LE FILANDIERE - IL FILO DELLA MEMORIA - ENCICLOPEDIA DELLE DONNE - XI PARTE

 





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Indice
1.      La Sericoltura – I Riti – San Giobbe e i Cristèe
2.      Il Lavoro delle bambine e delle donne nelle filande;
3.      La vita nelle filande : Il pranzo –  I canti (Video) – Le Forestiere -  La Trattura (Video)
4.      I Primi scioperi delle filandiere;
5.     
I Documenti

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1. La Sericoltura - I Riti - San Giobbe - I Cristèe

A Messina fino ai primi anni del secolo scorso durante la festa dell’Ascensione si svolgeva un antico rito.




La sera precedente la festa, la gente si recava numerosa sulla spiaggia. Giunti sulla battigia s’inginocchiava e ripeteva per nove volte di seguito una preghiera: 
Ti salutu fonti di mari,/ ccà mi manna lu Signuri:/ tu m’ha dari lu to beni,/
jò ti lassù lu me mali.
(Ti saluto fonte di mare, / qua mi manda il Signore: / tu mi devi dare il tuo bene, /
 io ti lascio il mio male).
 
Il cerimoniale non finiva con la preghiera perché tutti raccoglievano un pugno si sabbia con un preciso scopo come racconta il Pitrè.
“L’arena raccolta andavano poi a gittarla su tutti i tetti delle persone che allevavano il baco da seta, gridando con gioia:
“Setti liviri a cannizzu”.
 
Era un augurio…”sette libbre di bozzoli a graticcio”  un guadagno decisamente superiore a quello che rendeva mediamente la bachicoltura. Un allevamento difficile perché c’erano degli anni di mancata produzione che la gente imputava a San Giobbe, protettore dei bachi, considerato “tradituri” e tollerante verso le “fattucchiere” che mandavano il “malocchio” ai flugelli (i piccoli bachi).

Nella chiesa di San Giovanni Battista, ad Alba, si trova un
quadro, olio su tela, che raffigura San Giobbe, opera
di Chiantore Giuseppe (Cumiana, Torino,1747 – Torino, 1824) risalente al 1823.
Al centro della composizione si trova la maestosa figura di San Giobbe seduto su
assi ricoperti di paglia. Il santo rivolge lo sguardo a tre persone che si trovano sulla destra. Il suo corpo è nudo, cinto solo da ampi panneggi del manto dal
colore arancione, ed è caratterizzato da muscoli che sono messi in evidenza.
Per terra, ai piedi del Santo, si trovano i rami raccolti di gelso e un rocchetto.
Elementi che si collegano alla bachicoltura, alla conseguente produzione di
seta e al mercato dei bozzoli e delle foglie di gelso che si teneva proprio
nella piazza antistante la chiesa di San Giovanni. San Giobbe è infatti
il protettore dei bachicoltori e quindi anche del baco da seta.
 Secondo la tradizione dalle piaghe che furono inferte da satana a San Giobbe,
uscirono dei vermi che diventarono bachi da seta. Da questo miracolo
si ritiene quindi che San Giobbe sia protettore degli allevatori del baco da seta.
L’opera fu commissionata dalla Società dei Filanti da seta di Alba che
fece collocare il quadro sull’altare di Sant’Onorato per pregare il santo protettore.
Una delle principali attività di Alba era la filanda che proseguì fino al 1958.

Una figura biblica, comune ai cristiani ed ai musulmani (Job e Ayyub),  presente nelle tradizioni popolari come protettore dei bachi e dei suoi allevatori con una leggenda. Una leggenda, narra la storia di Giobbe e delle sue sofferenze, giunta in Italia verso il XIV secolo e particolarmente diffusa nel Nord Italia soprattutto nel Bellunese.

Giobbe era un sant’uomo, e non faceva mai peccato. Una volta il diavolo disse al Signore:
Che meraviglia, se non fa mai peccato! Ha tutto quello che vuole!
Il Signore rispose:
Fa di Giobbe quello che vuoi!
 
Il diavolo, per prima cosa, tolse a Giobbe tutte le sue ricchezze, ma Giobbe non so lamentò.. allora gli mandò la malattia... E Giobbe la sopportò.
Il diavolo aggravò la malattia e il corpo di Giobbe si riempì di piaghe  che emanavano un cattivo odore e si riempirono di vermi.
Un giorno la moglie prese Giobbe e lo portò lontano da casa ponendolo sopra un letamaio. Le persone che passavano lo deridevano ma l’uomo non si lamentava.
Sul letamaio crebbe un albero dalle foglie verdi, che faceva a Giobbe una magnifica ombra. Su quest’albero si arrampicarono i vermi mentre l’uomo pregava di continuo.
Il Signore, visto che Giobbe non commetteva mai peccato, andò dal diavolo e gli disse:
“Visto come Giobbe è stato paziente ? Adesso su di lui comando io !
Il Signore diede allora a Giobbe il doppio delle ricchezze che possedeva e pose fine alla sua malattia.
Trasformò l’albero del letamaio in gelso e i vermi diventarono bachi da seta. L’uomo tornò a casa felice di rivedere la sua famiglia.
( Giobbe oltre alla perdita delle ricchezze sopportò con rassegnazione anche la perdita dei suoi sette figlie e delle tre figlie che morirono nel crollo della casa di uno di loro).
Il sopraggiungere della malattia e la derisione della moglie Rama  lo porteranno ad esclamare:
«Ero sereno e Dio mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore»
Sopportò i rimproveri dei suoi tre/quattro amici (Eliphaz il Themanita; Baldad il Suhita; Saphar il Naamatita e un certo Eliu)  senza bestemmiare.
Gli amici lo rimproverarono perchè aveva accusato Dio e cercarono di spiegare il suo dolore affermando che la colpa fu commessa dai suoi genitori e lui stava scontando la pena per loro.
Nè gli amici e nemmeno lo stesso Giobbe riuscirono a risolvere il problema del giusto che soffre fino a quando, alla fine del libro, non apparve Dio che mise sotto processo lo stesso Giobbe:
Quando io ponevo le fondamenta del mondo, tu dov'eri?
Dio rivendica la sua onnipotenza rispetto alla miseria dell’umanità. L’uomo può trovare una risposta al dolore e al male solo decidendo di affidarsi a Lui.
"I suoi amici sono condannati ad offrire un sacrificio di espiazione per il loro ingiusto e crudele comportamento nei riguardi di Giobbe e questi, proclamato innocente, viene restituito alla sua antica felicità nel godimento di beni due volte superiori a quelli che aveva avuto precedentemente.
Riebbe i suoi armenti, generò di nuovo sette figli e tre figlie, visse ancora altri centoquarant'anni e "vide i suoi figli e i figli dei suoi figli fino alla quarta generazione e morí vecchio e pieno di giorni"

Giobbe deriso dalla moglie Rama
Artista: Georges du Mesnil de La Tour
(vic-sur-Seille, 10 marzo 1593 – Luneville, 30 gennaio 1652)
Pittura: olio su tela -  Misura (145 x 97)cm
Collocazione: Musèe Dèpartemental des Vosges, Epinal (Lorena, Francia)


Giobbe sul letamaio
Artista: Preti Mattia
(Taverna, 25 febbraio 1613 – La Valletta, 3 gennaio 1699)
Datazione: ?
Pittura: Olio su tela – Misura (203 x 264) cm
Collocazione: L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo

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Un altro rituale particolarmente diffuso nell’Alto Milanese, nella Brianza e nel Comasco era il “Cristèe” si cui si univano elementi magici popolario e forme religiose.
Manifestazioni che, secondo alcuni studiosi, erano ancora presenti nel 1959 a Seregno, nelle zone di Briosco, Casatenovo e a Gaggio di Nibionno.
Un rito che era molto diversificato secondo i luoghi.
“Si dava la benedizione ai locali in cui avveniva l’allevamento dei bachi. I protagonisti del rito erano dei ragazzi che, durante la Settimana Santa, percorrevano le vie del paese portando il “Cristèè”, cioè una Crice con i simboli della Passione e una ghirlanda di alloro e fiori. Entravano nelle case e nella bigattieria percuotendo con il loro bastone il soffitto e pronunciando un inno alla Passione con ritornelli profani. Il tutto era accompagnato dalla raccolta di offerte”.
Un rito che presentava aspetti sacri e profani e forse in origine magico protettivo.  La bachicoltura aveva inglobato pratice magiche antiche e cioè presistenti. Una festa di propiziazione dalle origine pagane e forse collegata al calendimaggio, imperniata sull’uso di simboli vegetali, in cui si inneggiava alla natura in fiore e alla bellezza delle fanciulle a cui veniva offero, in segno di devozione, un ramoscello verde (maio).
In questi centri la manifestazione rituale assumeva quindi un carattere economico e sociale.

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Il  rito messinese, che si svolgeva durante la festa dell'Ascensione, fu anche citato da Tommaso Cannizzaro (1848 – 1912) per mettere in evidenza la grande importanza economica e culturale dell’attività della bachicoltura per la produzione di seta che fu per tanti secoli un  aspetto importante e di pregio dell’economia messinese, sia in città che nella provincia. Un allevamento che influenzò i comportamenti dei contadini messinesi dato che molti tenevano la bigattiera in casa per avere la possibilità di un modesto reddito.

Una donna raccoglie i bozzoli, staccandoli dalle fascine di paglia, dove il baco aveva terminato la fase della maturazione, avviluppandosi attorno ai fili sottili, presso una bigattiera, azienda agricola adibita alla bachicoltura. MARTIGNACCO (UD) /Ceresetto, 1957. Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia
In realtà la bigattiera è il locale dove si allevano i bachi da seta o anche
il tavolo sempre per l’allevamento del baco.

All’allevamento del baco badavano in massima parte le contadine che dedicavano ai filugelli lo stesso amore o attenzione che rivolgevano ai propri figli. I racconti parlano di uova del mutevole insetto che, avvolte con amore in un panno di lino, venivano fatte scovare tra i seni delle bachicoltrici. Le donne avevano un rispetto che solitamente si porta alle gestanti.  Certo in periodi di miseria a quei filugelli era legata la possibilità di un piccolo reddito per vivere. Le massaie seguivano con amore le varie metamorfosi dei filugelli. Appena nati cominciavano a brucare le foglie che le donne sminuzzavano nei vari graticci. La giusta alimentazione li faceva crescere e dopo ben quattro mute, si rinchiudevano in bozzoli formati dalla loro stessa bava,,, in gergo si diceva che “salivano al bosco” e dopo una quindicina di giorni usciva una farfalla. Diciamo che i più fortunati riuscivano a diventare farfalla perché a loro era assegnata la continuità della specie mentre gli altri e numerosi bozzoli venivano inviati velocemente alle filande per estrarne la seta. Le poche farfalle uscite dall’involucro sericeo, le più “fortunate” non perdevano tempo ad accoppiarsi per deporre nell’arco di poche ore numerose uova per poi…. subito dopo…. morire

L’attività della bachicoltura è un fatto culturale assodato nel territorio. Difficile è invece stabilire la sua genesi quando cioè fu introdotta in Sicilia.
È probabile che la città di Messina, con il suo porto importante sin dall’antichità, sia stata una delle prime stazioni europee lungo quella che veniva chiamata la “Via della Seta” che nacque in Cina nel 2600 a.C.
Al tempo di Giustiniano i bachi da seta fecero la loro apparizione anche a Bisanzio. Le uova erano nascoste dentro i bastoni dei monaci che l’imperatore aveva mandato in Asia per diffondere il messaggio cristiano.
In Africa e nel Nord Europa l’allevamento del baco fu introdotto dagli Arabi ma furono i Normanni che favorirono l’allevamento grazie all’incremento dei gelseti a scapito del cotone e svilupparono anche l’industria della seta con l’utilizzo di manodopera specializzata proveniente dalla Grecia e con gli stessi Arabi che entrarono a fare parte di laboratori reali dove prestavano la loro professionalità.

