San Leucio - Viaggio nei territori delle Abbazie di Regio Patronato - Seconda Parte: Dall'Abbazia di San Pietro ad Montes alla Chiesa Campestre di S. Maria di Macerata



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San Leucio - Viaggio nei territori delle Abbazie di Regio Patronato - Secondo Parte: Dall'Abbazia di San Pietro ad Montes alla
Chiesa Campestre di S. Maria di Macerata


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Indice
11.      Abbazia di San Pietro ad Montes:
12.      Piedimonte di Casolla – Il Borgo Medievale Nascosto – La Famiglia Alois – (Video)
13.      Santuario Diocesano di Santa Lucia
 14.      Chiesa Campestre di Santa Maria di Macerata
       Altri File su  San Leucio
 
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11. Abbazia di

San Pietro ad  Montes



 
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Indice
11. Abbazia di San Pietro ad Montes - Garzan,  Chiesa di S. Pietro Apostolo;
12.  Piedimonte di Casolla -  - Il Borgo  Nascosto;
13.  Il Santuario Diocesano di San Lucia;
14.  La Chiesa Campestre di Santa Maria di Macerata

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11. Abbazia di

San Pietro ad  Montes

L’abbazia di San Pietro ad Montes era un’antica abbazia benedettina di Caserta. Sorge ai piedi del 
Monte Virgo nel territorio di Piedimonte di Casolla che è una frazione del Comune di Caserta 
lungo la strada che conduce a Caserta Vecchia, l’antica  Casa Hirta.
Una antica tradizione, che fu ripresa dal Pratilli e dal Giustiniani, riferì come l’abbazia sia sorta sui 
resti di un antico tempio dedicato a Giove Tifanino. Un tempio che sembrerebbe collocato sul 
Monte Tifata.
Resti di un tempio dedicato a Giove sarebbe stati trovati nel 1997 a qualche chilometro di distanza 
nel territorio del comune di Casagiove. È probabile che   molto materiale da costruzione, necessario 
per edificare il monastero, sia stato prelevato proprio da quest’antico tempio.

Sulla destra si nota Caserta Vecchia


Le prime notizie sull’abbazia risalirebbero al 1165 quando Roberto, Conte di Caserta,
concesse alcuni privilegi al complesso monastico. Le caratteristiche architettoniche dell’edificio lo 
collegherebbero all’abate Desiderio e quindi farebbero ritenere come risalenti alla seconda metà 
dell’XI secolo il nucleo principale dell’abbazia e cioè nello stesso periodo in cui fu costruita  la 
Cattedrale di San Michele Arcangelo in Casertavecchia.

Desiderio da Montecassino
Dauferio Epifani del Zotto, futuro papa Vittore III
Benevento, 1027 – Montecassino, 16 settembre 1087)
(Abbazia di Sant’Angelo in Formis (Caserta)
Figlio di Landolfo Del Zotto (Landolfo V), Duca di Benevento, all’età di
circa vent’anni fuggì da casa per rispondere alla sua vocazione monastica.
Fu rintracciato dalla famiglia che gli impose un ritorno a casa.
Desiderio ritentò una seconda volta la fuga l’anno seguente, riuscendo nel
suo intento. Con l’aiuto di Siconolfo, preposto al Monastero di Santa Sofia di
Benevento, riuscì a raggiungere Salerno, dove grazie all’aiuto del suo amico,
fu posto sotto la protezione di Guaimario IV, principe di Salerno e suo parente.
Dopo un periodo di permanenza nella Badia di Cava, fece ritorno a Benevento
prendendo i voti monacali nel monastero di Santa Sofia. Nel 1055 incontrò
papa Vittore II a cui chiese l’autorizzazione per entrare nel Convento di
Montecassino di cui diventò abate. La sua elezione a papa  avvenne
il 24 maggio 1086 e l’insediamento il 9 maggio 108. La fine del suo
pontificato  il 16 settembre 1087, data della sua morte.
Tra la sua nomina papale ed il suo insediamento passò circa un anno.
Desiderio infatti fu restio ad accettare la nomina papale e solo dopo un anno
accettò l’incarico a lui si deve la rinascita del Monastero di
Montecassino ed anche la costruzione numerose abbazie. Importante anche lo sviluppo
culturale del monastero con studi teologici, grammaticali e retorici.

Desiderio – Biblioteca Monastica

L'abbazia appartenne ai padri benedettini fino al 1435, anno della morte dell'abate Ruggiero, 
allorquando il complesso fu concesso "in commenda" a Tommaso Latro, esponente di una nobile 
famiglia casertana. Trascurato dai successivi abati risorse per breve tempo grazie all'abate 
commendatario Tommaso Ruffo, che nel 1730 la affidò ai padri della Congregazione della dottrina 
cristiana. Nel 1795 fu riconosciuta regio patronato e i suoi beni furono incorporati nella Reale 
amministrazione di san Leucio. Nel 1866 il convento fu soppresso e da allora la struttura è stata 
utilizzata per gli scopi più diversi. Nel 1895 l'edificio fu dichiarato monumento nazionale. Durante 
la seconda guerra mondiale il convento fu occupato dagli sfollati del fronte di Cassino che 
danneggiarono i locali e la chiesa. Dopo il conflitto la chiesa fu restaurata e il convento fu utilizzato 
dall'Ordine delle suore oblate del Sacro Cuore, che vi soggiornarono fino al 1990. Oggi il 
complesso monastico è utilizzato in comodato d'uso come struttura semiresidenziale da un Centro 
terapeutico per la lotta alla tossicodipendenza ed è visitabile solo dietro precisa richiesta e per
gruppi selezionati o in occasione di manifestazioni culturali.







La basilica, addossata alle pendici del monte, che ne ha condizionato la distribuzione planimetrica, 
si presenta con pianta rettangolare, senza transetto e con absidi cieche, un tempo affrescate, 
addossate alla roccia calcarea. Essa è a tre navate separate da dodici colonne di granito e porfido 
sormontate da capitelli ionici, corinzi e compositi che sostengono archi a tutto sesto. Sia le colonne 
che i capitelli sono di probabile provenienza dal tempio di epoca romana.
La facciata in tufo a doppio spiovente prospetta verso il fondovalle ed è racchiusa in un piccolo 
cortile interno, probabilmente eretto nel corso del settecento, che la nasconde alla vista. Essa è 
preceduta da una alta gradinata e da un portico del XIII secolo a cinque campate con volta a 
crociera impostato su pilastri di tufo e di cotto che definiscono tre archi a tutto sesto. Nella parte 
alta presenta un timpano e tre monofore a tutto sesto.


L’Abbazia attuale fu costruita, come abbiamo visto, probabilmente dall’abate Desiderio mentre la 
fondazione fu legata ad una comunità conventuale probabilmente antecedente di diversi secoli.
L’edificio risponde anche alle precise direttive architettoniche che lo stesso Desiderio stabilì  per la 
costruzione  degli edifici di culto che dovevano avere tre navate con archi a tutto sesto sostenuti da 
colonne. Dovevano anche avere due absidi laterali ed una centrale più grande, un portico ad arcate 
sorrette sempre da colonne. Un modello che infatti fu utilizzato anche per la costruzione del 
Duomo di Caserta Vecchia e per la bellissima Abbazia di Sant’Angelo in Formis così come per
altre chiese.

Duomo di San Michele – Caserta Vecchia

Interno del Duomo di San Michele – Caserta Vecchia

Abbazia di Sant’Angelo in Formis


Abbazia di Sant’Angelo in Formis
 La chiesa di San Pietro ad Montes è citata per la prima volta nella Bolla di Senne.
La chiesa presenta un portico, composto da cinque campate con volta a crociera e tre archi 
tutto sesto, che anticipano lo sviluppo delle navate. Le mura del portico presentano affreschi
in debole stato di conservazione. 



Il portale presenta una cornice in pietra viva con alle estremità due sculture zoomorfe ed al centro 
una lunetta affrescata con la Madonna al centro, San Pietro e San Benedetto. Le scultura zoomorfe 
rappresentano entrambe dei leoni posti a guardia della chiesa. Sull’architrave si legge:
Claviger aethereus sub cuius honore dicatur – protegat intrantes custodiat tueatur”.

Ingresso della Chiesa




Lo spazio interno della chiesa è composto da una navata centrale principale, larga metri 10 e lunga 
metri 14,20, e da due navate laterali, ciascuna larga metri 5 e lunga metri 12. Due serie di sei 
colonne per lato servono a suddividere le tre navate. Le dodici colonne sono diverse sia per misura 
che per tipologia di capitelli. Infatti, entrando abbiamo le prime due file che hanno capitelli ionici, 
la terza è con capitelli compositi, mentre troviamo capitelli corinzi nelle rimanenti tre.
Sono presenti svariati affreschi, purtroppo, in pessimo stato di conservazione, in particolar modo 
quelli risalenti ai maestri bizantini. Al XV secolo è da datare il ciclo di affreschi raffigurante una 
Crocifissione, Gesù nell’orto degli ulivi, il Giudizio finale, tre scene della Madonna in trono con 
Bambino e Santi. Si può ipotizzare che nella zona absidale, attualmente spoglia di affreschi, vi 
fossero altri affreschi per completare il ciclo pittorico, ed in particolare, vi dovesse essere anche il 
Cristo Pantocratore, presente in tutte le chiese costruite per volontà dell’abate Desiderio.
 All'interno sono presenti diverse tracce di affreschi, risalenti alla fine dell'XI secolo, che 
rappresentano episodi tratti dall'Antico e dal Nuovo Testamento (una Natività, tre scene della 
Madonna in trono col Bambino e Santi, episodi della Vita di Gesù e una Crocifissione).



Ancora leggibili sono parte del giudizio universale sulla controfacciata, il ciclo pittorico sulla 
parete occidentale della navata maggiore e quelli sui muri delle navate laterali.











Rilevanti le affinità stilistiche e iconografiche con i pressoché coevi affreschi della basilica di 
Sant'Angelo in Formis. Di epoca posteriore, invece, sono gli affreschi sulle pareti esterne del portico
(fine del XIV secolo) e sulle pareti della navata orientale (con ogni probabilità del XVI secolo).








Un’altra caratteristica della chiesa è data dalla forte inclinazione in salita del pavimento. Quello 
originale (uguale ai commessi marmorei di Sant’Angelo in Formis) è scomparso del tutto; 
coll’ultimo restauro del 1974 il pavimento è in cotto. 
Affiancato alla chiesa il possente campanile in rovina, a pianta quadrata, anch'esso in tufo e 
materiali di spoglio, seppure di successiva realizzazione. Ancora oggi evidente è l'originario 
carattere difensivo della struttura che nonostante le precarie condizioni di conservazione mostra 
ancora sul lato meridionale una bella bifora con capitello (prob. del XIII secolo).


Interessante la relazione storica di Antonio Sancio Intendente della Reale Amministrazione ..

