LE FILANDIERE - IL FILO DELLA MEMORIA - ENCICLOPEDIA DELLE DONNE - XI PARTE
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Indice
1.
La
Sericoltura – I Riti – San Giobbe e i Cristèe
2.
Il
Lavoro delle bambine e delle donne nelle filande;
3.
La
vita nelle filande : Il pranzo – I canti
(Video) – Le Forestiere - La Trattura (Video)
4.
I
Primi scioperi delle filandiere;
5.
I
Documenti
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1. La Sericoltura - I Riti - San Giobbe - I Cristèe
La
sera precedente la festa, la gente si recava numerosa sulla spiaggia. Giunti
sulla battigia s’inginocchiava e ripeteva per nove volte di seguito una
preghiera: Ti salutu fonti di mari,/ ccà mi manna
lu Signuri:/ tu m’ha dari lu to beni,/
jò ti lassù lu me mali.
(Ti saluto fonte
di mare, / qua mi manda il Signore: / tu mi devi dare il tuo bene, /
io ti lascio il mio male).
Il
cerimoniale non finiva con la preghiera perché tutti raccoglievano un pugno si
sabbia con un preciso scopo come racconta il Pitrè.“L’arena
raccolta andavano poi a gittarla su tutti i tetti delle persone che allevavano
il baco da seta, gridando con gioia:
“Setti liviri a
cannizzu”.
Era
un augurio…”sette libbre di bozzoli a graticcio” un guadagno decisamente superiore a quello che
rendeva mediamente la bachicoltura. Un allevamento difficile perché c’erano
degli anni di mancata produzione che la gente imputava a San Giobbe, protettore
dei bachi, considerato “tradituri” e tollerante verso le “fattucchiere”
che mandavano il “malocchio” ai flugelli (i piccoli bachi).
Nella chiesa di
San Giovanni Battista, ad Alba, si trova un
quadro, olio su
tela, che raffigura San Giobbe, opera
di Chiantore
Giuseppe (Cumiana, Torino,1747 – Torino, 1824) risalente al 1823.
Al centro della
composizione si trova la maestosa figura di San Giobbe seduto su
assi ricoperti di
paglia. Il santo rivolge lo sguardo a tre persone che si trovano sulla destra.
Il suo corpo è nudo, cinto solo da ampi panneggi del manto dal
colore arancione,
ed è caratterizzato da muscoli che sono messi in evidenza.
Per terra, ai
piedi del Santo, si trovano i rami raccolti di gelso e un rocchetto.
Elementi che si
collegano alla bachicoltura, alla conseguente produzione di
seta e al mercato
dei bozzoli e delle foglie di gelso che si teneva proprio
nella piazza
antistante la chiesa di San Giovanni. San Giobbe è infatti
il protettore dei
bachicoltori e quindi anche del baco da seta.
Secondo la tradizione dalle piaghe che furono
inferte da satana a San Giobbe,
uscirono dei vermi
che diventarono bachi da seta. Da questo miracolo
si ritiene quindi
che San Giobbe sia protettore degli allevatori del baco da seta.
L’opera fu
commissionata dalla Società dei Filanti da seta di Alba che
fece collocare il
quadro sull’altare di Sant’Onorato per pregare il santo protettore.
Una delle
principali attività di Alba era la filanda che proseguì fino al 1958.
Una
figura biblica, comune ai cristiani ed ai musulmani (Job e Ayyub), presente nelle tradizioni popolari come
protettore dei bachi e dei suoi allevatori con una leggenda. Una
leggenda, narra la storia di Giobbe e delle sue sofferenze, giunta in Italia
verso il XIV secolo e particolarmente diffusa nel Nord Italia soprattutto nel Bellunese.
“Giobbe
era un sant’uomo, e non faceva mai peccato. Una volta il diavolo disse al Signore:Che meraviglia, se
non fa mai peccato! Ha tutto quello che vuole!Il
Signore rispose:Fa di Giobbe
quello che vuoi! Il
diavolo, per prima cosa, tolse a Giobbe tutte le sue ricchezze, ma Giobbe non
so lamentò.. allora gli mandò la malattia... E Giobbe la sopportò.Il
diavolo aggravò la malattia e il corpo di Giobbe si riempì di piaghe che emanavano un cattivo odore e si
riempirono di vermi.Un
giorno la moglie prese Giobbe e lo portò lontano da casa ponendolo sopra un
letamaio. Le persone che passavano lo deridevano ma l’uomo non si lamentava.Sul
letamaio crebbe un albero dalle foglie verdi, che faceva a Giobbe una magnifica
ombra. Su quest’albero si arrampicarono i vermi mentre l’uomo pregava di continuo.Il
Signore, visto che Giobbe non commetteva mai peccato, andò dal diavolo e gli disse:“Visto come Giobbe
è stato paziente ? Adesso su di lui comando io !Il
Signore diede allora a Giobbe il doppio delle ricchezze che possedeva e pose
fine alla sua malattia.Trasformò
l’albero del letamaio in gelso e i vermi diventarono bachi da seta. L’uomo
tornò a casa felice di rivedere la sua famiglia.(
Giobbe oltre alla perdita delle ricchezze sopportò con rassegnazione anche la
perdita dei suoi sette figlie e delle tre figlie che morirono nel crollo della
casa di uno di loro). Il
sopraggiungere della malattia e la derisione della moglie Rama lo porteranno ad esclamare:«Ero sereno e Dio
mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto
di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà
egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su
breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore»Sopportò
i rimproveri dei suoi tre/quattro amici (Eliphaz il Themanita; Baldad il
Suhita; Saphar il Naamatita e un certo Eliu)
senza bestemmiare.Gli
amici lo rimproverarono perchè aveva accusato Dio e cercarono di spiegare il
suo dolore affermando che la colpa fu commessa dai suoi genitori e lui stava
scontando la pena per loro. Nè
gli amici e nemmeno lo stesso Giobbe riuscirono a risolvere il problema del
giusto che soffre fino a quando, alla fine del libro, non apparve Dio che mise sotto
processo lo stesso Giobbe:Quando io ponevo
le fondamenta del mondo, tu dov'eri?Dio
rivendica la sua onnipotenza rispetto alla miseria dell’umanità. L’uomo può trovare
una risposta al dolore e al male solo decidendo di affidarsi a Lui."I suoi amici sono
condannati ad offrire un sacrificio di espiazione per il loro ingiusto e
crudele comportamento nei riguardi di Giobbe e questi, proclamato innocente,
viene restituito alla sua antica felicità nel godimento di beni due volte
superiori a quelli che aveva avuto precedentemente.Riebbe i suoi
armenti, generò di nuovo sette figli e tre figlie, visse ancora altri
centoquarant'anni e "vide i suoi figli e i figli dei suoi figli fino alla
quarta generazione e morí vecchio e pieno di giorni"
Giobbe sul
letamaio
Artista: Preti
Mattia
(Taverna, 25
febbraio 1613 – La Valletta, 3 gennaio 1699)
Datazione: ?
Pittura: Olio su
tela – Misura (203 x 264) cm
Collocazione: L’Aquila,
Museo Nazionale d’Abruzzo
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Un altro rituale particolarmente diffuso nell’Alto Milanese,
nella Brianza e nel Comasco era il “Cristèe” si cui si univano elementi magici
popolario e forme religiose.
Manifestazioni che, secondo alcuni studiosi, erano ancora
presenti nel 1959 a Seregno, nelle zone di Briosco, Casatenovo e a Gaggio di
Nibionno.
Un rito che era molto diversificato secondo i luoghi.
“Si dava la benedizione ai locali in cui avveniva l’allevamento
dei bachi. I protagonisti del rito erano dei ragazzi che, durante la Settimana
Santa, percorrevano le vie del paese portando il “Cristèè”, cioè una Crice con
i simboli della Passione e una ghirlanda di alloro e fiori. Entravano nelle
case e nella bigattieria percuotendo con il loro bastone il soffitto e pronunciando
un inno alla Passione con ritornelli profani. Il tutto era accompagnato dalla
raccolta di offerte”.
Un rito che presentava aspetti sacri e profani e forse in
origine magico protettivo. La bachicoltura
aveva inglobato pratice magiche antiche e cioè presistenti. Una festa di
propiziazione dalle origine pagane e forse collegata al calendimaggio,
imperniata sull’uso di simboli vegetali, in cui si inneggiava alla natura in
fiore e alla bellezza delle fanciulle a cui veniva offero, in segno di
devozione, un ramoscello verde (maio).
In questi centri la manifestazione rituale assumeva quindi un
carattere economico e sociale.
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Il rito messinese, che si svolgeva durante la festa dell'Ascensione, fu anche citato da Tommaso
Cannizzaro (1848 – 1912) per mettere in evidenza la grande importanza economica
e culturale dell’attività della bachicoltura per la produzione di seta che fu
per tanti secoli un aspetto importante e
di pregio dell’economia messinese, sia in città che nella provincia. Un
allevamento che influenzò i comportamenti dei contadini messinesi dato che
molti tenevano la bigattiera in casa per avere la possibilità di un modesto
reddito.
Una donna
raccoglie i bozzoli, staccandoli dalle fascine di paglia, dove il baco aveva
terminato la fase della maturazione, avviluppandosi attorno ai fili sottili,
presso una bigattiera, azienda agricola adibita alla bachicoltura. MARTIGNACCO
(UD) /Ceresetto, 1957. Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del
Friuli Venezia Giulia
In realtà la
bigattiera è il locale dove si allevano i bachi da seta o anche
il tavolo sempre
per l’allevamento del baco.
All’allevamento
del baco badavano in massima parte le contadine che dedicavano ai filugelli lo
stesso amore o attenzione che rivolgevano ai propri figli. I
racconti parlano di uova del mutevole insetto che, avvolte con amore in un
panno di lino, venivano fatte scovare tra i seni delle bachicoltrici. Le donne
avevano un rispetto che solitamente si porta alle gestanti. Certo in periodi di miseria a quei filugelli
era legata la possibilità di un piccolo reddito per vivere. Le massaie seguivano con amore le varie
metamorfosi dei filugelli. Appena nati cominciavano a brucare le foglie che le
donne sminuzzavano nei vari graticci. La giusta alimentazione li faceva
crescere e dopo ben quattro mute, si rinchiudevano in bozzoli formati dalla
loro stessa bava,,, in gergo si diceva che “salivano al bosco” e dopo
una quindicina di giorni usciva una farfalla. Diciamo che i più
fortunati riuscivano a diventare farfalla perché a loro era assegnata la
continuità della specie mentre gli altri e numerosi bozzoli venivano inviati
velocemente alle filande per estrarne la seta. Le poche farfalle uscite
dall’involucro sericeo, le più “fortunate” non perdevano tempo ad accoppiarsi
per deporre nell’arco di poche ore numerose uova per poi…. subito dopo…. morire
L’attività
della bachicoltura è un fatto culturale assodato nel territorio. Difficile è
invece stabilire la sua genesi quando cioè fu introdotta in Sicilia.
È
probabile che la città di Messina, con il suo porto importante sin dall’antichità,
sia stata una delle prime stazioni europee lungo quella che veniva chiamata la
“Via della Seta” che nacque in Cina nel 2600 a.C.
Al
tempo di Giustiniano i bachi da seta fecero la loro apparizione anche a
Bisanzio. Le uova erano nascoste dentro i bastoni dei monaci che l’imperatore
aveva mandato in Asia per diffondere il messaggio cristiano.
In
Africa e nel Nord Europa l’allevamento del baco fu introdotto dagli Arabi ma
furono i Normanni che favorirono l’allevamento grazie all’incremento dei gelseti
a scapito del cotone e svilupparono anche l’industria della seta con l’utilizzo
di manodopera specializzata proveniente dalla Grecia e con gli stessi Arabi che
entrarono a fare parte di laboratori reali dove prestavano la loro
professionalità.
«A
Vienna – nota Denis Mack Smith – esiste ancora un bel manto di seta in cui è
ricamata un’iscrizione in lingua araba ove è detto che era stato tessuto
nella fabbrica reale di Palermo nel
1133-34: questo laboratorio si trovava nel palazzo e vi
lavoravano, oltre a operai della seta, orefici e gioiellieri». Da Palermo
l’industria serica si diffuse prima in tutta la Sicilia e successivamente nel resto dell’Italia, per esser poi estesa
alla Provenza, a Marsiglia, a Lione e ad altre regioni d’Europa.
L’area
dove la bachicoltura si sviluppò fu nella Val Demone.
Nel
palazzo Reale di Messina probabilmente al momento della sua ultimazione
avvenuta nel 1140, ci doveva essere un laboratorio di produzione d’indumenti reali simile a
quello del Palazzo Reale di Palermo. Un laboratorio messinese che produceva
stoffe per la città visto che nel 1160 il re Guglielmo concesse alla città
l’esenzione dall’obbligo di comprarli dalla corte di Palermo.
L’attività
serica a Messina si sviluppò ulteriormente con gli Svevi e gli Aragonesi.
Subì
un decremento dopo la cacciata degli Ebrei del 1492 dato che essi detenevano il
monopolio della produzione e commercializzazione dei tessuti sericei.
Fu
solo un attimo dato che l’attività si riprese grazie anche ai finanziamenti di produttori
provenienti da Lucca e Catanzaro.
Nel
1530 Carlo V concesse ai messinesi i Capitoli della Seta
Una
importante regolamentazione del processo produttivo gestito in stretto rapporto
con il tribunale del Real Patrimonio dai “Consoli dell’Arte” che erano
autorizzati a fare delle ispezioni “a tutte hore”, multare i contravventori e
all’occorrenza bruciare “in più lochi” la merce scadente.
Nel
1517, quindi tredici anni prima, la regina Giovanna aveva a sua volta accordato
ai Messinesi il privilegio di esportare la seta a Cagliari, regno degli
Aragonesi” e a Siviglia.
Filippo
V stabilì che tutta la seta siciliana doveva essere esportata dal porto di
Messina.
C’erano
delle industrie che ricevevano importanti committenze da ogni parte d’Europa e
non solo. Grazie a questa attività così florida dal punto di vista commerciale,
la città diventò “fiera franca della seta” favorendo un ulteriore insediamento
di mercanti stranieri, genovesi, biscaglini e addirittura norvegesi.
Nel
1664 a causa della ribellione antiaragonese la città perse il privilegio
dell’esportazione esclusiva della seta con conseguenze disastrose in termini
economici e di ordine pubblico.
L’attività
serica continuò e si riprese con in Borboni grazie ai nuovi Capitoli concessi
dalla corona nel 1736 e al parziale ripristino del porto di Messina da cui era
obbligatorio esportare la seta prodotta nella Val Demone che era la maggioranza
della produzione siciliana.
Richiamando
un “Real biglietto” del 13 dicembre 1753, un Bando e Comandamento del Marchese
di Trentino, maestro razionale del Tribunale del Real Patrimonio, stabilì che “tutti gli abitanti della Val
Demone dovessero forzatamente immettere le loro sete in detta città di Messina
e, volendole estrarre, lo dovevano fare dal medesimo Porto con pagare grana 30
per ogni libbra per l’estrazione, oltre a grana quattro a libra pel pelo
[ossia per il trasporto su animali da soma], e gli altri diritti di Regia
Dogana, e contravvenendo a tale ordine, si [intendessero] non solo nella
perdita delle Sete, ma di dover pagare ancora onze cento per quilibet contravvenzione, a beneficio
della Regia Corte […] che in caso di furtiva estrazione di Sete dalli descritti
luoghi […] per infra e fuori Regno oltre alle pene di sopra espresse,
[avrebbero perduto] gli Estraenti e conduttori le Mule, Cavalli, Somari,
Carri, Carrette, Bovi ed altri, sopra le quali [si fossero trasportate] dette
Sete, e le barche sopra le quali si fossero imbarcate le Sete, o navigate per
estrarsi».
Il
terremoto del 1783 segnò l’inizio della decadenza dell’attività bachi-sericola. Alla vigilia
dell’unità d’Italia si cominciarono ad avvertire i segni di un diffuso
disimpegno produttivo dei gelsicoltori, per effetto dell’atrofia di cui erano
stati colpiti i bachi (pebrina).
Molti proprietari cominciarono ad estirpare i gelsi e a piantare gli agrumi mentre
nell’Italia settentrionale s’introducevano nuove razze di bachi originarie dell’Estremo
Oriente. La malattia che aveva
attaccato i bachi in Sicilia fu debellata solo nel 1874. Ma la
bachicoltura nel Messinese non scomparve, grazie all’iniziativa di un
coraggioso industriale inglese, Tommaso Hallan, «che impiantò sistemi meccanici
nelle filande» per produrre la seta greggia. Ma già cinque prima la Camera di
Commercio di Messina aveva creato un ufficio
di coordinamento delle attività connesse all’esportazione dei bozzoli in
Francia e nelle città industriali del nord Italia. Alla
fine del secolo c’erano nove filande,
sette delle quali a vapore, con circa mille addetti, in gran parte di sesso
femminile. Ma il calo della produzione
fu inevitabile: dai 22.000
quintali di bozzoli che si producevano nel 1855 si passò
ai 17.000 nel 1880, che si ridussero a 15.545 nel 1888 e a 400 a fine secolo. In queste condizioni
non può stupire più di tanto se a partire dal 1898 a Gazzi, villaggio a sud di
Messina, una grande filanda che dava lavoro a 650 operaie mal pagate, divenne
teatro di un continuo stato d’agitazione delle lavoratrici che reclamavano
migliori condizioni di vita e di lavoro. La situazione precipitò nel 1904: «un
clamoroso sciopero, come non s’era mai visto a Messina, bloccò letteralmente il
territorio a sud della città». E la protesta, «che sapeva più di ribellione
politica che di rivendicazione sociale», si estese a tutte le altre
filande. A segnare l’inizio della fine
della residua produzione di seta grezza in Sicilia fu il terremoto del 1908.