«A Vienna – nota Denis Mack Smith – esiste ancora un bel manto di seta in cui è ricamata un’iscrizione in lingua araba ove è detto che era stato tessuto nella fabbrica reale di Palermo nel 1133-34: questo laboratorio si trovava nel palaz­zo e vi lavoravano, oltre a operai della seta, orefici e gioiel­lieri». Da Palermo l’industria serica si diffuse prima in tutta la Sicilia e successivamente nel resto dell’Italia, per esser poi estesa alla Provenza, a Marsiglia, a Lione e ad altre regioni d’Europa.
 L’area dove la bachicoltura si sviluppò fu nella Val Demone.
Nel palazzo Reale di Messina probabilmente al momento della sua ultimazione avvenuta nel 1140, ci doveva essere un laboratorio  di produzione d’indumenti reali simile a quello del Palazzo Reale di Palermo. Un laboratorio messinese che produceva stoffe per la città visto che nel 1160 il re Guglielmo concesse alla città l’esenzione dall’obbligo di comprarli dalla corte di Palermo.
L’attività serica a Messina si sviluppò ulteriormente con gli Svevi e gli Aragonesi.
Subì un decremento dopo la cacciata degli Ebrei del 1492 dato che essi detenevano il monopolio della produzione e commercializzazione dei tessuti sericei.
Fu solo un attimo dato che l’attività si riprese grazie anche ai finanziamenti di produttori provenienti da Lucca e Catanzaro.
Nel 1530 Carlo V concesse ai messinesi i Capitoli della Seta
Una importante regolamentazione del processo produttivo gestito in stretto rapporto con il tribunale del Real Patrimonio dai “Consoli dell’Arte” che erano autorizzati a fare delle ispezioni “a tutte hore”, multare i contravventori e all’occorrenza bruciare “in più lochi” la merce scadente.
Nel 1517, quindi tredici anni prima, la regina Giovanna aveva a sua volta accordato ai Messinesi il privilegio di esportare la seta a Cagliari, regno degli Aragonesi” e a Siviglia.
Filippo V stabilì che tutta la seta siciliana doveva essere esportata dal porto di Messina.
C’erano delle industrie che ricevevano importanti committenze da ogni parte d’Europa e non solo. Grazie a questa attività così florida dal punto di vista commerciale, la città diventò “fiera franca della seta” favorendo un ulteriore insediamento di mercanti stranieri, genovesi, biscaglini e addirittura norvegesi.

Nel 1664 a causa della ribellione antiaragonese la città perse il privilegio dell’esportazione esclusiva della seta con conseguenze disastrose in termini economici e di ordine pubblico.

L’attività serica continuò e si riprese con in Borboni grazie ai nuovi Capitoli concessi dalla corona nel 1736 e al parziale ripristino del porto di Messina da cui era obbligatorio esportare la seta prodotta nella Val Demone che era la maggioranza della produzione siciliana.

Richiamando un “Real biglietto” del 13 dicembre 1753, un Bando e Comandamento del Marchese di Trentino, maestro razionale del Tribunale del Real Patrimonio,  stabilì che “tutti gli abitanti della Val Demone dovessero forzatamente immettere le loro sete in detta città di Messina e, volendole estrarre, lo dovevano fare dal medesimo Porto con pagare grana 30 per ogni libbra per l’estrazione, oltre a grana quattro a libra pel pelo [ossia per il trasporto su animali da soma], e gli altri diritti di Regia Dogana, e contravvenendo a tale ordine, si [intendessero] non solo nella perdita delle Sete, ma di dover pagare ancora onze cento per quilibet contravvenzione, a beneficio della Regia Corte […] che in caso di furtiva estrazione di Sete dalli descritti luoghi […] per infra e fuori Regno oltre alle pene di sopra espresse, [avrebbero perduto] gli Estraenti e condutto­ri le Mule, Cavalli, Somari, Carri, Carrette, Bovi ed altri, sopra le quali [si fossero trasportate] dette Sete, e le barche sopra le quali si fossero imbarcate le Sete, o navigate per estrarsi».

Il terremoto del 1783 segnò l’inizio della decadenza dell’attività bachi-sericola. Alla vigilia dell’unità d’Italia si cominciarono ad avvertire i segni di un diffuso disimpegno produttivo dei gelsicoltori, per effetto dell’atrofia di cui erano stati colpiti i bachi (pebrina). Molti proprietari cominciarono ad estirpare i gelsi e a piantare gli agrumi mentre nell’Italia settentrionale s’introducevano nuove razze  di bachi originarie dell’Estremo Oriente. La malattia che aveva attaccato i bachi in Sicilia fu debellata solo nel 1874. Ma la bachicoltura nel Messinese non scomparve, grazie all’iniziativa di un coraggioso industriale inglese, Tommaso Hallan, «che impiantò sistemi meccanici nelle filande» per produrre la seta greggia. Ma già cinque prima la Camera di Commercio di Messina aveva creato un ufficio di coordinamento delle attività connesse all’esportazione dei bozzoli in Francia e nelle città industriali del nord Italia.  Alla fine del secolo c’erano nove filande, sette delle quali a vapore, con circa mille addetti, in gran parte di sesso femminile. Ma il calo della produzione fu inevitabile: dai 22.000 quintali di bozzoli che si producevano nel 1855 si passò ai 17.000 nel 1880, che si ridussero a 15.545 nel 1888 e a 400 a fine secolo. In queste condizioni non può stupire più di tanto se a partire dal 1898 a Gazzi, villaggio a sud di Messina, una grande filanda che dava lavoro a 650 operaie mal pagate, divenne teatro di un continuo stato d’agitazione delle lavoratrici che reclamavano migliori condizioni di vita e di lavoro. La situazione precipitò nel 1904: «un clamoroso sciopero, come non s’era mai visto a Messina, bloccò letteralmente il territorio a sud della città». E la protesta, «che sapeva più di ribellione politica che di rivendicazione sociale», si estese a tutte le altre filande. A segnare l’inizio della fine della residua produzione di seta grezza in Sicilia fu il terremoto del 1908.

Pur nondimeno, in alcuni villaggi di Messina (Gesso, Pezzolo, Santa Margherita, Giampilieri, Massa San Giorgio, ecc.) la bachicoltura sopravvisse di un ventennio anche alla secon­da guerra mondiale dato che i sensali di Roccalumera continuavano a fare incetta di bozzoli per conto di una filan­da. Un’anziana contadina di Pezzolo, molti anni fa, rilevò  che fino al 1957 lei stessa allevava bachi da seta: possedeva una bigattiera capiente di tre cannizzi e covava le uova con i seni.
Nei villaggi e nei borghi si respirava un aria di festa quando giungeva il momento di vendere i bozzoli e si ringraziava San Giobbe per quel piccolo reddito percepito.  Spesso le donne regalavano qualcosa anche al parroco  come  una cotta di seta confezionata artigianalmente (il parroco di Gesso).. Oltre a pochi scampoli di memoria e a qualche documen­to d’archivio, ormai non rimane granché della bachicoltura messinese. Molte filande sono crollate; se ne sono salvate pochissime, che hanno una nuova destinazione d’uso.
Una, a valle di Galati Mamertino, ospita un ristorante. Un’altra, sita nel Capoluogo, è sede del Museo Regionale di Messina. Sopravvivono qua e là alcune piante di gelso, cui ormai è riservato il triste desti­no di proiettare l’ombra sull’ignavia di una classe dirigente che nulla ha saputo o voluto fare per salvare i tratti salienti dell’identità culturale delle operose comunità che hanno reso famosa nel mondo la tradizione serica messinese.
Eppure, soprattutto nei Peloritani, il paesaggio agrario racconta ancora egregiamente questa storia di lunghissima durata. Se sono venuti a mancare i gelseti, resistono le terraz­ze in muratura a secco (armacie) faticosamente costruite dai contadini per mettervi a dimora le piante di gelso. Questo importante patrimonio etno-antropologico è il precipitato sto­rico di vecchie angherie feudali e di patti agrari particolar­mente vessatori che «facevano obbligo al colono di eseguire, insieme alle opere di manutenzione delle strade poderali e delle armacie, i lavori per una buona conservazione della casa colonica». La stessa dimora contadina testimonia  spesso l’allevamento del baco da seta«Serrata alla base dal­l’esiguità dimensionale – osserva Maria Teresa Alleruzzo di Maggio – la casa ha dovuto svilupparsi in altezza, talvolta di tre piani sopra il terreno, dovendo disporre di più locali nei quali ospitare nei mesi primaverili le impalcature lignee a tor­retta (pannalori), su cui vengono disposti orizzontalmente numerosi tramezzi per l’allevamento del baco».
Ma cosa non si faceva per amore del baco da seta (vermu). Se ne face­vano benedire le uova nei venerdì di marzo. Si pregava San’Antonio Abate perché lo proteggesse dal fuoco e dalle formiche, San Zaccaria per preservarlo dai topi. Si cercava di muovere a pietà lo stesso filugello; certe donne di Naso arri­vavano al punto di entrare nella bigattiera perfettamente nude, dicendo ai bachi: vermu, sugnu a nuda, vestimi tu».
Le preghiere, i segni di croce, i riti magici erano all’ordi­ne del giorno. Quando il baco stava per fare la muta, le donne prendevano le necessarie precauzioni, posavano cioè sui gra­ticci tutti i ferri arcuati che riuscivano a procurarsi, «ordina­riamente falci, ronche e roncigli», ma anche uova di galline. Nelle case dove si allevava il baco c’era sempre «un bel paio di corna incastonate al muro»; attaccati all’estremità dei can-nizzi, «teste d’aglio, gruzzoli di sale, conchiglie, denti di porco ed altri ninnoli»; ai muri tante immagini sacre. Si bru­ciava tutti i giorni l’incenso recitando arcaiche orazioni. Si traevano auspici «circa la buona o cattiva produzione della “nutricata” persino dalla vista di una meteora, di una biscia, di un rospo o di una lucertola». E si gioiva, si ringraziava Dio, ci si disperava, ma si sapeva che era tutta questione di fortu­na. «Beato chi ha sorte», si credeva che fosse solito dire lo stesso San Giobbe, lavandosene le mani come Pilato. Rimane il fatto però che, baciate dalla buona sorte o segnate dalla sfortuna, nella provincia di Messina le donne continuarono ad allevare il baco da seta fino a pochi decenni addietro. C’è da chiedersi allora se in quell’area la bachicoltura non possa tornare ad essere un’attività produttiva.
All’inter­rogativo cercò di rispondere un convegno di alto profilo scientifico tenuto il 30 novembre 1984 nel villaggio Salice del comune di Messina con il patrocinio della Presidenza della Regione Siciliana. In quell’occasione uno dei relatori fece notare che bisognava prima ripristinare i gelseti. E aggiunse: «Anco­ra qua e là cresce qualche albero, risparmiato dagli incendi e dall’incuria dell’uomo. Ma occorrerà presto organizzare i vivai le cui produzioni rispondano a rigorosi requisiti geneti­ci e sanitari. Quindi provvedere alla distribuzione agli agri­coltori ne facciano richiesta».
Non se n’è fatto niente, finora. Conforta tuttavia sapere che nel frattempo qualche comune pedemontano dei Nebrodi si è attrezzato per conservare i segni della gloriosa tradizione sericola. A Sant’Angelo di Brolo, per esempio, c’è un Museo di arte sacra all’interno del quale sono conservati dei paramenti di seta prodotti in loco o in altri centri del Messinese. A Ficarra l’amministrazione comunale aveva addirittura istituito, ancorché solo a fini dimostrativi e didattici, la “Casa del baco” dove si allevano i filugelli con li stessi metodi di cui «rimane ancora oggi testimonianza nella memoria degli anziani, nei canti popolari e nel lessico familiare». C’è allora da sperare che gli esempi di questo tipo si moltiplichino e diventino presto oggetto di fruizione turistica e laboratori di innovazione progettuale per le iniziative di sviluppo locale.