Badia di S. Pietro  ad  Montes

La Casa Religiosa che va sotto il titolo di S. Pietro ad Montes, era ne tempi antichi  un Monastero 
de’ Padri Benedettini neri, edificato sulle rovine del tempio di Giove Tifatino. La Chiesa, che vi è 
annessa, e che è di ordinaria struttura dei mezzi tempi, conserva ancora molte rovine della 
Gentilità. L’atrio è sostenuto da due grosse ed antiche colonne di bellissimo granito con capitelli 
corintici. Nell’interno vi sono dodici  colonne di bellissimo granito, e parte di porfido, alcune di 
ordine corintio, altre dorico e ionico. Vi è ancora qualche bassorilievo, ed altri monumenti, che 
appartenevano al all’antico tempio di Giove.
Pochi passi distanti dalla Chiesa vi è un grande campanile, o torre, andata in rovina, e che 
presenta una vera magnificenza. Giace questa casa Religiosa in un sito eminente sul declivio del 
Monte di Caserta vecchia, circondato da terre sassose, e ripide, nelle vicinanze de’ Casali appellati 
Pedimonte e Casolla.
La denominazione di S. Pietro ad Montes resta giustificata dalla situazione montagnosa, in cui 
rimane.
Alquanto celebre esser doveva questo Monastero ne’ primi tempi della sua origine,  dapoiche 
dotato lo troviamo di considerevoli beni, messi non solo ne’ luoghi adiacenti, ma eziando nelle 
belle pianure di Casanova e di S. Benedetto.
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Nel documento citò il centro di Casanova che all’alba del Settecento era un agglomerato di case, 
qualche fattoria e un piccolo centro urbano. Con l’avvento dei Borboni e il conseguente inizio dei 
lavori della Reggia di Caserta, distante alcuni chilometri, il centro di Casanova ebbe un grande 
sviluppo. Infatti le famiglie degli operai impegnati nella costruzione della Reggia, si stabilirono a 
Casanova dove Ferdinando I di Borbone realizzò un Quartiere Militare Borbonico.






Su consulenza dell’architetto Luigi Vanvitelli, fu costruito un ospedale destinato agli
operai ed agli schiavi che riportavano ferire durante le fasi di costruzione della residenza reale di Caserta, il grande complesso sorse a fianco di due edifici preesistenti e che, grazie a vari interventi, furono destinati  all’uso prefissato.
Furono realizzate diverse stanze e corsie, anche per tenere separati gli schiavi e i liberi
operai del Regno. Per quest0ultimi fu anche costruita una cappella che oggi è parte integrante della Chiesa di Santa Croce La Nuova.

Sulla sinistra la Chiesa di Santa Croce La Nuova




Parte della struttura finì in disuso e secondo alcuni documenti diventò
un’abura di belve”.   Con l’avvento di Ferdinando, l’Ospedale di Casanova
diventò una caserma di Fanteria borbonica e in seguito all’unità d’italia mantenne la
destinazione d’uso come caserma. Nel 1985 il complesso fu ceduto al Comune di Casagiove. Ma come mai il paese di Casanova fu chiamato Casagiove?
 
Il centro di Casanova mantenne il suo nome fino al 1810 quando fu unito alla
Villa di Coccagna assumendo il nuovo nome di “Casanova e Coccagna”
Il cambiamento del nome della città in Casagiove avvenne con Regio Decreto del 17 febbraio 1872 n. 695. Un nome, quello di Casagiove, legato all’esistenza di un
tempio dedicato a Giove sui Monti Tifatini e di cui furono trovati i resti nel 1997.
All’inizio l’esistenza del tempio era legata ad un antica tradizione storica ma quando
vennero trovate tre targhe in bronzo, di epoca romana, quella che era considerata una leggenda diventò realtà storica.
Il termine di Villa Coccagna sarebbe invece legato, secondo una tradizione
popolare, al paese
di Casagiove che era considerata la città del divertimento, delle feste e di tutto cio’ che era svago e divertimento. Secondo gli studiosi il termine sarebbe invece legato alla
parola latina “coccus” cioè pietrame e cocci. Serviva a designare un
territorio ricco di cave che erano presenti a ridosso del Monte Tifata. Altra derivazione legata al termine “cocciniglia”, ovvero il colorante rosso usato per i tessuti. Sembrerebbe questa la natura  etimologica del termine “coccagna” tenendo
presente la vicinanza con un’antica tintoria annessa la setificio di San Leucio.
 