Pur
nondimeno, in alcuni villaggi di Messina (Gesso, Pezzolo, Santa Margherita,
Giampilieri, Massa San Giorgio, ecc.) la bachicoltura sopravvisse di un
ventennio anche alla seconda guerra mondiale dato che i sensali di Roccalumera
continuavano a fare incetta di bozzoli per conto di una filanda. Un’anziana
contadina di Pezzolo, molti anni fa, rilevò che fino
al 1957 lei stessa allevava bachi da seta: possedeva una
bigattiera capiente di tre cannizzi e
covava le uova con i seni.
Nei
villaggi e nei borghi si respirava un aria di festa quando giungeva il momento
di vendere i bozzoli e si ringraziava San Giobbe per quel piccolo reddito
percepito. Spesso le donne regalavano
qualcosa anche al parroco come una cotta di seta confezionata
artigianalmente (il parroco di Gesso).. Oltre
a pochi scampoli di memoria e a qualche documento d’archivio, ormai non rimane
granché della bachicoltura messinese. Molte filande sono
crollate; se ne sono salvate pochissime, che hanno una nuova destinazione
d’uso.
Una,
a valle di Galati Mamertino, ospita un ristorante. Un’altra, sita nel
Capoluogo, è sede del Museo Regionale di Messina. Sopravvivono qua e là alcune
piante di gelso, cui ormai è riservato il triste destino di proiettare l’ombra
sull’ignavia di una classe dirigente che nulla ha saputo o voluto fare per
salvare i tratti salienti dell’identità culturale delle operose comunità che
hanno reso famosa nel mondo la tradizione serica messinese.
Eppure,
soprattutto nei Peloritani,
il paesaggio agrario racconta ancora egregiamente questa storia di lunghissima
durata. Se sono venuti a mancare i gelseti, resistono le terrazze in muratura a secco (armacie) faticosamente costruite dai
contadini per mettervi a dimora le piante
di gelso. Questo importante patrimonio etno-antropologico è il
precipitato storico di vecchie angherie feudali e di patti agrari particolarmente
vessatori che «facevano obbligo al colono di eseguire, insieme alle opere di
manutenzione delle strade poderali e delle armacie, i
lavori per una buona conservazione della casa colonica». La stessa dimora
contadina testimonia spesso l’allevamento
del baco da seta. «Serrata
alla base dall’esiguità dimensionale – osserva Maria Teresa Alleruzzo di
Maggio – la casa ha dovuto svilupparsi in altezza, talvolta di tre piani sopra
il terreno, dovendo disporre di più locali nei quali ospitare nei mesi
primaverili le impalcature lignee a torretta (pannalori), su
cui vengono disposti orizzontalmente numerosi tramezzi per l’allevamento del
baco».
Ma
cosa non si faceva per amore del baco da seta (vermu). Se ne facevano benedire le uova nei venerdì di marzo. Si
pregava San’Antonio Abate perché
lo proteggesse dal fuoco e dalle formiche, San Zaccaria per preservarlo dai topi. Si cercava
di muovere a pietà lo stesso filugello; certe donne di Naso arrivavano al
punto di entrare nella bigattiera perfettamente nude, dicendo ai bachi: vermu, sugnu a nuda, vestimi tu».
Le
preghiere, i segni di croce, i riti magici erano all’ordine del giorno. Quando il
baco stava per fare la muta, le donne prendevano le necessarie precauzioni,
posavano cioè sui graticci tutti i ferri arcuati che riuscivano a procurarsi,
«ordinariamente falci, ronche e roncigli», ma anche uova di galline. Nelle
case dove si allevava il baco c’era sempre «un bel paio di corna incastonate al
muro»; attaccati all’estremità dei can-nizzi, «teste
d’aglio, gruzzoli di sale, conchiglie, denti di porco ed altri ninnoli»; ai
muri tante immagini sacre. Si bruciava tutti i giorni l’incenso recitando
arcaiche orazioni. Si traevano auspici «circa la buona o cattiva produzione
della “nutricata” persino
dalla vista di una meteora, di una biscia, di un rospo o di una lucertola». E
si gioiva, si ringraziava Dio, ci si disperava, ma si sapeva che era tutta
questione di fortuna. «Beato chi ha sorte», si credeva che fosse solito dire
lo stesso San Giobbe, lavandosene le mani come Pilato. Rimane il fatto però
che, baciate dalla buona sorte o segnate dalla sfortuna, nella provincia di
Messina le donne continuarono ad allevare il baco da seta fino a pochi decenni
addietro. C’è da chiedersi allora se
in quell’area la bachicoltura non possa tornare ad essere un’attività
produttiva.
All’interrogativo
cercò di rispondere un convegno di alto profilo scientifico tenuto il 30
novembre 1984 nel villaggio Salice del comune di Messina con il patrocinio
della Presidenza della Regione Siciliana. In quell’occasione uno dei relatori
fece notare che bisognava prima
ripristinare i gelseti. E aggiunse: «Ancora qua e là
cresce qualche albero, risparmiato dagli incendi e dall’incuria dell’uomo.
Ma occorrerà presto organizzare i
vivai le cui produzioni rispondano a rigorosi requisiti genetici e sanitari. Quindi
provvedere alla distribuzione agli agricoltori ne facciano richiesta».
Non
se n’è fatto niente, finora. Conforta tuttavia sapere che nel frattempo qualche
comune pedemontano dei Nebrodi si è attrezzato per conservare i segni della
gloriosa tradizione sericola. A Sant’Angelo
di Brolo, per esempio, c’è un Museo di arte sacra all’interno del
quale sono conservati dei paramenti di seta prodotti in loco o in altri centri
del Messinese. A Ficarra l’amministrazione
comunale aveva addirittura istituito, ancorché solo a fini dimostrativi e
didattici, la “Casa del baco” dove
si allevano i filugelli con li stessi metodi di cui «rimane ancora oggi
testimonianza nella memoria degli anziani, nei canti popolari e nel lessico
familiare». C’è allora da sperare che gli esempi di questo tipo si
moltiplichino e diventino presto oggetto di fruizione turistica e laboratori di
innovazione progettuale per le iniziative di sviluppo locale.
……………………..
2. Il
Lavoro delle Donne nelle Filande
Lugi
Einaudi nelle sue corrispondenze giornalistiche riportò il lavoro delle donne
del Biellese nell’autunno del 1897. Con grande stile e con un tono disincantato,
tipico dell’economista, ritraeva quelle donne che “in molte, forse troppe”
si affollavano ai telai, perdendo ben presto “i bei colori della giovinezza”
per assumere il “colore pallido, caratteristico degli operai di fabbrica ”. Donne
che continuavano a lavorare in gran numero in fabbrica anche dopo il matrimonio
e che spesso in chiesa, almeno nelle regioni del Nord, leggevano “l’Avanti”.
Ai
primi del Novecento una serie di ripetuti e gravi malori delle ragazze addette
ai turni di notte nei reparti di filatura portò a denunciare le condizioni di
lavoro notturno e soprattutto la mancanza di ogni soccorso per le “disgraziate
fanciulle” vittime di un infortunio, di un malore improvviso, di uno
svenimento. L’unica prospettiva era
quella “di attendere fra quelle fitte del male l’alba del mattino o
avventurarsi al buio della notte, spesso al maltempo, per portarsi a casa”
(Da un articolo del “Corriere Biellese” del 15 ottobre1902)
Nelle
industrie cotoniere le esperienze lavorative vissute da bambine e ragazze.
addette a controllare i fusi che giravano giorno e notte, era tale da fare
quasi impallidire qualsiasi persona che avesse un po' di coscienza. Eppure
erano queste le condizioni in cui donne
e bambine avevano lavorato fino allora e per molta parte dell’Ottocento.
Fabbriche che nelle zone rurali e non solo offrivano lavoro alle energie
femminili delle famiglie contadine consentendo loro di sopravvivere: erano le filande.
La
lavorazione della seta, come quella del lino e della canapa, aveva delle
origini molto antiche nella società rurale ed era molto diffusa sia al Nord che
al Sud in tutte le regioni
con
poche eccezioni cioè con l’esclusione della Puglia, della Basilicata e della
Sardegna che non avevano tali industrie.
A
metà dell’Ottocento c’era un esercito di contadine che veniva mobilitato per
tre o quattro mesi d’estate. Le cifre parlavano chiaro. Circa 40.000 contadine
venivano reclutate negli Stati Sabaudi e per metà erano bambine, 3000 erano i
maschi; circa 80.000 se ne contavano solo in Lombardia.
Nella
filanda si svolgeva la prima fase di lavorazione della seta. I bozzoli venivano
messi a macerare nell’acqua a 60 - 70 – 75 gradi, in bacinelle che erano riscaldate
direttamente dal fuoco a legna (fuoco diretto) e solo dalla seconda metà
dell’Ottocento, dal vapore.
La
filatrice prendeva i bozzoli immergendo le mani nell’acqua bollente, li
liberava dalle incrostazioni e, afferrata un’estremità delle bave, ne svolgeva
il filo e lo avvolgeva sugli aspi
dandogli contemporaneamente un certo numero di torsioni.
L’abilità
nel lavoro consisteva nel dare al filo la sottigliezza che lo rendeva lucente
senza diminuirne la resistenza. Nel tipo di filanda più antico, quella “a fuoco
diretto”, una stessa persona svolgeva tutte queste operazioni; una bambina
l’aiutava facendo girare la ruota che muoveva gli aspi e un’altra provvedeva a
riscaldare l’acqua accendendo il fuoco sotto la bacinella.
Per
molto tempo il lavoro aveva occupato solo i mesi estivi, spingendosi al massimo
fino ad ottobre. Successivamente con l’adozione del vapore, potè continuare
fino a metà dicembre e riprendere a febbraio, una volta trascorso il periodo
più freddo, dal 15 dicembre al 31 gennaio.
(Anche
in quelle a vapore, dove il lavoro teoricamente si protraeva tutto l’anno, la
durata effettiva dipendeva da “circostanze commerciali più o meno incoraggianti
ad intraprendere una operazione di maggiore o minore durata!”, in media si
trattava di cento giornate utili di lavoro per una filanda a metodo ordinario e
centocinquanta per una filanda a nuovo sistema)
Nelle
filande a fuoco diretto si lavorava a “cielo aperto”, sotto semplici portici;
mentre le atre fasi si svolgevano in locali generalmente chiusi da finestroni a
vetri e in autunno e in inverno il lavoro proseguiva fino alle otto di sera con
un’illuminazione artificiale che stancava molto di più la vista già fortemente
provata. Nelle filande il lavoro era sospeso nel mese di maggio quando la
maestranza era ”occupata per il raccolto”.
La
filanda si sosteneva grazie al lavoro di manodopera costituita da donne e
bambini delle famiglie contadine disposte a lavorare per bassissimi salari, con
orari di lavoro che si prolungavano per quattordici e anche quindici ore di
“esclusivo lavoro”.
La
durata della giornata lavorativa era infatti proporzionale al numero delle
giornate di lavoro; arrivava “fino a quasi 15 ore al giorno nella stagione
estiva”, il lavoro “incominciando alle ore 3 del mattino e terminando
alle ore 8/12 di sera”, affermava nel 1877 il Consiglio di Sanità di Bergamo.
Inequivoca,
per la provincia di Milano, era l’affermazione che “nella filatura dei
bozzoli, che si fa solo d’estate, le ore di esclusivo lavoro ascendono fino a
14; prima dell’alba fino al tramonto,
con due ore di riposo a mezzogiorno”.
A
Forlì il lavoro cominciava alle “4 antimeridiane” e durava “ben tredici a
quattordici ore al giorno” scriveva il Consiglio provinciale Sanitario della
città con un’ora e mezza o due
d’intervallo per il pasto di mezzogiorno”.
Era
ben lontano dal vero quanto aveva dichiarato un imprenditore ai Commissari
dell’inchiesta industriale, essere il lavoro di undici ore, anche se, aveva
aggiunto, “queste undici ore sono ripartite in modo che la maestranza abbia
due riposi al giorno, e tali riposi sono di tre ore ed anche di tre ore e
mezzo, nei mesi estivi, e di due ore negli altri mesi”.
Finito
il lavoro in filanda, non erano finite le fatiche delle donne, notava un
osservatore nella prima metà del secolo.
Tutte
dovevano fare “ un cammino più o meno lungo ond’arrivare al domicilio, tutte
infine, giacchè lasciarono deserte nel giorno la casa ed i figli, conviene che
provvedano ai bisogni loro presenti e dell’indomani, e diano assetto
all’abitazione. Per lo che alcune altre
ore sono indispensabili di fatiche, riducendosi così per talune a cinque, sei
ore al più quelle destinate al riposo”.
Il
Consiglio Sanitario di Forlì esprimeva nel 1877 la stessa preoccupazione e
osservava come per le donne si
dovessero proibire non solo o lavori troppo faticosi ma anche “limitare le ore
di lavoro, onde possano inoltre attendere alle faccende domestiche, che per
essere operaie, non vengono ad esse tolte”.
Insieme
alle donne lavoravano molte bambine che condividevano con loro le lunghe giornate
di lavoro e i mali prodotti dall’ambiente e dal tipo di lavoro.Le
mansioni che svolgevano erano molteplici: facevano girare la ruota che muoveva
l’aspo e riscaldavano l’acqua delle bacinelle nelle filande più antiche e
rudimentali, trasportavano le matasse dalla filatura e le sistemavano sugli
aspi, soprattutto aiutavano le donne
adulte nel lavoro di trattura.Nel
1870 nelle filande meglio organizzate, la trattura era divisa in due
operazioni: la meno qualificata consisteva nell’afferrare i bozzoli che erano a
bagno nell’acqua bollente, nell’individuare un’estremità del filo e porgerlo
alla filatrice; la seconda operazione, più difficile, consisteva nel tirare il
filo e, dandogli il numero di torsioni indicato, avvolgerlo sugli aspi.La
prima era affidata ad una bambina, chiamata “sbattrice o scopinatrice, e
sbatosa o scoattina a seconda delle regioni), la seconda ad una donna adulta ed
esperta, la filatrice.Le
scopinatrici, affermarono molti industriali ai Commissari dell’Inchiesta
Industriale, avevano un’età compresa fra i 15 ed i 20 anni e guadagnavano la
metà rispetto alle donne adulte, cioè dai 60 agli 80 centesimi al giorno.Molti
denunciarono la troppo giovane età di queste aiutanti, e le testimonianze che
furono raccolte qualche anno dopo dalla Commissione d’Inchiesta sul lavoro
delle donne e dei fanciulli parlava di
un’età compresa fra gli otto ed i dieci anni, e non di rado ancora inferiore.In
provincia di Milano l’età d’ammissione delle “ragazze” era fra gli 8 ed i 10
anni ma “per lavori leggeri” s’accettavano anche “bambini di sei o
sette anni” e un sindaco e un fabbricante affermarono che “nel’incannaggio
della seta certe volte lavoravano anche bambine di cinque anni”.Piccole
filande a “fuoco diretto”, con tre o quattro bacinelle, erano sparse nel
Ottocento e anche nel Settecento nelle campagne e alcune erano ancora presenti
nel Novecento in alcune aree arretrate colpite dalla miseria e lontane dalle
zone industrializzate (Lombardia e Piemonte).Erano
gestite da povere donne che a loro volta sfruttavano bambine di otto-nove anni
utilizzate per tenere accesi i fuochi e per fare girare la ruota degli aspi. Da
un racconto di Nuto Revelli, un donna, Francesca Guasco, nata ad Alessandria
nel 1902 da una famiglia contadina e, orfana di padre e di madre, aveva
cominciato a lavorare a dieci anni facendo un po' di tutto prima di entrare in
filanda…c’erano quelle piccole filande, una donna, due, e io andavo a
tirare l’asta. C’era una donnetta che ci aveva solo forni. Si andava là
perché…. Vieni che ti do qualche soldo… quattro forni a legna e poi c’era la
caldaia con l’acqua sopra, calda. Noi si doveva girare “l’asta” col piede,
l’asta che faceva girare la ruota e la donna che coglieva la seta ah! con le
mani. Tirava i fili. Andavo alle quattro del mattino per accendere la caldaia,
perché lei arrivava alle sei”.Nel lavoro di trattura le mani venivano immerse nude
direttamente nell’acqua che doveva essere bollente perché le incrostazioni
potessero staccarsi facilmente senza rovinare il filo di seta. Così tra le
malattie che affiggevano le lavoratrici, reumatiche, dell’apparato digerente e
della vista, c’era quello legato alle escorazioni delle mani.Era detto il “mal della filandera”, dopo cinque o sei giorni dall’inizio
del lavoro “la pelle era a brandelli, le dita e i palmi delle mani bruciati”. La raccomnandazione di trovare un solvente che permettesse di
fare a meno dell’acqua bollente era stata fatta dal Consiglio Sanitario di
Forlì nel 1877 Facciamo voti altresì perché la chimica, madre
e nudrice di milleindustrie,
trovi un solvente della materia agglutinante della seta,onde
il filo si possa staccare senza avere bisogno dell’acqua calda che tantonocumento
arreca alle mani delle lavoratrici. Qualche prodotto venne messo in commercio per accellerare la
pulitura del bozzolo, e le mani non ne soffrirono di meno perchè, raccontava
una donna del Cuneese che ne aveva fatto esperienza nel primo decennio del
Novecento,a
seconda del tipo del bozzolo mettevano un prodotto nell’acqua, labombezina,
che ammorbidiva il bozzolo ma rovinava le mani. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si
ebbero delle tecnologie più avanzate con la doffusione del vapore sia per il
riscaldamento dell’acqua sia come forza motrice; si sviluppò la divisione del
lavoro e si consolidò il ricorso a congegni che davano al filo una tensione più
regolare in modo da renderlo più uniforme.Le condizioni base non cambiarono perché era sempre intenso lo sfruttamento di donne e bambine.
