo
(Lett. del 8 febbraio 1752; Strazzullo, 1976)
Esse furono convogliate nel traforo di S. Elmo, rimandando temporaneamente la costruzione del
 ramo verso Monte Briano.
Quest’ultima idea fu dello stesso Re Carlo, come raccontato da Vanvitelli al fratello in una delle sue
 lettere. Tale iniziale proposito fu poi abbandonato poiché l’abbondanza delle acque di Airola era
 ampiamente in grado di soddisfare le necessità del Parco della Reggia ed il loro arrivo a Monte
 Briano fu celebrato con una cerimonia inaugurale nel maggio del 1768 raffigurata in un dipinto del
 pittore Antonio Joli. 
Verso la fine del 7 Inaugurazione della cascata del Parco della Reggia, Antonio Joli.Olio su tela, 88
 cm × 137 cm. Reggia di Caserta, sala delle pitture di Antonio Joli. Il quadro è spesso erroneamente
 descritto come raffigurante la celebrazione dell’arrivo delle acque del Carolino a Garzano,
 avvenuta il 7 maggio 1762.

XVIII secolo il Re Ferdinando IV di Borbone, figlio ed erede di Carlo, decise di realizzare
su Monte  Briano, in località Parito, una tenuta di caccia a forte vocazione agricola, nota come Real
 Sito di San Silvestro, idonea alla coltivazione di vigne ed olivi e all’allevamento di ovini per la
produzione di latticini e formaggi pregiati.
Il tenimento fu dotato di un casino, progettato dall’architetto Giovanni Patturelli e ultimato nel
 1801, destinato al ristoro del re e per le lavorazioni. Le attività produttive necessitavano di acqua
 corrente e poiché il sito non poteva essere servito dall’acquedotto Carolino, in quanto posto a quota
 inferiore, si decise di condurvi le acque delle sorgenti collinari di Pozzovetere, riprendendo l’idea
 originaria del Vanvitelli. Il nuovo tratto di acquedotto, progettato dallo stesso Patturellie finito di
 costruire nel 1797, alimentava una piccola cisterna ipogea posta in prossimità del casino e di
 una vasca raffigurata in un dipinto del 1818 dal pittore Antonio Veronese, attualmente esposto nella
 Quadreria della Reggia di Caserta.

 

Un eccezionale sviluppo di acquedotti  che sommariamente potrebbero essere indicati come

 1.      Acquedotto Giove – Fontanelle
Integrato dall’intervento del Patturelli e cioè nel tratto che va dal Real Casino di San Silvestro alle sorgenti. L’inizio dell’acquedotto è costituito da due rami: uno proveniente dalla sorgente di Giove e l’altro che raccoglie con due brevi diramazioni le acque provenienti dalle sorgenti di Fontanelle e Le Creste.
I due rami si congiungono in contrada Forano e, dopo aver attraversato i centri di Pozzovetere e Casola, confluiscono nel traforo di S. Elmo.

Traforo di Forano.
All’imbocco della discenderia si nota la “colata” di calcite formata dall’acqua
del ramo di condotta proveniente da Fontanelle.






Ingresso del Traforo di Sant’Elmo e una veduta dell’interno,
dall’andamento serpeggiante

Traforo di Sant’Elmo

Traforo di S. Elmo con canaletta

Questo acquedotto, prima di giungere a Pozzo Vetere, riceve un ramo secondario proveniente dal 
pozzo Viola, posto sulle pendici meridionali di Monte Virgo.
Il tratto detto “traforo di S. Elmo” finisce il suo percorso sotterraneo  nel sito noto come la “Grotta
 di S. Elmo”.  Dalla “Grotta di S. Elmo” l’acquedotto seguiva lungo il declivio per versante per
 giungere a Caserta Vecchia. Questo percorso fu sostituito da un nuovo tragitto per permettere alle
 acque di giungere al Real Casino di San Silvestro e questo grazie alla realizzazione di un tracciato
 che si sviluppa lungo tutta la dorsale collinare. Un lungo tracciato con la costruzione di un
 acquedotto a “pelo ibero” che fu   eseguito con celerità ed economia”. La messa in opera fu
 realizzata con canalette superficiali che naturalmente seguivano  l’orografia del territorio. In alcuni
 punti non fu possibile realizzare la canaletta e si superò il problema realizzando dei condotti ipogei
 realizzati con scavi in trincea ovvero in traforo.  Un lavoro complesso perchè prima fu necessario
 costruire dei pozzi verticali, detti “fossi”, fino a raggiungere la quota progettuale di scavo, e
 successivamente, raggiunta la quota, s’iniziava il lavoro di “sgrottamento” orizzontale. Questi
 pozzi avevano una duplice funzione perché consentivano l‘areazione e la via di smaltimento del
 materiale prodotto nel lavoro di escavazione.. Per accelerare l’esecuzione dell’opera fu necessario
 costruire una serie di pozzi verticali, sempre lungo il traforo,  lungo il percorso sono presenti anche
 due ponti-canale in muratura che permettevano di superare  due valloni.