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Ritornando alla descrizione di Antonio Sancio
Non vi è alcuna memoria, o monumento, che ci faccia conoscere l’epoca precisa della sua 
fondazione.
Da un diploma di Roberto Conte di Caserta spedito nell’anno 1165 si rileva che tal Monistero 
esisteva in quella epoca, e che n’era abate un monaco denominato Giovanni come ci assicura 
Gattola (l’abate Erasmo Gattola – Gaeta 1662; Montecassino 1734) nel suo appendice alla storia 
di  Montecassino.
Si sa inoltre che la Comunità Religiosa  continuava ad esistere nel 1330, poiché in una delle 
campane fusa in quell’anno trovasi scolpito il nome di Tommaso Imperiale che l’aveva fatta 
sostituire.la situazione alpestre e solitaria di questo Monistero, e la creazione di tanti ordini 
religiosi, che si videro sorgere ne’ secoli decimoquarto e decimoquinto, e che  assorbivano quella 
classe di uomini, che volevano separarsi dal mondo, operarono probabilmente la estinzione de’ 
monaci nella nostra badia.
Sotto il Pontificato di Eugenio IV (papa dal 1431 al 1447), essendo avvenuta la morte di Ruggiero, 
ultimo abate di S. Pietro, il Monistero fu dato in commenda ad un tal Tommaso Ladro di famiglia 
distinta di Caserta.
Avvenne ciò intorno al 1435, epoca in cui era vigente presso la Corte di Roma il
sistema di ridurre in commenda, e conferire a soggetti  a se divoti i beni per loppiu dei monaci 
Benedettini ne’ monasteri ov’essi di estinguevano o si  minoravano.
Nel 1487 troviamo Commendatario di S. Pietro ad Montes il celebre Giovanni Albini Consigliere e 
Segretario del Re Alfonso. Indi ne venne investito dal papa Giulio II Prete Antonio de’ Franciscis
Successe a costui Pietrantonio Ricciuolo chierico di Camera di Leone X.
Succede al Ricciuolo Alberico Giaquinto Casertano, poi Vescovo di Telese; indi il papa Giulio III 
nel 1551 lo conferì al Cardinale Gio. Michele Saraceno, ch’erasi assai distinto nel Concilio 
Tridentino nel difendere le immunità ecclesiastiche contro alle  pretensioni dell’Imperatore Carlo V.
Per tal motivo furono dal fisco di quel tempo sequestrate le rendite della Badia, che indi vennero 
rilassate. Mancato il cardinale Saraceno, Paolo V nell’anno 1568 accordò la Badia ad  Anselmo 
Arcivescovo di Acerenza, morto il quale Sisto V nell’anno 1586 lo conferì al Cardinale Scipione 
Lancillotto.
Costui dopo qualche anno la rinunziò a beneficio del cardinale Francesco Lancillotto, suo nipote, 
e quindi pure, seguendo l’esempio dello zio, la rinunziò a vantaggio di un altro suo Nipote 
chiamato  Giovambatista Lancellotto, Vescovo di Nola.
Morto questo Prelato, il Pontefice Urbano VIII nell’anno 1630 conferì la badia al Cardinale  
Fabrizio Chigi, il quale la rinunziò a Sigismondo Chigi suo fratello.
Dopo la morte di costui, e precisamente nell’anno 1690, Alessandro VIII l’accordò al cardinale 
Carteloni Arcivescovo di Napoli.  Successe a costui il Cardinal Tommaso Ruffo, il quale la tenne 
per molti anni e dopo la morte del medesimo fu conferita la badia al Cardinale Spinelli 
Arcivescovo di Napoli e finalmente dal Papa Clemente XIV venne accordata a Monsignor D. 
Giovanni Spinelli.
In questa epoca sembra che la nostra Corte avesse  conosiuto i suoi diritti sulla badia e l’avesse 
annoverata tra le altre di suo Regio patronato.
Fino all’epoca del Cardinal Tommaso Ruffo non possiamo noi fare lodevole mensione di alcuno 
degli Abati Commendatarj, de’ quali abbiamo favellato.
Intenti solo a percepire le rendite di beni addetti alla Badia, trascurarono la Chiesa e le fabriche 
del Monastero, e colla più sordita economia ne adempivano qualche peso.
La lettura della Bolla del Papa Clemente XII, di cui verremo ora a parlare; c’intuisce che verso 
l’anno 1150, il sacro tempio, ed il quontiquo Monastero eran prossime alla rovina; che il 
miserabile stipendio di annui carlini trenta assegnato ai cappellani, che dovevano recarsi in quel 
sito alpestre a celebrare in molti giorni dell’anno i divini officj, allontanava i Preti a  prestarvi 
questo incarico, e finalmente che vi era una positiva mancanza di sacri arredi.
La vista di tanti inconvenienti commosse l’animo, o per dir meglio la coscienza dell’abate 
Commendatario Cardinal Ruffo, e lo determinò a darci un riparo.
Egli riflettè, che la celebrazione delle tante messe, ch’erano a spese della Badia, e la necessità di 
adempiere ai divini ufficj, ed alle sacre funzioni esigeva una costante permanenza di Sacerdoti nel 
vecchio Monastero.
Vide pure, che la istruzione de’ fedeli che abitavano i vicini casali di Piedimonte e di Casolla non  
era un oggetto meno interessante.
Quindi penso, che opportuno fosse di chiamare in quel locale di Padri della Congregazione della 
dottrina Cristiana; ch’era stata istituita in Avignone; e che in breve tempo erasi diffusa in molto 
luoghi d’italia, perché assumesse tutti gli obblighi della Badia, persuaso, che cio che poteva 
ottenersi da una Congregazione di operarj, non potesse sperarsi da alcuna altra Religione di 
Mendicanti. Queste idee del religiosissimo cardinal ebbero un pieno effetto. Egli conchiuse un 
analogo trattato cogl’individui sacerdoti della dottrina Cristiana, e dietro la sanzione data dal 
Sovrano Pontefice con Bolla del dì 18 Marzo 1732, entrarono i medesimi nel mese di Dicembre del 
seguente anno 1733 nel possesso della Chiesa e dell’antico Monastero della badia.
L’assegnamento accordato ai Padri fu di annui D. dugento, oltre di una somma di ducati cento,  
isborsata per una sola volta, affin di provvedere alla riattazione del fabbricato, ed al rimpiazzo 
delle sacre suppellettili.
Si accordò pure ai Dottrinarj l’uso di un giardinetto contiguo, dal quale l’abate ricavava una 
rendita di annui ducati sedici, crediamo essenziale di riportare qui a disteso la Bolla, che s’è 
accennata = segue la bolla (immagini: Pietro ad Montes  bolla 1/7)
Il trattato ossia la convenzione che abbiamo accennata, e che passò tra il cardinal Ruffo e tra’ PP 
Dottrinarj fu stabilita con istrumento in data dì 31 Luglio 1731 per mano di Notar Giov. Antonio 
Calvano di Caserta.
In questo istrumento i Padri si obbligarono alla celebrazione della nuova cantata in tutti i giorni 
festivi, a quella di novecento messi lette in ogni anno per i più Testatori, alla confessione, 
predicazione, e finalmente alla officiatura in certi determinati tempo.
Si obbligarono similmente alla manutenzione della Chiesa ed alla  provvista delle sacre 
suppellettili.
Scorsi circa cinquant’anni i Padri Dottrinarj, vedendosi inabilitati a sussistere colla discreta 
aapugnazione di annui D Dugento, implorarono dall’Ordinario della Diocesi la facoltà d poter 
ridurre alla semplice metà il numero delle novecento messe, ch’eransi obbligati, il che nell’anno 
1786 venne loro accordato.
Nell’anno 1795 questa badia,  riconosciuta già di regio patronato, trovavasi vacante, quindi il Re 
Ferdinando di felice ricordanza con Sovrano Rescritto del dì ... volle  incorporarla alla Reale 
Amministrazione di S. Leucio quasi per dote di un novello Ospedale.
Seguita quell’aggregazione, il Cavalier Comm, allora  Intendente del  Real Sito, per riconoscere e 
misurare i terreni addetti alla Badia, e fece anche delinearli in tante tavole topografiche  ed  
inserite in un volume che fa parte della presente platea.
In questa epoca si giudicò, che la riduzione delle messe, sanzionata dalla Curia, potesse 
annullarsi, abilitando i Padri Dottrinarj a soddisfarne lo intero numero, mediante un aumento 
sull’annua  prestazione di D. dugento.
A tal fine  con novello istrumento, stipulato per ano di Notar Salvatore Pezzella nel dì 1 Dicembre 
1797, previo Sovrano beneplacito, mentre l’assignazione de’ D. dugento fu portata a D. trecento, si 
obbligarero i Padri di celebrare le intere numero delle novecento messe, nel  malgrado la riduzione 
da essi ottenuta, e si sottoposero pure a molti altri obblighi religiosi a vantaggio delle vicine 
popolazioni.
Infine si dichiarò che i ducati trecento  rimanevano divisi D. 180 per le novecento messe,...... e D. 
120 per la manutenzione della chiesa.
Gli obblighi in conseguenza della Reale Amministrazione per  Badia riducensi pggi semplicemente 
alla prestazione deglli annui Ducati trecento, de’ quali abbiamo favellato ed a qualche altra 
corrispensione a favore della Chiesa Parrocchiale di Garzano come verremo ad enumerare.
Qual relazione abbia potuto esistere ne’ tempi antichi tra la Badia di S. Pietro e la Parrocchia di 
Garzano punto non si conosce, né si rileva da alcuna vecchia carta.
Essendo Garzano un piccolo e povero villaggio, il di cui tenimento era in gran parte composto di 
terreni di proprietà della Badia, potrebbe congetturarsi che il villaggio medesimo fosse stato in 
tempi remoti quasi una grangia, e un suffeudo della stessa badia.  Sia per questo motivo, sia perché 
gli antichi Abato Commendatorj fossero stati spinti da sentimenti religiosi verso una popolazione 
addetta alla coltura delle loro terre, egli è certo, ch’essi prendevano interesse per la Chiesa 
Parrocchiale di Garzano: Chiesa  che trovavasi pur dedicata a S. Pietro.
Esistono ancora tra le poche suppellettili della medesima alcuni ruderi di vecchie piante, nelle 
quali si scorgono i stemmi del Cardinal Ruffo, oltre a ciò nel catasto Casertano del 1749, 
osserviamo, che nel ragguaglio de’ pesi della Badia, i di cui beni  trovansi confusamente descritti, 
si enunciano annui D otto al curato, annui D. cinque per l’olio: D. dieci per la manutenzione della 
Chiesa di Garzano.
Invece di queste tre diverse prestazioni, indicare nella partita del catasto, di cui abbiamo 
ragionato, la Reale Amministrazione ha annualmente corrisposto tomola otto di grano, e  rotola 
quarantotto di olio.
Indipendentemente da ciò, accordò ne’ scorsi anni i fondi per la costruzione della nuova 
Parrocchia in rimpiazzo dell’antica, ch’era rovinata, ed ha supplito pure  da volta i volta ai suoi 
arredi, che si sono consumati. Per effetto di quale disposizione, ed in qual modo siano state 
sostituite le nuove prestazioni alle antiche cennate nel catasto, noi perfettamente lo ignoriamo, e 
non lo abbiamo potuto desumere da alcun documento.
Leggiamo solo nello stato discusso, ossia nel piano dell’Amministrazione di S. Leucio formato nel 
1815,  individuate le sole prestazioni del grano e dell’olio, e per tal motivo l’Amministrazione 
continua a corrisponderli.
Poiche il Parroco di Garzano insistè ne’ scorsi anni per ottenere dall’Amministrazione altri 
soccorsi, e specialmente i fondi per la riattar. Della Chiesa, e per lo supplemento de’ suoi arredi, si 
fa  nella necessità di  venire all’analisi de’ suoi dritti; ma non essendosi trovata alcuna ragione 
sufficiente a garantirli, S.M. il Re Francesco, dietro rapporto dell’Amministrazione del Real Sito, 
con rescritto del dì 21 Aprile 1830, ordinò  che su i fondi dell’Amministrazione si spendessero per 
una sola volta D. venti per fornire la sudetta Parrocchia di arredi sagri, e D. trenta per riparare il 
tetto, e ciò per puro atto di Sovrana pietà, senza che la medesima vi acquistasse alcun dritto per 
l’avvenire.
In seguito con altro Rescritto del dì 30 Giugno dello stesso anno   degnosi la prelodata M. S. di 
estrinsecare, che non sarebbe stata aliena di accordare alla parrocchia medesima, oltre alle 
annuali prestazioni di tomoli otto di grano e di rotoli quarantotto di olio, qualche altro discreto 
soccorso, onde  avesse potuto  più decentemente mantenersi.
Del rimanente è sicuro, che la Reale amministrazione non esercita alcun patronato sulla 
Parrocchia di Garzano, il parroco viene stipendiato dal Comune di Caserta che somministra la 
congrua di annui D. ottanta, e viene eletto dal Vescovo Casertano previo il concorso, come si 
pratica, per tutte le altre Parrocchie, che non sono di patronato speciale della Real Casa,
Tutto questo conchiude, che per pura e semplice divozione de’ nostri religiosissimi Sovrani si 
somministrano alla Parrocchia di Garzano quelle prestazioni che abbiamo menzionato, senza che 
il Parroco della medesima vi abbia alcun dritto.
Dal momento, in cui i beni della Badia di S. Pietro vennero ammassati alla Reale Amministrazione, 
ha avuto la medesima una cura speciale di mantenerli nella loro integrità.
Nel tempo della occupazione militare accaddero diverse distrazioni e permute; ma i danni, che ne 
derivarono, sono stati per la maggior parte riparati, come rilevasi da’ dettagli, che si leggono nella 
presente platea.
 Laddove faccian il confronto delle proprietà della Badia, enunciata nel catasto del 1749, con 
quelle che attualmente si posseggono, non si veggono che leggerissime differenze, le quali non 
meritano di essere analizzati.
Ecco tutto ciò, che si è riuscito di rilevare dalle poche antiche carte che esistono su questa Badia”.





Garzano (Caserta) Chiesa di San Pietro Apostolo

Garzano ..Luogo della Memoria


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Abbazia di San Pietro ad Montes – Piedimonte di Casolla

Percorso pianeggiante

12. Piedimonte  di  Casolla

Il  Borgo   Medievale   Nascosto

Il piccolo centro  di Piedimonte di Casolla, in origine “Piedimonte di Caserta Vecchia” sorse
all’ombra di  Caserta Hirta e del suo castello arroccato e fortificato. 
La vecchia città cominciò a decadere mentre il centro di Casolla, posto nella pianura, cominciò a 
registrate un forte sviluppo urbanistico e demografico.
Piedimonte, posto alla periferia a Nord-Est di Casolla,  entrò nell’area d’influenza di Casolla 
assumendone il nome.
L’abitato è costituito da poche case poste lungo la strada denominata “via Parrocchia”, 
prolungamento della strada  proveniente da Casolla.
Il Borgo è il più piccolo Casale di Caserta per la presenza di appena 119 abitanti. Forse la sua 
posizione, posto ai piedi del Monte di Caserta Vecchia, è riuscito a mantenere la sua struttura 
medievale. Le vie del paese, che salgono a monte, hanno la caratteristica di non avere una 
conclusione e  di perdersi nei campi agricoli.
Nel suo sistema urbanistico non ha piazze e gli slarghi e gli incroci sono l’unico aspetto di 
variazione della viabilità stradale.
Le case presentano le corti rurali che nel palazzo/castello presenta gli aspetti nobiliari e di prestigio 
più elevato.
L’intero abitato presenta quindi una sua importanza architettonica per le caratteristiche stradine e le 
sue abitazioni conservano i tratti nobili del tempo in cui il borgo era meta di poeti, filosofi e 
letterati che venivano ospitati nel palazzo/castello di Gian Francesco Alois, poeta e gentiluomo di 
Piedimonte.




Palazzo Alois è un fabbricato che risale alla seconda metà del XV secolo.  
Dell’architettura primaria rimane ben poco dato che ha subito, nel corso dei secoli, varie 
trasformazioni. Una tipologia costruttiva tipica delle case del borgo, con corte rurale riprendendo 
gli schemi delle “corti palatine”, del Quattrocento. All’interno dell’artistico palazzo è ancora 
presente un affresco risalente alla fine del XV secolo e che raffigura la Madonna con il bambino tra 
i  Santi Sebastiano ( Patrono della città di Caserta) e Rocco. Dopo la condanna a morte di Gian 
Francesco Alois il palazzo fu probabilmente requisito. Gli eredi reclamarono a lungo il possesso ma 
alla fine passò al Regio Demanio.