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2. Il Lavoro delle Donne nelle Filande

Lugi Einaudi nelle sue corrispondenze giornalistiche riportò il lavoro delle donne del Biellese nell’autunno del 1897. Con grande stile e con un tono disincantato, tipico dell’economista, ritraeva quelle donne che “in molte, forse troppe” si affollavano ai telai, perdendo ben presto “i bei colori della giovinezza” per assumere il “colore pallido, caratteristico degli operai di fabbrica ”. Donne che continuavano a lavorare in gran numero in fabbrica anche dopo il matrimonio e che spesso in chiesa, almeno nelle regioni del Nord, leggevano “l’Avanti”.
 Ai primi del Novecento una serie di ripetuti e gravi malori delle ragazze addette ai turni di notte nei reparti di filatura portò a denunciare le condizioni di lavoro notturno e soprattutto la mancanza di ogni soccorso per le “disgraziate fanciulle” vittime di un infortunio, di un malore improvviso, di uno svenimento. L’unica prospettiva  era quella “di attendere fra quelle fitte del male l’alba del mattino o avventurarsi al buio della notte, spesso al maltempo, per portarsi a casa” (Da un articolo del “Corriere Biellese” del 15 ottobre1902)
Nelle industrie cotoniere le esperienze lavorative vissute da bambine e ragazze. addette a controllare i fusi che giravano giorno e notte, era tale da fare quasi impallidire qualsiasi persona che avesse un po' di coscienza. Eppure erano queste le condizioni  in cui donne e bambine avevano lavorato fino allora e per molta parte dell’Ottocento. Fabbriche che nelle zone rurali e non solo offrivano lavoro alle energie femminili delle famiglie contadine consentendo loro di sopravvivere: erano  le filande.
 La lavorazione della seta, come quella del lino e della canapa, aveva delle origini molto antiche nella società rurale ed era molto diffusa sia al Nord che al Sud in tutte le regioni
con poche eccezioni cioè con l’esclusione della Puglia, della Basilicata e della Sardegna che non avevano tali industrie.
 A metà dell’Ottocento c’era un esercito di contadine che veniva mobilitato per tre o quattro mesi d’estate. Le cifre parlavano chiaro. Circa 40.000 contadine venivano reclutate negli Stati Sabaudi e per metà erano bambine, 3000 erano i maschi; circa 80.000 se ne contavano solo in Lombardia.
Nella filanda si svolgeva la prima fase di lavorazione della seta. I bozzoli venivano messi a macerare nell’acqua a 60 - 70 – 75 gradi, in bacinelle che erano riscaldate direttamente dal fuoco a legna (fuoco diretto) e solo dalla seconda metà dell’Ottocento, dal vapore.
La filatrice prendeva i bozzoli immergendo le mani nell’acqua bollente, li liberava dalle incrostazioni e, afferrata un’estremità delle bave, ne svolgeva il filo e lo avvolgeva sugli aspi  dandogli contemporaneamente un certo numero di torsioni.
L’abilità nel lavoro consisteva nel dare al filo la sottigliezza che lo rendeva lucente senza diminuirne la resistenza. Nel tipo di filanda più antico, quella “a fuoco diretto”, una stessa persona svolgeva tutte queste operazioni; una bambina l’aiutava facendo girare la ruota che muoveva gli aspi e un’altra provvedeva a riscaldare l’acqua accendendo il fuoco sotto la bacinella.
Per molto tempo il lavoro aveva occupato solo i mesi estivi, spingendosi al massimo fino ad ottobre. Successivamente con l’adozione del vapore, potè continuare fino a metà dicembre e riprendere a febbraio, una volta trascorso il periodo più freddo, dal 15 dicembre al 31 gennaio.
(Anche in quelle a vapore, dove il lavoro teoricamente si protraeva tutto l’anno, la durata effettiva dipendeva da “circostanze commerciali più o meno incoraggianti ad intraprendere una operazione di maggiore o minore durata!”, in media si trattava di cento giornate utili di lavoro per una filanda a metodo ordinario e centocinquanta per una filanda a nuovo sistema)
 
Nelle filande a fuoco diretto si lavorava a “cielo aperto”, sotto semplici portici; mentre le atre fasi si svolgevano in locali generalmente chiusi da finestroni a vetri e in autunno e in inverno il lavoro proseguiva fino alle otto di sera con un’illuminazione artificiale che stancava molto di più la vista già fortemente provata. Nelle filande il lavoro era sospeso nel mese di maggio quando la maestranza era ”occupata per il raccolto”.
La filanda si sosteneva grazie al lavoro di manodopera costituita da donne e bambini delle famiglie contadine disposte a lavorare per bassissimi salari, con orari di lavoro che si prolungavano per quattordici e anche quindici ore di “esclusivo lavoro”.
La durata della giornata lavorativa era infatti proporzionale al numero delle giornate di lavoro; arrivava “fino a quasi 15 ore al giorno nella stagione estiva”, il lavoro “incominciando alle ore 3 del mattino e terminando alle ore 8/12 di sera”, affermava nel 1877 il Consiglio di Sanità di Bergamo.
Inequivoca, per la provincia di Milano, era l’affermazione che “nella filatura dei bozzoli, che si fa solo d’estate, le ore di esclusivo lavoro ascendono fino a 14;  prima dell’alba fino al tramonto, con due ore di riposo a mezzogiorno”.
A Forlì il lavoro cominciava alle “4 antimeridiane” e durava “ben tredici a quattordici ore al giorno” scriveva il Consiglio provinciale Sanitario della città con  un’ora e mezza o due d’intervallo per il pasto di mezzogiorno”.
Era ben lontano dal vero quanto aveva dichiarato un imprenditore ai Commissari dell’inchiesta industriale, essere il lavoro di undici ore, anche se, aveva aggiunto, “queste undici ore sono ripartite in modo che la maestranza abbia due riposi al giorno, e tali riposi sono di tre ore ed anche di tre ore e mezzo, nei mesi estivi, e di due ore negli altri mesi”.
Finito il lavoro in filanda, non erano finite le fatiche delle donne, notava un osservatore nella prima metà del secolo.
Tutte dovevano fare “ un cammino più o meno lungo ond’arrivare al domicilio, tutte infine, giacchè lasciarono deserte nel giorno la casa ed i figli, conviene che provvedano ai bisogni loro presenti e dell’indomani, e diano assetto all’abitazione.  Per lo che alcune altre ore sono indispensabili di fatiche, riducendosi così per talune a cinque, sei ore al più quelle destinate al riposo”.
Il Consiglio Sanitario di Forlì esprimeva nel 1877 la stessa preoccupazione e osservava come  per le donne si dovessero proibire non solo o lavori troppo faticosi ma anche “limitare le ore di lavoro, onde possano inoltre attendere alle faccende domestiche, che per essere operaie, non vengono ad esse tolte”.

Insieme alle donne lavoravano molte bambine che condividevano con loro le lunghe giornate di lavoro e i mali prodotti dall’ambiente e dal tipo di lavoro.
Le mansioni che svolgevano erano molteplici: facevano girare la ruota che muoveva l’aspo e riscaldavano l’acqua delle bacinelle nelle filande più antiche e rudimentali, trasportavano le matasse dalla filatura e le sistemavano sugli aspi, soprattutto aiutavano le  donne adulte nel lavoro di trattura.
Nel 1870 nelle filande meglio organizzate, la trattura era divisa in due operazioni: la meno qualificata consisteva nell’afferrare i bozzoli che erano a bagno nell’acqua bollente, nell’individuare un’estremità del filo e porgerlo alla filatrice; la seconda operazione, più difficile, consisteva nel tirare il filo e, dandogli il numero di torsioni indicato, avvolgerlo sugli aspi.
La prima era affidata ad una bambina, chiamata “sbattrice o scopinatrice, e sbatosa o scoattina a seconda delle regioni), la seconda ad una donna adulta ed esperta, la filatrice.
Le scopinatrici, affermarono molti industriali ai Commissari dell’Inchiesta Industriale, avevano un’età compresa fra i 15 ed i 20 anni e guadagnavano la metà rispetto alle donne adulte, cioè dai 60 agli 80 centesimi al giorno.
Molti denunciarono la troppo giovane età di queste aiutanti, e le testimonianze che furono raccolte qualche anno dopo dalla Commissione d’Inchiesta sul lavoro delle donne  e dei fanciulli parlava di un’età compresa fra gli otto ed i dieci anni, e non di rado ancora inferiore.
In provincia di Milano l’età d’ammissione delle “ragazze” era fra gli 8 ed i 10 anni ma “per lavori leggeri” s’accettavano anche “bambini di sei o sette anni” e un sindaco e un fabbricante affermarono che “nel’incannaggio della seta certe volte lavoravano anche bambine di cinque anni”.
Piccole filande a “fuoco diretto”, con tre o quattro bacinelle, erano sparse nel Ottocento e anche nel Settecento nelle campagne e alcune erano ancora presenti nel Novecento in alcune aree arretrate colpite dalla miseria e lontane dalle zone industrializzate (Lombardia e Piemonte).
Erano gestite da povere donne che a loro volta sfruttavano bambine di otto-nove anni utilizzate per tenere accesi i fuochi e per fare girare la ruota degli aspi.
Da un racconto di Nuto Revelli, un donna, Francesca Guasco, nata ad Alessandria nel 1902 da una famiglia contadina e, orfana di padre e di madre, aveva cominciato a lavorare a dieci anni facendo un po' di tutto prima di entrare in filanda…
c’erano quelle piccole filande, una donna, due, e io andavo a tirare l’asta. C’era una donnetta che ci aveva solo forni. Si andava là perché…. Vieni che ti do qualche soldo… quattro forni a legna e poi c’era la caldaia con l’acqua sopra, calda. Noi si doveva girare “l’asta” col piede, l’asta che faceva girare la ruota e la donna che coglieva la seta ah! con le mani. Tirava i fili. Andavo alle quattro del mattino per accendere la caldaia, perché lei arrivava alle sei”.
Nel lavoro di trattura le mani venivano immerse nude direttamente nell’acqua che doveva essere bollente perché le incrostazioni potessero staccarsi facilmente senza rovinare il filo di seta. Così tra le malattie che affiggevano le lavoratrici, reumatiche, dell’apparato digerente e della vista, c’era quello legato alle escorazioni delle mani.
Era detto il “mal della filandera”, dopo cinque o sei giorni dall’inizio del lavoro “la pelle era a brandelli, le dita e i palmi delle mani bruciati”.
La raccomnandazione di trovare un solvente che permettesse di fare a meno dell’acqua bollente era stata fatta dal Consiglio Sanitario di Forlì nel 1877
 Facciamo voti altresì perché la chimica, madre e nudrice di mille
industrie, trovi un solvente della materia agglutinante della seta,
onde il filo si possa staccare senza avere bisogno dell’acqua calda che tanto
nocumento arreca alle mani delle lavoratrici.
 
Qualche prodotto venne messo in commercio per accellerare la pulitura del bozzolo, e le mani non ne soffrirono di meno perchè, raccontava una donna del Cuneese che ne aveva fatto esperienza nel primo decennio del Novecento,
a seconda del tipo del bozzolo mettevano un prodotto nell’acqua, la
bombezina, che ammorbidiva il bozzolo ma rovinava le mani.
 
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si ebbero delle tecnologie più avanzate con la doffusione del vapore sia per il riscaldamento dell’acqua sia come forza motrice; si sviluppò la divisione del lavoro e si consolidò il ricorso a congegni che davano al filo una tensione più regolare in modo da renderlo più uniforme.
Le condizioni base non cambiarono perché era  sempre intenso lo sfruttamento di donne e bambine. Gli orari erano ora di undici ore ma i ritmi di lavoro erano molto più intensi e le pretese padronali in termini di produttività si ripercuotevano in modo grave nei rapporti tra le donne adulte (le maestre) e le loro aiutanti tutte bambine tra i dieci ed i dodici anni.
Nei lunghi stanzoni si snodavano le lunghe file di bacinelle.
A destra e a sinistra di ogni bacinella stavano, l’una di fronte all’altra, una donna ed una bambina. Le bambine, adibite al primo e grossolano lavoro di pulitura del bozzolo, dovevano porgere l’estremità del filo alle filatrici, che eseguivano la trattura vera e propria.
Il ritmo della filatrice era quindi condizionato non solo dalla difficoltà intrinseche al suo lavoro, in particolare dal numero di torsioni da dare al filo, ma anche dalla maggiore o minore prontezza della bambina nel rifornirla del filo da avvolgere.
Nascevano quindi dei momenti di tensione che potevano sfociare in forme verbali gravi soprattutto quando l’età delle aiutanti era molto bassa.
Nell’inchiesta del 1903 per conto dell’Ufficio del Lavoro si mise in risalto il vero e proprio esercito di bambine di cui si nutriva l’industria tessile al nord e al sud e il largo contributo che davano a questo sfruttamento le filande. Se al primo posto per l’impiego di bambine con meno di 12 anni erano le Puglie, al secondo posto veniva la Lombardia, dove la provincia di Bergamo, molto ricca di filande, poteva vantare due tristi primati a nei confronti di un agricoltura povera. La maggior percentuale di operaie-bambine pagate meno di 50 centesimi (primato che le era conteso dalla provincia di Milano) e il minor numero di operaie che guadagnavano più di 2 lire al giorno.
Ci sono molti racconti di donne che lavorarono nelle filande prima della guerra.
Gina Vanoli, una delle “compagne” intervistate da Bianca Guidetti Serra (avvocato, politica e partigiana), viveva a Bregnano in provincia di Bergamo. Aveva appena finito la quarta elementare quando i genitori (il padre seppelliva “i morti” nel camposanto; ma mamma era a casa) la mandarono in filanda, dove fu messa a fare la “sbatosa”.
“avrò avuto 10 anni. Sarò stata cinque o sei mesi, non resistevo.
Si faceva dalle sei  alle dodici e dalla una alle sei di sera.
Sai in filanda com’è. Si fa la seta.
I bossoli li si metteva nell’acqua bollente e si faceva la massa.
Poi quella massa si prendeva su con una pentolina… e poi si dava
a quella davanti che faceva la seta, e se quel coso non era scopato bene,
quella davanti prendeva l’acqua bollente e che la buttava addosso..
.. a noi bambine. Ci faceva venire proprio come un po' frustrate,
si comincia a non poter più vedere niente.
Poi io non ho più voluto andare”.
 