Gli orari erano ora di undici ore ma i ritmi di lavoro erano molto più intensi
e le pretese padronali in termini di produttività si ripercuotevano in modo
grave nei rapporti tra le donne adulte (le maestre) e le loro aiutanti tutte
bambine tra i dieci ed i dodici anni.Nei
lunghi stanzoni si snodavano le lunghe file di bacinelle.A
destra e a sinistra di ogni bacinella stavano, l’una di fronte all’altra, una
donna ed una bambina. Le bambine, adibite al primo e grossolano lavoro di
pulitura del bozzolo, dovevano porgere l’estremità del filo alle filatrici, che
eseguivano la trattura vera e propria.Il
ritmo della filatrice era quindi condizionato non solo dalla difficoltà
intrinseche al suo lavoro, in particolare dal numero di torsioni da dare al
filo, ma anche dalla maggiore o minore prontezza della bambina nel rifornirla
del filo da avvolgere.Nascevano
quindi dei momenti di tensione che potevano sfociare in forme verbali gravi
soprattutto quando l’età delle aiutanti era molto bassa.Nell’inchiesta
del 1903 per conto dell’Ufficio del Lavoro si mise in risalto il vero e proprio
esercito di bambine di cui si nutriva l’industria tessile al nord e al sud e il
largo contributo che davano a questo sfruttamento le filande. Se al primo posto
per l’impiego di bambine con meno di 12 anni erano le Puglie, al secondo posto
veniva la Lombardia, dove la provincia di Bergamo, molto ricca di filande,
poteva vantare due tristi primati a nei confronti di un agricoltura povera. La
maggior percentuale di operaie-bambine pagate meno di 50 centesimi (primato che
le era conteso dalla provincia di Milano) e il minor
numero di operaie che guadagnavano più di 2 lire al giorno.Ci
sono molti racconti di donne che lavorarono nelle filande prima della guerra.Gina
Vanoli, una delle “compagne” intervistate da Bianca Guidetti Serra (avvocato,
politica e partigiana), viveva a Bregnano in provincia di Bergamo. Aveva appena
finito la quarta elementare quando i genitori (il padre seppelliva “i morti”
nel camposanto; ma mamma era a casa) la mandarono in filanda, dove fu messa a
fare la “sbatosa”.“avrò avuto 10
anni. Sarò stata cinque o sei mesi, non resistevo.Si faceva dalle
sei alle dodici e dalla una alle sei di sera.Sai in filanda
com’è. Si fa la seta.I bossoli li si
metteva nell’acqua bollente e si faceva la massa.Poi quella massa
si prendeva su con una pentolina… e poi si davaa quella davanti
che faceva la seta, e se quel coso non era scopato bene,quella davanti
prendeva l’acqua bollente e che la buttava addosso.... a noi bambine.
Ci faceva venire proprio come un po' frustrate,si comincia a non
poter più vedere niente.Poi io non ho più
voluto andare”. Nel
Cuneese le bambine entravano in filanda a otto anni. Si spostavano a piedi, “in
gruppo con le altre”, per recarsi dai centri minori al centro maggiore anche
d’inverno con la neve. Da Peveragno andavano a Cuneo… partivano la domenica
sera e tornavano a casa il sabato notte.Da
Monfallonio andavano a Peveragno: facevano avanti e indietro a piedi tutti i
giorni un cammino di quattro chilometri, d’estate e d’inverno; così era prima
della guerra e così sarebbe stato ancora negli anni venti.Anna
Giorgis entrò in filanda a dodici anni:“ero alta quattro
dita, non arrivavo nemmeno alle macchine, il mio era illavoro ‘dla sbatosa.. Il primo giorno, al mattino,
ho osservato.Nel pomeriggio
toglievo già i cuchet (bozzoli) mi sono bruciata le mano nell’acquabollente. Dopo
cinque o sei giorni avevo già le mano pelate…tutte le mani che
sanguinavano.La pelle era a
brandelli, le dita e i palmi bruciati…..Sanguinavano e
come le mani.Alla sera quando
tornavo a casa non sapevo più dove tenerle le mani.Al mattino quando
mi lavano nell’acqua fredda, dolori che
davano nel cuore neh..Le dita restavano
come incollate l’una l’altra perché nella nottefacevano la
crosta, allora uno allargava la mano e la crosta sistaccava, e le
dita sanguinavano. Invidiava
quella che legava i fili per fare la catena dell’ordito, la gruposa; la
filatrice invece anche lei “aveva sempre le mani nella bacinella con l’acqua
a settantacinque gradi, anche lei aveva le mani bruciate”. La
disciplina era dura. Le donne adulte, oppresse dalle pretese padronali,
imponevano livelli di produttività molto alti ed opprimevano le bambine che le
aiutavano con modi spesso brutali che hanno lasciato tracce nei loro ricordi.Gli
scioperi che cominciarono a colpire le filande avevano come obiettivo qualche
miglioramento: pochi centesimi di aumento sul salario che spesso non arrivava
nemmeno ad una lira per 11 ore di lavoro; riduzioni d’orario (da 11 a 10 ore),
allungamento di una mezz’ora del riposo per il pranzo, eliminazione delle forme
più brutali di punizione e riduzione delle multe.La
nuova tecnologia introdotta negli anni trenta nelle filande modificò di poco la
durezza del lavoro.Nelle
zone in cui il progresso si era manifestato, le donne andavano al lavoro in
bicicletta e non a piedi; delle spazzole meccaniche afferravano i bozzoli
nell’acqua bollente evitando il danno alle ragazze.Ragazze
che dovevano solo svolgerne il filo.Ma
non per questo veniva alleggerito il lavoro della scopinatrice che ora doveva
rifornire non più una sola ma ben quattro filatrici.Le
tensioni si aggravarono“quando
lavoravo… dicevano che io avevo le braccia lunghe.Tieni conto che
c’era un banco così… Adesso non ti so dire la larghezza ma…fa tre metri. Di
qui stavano quelle più alte che filavano, dall’altro lato del banco, di fronte
noi. C’erano dei paiuoli di rame con una spazzola.Noi mettevamo stì
bozzoli in acqua calda, tiravamo giù una spazzola chegirava, li lavava
e nello stesso tempo tirava su la prima seta sporca.Noi dividevamo i
fili tra le filatrici, ogni ragazzina ne aveva quattro.Cioè doveva
mantenere i bozzoli sufficienti a quattro filatrici.Ma se noi non
eravamo svelte e le lasciavamo senza filo ci picchiavano..Ci picchiavano e
poi mettevano le mani nell’acqua bollente e ce la buttavanoin faccia e ci
lavavano dalla testa ai piedi.Questo per punirci
se le lasciavamo mancare il lavoro, perché loro a suavolta dovevano
dare la produzione e se non non si manteneva il ritmo,non potevano
darla. Nessuna
delle donne che aveva lavorato da bambina alle dipendenze della filatrice ha
potuto dimenticare le umiliazioni subite in particolare con gli spruzzi d’acqua
sul visoEra un lavoro
molto avvilente perché oltre ad essere faticoso ciprocurava delle umiliazioni… se ascoltavano i
sotterfugi della mistraeravamo sgridare
dal padrone; se non ascoltavamo la mistra lei cipuniva tirandoci
spruzzi d’acqua sul viso”racconta una donna
che a undici anni era entrata in filanda a Vittorio Veneto. Un'altra
immagine percorre i ricordi di queste donne, personificazione della disciplina
padronale ed esercitata in modo diretto: la spasegiantaIl
nome riassume la sua funzione di sorveglianza e di controllo che esercitava
passeggiando in su e giù, talora su una specie di ballatoio con arroganza e
dallo sguardo perfido….La
necessità di concentrare il lavoro in pochi mesi nelle filande stagionali e successivamente,
con l’applicazione del vapore, l’ampliamento delle dimensioni produttive
determinò un concentramento di lavoratrici. Donne che percorrevano lunghi
tratti di strada da paesi anche lontani e quindi erano costrette a prendere
dimora nel luogo di lavoro.Le
“furestere” erano alloggiate in locali
poveri a cui si aggiungeva lo squallore degli ambienti di fabbrica.“camere
mal ventilate” dove le operaie dormivano “accatastate su miserissimi giacigli”
del decennio 1840 a cui erano subentrati i grandi cameroni privi di qualunque
suppellettile. Dei cavalletti di legno con i paglierecci di foglie facevano da
letto, e dei ganci affissi al muro ai quali si appendeva il sacchetto del
pane.. era tutto questo l’arredamento.A
Savignano, centro industriale del Piemonte, generazioni di donne avevano
percorso dall’infanzia all’età adulta tutte le mansioni all’interno del
filatoio.“Quando
scarseggiava la manodopera o quando il lavoro premeva, alloramandavano a
chiamare le furestere… venivano dalla campagna, credevano di averconquistato il
cielo venendo in fabbrica. Provavano un certo senso disuperiorità le
giovani che invece erano del luogo e che la sera, finitoil lavoro, avevano
ancora voglia di ballare e di loro dicevano“Sun mac ‘d
furestere( sono solo delle forestiere)” Assentarsi
per lunghi periodo da casa, per andare a lavorare in campagna o in filanda,
faceva parte del corso naturale della vita almeno per la donna delle famiglia
bracciantili.In
filanda le forestiere erano per lo più delle giovinette che si fermavano per
qualche anno prima del matrimonio. Sposate lasciavano la fabbrica per accudire
i figli piccoli, a meno che una situazione di bisogno, e la presenza di una
madre a cui lasciarli, non le spingesse a tornare in fabbrica.Degli
arrivi e delle partenze della madre, occupata in una filanda lontana, lea
Baravalle ha conservato un ricordo.Partiva
da casa il lunedì mattina e tornava di sabatoLasciava tutti noi
sette figli piccolissimi, perché c’era solo un annoda uno all’altro,
alla nonna che era già vecchia, aveva settanta anni allora.Mia mamma,
poveretta, andava via al lunedì mattina e tornava al sabato,perché allora
stavano via tutta la settimana. Dormivano in grossi cameroni, tutte. Stavano
fuori tutta la settimana. Il magiare un po' se lo portavavano da casa, un po'
se lo facevano lì, alla filanda di CavallerleoneAvevano le cucina
nei sotterranei Il
particolare che le rimase impressoQuando partiva il
lunedì mattina, mi ricordo questo perché mi è rimastomolto impresso, si
portava il fagotto della roba nostra, perché al sabato,quando veniva a
casa lavava e stirava tutto, tutta la nostra roba, la faceva asciugare e poi se
la portava via per rammendarla e per riportarla a casa il sabatodopo per poterci
cambiare, perché la roba era così misurata… al
lavoro in filanda, che era di dieci ore, dalle sette fino a mezzogiorno, poi
dalle due alle sette, la madre ne aggiungeva un altro nell’intervallo di
mezzogiornomangiava un
pezzetto di pane e poi, perché le necessitàerano quelle che
erano, andava ancora a lavare e stirare a casa del direttore. Spesso,
non era una rarità, la donna riprendeva il lavoro in filanda anche molto tardi
quando per necessità o quando le veniva a mancare il marito.Così
era avvenuto di sua madre, racconta Margherita Lemasson, diventata vedova aveva
dovuto riprendere il lavoro di filatuiera.Quel
destino che le madri avevano conosciuto e che si snodava tra filanda e
campagna, si ripeteva per le figlie di generazione in generazione, senza
alternativeChiusa la fabbrica
eravamo tutte sul lastrico, c’era solo la campagnaRicorda
Lea Baravalle della propria esperienza, comune a tante altre ragazze della sua
età.
MESSINA
lavorazione bossoli
Una filanda di
Messina (?)
Le
bambine erano al primo lavoro e inesperte. Avevano il compito d’immergere i bozzoli
nell’acqua bollente e con l’ausilio di una piccola spazzola trovare il filo
iniziale del bozzolo per poi darle alle filatrici. Queste inserivano i numerosi
fili di seta nelle filiere sorvegliando che tutto procedesse nel migliore dei
modi. Queste ragazze, più esperte, erano aiutate da compagne che avevano un
compito molto arduo. Quando
si rompevano i fili durante il passaggio nelle filiere avevano il compito, di
riannodare i capi velocemente e con movimenti esperti. Se il lavoro riusciva male la filatrice andava incontro ad una sospensione che
andava da due, tre, otto giorni a seconda della gravità del danno. Una
punizione molto dura per le povere operaie specialmente per quelle che dovevano
sostenere una famiglia.
II salario oscillava da 45 a 90 centesimi al giorno, a
seconda dell'abilità e dell'anzianità delle operaie; per le aiutanti invece,
era di 40-45 centesimi; le ragazzine con meno di 12 anni prendevano 20
centesimi e lavoravano solo una mezza giornata. Queste ultime, durante i rari
controlli da parte delle autorità competenti, venivano nascoste e minacciate di
licenziamento in caso di lamentela. Poiché il lavoro in filanda poteva essere svolto da
individui senza alcuna preparazione, i proprietari delle filande trovavano,
facilmente, vista anche la disponibilità di manodopera, personale da inserire,
e la sostituzione di un operaio poteva avvenire, senza problemi di sorta. Per
le addette, pertanto, il pericolo di perdere il posto era reale ed elevato,
l’instabilità era una situazione sentita, che poteva comportare il venir meno
di un salario già misero, ma da cui dipendeva la sussistenza di alcune
famiglie.
Le condizioni lavorative si caratterizzavano, oltre
che per i bassi salari, per una situazione igienica scadente e per estenuanti
orari di lavoro: tutti gli operai addetti alla torcitura della seta, di
qualunque età e sesso, lavoravano quasi sempre nei mesi di giugno, luglio,
agosto, settembre e molti anche in ottobre, mentre le ore di lavoro variavano,
a secondo dei mesi e della richiesta di seta, dalle 11 alle 14 ore e mezza al
giorno.
Le operaie erano costrette a lavorare in un ambiente
afoso, a circa 50 gradi di temperatura. L'aria era carica di un vapore
nauseabondo, che tendeva a trasformare l'ambiente in una sorta di stufa permanente;
le finestre dovevano rimanere chiuse, per evitare che l'aria spostasse il filo
di seta negli aspi e per mantenere un’umidità costante, necessaria a filare la
seta. L'ambiente risultava, quindi, costantemente immerso in una nebbia calda,
certamente non benefica per la salute delle lavoratrici.
Da una lettera al Prefetto di Meldola del Settembre
1893 si legge che le donne della zona “si occupano esclusivamente
nell'industria della trattura e filatura della seta. Da tale lavoro le famiglie
operaie nostre traggono sufficiente vantaggio economico, ma purtroppo le
condizioni in cui si compie, influisce ad alterare lo stato di salute delle
nostre classi povere. L'eccessivo calore, l'atmosfera sempre umida, il dovere
esercitare le mani sempre nell'acqua quasi bollente, l'immobilità per 12 ore,
sono tutte cause, onde abbiasi a danneggiare la salute di quelle operaie e più
ancora quella dei loro nati giacché molte di esse seguitano a lavorare fino a
che giungono agli ultimi giorni di gestazione”.
Da una relazione presentata all’Esposizione
Internazionale Operaia di Milano nel 1894, si legge di una indagine svolta a
Cremona da parte della Camera del Lavoro della città sulle condizioni igienico
sanitarie delle filande. In essa venne evidenziato come l’ambiente malsano ed
il genere di lavoro, l’assenza di precauzioni igieniche, i contatti tra
individui ammalati ai primi stadi ed individui con organismi debilitati ed esauriti
per cattiva alimentazione, favorivano il contagio e la diffusione di malattie
quali la tubercolosi. Lo sfruttamento di questa mano d'opera era, inoltre,
facilitato dalla scarsa organizzazione sindacale a tutela del lavoro femminile.
3. LA VITA NELLA FILANDA
Il Pranzo
Per il pranzo era abitudine di filere e scopinere
utilizzare l’acqua bollente delle bacinelle per cuocere uova e soprattutto
patate.