Il periodo d’oro del casale fu proprio legato al grande fervore culturale promosso dalla famiglia 
Aloise nel Cinquecento mentre nel secolo successivo la peste decimò la popolazione.
 Gian Francesco Alois nacque nel 1515 , figlio di Aloisio Alois e di Ippolita Caracciolo,
fu un famoso letterato e fu nominato “il Caserta”  perché la sua famiglia aveva vaste proprietà in
quella provincia.
Sposò una esponente della nobile famiglia Caracciolo, Isabella.
Dedito alle lettere fu amico di monti umanisti come Galeazzo Florimonte, Paolo Manuzio, 
Ludovico Dolce, Paolo Giovio. Scrisse diverse poesie che furono pubblicate in 
Rime di Diversi Signori Napoletani - Venezia 1552” e in “Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della Signora Irene di Spilimbergo - Venezia 1561”.
Fu discepolo di Juan de Valdès, l’evangelico nicodemita spagnolo che una parte importante ebbe nella diffusione a Napoli delle idee riformate con  Marcantonio Flaminio
Marcantonio Flaminio fu coautore con Benedetto Fontanini del “Beneficio di Cristo”.
Fu ospite dell’Alois nella sua villa di Piedimonte, giunse da Napoli in cattive condizioni di salute 
tra la primavera e l’autunno del 1539. L’Alois  ricevette i ringraziamenti, per la sua ospitalità, nel 
“Carmine” dove celebrò il soggiorno casertano.
Sempre a Piedimonte ospitò anche Lorenzo Romano, frate agostiniano ed allievo del Valdès, 
perché vi tenesse scuola. Fu scoperto nel 1551 riuscì a fuggire per poi presentarsi spontaneamente a 
Roma dove abiurò.
Vide morire il fratello Giambattista durante le proteste a Napoli del 1545/47 contro l’Inquisizione e 
favorì la conversione alla Riforma del cugino, il Marchese di Vico Gian Galeazzo Caracciolo. 
L’Alois presentò il cugino al Valdes e lo condusse a quella predica di Pietro Martire Vermiglie in S. 
Pietro ad Aram (1541 circa) che fu motivo dell’illuminazione del Caracciolo e della sua adesione al 
valdesianesimo.
Il Caracciolo prese la decisione di fuggire in Svizzera nel 1551 e lo invitò più volte a seguirlo ma 
ottenne un rifiuto.
L’Alois  ebbe dei rapporti anche con il figlio di Gian Galeazzo Caracciolo, Colantonio. Infatti 
durante una perquisizione, avvenuta probabilmente nel 1564, nella casa di Colantonio Caracciolo 
furono trovate delle lettere dell’Alois che lo stesso Colantonio stava bruciando.  Il giovane fu citato 
e processato a Roma.
Non so quale sia stato l’esito del processo ma sembra che il Colantonio sia riuscito a sfuggire alla 
condanna e riparò all’esterno, forse in Svizzera, dove si trovava il padre.
Il cardinale Carafa, successivamente Paolo IV, fu nominato arcivescovo di Napoli e l’attività 
dell’Inquisizione ebbe un incremento e a Roma ci fu un importante processo contro Lorenzo 
Romano, maestro di logia aristotelica e di teologia molto attivo a Caserta e che l’Alois aveva 
seguito nelle sue lezioni (1549 – 1551).
 Fu quindi coinvolto nella repressione scatenata dall’Inquisizione condotta da Giulio Antonio 
Santori contro l’eresia valdesiana. Fu quindi ricercato, prima nel suo feudo di Piedimonte e nel 
settembre del 1552, quando si trasferì a Napoli con la moglie, venne arrestato.
Fu arrestato anche un suo caro amico. Bernardino Gargano di Aversa.
Nell’ottobre fu trasferito nel carcere di Roma assieme ad altri arrestati. Il trasferimento avvenne per 
mare e rinchiuso nelle carceri dell’Inquisizione che si trovavano a Santa Maria sopra Minerva.
Grazie all’intercessione di uno dei cardinali dell’Inquisizione, Girolamo Verallo, il cui fratello 
Matteo era sua amico, e alla pubblica abiura, fu rilasciato il 23 dicembre dietro cauzione. Ottenuta 
la libertà ritornò a Napoli. Ma  la sua abiura era stata solo il frutto di  una convenienza per non 
essere condannato a morte e ricominciò subito a rifrequentare le sue antiche amicizie con esponenti 
della Riforma.
 La famiglia dell’Alois mostrò una grande irritazione nei confronti del giudice inquisitore Giulio 
Antonio Santori a tal punto di minacciarlo di morte.
La morte di papa Paolo IV, avvenuta nel 1559, e violento repressore di ogni forma di dissenso 
religioso, fu salutata a Roma con grandi manifestazioni di giubilo e stesse manifestazioni 
avvennero in altre città.
A Napoli, Caserta ed in altre città si svolsero per l’avvenimento delle pasquinate
gli heretici di Napoli e di Caserta et di altre parti fecero moltissimi pasquini volgari e latini contra lui, per l'odio che gli portavano»,
  scrisse nella sua relazione l’inquisitore Santori.
 L’Alois, a sua volta, dirà un giorno che
«mentre visse Paulo Quarto noi andavamo assi ritenuti nelli ragionamenti di queste cose, ma dipoi, che se intese de la brusata di Ripetta et che era morto Papa Paulo quarto, noi altri, che eravamo di queste oppinioni alargamo la mano, et si ragionava a pieno di queste oppinioni lutherane».
La sua vita continuò ad essere ricca di incontri con noti personaggi che erano sospettati d’eresia 
come Giulia Gonzaga e Pietro Carnesecchi. Ma avvenne qualcosa di dispiacevole che turbò 
profondamente la vita dell’Alois.
Juan de Soto, nobile spagnolo e segretario vice-reale, nel 1562 si era visto rifiutare dal barone 
Consalvo Bernaudo,  in passato costretto all’abiura e grande  amico dell’Alois, la mano della figlia 
Cornelia. Malgrado le offerte, le lusinghe ed anche le minacce, il de Soto decise di agire con 
spietata vendetta.  Denunciò l’Alois al tribunale dell’Inquisizione di Napoli per eresia. Il suo piano 
prevedeva la liberazione dell’Alois in cambio della mano di Cornelia Bernaudo. L’ Alois fu 
arrestato e il piano del de Soto ebbe solo un parziale successo.
 Un arresto eseguito ancora una volta da  Giulio Antonio Santori che era stato compagno di studi di 
Gian Francesco Alois a Napoli e diventato vicario della diocesi di Caserta.
Ci fu un intervento in favore dell’Alois da parte di Pietro  Carnesecchi di Firenze che era legato al 
prigioniero da una vecchia amicizia risalente al 154.
 Lo spagnolo sposò Cornelia ma l’Alois non fu liberato e nell’ottobre del 1562 fu condotto, insieme 
ad altri inquisiti tra cui il nobile di Aversa Bernardino Gargano, nelle carceri del Sant’Uffizio di 
Roma. Il tribunale dell’Inquisizione aveva timore di una possibile reazione della nobile ed influente 
famiglia Alois che aveva l’appoggio di altre famiglie nobili del napoletano e per questo motivo 
l’Alois non fu imprigionato a Napoli ma a Roma. Il processo a carico dell’Alois si svolse però a 
Napoli e qui un parente ed amico del nobile gli si schierò contro.
Il suo nome era Giovan Battista Sasso il quale affermò che
Il13 settembre 1563 Gian Francesco Alois gli aveva confidato anni
prima di aver abiurato per forza
et per non perdere la vita, perché quando era stato in mano de' preti bisognava che avesse detto come volevano loro [...] però tutte quelle oppinioni, che esso Giovan Francesco haveva insegnate al modo lutherano et tenute, diceva che erano vere et che le teneva per vere, così come le teneva et credeva prima».
Queste opinione consistevano nel ritenere che
«il Papa non haveva autorità alcuna, eccetto di predicare l'Evangelio [...] diceva gran male di Papa Paolo quarto [...] la Fede sola senza le opere nostre buone era sufficienta a giustificar l'huomo, et che bastava per soddisfatione de' nostri peccati lo sangue et la Passione di Giesù Christo [...] chi era predestinato necessariamente doveva andare in Paradiso, et che la vera Chiesa era delli Eletti et Predestinati». Inoltre, il purgatorio non esisteva e le indulgenze richiese e i giubilei indetti dalla Chiera erano
Sole delle burle ed inventioni per trovar denaro
 
Gian Francesco Alois e Bernardino Gargano furono quindi condotti a Napoli per ascoltare la sentenza di morte che fu emessa il 3 gennaio 1564.
Il 10 gennaio furono sottoposti ad una spietata tortura per avere i nomi dei seguaci.
Entrambi confessarono e l’uno marzo fu emessa la
Nuova e definitiva sentenza declaratoria:
dichiarati eretici impenitenti;
pertinaci e relassi
e furono consegnati al braccio secolare per l’esecuzione della condanna
 
condanna che fu eseguita il 4 marzo 1564 per decapitazione e rogo
dei cadaveri in Piazza del Mercato
 
L’esecuzione provocò una forte reazione, contro il tribunale e lo stesso Santori, nell’ambiente politico europeo.
 In margine al processo contro l’Alois, ci fu un documento che fu tenuto quasi nascosto.
Si trattava di una lettera invia dal vicerè duca d’Alcalà, Pedro Afàn Enriquez de Ribera y  Portocarrero, a Filippo II re di Spagna.
Nella lettera erano stati esposti degli elementi importanti sull’episodio dell’Alois perché riportava i nomi dei prelati con cui il condannato era stato in contatto negli anni 1540 – 1547 e che aveva rilevato sotto l’azione di atroci torture.
Contatti che
Egli avrebbe ricordato a propria discolpa
per il comune sentire nelle questioni di fede.
La lettere riportava i nomi....decisamente importanti per il tempo...
L’arcivescovo Otranto Pietrantonio di Capua
Giovan Tommaso Sanfelice, Vescovo di Cava
Nicolò Maria Caracciolo, vescovo di Catania (8 gennaio 1537 – 15 maggio 1567)
Giulio Pavesi, arcivescovo di Sorrento;
Onorato Fascitelli, vescovo d’Isola (Calabria)
Fabio Mirto, vescovo di Caiazzo
Antonio Scarampo, vescovo di Nola
Iacopo Guidi, vescovo di Penne;
Nicolò Francesco Missameli, vescovo di Policastro
Gaspare del Fosso, arcivescovo di Reggio
 Erano inserite anche brevi notizie di discussioni (sulla giustificazione per la fede) e di letture 
(le Prediche dell'Ochino, il Trattato utilissimo del Beneficio di Giesù Cristo), caratteristiche della 
spiritualità valdesiana.
 
La viabilità del casale non è cambiata, come si nota dalla foto aerea. Le stradine seguono la 
naturale pendenza del terreno e gli incroci, le cortine edilizie conservano ancora l’aspetto originario 
anche se con evidenti segni, in alcuni punti, delle mutazioni che si sono verificate nel tempo. Le 
abitazioni più antiche sono in tufo e presentano dei portali ad arco, come  quello della casa Alois 
dai quali s’intravedono scale, scalette, colonne, ballatoi e cortili spaziosi che guardano vero la 
sottostante pianura.
 Il palazzo dei Marchesi Cocozza di Montanara risale alla seconda metà del XV secolo e fu di 
proprietà di diverse famiglie. In origine della famiglia d’Amico, passò successivamente ai Tomasi e 
attraverso legami di parentela, nati da matrimoni, venne ereditato dai Cocozza.
(I Tomasi erano quelli del ramo familiare di Capua che nel corso del XVI secolo si trasferirono in 
Sicilia dove acquisirono la baronia di Montechiaro ed altri feudi? Acquisizioni ottenute anche 
grazie ai legami di parentela con le famiglie De Caro e Troina ottenendo i tutoli di duca di Palma e 
principe di Lampedusa)
Dall’Archivio di Napoli ho trovato una dicitura in merito ad Adele Cocozza de Tommasi che sposò 
Francesco Caracciolo di Melissano il 14 settembre 1887
Adele Cocozza era figlia di Cocozza Giuseppe (Nola- Napoli, 16giugno 1816; Napoli, 30 dicembre 
1892) figlio di Gaspare Cocozza e di D’Orineta Francesca). Marchese di Montanara, Nobile di 
Nola e Senatore del Regno con nomina a febbraio 1880).
Sposò Sirignano Rosa (Principessa ?) e dal matrimonio nacquero i figli/e:
Gaspare, Francesca Maria, Amalia, Errico o Enrico, Adele. Ernesto e Giovan Battista.