Nel Cuneese le bambine entravano in filanda a otto anni. Si spostavano a piedi, “in gruppo con le altre”, per recarsi dai centri minori al centro maggiore anche d’inverno con la neve. Da Peveragno andavano a Cuneo… partivano la domenica sera e tornavano a casa il sabato notte.
Da Monfallonio andavano a Peveragno: facevano avanti e indietro a piedi tutti i giorni un cammino di quattro chilometri, d’estate e d’inverno; così era prima della guerra e così sarebbe stato ancora negli anni venti.
Anna Giorgis entrò in filanda a dodici anni:
“ero alta quattro dita, non arrivavo nemmeno alle macchine, il mio era il
lavoro  ‘dla sbatosa.. Il primo giorno, al mattino, ho osservato.
Nel pomeriggio toglievo già i cuchet (bozzoli) mi sono bruciata le mano nell’acqua
bollente. Dopo cinque o sei giorni avevo già le mano pelate…
tutte le mani che sanguinavano.
La pelle era a brandelli, le dita e i palmi bruciati…..
Sanguinavano e come le mani.
Alla sera quando tornavo a casa non sapevo più dove tenerle le mani.
Al mattino quando mi lavano  nell’acqua fredda, dolori che davano nel cuore neh..
Le dita restavano come incollate l’una l’altra perché nella notte
facevano la crosta, allora uno allargava la mano e la crosta si
staccava, e le dita sanguinavano.
 
Invidiava quella che legava i fili per fare la catena dell’ordito, la gruposa; la filatrice invece anche lei “aveva sempre le mani nella bacinella con l’acqua a settantacinque gradi, anche lei aveva le mani bruciate”. La disciplina era dura. Le donne adulte, oppresse dalle pretese padronali, imponevano livelli di produttività molto alti ed opprimevano le bambine che le aiutavano con modi spesso brutali che hanno lasciato tracce nei loro ricordi.
Gli scioperi che cominciarono a colpire le filande avevano come obiettivo qualche miglioramento: pochi centesimi di aumento sul salario che spesso non arrivava nemmeno ad una lira per 11 ore di lavoro; riduzioni d’orario (da 11 a 10 ore), allungamento di una mezz’ora del riposo per il pranzo, eliminazione delle forme più brutali di punizione e riduzione delle multe.
La nuova tecnologia introdotta negli anni trenta nelle filande modificò di poco la durezza del lavoro.
Nelle zone in cui il progresso si era manifestato, le donne andavano al lavoro in bicicletta e non a piedi; delle spazzole meccaniche afferravano i bozzoli nell’acqua bollente evitando il danno alle ragazze.
Ragazze che dovevano solo svolgerne il filo.
Ma non per questo veniva alleggerito il lavoro della scopinatrice che ora doveva rifornire non più una sola ma ben quattro filatrici.
Le tensioni si aggravarono
quando lavoravo… dicevano che io avevo le braccia lunghe.
Tieni conto che c’era un banco così… Adesso non ti so dire la larghezza ma…
fa tre metri. Di qui stavano quelle più alte che filavano, dall’altro lato del
banco, di fronte noi. C’erano dei paiuoli di rame con una spazzola.
Noi mettevamo stì bozzoli in acqua calda, tiravamo giù una spazzola che
girava, li lavava e nello stesso tempo tirava su la prima seta sporca.
Noi dividevamo i fili tra le filatrici, ogni ragazzina ne aveva quattro.
Cioè doveva mantenere i bozzoli sufficienti a quattro filatrici.
Ma se noi non eravamo svelte e le lasciavamo senza filo ci picchiavano..
Ci picchiavano e poi mettevano le mani nell’acqua bollente e ce la buttavano
in faccia e ci lavavano dalla testa ai piedi.
Questo per punirci se le lasciavamo mancare il lavoro, perché loro a sua
volta dovevano dare la produzione e se non non si manteneva il ritmo,
non potevano darla.
 
 Nessuna delle donne che aveva lavorato da bambina alle dipendenze della filatrice ha potuto dimenticare le umiliazioni subite in particolare con gli spruzzi d’acqua sul viso
Era un lavoro molto avvilente perché oltre ad essere faticoso ci
procurava  delle umiliazioni… se ascoltavano i sotterfugi della mistra
eravamo sgridare dal padrone; se non ascoltavamo la mistra lei ci
puniva tirandoci spruzzi d’acqua sul viso”
racconta una donna che a undici anni era entrata in filanda a Vittorio Veneto.
 
Un'altra immagine percorre i ricordi di queste donne, personificazione della disciplina padronale ed esercitata in modo diretto: la spasegianta
Il nome riassume la sua funzione di sorveglianza e di controllo che esercitava passeggiando in su e giù, talora su una specie di ballatoio con arroganza e dallo sguardo perfido….
La necessità di concentrare il lavoro in pochi mesi  nelle filande stagionali e successivamente, con l’applicazione del vapore, l’ampliamento delle dimensioni produttive determinò un concentramento di lavoratrici. Donne che percorrevano lunghi tratti di strada da paesi anche lontani e quindi erano costrette a prendere dimora nel luogo di lavoro.
Le “furestere” erano alloggiate in locali   poveri a cui si aggiungeva lo squallore degli ambienti di fabbrica.
“camere mal ventilate” dove le operaie dormivano “accatastate su miserissimi giacigli” del decennio 1840 a cui erano subentrati i grandi cameroni privi di qualunque suppellettile. Dei cavalletti di legno con i paglierecci di foglie facevano da letto, e dei ganci affissi al muro ai quali si appendeva il sacchetto del pane.. era tutto questo l’arredamento.
A Savignano, centro industriale del Piemonte, generazioni di donne avevano percorso dall’infanzia all’età adulta tutte le mansioni all’interno del filatoio.
“Quando scarseggiava la manodopera o quando il lavoro premeva, allora
mandavano a chiamare le furestere… venivano dalla campagna, credevano di aver
conquistato il cielo venendo in fabbrica. Provavano un certo senso di
superiorità le giovani che invece erano del luogo e che la sera, finito
il lavoro, avevano ancora voglia di ballare e di loro dicevano
“Sun mac ‘d furestere( sono solo delle forestiere)”
 
Assentarsi per lunghi periodo da casa, per andare a lavorare in campagna o in filanda, faceva parte del corso naturale della vita almeno per la donna delle famiglia bracciantili.
In filanda le forestiere erano per lo più delle giovinette che si fermavano per qualche anno prima del matrimonio. Sposate lasciavano la fabbrica per accudire i figli piccoli, a meno che una situazione di bisogno, e la presenza di una madre a cui lasciarli, non le spingesse a tornare in fabbrica.
Degli arrivi e delle partenze della madre, occupata in una filanda lontana, lea Baravalle ha conservato un ricordo.
Partiva da casa il lunedì mattina e tornava di sabato
Lasciava tutti noi sette figli piccolissimi, perché c’era solo un anno
da uno all’altro, alla nonna che era già vecchia, aveva settanta anni allora.
Mia mamma, poveretta, andava via al lunedì mattina e tornava al sabato,
perché allora stavano via tutta la settimana. Dormivano in grossi cameroni, tutte.
 
Stavano fuori tutta la settimana. Il magiare un po' se lo portavavano da casa, un po' se lo facevano lì, alla filanda di Cavallerleone
Avevano le cucina nei sotterranei
 
Il particolare che le rimase impresso
Quando partiva il lunedì mattina, mi ricordo questo perché mi è rimasto
molto impresso, si portava il fagotto della roba nostra, perché al sabato,
quando veniva a casa lavava e stirava tutto, tutta la nostra roba, la faceva asciugare e poi se la portava via per rammendarla e per riportarla a casa il sabato
dopo per poterci cambiare, perché la roba era così misurata…
 
al lavoro in filanda, che era di dieci ore, dalle sette fino a mezzogiorno, poi dalle due alle sette, la madre ne aggiungeva un altro nell’intervallo di mezzogiorno
mangiava un pezzetto di pane e poi, perché le necessità
erano quelle che erano, andava ancora a lavare e stirare a casa del direttore.
 
Spesso, non era una rarità, la donna riprendeva il lavoro in filanda anche molto tardi quando per necessità o quando le veniva a mancare il marito.
Così era avvenuto di sua madre, racconta Margherita Lemasson, diventata vedova aveva dovuto riprendere il lavoro di filatuiera.
Quel destino che le madri avevano conosciuto e che si snodava tra filanda e campagna, si ripeteva per le figlie di generazione in generazione, senza alternative
Chiusa la fabbrica eravamo tutte sul lastrico, c’era solo la campagna
Ricorda Lea Baravalle della propria esperienza, comune a tante altre ragazze della sua età.


MESSINA lavorazione bossoli

Una filanda di Messina (?)












Le bambine erano al primo lavoro e inesperte. Avevano il compito d’immergere i bozzoli nell’acqua bollente e con l’ausilio di una piccola spazzola trovare il filo iniziale del bozzolo per poi darle alle filatrici. Queste inserivano i numerosi fili di seta nelle filiere sorvegliando che tutto procedesse nel migliore dei modi. Queste ragazze, più esperte, erano aiutate da compagne che avevano un compito molto arduo. Quando si rompevano i fili durante il passaggio nelle filiere avevano il compito, di riannodare i capi velocemente e con movimenti esperti. Se il lavoro riusciva male la filatrice andava incontro ad una sospensione che andava da due, tre, otto giorni a seconda della gravità del danno. Una punizione molto dura per le povere operaie specialmente per quelle che dovevano sostenere una famiglia.

II salario oscillava da 45 a 90 centesimi al giorno, a seconda dell'abilità e dell'anzianità delle operaie; per le aiutanti invece, era di 40-45 centesimi; le ragazzine con meno di 12 anni prendevano 20 centesimi e lavoravano solo una mezza giornata. Queste ultime, durante i rari controlli da parte delle autorità competenti, venivano nascoste e minacciate di licenziamento in caso di lamentela. Poiché il lavoro in filanda poteva essere svolto da individui senza alcuna preparazione, i proprietari delle filande trovavano, facilmente, vista anche la disponibilità di manodopera, personale da inserire, e la sostituzione di un operaio poteva avvenire, senza problemi di sorta. Per le addette, pertanto, il pericolo di perdere il posto era reale ed elevato, l’instabilità era una situazione sentita, che poteva comportare il venir meno di un salario già misero, ma da cui dipendeva la sussistenza di alcune famiglie.