Per questo motivo le pietanze assumevano il “sapore”
del bozzolo
“Ci portavamo da casa due mele, due uova, qualche patata.
Le uova e le patate le facevamo cuocere nelle bacinelle, cuocevano
insieme ai bozzoli, nell’acqua sporca.
Specialmente le patate odoravano di bigat”.
-
Portavamo le patate, le
buttavamo dentro le bacinelle di rame, dove
mettevamo le gallette, mettevamo anche le patate.
Ecco: questo era il nostro pranzo. Altrimenti veniva mia nonna,
mi portava un pentolino con dentro un po' di riso e un po' d’acqua,
una specie di minestra e si mangiava.
Non mangiavamo chissà cosa, eravamo tutti in linea una volta !
-
Più che pasta e minestra non
si mangiava. C’erano quelle che
erano figli unici e avevano i piattini ma a noi che eravamo tre
sorelle facevano un bel minestrone e basta.
-
Per mangiare a mezzogiorno
portavamo il nostro pentolino con il
latte e la polenta, due panini e una bella tazzina di mostarda
-
Pane con una tavoletta di
cioccolato o con un pezzetto di formaggio
-
Noi bruciavamo dal caldo sopra
i fornelli bollenti.
Se era estate andavamo a mangiare anche sotto la barca,
per prendere il fresco. Poi c’era l’uomo veniva sempre a vendere
i limoni, gridava: “Limoni”.
Allora si compravano a 10 centesimi l’uno.
Bevevamo l’acqua della filanda che non era tanto buona perché
sapeva di cagnoni e mia mamma mi comprava la magnesia,
allora si comprava misurata. Mi diceva:
“quando vai a bere l’acqua in filanda metti dentro un po' di questa”.
-
Allora vendevano i fichi
secchi e noi li mangiavano con la polenta
oppure con il pane. Il pane faceva da primo e i fichi da secondo.
-
Non c’era da mangiare, ci si
accontentava di tutto. Adesso invece....
I Canti
Erano diverse le regole all’interno delle filande in
materia di canti e di preghiere.In alcuni stabilimenti era permesso cantare e in altri
era vietato.Spesso la direzione preferiva permettere il canto
piuttosto che le conversazioni tra le operaie, perché questo non faceva
diminuire l’attenzione sul lavoro.ogni gruppo cantava la sua canzone ed il padrone era contento se cantavamo
e
pregavamo. Era invece proibito parlare, chi parlava si distraeva e veniva
punita
con la multa. Cantavano le più anziane, quelle che avevano una maggiore
esperienza sul lavoro ,mentre le giovani, appena entrate nella filanda,
stavano zitte perché troppo concentrate sul lavoro per paura di sbagliare.
Cata La Foia
Legato ai problemi
dell’economia della bachicoltura, questo canto descrive i momenti principali
dell’allevamento ovvero le quattro dormite che precedono "l’andata al
bosco”, cioè la formazione del bozzolo, e la fatica collettiva del contadino e
dell’intera sua famiglia.
Raccogli la foglia
raccogline abbastanza
nella prima (dormita) i bachi
ci vuole verde e non bagnata
portane a casa una gerlata
raccogli la foglia
raccogline di più
nella seconda i bachi
da la terza e la quarta di buon voglia
tre volte al giorno ci vuole la foglia
ma quando andranno al bosco a fare la seta
allora tutta la casa sarà dorata
o quanto faticare però massaro
a vendere tutti i bozzoli quanti denari
va avanti a raccogliere la foglia va avanti a raccoglierne abbastanza
che è un affare d’oro
avere i bachi
..........................MAMMA
MIA MI SON STUFA
Canto di protesta
Questo canto
esprime con chiara consapevolezza il rifiuto delle giovani di lavorare in
filanda a causa sia delle dure condizioni fisiche che dei continui controlli di
produttività e il desiderio di andare a lavorare nella bergamasca dove, secondo
alcune fonti, le paghe erano migliori.
..........................................................
E CANTA
LA SCIGÀDA
Canto sulle
filandere
Questo canto, non
propriamente di filanda ma cantato per le donne che andavano in filanda, può
considerarsi un inno in loro onore. Esse, seppur costrette in così poco
paradisiache condizioni di lavoro, sono degne portatrici di una bellezza
propria e irriducibile.
E canta la cicala
risponde l’usignolo
le donne della filanda hanno brutta la camicetta
Se la camicetta è nera gli occhi sono sempre belli
le donne della filanda fanno andare i fusi su e giù.
...........................
O MAMMA
MIA TEGNÌM A CÀ
Canto di protesta
Questo canto
esprime con molta forza il rifiuto del lavoro da parte delle giovani
lavoratrici, stanche della pesantezza del lavoro della filanda.
O mamma mia
tenetemi a casa
che in filanda non voglio più andare
Mi dolgono i piedi mi dolgono le mani
e la filanda è per i contadini
Per i contadini per lavorare
e io in filanda non voglio più andare.
https://www.youtube.com/watch?v=bzdDRa1NSck
.......................................
O SCIUR
PADRÚN I CAVALÉ VAN MAL
Canto sulla
bachicoltura
In questo canto,
in cui è chiara la consapevolezza dei rapporti economici tra padrone e
contadino, è presente il peso del contributo economico della bachicoltura per
la sorte della famiglia rurale, sottoposta a una forte pressione produttiva
decisiva per il buon esito dell’allevamento.
O signore padrone
i bachi vanno male
frumento e granoturco
passerà l’annata
senza pagare il padrone
O contadini
mettiamo su degli scioperi
degli scioperi e dei bordelli
passerà l’annata
senza prendere cinque centesimi.
.......................................
Povre
Filandere-Canto popolare di Filanda
...........................................Altri canti nel sito:
https://www.vocidallafilanda.it/lavoratori_canti.php?locale=it_IT
..............................................
la cantautrice Milva dedicà una canzone alle filandiere
........................
Le Forestiere
Le forestiere erano lavoratrici provenienti da comuni
o regioni lontane e popolavano le filande ed i filatoi dei territorio.
-
Alla domenica sera
cominciavano ad arrivare a piedi dalle montagne-
Le vedo ancora davanti agli occhi mentre venivano in filanda.
Le forestiere avevano un punto in cui mangiare e dormire.
Andavano a casa il sabato e arrivano il lunedì.
Tanto più erano lontane, quanto più si fermavano. A loro qua piaceva,
però il sabato erano felici di andare a casa.
-
Quando il lunedi andavamo a
lavorare la mamma ci faceva il pacco da portare con farina, riso, patate e
zucchero. Compravamo solo il pane e qualche volta
un pezzo di formaggio per portare a casa il mese intero.
-
Mia mamma e mia zia erano di
Consonno e lavoravano a Garlate. I due paesi
erano distanti e quindi non potevano andare avanti ed indietro.
Allora la ditta Abegg ci ha dato una bella cucina grande; lì loro facevano
da mangiare a mezzogiorno e a sera. Sopra avevamo i dormitori, camerate
come quelle dei militari. Vanivano e facevano la loro stagione in
filanda, tante si sono spostate qui e sono rimaste, tante sono andate per
la loro strada. Venivano dalla bassa milanese e anche dalla
Val Canonica perché in quei luoghi non c’era lavoro.
-
Io continuavo a piangere
perché non c’era la mia mamma e le donne
venivano da me e mi chiedevano:
“Cos’hai... Non Piangere .. mi accrezzavano... ma io piangevo... piangevo..
perchè andavo a casa solo una volta alla settimana”.
-
Le forestiere cantavano quando
andavano a casa di sabato:
Addio Garlate, addio
Ti lascio in mezzo ai monti
Giovanotti vagabondi c’è né una quantità
Facevano delle grandi e spassionate cantate..
...............................
TRATTURA
PIEMONTESE, VARIANTE LOMBARDA
Esempio
di lavorazione settecentesca della seta
Beatrice
Gilardi, ex filatrice della filanda Abegg, mostra la tecnica di trattura
manuale con bacinella a tre capi e riscaldamento a fuoco diretto. Ideata a due
capi a fine XV secolo in Piemonte questa tecnica fu copiata in Lombardia a fine
Settecento e trasformata a 3 capi, trovando molta diffusione pur dando una seta
di qualità inferiore rispetto alla piemontese. Il castello in legno era
ereditario in famiglia per via femminile.
https://www.vocidallafilanda.it/macchine_video_beatrice.php?locale=it_IT
..................................
4. I PRIMI SCIOPERIL’Uno
maggio 1890 le operaie della filanda Tambosi di Lavis (Trento) scioperarono per
chiedere la riduzione dell’orario di lavoro.
La
manifestazione di sciopero dirò circa una settimana attirando i cronisti del
tempo.
Le
operaie chiedevano una riduzione dell’orario di lavoro da 13 a 10 ore e la
lotta di protesta durò circa una settimana. Fu definito dalla critica storica
come il primo sciopero organizzato nel Tirolo italiano. Una forma di protesta
clamorosa considerano che a Vienna, capitale dell’Impero d’Austro – Ungarico,
il primo sciopero femminile fu datato 18maggio 1893.
Un
avvenimento clamoroso e del tutto nuovo e i giornali dell’epoca seguirono
attentamente l’evolversi della situazione.
A fine Ottocento era in vigore una legge di Francesco Giuseppe
d’Austria che tutelava il lavoro minorile e femminile. Per le donne l’orario di
lavoro non poteva superare le 11 ore giornaliere mentre per i minorenni il
lavoro era vietato fino ai 14 anni d’età e aveva come obiettivo il garantire l’istruzione di base. O
movimenti operai rivendicavano in tutto il mondo una maggiore tutela sul mondo
del lavoro e la riduzione dell’orario di lavoro al motto
8 ore
per lavorare, 8 ore per studiare, 8 ore per dormireL’Internazionale socialista del 1889 dichiarò il primo maggio
festa internazionale dei lavoratori (una data collegata agli scontro di Chicago
del maggio 1886).
Il
primo maggio 1890 i
lavoratori delle principali capitali europee scesero quindi in piazza per
chiedere più diritti e tutele: in Trentino a scioperare furono le donne di
Lavis.
Lavis (Trento) - L'ex filanda
Il Popolo
Trentino in
data 1 maggio 1890 scrisse:
“Stamane
si posero in sciopero tutte le operaie della filanda Tambosi facendo degli
assembramenti nei pressi della filanda per impedire che le timide, pentendosi
del passo fatto, si recassero al lavoro. Domandano che la giornata di lavoro
sia ridotta a 10 ore, conservandola mercede attuale. Ora che vi scrivo
(mezzogiorno) lo sciopero dura ancora, né è mia cognizione che siasi venuti ad
un compimento”. In
data 3 maggio lo stesso
giornale trattò nuovamente lo sciopero:
“Anche
le operaie della filanda del Sig. Tambosi in Lavis hanno voluto rappresentare
la loro parte al primo maggio. Alla mattina di detto giorno per tempissimo
avreste veduto andar gironzolando per le vie della borgata delle giovani a due,
a tre, a quattro….chiacchierando, bisbigliando, sussurrando – poi
raccogliendosi in crocchi; indi riunirsi in massa sulla piazzetta che stà
dirimpetto al palazzo del Giudizio.Che
è? Che non è? Si domanda l’un l’altro. Sciopero su tutta la linea. Intanto alla
filanda da il primo fischio del vapore, a cui le operaie rispondono con
grida; al secondo aumenta lo schiamazzo e incominciano a cantare una canzone
d’occasione. Le scioperanti domandano che che vengano loro ridotte le ore di
lavoro da 13 a 10 – ben inteso restando intatta la primiera mercede.L’agitazione
muliebre durò la mattina fin verso le ore 8. Si credeva che qui fosse tutto
finito e che le Autorità intervenute fra cui l’I.R. Capitano de Ebner, avessero
accomodato ogni cosa, ma no, che anche dopo pranzo le scioperanti operaie si
raccolgono i nuovo sulla detta piazzetta ed ivi gridano e cantano – e al
fischio che le invitava al lavoro rispondono come alla mattina, e il bisbiglio
continuò, in grazie del tempo piovoso, solo fin verso le ore 3 pom.A
quanto si dice fu proposta alle operaie una diminuzione di opre di lavoro – con
relativa diminuzione di paga; ma esse per ora rifiutarono la proposta. – Dieci
ore di lavoro era la parola d’ordine”.La Famiglia Cristiana, altro giornale
trentino, in data 6 maggio 1890 riportò
la seguente notizia:“Dopo
lungo tergiversare finalmente pare finisca. Ieri sera fu convenuto di riaprire
mercoledì prossimo la filanda, la quale è chiusa dal primo maggio, e si pattuì
di continuare almeno per intanto con 13 ore di lavoro”. L’obiettivo
della riduzione dell’orario di lavoro non fu immediatamente raggiunto, ma il
provvedimento di concessione delle 12
ore giornaliere non tardò molto ad arrivare.
La lapide che ricorda lo sciopero
Nelle
fabbriche, come detto sopra, il lavoro minorile era proibito sotto i 14 anni e la giornata
lavorativa, anche per le persone adulte, non poteva superare le 11 ore.Una
norma questa che probabilmente non veniva rispettata nel Titolo italiano. Luigi Tambosi in
una lettera del 1887 indirizzata
alla Camera di Commercio di Rovereto scriveva:“La
filatura, in relazione al prodotto bozzoli del paese, può dirsi ancora fiorente
e più lo sarebbe se le nuove leggi industriali non l’avessero posta in
condizioni di lavoro assai meno favorevoli di quelle del vicino Regno d’Italia.Infatti
mentre là con un lavoro spinto a 14 ore al giorno si impiegano ragazzi da 9
anni in su, qui per effetto delle suddette leggi, quantunque mitigate dalle
successive ordinanze, non si ammettono che quelle sopra i 14 anni per una
durata massima di 12 o 13 ore di lavoro al giorno, e si esigono provvidenze
speciali a favore degli operai ammalati e speciali adattamenti per l’igiene dei
locali”.(La
storia della filandaI
primi documenti risalgono al 1809 e
parlano della filanda che allora apparteneva al signor Carlo Viero.
La filanda era dotata di 15 fornelli e
in quel periodo risultava essere una delle più grandi del Tirolo italiano.Nel 1841 l’intero complesso fu venduto ai
fratelli Lanfranchi i quali, dopo aver dato un grande impulso allo
stabilimento, lo cedettero a Luigi Tambosi. Nel 1868 nella
filanda risultavano impiegati 9 uomini, 70 ragazzi e 225 donne.)
Immagine di una filanda friulana, senza luogo e data. Fonte: Archivio
CGIL Pordenone, Mostra sul lavoro delle donne
Il
2 maggio 1894. governo Francesco Crispi (sempre lui.... l’assassino).... le setaiole di Udine,
guidata dalla loro compagna “Menie” entrarono in sciopero.
Un
atto interpretato con coraggio e accompagnato dal canto delle scioperanti.
Volin vèlu il nestri orari,
Volin vèlu des sis
es siet;
E che ore che nus vanze
Volin glòdlile tal jett.
Vogliamo il nostro
orario,
lo vogliamo dalle
sei alle sette;
e l’ira che ci
avanza
vogliamo godercela
nel letto.
Il canto delle
filandiere sotto
la Loggia
Municipale di Udine, nel corso dello sciopero.
Udine – Loggia del
Lionello
Le filandiere erano donne, fanciulle e ragazzine che da tempo venivano sfruttate
con paghe da fame: da 35 a 50 centesimi
per un orario giornaliero di 14 ore.Negli stabilimenti tessili, come per le altri parti d’Italia, la
presenza femminile era preponderante. Come detto percepivano una bassissimo
salario lavorando dalle 13 alle 16 ore al giorno. Non esisteva il riposo e si
lavorava anche di notte e anche di domenica e nei giorni festivi.Il lavoro nei giorni festivi, compresa la domenica, era una
consuetudine negli stabilimenti e veniva nascosto in modi diversi.Era considerato “essenziale” per non spezzare il ritmo
produttivo.La domenica c’era l’abitudine di prolungare di 4/5 ore il lavoro
dopo la mezzanotte del sabato e non veniva conteggiato come tale. La domenica
mattina il lavoro era dedicato alle pulizia delle macchine, alla loro
riparazione... un lavoro che non essendo riconosciuto non veniva quindi pagato.Il 2 maggio l’adesione allo sciopero fu bassa ma il giorno 4 l’adesione alla protesta
si fece più massiccia con la partecipazione di almeno 500 lavoranti giunte da
varie filande: Frizzi, Morelli, Carrara ed altre.Il
settore sericolo ad Udine era molto sviluppato e presentava un certo numero di
Stabilimenti di cui i più importanti erano: Frizzi (270 setaiole), Morelli con
150, Ottone Carrara con 100 e Pantarotto, Del Greco, Paruzza.Le
lavoratrici chiedevano un orario più umano e non decretato ad arbitrio dal
padrone:“ora lavoriamo
dalle 5 di mattina fino a mezzogiorno (12,30) con l’interruzione di 20 minuti
per la colazione. Si riprende all’una e un quarto e si continua il lavoro
finché ci si vede. Sono 13 e più ore di lavoro. Noi invece vorremmo che
l’orario fosse così: dalle 6 della mattina alle 7 di sera con l’intervallo di
un’ora e mezza a mezzogiorno. Sarebbero 11 ore e mezza di lavoro.”