L'antico nome della casata era de Cucubertis ed erano nativi di Cogozzo in provincia di Brescia. 
Giunsero a Napoli agli inizi del Quattrocento con il conte Piergianni, capitano di lance a cavallo di 
Ladislao di Durazzo. Sin dal Cinquecento, fino al Settecento, i Cocozza si distinsero per fatti 
d'arme, civili ed ecclesiastici. Furono signori di numerosi feudi distribuiti tra la provincia di 
Caserta ed il napoletano ed, inoltre, si imparentarono con diverse famiglie di alto lignaggio.
Il palazzo  ha una pianta ad U,  distribuito su tre livelli e con una corte centrale.


La facciata principale è caratterizzata da un grosso portale d'ingresso in piperno, su cui è posto lo 
stemma di famiglia (la "cocozza" con le FF di fidelis familia), e da alcune finestre dal gusto neo 
catalano.


Dalla ricerca su Internet ho trovato due stemmi in merito alla famiglia Cocozza.
Il primo è probabilmente il primo stemma della famiglia  mentre il secondo è legato ad Ferdinando 
d’Aragona quando Nardo Cocozza di Nola (nato nel 1746) salvò o proprio Ferdinando I dalla 
congiura dei baroni guadagnandosi lo stemma “Fidelis Famiglia).

Sul portale d’ingresso è posto lo stemma della famiglia Cocozza: una fascia d’oro e una azzurra, con al centro una zucca racchiusa tra due foglie verdi. Essa è sormontata da una stella d’oro ad otto raggi e dalle due F di fidelis familia. È quindi alla zucca – o meglio alla cocozza, chiamata così in dialetto napoletano – che l’edificio deve il suo nome. 


Nella famiglia altri esponenti importanti
-Sebastiano Cocozza di Nola II (1494), guidò con successo la cavalleria contro il generale Lautrec nel 1528 per difendere il ponte della Maddalena a Napoli e nominato dal Principe d'Orange.
-Felice Cocozza di Nola I (nato nel 1521) Ferito combattendo l'invasione turca a Lepanto
-Vincenzo Cocozza di Nola (nato nel 1576) Ambasciatore di Papa Clemente VIII
-Lelio Cocozza di Nola (nato nel 1579) Cavaliere dell'Ordine di Malta
-Felice Cocozza di Nola (nata nel 1630) Capitano di Cavalleria e autrice de "L'Arte dei Militari"
-Conte Gioacchino Cocozza di Nola (nato nel 1712) Cavaliere Pontificio di San Giorgio, insignito della Nobiltà Pontificia di Amalfi nel 1789
- Marchese Giuseppe Cocozza di Nola (nato 1849) Sindaco di Nola
- Conte Gaspare Cocozza di Nola (nato 1866) Senatore del Regno d'Italia
- Marchese Cocozza di Montanara (nato nel 1939)
 
Agli appartamenti, completamente rifatti tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, si accede 
tramite una scala settecentesca. Parte della residenza, in corrispondenza di un'antica torre di 
avvistamento, risulta essere ancora danneggiata da un incendio provocato dall'esercito garibaldino 
durante l'occupazione avvenuta nel 1860.
Il palazzo fu infatti nel 1860 al centro di scontri tra i soldati borbonici e i volontari garibaldini.



Una targa,  sormontata da uno  scudo con i gigli borbonici recita: 
 “Ai nostri padri che nei giorni 1 e 2 ottobre 1860 combatterono con onore e fedeltà contro gli invasori piemontesi. Casolla 20 maggio 2006 A.D.O. 146 (anno dell’oppressione?). Movimento neoborbonico, Ass. Il Giglio tifatino, Ass. Terra Nostra”.



Di fronte al palazzo si trova la cappella privata della famiglia Cocozza, risalente anch’essa al XV 
secolo come il palazzo, e oggetto di ristrutturazione  (che coinvolse anche il palazzo) effettuato 
nell’Ottocento dalla marchesa Luisa Cocozza.  Cappella che è dedicata a San Rocco e presenta un 
caratteristico portico ottenuto da un unico pilastro sul lato destro
Essa si caratterizza per la struttura ad un solo portico, ottenuto da un unico pilastro sul lato sinistro.



Lo stemma dei Cocozza nella Cappella di San Rocco

Dal cortile si accede, attraverso uno scenografico portale sempre in piperno, sormontato da una 
merlatura in tufo grigio, al giardino "romantico". Tale spazio presenta un notevole patrimonio 
botanico, caratterizzato da specie mediterranee ed esotiche, ed una serie di brani scultorei evocanti 
il mondo classico.


“Un roseto di “Ronsard” è tra i protagonisti di questo giardino, tanto da creare persino delle 
particolari illusione ottiche. Le rose sembrano uscire da antiche coppe di agapanti azzurri ai piedi 
degli aranci, di lecci, di Phoenix Canariensis, di cedri e pini, melograni e siepi fiorite, manufatti di 
tufo, di pietre e fregi nella mescolanza di substrato storico in cui si innesta il mediterraneo 
giardino romantico e la rivisitazione contemporanea del paesaggista inglese Peter Curzon ( 
l’impianto originario è forse da attribuire ad altri paesaggisti).
Cinque livelli terrazzati dove aranci con varie bordure, Abelia, Anemone japonica e Leonotis 
leonurus di colore arancio, trovano un habitat perfetto, il  viale di melograni poco sopra riparato 
allo sguardo da un fondale topiario di Laurus nobilis. Un laghetto, una serie di elementi scultorei 
(un pozzo, nove fontane,, numero statue, un obelisco, un tempietto ionico  a pianta circolare) ed 
una vasca settecentesca di marmo bianco sono l’emblema di un romanticismo d’altri tempi”
L’area verde adiacente ospita un rigoglioso aranceto e palme delle Canarie, che abbelliscono 
anche la serra, utilizzata come Giardino d’inverno.





Nel 1969, Pier Paolo Pasolini utilizzò il palazzo per girarvi alcune scene del suo Decameron».
Probabilmente fu proprio l’incanto di questo giardino che spinse Pasolini a sceglierlo come 
location ideale per Il Decameron. Quest’ultimo fa parte di una composizione di film girati tra il 
1971 e il 1974: la Trilogia della vita. Nel 1969, quindi, la troupe di Pasolini registrò parte 
della Novella V della quarta giornata all’interno di Palazzo Cocozza.
Nel giardino appena descritto, Pasolini fa innamorare Caterina di Valbona e Ricciardo Manardi, 
protagonisti della Novella dell’usignolo. Negli ambienti del sottotetto, invece, i due giovani 
vengono scoperti dal padre di lei mentre dormono abbracciati. La novella si conclude poi con 
un lieto fine: il matrimonio tra i due giovani. 

L’edificio era una colliera destinata alla fabbricazione della colla.
Queste industrie erano presenti a Sala, San Prisco ed anche a Casolla. Forse proprio a Casolla 
nacquero le prime industrie nel XVIII secolo della colla forte detta “di Inghilterra” e di derivazione 
animale. Una produzione che imponeva processi ben precisi di bollitura pressaggio, filtraggio, 
taglio ed essiccazione.
L’edificio è un espressione di un architettura che si univa al tessuto edilizio preesistente. Infatti la 
struttura prese l’aspetto di fabbrica solo nella parte superiore che costituiva quindi un corpo 
aggiunto.  Molto sviluppato in altezza, coperto da un tetto a due falde e con delle aperture strette e 
allungate che erano prive di serramenti e ravvicinate tra di loro.
Costituivano l’essiccatoio, l’edificio nella parte inferiore conservava il suo aspetto simile agli altri 
edifici del tessuto urbano presentando anche una corte interna, e si raggiungeva grazie a delle scale 
esterne.
Un fabbricato che subito proprio per la sua altezza rispetto all’edilizia circostante.
In questi ambienti si svolgeva il ciclo produttivo della colla che veniva avviato nei piani inferiori 
per poi essere spostato nei piani superiore dove era richiesta una maggiore areazione per le fasi 
finali della produzione una costante areazione necessaria per l’essiccamento del prodotto ed anche 
per allontanare, per quanto era possibile, i persistenti odori. Solo nei mesi invernali era infatti 
consentito produrre colla di gelatina ricavata da pezzi di carne, residui dell’animale macellato, e 
preferibilmente lontano dal centro abitato.
La produzione si diffuse rapidamente nell’Ottocento e molte colliere sorsero in prossimità del 
centro sempre in posizione sopraelevata rispetto al tessuto urbano circostante e sfruttando lo 
sviluppo verticale piuttosto che quello orizzontale.
L’incremento della produzione non sarà seguito nel nuovo secoli, dalla conversione industriale e le 
aziende resteranno sempre a carattere artigianale. Non ci sarò quella razionalizzazione integrale del 
settore che era necessaria per fare fronte alle esigenze del mercato. Questa mancata conversione 
porterà le fabbriche alla loro scomparsa e resteranno i fabbricati a testimoniare quest’antica 
produzione.





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La Chiesa di San Rufo

Prima di parlare della Chiesa  è importante citare chi era San Rufo.  Era un militare romano 
originario di Ravenna  che si convertì al Cristianesimo.
Fu condannato a morte per la sua fede e per il suo apostolato che svolgeva nel comprensorio di 
Capua.
Una leggenda locale narra che il piccolo tempio sia stato innalzato dai fedeli di Piedimonte nel 
luogo in cui il santo, originario di Verona, subì il martirio da parte dei sacerdoti pagani del vicino 
Tempio di Giove Tifatino.
Dal  punto di vista storico, la chiesa è riportata nella bolla del vescovo metropolita Senne del 1113. 
Fu citata dopo quella di San Lorenzo e del Salvatore di Staturano e prima di quelle di San Vitaliano 
di Carzano e di Sant’Angiolillo...

“…di Santa Barbara al Monte, di San Salvatore di Staturano, di San Lorenzo, di Santa Maria a cappella (apparteneva alla famiglia Lanni e fu distrutta dalla speculazione edilizia del 1977) . di San Nicola ( cappella privata, di cui si sono perse le tracce), di San Rufo di Piedimonte, di San Vitaliano di Carzano, di Sant’Angelo ad Pinos…”.