Le condizioni lavorative si caratterizzavano, oltre che per i bassi salari, per una situazione igienica scadente e per estenuanti orari di lavoro: tutti gli operai addetti alla torcitura della seta, di qualunque età e sesso, lavoravano quasi sempre nei mesi di giugno, luglio, agosto, settembre e molti anche in ottobre, mentre le ore di lavoro variavano, a secondo dei mesi e della richiesta di seta, dalle 11 alle 14 ore e mezza al giorno.
Le operaie erano costrette a lavorare in un ambiente afoso, a circa 50 gradi di temperatura. L'aria era carica di un vapore nauseabondo, che tendeva a trasformare l'ambiente in una sorta di stufa permanente; le finestre dovevano rimanere chiuse, per evitare che l'aria spostasse il filo di seta negli aspi e per mantenere un’umidità costante, necessaria a filare la seta. L'ambiente risultava, quindi, costantemente immerso in una nebbia calda, certamente non benefica per la salute delle lavoratrici.
Da una lettera al Prefetto di Meldola del Settembre 1893 si legge che le donne della zona 
“si occupano esclusivamente nell'industria della trattura e filatura della seta. Da tale lavoro le famiglie operaie nostre traggono sufficiente vantaggio economico, ma purtroppo le condizioni in cui si compie, influisce ad alterare lo stato di salute delle nostre classi povere. L'eccessivo calore, l'atmosfera sempre umida, il dovere esercitare le mani sempre nell'acqua quasi bollente, l'immobilità per 12 ore, sono tutte cause, onde abbiasi a danneggiare la salute di quelle operaie e più ancora quella dei loro nati giacché molte di esse seguitano a lavorare fino a che giungono agli ultimi giorni di gestazione”.
Da una relazione presentata all’Esposizione Internazionale Operaia di Milano nel 1894, si legge di una indagine svolta a Cremona da parte della Camera del Lavoro della città sulle condizioni igienico sanitarie delle filande. In essa venne evidenziato come l’ambiente malsano ed il genere di lavoro, l’assenza di precauzioni igieniche, i contatti tra individui ammalati ai primi stadi ed individui con organismi debilitati ed esauriti per cattiva alimentazione, favorivano il contagio e la diffusione di malattie quali la tubercolosi. Lo sfruttamento di questa mano d'opera era, inoltre, facilitato dalla scarsa organizzazione sindacale a tutela del lavoro femminile.



3. LA VITA NELLA FILANDA

Il Pranzo

Per il pranzo era abitudine di filere e scopinere utilizzare l’acqua bollente delle bacinelle per cuocere uova e soprattutto patate.
Per questo motivo le pietanze assumevano il “sapore” del bozzolo
“Ci portavamo da casa due mele, due uova, qualche patata.
Le uova e le patate le facevamo cuocere nelle bacinelle, cuocevano
insieme ai bozzoli, nell’acqua sporca.
Specialmente le patate odoravano di bigat”.
 
-          Portavamo le patate, le buttavamo dentro le bacinelle di rame, dove
mettevamo le gallette, mettevamo anche le patate.
Ecco: questo era il nostro pranzo. Altrimenti veniva mia nonna,
mi portava un pentolino con dentro un po' di riso e un po' d’acqua,
una specie di minestra e si mangiava.
Non mangiavamo chissà cosa, eravamo tutti in linea una volta !
 
-          Più che pasta e minestra non si mangiava. C’erano quelle che
erano figli unici e avevano i piattini ma a noi che eravamo tre
sorelle facevano un bel minestrone e basta.
 
-          Per mangiare a mezzogiorno portavamo il nostro pentolino con il
latte e la polenta, due panini e una bella tazzina di mostarda
-          Pane con una tavoletta di cioccolato o con un pezzetto di formaggio
-          Noi bruciavamo dal caldo sopra i fornelli bollenti.
Se era estate andavamo a mangiare anche sotto la barca,
per prendere il fresco. Poi c’era l’uomo veniva sempre a vendere
i limoni, gridava: “Limoni”.
Allora si compravano a 10 centesimi l’uno.
Bevevamo l’acqua della filanda che non era tanto buona perché
sapeva di cagnoni e mia mamma mi comprava la magnesia,
allora si comprava misurata. Mi diceva:
“quando vai a bere l’acqua in filanda metti dentro un po' di questa”.
 
-          Allora vendevano i fichi secchi e noi li mangiavano con la polenta
oppure con il pane. Il pane faceva da primo e i fichi da secondo.
-         
Non c’era da mangiare, ci si accontentava di tutto. Adesso invece....


I Canti

Erano diverse le regole all’interno delle filande in materia di canti e di preghiere.
In alcuni stabilimenti era permesso cantare e in altri era vietato.
Spesso la direzione preferiva permettere il canto piuttosto che le conversazioni tra le operaie, perché questo non faceva diminuire l’attenzione sul lavoro.
ogni gruppo cantava la sua canzone ed il padrone era contento se cantavamo e
pregavamo. Era invece proibito parlare, chi parlava si distraeva e veniva punita
con la multa. Cantavano le più anziane, quelle che avevano una maggiore
esperienza sul lavoro ,mentre le giovani, appena entrate nella filanda, stavano zitte perché troppo concentrate sul lavoro per paura di sbagliare.

Cata La Foia

Legato ai problemi dell’economia della bachicoltura, questo canto descrive i momenti principali dell’allevamento ovvero le quattro dormite che precedono "l’andata al bosco”, cioè la formazione del bozzolo, e la fatica collettiva del contadino e dell’intera sua famiglia. 

Raccogli la foglia raccogline abbastanza
nella prima (dormita) i bachi
ci vuole verde e non bagnata
portane a casa una gerlata
raccogli la foglia
raccogline di più
nella seconda i bachi
da la terza e la quarta di buon voglia
tre volte al giorno ci vuole la foglia
ma quando andranno al bosco a fare la seta
allora tutta la casa sarà dorata
o quanto faticare però massaro
a vendere tutti i bozzoli quanti denari
va avanti a raccogliere la foglia va avanti a raccoglierne abbastanza
che è un affare d’oro avere i bachi



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MAMMA MIA MI SON STUFA

Canto di protesta
Questo canto esprime con chiara consapevolezza il rifiuto delle giovani di lavorare in filanda a causa sia delle dure condizioni fisiche che dei continui controlli di produttività e il desiderio di andare a lavorare nella bergamasca dove, secondo alcune fonti, le paghe erano migliori.




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E CANTA LA SCIGÀDA

Canto sulle filandere
Questo canto, non propriamente di filanda ma cantato per le donne che andavano in filanda, può considerarsi un inno in loro onore. Esse, seppur costrette in così poco paradisiache condizioni di lavoro, sono degne portatrici di una bellezza propria e irriducibile.
E canta la cicala risponde l’usignolo
le donne della filanda hanno brutta la camicetta
Se la camicetta è nera gli occhi sono sempre belli
le donne della filanda fanno andare i fusi su e giù.

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O MAMMA MIA TEGNÌM A CÀ 

Canto di protesta
Questo canto esprime con molta forza il rifiuto del lavoro da parte delle giovani lavoratrici, stanche della pesantezza del lavoro della filanda.
 
O mamma mia tenetemi a casa 
che in filanda non voglio più andare
Mi dolgono i piedi mi dolgono le mani
e la filanda è per i contadini
Per i contadini per lavorare
e io in filanda non voglio più andare.


https://www.youtube.com/watch?v=bzdDRa1NSck

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O SCIUR PADRÚN I CAVALÉ VAN MAL

Canto sulla bachicoltura
In questo canto, in cui è chiara la consapevolezza dei rapporti economici tra padrone e contadino, è presente il peso del contributo economico della bachicoltura per la sorte della famiglia rurale, sottoposta a una forte pressione produttiva decisiva per il buon esito dell’allevamento.
 
O signore padrone
i bachi vanno male
frumento e granoturco
passerà l’annata
senza pagare il padrone
O contadini
mettiamo su degli scioperi
degli scioperi e dei bordelli
passerà l’annata
senza prendere cinque centesimi.


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Povre Filandere-Canto popolare di Filanda

 



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Altri canti nel sito:

https://www.vocidallafilanda.it/lavoratori_canti.php?locale=it_IT

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la cantautrice Milva dedicà una canzone alle filandiere 



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Le Forestiere

Le forestiere erano lavoratrici provenienti da comuni o regioni lontane e popolavano le filande ed i filatoi dei territorio.

-          Alla domenica sera cominciavano ad arrivare a piedi dalle montagne-
Le vedo ancora davanti agli occhi mentre venivano in filanda.
Le forestiere avevano un punto in cui mangiare e dormire.
Andavano a casa il sabato e arrivano il lunedì.
Tanto più erano lontane, quanto più si fermavano. A loro qua  piaceva,
però il sabato erano felici di andare a casa.
-          Quando il lunedi andavamo a lavorare la mamma ci faceva il pacco da portare con farina, riso, patate e zucchero. Compravamo solo il pane e qualche volta
un pezzo di formaggio per portare a casa il mese intero.
-          Mia mamma e mia zia erano di Consonno e lavoravano a Garlate. I due paesi
erano distanti e quindi non potevano andare avanti ed indietro.
Allora la ditta Abegg ci ha dato una bella cucina grande; lì loro facevano
da mangiare a mezzogiorno e a sera. Sopra avevamo i dormitori, camerate
come quelle dei militari. Vanivano e facevano la loro stagione in
filanda, tante si sono spostate qui e sono rimaste, tante sono andate per
la loro strada. Venivano dalla bassa milanese e anche dalla
Val Canonica perché in quei luoghi non c’era lavoro.
-          Io continuavo a piangere perché non c’era la mia mamma e le donne
venivano da me e mi chiedevano:
“Cos’hai... Non Piangere .. mi accrezzavano... ma io piangevo... piangevo..
perchè andavo a casa solo una volta alla settimana”.
-          Le forestiere cantavano quando andavano a casa di sabato:
Addio Garlate, addio
Ti lascio in mezzo ai monti
Giovanotti vagabondi c’è né una quantità
Facevano delle grandi e spassionate cantate..


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TRATTURA PIEMONTESE, VARIANTE LOMBARDA

Esempio di lavorazione settecentesca della seta
Beatrice Gilardi, ex filatrice della filanda Abegg, mostra la tecnica di trattura manuale con bacinella a tre capi e riscaldamento a fuoco diretto. Ideata a due capi a fine XV secolo in Piemonte questa tecnica fu copiata in Lombardia a fine Settecento e trasformata a 3 capi, trovando molta diffusione pur dando una seta di qualità inferiore rispetto alla piemontese. Il castello in legno era ereditario in famiglia per via femminile. 

https://www.vocidallafilanda.it/macchine_video_beatrice.php?locale=it_IT

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4. I PRIMI  SCIOPERI

L’Uno maggio 1890 le operaie della filanda Tambosi di Lavis (Trento) scioperarono per chiedere la riduzione dell’orario di lavoro.


La manifestazione di sciopero dirò circa una settimana attirando i cronisti del tempo.
Le operaie chiedevano una riduzione dell’orario di lavoro da 13 a 10 ore e la lotta di protesta durò circa una settimana. Fu definito dalla critica storica come il primo sciopero organizzato nel Tirolo italiano. Una forma di protesta clamorosa considerano che a Vienna, capitale dell’Impero d’Austro – Ungarico, il primo sciopero femminile fu datato 18maggio 1893.
Un avvenimento clamoroso e del tutto nuovo e i giornali dell’epoca seguirono attentamente l’evolversi della situazione.
A fine Ottocento era in vigore una legge di Francesco Giuseppe d’Austria che tutelava il lavoro minorile e femminile. Per le donne l’orario di lavoro non poteva superare le 11 ore giornaliere mentre per i minorenni il lavoro era vietato fino ai 14 anni d’età e aveva come obiettivo  il garantire l’istruzione di base. O movimenti operai rivendicavano in tutto il mondo una maggiore tutela sul mondo del lavoro e la riduzione dell’orario di lavoro al motto
8 ore per lavorare, 8 ore per studiare, 8 ore per dormire
L’Internazionale socialista del 1889 dichiarò il primo maggio festa internazionale dei lavoratori (una data collegata agli scontro di Chicago del maggio 1886).
Il primo maggio 1890 i lavoratori delle principali capitali europee scesero quindi in piazza per chiedere più diritti e tutele: in Trentino a scioperare furono le donne di Lavis.