Ponte – canale ad archi in muratura attraverso il Vallone del Campo

Naturalmente la presenza di condotti ipogeici e di canalette lungo il tracciato, 
non lo rende interamente percorribile e lungo gli stessi tratti ipogeici sono presenti delle frane, in
 particolare nelle aree urbanizzate, che lo rendono non interamente percorribile.
Altro problema che non rende percorribile il percorso è l’occlusione di pozzi e torrini. È anche vero
 che ‘acquedotto presenta in alcuni punti alcuni ingressi a raso dotati di discenderie he non sono
 però sicure. Le indagini che furono effettuate nel 2018 furono eseguite con l’uso di corde secondo
 la tecnica speleologica.

2. Acquedotto di Fontanelle – Le Creste

Questo ramo dell’acquedotto riceve le acque delle due sorgive omonime. Sorgenti che affiorano per
 limite di permeabilità dalle propaggini più orientali della successione carbonatica di Monte Virgo.
Un acquedotto che fu costruito con condotti ipogeici con scavo in trincea e il cui accesso fu
 consentito mediante dei torrini.
Attraverso pozzi quadrati in muratura di tufo grigio larghi 1 m × 1 m  con copertura, quando ancora
 conservata, a cupola e profondi non più di 3 m dal piano campagna, si accede ai condotti ipogei.
La captazione delle sorgive fu ottenuta grazie alla costruzione di appendici di adduzione cavate
 nella roccia calcarea da cui trasuda l’acqua.
Il condotto ipogeico presenta un rivestimento in muratura di tufo grigio e un soffitto a doppia falda.
 Condotto che non è facilmente esplorabile per le dimensioni di sezione dello stesso condotto che è
 inferiore al metro.
La presenza di accumuli fangosi, di blocchi scalzati dalle pareti, e sbarramenti dovuti a un fitto
 intrico di radici aeree calcificate rappresentano ulteriori ostacoli ad una ispezione completa. Il
 condotto che raccoglie le acque dalla sorgente de Le Creste è costituito da una canaletta a sezione
 sub-quadrata di lato pari a circa 20 cm che attualmente è quasi del tutto ostruita dalle concrezioni.
 Nel tratto di giunzione con la derivazione proveniente dalla sorgente de Le Creste l’esplorazione
 del ramo è ostacolata da crolli della volta.

Ruderi dei tombini d’ingresso al ramo secondario di Fontanelle
e del ramo di giunzione Fontanelle – Le Creste

3.Il Ramo di Giove

Il ramo di Giove raccoglie le acque della sorgente detta “Fontana di Giove”.
Una fontana dedicata a Giove, dio dei Saticulani, un antico popolo sannita che abitava quelle terre.
 In questo luogo, secondo la mitologia Giove s’incontrava con la dea Diana Tifatina.
La captazione delle acque  avviene grazie ad una piccola galleria scavata a ridosso della prete
 rocciosa ed accessibile da un pozzo.
A circa 25 m dal pozzo l’acquedotto è costituito da una canaletta in muratura calcarea a cielo aperto
 ed è dotata di una vasca. Vasca costruita con blocchi di calcare in cui furono inseriti le grappe di
 ferro che servivano ad ammorsare tra loro i blocchi ed è addossata alla canaletta, che si trova quindi
 alle sue spalle, dai cui attraverso un foro veniva alimentata.
Il tratto originario di collegamento con la fontana di Giove fu distrutto con la costruzione di una
 mulattiera e sostituito con un tubo in PE. La canaletta prosegue, ricoperta, verso il traforo di Giove
 posto a circa 60 m più a vale.
Il traforo di Giove è accessibile grazie ad un ingresso a raso (10) che è nascosto dalla folta
 vegetazione e chiuso con un grata metallica.