Fu successivamente citata anche nelle “rationem Decimarum” e in molti atti notarili.





La chiesa nel corso dei secoli ha subito delle trasformazioni. In origine era composta da una sola 
navata ( nella prima metà dell’XI secolo) e successivamente furono aggiunte tre cappelle laterali 
che sorsero tra il XVII ed il XVIII secolo.
A quel periodo risale anche la costruzione del campanile. Tutti interventi che furono eseguiti dal 
parroco del tempo don Nicola Iannelli.
Edificio posizionato su uno sperone roccioso e segue la direttrice  Est – Ovest.
Una facciata semplice secondo uno schema medievale con elementi romanici al di sopra dei quale
si  nota una finestra tamponata.
Le pareti della navata centrali presentano brani di affreschi, purtroppo, in avanzato stato di 
decomposizione. Continua ad essere evidente il Cristo Pantocratore nell’abside, (in cattive 
condizioni) raffigurante la parte inferiore del corpo, dato che la parte superiore fu coperta da uno 
stucco realizzato nella seconda metà del Settecento.
In tutto il territorio comunale di Caserta abbiamo Occorre evidenziare come il Cristo Pantocratore 
nell’intero territorio comunale e limitrofo sia presente solo nella chiesa di San Rufo. La sua 
presenza testimonia le importanti tracce lasciate da pittori ed artisti bizantini nell’intera zona.
Della stessa epoca sono anche alcune pitture, con figure di Santi, inserite in cornici ovali presenti 
sulle pareti della navata principale. Del XVIII secolo è anche il pavimento con maioliche dipinte, 
messo in opera, su commissione del parroco Nicola Jannelli, dalla bottega dei Massa di Maddaloni. 
Si tratta di un vero e proprio capolavoro barocco di arte applicata, caratterizzato dalla presenza di 
elementi floreali, geometrici e mistilinei. Poco è rimasto dell’affresco raffigurante San Giorgio e il 
drago, risalente, verosimilmente, agli inizi del Quattrocento. L’altare principale è invece privo di 
buona parte dei suoi marmi commisti, trafugati da ignoti, una decina d’anni or sono. In gravi 
condizioni versa anche il seicentesco organo, in legno dorato e finto marmo, posto al di sopra 
dell’ingresso della chiesa.





Nel muro sinistro è incastonata una pietra tombale che ricorda la sepoltura di Gian Francesco  
Alois e della moglie Isabella Caracciolo. 



Fino al  2010 c’era un vecchio portone in  legno, non so se nel frattempo sia stato cambiato, sul 
quale erano disegnati dei simboli.
Fatti da chi e a cosa si riferissero i simboli. è un mistero.







È un arco a sesto acuto tipico dello stile gotico europeo e noto già nell’architettura islamica. Nasce 
dall’intersezione di due archi di circonferenza con centro più o meno distanti e posti sul piano 
d’imposta. Viene chiamato anche arco ogivale a causa della sagoma ad ogiva che si ottiene.

EDICOLE VOTIVE

Casolla, Via Rivo, Vergine, santi ed angeli. Edicola quadrata incorniciata da listelli deteriorati raffigurante la Vergine i Santi e gli angeli.

Poco lontana dalla precedente,  al numero civico 14, si trova un’altra edicola votiva. È poco leggibile sia per i colori dilavati che per l’intonaco parzialmente divelto, lascia visibile ancora l’immagine della Vergine con il Santo Bambino tra le braccia. Edicola a nicchia con intradosso a botte e lati inclinati “a scarpa”. All’interno, su fondo blu, vi è la Madonna del latte realizzata a secco. All’esterno vi sono tracce di intonaco rosso.


Casolla, Via Croce, edicola alla Santa Vergine. Edicola con intradosso a botte ellittica su mensola ed incorniciata da una modanatura liscia.


Foto di Antiche Botteghe




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Piedimonte di Casolla – Santuario Diocesano di S. Lucia




13. Il  Santuario   Diocesano  di  Santa  Lucia




Nel luogo dove sorge la chiesa di Santa Lucia vi era già un tempietto dedicato ai Santi Filippo e 
Giacomo, in seguito consacrato alla Santa degli occhi. Per desiderio del Principe di Caserta Giulio 
Antonio Acquaviva, alla fine del '5OO fu fondato un convento di Francescani Riformati proprio 
accanto all'antica chiesetta. Insieme al convento fu costruita anche una nuova chiesa. Questi edifici 
rimasero immutati fino alla metà del '7OO, periodo in cui fu rifatta la facciata in stile vanvitelliano. 
L'occupazione francese del regno di Napoli determinò la prima espulsione dei frati e la dispersione 
del ricco corredo della chiesa ed anche dei preziosi volumi della biblioteca. Con il rientro dei 
Borbone, i frati tornarono nel convento, Ferdinando II fece realizzare la strada che da Centurano 
conduce al Santuario donando anche una pregevole statua della Santa. Dopo alterne vicende, con 
l'Unità di Italia, i frati furono nuovamente allontanati e il convento incamerato dal demanio. La 
chiesa è meta di molti pellegrini, specialmente nel mese di maggio: essi una volta attraversavano in 
ginocchio la zona circostante piena di ciliegi (Cerasole) ed ora cementificata.
La chiesa presenta una facciata in stile vanvitelliano, ha una sola navata con cappelle sulla sinistra, 
come stabiliva la Riforma francescana. Esse sono dedicate a S. Orsola, all'Immacolata, a San 
Francesco ed al Crocifisso. Sull'altare maggiore, in marmo e legno di noce, vi è un quadro del '6OO 
raffigurante il martirio di Sant'Agata. Altri quadri alle pareti sono del XX secolo. Il coro ed il 
policromo pulpito in legno intarsiato di autore ignoto sono del XVIII secolo. Dello stesso periodo 
sono le pregevoli acquasantiere e l'organo. Il pavimento è maiolicato. Lapidi in marmo ricordano i 
Borbone e lastre sepolcrali ricoprono tombe di personaggi illustri casertani. Interessante è la saletta 
degli ex voto alla Santa.
Il santuario ha un  particolare legame storico e religioso con la frazione di Centurano anche  per la 
particolare connotazione paesaggistica. Attraverso i secoli il Santuario di Santa Lucia ha avuto un' 
importante funzione religiosa e civile: la prima in quanto meta di pellegrinaggi da tutto il territorio 
della provincia con carri e musiche; la seconda in quanto luogo privilegiato per la sepoltura di 
famiglie illustri.
Attualmente il Santuario è adibito al Culto Di Gesù misericordioso ed è anche conosciuto come il 
Santuario della Divina Misericordia, oggetto di pellegrinaggi da tutt'Italia
Fuori dalla Chiesa di S. Lucia in mezzo allo spiazzale, da dove si gode uno dei più bei panorami 
della Campania, sorge una cappellina votiva. Nell'interno sull'altare é sospesa un'antica croce di 
legno della quale si serviva il servo di Dio Fra Matteo da Marigliano, che curò la costruzione del 
convento come di tutti gli altri conventi che sorsero tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, per la 
diffusione della riforma. Ai due lati della Croce sono dipinti S. Francesco e S. Matteo in atto di 
adorazione. Sulla parete esterna a sinistra dell'edicola é murata una lapide che ricorda come Fra 
Matteo da Marigliano inalberava quella croce, alla presenza del popolo commosso, ed implorava la 
pioggia o il sereno a secondo dei bisogni e Dio esaudiva le sue preghiere.
A ricordo della Croce fu composta la seguente epigrafe che é un bel documento per il servo di Dio 
per il convento di S. Lucia.

QUAM CRUCEM REPARATAE ILLUD .HUMANAE.E. SALUTIS. PIGNUS.
CASERTANIS. VEL. PLUVI AM. VEL.
CO ELI. SERENITATEM.
EXORATURIUS. VEN. SERV. DEFR. MATTHAUES. A. MARI LI ANO PROXIM. S. LUCIAE COENOBII XVI. VERGENTE. SAECULO. FUNDADOR. ADFUNDAM. ADORANDAMQUE. PROPOSUIT EAM IPSAM VETERI. DILAPSO.SACELLO IN HOC. ELEGANTIORI.DE S. P EXCITATO SED.NULLO.INDE.JURE SIBI.ADQUISITO ANGELUS. BRUCHERIUS.DOMO.MEDIOLANO PRO SUA. PIETATE CONLOCANDAM CURAVIT. A.D. MCDCCLXXIX

Il Venerabile servo di Dio Fra Matteo di Marigliano fondatore, alla fine del 1500, del Vicino convento di S.Lucia, pose in un tempietto la Croce, pegno sublime della salvezza del genere umano, perché fosse oggetto di Adorazione da parte dei casertani che qui affluivano per invocare da Dio la pioggia o II sereno. Poiché il Vetusto Tempietto andò ini rovina, Angelo Brucherio di famiglia Milsanese, animato da pietà religiosa, a sue spese e senza rivendicare alcun diritto o privilegio, fece costruire questo nuovo tempietto con maggiore eleganza, poiché vi fosse collocata quella stessa Croce per l'adorazione





La  Statua di Santa Lucia donata da Ferdinando II di Borbone




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Santuario Diocesano di Santa Lucia – Chiesa Campestre di S. Maria di Macerata

14.

La  Chiesa Campestre di Santa Maria  Macerata



Il possesso della Chiesa come dipendenza dell’Abbazia di San Pietro ad Montes non risulta nelle 
relazioni del 1590 - 1592, più o meno sintetiche,  del vescovo  Bellomo; in quella, molto dettagliata 
del vescovo  Gentile del 1605; in quella di Diaz risalente al 1618.
Come grancia dell’Abbazia appare nella “Relatio ad sacra limina” del vescovo Diaz nel 1621.