Lavis (Trento) - L'ex filanda

Il Popolo Trentino in data 1 maggio 1890 scrisse:
“Stamane si posero in sciopero tutte le operaie della filanda Tambosi facendo degli assembramenti nei pressi della filanda per impedire che le timide, pentendosi del passo fatto, si recassero al lavoro. Domandano che la giornata di lavoro sia ridotta a 10 ore, conservandola mercede attuale. Ora che vi scrivo (mezzogiorno) lo sciopero dura ancora, né è mia cognizione che siasi venuti ad un compimento”.
In data 3 maggio lo stesso giornale trattò nuovamente lo sciopero:
“Anche le operaie della filanda del Sig. Tambosi in Lavis hanno voluto rappresentare la loro parte al primo maggio. Alla mattina di detto giorno per tempissimo avreste veduto andar gironzolando per le vie della borgata delle giovani a due, a tre, a quattro….chiacchierando, bisbigliando, sussurrando – poi raccogliendosi in crocchi; indi riunirsi in massa sulla piazzetta che stà dirimpetto al palazzo del Giudizio.
Che è? Che non è? Si domanda l’un l’altro. Sciopero su tutta la linea. Intanto alla filanda  da il primo fischio del vapore, a cui le operaie rispondono con grida; al secondo aumenta lo schiamazzo e incominciano a cantare una canzone d’occasione. Le scioperanti domandano che che vengano loro ridotte le ore di lavoro da 13 a 10 – ben inteso restando intatta la primiera mercede.
L’agitazione muliebre durò la mattina fin verso le ore 8. Si credeva che qui fosse tutto finito e che le Autorità intervenute fra cui l’I.R. Capitano de Ebner, avessero accomodato ogni cosa, ma no, che anche dopo pranzo le scioperanti operaie si raccolgono i nuovo sulla detta piazzetta ed ivi gridano e cantano – e al fischio che le invitava al lavoro rispondono come alla mattina, e il bisbiglio continuò, in grazie del tempo piovoso, solo fin verso le ore 3 pom.
A quanto si dice fu proposta alle operaie una diminuzione di opre di lavoro – con relativa diminuzione di paga; ma esse per ora rifiutarono la proposta. – Dieci ore di lavoro era la parola d’ordine”.
La Famiglia Cristiana, altro giornale trentino, in data 6 maggio 1890 riportò la seguente notizia:
“Dopo lungo tergiversare finalmente pare finisca. Ieri sera fu convenuto di riaprire mercoledì prossimo la filanda, la quale è chiusa dal primo maggio, e si pattuì di continuare almeno per intanto con 13 ore di lavoro”.
 
L’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro non fu immediatamente raggiunto, ma il provvedimento di concessione delle 12 ore giornaliere non tardò molto ad arrivare.

La lapide che ricorda lo sciopero

Nelle fabbriche, come detto sopra, il lavoro minorile era proibito sotto i 14 anni e la giornata lavorativa, anche per le persone adulte, non poteva superare le 11 ore.
Una norma questa che probabilmente non veniva rispettata nel Titolo italiano. Luigi Tambosi in una lettera del 1887 indirizzata alla Camera di Commercio di Rovereto scriveva:
“La filatura, in relazione al prodotto bozzoli del paese, può dirsi ancora fiorente e più lo sarebbe se le nuove leggi industriali non l’avessero posta in condizioni di lavoro assai meno favorevoli di quelle del vicino Regno d’Italia.
Infatti mentre là con un lavoro spinto a 14 ore al giorno si impiegano ragazzi da 9 anni in su, qui per effetto delle suddette leggi, quantunque mitigate dalle successive ordinanze, non si ammettono che quelle sopra i 14 anni per una durata massima di 12 o 13 ore di lavoro al giorno, e si esigono provvidenze speciali a favore degli operai ammalati e speciali adattamenti per l’igiene dei locali”.
(La storia della filanda
I primi documenti risalgono al 1809 e parlano della filanda che allora apparteneva al signor Carlo Viero. La filanda era dotata di 15 fornelli e in quel periodo risultava essere una delle più grandi del Tirolo italiano.
Nel 1841 l’intero complesso fu venduto ai fratelli Lanfranchi i quali, dopo aver dato un grande impulso allo stabilimento, lo cedetteroLuigi Tambosi. Nel 1868 nella filanda risultavano impiegati 9 uomini, 70 ragazzi e 225 donne.)



Immagine di una filanda friulana, senza luogo e data. Fonte: Archivio CGIL Pordenone, Mostra sul lavoro delle donne

Il 2 maggio 1894. governo Francesco Crispi (sempre lui.... l’assassino).... le setaiole di Udine, guidata dalla loro compagna “Menie” entrarono in sciopero.

Un atto interpretato con coraggio e accompagnato dal canto delle scioperanti.
Volin vèlu il nestri orari,
Volin vèlu des sis es siet;
E che ore che nus vanze
Volin glòdlile tal jett.
 
Vogliamo il nostro orario,
lo vogliamo dalle sei alle sette;
e l’ira che ci avanza
vogliamo godercela nel letto.
 
Il canto delle filandiere sotto
la Loggia Municipale di Udine, nel corso dello sciopero. 


Udine – Loggia del Lionello


Le filandiere erano donne, fanciulle e ragazzine che da tempo venivano sfruttate con paghe da fame: da 35 a 50 centesimi  per un orario giornaliero di 14 ore.
Negli stabilimenti tessili, come per le altri parti d’Italia, la presenza femminile era preponderante. Come detto percepivano una bassissimo salario lavorando dalle 13 alle 16 ore al giorno. Non esisteva il riposo e si lavorava anche di notte e anche di domenica e nei giorni festivi.
Il lavoro nei giorni festivi, compresa la domenica, era una consuetudine negli stabilimenti e veniva nascosto in modi diversi.
Era considerato “essenziale” per non spezzare il ritmo produttivo.
La domenica c’era l’abitudine di prolungare di 4/5 ore il lavoro dopo la mezzanotte del sabato e non veniva conteggiato come tale. La domenica mattina il lavoro era dedicato alle pulizia delle macchine, alla loro riparazione... un lavoro che non essendo riconosciuto non veniva quindi pagato.
Il 2 maggio l’adesione allo sciopero fu  bassa ma il giorno 4 l’adesione alla protesta si fece più massiccia con la partecipazione di almeno 500 lavoranti giunte da varie filande: Frizzi, Morelli, Carrara ed altre.
Il settore sericolo ad Udine era molto sviluppato e presentava un certo numero di Stabilimenti di cui i più importanti erano: Frizzi (270 setaiole), Morelli con 150, Ottone Carrara con 100 e Pantarotto, Del Greco, Paruzza.
Le lavoratrici chiedevano un orario più umano e non decretato ad arbitrio dal padrone:
“ora lavoriamo dalle 5 di mattina fino a mezzogiorno (12,30) con l’interruzione di 20 minuti per la colazione. Si riprende all’una e un quarto e si continua il lavoro finché ci si vede. Sono 13 e più ore di lavoro. Noi invece vorremmo che l’orario fosse così: dalle 6 della mattina alle 7 di sera con l’intervallo di un’ora e mezza a mezzogiorno. Sarebbero 11 ore e mezza di lavoro.”

Il corteo delle filandiere percorse  tutta Udine per poi fermarsi davanti alle filande che erano ancora 
in funzione per incitare le colleghe ad abbandonare il posto di lavoro per unirsi allo sciopero. In 
merito c’è una testimonianza di un giornalista del quotidiano “Patria del Friuli” che nel suo articolo 
riportò:

Ben dolorosa è la loro condizione come operaie.
– ‘O sin duttis sfinidis – ci diceva una di esse.
– No je plui che zoventû di une volte.
Che nus chali: ‘o sin pallidis, senze sang.
E je ore che si ve un fregul di compassiòn anche par no.
No domandìn nuje di plui di chell che nus da la lezz.
 
“Siamo tutte sfinite, non abbiamo più la freschezza di una volta.
Guardateci: siamo pallide, senza sangue.
E ora che ci sia un pizzico di compassione anche per noi.
Non domandiamo niente di più di quello che ci spetta per legge

Patria del Friuli n. 106 del 4 maggio 1894.

Le forze dell’ordine e il sig. Missio (Giuseppe ?) del “Circolo Sudi” (Camera di Lavoro) si 
rivolsero alle scioperanti in “marilenghe” consigliandole di recarsi in delegazione dal Regio 
Prefetto  per avanzare le loro legittime richieste.
(Il Friulano – “Marilenghe”, lingua madre – è una lingua romanza definita dagli storici come 
“lingua ladina dolomitica”. Si sarebbe sviluppata dall’antico latino rustico di Aquileia unendosi con 
elementi celtici a cui si aggiunsero anche elementi slavi e germanici. I  vari popoli di stirpe 
germanica (Longobardi, Goti, Franchi, Tedeschi) dominarono il Friuli per oltre 900 anni lasciando 
quindi la loro cultura).
Il regio Prefetto ricevette le filandiere ed avviò successivamente una trattativa con il proprietari 
delle filande.
I proprietari degli stabilimenti, Morelli e Marni, furono convocati dal Regio Prefetto e si 
dimostrarono disponibili al accettare un orario di 12 ore con la condizione che la

“concessione fosse applicata da tutte i proprietari delle filande di Udine e della provincia... per non esporsi ad una concorrenza insostenibile di fronte agli altri proprietari delle filande”.

La trattativa fu abbastanza veloce perché si raggiunse l’accordo che fu esteso 
tutte le filande cittadine:
l’orario venne fissato in 12 ore giornaliere: 5 ½  - 12 e  13 ½  - 19

Non si hanno riferimenti in merito alle fasce d’età delle filandiere che lavoravano nella fabbrica.
La maggioranza delle operaie doveva essere composta da fanciulle (9 – 12 anni) e da adolescenti 
(12 – 15 anni).
La preferenza di scelta accordata al lavoro minorile era legata:
-           a vantaggiose condizioni economiche dato che le fanciulle e gli adolescenti erano pagati meno delle donne adulte ed era soprattutto più difficile che si assentassero per maternità;
-          Motivazioni politiche dato che difficilmente i bambini partecipavano a proteste e scioperi.

Ma in questa situazione di sfruttamento minorile c’era  un aspetto che sembra contradditorio: il 
lavoro dei minori era tutelato, anche se i minima parte, dalla legge.
Era in vigore una legge “Sul Lavoro dei Fanciulli”  dell’11 febbraio 1886 n. 3657, che 
all’articolo n. 3 dichiarava:
un massimo di 8 ore di impiego per i fanciulli che avevano compiuto
il nono anno d’età ma non il dodicesimo.
(Oltre i 12 anni non v’era limite d’orario.)
All’articolo n. 12, sempre della suddetta legge, si prescriveva che
che il lavoro dei fanciulli (9-15 anni) impiegati negli opifici doveva essere interrotto per almeno un’ora per i pasti, se il lavoro superava sei ore.
Dunque i fanciulli dai 9 ai 12 anni non potevano lavorare più di otto ore al giorno; dai 9 ai 15 anni 
avevano diritto a un’ora di riposo
 Ma  era una legge confusa.... non rispettata ... e legata alla confusione politica del tempo.
Infatti nella legge erano escluse le donne (considerate operaie dopo i 15 anni d’età) da qualsiasi 
protezione legale. Una legge che si occupava solo di fanciulle/i.
Per avere una tutela, forse più efficace anche se limitativa in moltissimi aspetti, si dovrà aspettare la 
legge del 19 giugno 1902 n.242 che entrò in vigore nel 1903.
Questa legge vietava alle donne i lavori sotterranei (in galleria) e limitava l’orario di lavoro a 12 
ore. Prevedeva per le  puerpere 4 settimane di congedo senza alcuna retribuzione e consentiva il 
lavoro notturno che invece era negato alle fanciulle con meno di 15 anni d’età.
La vertenza delle filandiere di Udine si concluse quindi positivamente:
le bambini dai 9 ai 12 anni passarono da un orario di lavoro di 14 ore ad  12 ore (secondo la legge 
avrebbero dovuto lavorare un massimo di 8 ore al giorno) mentre per le adolescenti (tra i 12 – 15 
anni) e le donne adulte la diminuzione fu die due ore al giorno.
Nell’accordo non si fece alcun riferimento al diritto ai giorni di riposo settimanale, al salario 
giornaliero e ancora meno al congedo per maternità o malattia.
 Una classe dirigente guidava l’Italia ed era una classe asservita  ai nobili, ai proprietari  ed 
incurante anche del rispetto delle norme anche se non rispettose  dei principi di etica sociale.