Nella chiesa di
San Giovanni Battista, ad Alba, si trova un
quadro, olio su
tela, che raffigura San Giobbe, opera
di Chiantore
Giuseppe (Cumiana, Torino,1747 – Torino, 1824) risalente al 1823.
Al centro della
composizione si trova la maestosa figura di San Giobbe seduto su
assi ricoperti di
paglia. Il santo rivolge lo sguardo a tre persone che si trovano sulla destra.
Il suo corpo è nudo, cinto solo da ampi panneggi del manto dal
colore arancione,
ed è caratterizzato da muscoli che sono messi in evidenza.
Per terra, ai
piedi del Santo, si trovano i rami raccolti di gelso e un rocchetto.
Elementi che si
collegano alla bachicoltura, alla conseguente produzione di
seta e al mercato
dei bozzoli e delle foglie di gelso che si teneva proprio
nella piazza
antistante la chiesa di San Giovanni. San Giobbe è infatti
il protettore dei
bachicoltori e quindi anche del baco da seta.
Secondo la tradizione dalle piaghe che furono
inferte da satana a San Giobbe,
uscirono dei vermi
che diventarono bachi da seta. Da questo miracolo
si ritiene quindi
che San Giobbe sia protettore degli allevatori del baco da seta.
L’opera fu
commissionata dalla Società dei Filanti da seta di Alba che
fece collocare il
quadro sull’altare di Sant’Onorato per pregare il santo protettore.
Una delle
principali attività di Alba era la filanda che proseguì fino al 1958.
Una figura biblica, comune ai cristiani ed ai musulmani (Job e Ayyub), presente nelle tradizioni popolari come protettore dei bachi e dei suoi allevatori con una leggenda. Una leggenda, narra la storia di Giobbe e delle sue sofferenze, giunta in Italia verso il XIV secolo e particolarmente diffusa nel Nord Italia soprattutto nel Bellunese.
Giobbe sul
letamaio
Artista: Preti
Mattia
(Taverna, 25
febbraio 1613 – La Valletta, 3 gennaio 1699)
Datazione: ?
Pittura: Olio su
tela – Misura (203 x 264) cm
Collocazione: L’Aquila,
Museo Nazionale d’Abruzzo
........................
Manifestazioni che, secondo alcuni studiosi, erano ancora presenti nel 1959 a Seregno, nelle zone di Briosco, Casatenovo e a Gaggio di Nibionno.
Un rito che era molto diversificato secondo i luoghi.
“Si dava la benedizione ai locali in cui avveniva l’allevamento dei bachi. I protagonisti del rito erano dei ragazzi che, durante la Settimana Santa, percorrevano le vie del paese portando il “Cristèè”, cioè una Crice con i simboli della Passione e una ghirlanda di alloro e fiori. Entravano nelle case e nella bigattieria percuotendo con il loro bastone il soffitto e pronunciando un inno alla Passione con ritornelli profani. Il tutto era accompagnato dalla raccolta di offerte”.
Un rito che presentava aspetti sacri e profani e forse in origine magico protettivo. La bachicoltura aveva inglobato pratice magiche antiche e cioè presistenti. Una festa di propiziazione dalle origine pagane e forse collegata al calendimaggio, imperniata sull’uso di simboli vegetali, in cui si inneggiava alla natura in fiore e alla bellezza delle fanciulle a cui veniva offero, in segno di devozione, un ramoscello verde (maio).
In questi centri la manifestazione rituale assumeva quindi un carattere economico e sociale.
..............................
Una donna
raccoglie i bozzoli, staccandoli dalle fascine di paglia, dove il baco aveva
terminato la fase della maturazione, avviluppandosi attorno ai fili sottili,
presso una bigattiera, azienda agricola adibita alla bachicoltura. MARTIGNACCO
(UD) /Ceresetto, 1957. Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del
Friuli Venezia Giulia
In realtà la
bigattiera è il locale dove si allevano i bachi da seta o anche
il tavolo sempre
per l’allevamento del baco.
All’allevamento del baco badavano in massima parte le contadine che dedicavano ai filugelli lo stesso amore o attenzione che rivolgevano ai propri figli. I racconti parlano di uova del mutevole insetto che, avvolte con amore in un panno di lino, venivano fatte scovare tra i seni delle bachicoltrici. Le donne avevano un rispetto che solitamente si porta alle gestanti. Certo in periodi di miseria a quei filugelli era legata la possibilità di un piccolo reddito per vivere. Le massaie seguivano con amore le varie metamorfosi dei filugelli. Appena nati cominciavano a brucare le foglie che le donne sminuzzavano nei vari graticci. La giusta alimentazione li faceva crescere e dopo ben quattro mute, si rinchiudevano in bozzoli formati dalla loro stessa bava,,, in gergo si diceva che “salivano al bosco” e dopo una quindicina di giorni usciva una farfalla. Diciamo che i più fortunati riuscivano a diventare farfalla perché a loro era assegnata la continuità della specie mentre gli altri e numerosi bozzoli venivano inviati velocemente alle filande per estrarne la seta. Le poche farfalle uscite dall’involucro sericeo, le più “fortunate” non perdevano tempo ad accoppiarsi per deporre nell’arco di poche ore numerose uova per poi…. subito dopo…. morire
L’attività
della bachicoltura è un fatto culturale assodato nel territorio. Difficile è
invece stabilire la sua genesi quando cioè fu introdotta in Sicilia.
È
probabile che la città di Messina, con il suo porto importante sin dall’antichità,
sia stata una delle prime stazioni europee lungo quella che veniva chiamata la
“Via della Seta” che nacque in Cina nel 2600 a.C.
Al
tempo di Giustiniano i bachi da seta fecero la loro apparizione anche a
Bisanzio. Le uova erano nascoste dentro i bastoni dei monaci che l’imperatore
aveva mandato in Asia per diffondere il messaggio cristiano.
In
Africa e nel Nord Europa l’allevamento del baco fu introdotto dagli Arabi ma
furono i Normanni che favorirono l’allevamento grazie all’incremento dei gelseti
a scapito del cotone e svilupparono anche l’industria della seta con l’utilizzo
di manodopera specializzata proveniente dalla Grecia e con gli stessi Arabi che
entrarono a fare parte di laboratori reali dove prestavano la loro
professionalità.
«A
Vienna – nota Denis Mack Smith – esiste ancora un bel manto di seta in cui è
ricamata un’iscrizione in lingua araba ove è detto che era stato tessuto
nella fabbrica reale di Palermo nel
1133-34: questo laboratorio si trovava nel palazzo e vi
lavoravano, oltre a operai della seta, orefici e gioiellieri». Da Palermo
l’industria serica si diffuse prima in tutta la Sicilia e successivamente nel resto dell’Italia, per esser poi estesa
alla Provenza, a Marsiglia, a Lione e ad altre regioni d’Europa.
L’area
dove la bachicoltura si sviluppò fu nella Val Demone.
Nel
palazzo Reale di Messina probabilmente al momento della sua ultimazione
avvenuta nel 1140, ci doveva essere un laboratorio di produzione d’indumenti reali simile a
quello del Palazzo Reale di Palermo. Un laboratorio messinese che produceva
stoffe per la città visto che nel 1160 il re Guglielmo concesse alla città
l’esenzione dall’obbligo di comprarli dalla corte di Palermo.
L’attività
serica a Messina si sviluppò ulteriormente con gli Svevi e gli Aragonesi.
Subì
un decremento dopo la cacciata degli Ebrei del 1492 dato che essi detenevano il
monopolio della produzione e commercializzazione dei tessuti sericei.
Fu
solo un attimo dato che l’attività si riprese grazie anche ai finanziamenti di produttori
provenienti da Lucca e Catanzaro.
Nel
1530 Carlo V concesse ai messinesi i Capitoli della Seta
Una
importante regolamentazione del processo produttivo gestito in stretto rapporto
con il tribunale del Real Patrimonio dai “Consoli dell’Arte” che erano
autorizzati a fare delle ispezioni “a tutte hore”, multare i contravventori e
all’occorrenza bruciare “in più lochi” la merce scadente.
Nel
1517, quindi tredici anni prima, la regina Giovanna aveva a sua volta accordato
ai Messinesi il privilegio di esportare la seta a Cagliari, regno degli
Aragonesi” e a Siviglia.
Filippo
V stabilì che tutta la seta siciliana doveva essere esportata dal porto di
Messina.
C’erano
delle industrie che ricevevano importanti committenze da ogni parte d’Europa e
non solo. Grazie a questa attività così florida dal punto di vista commerciale,
la città diventò “fiera franca della seta” favorendo un ulteriore insediamento
di mercanti stranieri, genovesi, biscaglini e addirittura norvegesi.
Nel 1664 a causa della ribellione antiaragonese la città perse il privilegio dell’esportazione esclusiva della seta con conseguenze disastrose in termini economici e di ordine pubblico.
L’attività serica continuò e si riprese con in Borboni grazie ai nuovi Capitoli concessi dalla corona nel 1736 e al parziale ripristino del porto di Messina da cui era obbligatorio esportare la seta prodotta nella Val Demone che era la maggioranza della produzione siciliana.
Richiamando un “Real biglietto” del 13 dicembre 1753, un Bando e Comandamento del Marchese di Trentino, maestro razionale del Tribunale del Real Patrimonio, stabilì che “tutti gli abitanti della Val Demone dovessero forzatamente immettere le loro sete in detta città di Messina e, volendole estrarre, lo dovevano fare dal medesimo Porto con pagare grana 30 per ogni libbra per l’estrazione, oltre a grana quattro a libra pel pelo [ossia per il trasporto su animali da soma], e gli altri diritti di Regia Dogana, e contravvenendo a tale ordine, si [intendessero] non solo nella perdita delle Sete, ma di dover pagare ancora onze cento per quilibet contravvenzione, a beneficio della Regia Corte […] che in caso di furtiva estrazione di Sete dalli descritti luoghi […] per infra e fuori Regno oltre alle pene di sopra espresse, [avrebbero perduto] gli Estraenti e conduttori le Mule, Cavalli, Somari, Carri, Carrette, Bovi ed altri, sopra le quali [si fossero trasportate] dette Sete, e le barche sopra le quali si fossero imbarcate le Sete, o navigate per estrarsi».
Il
terremoto del 1783 segnò l’inizio della decadenza dell’attività bachi-sericola. Alla vigilia
dell’unità d’Italia si cominciarono ad avvertire i segni di un diffuso
disimpegno produttivo dei gelsicoltori, per effetto dell’atrofia di cui erano
stati colpiti i bachi (pebrina).
Molti proprietari cominciarono ad estirpare i gelsi e a piantare gli agrumi mentre
nell’Italia settentrionale s’introducevano nuove razze di bachi originarie dell’Estremo
Oriente. La malattia che aveva
attaccato i bachi in Sicilia fu debellata solo nel 1874. Ma la
bachicoltura nel Messinese non scomparve, grazie all’iniziativa di un
coraggioso industriale inglese, Tommaso Hallan, «che impiantò sistemi meccanici
nelle filande» per produrre la seta greggia. Ma già cinque prima la Camera di
Commercio di Messina aveva creato un ufficio
di coordinamento delle attività connesse all’esportazione dei bozzoli in
Francia e nelle città industriali del nord Italia. Alla
fine del secolo c’erano nove filande,
sette delle quali a vapore, con circa mille addetti, in gran parte di sesso
femminile. Ma il calo della produzione
fu inevitabile: dai 22.000
quintali di bozzoli che si producevano nel 1855 si passò
ai 17.000 nel 1880, che si ridussero a 15.545 nel 1888 e a 400 a fine secolo. In queste condizioni
non può stupire più di tanto se a partire dal 1898 a Gazzi, villaggio a sud di
Messina, una grande filanda che dava lavoro a 650 operaie mal pagate, divenne
teatro di un continuo stato d’agitazione delle lavoratrici che reclamavano
migliori condizioni di vita e di lavoro. La situazione precipitò nel 1904: «un
clamoroso sciopero, come non s’era mai visto a Messina, bloccò letteralmente il
territorio a sud della città». E la protesta, «che sapeva più di ribellione
politica che di rivendicazione sociale», si estese a tutte le altre
filande. A segnare l’inizio della fine
della residua produzione di seta grezza in Sicilia fu il terremoto del 1908.
Pur
nondimeno, in alcuni villaggi di Messina (Gesso, Pezzolo, Santa Margherita,
Giampilieri, Massa San Giorgio, ecc.) la bachicoltura sopravvisse di un
ventennio anche alla seconda guerra mondiale dato che i sensali di Roccalumera
continuavano a fare incetta di bozzoli per conto di una filanda. Un’anziana
contadina di Pezzolo, molti anni fa, rilevò che fino
al 1957 lei stessa allevava bachi da seta: possedeva una
bigattiera capiente di tre cannizzi e
covava le uova con i seni.
Nei
villaggi e nei borghi si respirava un aria di festa quando giungeva il momento
di vendere i bozzoli e si ringraziava San Giobbe per quel piccolo reddito
percepito. Spesso le donne regalavano
qualcosa anche al parroco come una cotta di seta confezionata
artigianalmente (il parroco di Gesso).. Oltre
a pochi scampoli di memoria e a qualche documento d’archivio, ormai non rimane
granché della bachicoltura messinese. Molte filande sono
crollate; se ne sono salvate pochissime, che hanno una nuova destinazione
d’uso.
Una,
a valle di Galati Mamertino, ospita un ristorante. Un’altra, sita nel
Capoluogo, è sede del Museo Regionale di Messina. Sopravvivono qua e là alcune
piante di gelso, cui ormai è riservato il triste destino di proiettare l’ombra
sull’ignavia di una classe dirigente che nulla ha saputo o voluto fare per
salvare i tratti salienti dell’identità culturale delle operose comunità che
hanno reso famosa nel mondo la tradizione serica messinese.
Eppure,
soprattutto nei Peloritani,
il paesaggio agrario racconta ancora egregiamente questa storia di lunghissima
durata. Se sono venuti a mancare i gelseti, resistono le terrazze in muratura a secco (armacie) faticosamente costruite dai
contadini per mettervi a dimora le piante
di gelso. Questo importante patrimonio etno-antropologico è il
precipitato storico di vecchie angherie feudali e di patti agrari particolarmente
vessatori che «facevano obbligo al colono di eseguire, insieme alle opere di
manutenzione delle strade poderali e delle armacie, i
lavori per una buona conservazione della casa colonica». La stessa dimora
contadina testimonia spesso l’allevamento
del baco da seta. «Serrata
alla base dall’esiguità dimensionale – osserva Maria Teresa Alleruzzo di
Maggio – la casa ha dovuto svilupparsi in altezza, talvolta di tre piani sopra
il terreno, dovendo disporre di più locali nei quali ospitare nei mesi
primaverili le impalcature lignee a torretta (pannalori), su
cui vengono disposti orizzontalmente numerosi tramezzi per l’allevamento del
baco».
Ma
cosa non si faceva per amore del baco da seta (vermu). Se ne facevano benedire le uova nei venerdì di marzo. Si
pregava San’Antonio Abate perché
lo proteggesse dal fuoco e dalle formiche, San Zaccaria per preservarlo dai topi. Si cercava
di muovere a pietà lo stesso filugello; certe donne di Naso arrivavano al
punto di entrare nella bigattiera perfettamente nude, dicendo ai bachi: vermu, sugnu a nuda, vestimi tu».
Le
preghiere, i segni di croce, i riti magici erano all’ordine del giorno. Quando il
baco stava per fare la muta, le donne prendevano le necessarie precauzioni,
posavano cioè sui graticci tutti i ferri arcuati che riuscivano a procurarsi,
«ordinariamente falci, ronche e roncigli», ma anche uova di galline. Nelle
case dove si allevava il baco c’era sempre «un bel paio di corna incastonate al
muro»; attaccati all’estremità dei can-nizzi, «teste
d’aglio, gruzzoli di sale, conchiglie, denti di porco ed altri ninnoli»; ai
muri tante immagini sacre. Si bruciava tutti i giorni l’incenso recitando
arcaiche orazioni. Si traevano auspici «circa la buona o cattiva produzione
della “nutricata” persino
dalla vista di una meteora, di una biscia, di un rospo o di una lucertola». E
si gioiva, si ringraziava Dio, ci si disperava, ma si sapeva che era tutta
questione di fortuna. «Beato chi ha sorte», si credeva che fosse solito dire
lo stesso San Giobbe, lavandosene le mani come Pilato. Rimane il fatto però
che, baciate dalla buona sorte o segnate dalla sfortuna, nella provincia di
Messina le donne continuarono ad allevare il baco da seta fino a pochi decenni
addietro. C’è da chiedersi allora se
in quell’area la bachicoltura non possa tornare ad essere un’attività
produttiva.