L’Abbazia aveva come grancia la chiesa di Santa Maria Macerata dove si potevano
costruire l’abitazione del fattore e un granaio. 
Come già accennato, l’Abbazia di San Pietro ad Montes  era passata il 28 dicembre 1795 al 
patrimonio di Casa Reale, per motivi non ben precisi ma che probabilmente erano collegati alla 
soppressione dei beni ecclesiastici di alcuni ordini, diventando quindi di regio patronato per essere 
trasferita all’Amministrazione del Real Sito di San Leucio.
Descrivendo il fondo dell’Eremo chiamato “ Territorio di Santa  Maria Macerata”, 
in realtà costituito da due fondi contigui. Uno dove si trovava l’eremo e che fu interamente 
trasferito, come permuta, ai fratelli Forgione per un terreno che avevano ceduto 
all’Amministrazione di San Leucio ed un altro fondo contiguo di circa 6  ha da cui erano stato 
staccati 1882 mq per essere consegnati sempre alla ditta Forgione.
Restarono quindi all’amministrazione di San Leucio l’Eremo e i 6 ha di terreno
Nel 1627, la chiesa che era detta anche “Mater Dei” fu citata nel “palatium” del Signor dottore 
Giacomo Vivaldi durante la visita pastorale del vescovo Cornea del 1627.
I Vivaldi erano forse entrati da poco nel possesso del feudo Macerata dato che nel 1610 ne 
erano proprietari i Della Ratta con Camillo.
Riguardi alla Famiglia Vivaldi risulta  un Giovanni Maria Vivaldi (nato il 20 gennaio 1632 e 
deceduto nel luglio 1705) che ricevette il titolo di marchese di Trivigno in Basilicata con un 
diploma di Filippo IV  re di Spagna, datato 2 maggio 1662.
Una famiglia che faceva parte del patriziato genovese e risalente al XII secolo. Nel 1558 un 
Girolamo Vivaldi fu eletto doge e ancora prima nel 1408 un Percivalle era anziano nella 
Repubblica di Genova.
Il documento del Vivaldi citava la chiesa come interna all’abitazione. Dell’antico palazzo non c’ 
alcuna traccia, forse sogli degli scavi nel giardino circostante potrebbero rilevare indizi ben precisi.  
L’edificio che attualmente si trova a destra della chiesa è d’epoca moderna e potrebbe essere stato 
costruito sui resti dell’antico edificio padronale che era prima appartenuto anche ai Della Rata.
I padri visitatori, come riporta il documento del 1627, visitarono la chiesa su incarico del vescovo 
e  compilarono una relazione sullo stato del tempio che

Risultava abbellita da diverse immagini di santi e con un  altare in legno

L’altare era in legno perché probabilmente era mobile.. tutto sembra in ordine  per il culto eppure  
fu relazionato che  ci sarebbe stata...
Una multa di sei ducati se entro quindici giorni non si fosse
provveduto alla purificazione di ciò che non era perfettamente
pulito e decoroso.
La visita Pastorale del 2 novembre 1627, nella scheda  (foglio n.3), in merito alla Chiesa di Santa 
Maria Macerata:
Eodem die
Idem P.P. visitatores accesserunt ad visitandam Capp.am sub titolo Mater Dei,
seu Sancta Maria Macerata intus palatium D.mi Doctoris Iacobi Vivaldi cum
diversis immaginibus sanctorum et quattuor candelabris, tribus mappis,
altare portatili et ante altari decenti, predella lignea, missali planeta et omnibus
necessariis ad celebrationem fuit promisum quod provideat de prificandiis,
decentibus et immundis infra dies quindici sub pena ducatis sexium”

Nello stesso giorno allo stesso modo i Padri Visitatori andarono a visitare la
Cappella sotto il titolo di “Mater Dei” o “Santa Maria Macerata” nel palazzo del
Signor Dottore Giacomo Vivaldi con varie immagini di santi e quattro candelabri,
tre tovaglie, altare portatile ed paliotto decente, predella di legno,  messale, pianeta e tutto il necessario per la celebrazione (delle Messe) fu promesso che avrebbero
provveduto a far purificare le cose decenti e quelle sporche nel giro di quindici giorni
sotto la pena di sei ducati.”
Volendo schematizzare nel:
1635 ; fu riportata nel catasto della Città di Caserta;
1655; fu citata come cappella e nel Casale di San Clemente sempre nelle mappe del catasto;
1762; fu definita come “cappella rurale” nell’inventario che il parroco Don Giuseppe Fusco scrisse 
nella sua visita pastorale;
1773; citata da Esperti (Esperti Crescenzio, Sacerdote  casertano) come appella con Romito che si mantiene con elemosine”
La chiesa non era una parrocchia ed era retta da un sacerdote che viva da solo come eremita e la 
stessa chiesa non era più frequentata come una volta dato che la popolazione s’era spostata verso  
la vicina “Villa” di san Clemente.
Nel 1778  fu un anno di grande importanza per la sopravvivenza della Chiesa di Santa Maria 
Macerata.  La chiesa fu oggetto di un privilegio concesso da papa Pio Vi e che fu documentato con 
una lapide murata nell’atrio della chiesa.
Fu concessa l’indulgenza plenaria a coloro che visitavano la chiesa durante la settimana della 
Natività della Vergine e in occasione della Pentecoste e l’indulgenza parziale per colore che invece 
visitavano la chiesa nelle domeniche e nelle feste del mese di maggio.
PIUS  VI. P.M. / CAVIT  IN  PERPETUUM / UT  QUI  ECCLESIAM   S. MARIAE
QUAE  EST  IN  LOCO  MACERATA  MUNDO  CORDE  ADIRENT/
DUE  DOMINICA  INFRA  OCTAV,  NATIVIT.  B.M.V.  ET  TRIBUS
DIEBUS  PENTECOSTES  PLENISSIMAM  PECCATORUM  VENIAM /
SINGUL.  VERO  DOMINICIS  ALISQ.  DIEB.  FEST.  M.  MAI /
SEPTEMNEM  ET  QUADRAGENARIAM  LUCRARENTUR /
PONTIFICATUS  D.  N.  ANNO  III


Pio VI Pontefice Massimo pose in perpetuo affinchè quelli che visitano
con cuore puro la Chiesa di Santa Maria, che si trova nel luogo di Macerata,
nella domenica tra l’ottava della Natività della Beata Vergine Maria
e nei tre giorni dopo la Pentecoste possano guadagnare l’indulgenza plenaria,
invece in ogni domenica o altre feste del mese di maggio (indulgenza parziale)
di sette anni e quadragesima. Nel terzo anno di pontificato di
Nostro Signore (1778)”

Non si conoscono i motivi per cui il papa concesse l’indulgenza. Forse fu spinto da qualche nobile 
del luogo, l’edificio era isolato rispetto al territorio dell’Università di Caserta, oppure dal sovrano 
Ferdinando I di Borbone  (IV di Napoli) che amava i luoghi solitari  e marginali e che spesso 
passava davanti alla piccola chiesa per recarsi nei luoghi delle Riserve di caccia.
L’ultima ipotesi sarebbe la più plausibile dato che lo stesso, molto attento nella gestione del 
territorio, volle restituire al piccolo edificio di culto la sua originaria importanza come punto di 
riferimento topografico del territorio. infatti nella cartina topografica che Ferdinando I fece 
redigere dal cartografo Giovanni Antonio Rizzi Zannoni nel 1785, fu riportata la chiesetta di San 
Maria Macerata.



Durante il colera del 1836-37, il terreno accanto alla chiesa diventò il cimitero per le vittime della 
terribile epidemia.
La notte del 18 giugno 1837 il piccolo cimitero accolse le spoglie di maddalena Morronese, la 
prima cittadina di San Clemente morta ufficialmente di colera.
Per non turbare i cittadini, le salme dei colerosi, venivano chiusi nelle casse funebri e traportati nei 
cimiteri durante la notte.
Il parroco scrisse:
433.  Anno  Domini  Millesimo  Octuagesimo  trigesimo  septimo;
die  vero  duodevigesimo  Junii,  Magdalena Morronese,  vidua  Iosephi  Cutilo,
aetatis  supra  septuagesimum,  Sanctis  paenitantiae  et  extremae 
unctionis  munita, animum  Deo redditi,  cui  morienti
............. ego..........Paroclus;  cuius  cadaver  sequenti  nocti  mandatum
Fuit  sacro  lumo  contiguo  sacello  Sanctae  mariae  loco  dicto  Macerta,
peste  cholerica infectis  destinato, ita  est  et  in  fidem
Paschalis  Brignola   Paroclus

Atto di Morte di Maddalena Morronese,
Libro dei Morti, 1827 -1869
Il giorno diciotto di giugno dell’anno del Signore 1837, Maddalena Morronese,
vedova di Giuseppe Cutillo, dall’età di oltre settanta anni, munita
della Santa Penitenza e dell’estrema Unzione, rese l’anima a Dio,
e mentre lei moriva io Parroco ero presente;
il cadavere della quale la notte seguente fu mandato nella terra sacra vicina alla
cappella di Santa Maria nel luogo detto Macerata, destinato agli
infetti di peste colerica; così ed in fede.
Pasquale Brignola Parroco.

Nel piccolo cimitero di Santa Maria Macerata furono seppelliti anche le vittime delle frazioni 
circostanti. Tra questi anche il figlio del giardiniere John Andrew Graefer (progettista ed esecutore 
dei Giardini Inglesi della Reggia e di altre opere a verde come a San Leucio), Giovanni  Graefer
Atto di morte di Giovanni Graefer
Govanni Grafer, figlio delli furono Giovanni Andrea ed Elisabetta Corsi,
marito di Maddalena Giaquinto munito dei SS. Sacramenti
morì il 20 luglio 1837, ed il di lui cadavere fu sepelito
in S. Maria di Macerata = morto di colera =
e una delle due sorelle Costa, proprietarie della storica statua di Sant’Anna protettrice di Caserta.
Ben presto l’area cimiteriale di Macerata non fu una soluzione d’emergenza dato che il vescovo 
Domenico Narni Mancinelli nel 1839 chiese di localizzare a Santa Maria Macerata il nuovo 
cimitero di Caserta , risparmiando la Zona di Puccianiello dal dover accogliere tutti i defunti del 
Comune.
Nel 1839 il cimitero di S. Maria Macerata fu avviato alla chiusura come dimostra una lettera del 
Sindaco di Caserta, cav. Bitetti, all’intendente della “Provincia di Terra di Lavoro,  in merito alla 
mancanza di spazio per nuove sepoltura.
Nel 1871 il luogo è  isolato e nella vita pastorale fu definita dal parroco Vincenzo Brignola 

Cappella campestre... custodita da due eremiti con approvazione della Reverenda Curia Arcivescovile sotto la vigilanza del Sacerdote don Michele Valentino con dipendenza dal parroco.

L’8 settembre, malgrado la sua funzione di area cimiteriale per i periti di colera, si svolsero i 
festeggiamenti in onore della Vergine secondo un’antica tradizione.
Un documento del 17 gennaio 1892 citava questa  festa detta “della Macerata” e un  altro articolo 
dell’aprile 1913, riportato sul bisettimanale “Terra di Lavoro” raccontò un  avvenimento di gran 
fede.
Ci fu una disposizione del commissario prefettizio  Umberto Rossi di ripristinare la strada 
d’accesso a Sana Maria Macerata, che era stata cancellata da qualche proprietario terriero, per 
permettere lo svolgimento dei sacri festeggiamenti.
Avvenne dell’incredibile in una sola mattinata la strada fu ripristinata e riaperta al pubblico grazie 
al lavoro volontario di tutti i compaesani.
Sembra una storia d’altri tempi...
Grande l’entusiasmo, Basti dire che ciascuno volontariamente è accorso
a dare la sua opera gratuita, e fu uno spettacolo commovente.
Un pittoresco affollarsi di uomini volenterosi, un febbrile formicolio di
volenterosi operai, che resero possibile questo fatto;
che la campagna ancora intatta al mattino, era stata falciata dell’erba,
inghiaiata, battuta e percorsa alle ore 11”.