Le condizioni di lavoro nelle filande erano pessime. Lasciando da parte il discorso sui bassi salari, 
le condizioni  igieniche nei locali di lavorazione erano precarie a causa dell’eccessivo calore, 
dell’atmosfera sempre umida, le mani delle lavoranti sempre nell’acqua bollente e gli estenuanti 
orari di lavoro.
Eppure in queste condizioni le donne dovevano assumere un comportamento regolare secondo 
delle norme  che dovevano essere attentamente seguite pena provvedimenti punitivi e sospensioni.
All’interno delle filande erano infatti in vigore dei regolamenti che dovevano essere rispettati:
-          La  paga per le filere effettive impiegate in questa filanda resta fissata in lire,,, in proporzione  prenderanno le mezzanti, le scopinatrici, ecc.
-          L’orario è quello stabilito dalla Legge ad aspo girante ed è in facoltà della Ditta di fissare l’ora di entrata e quella di uscita
-          È proibito fare colazione o merenda nelle ore di lavoro
-          Nello stabilimento di deve tenere la massina disciplina e specialmente in filanda durante il lavoro ed è per ciò assolutamente proibito chiacchierare, gridare, muoversi dal proprio posto, dire parole che offendono il decoro e la dignità dello stabilimento
-          È in facoltà della Direzione di cambiare il posto alle operaie tutte le volte che questa lo reda del caso senza diritto di protestare da parte della maestranza
-          Per qualunque controversi sorgesse fra le operaie stesse o fra operaie e le assistenti, si dovrà porgere la questione davanti alla Direzione dopo le ore di lavoro, Il Direttore prenderà volta per volta le misure del caso
-          È rigorosamente proibito mancare in qualunque modo di rispetto ai Superiori:
-          Verranno castigate con multa, sospensioni e licenziamento quelle operaie;
a)  che non portino il dovuto rispetto ai Superiori;
b)  che non tengano buon contegno in filanda;
c) che abbiano cattiva rendita o provini sbagliati;
d) che in qualunque modo non osservino il suddetto regolamento.
Domenico Carozzi

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Le filandaie nel cortile della filanda Stucchi (o Nava) a Galbiate (1898)
)



Dipendenti della filanda Adelghi al Rizzolo.




Foto di gruppo dei dipendenti della filanda Aldeghi al Rizzolo di Galbiate (1928) Galbiate della 

5       5. I Documenti
5
Facendo delle ricerche su internet sono riuscito a collegarmi con un sito interessante sul
“Museo della Seta” Abegg di Garlate.
Secondo il mio modesto parere è uno dei Musei più importanti d’Italia sulla storia dell’industria 
serica.
Un  Museo che per le sue iniziative e comunicazioni dovrebbe essere preso a modello.
Il percorso  museale ha un nome che sa tanto di memoria: ”Voci della Filanda”. La sua 
realizzazione ha unito diversi esponenti della vita sociale spinti dal desiderio di offrire al pubblico 
un patrimonio culturale locale costituito dall’ex esperienza di lavoratrici della filanda.
L’attenta ricerca ha permesso di raccogliere documenti, immagini, testimonianze che hanno 
contribuito a creare un racconto collettivo della storia della lavorazione della seta, dalla gelsicoltura 
alle lavorazioni del filo sericeo.
Le interviste delle lavoratrici della filanda,  sono delle testimonianze ricche di emozioni e 
sentimenti. Basta guardare gli occhi  delle intervistate per capire le antiche emozioni che hanno 
vissuto in quel duro lavoro.
Donne che hanno letteralmente veduto momenti , più o meno lunghi, della loro vita per avere un 
piccolo salario destinato ad alleviare, in qualche modo, le difficoltà economiche.
Scende   un velo di tristezza nel pensare che spesso si è costretti a lavorare senza alcuna copertura 
contributiva. Soprattutto quando le difficolta economiche sono forti si scende a compromessi.. 
offrendosi  al mondo del lavoro anche senza contributi e questo soprattutto negli anni 1970/1980 
era la norma.
(quei ministri,,, come il professorone,,,, non so di cosa.. o la piagnucolona.... quando riformarono le 
pensioni certamente non avevano a mente le esperienze di vita dei lavoratori anche perchè loro 
erano lontani  dalle reali condizioni sociali delle gente.  Il passato, la storia non hanno insegnato nulla... perché ancora oggi si continuano a commettere degli errori.. La nostra vita è diventata una sequenza di numeri dove per avere dei sacrosanti diritti devi raggiungere  delle quote... quota 100... quota 200 ...ecc... Guai a non raggiungerle .. sarai escluso.... anche se non hai delle colpe. Tante volte davanti ad un offerta di lavoro l’imprenditore pone il lavoratore davanti a delle condizioni .... “Queste sono le condizioni se non le accetti ci saranno tanti altri disposti a prendere il tuo posto”... una frase che ho sentito ripetere tante volte...
È facile fare politica e leggi sulle spalle della povera gente ed emanare norme che sono lontane da qualunque principio di etica sociale.... 
Questi personaggi sono degli assassini... un reato che non riguarda solo ma morte fisica voluta di 
un individuo ma anche quella morale soprattutto quando le difficoltà economiche finiscono per 
annullare anche il modo d‘essere di una persona, la sua sfera sentimentale..... Vergogna... solo 
vergona ... dovrebbe ricoprire il volto di questi personaggi politici. ).
Ritornando al museo sono presenti anche dei canti popolari delle filande che arricchiscono la 
memoria storica rendendola via. Sono presenti anche macchinari, utensili vari,,, veri gioielli 
d’archeologia industriale.



Mi sono permesso di prendere dal sito delle immagini che riguardano antichi documenti, storie di  donne che hanno lavorato nelle filande.  Qualche documento riguarda anche dei bambini, anche loro strappati alla loro fanciullezza per lavorare nelle filande e dare un aiuto economico alla propria famiglia.

Documento per ottenere il libretto di ammissione al lavoro
Questo tipo di documento, datato 1934, era necessario per giustificare l’abbandono scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro già a dodici anni.

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Orario di lavoro





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Regolamento per le operaie di filanda

Nei nove articoli del documento si definiscono comportamenti e normative previsti nello stabilimento Abegg di Villa San Carlo di Valgreghentino, dalla puntualità sul posto di lavoro, alle possibili multe per le filatrici, ai rapporti tra operaie, assistenti e Direzione.



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OCCHIO AL TITOLO

Regolamento di filanda

Il lavoro della filera era particolarmente delicato ed era determinante per la produzione di una matassa di seta dal titolo corretto: errori da parte della filera in fase di trattura erano sanzionati con multe destinate poi in beneficenza (spesso a favore della parrocchia).


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IL LIBRO PAGA DELLE OPERAIE

 

Libretto di lavoro e libro paga di un’operaia Abegg

Documenti di un’ex operaia nello stabilimento Abegg di Valgreghentino tra gli anni Dieci e gli anni Venti, assunta svariate volte con mansioni diverse nello stesso stabilimento. Nel 1922 la paga giornaliera è di circa 10 lire











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IL PREZZO DEI BOZZOLI 

Il mercato di Santa Maria Hoé

Per chi allevava il bachi da seta, il mercato di Mondonico a Santa Maria Hoé era uno dei luoghi in cui si procedeva alla vendita dei bozzoli ai responsabili delle filande del territorio.



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BIGATTINI

Assistenza all’allevamento del baco

Allo scopo di migliorare l'allevamento dei bachi [...] si è venuti nella determinazione di intensificare il più possibile l’assistenza di esperti bigattini.I bigattini erano professionisti dell’allevamento del baco da seta che avevano il compito di assistere i contadini nell’attività di bachicoltura, giravano per le campagne dispensando consigli pratici e svolgendo attività di formazione.




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PREMI AI PRODUTTORI 

Manifesto di propaganda

Nell’ambito delle campagne bacologiche, finalizzate alla crescita della produzione di bozzoli, venivano istituiti anche premi e lotterie per chi si prodigava nella bachicoltura.


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Altri interessanti documenti sull’allevamento del baco e sulla gelsicultura nel sito:

https://www.vocidallafilanda.it/index-miracolo.php?locale=it_IT

 

Le interviste alle lavoratrici della seta

https://www.vocidallafilanda.it/index-lavoratori.php?locale=it_IT

https://www.vocidallafilanda.it/index-lavorazione.php?locale=it_IT

 

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La Filatrice
Artista: Niccolò Cannicci
(Firenze, 29 ottobre 1846 – Firenze, 19 gennaio 1906)
Pittura: Olio su cartone -  Datazione: 1885/1890
Misure: (57 x 24) cm – Cllocazione : Milano, Museo Nazionale Scienza Leonardo da Vinci

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Dal Lavoro. Il Ritorno dalla filanda
Artista: Eugenio Spreafico
(Monza, 2 aprile 1856 – Magreglio, 2 ottobre 1919)
Pittura: Olio su tela  - Datazione: 1890/1895
Misure: (101 x 194,5) cm  - Collocazione: Monza, Musei Civici



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Enciclopedia delle Donne; altri file

Enciclopedia delle Donne – Seconda parte
16/Maggio/2019
Alcune Donne Importanti dell’Antichità
Aspasia – La Pizia – Cinisca – Ipazia
Atlete Vittoriose nell’Olimpiade

Le Allieve della Scuola Pitagorica di Kroton (Crotone)



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Enciclopedia della Donne – Terza Parte
30/ Settembre/ 2019
Le Prime Mediche della Storia

1.
       Asclepio, il dio della medicina – Le sue figlie tutelari della  salute;
      2.      Medica   o  Medichessa ?  .. Medichessa è un termine  ironico………;
       3.      Le Prime  Mediche della  Storia:
       a)      Merit  Ptah (egizia;  2700 a.C.);
       4.      Le Mediche presenti nel  Mondo  Greco e  Latino – Ippocrate;
       a)      Agnodice  ( 400- 300 a.C.)….. si travestì da uomo per fare la professione di medica;
       b)      Mousa; Sorano d’Efeso (I – II sec. d.C.); Scribonia Attice di Ostia; Antiochide; Pontea di Pergamo; Cleopatra di Roma (I sec. d.C.);  Cleopatra (II sec. d.C.); Cleopatra…la regina;  Maria “La Maestra” fondatrice dell’Alchimia e della
tecnica detta “bagnomaria";

      5.   Il Primo Ospedale di Roma; Santa Fabiola di Roma;
      6.   Gli Ospedali Bizantini; Oribasio; Ezio Amideno; Alessandro di Tales;
      7.      Metradora (V – VI sec. d.C.);
      8.      La “Schola Salernitana” – la Nascita e collegamento con Velia – La Leggenda; La Storia della “Schola Salernitana” – Il Giardino di Minerva – Le Sedi – La Storia D’Amore fra il Principe Enrico e la contadina Eslie- Federico II di Svevia e la “Schola Salernitana” – I “Reginem Salernitatum” e Arnoldo di Villanova
Le Mediche della Scuola Salernitana;
8   a)      Trotula De Ruggiero (Salerno…; …1097); una delle più importanti mediche della Scuola Salernitana;
8   b)     Abella di Castellomata; Rebecca Guarna (XIII – XIV sec.); Maria Incarnata; Mercuriade (XII sec.); Costanza Calenda; “Regimen Sanitatis Salernitanim”, scritto in versi, “Flos Medicinae” (Arnaldo da Villanova commentò il “Regimen S.”)
8c) Le Mediche Catanesi: Bella de Paija (1400) – Virdimura da Catania (XIV sec.)-  In Sicilia nel 1300-1400 si praticava la chirurgia plastica
     9 – Le Prime Donne Laureate in Medicina in Italia

       Adelasia Cocco; La Prima Medica di Condotta in Italia
    10 - Il Giuramento di Ippocrate sulla Professione Medica





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Enciclopedia delle Donne – Quarta parte
01/Gennaio/ 2010
Costanza d’Aragona – Prima Moglie dell’Imperatore Federico II di Svevia

1.      Il primo marito: Emerico d’Ungheria – Costanza fu la prima Regina d’Ungheria -        Il Figlio Ladislao – La fuga verso l’Austria – Ritorno in Aragona dalla madre Sancha nel Monastero di Sigena (Sijna);
2.      Costanza d’Aragona sposa Federico II di Svevia – La Cerimonia d’Incoronazione nella Basilica di San Pietro – Le Lodi Imperiali;
3.      Il ritorno di Costanza d’Aragona in Sicilia e la sua morte a Catania;
4.      Il Mondo di Costanza;
5.      Il sarcofago di Costanza nella Cattedrale di Palermo;
6.      La Corona di Costanza d’Aragona nel Tesoro della Cattedrale di Palermo –  La riproduzione della Corona, opera di Katia Foti, nel Museo dell’Abito Medievale  di Montalbano Elicona (Messina);
7.      La tragica fine del figlio di Costanza, Enrico VII, re di Germania – Le varie prigioni – il fantasma della moglie  - Il suo sarcofago, con rilievo della “Caccia al cinghiale calidonio”, nel Duomo di Cosenza – La vera causa della morte di Enrico VII:  “lebbra lepromatosa”;
8.      Dolce Tipico Siciliano : La Cassata di Costanza.