Non
se n’è fatto niente, finora. Conforta tuttavia sapere che nel frattempo qualche
comune pedemontano dei Nebrodi si è attrezzato per conservare i segni della
gloriosa tradizione sericola. A Sant’Angelo
di Brolo, per esempio, c’è un Museo di arte sacra all’interno del
quale sono conservati dei paramenti di seta prodotti in loco o in altri centri
del Messinese. A Ficarra l’amministrazione
comunale aveva addirittura istituito, ancorché solo a fini dimostrativi e
didattici, la “Casa del baco” dove
si allevano i filugelli con li stessi metodi di cui «rimane ancora oggi
testimonianza nella memoria degli anziani, nei canti popolari e nel lessico
familiare». C’è allora da sperare che gli esempi di questo tipo si
moltiplichino e diventino presto oggetto di fruizione turistica e laboratori di
innovazione progettuale per le iniziative di sviluppo locale.
……………………..
2. Il
Lavoro delle Donne nelle Filande
Lugi
Einaudi nelle sue corrispondenze giornalistiche riportò il lavoro delle donne
del Biellese nell’autunno del 1897. Con grande stile e con un tono disincantato,
tipico dell’economista, ritraeva quelle donne che “in molte, forse troppe”
si affollavano ai telai, perdendo ben presto “i bei colori della giovinezza”
per assumere il “colore pallido, caratteristico degli operai di fabbrica ”. Donne
che continuavano a lavorare in gran numero in fabbrica anche dopo il matrimonio
e che spesso in chiesa, almeno nelle regioni del Nord, leggevano “l’Avanti”.
Ai
primi del Novecento una serie di ripetuti e gravi malori delle ragazze addette
ai turni di notte nei reparti di filatura portò a denunciare le condizioni di
lavoro notturno e soprattutto la mancanza di ogni soccorso per le “disgraziate
fanciulle” vittime di un infortunio, di un malore improvviso, di uno
svenimento. L’unica prospettiva era
quella “di attendere fra quelle fitte del male l’alba del mattino o
avventurarsi al buio della notte, spesso al maltempo, per portarsi a casa”
(Da un articolo del “Corriere Biellese” del 15 ottobre1902)
Nelle
industrie cotoniere le esperienze lavorative vissute da bambine e ragazze.
addette a controllare i fusi che giravano giorno e notte, era tale da fare
quasi impallidire qualsiasi persona che avesse un po' di coscienza. Eppure
erano queste le condizioni in cui donne
e bambine avevano lavorato fino allora e per molta parte dell’Ottocento.
Fabbriche che nelle zone rurali e non solo offrivano lavoro alle energie
femminili delle famiglie contadine consentendo loro di sopravvivere: erano le filande.
La
lavorazione della seta, come quella del lino e della canapa, aveva delle
origini molto antiche nella società rurale ed era molto diffusa sia al Nord che
al Sud in tutte le regioni
con
poche eccezioni cioè con l’esclusione della Puglia, della Basilicata e della
Sardegna che non avevano tali industrie.
A
metà dell’Ottocento c’era un esercito di contadine che veniva mobilitato per
tre o quattro mesi d’estate. Le cifre parlavano chiaro. Circa 40.000 contadine
venivano reclutate negli Stati Sabaudi e per metà erano bambine, 3000 erano i
maschi; circa 80.000 se ne contavano solo in Lombardia.
Nella
filanda si svolgeva la prima fase di lavorazione della seta. I bozzoli venivano
messi a macerare nell’acqua a 60 - 70 – 75 gradi, in bacinelle che erano riscaldate
direttamente dal fuoco a legna (fuoco diretto) e solo dalla seconda metà
dell’Ottocento, dal vapore.
La
filatrice prendeva i bozzoli immergendo le mani nell’acqua bollente, li
liberava dalle incrostazioni e, afferrata un’estremità delle bave, ne svolgeva
il filo e lo avvolgeva sugli aspi
dandogli contemporaneamente un certo numero di torsioni.
L’abilità
nel lavoro consisteva nel dare al filo la sottigliezza che lo rendeva lucente
senza diminuirne la resistenza. Nel tipo di filanda più antico, quella “a fuoco
diretto”, una stessa persona svolgeva tutte queste operazioni; una bambina
l’aiutava facendo girare la ruota che muoveva gli aspi e un’altra provvedeva a
riscaldare l’acqua accendendo il fuoco sotto la bacinella.
Per
molto tempo il lavoro aveva occupato solo i mesi estivi, spingendosi al massimo
fino ad ottobre. Successivamente con l’adozione del vapore, potè continuare
fino a metà dicembre e riprendere a febbraio, una volta trascorso il periodo
più freddo, dal 15 dicembre al 31 gennaio.
(Anche
in quelle a vapore, dove il lavoro teoricamente si protraeva tutto l’anno, la
durata effettiva dipendeva da “circostanze commerciali più o meno incoraggianti
ad intraprendere una operazione di maggiore o minore durata!”, in media si
trattava di cento giornate utili di lavoro per una filanda a metodo ordinario e
centocinquanta per una filanda a nuovo sistema)
Nelle
filande a fuoco diretto si lavorava a “cielo aperto”, sotto semplici portici;
mentre le atre fasi si svolgevano in locali generalmente chiusi da finestroni a
vetri e in autunno e in inverno il lavoro proseguiva fino alle otto di sera con
un’illuminazione artificiale che stancava molto di più la vista già fortemente
provata. Nelle filande il lavoro era sospeso nel mese di maggio quando la
maestranza era ”occupata per il raccolto”.
La
filanda si sosteneva grazie al lavoro di manodopera costituita da donne e
bambini delle famiglie contadine disposte a lavorare per bassissimi salari, con
orari di lavoro che si prolungavano per quattordici e anche quindici ore di
“esclusivo lavoro”.
La
durata della giornata lavorativa era infatti proporzionale al numero delle
giornate di lavoro; arrivava “fino a quasi 15 ore al giorno nella stagione
estiva”, il lavoro “incominciando alle ore 3 del mattino e terminando
alle ore 8/12 di sera”, affermava nel 1877 il Consiglio di Sanità di Bergamo.
Inequivoca,
per la provincia di Milano, era l’affermazione che “nella filatura dei
bozzoli, che si fa solo d’estate, le ore di esclusivo lavoro ascendono fino a
14; prima dell’alba fino al tramonto,
con due ore di riposo a mezzogiorno”.
Era
ben lontano dal vero quanto aveva dichiarato un imprenditore ai Commissari
dell’inchiesta industriale, essere il lavoro di undici ore, anche se, aveva
aggiunto, “queste undici ore sono ripartite in modo che la maestranza abbia
due riposi al giorno, e tali riposi sono di tre ore ed anche di tre ore e
mezzo, nei mesi estivi, e di due ore negli altri mesi”.
Tutte
dovevano fare “ un cammino più o meno lungo ond’arrivare al domicilio, tutte
infine, giacchè lasciarono deserte nel giorno la casa ed i figli, conviene che
provvedano ai bisogni loro presenti e dell’indomani, e diano assetto
all’abitazione. Per lo che alcune altre
ore sono indispensabili di fatiche, riducendosi così per talune a cinque, sei
ore al più quelle destinate al riposo”.
MESSINA
lavorazione bossoli
Una filanda di
Messina (?)
Le bambine erano al primo lavoro e inesperte. Avevano il compito d’immergere i bozzoli nell’acqua bollente e con l’ausilio di una piccola spazzola trovare il filo iniziale del bozzolo per poi darle alle filatrici. Queste inserivano i numerosi fili di seta nelle filiere sorvegliando che tutto procedesse nel migliore dei modi. Queste ragazze, più esperte, erano aiutate da compagne che avevano un compito molto arduo. Quando si rompevano i fili durante il passaggio nelle filiere avevano il compito, di riannodare i capi velocemente e con movimenti esperti. Se il lavoro riusciva male la filatrice andava incontro ad una sospensione che andava da due, tre, otto giorni a seconda della gravità del danno. Una punizione molto dura per le povere operaie specialmente per quelle che dovevano sostenere una famiglia.
II salario oscillava da 45 a 90 centesimi al giorno, a seconda dell'abilità e dell'anzianità delle operaie; per le aiutanti invece, era di 40-45 centesimi; le ragazzine con meno di 12 anni prendevano 20 centesimi e lavoravano solo una mezza giornata. Queste ultime, durante i rari controlli da parte delle autorità competenti, venivano nascoste e minacciate di licenziamento in caso di lamentela. Poiché il lavoro in filanda poteva essere svolto da individui senza alcuna preparazione, i proprietari delle filande trovavano, facilmente, vista anche la disponibilità di manodopera, personale da inserire, e la sostituzione di un operaio poteva avvenire, senza problemi di sorta. Per le addette, pertanto, il pericolo di perdere il posto era reale ed elevato, l’instabilità era una situazione sentita, che poteva comportare il venir meno di un salario già misero, ma da cui dipendeva la sussistenza di alcune famiglie.
Le operaie erano costrette a lavorare in un ambiente afoso, a circa 50 gradi di temperatura. L'aria era carica di un vapore nauseabondo, che tendeva a trasformare l'ambiente in una sorta di stufa permanente; le finestre dovevano rimanere chiuse, per evitare che l'aria spostasse il filo di seta negli aspi e per mantenere un’umidità costante, necessaria a filare la seta. L'ambiente risultava, quindi, costantemente immerso in una nebbia calda, certamente non benefica per la salute delle lavoratrici.
Da una lettera al Prefetto di Meldola del Settembre 1893 si legge che le donne della zona
3. LA VITA NELLA FILANDA
Il Pranzo
Per il pranzo era abitudine di filere e scopinere
utilizzare l’acqua bollente delle bacinelle per cuocere uova e soprattutto
patate.
Per questo motivo le pietanze assumevano il “sapore”
del bozzolo
“Ci portavamo da casa due mele, due uova, qualche patata.
Le uova e le patate le facevamo cuocere nelle bacinelle, cuocevano
insieme ai bozzoli, nell’acqua sporca.
Specialmente le patate odoravano di bigat”.
-
Portavamo le patate, le
buttavamo dentro le bacinelle di rame, dove
mettevamo le gallette, mettevamo anche le patate.
Ecco: questo era il nostro pranzo. Altrimenti veniva mia nonna,
mi portava un pentolino con dentro un po' di riso e un po' d’acqua,
una specie di minestra e si mangiava.
Non mangiavamo chissà cosa, eravamo tutti in linea una volta !
-
Più che pasta e minestra non
si mangiava. C’erano quelle che
erano figli unici e avevano i piattini ma a noi che eravamo tre
sorelle facevano un bel minestrone e basta.
-
Per mangiare a mezzogiorno
portavamo il nostro pentolino con il
latte e la polenta, due panini e una bella tazzina di mostarda
-
Pane con una tavoletta di
cioccolato o con un pezzetto di formaggio
-
Noi bruciavamo dal caldo sopra
i fornelli bollenti.
Se era estate andavamo a mangiare anche sotto la barca,
per prendere il fresco. Poi c’era l’uomo veniva sempre a vendere
i limoni, gridava: “Limoni”.
Allora si compravano a 10 centesimi l’uno.
Bevevamo l’acqua della filanda che non era tanto buona perché
sapeva di cagnoni e mia mamma mi comprava la magnesia,
allora si comprava misurata. Mi diceva:
“quando vai a bere l’acqua in filanda metti dentro un po' di questa”.
-
Allora vendevano i fichi
secchi e noi li mangiavano con la polenta
oppure con il pane. Il pane faceva da primo e i fichi da secondo.
-
Non c’era da mangiare, ci si
accontentava di tutto. Adesso invece....
I Canti
Erano diverse le regole all’interno delle filande in
materia di canti e di preghiere.In alcuni stabilimenti era permesso cantare e in altri
era vietato.Spesso la direzione preferiva permettere il canto
piuttosto che le conversazioni tra le operaie, perché questo non faceva
diminuire l’attenzione sul lavoro.ogni gruppo cantava la sua canzone ed il padrone era contento se cantavamo
e
pregavamo. Era invece proibito parlare, chi parlava si distraeva e veniva
punita
con la multa. Cantavano le più anziane, quelle che avevano una maggiore
esperienza sul lavoro ,mentre le giovani, appena entrate nella filanda,
stavano zitte perché troppo concentrate sul lavoro per paura di sbagliare.
Cata La Foia
Legato ai problemi dell’economia della bachicoltura, questo canto descrive i momenti principali dell’allevamento ovvero le quattro dormite che precedono "l’andata al bosco”, cioè la formazione del bozzolo, e la fatica collettiva del contadino e dell’intera sua famiglia.
Raccogli la foglia
raccogline abbastanza
nella prima (dormita) i bachi
ci vuole verde e non bagnata
portane a casa una gerlata
raccogli la foglia
raccogline di più
nella seconda i bachi
da la terza e la quarta di buon voglia
tre volte al giorno ci vuole la foglia
ma quando andranno al bosco a fare la seta
allora tutta la casa sarà dorata
o quanto faticare però massaro
a vendere tutti i bozzoli quanti denari
va avanti a raccogliere la foglia va avanti a raccoglierne abbastanza
che è un affare d’oro
avere i bachi
MAMMA MIA MI SON STUFA
Canto di protesta
Questo canto
esprime con chiara consapevolezza il rifiuto delle giovani di lavorare in
filanda a causa sia delle dure condizioni fisiche che dei continui controlli di
produttività e il desiderio di andare a lavorare nella bergamasca dove, secondo
alcune fonti, le paghe erano migliori.
..........................................................
E CANTA LA SCIGÀDA
Canto sulle
filandere
Questo canto, non
propriamente di filanda ma cantato per le donne che andavano in filanda, può
considerarsi un inno in loro onore. Esse, seppur costrette in così poco
paradisiache condizioni di lavoro, sono degne portatrici di una bellezza
propria e irriducibile.
E canta la cicala
risponde l’usignolo
le donne della filanda hanno brutta la camicetta
Se la camicetta è nera gli occhi sono sempre belli
le donne della filanda fanno andare i fusi su e giù.
...........................O MAMMA MIA TEGNÌM A CÀ
Canto di protesta
Questo canto
esprime con molta forza il rifiuto del lavoro da parte delle giovani
lavoratrici, stanche della pesantezza del lavoro della filanda.
O mamma mia
tenetemi a casa
che in filanda non voglio più andare
Mi dolgono i piedi mi dolgono le mani
e la filanda è per i contadini
Per i contadini per lavorare
e io in filanda non voglio più andare.
https://www.youtube.com/watch?v=bzdDRa1NSck
.......................................
O SCIUR PADRÚN I CAVALÉ VAN MAL
Canto sulla
bachicoltura
In questo canto,
in cui è chiara la consapevolezza dei rapporti economici tra padrone e
contadino, è presente il peso del contributo economico della bachicoltura per
la sorte della famiglia rurale, sottoposta a una forte pressione produttiva
decisiva per il buon esito dell’allevamento.
O signore padrone
i bachi vanno male
frumento e granoturco
passerà l’annata
senza pagare il padrone
O contadini
mettiamo su degli scioperi
degli scioperi e dei bordelli
passerà l’annata
senza prendere cinque centesimi.
.......................................
Povre
Filandere-Canto popolare di Filanda
Altri canti nel sito:
https://www.vocidallafilanda.it/lavoratori_canti.php?locale=it_IT
..............................................
la cantautrice Milva dedicà una canzone alle filandiere
........................
Le Forestiere
Le forestiere erano lavoratrici provenienti da comuni
o regioni lontane e popolavano le filande ed i filatoi dei territorio.
-
Alla domenica sera
cominciavano ad arrivare a piedi dalle montagne-
Le vedo ancora davanti agli occhi mentre venivano in filanda.
Le forestiere avevano un punto in cui mangiare e dormire.
Andavano a casa il sabato e arrivano il lunedì.
Tanto più erano lontane, quanto più si fermavano. A loro qua piaceva,
però il sabato erano felici di andare a casa.
-
Quando il lunedi andavamo a
lavorare la mamma ci faceva il pacco da portare con farina, riso, patate e
zucchero. Compravamo solo il pane e qualche volta
un pezzo di formaggio per portare a casa il mese intero.
-
Mia mamma e mia zia erano di
Consonno e lavoravano a Garlate. I due paesi
erano distanti e quindi non potevano andare avanti ed indietro.
Allora la ditta Abegg ci ha dato una bella cucina grande; lì loro facevano
da mangiare a mezzogiorno e a sera. Sopra avevamo i dormitori, camerate
come quelle dei militari. Vanivano e facevano la loro stagione in
filanda, tante si sono spostate qui e sono rimaste, tante sono andate per
la loro strada. Venivano dalla bassa milanese e anche dalla
Val Canonica perché in quei luoghi non c’era lavoro.
-
Io continuavo a piangere
perché non c’era la mia mamma e le donne
venivano da me e mi chiedevano:
“Cos’hai... Non Piangere .. mi accrezzavano... ma io piangevo... piangevo..
perchè andavo a casa solo una volta alla settimana”.
-
Le forestiere cantavano quando
andavano a casa di sabato:
Addio Garlate, addio
Ti lascio in mezzo ai monti
Giovanotti vagabondi c’è né una quantità
Facevano delle grandi e spassionate cantate..