 Il legame con la frazione di san clemente si mantenne sempre molto forte. I reduci della prima 
Guerra Mondiale, il 14 dicembre 1919 si recarono nella piccola chiesa per ringraziare la Madonna e 
per pregare per la patria.
Nel 1980 la chiesa era in condizioni statiche ed igieniche molto precarie. Fu restaurata ed il terreno 
adiacente, un tempo cimitero, fu utilizzato per la creazione di un parco giochi. Ma a partire dagli  
anni ’90 la struttura era in abbandono e si decise di portare la statua della Madonna, dell’Ottocento, 
a san Clemente dove si trova tutt’ora.
I restauri del 2010 restituirono la chiesa al culto ed alla devozione e tradizione popolare.
Gli studiosi, Bartolomeo Corbo e Pietro Di Lorenzo, nella loro attenta ricerca sull’edificio misero 
in risalto degli aspetti strutturali ed artistici per attribuirle una datazione.
L’edificio è sottomesso di circa un metro al piano stradale e la quota di fondazione è sottoposta in 
modo rilevante all’attuale piano di campagna (rialzato per i depositi alluvionali defluiti dai colli 
vicini).
In merito al suo orientamento presenta un perfetto allineamento Est – Ovest , tipico per molte 
medievali e per gran parte delle chiese del XV secolo della diocesi di Caserta e che non siano state 
oggetto di trasformazioni planimetriche  nei secoli successivi. La sua posizione non è infatti legata 
nessun vincolo ambientale come corsi d’acqua o presenza di un’antica viabilità storica anche 
romana. Fu quindi un orientamento voluto secondo una tradizione tipica medievale.
Dopo aver considerato due aspetti planimetrici che potrebbero suggerire una datazione molto antica 
dell’edificio si prenderanno in esame alcuni aspetti architettonici sia interno che esterni allo stesso 
edificio.
Sul prospetto laterale Nord è presente una piccola finestra strombata forse una monofora
medievale.  Questa piccola finestra fu chiusa, con molta cura a giudicare dalla messa in opera del 
materiale di riempimento, per permette la realizzazione della volta di sostegno della cantoria. 
L’unico indizio medievale della chiesa ?
Le pareti sono tutte intonacate e solo il muro dell’edificio, posto a levante, dove era presente 
l’abside, mostra una muratura in tufo squadrato piuttosto regolare e la traccia di u tetto, a copertura 
dello stesso abside, che è scomparso.




Nel prospetto è presente un’altra finestra murata, con il riempimento disposto in modo grossolano, 
per permettere la sopraelevazione dell’abitazione del parroco. Una finestra murata probabilmente 
verso il 1900.
Il campanile è a pianta quadra, si eleva dal timpano della chiesa per un solo livello ed è una 
costruzione più recente. Un aspetto decisamente interessante  è costituito da un arco voltato che dà 
l’accesso ad un piccolo vano che introduce nell’aula.


Questo atrio fu forse realizzato nel 1800 quando s quando furono eseguiti  dei lavori pubblici in 
diverse chiese di Caserta.
Sopra l’arco è posta la cantoria a cui si accede dal primo piano del  campanile. Secondo gli studiosi 
la posizione del campanile e la presenza di questo piccolo vano arcuato d’ingresso all’aula, 
potrebbero fare avanzare l’ipotesi di come la chiesa fosse in origine più arretrata rispetto 
alla  posizione odierna e nell’ottocento si decise di  allineare la chiesa con il campanile.


L’aula si presenta ad unica navata con copertura piana per quasi 2/3 e l’ultima parte, nella zona del 
presbiterio, presenta una copertura con volta a padiglione ribassata nel centro della volta è inserita 
una tela che è firmata dal sacerdote Pasquale Busacca e datata al 1921 raffigurante la “Madonna 
con il Bambino e gli Angeli”.




Le finestre dell’aula sono poste tra la coppia di cornici ad arco su pilastri coperti dalla muratura. 
Tre delle quattro cornici presentano come chiave di volta un cherubino  con quattro ali, secondo la 
tradizione biblica, inserito da tue tondi  che recano un fiore stilizzato con petali. La seconda cornice 
sulla destra non presenta sulla chiave di volta dell’arco il cherubino.


Gli studiosi si posero il quesito sulla funzione di queste cornici.
Semplice elemento decorativo oppure contornavano degli affreschi o davano accesso ad altari 
laterali leggermente sporgenti dai muri laterali dell’edificio ?
In corrispondenza del presbiterio nei primi decenni del 1900 fu aperta una cappella laterale dove si 
trova custodito l’antico baldacchino, in legno stuccato e dorato e a pianta ottagonale, in cui era 
collocata la statua della Madonna di Macerata prima che venne posta definitivamente nella Chiesa 
di San Clemente.
Su una delle facce del plinto del baldacchino sono riportati (in rilievo e dorati) la data
17  giugno 1877  e il monogramma mariano  ( MA    O  AM)).


La volta ribassata di questa cappella laterale presenta delle decorazioni e dipinti d’autori ignoti e
realizzati dopo il 1920.
Raffigurano in medaglioni negli spicchi i cartigli recanti titoli marani ( Rosa Mistica, Regina Pacis, Stella Matutina, Mater Purissima) e, in quattro tondi, posti al 
centro degli archi dipinti nella volta, i busti dei quattro Evangelisti on i cartigli identificativi. Questi 
disegni potrebbero essere attribuiti a Luigi Taglialatela (Giugliano, Campania, 1877; Giugliano, 
1953) uno dei più importanti pittori decorativi del territorio nella prima metà del Novecento e 
molto attivo sia a caserta che a Maddaloni.
Il cartiglio con l’attributo “ReginaPacis” potrebbe confermare questa attribuzione perché 
l’attributo mariano fu legato ad una delibera di papa Benedetto XV risalente al 1915. Un delibera 
che introduceva il titolo di “Regina della Pace” tra quelli delle “Litanie della Madonna”.
Epistola al cardinale Pietro Gasparri segretario di Stato affinchè i vescovi
di tutto il mondo aggiungano nelle litanie lauretane l’invocazione
“Regina Pacis, Ora pro nobis” (Roma, 27 aprile 1915)






Erano presenti due acquasantiere in marmo e risalenti a fine Settecento, che furono trafugate nel 
1970 circa. Il paliotto dell’altare è in marmo e reca un tondo centrale con una croce gigliata e 
stellata, forse dei primi decenni del 1800.
La parete di fondo presenta un timpano triangolare spezzato che poggia su una cornice a dentelli 
che è soprastante ad un architrave decorato a fogliame on due putti agli estremi e al centro, il tutto 
sostenuto da una coppia di paraste terminanti con capitelli compositi.


Le due metà del timpano inquadrano uno stemma (a forma di cartiglio arrotolato) al cui centro è il 
monogramma mariano  “MA”. una coppia di angeli poggia una corona reale sullo stemma (una 
raffigurazione risalente all’Ottocento).


Nell’abside è presente l’affresco che raffigura la Madonna con il Bambino, seduta in trono, 
attorniata da Angeli. Il disegno è racchiuso da una cornice rettangolare composta da una coppia di 
nastri (giallo e rosso) che s’incrociano formando oculi all’intero dei quali è presente un trifoglio 
lanceolato.
Alcuni storici attribuirono l’affresco al periodo rinascimentale entre altri fecero riferimento ad una 
“lezione senese” medievale.
Il De Rose Orange attribuì l’affresco, senza gli angeli, ai secoli XIII – XIV con successivi 
rifacimenti.
È probabile che la muratura dell’abside sia anteriore all’affresco e quindi lo steso abside aveva 
precedenti affreschi.
Infatti furono trovate, attraverso il restauro di De Rose Orange, ai lati della figura della Vergine dei 
panneggi di tuniche rosse. Forse abiti appartenenti a santi o Apostoli e disegnati su un fondo 
azzurro.


Particolare dell’affresco risalente al XVII secolo

Residuo dell’affresco, poi coperto, risalente al XII – XIII secolo

Particolare dell’iscrizione (1618 o 1678)
L’immagine delle Vergine fu quindi sovrapposta su  un immagine precedente forse della stessa 
Madonna. Infatti i tratti stilistici sembrano collegare la stessa immagine ad un periodo posteriore 
all’età medievale. Questa ipotesi sarebbe confermata dalla presenza delle decorazioni fioreali e 
geometriche presenti in altri tratti della parete e dalla scritta che sarebbe il punto cruciale per la 
datazione dell’affresco.
L’iscrizione, presenta sulla cornice esterna dell’affresco si presenta come:

“...... LI  *9*  INNARO 16 [18 o 78]
Da interpretare come una data
(9 gennaio 1618 o 1678)
Il de Rose Orange attribuì la data al primitivo affresco “del primo millennio” e dichiarò di aver “... 
ripresa la scritta che non era più leggibile”.
Ma per grafia e caratteri (le cifre arabe all’epoca non era ancora note) l’iscrizione è del tutto 
incoerente per il medioevo (almeno prima del 1300) e delinea in piena coerenza con i tratti stilistici 
ed icnografici, una data del 1600, forse relativa ai primi decenni del secolo. Un periodo in cui il 
feudo passò dai Della Ratta ai Vivaldi oforse all’ottavo decennio del 1600.
La tabella dipinta e sottostante all’affresco riporta invece alla datazione di un intervento di 
ripristino avvenuto nel 1970 - 1980


In origine esisteva quindi una piccola chiesa medievale, ad unica navata, con una sola abside, come 
l’attuale ma sicuramente più alta,  con quattro finestre monofore per ciascun lato della navata e 
ricoperta a capriata lignea.
Il de Orange propose come “in origine doveva essere una cappella per i viandanti, e solo dopo 
hanno costruito l’edificio per le accresciute eseigenze degli stessi”, ma nella bolla di Senne del 
1113 era riportata come “ecclesia”.
Prbabilmente nel 1500, prima della realizzazione dei quattro archi decorativi, furono aperte le 
finestre rettangolari allargando probabilmentele monoffore originarie. Il passaggio del feudo da 
Della Ratta ai Vivaldi,  avvenuto dopo il 1612 e prima del 1627fu l’occasione per restauri e 
abbellimenti della chiesa. Forse risalgono proprio a questo periodo i lavori seicentieschi con la 
realizzazione delle quattro cornici ad arco e quasi certamente anche l’affresco principale 
dell’abisde e le decorazioni floreali.
 Da fine Settecento o dai primi dell’Ottocento la piccoloa chiesa fu ridecorata (paliotto dell’altare, 
parete terminale)  ( forse per svolgere la funzione di cappella mortuaria per il vicino cimitero dei 
colerosi). Ulteriori interenti si ebbero a fine 1800 (statua) e poi tra le due Guerre mondiali (cappella 
laterale, tela di Buscca per il soffitto e la lapide memoriale del 1919 per i reduci della terza:

di redenzione umilmente prostrati ai piedi della Regina della Pace

Statua della madonna di Macerata in una cartolina del 1900

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Altri file  su San Leucio

San Leucio (Caserta) - Viaggio nei territtori delle Abbazie di Regio Patronato –
Prima parte : Da San Leucio a Pozzovetere

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