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Enciclopedia delle Donne – Quinta Parte
Jolanda (Isabella) Brienne – Seconda Moglie dell’Imperatore Federico II di Svevia
05/Gennaio/ 2020

OLANDA (ISABELLA) DI BRIENNE -  SECONDA MOGLIE DELL'IMPERATORE
                                                   FEDERICO II DI SVEVIA
REGINA DI GERUSALEMME E DI SICILIA

Sposò Federico II a 14 anni e morì di parto quando aveva  16 anni...un matrimonio voluto dalla Chiesa .....il suo Triste "Diario"




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Enciclopedia delle Donne – Sesta Parte
Le Poetesse Siciliane del  Risorgimento
22/Luglio/2020

Indice:
1.      Introduzione
La donna siciliana vista da Jean Pierre Houel
L’Elenco delle  Donne Siciliane del Risorgimento
Il Manifesto  del 1848 delle Donne Siciliane contro l’oppressione politica e sessista con la creazione della “dignità conforme” ovvero delle “pari opportunità”.
2.      Rosina Muzio Salvo – La Legione delle Pie Sorelle -  La collaborazione con importanti riviste pedagogiche –  Alcune pubblicazioni poetiche e letterarie. – Fu accusata con il principe Vergata di cospirazione.
3.      Giuseppina Turrisi Colonna “La Rivoluzionaria” – La sorella Anna o Annetta, pittrice. Due donne unite nella vita e nella morte, morirono a distanza di tre giorni l’una dall’altra.
4.      Letteria Montoro – Il suo romanzo storico “Maria Landini” –
5.      Concettina Ramondetta Fileti - Poetessa di grande ispirazione, dotata di grande sensibilità e di forti sentimenti patriottici.
6.      Lauretta Li Greci – la sua poesia di grande spiritualità, morì all’età di sedici anni.
7.      Mariannina Coffa – L’amore per il musicista Ascenzio Mauceri – Fu costretta a sposare il ragusano Giorgio Morana – Fu definita la “poetessa maledetta” – Morì in misera e solitudine.





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8 Marzo
Giornata Internazionale della Donna
La Donna nell’arte, nella cultura, nella politica…
07/marzo/2018
Simone De Beauvor - Judith Layster - Lucrezia Marinelli – Properzia De’ Rossi –
Julia Margaret Cameron – Edomia Lewis – Margaret Fountaine – Sibilla  Aleramo
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Le prime Donne Sindaco in Italia
Ninetta Bartoli – Caterina Pisani Palumbo Tuffarelli – Lydia Toraldo Serra –
Ines Nervi in Carratelli – Elsa Damiani – Margherita Sanna –
Ottavia Fontana – Elena Tosetti – Anna Montiroli – Alda Arisi – Lina Poletti




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Il Movimenti  Femminista  - Il Diritto al  Voto  in  Italia
08/Marzo/2018

Storia emancipazione femminile – Riviste femminili – La donna delle guerre –
Codice Napoleonico
Bianca Milesi – Cristina Trivulzio – Clara Maffei – Margaret Fueller – Luisa Otto –
Angelina Grimkè – Nathalie Lemel – Louise Michel – Ravizza Alessandrina
Sibilla Aleramo – Anna Maria Kuliscioff – Clara Zetnik – Jpsephine Buttler –
Rosa Luxemburg –  Caroline Norton – Salvatore Morelli – Laura Lombardo Radice –
Legge delle Quarantigie – Giuramento Antimodernista della Chiesa –
Le Riforme “Elettorali” –
La “Pascendi Dominici gregis” della Chiesa

Video
Emily Davison
La Suffrageta Inglese morta nell’Ippodromo.
Si uccise per protesta a favore del diritto al voto delle donne



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Eleonor de Moura - 
Prima ed unica donna Vicerè di Spagna in Sicilia  - In 27 giorni di reggenza tante leggi anche a favore delle donne in difficoltà -  Enciclopedia delle Donne (Settima Parte)


Indice:
1.      Il Vicerè -  Le sue funzioni – Il Compromesso di Capse del 1412 (Castello di Caspe).
2.      Vicerè Francesco Fernandez de La Cueva, duca d’Alburquerque fu stimato dai Sicilianj ( 1666-69) -  Vicerè Claude Lamoral, principe di Ligny – (1670-74) – Le Carestie  e i provvedimenti presi per fronteggiarle - La Rivolta di Messina – Rinforzo delle difese costiere: Trapani (Castello Colombaria e Torre di Ligny) – Castello di Augusta e di Milazzo – l’Isola d’Ortigia (Siracusa) – Fu trasferito a Milano  dove i Milanesi gli dedicarono un’opera – La sua partenza portò tanta tristezza nei Siciliani.
3.      Vicerè  Francesco Bazan y Bonavides, marchese di Baiona – (1674) – La rivolta di Messina -  I disordini ebbero come pretesto un quadro satirico.
4.      Vicerè  Fadrique Alvarez de Toledo y Ponte  de Leon, marchese di Villafranca del Barzo. (1674 –76);
5.      Vicerè Anielo Guzman y Caraffa, marchese di  Castel Rodrigo – (1676 -77) –  Cenni sulla sua carriera militare – Il Matrimonio con Eleonr de Moura – I suoi provvedimenti – Il Testamento
6.      Viceregina Eleonor de Moura, marchesa di Castel Rodrigo ( 27 giorni) -  Le sue riforme sociali – Forse l’unica viceregina d’Europa - Con il marito Anielo Guzman ebbero un figlio, Felix  –– Andrea Camilleri gli dedicò un romanzo: “La Rivoluzione della Luna”  -  Nel 1600 impensabile per una donna avere una carica così importante – Cenni sul romanzo (alcune pagine)
7.      L’immagine di Eleonor de Moura è in realtà un quadro del Parmigianino (Girolamo Francesco Maria Mazzola; Parma, 11 gennaio 1503; Casalmaggiore, 24 agosto 1540).  Il quadro, databile al 1535 circa, aveva il titolo di “Ritratto di giovane donna” e solo successivamente fu chiamato “Antea”.

https://www.blogger.com/blog/post/edit/4152513673917210757/361050465589987803

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Eleonora Alvarez de Toledo e i suoi tempi 

 Un periodo ricco di manifestazioni di altissima cultura ma anche di gravi atti nei confronti delle donne ..La morte di Maria de' Medici, Isabella de' Medici, Leonor Alvarez de Toledo, ecc. - Enciclopedia Delle Donne - VIII Parte



Indice:
1.       Eleonora di Toledo;
2.       Bianca “Bia” dei Medici;
3.       Il Duca Cosimo de’ Medici ed Eleonora Alavrez di Toledo; La Famiglia Alvarez – L’Eleganza di Eleonora
4.       La vita – Le Ville Medicee – I Palazzi -  Il Figlio Antonio de’ Medici;
5.       La Figlia Maria de’ Medici – Il suo ritratto – La sua morte misteriosa: Uccisa dal padre ?
6.       La Figlia Lucrezia – La sua morte per Tubercolosi;
7.       La Morte di Eleonora di Toledo e degli altri figli: Giovanni, Garzia
La Discendenza
8.       Francesco I de’ Medici;
9.       Leonora Alvarez de Toledo, nuora e nipote di Eleonora di Toledo, fu uccisa da Pietro de’ Medici ?
10.   Isabella de’ Medici – Le sue residenze – Le Passioni: la musica, l’arte – Il Marito Paolo Giordano I Orsini, duca di Bracciano – L’amante Troilo Orsini  - Madalena Casulana, la prima compositrice e cantante donna della storia -   Video : Concerto delle Donne – I rapporti (lettere) con il marito Paolo Orsini;
11.   Giovanna d’Austria (D’Asburgo) sposa Francesco I de’ Medici – Le feste per il matrimonio;
12.   Eleonora degli Albizzi e Cosimo I de’ Medci – Un amore contrastato – L’uccisione da parte di Cosimo I di Sforza Almeni -  Il palazzo Almeni e le sue opere d’arte;
13.   La gravidanza di Giovanna d’Austria – Isabella de’ Medici e gli Speziali;
14.   Camilla Martelli e Cosimo I de’ Medici – Il quadro di Camilla Martelli (?) a Saint Louis – Camilla sposa Cosimo I – La figlia Virginia – Casa Martelli e i suoi segreti – I Bardini;
15.   La Nomina di Cosimo I de’ Medici a Granduca – I simboli del potere;
16.   La Spedizione in Oriente;
17.   Francesco I de’ Medici, Giovanna d’Austria e.... Bianca Cappello; Il Santuario di Loreto;
18.   La Congiura Pucci contro i Medici;
19.   1575, Nuova Congiura contro i Medici da parte di Orazio Pucci – Il carnevale del 1575 e i suoi canti – Video; I Canti del 1400 (Angelo Branduardi e Camerata Mediolanense) – Le Pasquinate su Isabella;
20.   Isabella nel 1574 – 1576 – I rapporti con Troilo – Troilo, condannato da Francesco I, si rifugiò in Francia – la morte della cugina di Isabella, Leonora di Toledo (uccisa dal marito ?) – Leonora di Toledo moglie di Pietro I de’ Medici; 
21.   L’uxoricidio di Leonora;
22.   Isabella dopo la morte di Leonora –  La morte di Isabella ? – Fu uccisa dal marito ? – Le ricerche -  Due dei tanti delitti “d’onore” del tempo ?
23.   L’uccisione di Troilo, raccontato dal sicario Tremazzi da Modigliana;
24.   Giovanna d’Austria – La nascita di Filippo e la tragica morte della madre per una caduta dalle scale, morì anche il bambino che aveva in grembo;
25.   Francesco I sposa Bianca Cappello – Bianca Cappello a corte – Gli orti Orcellari  - Il palazzo di Bianca Cappello e il cunicolo sotterraneo – La Magia
26.   L’Accoglienza del primo ambasciatore d’Oriente;
27.    Bianca Cappello e il suo desiderio di avere un erede;
28.   Francesco I e l’Alchimia – Uno studio condiviso dalla moglie ? – La ricerca di un antidoto contro il veleno degli scorpioni (aveva 10.000 scorpioni);
29.   La morte di Francesco I e Bianca Cappello – Furono avvelenati ? – Le ricerche tossicologiche –

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Damarete di Agrigento (VI secolo a.C.) - La prima donna della storia a protezione dell'Infanzia - Enciclopedia delle Donne (IX parte).


“Quando io mi misi a scrivere queste Vite, lo feci per utilità degli altri;
ma ormai mi avviene di continuarle e di insistere in questo lavoro anche
per utilità mia, poiché guardando nello specchio della Storia, cerco di adornare
e di uniformare in qualche modo la mia vita alle virtù dei grandi personaggi.
Il mio lavoro mi appare proprio come un conversare,
un vivere quotidianamente in intimità con costoro, quando,
per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno
come ospiti uno per uno, esaminandone
“la grandezza e le qualità” e scegliendo fra loro le azioni quelle
che furono le più importanti e le più degne di essere conosciute”
(Plutarco)
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La triste storia dell’etera Laide di Hykkara – La Prostituzione Sacra –  Le divinità: da Inanna all’eroina Afrotide (?) -  Un Piccolo viaggio anche ad Erice e Pantelleria. Enciclopedia delle Donne: X Parte


Indice
1.      Laide di Hykkara;
2.      La Prostituzione Sacra – i Templi – I Culiti
Sicca Veneria (Tunisia)
Abido, governata da etere
Pyrgi
Locri Epizefiri – I Reperti – Trono Ludovici
Pantelleria – Il santuario Tanit/Venere – Alcuni Aspetti Naturalistici Unici tra cui gli Stromatoliti
Erice
Abruzzo: Rapino , la “Tavola di Rapino” – La Dea di Rapino e la Gemma di giovedì Gravisca
Pyrgi  - Le Lamine
Roma: Festa delle Nonae Caprotine – La Bona Dea e le leggende – Claudia Quinta, la vestale e l’altare a lei dedicato – Il culto della Bona Dea – L’oltraggio di Publio Codio Pulco, amante di Pompea, moglie di Giulio Cesare;
Acca Laurentia
Afrotide, dea della bellezza e dell’Amore... Da Inanna..Ishtar, Astarte..Atargatis ad Afrotide, un eroina ?
Enheduana.. la prime scrittrice, del 2400 a.C., per i suoi unni ad Inanna

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