TRATTURA
PIEMONTESE, VARIANTE LOMBARDA
Esempio
di lavorazione settecentesca della seta
Beatrice
Gilardi, ex filatrice della filanda Abegg, mostra la tecnica di trattura
manuale con bacinella a tre capi e riscaldamento a fuoco diretto. Ideata a due
capi a fine XV secolo in Piemonte questa tecnica fu copiata in Lombardia a fine
Settecento e trasformata a 3 capi, trovando molta diffusione pur dando una seta
di qualità inferiore rispetto alla piemontese. Il castello in legno era
ereditario in famiglia per via femminile.
https://www.vocidallafilanda.it/macchine_video_beatrice.php?locale=it_IT
L’Uno
maggio 1890 le operaie della filanda Tambosi di Lavis (Trento) scioperarono per
chiedere la riduzione dell’orario di lavoro.
La
manifestazione di sciopero dirò circa una settimana attirando i cronisti del
tempo.
Le
operaie chiedevano una riduzione dell’orario di lavoro da 13 a 10 ore e la
lotta di protesta durò circa una settimana. Fu definito dalla critica storica
come il primo sciopero organizzato nel Tirolo italiano. Una forma di protesta
clamorosa considerano che a Vienna, capitale dell’Impero d’Austro – Ungarico,
il primo sciopero femminile fu datato 18maggio 1893.
Un
avvenimento clamoroso e del tutto nuovo e i giornali dell’epoca seguirono
attentamente l’evolversi della situazione.
A fine Ottocento era in vigore una legge di Francesco Giuseppe
d’Austria che tutelava il lavoro minorile e femminile. Per le donne l’orario di
lavoro non poteva superare le 11 ore giornaliere mentre per i minorenni il
lavoro era vietato fino ai 14 anni d’età e aveva come obiettivo il garantire l’istruzione di base. O
movimenti operai rivendicavano in tutto il mondo una maggiore tutela sul mondo
del lavoro e la riduzione dell’orario di lavoro al motto
8 ore
per lavorare, 8 ore per studiare, 8 ore per dormireL’Internazionale socialista del 1889 dichiarò il primo maggio
festa internazionale dei lavoratori (una data collegata agli scontro di Chicago
del maggio 1886).
Il
primo maggio 1890 i
lavoratori delle principali capitali europee scesero quindi in piazza per
chiedere più diritti e tutele: in Trentino a scioperare furono le donne di
Lavis.
Il Popolo
Trentino in
data 1 maggio 1890 scrisse:
“Stamane
si posero in sciopero tutte le operaie della filanda Tambosi facendo degli
assembramenti nei pressi della filanda per impedire che le timide, pentendosi
del passo fatto, si recassero al lavoro. Domandano che la giornata di lavoro
sia ridotta a 10 ore, conservandola mercede attuale. Ora che vi scrivo
(mezzogiorno) lo sciopero dura ancora, né è mia cognizione che siasi venuti ad
un compimento”. In
data 3 maggio lo stesso
giornale trattò nuovamente lo sciopero:
“Anche
le operaie della filanda del Sig. Tambosi in Lavis hanno voluto rappresentare
la loro parte al primo maggio. Alla mattina di detto giorno per tempissimo
avreste veduto andar gironzolando per le vie della borgata delle giovani a due,
a tre, a quattro….chiacchierando, bisbigliando, sussurrando – poi
raccogliendosi in crocchi; indi riunirsi in massa sulla piazzetta che stà
dirimpetto al palazzo del Giudizio.Che
è? Che non è? Si domanda l’un l’altro. Sciopero su tutta la linea. Intanto alla
filanda da il primo fischio del vapore, a cui le operaie rispondono con
grida; al secondo aumenta lo schiamazzo e incominciano a cantare una canzone
d’occasione. Le scioperanti domandano che che vengano loro ridotte le ore di
lavoro da 13 a 10 – ben inteso restando intatta la primiera mercede.L’agitazione
muliebre durò la mattina fin verso le ore 8. Si credeva che qui fosse tutto
finito e che le Autorità intervenute fra cui l’I.R. Capitano de Ebner, avessero
accomodato ogni cosa, ma no, che anche dopo pranzo le scioperanti operaie si
raccolgono i nuovo sulla detta piazzetta ed ivi gridano e cantano – e al
fischio che le invitava al lavoro rispondono come alla mattina, e il bisbiglio
continuò, in grazie del tempo piovoso, solo fin verso le ore 3 pom.A
quanto si dice fu proposta alle operaie una diminuzione di opre di lavoro – con
relativa diminuzione di paga; ma esse per ora rifiutarono la proposta. – Dieci
ore di lavoro era la parola d’ordine”.La Famiglia Cristiana, altro giornale
trentino, in data 6 maggio 1890 riportò
la seguente notizia:“Dopo
lungo tergiversare finalmente pare finisca. Ieri sera fu convenuto di riaprire
mercoledì prossimo la filanda, la quale è chiusa dal primo maggio, e si pattuì
di continuare almeno per intanto con 13 ore di lavoro”. L’obiettivo
della riduzione dell’orario di lavoro non fu immediatamente raggiunto, ma il
provvedimento di concessione delle 12
ore giornaliere non tardò molto ad arrivare.
Nelle
fabbriche, come detto sopra, il lavoro minorile era proibito sotto i 14 anni e la giornata
lavorativa, anche per le persone adulte, non poteva superare le 11 ore.Una
norma questa che probabilmente non veniva rispettata nel Titolo italiano. Luigi Tambosi in
una lettera del 1887 indirizzata
alla Camera di Commercio di Rovereto scriveva:“La
filatura, in relazione al prodotto bozzoli del paese, può dirsi ancora fiorente
e più lo sarebbe se le nuove leggi industriali non l’avessero posta in
condizioni di lavoro assai meno favorevoli di quelle del vicino Regno d’Italia.Infatti
mentre là con un lavoro spinto a 14 ore al giorno si impiegano ragazzi da 9
anni in su, qui per effetto delle suddette leggi, quantunque mitigate dalle
successive ordinanze, non si ammettono che quelle sopra i 14 anni per una
durata massima di 12 o 13 ore di lavoro al giorno, e si esigono provvidenze
speciali a favore degli operai ammalati e speciali adattamenti per l’igiene dei
locali”.(La
storia della filandaI
primi documenti risalgono al 1809 e
parlano della filanda che allora apparteneva al signor Carlo Viero.
La filanda era dotata di 15 fornelli e
in quel periodo risultava essere una delle più grandi del Tirolo italiano.Nel 1841 l’intero complesso fu venduto ai
fratelli Lanfranchi i quali, dopo aver dato un grande impulso allo
stabilimento, lo cedettero a Luigi Tambosi. Nel 1868 nella
filanda risultavano impiegati 9 uomini, 70 ragazzi e 225 donne.)
Immagine di una filanda friulana, senza luogo e data. Fonte: Archivio
CGIL Pordenone, Mostra sul lavoro delle donne
Il
2 maggio 1894. governo Francesco Crispi (sempre lui.... l’assassino).... le setaiole di Udine,
guidata dalla loro compagna “Menie” entrarono in sciopero.
Un
atto interpretato con coraggio e accompagnato dal canto delle scioperanti.
Volin vèlu il nestri orari,
Volin vèlu des sis
es siet;
E che ore che nus vanze
Volin glòdlile tal jett.
Vogliamo il nostro
orario,
lo vogliamo dalle
sei alle sette;
e l’ira che ci
avanza
vogliamo godercela
nel letto.
Il canto delle
filandiere sotto
la Loggia
Municipale di Udine, nel corso dello sciopero.
Il
2 maggio 1894. governo Francesco Crispi (sempre lui.... l’assassino).... le setaiole di Udine,
guidata dalla loro compagna “Menie” entrarono in sciopero.
Un
atto interpretato con coraggio e accompagnato dal canto delle scioperanti.
Volin vèlu il nestri orari,
Volin vèlu des sis
es siet;
E che ore che nus vanze
Volin glòdlile tal jett.
Vogliamo il nostro
orario,
lo vogliamo dalle
sei alle sette;
e l’ira che ci
avanza
vogliamo godercela
nel letto.
Il canto delle
filandiere sotto
la Loggia
Municipale di Udine, nel corso dello sciopero.
Udine – Loggia del
Lionello
Le filandiere erano donne, fanciulle e ragazzine che da tempo venivano sfruttate
con paghe da fame: da 35 a 50 centesimi
per un orario giornaliero di 14 ore.Negli stabilimenti tessili, come per le altri parti d’Italia, la
presenza femminile era preponderante. Come detto percepivano una bassissimo
salario lavorando dalle 13 alle 16 ore al giorno. Non esisteva il riposo e si
lavorava anche di notte e anche di domenica e nei giorni festivi.Il lavoro nei giorni festivi, compresa la domenica, era una
consuetudine negli stabilimenti e veniva nascosto in modi diversi.Era considerato “essenziale” per non spezzare il ritmo
produttivo.La domenica c’era l’abitudine di prolungare di 4/5 ore il lavoro
dopo la mezzanotte del sabato e non veniva conteggiato come tale. La domenica
mattina il lavoro era dedicato alle pulizia delle macchine, alla loro
riparazione... un lavoro che non essendo riconosciuto non veniva quindi pagato.Il 2 maggio l’adesione allo sciopero fu bassa ma il giorno 4 l’adesione alla protesta
si fece più massiccia con la partecipazione di almeno 500 lavoranti giunte da
varie filande: Frizzi, Morelli, Carrara ed altre.Il
settore sericolo ad Udine era molto sviluppato e presentava un certo numero di
Stabilimenti di cui i più importanti erano: Frizzi (270 setaiole), Morelli con
150, Ottone Carrara con 100 e Pantarotto, Del Greco, Paruzza.Le
lavoratrici chiedevano un orario più umano e non decretato ad arbitrio dal
padrone:“ora lavoriamo
dalle 5 di mattina fino a mezzogiorno (12,30) con l’interruzione di 20 minuti
per la colazione. Si riprende all’una e un quarto e si continua il lavoro
finché ci si vede. Sono 13 e più ore di lavoro. Noi invece vorremmo che
l’orario fosse così: dalle 6 della mattina alle 7 di sera con l’intervallo di
un’ora e mezza a mezzogiorno. Sarebbero 11 ore e mezza di lavoro.”
Il
corteo delle filandiere percorse tutta
Udine per poi fermarsi davanti alle filande che erano ancora in funzione per
incitare le colleghe ad abbandonare il posto di lavoro per unirsi allo
sciopero. In merito c’è una testimonianza di un giornalista del quotidiano
“Patria del Friuli” che nel suo articolo riportò:
“Ben dolorosa è la
loro condizione come operaie.
– ‘O sin duttis
sfinidis – ci diceva una di esse.
– No je plui che
zoventû di une volte.
Che nus chali: ‘o
sin pallidis, senze sang.
E je ore che si ve
un fregul di compassiòn anche par no.
No domandìn nuje
di plui di chell che nus da la lezz.”
“Siamo tutte
sfinite, non abbiamo più la freschezza di una volta.
Guardateci: siamo
pallide, senza sangue.
E ora che ci sia
un pizzico di compassione anche per noi.
Non domandiamo niente di
più di quello che ci spetta per legge
Patria del Friuli
n. 106 del 4 maggio 1894.
“Ben dolorosa è la
loro condizione come operaie.
– ‘O sin duttis
sfinidis – ci diceva una di esse.
– No je plui che
zoventû di une volte.
Che nus chali: ‘o
sin pallidis, senze sang.
E je ore che si ve
un fregul di compassiòn anche par no.
No domandìn nuje
di plui di chell che nus da la lezz.”
“Siamo tutte
sfinite, non abbiamo più la freschezza di una volta.
Guardateci: siamo
pallide, senza sangue.
E ora che ci sia
un pizzico di compassione anche per noi.
Non domandiamo niente di
più di quello che ci spetta per legge
Patria del Friuli
n. 106 del 4 maggio 1894.
Le
forze dell’ordine e il sig. Missio (Giuseppe ?) del “Circolo Sudi” (Camera di
Lavoro) si rivolsero alle scioperanti in “marilenghe” consigliandole di recarsi
in delegazione dal Regio Prefetto per avanzare le loro legittime richieste.(Il
Friulano – “Marilenghe”, lingua madre – è una lingua romanza definita dagli
storici come “lingua ladina dolomitica”. Si sarebbe sviluppata dall’antico
latino rustico di Aquileia unendosi con elementi celtici a cui si aggiunsero
anche elementi slavi e germanici. I vari
popoli di stirpe germanica (Longobardi, Goti, Franchi, Tedeschi) dominarono il
Friuli per oltre 900 anni lasciando quindi la loro cultura).Il
regio Prefetto ricevette le filandiere ed avviò successivamente una trattativa
con il proprietari delle filande.I proprietari degli stabilimenti,
Morelli e Marni, furono convocati dal Regio Prefetto e si dimostrarono
disponibili al accettare un orario di 12 ore con la condizione che la“concessione fosse
applicata da tutte i proprietari delle filande di Udine e della provincia...
per non esporsi ad una concorrenza insostenibile di fronte agli altri proprietari
delle filande”.
“concessione fosse
applicata da tutte i proprietari delle filande di Udine e della provincia...
per non esporsi ad una concorrenza insostenibile di fronte agli altri proprietari
delle filande”.
La
trattativa fu abbastanza veloce perché si raggiunse l’accordo che fu esteso a tutte le filande cittadine:
l’orario venne
fissato in 12 ore giornaliere: 5 ½ - 12
e 13 ½
- 19
Non
si hanno riferimenti in merito alle fasce d’età delle filandiere che lavoravano nella fabbrica.La
maggioranza delle operaie doveva essere composta da fanciulle (9 – 12 anni) e
da adolescenti (12 – 15 anni).La
preferenza di scelta accordata al lavoro minorile era legata:-
a vantaggiose condizioni economiche dato che
le fanciulle e gli adolescenti erano pagati meno delle donne adulte ed era
soprattutto più difficile che si assentassero per maternità;-
Motivazioni
politiche dato che difficilmente i bambini partecipavano a proteste e scioperi.
Ma
in questa situazione di sfruttamento minorile c’era un aspetto che sembra contradditorio: il lavoro dei minori era tutelato, anche se i minima parte, dalla legge.Era
in vigore una legge “Sul Lavoro dei Fanciulli”
dell’11 febbraio 1886 n. 3657, che all’articolo n. 3 dichiarava:un massimo di 8
ore di impiego per i fanciulli che avevano compiuto il nono anno d’età
ma non il dodicesimo. (Oltre i 12 anni
non v’era limite d’orario.)All’articolo
n. 12, sempre della suddetta legge, si prescriveva cheche il lavoro dei
fanciulli (9-15 anni) impiegati negli opifici doveva essere interrotto per
almeno un’ora per i pasti, se il lavoro superava sei ore. Dunque i fanciulli
dai 9 ai 12 anni non potevano lavorare più di otto ore al giorno; dai 9 ai 15
anni avevano diritto a un’ora di riposo Ma era una legge confusa.... non rispettata ...
e legata alla confusione politica del tempo.Infatti
nella legge erano escluse le donne (considerate operaie dopo i 15 anni d’età)
da qualsiasi protezione legale. Una legge che si occupava solo di fanciulle/i.Per
avere una tutela, forse più efficace anche se limitativa in moltissimi aspetti,
si dovrà aspettare la legge del 19 giugno 1902 n.242 che entrò in vigore nel
1903.Questa
legge vietava alle donne i lavori sotterranei (in galleria) e limitava l’orario
di lavoro a 12 ore. Prevedeva per le
puerpere 4 settimane di congedo senza alcuna retribuzione e consentiva
il lavoro notturno che invece era negato alle fanciulle con meno di 15 anni
d’età.La
vertenza delle filandiere di Udine si concluse quindi positivamente:le
bambini dai 9 ai 12 anni passarono da un orario di lavoro di 14 ore ad 12 ore (secondo la legge avrebbero dovuto
lavorare un massimo di 8 ore al giorno) mentre per le adolescenti (tra i 12 – 15 anni) e le donne adulte la diminuzione fu die due ore al giorno.Nell’accordo
non si fece alcun riferimento al diritto ai giorni di riposo settimanale, al
salario giornaliero e ancora meno al congedo per maternità o malattia. Una classe dirigente guidava l’Italia ed era
una classe asservita ai nobili, ai
proprietari ed incurante anche del
rispetto delle norme anche se non rispettose
dei principi di etica sociale.