Ramo di Giove in traforo

 

Ingresso al Traforo di Giove

Attraverso un pozzo profondo circa 2 m , con pareti rivestite con tufo, si accede ad una breve
 galleria che presenta una copertura a volta costituita da conci di tufo ed una scalinata che è ormai
 erosa dal tempo e cosparsa di detriti che consente l’entrata nel traforo che si trova a circa 4 m al di
 sotto del sovrastante piano di campagna.
Il traforo è interamente percorribile e si sviluppa per ben 159 metri lungo. A circa 14 metri della
 discenderia, in presenza di una parte in muratura di calcare, s’incontra l’innesto della canaletta
 proveniente dalla Fontana di Giove.
Lo scavo presenta sezioni con copertura a volta, larghe 0,7-0,8 m ed alte circa 1,5 m e solo per un
 breve tratto verso la fine del condotto la sezione presenta un soffitto a doppia falda. La pareti dello
 scavo sono rivestite con blocchi di tufo grigio, ricoperti da una patina concrezionata, e presentano
 numerosi fori di drenaggio. Alla base della galleria si trova una canaletta con un cordolo laterale,
 rialzata rispetto al piano di calpestio.

Fori di drenaggio lungo le pareti del Traforo di Giove


Traforo di Giove
Rigonfiamento della parete della parete laterale del rivestimento.
Canaletta per il trasporto dell’acqua rialzata rispetto al piano di calpestio

 4        L’acquedotto Giove-Fontanelle (Caserta – Campania)

Il traforo è dotato di due pozzi pianta  circolare di 1,5 m di diametro,  profondi circa 14 metri dal
 piano di campagna e le cui pareti sono rivestite con blocchi di tufo grigio e con numerosi fori di
 drenaggio. Uno di questi pozzi è chiuso in superficie.
Il traforo di Giove è impostato lungo una linea tettonica che se da un lato può aver favorito lo scavo
 e aver rappresentato una linea di drenaggio preferenziale per le acque, dall’altro ha creato problemi
 strutturali evidenziati da vistosi rigonfiamenti della parete laterale del rivestimento. L’andamento
 planimetrico del tratto tra i due pozzi mostra una marcata ansa rispetto alla direzione principale;
 lungo questo tratto alcuni blocchi di tufo del rivestimento, scalzati dalla posizione originale,
 mostrano la presenza di argille

Una delle profonde incisioni a “V” presenti lungo le pareti del traforo di Piscignano

Nelle gallerie, incise nel tufo, si notano alcuni tipi di Croci con il Golgota;
un campanile con l’abbozzo di un giglio (?), ecc..

Date incise nel traforo di Piscignano


Un termine lapidario  nel bosco, in un tratto intermedio dell’acquedotto di
Giove. Sono presenti le incisioni “CGF”
ovvero: “ Condotto Giove Fontanelle”

Bisogna dare un giusto merito agli autori delle ricerche storiche ed al Gruppo Speleologico di
essere riusciti a riportare alla luce e valorizzare un interessane aspetto storico ed ambientale 
del periodo borbonico, a molti sconosciuto.
Sarebbe  importante permettere la fruizione turistica di questi antichi acquedotti almeno nei 
punti percorribili.  Per questa azione sarebbero necessari degli investimenti per la messa in 
sicurezza ma l’obiettivo finale sarebbe quello di un aggiungere un aspetto ambientale alla già 
variegata ed importante mappa turistica della zona. Spero solo che la Sovrintendenza 
s’occupi almeno della salvaguardia di questo immenso patrimonio culturale ed ambientale
preservandolo dalla distruzione umana che già, in diversi punti, ha colpito l’acquedotto.

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Altri file  su San Leucio

San Leucio - Viaggio nei territori delle Abbazie di Regio Patronato - Secondo Parte: Dall'Abbazia di San Pietro ad Montes alla Chiesa Campestre di S. Maria di Macerata


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