Le
condizioni di lavoro nelle filande erano pessime. Lasciando da parte il discorso
sui bassi salari, le condizioni igieniche
nei locali di lavorazione erano precarie a causa dell’eccessivo calore, dell’atmosfera sempre umida, le mani delle lavoranti sempre nell’acqua bollente
e gli estenuanti orari di lavoro.Eppure
in queste condizioni le donne dovevano assumere un comportamento regolare
secondo delle norme che dovevano essere
attentamente seguite pena provvedimenti punitivi e sospensioni.All’interno
delle filande erano infatti in vigore dei regolamenti che dovevano essere
rispettati:-
La paga per le filere effettive impiegate in
questa filanda resta fissata in lire,,, in proporzione prenderanno le mezzanti, le scopinatrici,
ecc.-
L’orario
è quello stabilito dalla Legge ad aspo girante ed è in facoltà della Ditta di
fissare l’ora di entrata e quella di uscita-
È
proibito fare colazione o merenda nelle ore di lavoro-
Nello
stabilimento di deve tenere la massina disciplina e specialmente in filanda
durante il lavoro ed è per ciò assolutamente proibito chiacchierare, gridare,
muoversi dal proprio posto, dire parole che offendono il decoro e la dignità
dello stabilimento-
È
in facoltà della Direzione di cambiare il posto alle operaie tutte le volte che
questa lo reda del caso senza diritto di protestare da parte della maestranza-
Per
qualunque controversi sorgesse fra le operaie stesse o fra operaie e le
assistenti, si dovrà porgere la questione davanti alla Direzione dopo le ore di
lavoro, Il Direttore prenderà volta per volta le misure del caso-
È
rigorosamente proibito mancare in qualunque modo di rispetto ai Superiori:-
Verranno
castigate con multa, sospensioni e licenziamento quelle operaie;a)
che non portino il dovuto rispetto ai Superiori;b)
che non tengano buon contegno in filanda;c) che abbiano cattiva rendita o provini
sbagliati;d) che in qualunque modo non osservino il
suddetto regolamento.Domenico Carozzi
.........................
5 5. I Documenti5Facendo
delle ricerche su internet sono riuscito a collegarmi con un sito interessante
sul“Museo
della Seta” Abegg di Garlate.Secondo
il mio modesto parere è uno dei Musei più importanti d’Italia sulla storia
dell’industria serica.Un Museo che per le sue iniziative e
comunicazioni dovrebbe essere preso a modello.Il
percorso museale ha un nome che sa tanto
di memoria: ”Voci della Filanda”. La sua realizzazione ha unito diversi
esponenti della vita sociale spinti dal desiderio di offrire al pubblico un
patrimonio culturale locale costituito dall’ex esperienza di lavoratrici della
filanda.L’attenta
ricerca ha permesso di raccogliere documenti, immagini, testimonianze che hanno contribuito a creare un racconto collettivo della storia della lavorazione
della seta, dalla gelsicoltura alle lavorazioni del filo sericeo.Le
interviste delle lavoratrici della filanda,
sono delle testimonianze ricche di emozioni e sentimenti. Basta guardare
gli occhi delle intervistate per capire
le antiche emozioni che hanno vissuto in quel duro lavoro.Donne
che hanno letteralmente veduto momenti , più o meno lunghi, della loro vita per
avere un piccolo salario destinato ad alleviare, in qualche modo, le difficoltà
economiche.Scende
un velo di tristezza nel pensare che spesso si
è costretti a lavorare senza alcuna copertura contributiva. Soprattutto quando
le difficolta economiche sono forti si scende a compromessi.. offrendosi al mondo del lavoro anche senza contributi e
questo soprattutto negli anni 1970/1980 era la norma.(quei
ministri,,, come il professorone,,,, non so di cosa.. o la piagnucolona....
quando riformarono le pensioni certamente non avevano a mente le esperienze di
vita dei lavoratori anche perchè loro erano lontani dalle reali condizioni sociali delle gente. Il
passato, la storia non hanno insegnato nulla... perché ancora oggi si
continuano a commettere degli errori.. La nostra vita è diventata una sequenza
di numeri dove per avere dei sacrosanti diritti devi raggiungere delle quote... quota 100... quota 200 ...ecc... Guai a non raggiungerle .. sarai escluso.... anche se non hai delle
colpe. Tante
volte davanti ad un offerta di lavoro l’imprenditore pone il lavoratore davanti
a delle condizioni .... “Queste sono le condizioni se non le accetti ci
saranno tanti altri disposti a prendere il tuo posto”... una frase che ho
sentito ripetere tante volte...È
facile fare politica e leggi sulle spalle della povera gente ed emanare norme
che sono lontane da qualunque principio di etica sociale.... Questi personaggi
sono degli assassini... un reato che non riguarda solo ma morte fisica voluta
di un individuo ma anche quella morale soprattutto quando le difficoltà
economiche finiscono per annullare anche il modo d‘essere di una persona, la
sua sfera sentimentale..... Vergogna... solo vergona ... dovrebbe ricoprire il
volto di questi personaggi politici. ).Ritornando
al museo sono presenti anche dei canti popolari delle filande che arricchiscono
la memoria storica rendendola via. Sono presenti anche macchinari, utensili vari,,, veri gioielli d’archeologia industriale.
Mi sono permesso di prendere dal sito delle immagini
che riguardano antichi documenti, storie di
donne che hanno lavorato nelle filande.
Qualche documento riguarda anche dei bambini, anche loro strappati alla
loro fanciullezza per lavorare nelle filande e dare un aiuto economico alla
propria famiglia.
Documento
per ottenere il libretto di ammissione al lavoro
Questo
tipo di documento, datato 1934, era necessario per giustificare l’abbandono
scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro già a dodici anni.
...............................................
Orario
di lavoro
5 5. I Documenti5Facendo
delle ricerche su internet sono riuscito a collegarmi con un sito interessante
sul“Museo
della Seta” Abegg di Garlate.Secondo
il mio modesto parere è uno dei Musei più importanti d’Italia sulla storia
dell’industria serica.Un Museo che per le sue iniziative e
comunicazioni dovrebbe essere preso a modello.Il
percorso museale ha un nome che sa tanto
di memoria: ”Voci della Filanda”. La sua realizzazione ha unito diversi
esponenti della vita sociale spinti dal desiderio di offrire al pubblico un
patrimonio culturale locale costituito dall’ex esperienza di lavoratrici della
filanda.L’attenta
ricerca ha permesso di raccogliere documenti, immagini, testimonianze che hanno contribuito a creare un racconto collettivo della storia della lavorazione
della seta, dalla gelsicoltura alle lavorazioni del filo sericeo.Le
interviste delle lavoratrici della filanda,
sono delle testimonianze ricche di emozioni e sentimenti. Basta guardare
gli occhi delle intervistate per capire
le antiche emozioni che hanno vissuto in quel duro lavoro.Donne
che hanno letteralmente veduto momenti , più o meno lunghi, della loro vita per
avere un piccolo salario destinato ad alleviare, in qualche modo, le difficoltà
economiche.Scende
un velo di tristezza nel pensare che spesso si
è costretti a lavorare senza alcuna copertura contributiva. Soprattutto quando
le difficolta economiche sono forti si scende a compromessi.. offrendosi al mondo del lavoro anche senza contributi e
questo soprattutto negli anni 1970/1980 era la norma.(quei
ministri,,, come il professorone,,,, non so di cosa.. o la piagnucolona....
quando riformarono le pensioni certamente non avevano a mente le esperienze di
vita dei lavoratori anche perchè loro erano lontani dalle reali condizioni sociali delle gente. Il
passato, la storia non hanno insegnato nulla... perché ancora oggi si
continuano a commettere degli errori.. La nostra vita è diventata una sequenza
di numeri dove per avere dei sacrosanti diritti devi raggiungere delle quote... quota 100... quota 200 ...ecc... Guai a non raggiungerle .. sarai escluso.... anche se non hai delle
colpe. Tante
volte davanti ad un offerta di lavoro l’imprenditore pone il lavoratore davanti
a delle condizioni .... “Queste sono le condizioni se non le accetti ci
saranno tanti altri disposti a prendere il tuo posto”... una frase che ho
sentito ripetere tante volte...È
facile fare politica e leggi sulle spalle della povera gente ed emanare norme
che sono lontane da qualunque principio di etica sociale.... Questi personaggi
sono degli assassini... un reato che non riguarda solo ma morte fisica voluta
di un individuo ma anche quella morale soprattutto quando le difficoltà
economiche finiscono per annullare anche il modo d‘essere di una persona, la
sua sfera sentimentale..... Vergogna... solo vergona ... dovrebbe ricoprire il
volto di questi personaggi politici. ).Ritornando
al museo sono presenti anche dei canti popolari delle filande che arricchiscono
la memoria storica rendendola via. Sono presenti anche macchinari, utensili vari,,, veri gioielli d’archeologia industriale.
Mi sono permesso di prendere dal sito delle immagini
che riguardano antichi documenti, storie di
donne che hanno lavorato nelle filande.
Qualche documento riguarda anche dei bambini, anche loro strappati alla
loro fanciullezza per lavorare nelle filande e dare un aiuto economico alla
propria famiglia.
Documento
per ottenere il libretto di ammissione al lavoro
Questo
tipo di documento, datato 1934, era necessario per giustificare l’abbandono
scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro già a dodici anni.
...............................................
Orario
di lavoro
Mi sono permesso di prendere dal sito delle immagini
che riguardano antichi documenti, storie di
donne che hanno lavorato nelle filande.
Qualche documento riguarda anche dei bambini, anche loro strappati alla
loro fanciullezza per lavorare nelle filande e dare un aiuto economico alla
propria famiglia.
Documento
per ottenere il libretto di ammissione al lavoro
Questo
tipo di documento, datato 1934, era necessario per giustificare l’abbandono
scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro già a dodici anni.
...............................................
Orario
di lavoro
.............................
Regolamento
per le operaie di filanda
Nei
nove articoli del documento si definiscono comportamenti e normative previsti
nello stabilimento Abegg di Villa San Carlo di Valgreghentino, dalla puntualità
sul posto di lavoro, alle possibili multe per le filatrici, ai rapporti tra
operaie, assistenti e Direzione.
..........................OCCHIO
AL TITOLO
Regolamento
di filanda
Il
lavoro della filera era particolarmente delicato ed era determinante per la
produzione di una matassa di seta dal titolo corretto: errori da parte della
filera in fase di trattura erano sanzionati con multe destinate poi in
beneficenza (spesso a favore della parrocchia).
....................................
IL
LIBRO PAGA DELLE OPERAIE
Libretto
di lavoro e libro paga di un’operaia Abegg
Documenti
di un’ex operaia nello stabilimento Abegg di Valgreghentino tra gli anni Dieci
e gli anni Venti, assunta svariate volte con mansioni diverse nello stesso
stabilimento. Nel 1922 la paga giornaliera è di circa 10 lire
...........................................
IL
PREZZO DEI BOZZOLI
Il
mercato di Santa Maria Hoé
Per
chi allevava il bachi da seta, il mercato di Mondonico a Santa Maria Hoé era
uno dei luoghi in cui si procedeva alla vendita dei bozzoli ai responsabili
delle filande del territorio.
...........................
BIGATTINI
Assistenza
all’allevamento del baco
Allo
scopo di migliorare l'allevamento dei bachi [...] si è venuti nella
determinazione di intensificare il più possibile l’assistenza di esperti
bigattini.I bigattini erano professionisti dell’allevamento del baco da seta
che avevano il compito di assistere i contadini nell’attività di bachicoltura,
giravano per le campagne dispensando consigli pratici e svolgendo attività di
formazione.
.............................
Regolamento
per le operaie di filanda
Nei
nove articoli del documento si definiscono comportamenti e normative previsti
nello stabilimento Abegg di Villa San Carlo di Valgreghentino, dalla puntualità
sul posto di lavoro, alle possibili multe per le filatrici, ai rapporti tra
operaie, assistenti e Direzione.
..........................OCCHIO
AL TITOLO
Regolamento
di filanda
Il
lavoro della filera era particolarmente delicato ed era determinante per la
produzione di una matassa di seta dal titolo corretto: errori da parte della
filera in fase di trattura erano sanzionati con multe destinate poi in
beneficenza (spesso a favore della parrocchia).
....................................
IL
LIBRO PAGA DELLE OPERAIE
Libretto
di lavoro e libro paga di un’operaia Abegg
Documenti
di un’ex operaia nello stabilimento Abegg di Valgreghentino tra gli anni Dieci
e gli anni Venti, assunta svariate volte con mansioni diverse nello stesso
stabilimento. Nel 1922 la paga giornaliera è di circa 10 lire
Regolamento
per le operaie di filanda
Nei
nove articoli del documento si definiscono comportamenti e normative previsti
nello stabilimento Abegg di Villa San Carlo di Valgreghentino, dalla puntualità
sul posto di lavoro, alle possibili multe per le filatrici, ai rapporti tra
operaie, assistenti e Direzione.
..........................
OCCHIO AL TITOLO
Regolamento
di filanda
Il
lavoro della filera era particolarmente delicato ed era determinante per la
produzione di una matassa di seta dal titolo corretto: errori da parte della
filera in fase di trattura erano sanzionati con multe destinate poi in
beneficenza (spesso a favore della parrocchia).
....................................
IL
LIBRO PAGA DELLE OPERAIE
Libretto
di lavoro e libro paga di un’operaia Abegg
Documenti
di un’ex operaia nello stabilimento Abegg di Valgreghentino tra gli anni Dieci
e gli anni Venti, assunta svariate volte con mansioni diverse nello stesso
stabilimento. Nel 1922 la paga giornaliera è di circa 10 lire
...........................................
IL PREZZO DEI BOZZOLI
Il
mercato di Santa Maria Hoé
Per
chi allevava il bachi da seta, il mercato di Mondonico a Santa Maria Hoé era
uno dei luoghi in cui si procedeva alla vendita dei bozzoli ai responsabili
delle filande del territorio.
...........................
BIGATTINI
Assistenza
all’allevamento del baco
Allo
scopo di migliorare l'allevamento dei bachi [...] si è venuti nella
determinazione di intensificare il più possibile l’assistenza di esperti
bigattini.I bigattini erano professionisti dell’allevamento del baco da seta
che avevano il compito di assistere i contadini nell’attività di bachicoltura,
giravano per le campagne dispensando consigli pratici e svolgendo attività di
formazione.
........................
PREMI AI PRODUTTORI
Manifesto di
propaganda
Nell’ambito delle
campagne bacologiche, finalizzate alla crescita della produzione di bozzoli,
venivano istituiti anche premi e lotterie per chi si prodigava nella
bachicoltura.
......................
Altri interessanti documenti sull’allevamento del baco e sulla gelsicultura nel sito:
https://www.vocidallafilanda.it/index-miracolo.php?locale=it_IT
Le
interviste alle lavoratrici della seta
https://www.vocidallafilanda.it/index-lavoratori.php?locale=it_IT
https://www.vocidallafilanda.it/index-lavorazione.php?locale=it_IT
.......................................................
La Filatrice
Artista: Niccolò
Cannicci
(Firenze, 29
ottobre 1846 – Firenze, 19 gennaio 1906)
Pittura: Olio su
cartone - Datazione: 1885/1890
Misure: (57 x 24)
cm – Cllocazione : Milano, Museo Nazionale Scienza Leonardo da Vinci
....................
Dal Lavoro. Il
Ritorno dalla filanda
Artista: Eugenio
Spreafico
(Monza, 2 aprile
1856 – Magreglio, 2 ottobre 1919)
Pittura: Olio su
tela - Datazione: 1890/1895
Misure: (101 x
194,5) cm - Collocazione: Monza, Musei
Civici
..........................
1. Asclepio, il dio della medicina – Le sue figlie tutelari della salute;
FEDERICO II DI SVEVIA
Eleonora Alvarez de Toledo e i suoi tempi
Un periodo ricco di manifestazioni di altissima cultura ma anche di gravi atti nei confronti delle donne ..La morte di Maria de' Medici, Isabella de' Medici, Leonor Alvarez de Toledo, ecc. - Enciclopedia Delle Donne - VIII Parte
1. Eleonora di Toledo;
8. Francesco I de’ Medici;
21. L’uxoricidio di Leonora;
22. Isabella dopo la morte di Leonora – La morte di Isabella ? – Fu uccisa dal marito ? – Le ricerche - Due dei tanti delitti “d’onore” del tempo ?
...............................................
Damarete di Agrigento (VI secolo a.C.) - La prima donna della storia a protezione dell'Infanzia - Enciclopedia delle Donne (IX parte).
ma ormai mi avviene di continuarle e di insistere in questo lavoro anche
per utilità mia, poiché guardando nello specchio della Storia, cerco di adornare
e di uniformare in qualche modo la mia vita alle virtù dei grandi personaggi.
Il mio lavoro mi appare proprio come un conversare,
un vivere quotidianamente in intimità con costoro, quando,
per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno
come ospiti uno per uno, esaminandone
“la grandezza e le qualità” e scegliendo fra loro le azioni quelle
che furono le più importanti e le più degne di essere conosciute”
(Plutarco)
Indice1. Laide di Hykkara;2. La Prostituzione Sacra – i Templi – I CulitiSicca Veneria (Tunisia)Abido, governata da eterePyrgiLocri Epizefiri – I Reperti – Trono LudoviciPantelleria – Il santuario Tanit/Venere – Alcuni Aspetti Naturalistici Unici tra cui gli StromatolitiEriceAbruzzo: Rapino , la “Tavola di Rapino” – La Dea di Rapino e la Gemma di giovedì GraviscaPyrgi - Le LamineRoma: Festa delle Nonae Caprotine – La Bona Dea e le leggende – Claudia Quinta, la vestale e l’altare a lei dedicato – Il culto della Bona Dea – L’oltraggio di Publio Codio Pulco, amante di Pompea, moglie di Giulio Cesare;Acca LaurentiaAfrotide, dea della bellezza e dell’Amore... Da Inanna..Ishtar, Astarte..Atargatis ad Afrotide, un eroina ?Enheduana.. la prime scrittrice, del 2400 a.C., per i suoi unni ad Inanna
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